Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2019

 

IL TERRITORIO

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

         

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Trentino Alto Adige.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Internati al 41 bis, sciopero della fame a Tolmezzo.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Inchini, turisti e occupazione.

Gianni Zonin. L’uomo del crac costato all’Italia 5 miliardi di euro.

Grandi evasori e politici corrotti: ecco la lista veneta.

Tangenti Mose: il tesoro di Galan.

Morti resuscitati e favori in Regione.

Nessuno tocchi il carcere della Giudecca.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Milano nelle canzoni.

Ecco, è Milano.

Milano, i 50 anni della Metropolitana.

Strage ferroviaria di Pioltello.

La Boccassini e Robledo in pensione.

Tangentopoli lombarda.

Lombardia: la nuova Terra dei Fuochi.

Il disagio dei cittadini.

Giuseppe Sala: a sua insaputa.

Salvataggio a Volo d’Angelo…

Trovato morto in auto Peppino Franchini.

Milano patria dello scippo.

Milanesi felici per i Giochi…Poi insultano i maratoneti.

Roberto Formigoni libero.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Torino nelle canzoni.

Rimborsopoli, incubo carcere per alcuni consiglieri regionali piemontesi.

Appendino: Sindaco a sua insaputa.

La capitale del «No».

La morte del piccolo Leonardo. La nonna “Avevo denunciato, nessuno ha fatto nulla”.

Said Machaouat e Stefano Leo: un omicidio senza colore.

Che successe quella brutta notte del 2016 nel carcere di Ivrea?

Avvocati intercettati.

Il crac Marenco, una colossale bancarotta fraudolenta (battuta solo da Parlamat).

A Biella una via per Aiazzone.

La PM Youtuber.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Genova nelle canzoni.

Demolito il Ponte Morandi: l’esplosione alle 9,37 di venerdì 28 giugno 2019.

La Preside arrestata.

Alluvione di Genova: «Vincenzi è colpevole».

Esami del sangue gratis per amici e parenti.

Salvate Certosa, il quartiere di Genova che sta sparendo.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)

Bologna nelle canzoni.

Ecco, è Bologna. E’ l’Emilia Romagna.

Scosse elettriche e lavaggi del cervello ai bambini per allontanarli dalle famiglie e fare soldi.

Emilia nostra, le mani della 'ndrangheta su politica e affari.

Parma Letale.

Ci sono 40 malati gravi in cella a Parma.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Toscana.

Firenze nelle canzoni.

Carrara. Morire di marmo.

Il Degrado del Giglio.

Le famiglie ricche di Firenze.

La direttrice di Sollicciano.

Prato, in ostaggio del "Dragone".

SOLITA SIENA. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Affaire David Rossi.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Regione…e la politica.

Più raccomandati che posti.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Roma nelle canzoni.

La maestà der Colosseo.

Ecco, è Roma.

Concorsi ed assegnazioni di incarichi truccati.

Luca Sacchi, Manuel Bortuzzo e gli altri… A Roma si muore anche così.

La vita di Deborah Sciacquatori.

Le Boss dei Casamonica.

«Vota Garibaldi», la scritta storica cancellata dall’Ufficio decoro.

Carcere di Viterbo manesco.

Roma non è ingovernabile.

E il deficit del Campidoglio divenne un buco nero.

I Disservizi di Roma.

Tutti i segreti della Raggi.

Roma invivibile? Colpa di Mussolini.

Chi ha accasato Casa Pound?

Vieni avanti Marino!

Droga Capitale.

Mafia Capitale. Non è mafia…

Chi di manette ferisce, di manette perisce.

Multopoli.

Civitavecchia ed una storia incredibile d’ingiustizia.

SOLITO ABRUZZO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Questo è l’Abruzzo.

SOLITO MOLISE. (Ho scritto un saggio dedicato)

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Napoli nelle canzoni.

Napoli-Portici: 180 anni fa la prima ferrovia italiana.

Achille Lauro: il re della nobile Napoli.

Ecco, è Napoli.

Napoli martoriata.

Il figlio del boss: «Amo mio padre ma da oggi lo rinnego».

Napoli, parla "l'uomo talpa" che scava tunnel per furti e rapine.

Sceneggiate napoletane.

Paese che vai, Napoli che trovi.

«Lazzaretto Poggioreale: quando il carcere diventa un inferno».

Gigi D'Alessio e la Camorra.

Perché Napoli detesta De Laurentiis.

SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Puglia muore, grazie al governo PD.

Ecco, è Bari…

Informazione e Finanza.

Si è spento Federico Pirro giornalista galantuomo.

CSM: Nessuno vuole Bari.

Arrestato Giancaspro ex presidente del Bari Calcio e la sua "cricca".

Bari, sesso e soldi per superare esami.

Michele Emiliano sotto accusa.

Puglia, la nuova sede del Consiglio è costata 16 milioni in più dell'appalto.

SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Fuggi da Foggia.

In memoria del Maresciallo Vincenzo Carlo Di Gennaro.

SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ecco, è Taranto.

Giochi Mediterraneo 2026 tra vero e falso.

Il magistrato Pietro Argentino non prende pace neanche a Matera...

Muore Martino Scialpi: truffato di Stato.

Solite indagini a Taranto.

Taranto ed i 23 "furbetti del cartellino".

Il Maresciallo Giancarlo Inguscio ed i Cavalieri messapici.

La Stampa Monnezza.

Monnezzopoli e Tamburrano: Il "Palazzo" politico trema.

Processo Ilva ed i soliti noti.

Tamburi ed Arcelor Mittal. Chi non vuole l’ex Ilva.

Taranto e la difesa del patrimonio naturale.

Palagiano, la strage degli innocenti.

Sava. Raffaele Pesare. Le lacrime del carabiniere omicida.

Un "caso Stano" anche a Sava.

Tarantismo, stregoneria, sessualità e peccato nella Manduria (e limitrofi) e nel Salento del '700.

Manduria. Dirigenti, Comandanti e Commissari.

Tutto su Manduria. Antonio Stano e la gogna del paese.

Tutto su Avetrana.

Sbarchi dei clandestini. L’altruismo e la solidarietà degli avetranesi.

E’ avetranese. "La Tarantina", l'ultimo femminiello napoletano.

Avetrana-Manduria. Mafia-politica.

Taranto, nel carcere più affollato.

I Giornalisti e gli avvocati di Taranto.

Mazzarano ed il tracollo del PD.

Chi è contro e chi è a favore del depuratore a Urmo di Avetrana.

SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Bomba day.

«Luigi in volo da Maria»: l'ultimo saluto al centauro.

Brindisi, scomparsa tutta una famiglia.

 «Chiamo mia figlia Melissa, come te».

SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Lecce.

Ivan Ciullo. Il dj impiccato: una nuova autopsia cambia l’ora della morte.

Porto Cesareo, un pezzo di villa del pm su suolo demaniale.

L’Assassinio di Noemi Durini.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Val D’Agri ed il memoriale ignorato.

Basilicata, la “lista verde” di Pittella per i concorsi.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tangentopoli calabra.

Maria Concetta Cacciola morta di 'Ndrangheta.

La Calabria è l’Inferno!

Poveri con il lavoro.

Influenza della 'Ndrangheta.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Università dei Baroni.

Tangentopoli sicula.

Gaspare Palmeri, un altro innocente morto di mafia.

Gli Spaccaossa.

I ladri impuniti.

Agrigento. Ritorsione di Stato.

Blutec e la presa in giro di Termini Imerese.

Arresti in casa PD.

Il suicidio dei figli di mafia.

Polizzi, il sindaco ripara la strada chiusa da 13 anni e l'ex Provincia lo denuncia.  

 

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Succede in Trentino Alto Adige.

Valentina Santarpia per corriere.it l'8 dicembre 2019. Una sfilata trasformata in un raid: è questo quello che raccontano le terribili immagini che arrivano da Vipiteno, in Alto Adige, dove come ogni anno si sono svolte il 5 dicembre le sfilate dei diavoli mascherati in occasione della festa di San Nicola, una tradizione altoatesina. La passeggiata del centro storico dei demoni è diventata una caccia all’uomo, e quello che inizialmente sembrava un rito di finta violenza si è trasformato in pochi istanti, secondo quanto rivela il video agghiacciante pubblicato da La Voce di Bolzano e da altri quotidiani online del Trentino, in una spedizione punitiva. C’è da dire che nella storia delle sfilate dei Krampus non è la prima volta che succede ma questa sembra particolarmente aggressiva.

La sequenza. Non solo i manifestanti, coperti dalle maschere, inseguono gli spettatori per colpirli con una sorta di forcone, ma quando uno di loro cade a terra, infieriscono su di lui senza pietà e l’unico che prova a soccorrerlo viene picchiato allo stesso modo. Un’aggressività ingiustificata che si consuma in pochi secondi nelle strade di Vipiteno contro gli spettatori e che qualcuno immortala dal balcone di casa. Prima, si assiste alla fuga degli spettatori, spaventati dalla furia dei diavoli. Poi si sentono e vedono i colpi secchi: calci, pugni e scudisciate contro gli spettatori che li sfidano col volto dipinto di nero, come vuole la tradizione. Anche se non ci sono state chiamate al 112, sulla vicenda il comando provinciale dei carabinieri di Bolzano ha aperto le indagini e segnalerà l’episodio alla Procura per identificare i responsabili: la violenza sarebbe scoppiata, secondo le prime ricostruzioni, qualche ora prima rispetto alla sfilata ufficiale, prevista per il tardo pomeriggio, e autorizzata dalla Questura. Non dovrebbe essere quindi complicato rintracciare i «demoni mascherati».

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Internati al 41 bis, sciopero della fame a Tolmezzo.

Internati al 41 bis, sciopero della fame a Tolmezzo. Da tre giorni gli internati al 41 bis del carcere di Tolmezzo sono in sciopero della fame a causa della mancanza del lavoro, scrive Damiano Aliprandi il 15 Marzo 2019 su Il Dubbio. Restano rinchiusi per anni senza far nulla e senza “fine pena” certo, nonostante hanno finito già di scontare la pena. Da tre giorni gli internati al 41 bis del carcere di Tolmezzo sono in sciopero della fame a causa della mancanza del lavoro. Ma perché questa esigenza? «È fondamentale – spiega a il Dubbio l’avvocato e attivista dei Radicali Italiani Michel Capano -, perché senza il lavoro il magistrato di sorveglianza non ha gli strumenti per valutare la mancata cessazione della pericolosità sociale». La figura dell’internato, che teoricamente è diversa da quella di detenuto, è un argomento spesso affrontato da Il Dubbio. Per l’internato, di fatto, c’è una pena prolungata nonostante sia già scontata e con poche concessioni rispetto ai detenuti. Parliamo della cosiddetta misura di sicurezza che risale al codice Rocco che ha come impronta il retaggio fascista che considera il lavoro come misura correzionale. Tolmezzo, formalmente, è una casa lavoro pensata proprio per queste persone che, appunto, pur avendo terminato di scontare la pena, non vengono rimesse in libertà in quanto ritenute ‘ socialmente pericolose’. Senza lavoro, l’istituto rischia di diventare per gli internati un luogo di disperazione. «A Tolmezzo – sottolinea l’avvocato Capano – gli internati stanno scontando la misura di sicurezza in regime di 41 bis, parliamo sostanzialmente di persone che hanno finito di scontare il regime duro, ma di fatto ci rimangono». Teoricamente dovrebbero lavorare per essere proiettati verso la libertà. «Questa serra che viene presentata come uno specchietto per le allodole – denuncia sempre Capano -, in realtà non è in funzione da moltissimi mesi e quindi accade che la misura di sicurezza si svolge quasi interamente al 41 bis come gli altri detenuti». In effetti il carcere di Tolmezzo viene, a torto, definito “casa lavoro”, mentre in realtà è un carcere normale dove all’interno dovrebbe esserci una sezione apposita dedicata agli internati. «Ma non è così – precisa sempre Capano -, perché nella stessa sezione al 41 bis si ritrovano internati e detenuti, mentre sulla carta dovrebbe esserci una “casa lavoro” a parte». Come se non bastasse, proprio a causa che, di fatto, gli internati si trovano ancora nel 41 bis, il magistrato di sorveglianza non concede la licenza come previsto, perché, appunto, prevale la regola restrittiva del carcere duro. Da ricordare che la paradossale condizione di internamento a Tolmezzo era stata oggetto già di apposita menzione e segnalazione da parte del Collegio del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nella relazione al Parlamento del 2018, ed è esplicitata anche nel “Rapporto tematico sul “41 bis” pubblicato il 5 Febbraio scorso. In seguito a una visita effettuata a Tolmezzo assieme ad una delegazione composta dall’attivista dei Radicali Italiani Antonello Nicosia e la deputata di Liberi e Uguali Giuseppina Occhionero, è stata presentata un mese fa una interrogazione parlamentare – ancora senza risposta – da parte di quest’ultima al ministro della Giustizia proprio per denunciare queste condizioni. Oltre al problema della mancanza di lavoro, nell’interrogazione viene denunciato il fatto che gli internati non vedono mai uno educatore né uno psicologo. Figure importanti proprio per la prospettiva delle valutazioni di competenza del magistrato di sorveglianza. Uno degli internati, «con il quale la sottoscritta – scrive nell’interrogazione l’onorevole Occhionero – ha colloquiato dopo avere scritto 28 “domandine” nell’ rco di un anno per chiedere di parlare con un educatore (mentre sarebbe stato l’educatore a dovere andare da lui) ha minacciato poche settimane or sono di darsi fuoco alla cella se tale contatto gli fosse stato ancora negato: e solo così è riuscito ad avere un colloquio di 10 minuti con un educatore». L’avvocato Capano spiega a Il Dubbio che l’internato Filippo Guttadauro, suo assistito, da un anno fa domande per chiedere un colloquio con l’educatore, ma ad oggi ancora non l’ha visto. «È importante per lui – sottolinea Capano -, perché serve per avere una rivalutazione sulla sua pericolosità sociale». Il suo assistito è un caso emblematico. Il 20 marzo l’avvocato Capano ha udienza per il riesame della sua pericolosità. «Nel 2016 aveva finito di scontare il 41 bis – spiega l’avvocato Capano -, ma poi è stato raggiunto da una misura di sicurezza per tre anni che sono scaduti a gennaio scorso: resta il fatto che è dentro oltre la scadenza e l’udienza per la rivalutazione ci sarà il 20 marzo». Ma il responso è quasi certo. «Non essendoci il lavoro e né il regime educativo – dice con amarezza il radicale Capano -, è quasi certa la proroga visto che mancano gli strumenti per permettere una rivalutazione». Con tutte queste problematiche, il terreno diventa fertile anche per dei probabili abusi da parte di soggetti istituzionali. «Abbiamo appurato che questa è una situazione – denuncia Michele Capano – funzionale al fatto che dentro il carcere ogni tanto entrano persone che parlano con gli internati chiedendogli di collaborare con la giustizia, facendogli capire che lì dentro ci passeranno ancora per altri decenni».

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Inchini, turisti e occupazione.

Venezia, il volo spettacolare sopra le cupole di San Marco (rialzate con gli scafi delle navi). Pubblicato domenica, 15 dicembre 2019 su Corriere.it da Claudia Fornasier. Una giornata sul tetto della Basilica con l’uomo delle maestranze che racconta come da centinaia di anni vengono curati il tetto e le cupole ricoperte di piombo di San Marco: «Siamo qui per far restare nel tempo ciò che abbiamo trovato». Sul tetto della Basilica di San Marco ci sono, nascoste, cinque navi rovesciate. Nessuno dei milioni di turisti che ogni anno visitano Venezia, riesce a vederle tra statue e pinnacoli che sovrastano la chiesa. Valter Pirolo invece ne conosce ogni corona, chiodo, staffa, che le compone. È il carpentiere del legno della Procuratoria di San Marco, la fabbriceria della cattedrale. La manutenzione delle cupole lignee sul tetto è affidata a lui, erede degli «arsenalotti» della Serenissima, la corporazione più privilegiata della Repubblica perché fabbricava, all’Arsenale, le galee su cui Venezia fondava la sua potenza. Pirolo non costruisce navi, ma da 35 anni vigila sul tetto e le strutture che compongono le cinque cupole, realizzate con la tecnica della carpenteria navale. «A me, come a tutti — racconta — il primo giorno di lavoro hanno insegnato che siamo qui per far restare nel tempo ciò che abbiamo trovato. Ed è quello che sono orgoglioso di fare assieme agli altri quindici operai della Basilica: tuteliamo per il mondo la bellezza di questa chiesa». Soprattutto oggi che l’acqua alta eccezionale del 12 novembre ha provocato oltre 3 milioni di danni alle colonne e ai mosaici e un altro milione al tetto per le raffiche violente di vento. Le cupole non sono vere cupole, ma macchine lignee che sormontano le piccole calotte murarie ribassate della chiesa costruita (la terza) nell’XI secolo. Quando nel Duecento palazzo Ducale venne innalzato, chi entrava in città dal mare non poteva più vederle. «Quindi vennero realizzate queste macchine straordinarie — racconta l’architetto Mario Piana, proto di San Marco, il direttore della Procuratoria come lo furono Jacopo Sansovino e Baldassare Longhena — per traslare in altezza le cupole e farle vedere da lontano». I veneziani, che in Oriente erano di casa, probabilmente si ispirarono alla forma della moschea al-Aqsa a Gerusalemme, ma la tecnica costruttiva era una novità assoluta: ai carpentieri dell’Arsenale non mancavano certo inventiva e abilità. Ogni mattina alle 8, prima che arrivino i 15 mila visitatori quotidiani della chiesa, Pirolo s’infila in una porta nascosta nella parete del museo e comincia a salire scale sempre più strette, fino a uscire sulla distesa di lastre di piombo, alcune migliaia, che coprono il tetto della Basilica. Da lì si vedono il mare oltre l’isola del Lido e le Dolomiti dietro Murano e decine di cupole ispirate a San Marco. «Essere là in alto è una sensazione che non si può descrivere — sospira Pirolo — si respira tutto il valore artistico e simbolico della Basilica e di Venezia». D’inverno prepara le travature e gli elementi lignei da sostituire, da marzo a ottobre vive sul tetto, tranne quando la temperatura, d’estate, arriva anche a 45 gradi. «Controlliamo tutte le strutture perché se filtra acqua può arrivare ai mattoni sotto ai quali ci sono i mosaici e danneggiarli; aggiustiamo il piombo con saldature a stagno e lo sagomiamo con strumenti in legno che facciamo noi, dobbiamo stare attenti perché ci sono fodere che hanno 300-400 anni e anche una fessura minima può far marcire un’intera trave». L’acqua è il nemico della Basilica, che sia l’alta marea, la pioggia o la condensa estiva. Come lo è il fuoco, contro il quale sono stati disseminati 400 sensori. «Dopo il rogo della Fenice — racconta Pierpaolo Campostrini, uno dei procuratori di San Marco — abbiamo studiato un impianto che, in caso di allarme, produce una nebbia di particelle ad altissima pressione che toglie ossigeno al fuoco, con pochissima acqua». «Ma in qualche sera di settembre, al tramonto, il piombo diventa così rosso che sembra davvero un incendio», sorride Pirolo. C’è un detto tra gli operai della Procuratoria: se porti qualcuno sul tetto della Basilica sarà tuo amico per sempre.

Inchini, turisti e occupazione. È un business da 600 milioni. Il traffico dà lavoro a 4mila persone e vale il 3,2% del Pil della città. Decreto anti transiti fermo al Tar dal 2012. Manila Alfano, Lunedì 03/06/2019, su Il Giornale. Venezia galleggia e ondeggia tra decisioni da prendere e scelte da fare. La laguna da salvaguardare, il turismo da incoraggiare. Venezia e la tentazione di far pagare il biglietto ai visitatori, e i crocieristi che arrivano dal mare, navi enormi che transitano per il bacino di San Marco che sbarcano praticamente in salotto, a frotte. Solo qualche settimana prima dello schianto tra la Msc Opera e il battello Michelangelo, uno di questi grattacieli del mare era rimasto bloccato nel canale della Giudecca a causa di un'avaria. Nel 2018 un vaporetto aveva rischiato la collisione con una nave da crociera. Nel 2013, infine, una nave si era avvicinata pericolosamente alla Riva dei Sette Martiti, scatenando il panico. In molti avevano visto in questa manovra quello stesso «inchino» al largo dell'isola del Giglio che nel 2008 costò caro ai passeggeri della Concordia. Incidenti pericolosi, che alzano il sipario su una questione «che dura almeno 20 anni», ha ricordato il filosofo veneziano Massimo Cacciari. Dopo l'incidente di ieri, la prefettura di Venezia ha chiesto alla Capitaneria di Porto «uno studio sul numero delle navi che potrebbero transitare da subito lungo il Vittorio Emanuele così da deviare in tempi ristretti il traffico programmato per la stagione in corso». L'estate non fa che rendere il problema un'emergenza. Il tempo dell'indignazione e della rabbia, poi, si torna come prima, a far finta di niente. Eppure non doveva essere così. Da almeno sette anni le cose sarebbero dovute cambiare. È datato 2012 infatti il decreto Clini- Passera che vieta il passaggio delle navi altre le 40 mila tonnellate. Il decreto stabiliva la necessità di limitare il traffico crocieristico a Venezia, trovare percorsi alternativi, passare per il Canale Vittorio Emanuele ad esempio. Poteva essere la svolta e invece la prescrizione non è mai stata applicata. I limiti vennero poi annullati nel 2014 dal Tar del Veneto, cui si era rivolta Venezia Terminal Passeggeri, la società che gestisce in concessione la Stazione Marittima della Serenissima, ma che le compagnie crocieristiche decisero comunque di continuare e rispettare, tramite un protocollo di auto-regolamentazione il cui effetto è stato quello di ridurre sensibilmente il traffico di passeggeri nel porto di Venezia. E allora, il tema è come sempre ben più complesso di un passaggio iper facilitato per i turisti da crociera. Certo, entrare in macchina nel salotto di casa fa comodo, e lo spiegano i numeri. È l'associazione Clia (Cruise Lines International Association) organizzazione internazionale delle principali compagnie crocieristiche attive nel mondo che proprio a Venezia aveva presentato una serie di dati sul valore del settore per il tessuto produttivo della città lagunare. L'associazione ha spiegato che ogni anno crocieristi, equipaggi e compagnie spendono 436,6 milioni di euro, cui si aggiungono altri 170 milioni a beneficio dell'indotto. Un business che genera il 3,2 per cento del Pil locale, e occupa 4.300 persone e 200 società veneziane, impiegando quindi il 4,1 per cento dell'intera forza lavoro cittadina. Se fosse vietato l'accesso in Laguna a tutte le navi da crociera con una stazza superiore alle 40.000 tonnellate il numero di crocieristi a Venezia secondo CLIA si ridurrebbe del 90% rispetto al 2012, la spesa per beni e servizi locali dell'85% (40 milioni contro 283,6 milioni) e l'occupazione dell'83% (600 lavoratori a fronte di 3.660). Ecco perchè è ora di sciogliere la matassa.

Incidenti, progetti e verdetti del Tar. In 15 anni e 8 governi non è cambiato nulla. Pubblicato lunedì, 08 luglio 2019 da Gian Antonio Stella, Lorenzo Salvia, Leonard Berberi su Corriere.it. Cosa deve succedere, ancora? Un’altra mastodontica sbandata verso la Riva dei Sette Martiri e i Giardini come quella della «Deliziosa» domenica? Un altro blackout capace di mandar fuori controllo un bestione lungo 251 metri col peso di 6500 autocisterne come un mese fa la Msc Opera? Un’altra strage sfiorata coi passanti in fuga dall’immenso bastimento poco più corto del Titanic che avanzava sulla banchina di San Basilio trascinandosi via con l’ancora un «lancione» da 110 metri come fosse una barchetta? Cosa deve succedere ancora, perché gli accaniti difensori del business delle navi da crociera si sentano tremare le vene e i polsi? Perché chi ha l’onore e l’onere di fare delle scelte decida infine di assumersi le proprie responsabilità? Sono passati quindici anni da quel 12 maggio 2004 in cui la «Mona Lisa», facendo a pezzi le assicurazioni date per anni sull’impossibilità che si verificasse un incidente simile, si arenò davanti a San Marco. Quindici anni. Quasi il doppio dei nove bastati ai cinesi per costruire l’interminabile viadotto sul mare e le gallerie sottomarine del ponte Hong Kong-Zhuhai-Macao lungo 55 chilometri. Quindici anni di dubbi. Pensamenti. Ripensamenti. Immobilismo. Che fare? «È la goccia che fa traboccare il vaso: va impedito il passaggio di queste gigantesche navi da crociera nel tratto d’acqua tra Piazza San Marco e l’isola di San Giorgio», dichiarò il sindaco di allora, l’ex ministro ed ex rettore Paolo Costa. Oggi ricorda: «Fu uno choc. Da paura. Pensai: vanno portate fuori. Immagini se non fosse un incidente ma un dirottamento...». Aveva, quella «Mona Lisa» andatasi ad arenare nella nebbia nel cuore della città, una lunghezza di 201 metri (93 in meno della «Deliziosa»), una stazza di 29mila tonnellate (un terzo delle 92mila) e portava 750 passeggeri, quasi quattro volte meno dei 2.826 ospiti possibili sulla nave alla deriva domenica. Da allora sono passati compreso questo gialloverde otto governi (due di Berlusconi), quattro sindaci, quattro giunte regionali (due con Galan, due con Zaia), una litania di ministri dei Trasporti, delle Infrastrutture e di altri dicasteri coinvolti, una miriade di esperti, scienziati, ingegneri, idraulici, praticoni, ciacoloni e logorroici... Macché: niente. L’allora presidente dell’Autorità portuale Giancarlo Zacchello fu anzi così spaventato dall’ammonimento «Mona Lisa», nel 2004, che disse: «Non c’è alcuna alternativa per il transito della navi da crociera in bacino di San Marco, a parte l’ulteriore diminuzione della velocità e la presenza di un secondo rimorchiatore». Prova provata che fino ad allora i transatlantici facevano il percorso a rischio con uno solo. Da brividi. 

Già che cera, Zacchello spiegò anche che l’itinerario attraverso il bacino di San Marco e il canale della Giudecca, era «non solo la via più breve e la più bella ma anche la più sicura. Tre studi, uno del Comune e due nostri, hanno dimostrato che lo spostamento delle masse d’acqua non ha effetti negativi, mentre un altro studio dell’università di Portsmouth ha concluso che qualora una nave uscisse dalla rotta in bacino San Marco si arenerebbe a una distanza variabile tra gli 80 e i 120 metri dalla riva, a seconda della stazza». E l’ipotesi d’un allargamento del canale Vittorio Emanuele sul quale anni dopo insisterà, in polemica con Danilo Toninelli («entro giugno la soluzione») lo stesso ministro dell’Interno (e di molto altro...) Matteo Salvini? «Impraticabile. Dovremmo scavare da sei a 12 milioni di metri cubi di terra, quando non sappiamo neppure come toglierne 300 mila per conservare l’agibilità del porto». Due anni dopo il presidente della Venezia Terminal Passeggeri Sandro Trevisanato esultava per il raddoppio del business («abbiamo calcolato che una nave da crociera su tre al mondo attracca a Venezia») e nell’ottobre 2012, dopo mesi di polemiche sui paragoni con la tragedia della Costa Concordia e la decisione del governo Monti di mettere un limite di 40 mila tonnellate alle Grandi navi a San Marco, scartava l’ipotesi di spostare il terminal crociere a Marghera ventilato dall’allora sindaco Giorgio Orsoni («sarebbe come spostare l’aeroporto di Venezia dal Marco Polo al “Nicelli” del Lido») e teneva la barra sull’itinerario attuale: «Da un traffico oggi sicuro, si passerebbe a una situazione ritenuta assolutamente pericolosa da chi è chiamato a valutare il traffico». Infatti, gongolava, «in una domenica di picco passano per la Marittima circa trentamila passeggeri, duemila macchine in parcheggio, tra i sessanta e i settantamila bagagli vengono movimentati e decine di autotreni scaricano merci sulle navi. Dove si trovano strutture adeguate a Marghera?» E i rischi di incidenti? Mah... 

A novembre 2015, nonostante la sentenza del Tar contro il blocco delle navi più spropositate, sospirava comunque contro «l’introduzione del limite delle 96.000 tonnellate, che è antistorico, perché porta qui navi più obsolete e insicure». Rileggiamo: far passare in mezzo a Venezia una nave come la «Divina» lunga il doppio di piazza San Marco (333 metri) e alta il doppio (66 metri) del Palazzo Ducale è «antistorico». Una ne abbiamo, di Venezia. Una sola. In tutto il mondo. Pino Musolino, il presidente dell’autorità portuale veneziana, l’altra sera, dopo la paurosa sbandata della «Deliziosa» ripresa col telefonino da amici veneziani che urlavano spaventati e furenti guardando la nave puntare verso riva («Varda cossa che i gà combinà! Varda! Parché i se ga mosso co’ ‘sto tempo? De’inquenti! Tuti! Mama mia, varda che roba… Non dovevano muoversi, porca miseria! Avevano le previsioni. Era tutto nero. Da denuncia! Varda la nave che va ‘dosso ai giardini!») aveva il morale basso. Come chi ha visto andare in pezzi alcune certezze in cui credeva. «Sono scosso. Sono molto provato da questa situazione. A questo punto voglio che vengano fatte tutte le verifiche e che si porti a compimento un’analisi seria di quello che è successo e di quello che poteva succedere... La sicurezza per noi è un cardine». E questo è il punto. Qualunque cosa sia successa nel giro di un mese prima alla «Msc Opera» (finita addosso alla banchina della Marittima e alla nave da crociera fluviale «River Countess» spezzando perfino il cavo d’acciaio del rimorchiatore di prua il cui pilota aveva disperatamente tentato di raddrizzare il bestione fuori controllo) e poi domenica alla «Deliziosa», una cosa è fuori discussione. Difficile fidarsi di nuove promesse rassicuranti.Sarà successo per colpa di un guasto ai sofisticatissimi impianti elettronici che regolano ogni respiro meccanico dei transatlantici. Sarà successo a causa di un errore umano che può capitare anche ai migliori professionisti. Sarà successo per un’interpretazione errata dei dati atmosferici. Sarà successo per un ghiribizzo di qualche Dio capriccioso. Ma nessuno potrà mai più affermare che un incidente nelle acque della città più delicata, gentile, elegante del mondo è «impossibile». Nessuno. E questo, piaccia o no ai sostenitori delle crociere, è un problema impossibile da risolvere con una battuta. O con una accelerazione a prescindere. Dice il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, esasperato per le lentezze e le indecisioni del ministro delle Infrastrutture grillino, che la soluzione è lì, sotto gli occhi di tutti, «immediata»: l’allargamento del canale Vittorio Emanuele. Che «si può realizzare in circa un anno con capitali privati, in attesa di progetti alternativi che necessitano di tempi più lunghi, di almeno cinque o dieci anni». Ma proprio quello è il nodo: chi garantisce ai veneziani, agli italiani, agli amanti di Venezia di tutto il mondo, che saranno portati a termine i lavori per gli esperti indispensabili per contenere i danni alla morfologia della laguna che potrebbero venire da quella specie di raddoppio del Canale dei petroli? E se finisse come troppe volte da noi, con l’apertura in tutta fretta del canale e il rinvio dei lavori necessari alle calende greche? Non bastasse, Paolo Costa, che per anni è stato presidente anche dell’autorità portuale e confessa oggi d’essere turbato a rileggere le sicurezze che aveva («Mi fidavo degli studi dei tecnici, forse troppo...») dice d’avere un rovello in più: «Va a finire che per salvare le crociere rischia di andare in malora il porto...».

·         Gianni Zonin. L’uomo del crac costato all’Italia 5 miliardi di euro.

Attilio Barbieri per ''Libero Quotidiano'' il 27 ottobre 2019. «Chiedo scusa ai risparmiatori della Banca popolare di Vicenza». Gianni Zonin, ex numero uno della ex corazzata cooperativa veneta, affida al Giornale di Vicenza una lunga intervista-confessione. Tendendo una mano a clienti, risparmiatori e azionisti che hanno perso tutto nel crac dell' istituto vicentino. Meglio tardi che mai. «Il senso di responsabilità è evidente che lo sento e me lo porto dietro», chiarisce, «escludendo, però, qualunque aspetto di responsabilità penale. Nella gestione della banca io ce l'ho messa tutta...Purtroppo quando si fanno le cose si possono anche commettere degli errori», aggiunge, «solo chi fa sbaglia». In effetti la catena di errori che condussero nel baratro la Pop Vicenza è stata molto lunga. E toccherà alla giustizia accertare le responsabilità penali dei vertici. Nel processo in corso l' ex presidente della banca, come puntualizza il Giornale di Vicenza, «è imputato di aggiotaggio, ostacolo agli organismi di vigilanza e falso in bilancio». Le dichiarazioni di Zonin, scrive il quotidiano veneto, rappresentano un «passaggio giornalistico», nulla di più, e sono state raccolte nello studio dell' avvocato Enrico Ambrosetti, difensore dell' imprenditore di Gambellara.  Al momento del crac, racconta Zonin a Matteo Bernardini, «il più grande rammarico è stato per il 95 per cento dei piccoli azionisti che componevano la nostra banca». I bilanci? «Quelli che vedevamo nel consiglio di amministrazione erano in ordine, per me, dunque, le cose andavano bene», precisa. Ma incalzato dall' intervistatore che gli domanda se non ritenga di aver fatto alcun errore, l' ex banchiere si mostra meno sicuro: «Non dico questo. Chiedo scusa per gli errori che eventualmente ho fatto, ma li ho commessi sempre in buona fede. Non c' è stata mai malafede. Io ho sofferto e soffrirò ancora, ma il mio dispiacere più grande è e resterà per le sofferenze cui sono andati incontro i piccoli risparmiatori». A prescindere dalla vicenda giudiziaria non si può non prendere atto che Zonin è l' unico dei grandi accusati per i disastri bancari a chiedere scusa. L' uomo che per vent' anni ha gestito un bel pezzo di finanza veneta, spiega che il disastro poteva essere evitato. E si rammarica per «non essere riuscito a chiudere la fusione con Veneto Banca, finita pure lei nel burrone. «Ecco», aggiunge, «se l' avessimo fatta forse adesso staremmo a parlare di tutta un' altra storia. Pensi», puntualizza all' intervistatore, «che era già stato deciso tutto, anche il nome del futuro istituto: Banca Popolare del Veneto. Però qualcuno ha pensato di mettere i propri interessi davanti a quelli dell' istituto per cui operava». Il riferimento, probabilmente, è a Vincenzo Consoli, rimasto a sua volta per 17 anni sul ponte di comando di Veneto Banca. Proprio questo passaggio è stato al centro di alcune udienze estive nel processo in scena al Tribunale di Borgo Berga. «Se fossimo diventati una grande banca non saremmo qui oggi: è mancato l' orgoglio veneto», confessò quest' estate, al termine di un' udienza fiume l' ex banchiere vicentino. «Ho avuto fiducia in quelli che hanno controllato la banca, ma purtroppo qualcosa non ha funzionato», aggiunse, «però molto è anche dipeso dal fatto che non siamo riusciti, e qui forse la colpa è anche mia, a convincere Veneto Banca che era indispensabile una fusione per diventare una banca di dimensione europea». In realtà il «no» definitivo all' integrazione tra i due istituti arrivò dalla Commissione Ue, che mise il veto all' operazione. Una delle tante decisioni assunte da Bruxelles sotto l' impulso della Germania che probabilmente intravvide nella crisi dei due istituti veneti la possibilità di privare dell' ossigeno le imprese della regione che assieme a quelle lombarde più fanno concorrenza alla manifattura made in Germany. Un passaggio sul quale ben difficilmente si riuscirà a fare chiarezza. Indipendentemente da come si potrà sviluppare la vicenda giudiziaria.

Gianni Zonin al processo BPVi, Vittorio Malagutti: non interessa più a nessuno l’uomo del crac costato all’Italia 5 miliardi di euro. Nessuna protesta, pochissimo pubblico: il primo dei procedimenti contro l’ex re di Vicenza è andato in scena nella generale indifferenza. Perché l’economia locale si è ripresa. E tutti vogliono rimuovere il volto oscuro del “Veneto operoso”. Di Vittorio Malagutti, da l’Espresso dell'11 Ottobre 2019. Seduto al tavolino di un bar, Gianni Zonin consuma svelto un panino triste in compagnia del suo avvocato. Siamo a Vicenza, sono quasi le tre del pomeriggio e la folla degli impiegati in pausa pranzo è rientrata di corsa in ufficio, alla ricerca di un riparo dal caldo appiccicoso di una giornata afosa di fine settembre. I pochi passanti degnano appena di uno sguardo quell’uomo anziano in gessato grigio. Lo riconoscono. Non può essere altrimenti. Zonin era il padrone della città. Per vent’anni e più, il suo ufficio di presidente della Popolare di Vicenza è stato il crocevia di ogni sorta di affare, lecito e anche illecito. Questa è l’accusa dei magistrati che hanno messo sotto processo il banchiere simbolo di un’epoca finita all’improvviso quattro anni fa, quando il gran capo della Popolare fu costretto a scendere dal trono, inseguito dai sospetti e dalle indagini. Poi venne il crac. Un buco da oltre 3 miliardi. Prestiti irregolari per centinaia di milioni, bilanci addomesticati per nascondere le perdite. E decine di migliaia di risparmiatori che hanno perso per intero il proprio investimento nelle azioni di una banca che si illudevano fosse indistruttibile. Dopo molte false partenze, la macchina della giustizia infine si è mossa. È tempo di processi, ora. Zonin deve rispondere di aggiotaggio, ostacolo all’attività di vigilanza e falso in prospetto. Il dibattimento ha preso il via a dicembre dell’anno scorso a Vicenza in un tribunale assediato da centinaia di cittadini che chiedevano giustizia armati di megafoni, cartelli e slogan minacciosi. Adesso di tanto clamore resta ben poco. Le udienze vanno in scena una dopo l’altra nell’indifferenza generale. Una manciata di secondi nei notiziari regionali in tv (al collega sfugge il servizio pubblico di VicenzaPiu.com con tutti i video e i commenti sulle udienze e non solo, ndr) Qualche riga in cronaca sui giornali locali. In Rete, anche i blog più agguerriti hanno abbassato il volume delle proteste, forse perché nel frattempo si è finalmente materializzato il fondo di indennizzo ai risparmiatori a suo tempo promesso dal governo Lega-Cinque stelle. I soldi spariti nella voragine del crac verranno in parte rimborsati ad azionisti e obbligazionisti che per reddito e patrimonio personale potranno dimostrare di non essere speculatori incalliti. Un risarcimento parziale che arriverà chissà quando, ma è comunque meglio di niente. I conti che ancora non tornano, a questo punto, sono quelli della giustizia. Il processo iniziato a Vicenza corre sul filo della prescrizione e riguarda, oltre all’ex presidente, anche un altro consigliere di amministrazione, l’imprenditore Giuseppe Zigliotto, insieme a un pugno di manager dell’istituto, quelli che occupavano i posti di comando. Tra loro non c’è Samuele Sorato, l’ex direttore generale la cui posizione è stata stralciata per motivi di salute. Rimane invece in sospeso l’accusa più grave di tutte, la bancarotta. Zonin si è opposto fino in Cassazione alla dichiarazione di insolvenza della banca. E in attesa della sentenza della Suprema Corte, il crac resta senza colpevoli. Sono innocenti, per il momento e fino a prova contraria, gli amministratori che si sono succeduti nel board dell’istituto. Così come i responsabili dei controlli, cioè sindaci e revisori. E poi gli alti dirigenti che hanno personalmente ideato e gestito le operazioni che si sono trasformate in una bomba a orologeria nei conti dell’istituto. Tocca ai pubblici ministeri Gianni Pipeschi e Luigi Salvadori tirare le fila dei sospetti, ricostruire gli episodi che hanno materialmente causato il fallimento, illuminare i fatti salienti di una vicenda complicatissima raccontata in milioni di pagine di un’istruttoria immensa per dimensioni. Una storia triste con un cast a dir poco affollato: decine e decine di attori, comprese comparse e comprimari. Tutti partecipi, in un modo o nell’altro, di un sistema di potere che ha dissanguato quella che per decenni è stata descritta come la banca simbolo dell’opulento e operoso Nordest. Serviranno mesi, nella migliore delle ipotesi, per portare alla sbarra i presunti responsabili del fallimento. Nel frattempo va in scena un altro processo, minore se si vuole, ma che serve comunque ad aprire squarci di luce in una vicenda di malafinanza per molti aspetti ancora oscura. A quanto sembra però, Vicenza ha fretta di voltare pagina. E allora succede che giovedì 26 settembre, l’aula di tribunale appare quasi vuota di pubblico. All’ingresso del palazzo di giustizia un cartello giallo indica le scale che portano al sotterraneo dove si svolgerà l’udienza. L’informazione si rivela inutile, perché solo una pattuglia di addetti ai lavori, avvocati e giornalisti, si presenta di buon mattino per assistere ai lavori e questi habitué sanno orientarsi senza problemi tra stanze e corridoi. È un incontro tra pochi intimi, quindi. Eppure all’ordine del giorno c’è una deposizione di grande importanza, quella di Emanuele Gatti, l’ispettore della Vigilanza di Bankitalia che su mandato della Bce di Francoforte nella primavera del 2015 ha scoperchiato il pentolone dello scandalo. È lui il teste chiave che può spiegare le irregolarità nella gestione della banca messe a verbale nella sua relazione di quattro anni fa, quella che poi portò al ribaltone al vertice dell’istituto, con l’uscita della prima linea dei manager. Le parole di Gatti, interrogato dal pm Salvadori, cadono nel silenzio di una platea semideserta. Ad ascoltarlo, seduto in prima fila, c’è l’imputato Zonin. Dal dicembre scorso, l’ex presidente, 81 anni, non perde un’udienza. Nei primi mesi dopo il crollo, circolavano racconti più o meno fantasiosi che lo descrivevano come un uomo in fuga dalla furia dei risparmiatori, forse barricato in qualcuna delle sue residenze sparse per l’Italia, dal Friuli alla Sicilia, oppure addirittura sull’altra sponda dell’Atlantico, negli Stati Uniti. Gran parte dell’immenso patrimonio del banchiere risulta da tempo intestato a società controllate da moglie e figli ed è quindi al riparo dai sequestri giudiziari, che hanno fin qui colpito beni per un valore di alcuni milioni. Briciole, se davvero Zonin verrà chiamato a rispondere dei danni causati a decine di migliaia di azionisti. Nel frattempo però, l’ex patron della Popolare ha deciso di sfoderare davanti ai giudici l’orgoglio dei giorni migliori. Si è sempre dichiarato innocente. Sostiene di non essere stato messo a conoscenza dei particolari, e delle possibili conseguenze, delle manovre finanziarie vietate dalla legge che per anni sono servite a coprire i buchi in bilancio. Nel racconto dell’imputato eccellente sarebbero stati i manager a gestire in autonomia quegli affari dai contorni opachi. Un lungo elenco che comprende, per esempio, i cosiddetti “prestiti baciati”, cioè i finanziamenti elargiti a clienti che si impegnavano a comprare titoli della banca. Oppure le lettere di garanzia con cui l’istituto di credito veneto assicurava un rendimento fisso e predeterminato delle proprie azioni a beneficio di una ristretta cerchia di soci privilegiati. Tra le operazioni taciute fino all’ultimo alla Vigilanza compaiono anche i giochi di sponda con alcuni fondi lussemburghesi che oltre a sostenere gli aumenti di capitale della Popolare, avevano dirottato decine di milioni verso imprenditori amici. Tutti soldi usciti dalle casse della banca vicentina. Rispondendo per oltre cinque ore alle domande del pm, Gatti ha squadernato il libro nero della Popolare. Zonin, impassibile, lo sguardo fisso verso il testimone, ha seguito per intero la fluviale deposizione dell’ispettore di Bankitalia. Il quale non ha mancato di rievocare anche la svolta decisiva dell’intera vicenda: l’incontro, il 7 maggio del 2015, tra lo stesso Gatti e l’allora presidente dell’istituto veneto, ancora ben saldo in sella nonostante si accumulassero le voci sulle crescenti difficoltà della banca vicentina. In quell’occasione, per la prima volta, il banchiere fu messo di fronte alle sue responsabilità. Per anni, infatti, le autorità di controllo avevano dato via libera ai bilanci della Popolare e i finanziamenti irregolari: quelli “baciati”, ben nascosti nelle pieghe dei conti, si erano accumulati fino a superare di slancio i 500 milioni. Adesso, al processo, Consob e Banca d’Italia figurano tra le parti offese, al pari dei risparmiatori a cui fu raccontata una realtà ben diversa da quella effettiva. Le istituzioni sono salve, quindi. E per tutti gli altri coinvolti nel caso, la strada verso la verità, almeno quella giudiziaria, appare ancora molto lunga e complicata. Il processo per la bancarotta miliardaria, se mai ci sarà, prenderà il via non prima del 2020 e forse anche dopo, a sei anni di distanza dall’inizio delle indagini. Il procedimento di primo grado cominciato a Vicenza durerà ancora mesi e si concentra più che altro sull’operato dei manager di comando come l’ex direttore finanza Andrea Piazzetta o Emanuele Giustini, già responsabile delle politiche commerciali e quindi dei rapporti con i clienti. Sono loro, nella ricostruzione della Vigilanza bancaria e poi dei pubblici ministeri, ad aver firmato i documenti più compromettenti. Tra i componenti del consiglio di amministrazione l’accusa, come detto, ha invece circoscritto le imputazioni ai soli Zonin e Zigliotto, archiviando la posizione di altri 21 indagati, tra cui anche i membri del collegio sindacale. Niente maxi processo, quindi. Tutto rimandato a data da destinarsi. Quello che ci vuole per far scomparire la memoria del crac dalla coscienza collettiva di una città ansiosa di dimenticare la pagina più nera della sua storia. Il presente incombe e Vicenza festeggia perché ha ripreso a correre. La grande paura della crisi finanziaria, quella innescata dall’esplosione della bolla del debito tra il 2008 e il 2011, ormai è un ricordo lontano. Le statistiche più aggiornate raccontano di un’economia che cresce. Il valore delle esportazioni non è mai stato così alto, segnala la Camera di commercio locale commentando i dati del primo semestre del 2019. Un record difficile da battere, almeno nell’immediato, visto che mercati di sbocco importanti come Cina e Germania segnano il passo. Intanto però la provincia berica si conferma al terzo posto nella graduatoria nazionale dell’export, davanti a Brescia e sempre più vicina a Torino, che viaggia in seconda posizione molto distante dalla capolista Milano. Buone notizie anche sul fronte del lavoro, con la disoccupazione che l’anno scorso è scesa dal 6,8 al 5,3 per cento, quasi la metà del dato nazionale, che a fine 2018 era attorno al 10 per cento. E allora è vero, Vicenza ha perso la sua banca, ma si fa presto a esorcizzare il fantasma di Zonin se la cronaca abbonda di buone notizie. Anche la politica locale adesso può permettersi di festeggiare, dopo che per mesi le istituzioni e i partiti si sono affannati a prendere le distanze dal banchiere caduto in disgrazia. Achille Variati, sindaco della città tra il 2008 e il 2018, ha conquistato addirittura una poltrona di governo: sottosegretario agli Interni nel Conte bis. Un successone per il navigatissimo ex democristiano, poi Margherita e quindi Pd, lo stesso che dopo il naufragio della banca fu costretto a derubricare a semplice “obbligo istituzionale” la sua frequentazione, da primo cittadino, con Zonin. Storie vecchie, quelle. La Popolare non c’è più. Scomparsa. Intesa ne ha cancellato l’insegna, dopo che nel giugno del 2017 ha assorbito al prezzo simbolico di un euro la parte migliore dell’attivo di bilancio dell’istituto fallito. In quei giorni si è chiusa allo stesso modo anche la storia di Veneto Banca, sede a Montebelluna, naufragata, come la rivale di Vicenza, in un mare di prestiti incagliati. A pagare il conto dell’ operazione è stato il bilancio pubblico, con un assegno a fondo perduto di 3,5 miliardi a favore di Intesa e a carico dei contribuenti (per la verità a carico della BPVi in Lca, e quindi dei soci/risparmiatori, con gli introiti del recupero dei suoi nel in quanto lo Stato né è creditore in pre deduzione e pagherebbe in proprio solo in caso di insufficienza nei “rientri”, ndr). A questa somma vanno aggiunti altri 1.285 milioni che sono serviti a finanziare, sempre a spese dell’Erario, l’uscita di quasi 4 mila dipendenti dalle fila del gruppo nato con la doppia acquisizione. A carico della liquidazione restano i crediti ad alto rischio e poi gran parte del patrimonio immobiliare, che è stato messo in vendita. Tra l’altro è finito all’asta anche Palazzo Thiene, capolavoro del Palladio in pieno centro città. Le indiscrezioni più recenti raccontano che l’offerta migliore sarebbe arrivata dal fondo statunitense Bain, che sembra in vantaggio su Cerberus, un altro marchio della finanza Usa. Questione di giorni e poi con questo affare si chiuderà davvero il cerchio. L’ultima eredità della banca di Zonin finirà agli americani e la città potrà illudersi di aver fatto i conti con il suo passato. Di Vittorio Malagutti, da l’Espresso.

Popolare Vicenza, il capo della vigilanza di Bankitalia tifava per Zonin: lo provano gli sms. Ecco i messaggi tra il direttore generale dell'istituto veneto e il numero uno dei controllori. I vertici della banca hanno goduto per anni di un filo diretto con via Nazionale. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 18 dicembre 2017. Ottobre 2014: allarme rosso alla Popolare di Vicenza. In quei giorni la banca guidata da Gianni Zonin rischiava seriamente la bocciatura ai test di bilancio della Bce di Francoforte. Sarebbe stato un colpo pesante alla credibilità di un istituto che già allora, come si scoprirà soltanto molti mesi dopo, aveva serie difficoltà a far quadrare i conti. Nella città del Palladio devono correre ai ripari, metterci una pezza in qualche modo prima che la bocciatura diventi di dominio pubblico, con tutte le conseguenze del caso. Ed ecco che, come L'Espresso è in grado di rivelare sulla base di documenti inediti, dal telefono di Samuele Sorato, il direttore generale della banca veneta, di fatto il braccio destro di Zonin, parte una richiesta d'aiuto: «Gentile dottore, avrei necessità di sentirla, come saprà la nostra richiesta è stata rigettata dalla Bce». Questo il testo dell'sms inviato da Sorato alle 12 e 22 minuti del 7 ottobre 2014. La sorpresa è il destinatario di quella richiesta. Il messaggio parte verso un numero di cellulare intestato a Carmelo Barbagallo, capo della Vigilanza della Banca d'Italia. Il quale, a giudicare dagli scambi successivi di sms, si mette subito in moto per dare una mano al manager. E infatti alle sette di sera Sorato scrive ancora all'alto dirigente di Banca d'Italia: «Vorrei ringraziarla per i suggerimenti ricevuti. (…)  Gradirei sentirla per i prossimi passi da intraprendere». A questo punto Barbagallo non riesce proprio a fare a meno di sbilanciarsi e scrive: “Ok. In bocca al lupo!”, con tanto di punto esclamativo che vorrebbe rinforzare la personale solidarietà dell'alto dirigente di Bankitalia nei confronti del direttore generale della Popolare vicentina. Quei messaggi, e molto altro ancora, sono agli atti dell'inchiesta giudiziaria della procura di Vicenza sulla fallimentare gestione della Popolare per vent'anni presieduta da Zonin. Un'inchiesta che proprio in questi giorni è arrivata all'udienza preliminare che dovrà decidere quali degli indagati, tra cui lo stesso Sorato, finiranno a processo. Per la cronaca, alla fine Vicenza riuscì a superare per il rotto della cuffia i test della Bce, grazie alla conversione di un prestito obbligazionario. Potremmo chiederci se è normale che il massimo dirigente della Vigilanza bancaria dia una mano a un suo vigilato per superare gli esami dei controllori europei. E se è opportuno che lo faccia attraverso scambi di sms, a testimonianza di una consuetudine di rapporti che appare ormai consolidata nel tempo.  Da mesi al centro delle polemiche, la Banca d'Italia si è sempre difesa sostenendo che la Vigilanza ha sempre fatto tutto quanto in suo potere, così come previsto dalle leggi vigenti, per marcare stretto Zonin e gli altri. È un fatto però che i vertici della Popolare di Vicenza potessero godere di una corsia preferenziale per accedere alla Vigilanza di Bankitalia. A volte, come dimostrano i documenti esaminati da L'Espresso, a fare da tramite verso Roma erano ex dirigenti della stessa Banca d'Italia assunti da Vicenza. Per esempio Mario Lio, ex funzionario della Vigilanza passato alla Banca Nuova di Palermo, controllata dalla Popolare di Zonin. “Ho parlato adesso con Barbagallo, è stato affettuoso. Speriamo bene...”, scrive Lio a Sorato il 18 febbraio del 2012. Il 4 settembre del 2013 tocca invece a Gianandrea Falchi, ingaggiato da Zonin dopo essere stato in staff dell'ex governatore Mario Draghi.  “Lunedì vedo Barbagallo – scrive Falchi a Sorato – vi sono altre cose di cui parlare oltre a quelle che ci siamo dette lunedì?”. A gennaio del 2014, invece, lo stesso Falchi ci tiene a far sapere a Sorato di aver informato Barbagallo “di quanto ci eravamo detti”. E aggiunge un particolare curioso: “Ho scoperto che Visco e Consoli sono nati lo stesso giorno e anno”. Consoli era il numero uno di Veneto banca, l'altra Popolare in difficoltà che nei progetti della Vigilanza avrebbe dovuto fondersi con Vicenza. Solo che nel gennaio del 2014, Consoli era sotto pressing costante dei controllori di Bankitalia, mentre Zonin, che aveva bilanci ancora più disastrati, tesseva la trama di nuove acquisizioni. La creazione della grande Popolare del Nordest  resta sulla carta e da Vicenza si mettono alla ricerca di alternative.  Banca Etruria è la prima della lista. E infatti in primavera l'interesse del possibile acquirente viene formalizzato con un'offerta nero su bianco. In quei giorni Sorato torna a contattare via sms Barbagallo. “Buonasera dottore posso disturbarla?”. Questo il testo dell'sms datato 11 giugno 2014. La risposta arriva nel giro di pochi minuti: “Sono a Francoforte, se mi lascia un recapito la chiamo tra mezz'ora”. Giorni delicati, quelli, perché il consiglio di amministrazione di Banca Etruria deve riunirsi per decidere se accettare l'offerta di Vicenza.  E l'arbitro della partita era proprio Banca d'Italia. Alla fine Arezzo dice no e l'affare salta. Entrambe le banche vanno incontro al proprio destino: dissesto e liquidazione. A maggio del 2015 anche Sorato arriva a fine corsa. Il manager viene messo alla porta da Zonin, che tentava di salvare la poltrona scaricando sui manager la colpa del disastro. Ma prima di farsi da parte, il direttore generale della Popolare di Vicenza scrive ancora a Barbagallo via sms. “Mi scusi se la disturbo di domenica. Ci terrei a comunicarle alcune decisioni che stiamo prendendo”. Era il 10 maggio 2015. Due giorni dopo Sorato ha perso il posto di lavoro.

Popolare Vicenza, gli sms tra i renziani e l'uomo di Zonin. E quell'incontro con la Boschi. Negli atti della procura sul dissesto della banca veneta spuntano i messaggi tra l'ex direttore generale Sorato e Francesco Bonifazi, renziano di ferro e tesoriere del Pd. Che ha messo in contatto il manager con la futura ministra. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 18 dicembre 2017. Era un renziano convinto, l'ex direttore generale della Popolare di Vicenza, Samuele Sorato. O almeno così cercava di apparire agli occhi di uno dei dirigenti del Pd più vicini all'ex segretario del Pd, Matteo Renzi. Difficile spiegare altrimenti l'sms inviato l'8 dicembre del 2013 da Sorato a Francesco Bonifazi, tesoriere del Partito Democratico nonché stretto collaboratore di Renzi. «Complimenti a Matteo e a tutti voi per il grande lavoro che avete fatto», scriveva il manager a Bonifazi. Il messaggio è agli atti dell'inchiesta della procura di Vicenza sul dissesto della Popolare di Zonin, un'inchiesta che vede Sorato tra gli indagati. Quel giorno, l'8 dicembre 2013, i risultati delle primarie proiettavano l'ex sindaco di Firenze verso l'incarico di segretario del partito e, di lì a qualche mese, anche di presidente del Consiglio. E il giorno prima, rispondendo a un messaggio dello stesso Bonifazi che lo invitava a scegliere Renzi alle primarie, Sorato aveva risposto con un eloquente: «Sarà fatto». Come noto, il direttore generale della Popolare di Vicenza, cresciuto all'ombra del presidente Gianni Zonin di cui era il principale collaboratore, perse il posto a maggio del 2015, quando cominciarono a emergere con chiarezza le dimensioni del buco in bilancio dell'istituto veneto. Fino ad allora però Sorato aveva coltivato con assiduità rapporti con la cerchia renziana. All'occorrenza era proprio Bonifazi a fare da tramite con altri esponenti del cosiddetto “Giglio magico” renziano. Si scopre per esempio che, in base a quanto appuntato sulla sua agenda, il 30 ottobre 2013 Sorato era stato ricevuto da Maria Elena Boschi e all'incontro aveva partecipato anche Bonifazi. All'epoca, Boschi, deputata da qualche mese, era coordinatrice della Leopolda e nel febbraio successivo sarebbe entrata nel governo Renzi come ministro delle Riforme. L'agenda non riporta altre informazioni se non la data della visita alla giovane deputata.  Certo è che la famiglia Boschi poteva dare una mano a Vicenza, e al manager, anche sul fronte del business. Infatti la Popolare di Zonin era a caccia di banche da acquistare e la lista di obiettivi comprendeva anche Banca Etruria, di cui Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena, era amministratore e poi, da aprile 2014 vicepresidente. Nell'agenda di Sorato vengono menzionati, senza ulteriori dettagli, “incontri riservati” con Boschi senior. Nel marzo del 2015, due mesi prima del ribaltone che mise fuori gioco Sorato, la memoria del telefono del manager restituisce l'evidenza di un sms inviato da Bonifazi. «Mi sono mosso. Vorrei fare approfondimenti con te e alcuni miei parlamentari veneti. Dammi una data». Questo il testo del messaggio inviato dal tesoriere Pd. Secondo quanto emerge dai documenti giudiziari, a facilitare i contatti del manager di Vicenza con il giro renziano sarebbe stato anche Marco Bassilichi, imprenditore toscano, anche lui targato Giglio magico. L'azienda di Bassilichi vende servizi digitali destinati tra l'altro agli istituti di credito e da qui nascono i rapporti con Sorato, con cui sono decine i contatti registrati dal telefono del banchiere. L'uomo d'affari renziano torna utile, però, anche per aprirsi un varco verso i vertici del Pd. Il 3 marzo del 2015 Bassilichi scrive all'amico Sorato: «Buongiorno Samuele, ieri sera ho cenato con Gabriele (Beni) che ti sta cercando per Luca L. Chiamalo perché Luca ti incontra...». Gabriele Beni è un imprenditore calzaturiero toscano, amico del segretario del Pd. Il "Luca L." citato nel messaggio corrisponde invece con ogni probabilità a Luca Lotti, anche lui esponente del Giglio Magico e sottosegretario alla presidenza del Consiglio durante il governo Renzi. Ci fu quell'incontro promosso da Bassilichi? L'agenda non lo dice. Due mesi dopo Sorato lascia la Popolare di Vicenza e i messaggi dei renziani diminuiscono fino a scomparire.

Zonin torna in banca. Accolto con tutti gli onori e riaccompagnato con l'auto aziendale. L'ex presidente della Popolare di Vicenza, indagato dalla magistratura, ha fatto visita alla controllata siciliana dell'istituto. Ha avuto un lungo colloquio con il direttore generale, che ha messo a disposizione un autista. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 05 luglio 2016. Dove sta Zonin? L'ex gran capo della Popolare di Vicenza è da mesi al centro di un frenetico “Chi l'ha visto?”. Con la banca travolta dalle perdite e un esercito di azionisti grandi e piccoli che hanno perso per intero il loro investimento, Gianni Zonin è sparito dalla circolazione. Nessuna apparizione pubblica. Nessun incontro. Niente di niente, almeno dall'autunno scorso. Scelta comprensibile, dal suo punto di vista. Se non fosse che l'anziano banchiere, classe 1938, indagato per aggiotaggio e ostacolo alla Vigilanza, di recente ha pensato bene di farsi vedere a Palermo, nella sede di Banca Nuova, controllata dalla Popolare di Vicenza. Circondato dagli sguardi sbalorditi di alcuni dipendenti, Zonin è stato ricevuto da Adriano Cauduro, direttore generale dell'istituto palermitano. Dopo un lungo colloquio, durato almeno un paio di ore, l'inatteso ospite, raccontano alcuni testimoni, è stato prelevato da un'auto blu con autista. «Una vettura aziendale», sostengono fonti interne alla banca. Un pacchetto tutto compreso, quindi: incontro al vertice e passaggio in macchina per l'ex padre padrone della banca travolta da 6 miliardi di perdite. La visita a Palermo risale al primo giugno e da allora in Banca Nuova non si parla d'altro. Su un totale di circa 116 mila azionisti, sono circa 7 mila i risparmiatori siciliani che hanno visto andare in fumo il loro investimento in azioni Popolare Vicenza e di questi almeno 300 lavorano a Banca Nuova. Come dire che quasi la metà dei 700 dipendenti hanno perso denaro, a volte tutti i risparmi, nel gran falò dell'istituto vicentino. Logico allora che l'improvvisa apparizione a Palermo dell'ex presidente sia stata accolta con una certa sorpresa. Così come il lungo colloquio con il direttore generale. Va detto che Zonin è di casa in Sicilia, dove possiede una grande tenuta (Principi di Butera) non lontano da Caltanissetta. Cauduro conosce bene il banchiere vicentino. L'attuale numero uno di Banca Nuova, di origini venete, è approdato a Banca Nuova nel gennaio dell'anno scorso dopo una carriera di 15 anni interna alla Popolare di Vicenza fino all'incarico di vicedirettore generale raggiunto nel 2011. Quattro anni dopo, quando l'istituto veneto cominciò a franare, Cauduro fu l'unico dei quattro top manager di vertice a conservare la poltrona. Perse invece il posto il consigliere delegato Samuele Sorato insieme agli altri due vice direttori generali Emanuele Giustini e Andrea Piazzetta, tutti indagati insieme a Zonin nell'inchiesta della procura di Vicenza sulla catastrofica gestione della banca. Giovedì prossimo è in programma l'assemblea che dovrà nominare il nuovo consiglio di amministrazione di Popolare Vicenza, un board designato per intero dal fondo Atlante, socio rimasto in campo col 99 per cento delle azioni dopo l'aumento di capitale di fine aprile. Come amministratore delegato è prevista la riconferma di Francesco Iorio, il manager che ha guidato la la banca nella fase dell'emergenza, a partire dall'estate 2015. La causa per risarcimento danni verso Zonin difficilmente potrà invece partire prima dell'autunno. Intanto, a giugno, l'ex presidente ha girato ai tre figli le sue azioni della casa vinicola di famiglia.

·         Grandi evasori e politici corrotti: ecco la lista veneta.

Grandi evasori e politici corrotti: ecco la lista veneta. Dalle tangenti del Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con più di 250 milioni nascosti dal fisco da imprenditori del nordest Paolo Biondani e Leo Sisti il 26 aprile 2019 su L'Espresso. Si chiama “lista De Boccard”. Dal computer del professionista svizzero Bruno De Boccard, sequestrato dai magistrati della Procura di Venezia, è emerso un elenco di dozzine di imprenditori, soprattutto veneti, protagonisti di una colossale evasione fiscale, celata all’ombra del super condono targato Berlusconi del 2009-2010. Un fiume di denaro di “oltre 250 milioni di euro”, finora mai completamente ricostruito, dove si mescolano le tangenti ai politici e i fondi neri degli stessi clienti. Soldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti autostradali, in grandi alberghi o studi di commercialisti. Lo rivela L’Espresso in edicola domenica 28 aprile e  in anteprima online su Espresso+ . L’indagine della Guardia di Finanza, nata sulla scia dello scandalo del Mose di Venezia, ha già portato al sequestro di oltre 12 milioni di euro. E ha fatto scoprire un traffico di tangenti per 1,5 milioni nascoste prima in Svizzera e poi in Croazia da una prestanome di Giancarlo Galan, ex governatore veneto e ministro di Forza Italia, già condannato per le maxicorruzioni del Mose. Questa nuova indagine ha fatto emergere anche una serie di documenti informatici con i dati di centinaia di società offshore utilizzate da politici e imprenditori per nascondere nei paradisi fiscali più di 250 milioni di euro. Molti casi di evasione sono stati però cancellati dalla prescrizione o dallo scudo fiscale. Secondo L’Espresso, il “re delle valigie” Giovanni Roncato ha ammesso di aver rimpatriato, grazie proprio allo scudo, 13,5 milioni di euro, detenuti all’estero e accumulati in passato “in seguito a minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa…la Mala del Brenta…nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona”. Ed ecco partire il carosello del denaro, affidato a “malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova Ovest”. Si chiama Alba Asset Inc, la offshore spuntata nei file di De Boccard, creati insieme al suo boss, il nobile italo-elvetico Filippo San Germano d’Aglié, nipote della regina del Belgio. Un altro nome eccellente che compare nell’inchiesta ribattezzata Padova Papers, germinazione dei più famosi Panama Papers, è quello di René Caovilla, titolare di un famoso marchio di scarpe, e boutique in tutto il mondo. Anche lui, al quale faceva capo la offshore Serena Investors, riporta L’Espresso, si è avvalso dello scudo fiscale, facendo rientrare in Italia 2,2 milioni di euro, “somme non regolarizzate affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera”. Anche tre commercialisti di uno affermato studio di Padova, giù emersi nelle vicende del Mose, entrano qui in scena come presunti organizzatori del riciclaggio di denaro nero: Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. Tutti collegati al duo San Germano-De Boccard, punti di riferimento di proprietari di hotel, fabbriche di scarpe, imprese di costruzioni e, ancora, big delle calzature. Come Damiano Pipinato, che attiva lo spostamento dei soldi attraverso proprio Guido Penso: “Lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori…Io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova”. Il dottor Penso non contava il denaro, si fidava, si accontentava della cifra indicata da Pipinato e “rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato”. Pipinato ha confessato di aver esportato all’estero 33 milioni di euro: 25 in Svizzera, 8 a Dubai.

·         Tangenti Mose: il tesoro di Galan.

ECCO COME FINISCONO IN ITALIA LE GRANDI OPERE. Fil. Man. per “Libero quotidiano” il 12 luglio 2019. Il Mose. La grande opera che dovrebbe finalmente salvare Venezia. Evitare che l'acqua del mare la inondi. Semplificando, un complesso sistema di paratìe allestito ai margini della Laguna in grado di alzarsi alla bisogna, e dunque di formare una barriera per l'acqua. Se ne parla da tempo immemorabile, i lavori sono iniziati nel 2003 - dunque quindici anni fa. Fra ritardi, bandi andati a vuoto e inchieste che hanno smascherato corruzione e malaffare intorno agli appalti relativi all' opera - e soprattutto riguardanti il materiale fornito per la sua realizzazione - ancora non è entrata in funzione. Eppure, già ha necessità d' essere riparata. Un paradosso all' italiana. Succede infatti che le cerniere che, in sostanza, permettono l' innalzamento e l' abbassamento delle paratìe, siano ormai deteriorate. Piene di ruggine. Al punto che, costate ben 250 milioni nel 2010, hanno bisogno di essere risistemate. Cosa che, secondo quanto riportato dal Gazzettino, richiederebbe altri 34 milioni per approntare una gara di appalto per rifarle, e soprattutto studiare un sistema che le renda indistruttibili sott' acqua, dunque utilizzando altri materiali. Pensare che, quando furono realizzati e inseriti nella struttura, s' era detto che sarebbero durati cent' anni. In questo senso, è illuminante la relazione del Registro Navale Italiano (Rina), che nel settembre 2018 rispose proprio alle domande sulla durata delle cerniere: «Sulla base dei calcoli eseguiti - quella la valutazione finale - si ricava che gli steli di Treporti non sono in grado di garantire la vita operativa richiesta di 100 anni in nessuno degli scenari ipotizzati. In particolare, il contributo preponderante all' avanzamento dei difetti iniziali è dovuto alla corrosione». Ci si chiede a questo punto che tipo di analisi siano state fatte all' inizio. Ma forse le inchieste giudiziarie hanno fornito la risposta. Resta il fatto che il Mose - la cui realizzazione è gestita dal Consorzio Venezia Nuova, concessionario del ministero delle Infrasrutture - è già costato fino a ora oltre 5 miliardi di euro, una cifra che è inevitabilmente destinata a salire. E costerà intorno agli 80 milioni di euro all' anno per restare in attività ed essere mantenuto in buono stato di funzionamento. Le ultime previsioni parlano dell' entrata in funzione entro la fine del 2021. Ma si sa, a rimandare si fa sempre in tempo

Tangenti Mose, sequestrato il tesoro di Giancarlo Galan. Maxi inchiesta della guardia di finanza: i soldi della corruzione nascosti nei paradisi fiscali insieme al nero di grandi imprenditori veneti. Il blitz all'alba di oggi, scrive Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 10 aprile 2019 su L'Espresso. Cercavano le tangenti del Mose di Venezia, nascoste nei paradisi fiscali. E le hanno trovate insieme a un fiume di denaro nero, in mezzo ai conti esteri di piccoli, medi e grandi imprenditori veneti. Dalla laguna di Venezia alla Croazia, da Panama a Dubai, i soldi dei corrotti del Mose sono stati dispersi in mille rivoli. Ma ora un'indagine della Guardia di Finanza è riuscita a far riemergere, per la prima volta, una parte di quel flusso enorme di mazzette. È in corso dalle prime luci dell'alba, infatti, un maxi sequestro di conti e soldi riconducibili in particolare a Giancarlo Galan, il potente politico del Nordest, ex governatore veneto e poi sottosegretario nell'ultimo governo Berlusconi: l’indagato numero uno per le tangenti del Mose, che ha patteggiato una condanna 2 anni e 10 mesi per corruzione continuata. Dopo le dimissioni il commissario straordinario Magistro si confessa con l'Espresso. E svela il sistema delle dighe mobili: costi aggiuntivi, finanziamenti in ritardo e un processo penale che ha colpito solo la punta dell'iceberg. Risultato? L'inaugurazione slitta almeno a fine 2021. Galan è il beneficiario finale del primo tesoretto sequestrato dai giudici di Venezia. Ad essere indagati per il riciclaggio di circa un milione e mezzo di euro sono i professionisti che hanno architettato la fuga dei capitali all'estero, tra cui spicca la moglie del commercialista di fiducia di Galan, Paolo Venuti, che nella maxi inchiesta sul Mose ha patteggiato a sua volta una pena di due anni. In totale, sono stati bloccati più di 12 milioni di euro, appartenenti a diversi presunti evasori fiscali che hanno utilizzato gli stessi canali di riciclaggio. La richiesta della procura di Venezia era molto più alta. L’accusa aveva chiesto al gip di congelare oltre 35 milioni di euro. Il giudice però ha convalidato il sequestro solo per le accuse pienamente provate. Soldi che non riguardano solo la vicenda Galan, ma un più ampio giro di evasione e riciclaggio in cui sono coinvolti commercialisti, imprenditori e grovigli di società offshore che arrivano fino a Panama. Scavando alla ricerca del tesoro nascosto di Galan, infatti, gli investigatori della Guardia di Finanza, guidati dal colonnello Amos Bolis - lo stesso ufficiale cha ha firmato la maxi-inchiesta sul Mose con il pm Stefano Ancillotto - hanno portato alla luce un mondo sommerso, popolato di piccoli, medi e grandi imprenditori che da vent'anni usavano lo studio di due commercialisti, Guido e Christian Penso, per occultare sistematicamente il “nero” nei paradisi fiscali. I Penso, da quanto emerge dall'ordinanza di sequestro, sono due esperti della materia. Il nome del loro studio spunta anche nei Panama Papers , l'inchiesta del consorzio giornalistico internazionale Icij, rappresentato in Italia da L'Espresso. L'inchiesta sul tesoro di Galan ha mosso i primi passi già all'indomani dei 35 arresti del 2014. Il sistema di paratie mobili progettato per salvare Venezia dall'acqua alta - costato finora più di cinque miliardi, ma non ancora in funzione - è stato al centro di uno dei casi di corruzione più eclatanti degli ultimi anni. I meccanismi svelati dalla procura di Venezia insieme al nucleo di polizia tributaria ricordavano molto il malaffare di Tangentopoli. E non solo per le cricche e per le bustarelle, ma anche per alcuni nomi di imprenditori già finiti nel mirino del pool di Mani Pulite. Gli indagati per il reato di riciclaggio del milione e mezzo di Galan sono Paolo e Christian Penso insieme alla moglie di Paolo Venuti, Alessandra Farina. I primi due indagati, secondo l’accusa, «nell'esercizio della professione di commercialisti compivano, in relazione ai proventi illeciti della corruzione consumata da Giancarlo Galan, operazioni dirette ad ostacolarne l'identificazione della provenienza delittuosa ed in particolare acconsentivano ad acquistare le quote dell’azienda Adria Infrastrutture, tramite la società PVP, di cui Guido e Christian Penso detenevano la maggioranza, consapevoli dell'effettiva titolarità in capo a Galan». In pratica, è l'ipotesi degli inquirenti, i professionisti erano dei prestanome dell'ex sottosegretario di Forza Italia. Inoltre, i due commercialisti «consentivano di utilizzare conti correnti esteri nella disponibilità dello studio PVP, gestiti da loro fiduciari, per il trasferimento estero su estero della somma di oltre 1,5 milioni di euro riconducibile a Galan». Tesoretto che veniva poi trasferito su un conto corrente croato, intestato ad Alessandra Farina, moglie dell'amico e commercialista di fiducia del politico, Paolo Venuti. Il conto croato era stato aperto nella filiale di Zagabria della Veneto Banka. Anche Alessandra Farina è sotto inchiesta per riciclaggio: anche lei avrebbe infatti manovrato per nascondere i soldi della corruzione di Galan. Come? Aprendo, appunto, un conto corrente presso la Veneto Banka di Zagabria, sul quale sono stati versati, dopo vari trasferimenti da conti svizzeri (intestati anche alla società Unione fiduciaria di Milano), 1,5 milioni di euro, appunto. Il tesoretto del governatore veneto del Mose. Difficile credere che quel malloppo fosse della signora Farina. Perché, come riporta il gip nell'ordinanza di sequestro, «Farina, di professione insegnante, aveva percepito, negli ultimi dieci anni, stipendi per circa 250.000 euro lordi complessivi, effettuando, al contempo, investimenti finanziari per somme dieci volte superiori, perciò se ne deve ragionevolmente dedurre, nel rispetto dei criteri che presiedono alla valutazione da operare in sede cautelare reale, che trattasi di capitali provento proprio dell'attività delittuosa di Galan». Somme, si legge nell'ordinanza, accumulate a partire dal 2009. E cioè in un'epoca che coincide con «il periodo durante il quale Galan è stato accusato di avere ricevuto ingenti importi relativi alle attività corruttive poste in essere». Le indagini sul tesoro del Mose hanno portato a scoprire una centrale più grande del riciclaggio di fondi neri. In questo filone è di nuovo indagato anche Paolo Venuti, l'amico e commercialista di Galan. Un'inchiesta complessa, con decine di rogatorie chieste in paesi come Svizzera, Principato di Monaco e Indonesia. Paolo e Christian Penso, insieme a Venuti, sono accusati, in particolare, di aver permesso all'imprenditore della Pipinato Calzature, una grande azienda attiva dal 1950 a Padova, di occultare all'estero 33 milioni di euro. Damiano Pipinato, secondo l’accusa, «ha consegnato sistematicamente ingenti somme di denaro a Penso nel suo studio ubicato a Padova», come si legge nell'ordinanza. «Tali somme, che venivano poi impiegate per investimenti in Medio Oriente dalla metà degli anni 2000, originavano dalla reiterata evasione posta in essere dall'imprenditore». Prosegue il gip: «Guido e Christian Penso e Paolo Venuti costituivano una serie di sofisticati strumenti economico finanziari all'estero, e prevalentemente in paesi off-share, al fine di impedire l'identificazione dell'origine delittuosa delle somme trasferite». I 33 milioni, secondo le indagini della Finanza, sono stati usati anche per un investimento immobiliare a Dubai. I Penso hanno usato collaboratori di estrema fiducia per nascondere i profitti di altre decine di aziende venete. Collaboratori di un certo peso. Si tratta di due professionisti residenti in Svizzera: Filippo San Martino e Bruno De Boccard. L'indagine, si legge nell'ordinanza dei giudici di Venezia, «ha consentito di ricondurre all'operato degli indagati la gestione di capitali per un ammontare di circa 250 milioni di euro, ma, ragionevolmente, l'ammontare complessivo degli investimenti è stato di gran lunga superiore». Su questo front internazionale le indagini continuano. Dal Mose di Venezia, ai grattacieli di Dubai, passando per gli uffici di Panama. Una grande rete di riciclatori al servizio dei corrotti del Mose e degli evasori padani.

Il tesoro di Galan e di 15 industriali al nipote dell’ex regina del Belgio. Pubblicato venerdì, 12 aprile 2019 da Andrea Pasqualetto su Corriere.it. Il tesoro dell’ex ministro e governatore del Veneto Giancarlo Galan, ma anche quello del «principe» della valigeria Giovanni Roncato e del calzaturiere dei vip René Coavilla, oltre ai patrimoni di svariati imprenditori e professionisti, immobiliaristi, albergatori, commercialisti. E, al centro, lui: Filippo Manfredi San Martino di San Germano D’Agliè, che nonostante tutto è una sola persona, seppure finanziere, affarista, fiduciario e, soprattutto, nipote dell’ex regina del Belgio Paola di Liegi. Un biglietto da visita capace di conquistare la fiducia di una schiera di facoltosi nordestini che hanno pensato di affidare a lui, sessantaseienne torinese residente in Svizzera, e al suo collega Bruno De Boccard, elvetico di Friburgo, 80 anni, i loro capitali. Lo hanno scoperto gli uomini della Guardia di Finanza di Venezia nel corso di un’indagine per riciclaggio contro sei persone, fra cui appunto San Martino di San Germano e De Boccard, oltre a quel Paolo Venuti già noto alle cronache giudiziarie per essere rimasto coinvolto nella vicenda Mose come commercialista di Galan. Ieri è stata giornata di sequestri (12,3 milioni di euro fra conti correnti, barche e ville), disposti dal giudice David Calabria su richiesta del procuratore aggiunto Stefano Ancilotto, il pm dell’indagine sulla grande opera lagunare. L’inchiesta nasce come costola del procedimento monstre sul Mose e in particolare dalle investigazioni finanziarie sul presunto tesoro di Galan, che aveva chiuso la vicenda patteggiando la corruzione. Seguendo le tracce del suo commercialista, la Finanza ha scovato prima un milione e mezzo di euro affidati dall’ex governatore alla moglie di Venuti, Alessandra Farina (pure lei indagata), e poi tutto il resto. «Dalle intercettazioni è emersa l’esistenza di depositi su conti croati intestati a Farina per conto di Galan. La somma ammonta a 1,5 milioni di euro, parte di una riserva più consistente», scrive la procura nella richiesta di sequestro. In una telefonata intercettata, ecco l’accordo con l’ex governatore e quello, diverso, fra i coniugi Venuti . «Per cui alla fine quelli in Svizzera li tengo io e quelli in Croazia li tiene lui... e con questi mi son già fatto pagare», dice Venuti alla moglie. «Sì, vabbé, e quanti sono i suoi?», chiede Farina. «Un milione e otto, ma non dirglielo neanche, perché lui sa che c’è un milione e mezzo». Farina: «Sono la prestanome, lui vuole che vadano a sua figlia e a sua figlia andranno!». Il denaro parte dalla Banca Intermobiliare Suisse di Lugano intestato a una società di Panama, la Devon Consultans asset, creata attraverso lo studio di consulenza Mossak Fonseca, al centro dello scandalo internazionale dei Panama papers. E finisce alla Veneto Banka di Zagabria, in un conto intestato ad Alessandra Farina, professione insegnante. «Le sue capacità reddituali sono incompatibili con quella somma». Da Galan l’indagine si è estesa a vari imprenditori veneti, che hanno depositato denaro in Svizzera. «San Martino e De Boccard sviluppano attività finanziaria non autorizzata - scrive la procura - Vi è la prova del fatto che l’illecita raccolta sia anche rivolta a ingenti capitali provento di evasione fiscale... Lo fanno in favore di una pletora di imprenditori solo in parte identificati per rogatoria». É la lista De Boccard , un elenco di clienti trovato in Svizzera nel corso di una perquisizione fatta al professionista svizzero e al nipote di Paola di Liegi. Fra gli identificati (una quindicina) Giovanni Roncato, il produttore di valigie. Il quale, sentito dagli inquirenti, ha raccontato qualcosa di sorprendente. «Produco storicamente valigie a Campodarsego e attualmente mi occupo di coltivazioni di riso in Romania... Conosco Filippo San Martino perché anche lui produce riso e siamo diventati amici... Riguardo alle fasi di trasferimento di denaro preciso che io avevo iniziato a tenere i soldi all’estero parecchi anni fa in seguito alle gravi minacce subite da parte di un’organizzazione malavitosa che immaginavo essere la Mala del Brenta». Roncato parla di minacce di morte per i suoi figli e di sequestri di persona. «Queste minacce mi spinsero a consegnare all’epoca cospicue somme di denaro a malavitosi ignoti: si trattava di circa 200 milioni di lire alla volta, con consegne in contanti al casello di Padova Ovest. Sono fatti che non ho mai denunciato perché temevo per i miei figli, allora piccoli».

Settore molto rappresentato nella «lista De Boccard» quello dei calzaturieri: Filippo e Ignazio Baldan, Vittorino Pamio e uno dei massimi produttori di scarpe di lusso: Renè Caovilla, che ha riconosciuto vari versamenti in Svizzera. «Il nome di Filippo di San Germano non mi è nuovo. Credo di averlo conosciuto in Italia ma lo lego a operazioni che avvenivano in Svizzera. Il nominativo Serena (la lista De Boccard associa il nominativo di Caovilla alla Serena investors, ndr) di preciso non lo ricordo. Ritengo si tratti di somme non regolarizzate all’origine, che venivano affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera. Certamente tutto l’importo è stato oggetto di scudo fiscale nel 2009, strumento da me usato per rimpatriare tutte le posizioni estere». Della lista fanno parte gli immobiliaristi Flavio e Mattia Campagnaro, Sergio Marangon, Roberto e Luca Frasson , l’imprenditore agricolo Primo Faccia, quello dei videogiochi Maura Mastrella, gli albergatori Odino Polo, Mariarosa e Stefano Bernardi e Giovanni Gottardo. A tutti De Boccard associava dei nomi di società o di fantasia. «Ci siamo ritrovati in banca con un professionista svizzero di nome Filippo, del quale non ricordo il cognome in quanto lungo e complesso - ha raccontato Marangon - Grazie a lui vennero costituite le società e di conseguenza aperti i conti. Mi assegnarono il nomignolo di Muflone che avrei dovuto utilizzare per ogni contatto futuro. Io chiamavo un numero telefonico svizzero e dicevo Muflone aggiungendo che avrei dovuto effettuare una consegna. Concordavo un appuntamento, sempre al vecchio casello di Dolo. L’uomo che ritirava si presentava con un Audi Sw scura svizzera. Con lui non c’era dialogo, non so nemmeno come si chiamasse. Talvolta gli davo il denaro dal finestrino.... Con Filippo concordammo che la persona che ritirava la consegna avrebbe ricevuto l’1% della somma a titolo di compenso». Consegne di denaro, uomini misteriosi, depositi in Svizzera. Così funzionava per questi imprenditori veneti. Che, bisogna sottolinearlo, non sono indagati. Il motivo? «Un po’ perché hanno aderito tutti allo scudo fiscale e un po’ perché i reati sono stati prescritti», spiegano gli inquirenti.  Diversi casi di De Baccard, San Martino, i coniugi Venuti e altri due intermediari. Per loro perquisizioni, sequestri e la pesante accusa di riciclaggio.

·         Morti resuscitati e favori in Regione.

Morti resuscitati e favori in Regione: l’istituto di medicina legale di Padova nella bufera. E poi provette sparite, cocainomani assolti, possibili conflitti d'interesse. Sotto accusa l’istituto di autopsie e analisi cliniche più famoso d’Italia, scrive Andrea Tornago il 29 marzo 2019 su L'espresso. Perizie contestate, vivi fatti passare per morti, analisi fantasma per restituire la patente a cocainomani, pacemaker spariti. L’istituto di medicina legale di Padova, punto di riferimento per le autopsie e le consulenze tecniche di procure e tribunali di mezza Italia, sta precipitando in un vortice di scandali e inchieste giudiziarie. Da più di un anno la scuola di medicina forense, fiore all’occhiello della città del Santo, è nominata con imbarazzo negli uffici della procura di Padova, che con i medici legali e i tossicologi dell’università che fu di Galileo lavora a braccetto da sempre. Il direttore della medicina legale, Massimo Montisci, è indagato dai pm veneti con l’accusa di aver aggiustato gli esami che avrebbero consentito a due imprenditori, risultati positivi alla cocaina, di riottenere la patente. Le perquisizioni sono scattate il 18 luglio scorso, pochi giorni dopo una segnalazione proveniente dall’interno dell’istituto: nel registro informatico in cui vengono inseriti i risultati dei test di controllo - cruciali per la commissione patenti, chiamata a decidere se riammettere gli automobilisti alla guida oppure no - i due imprenditori risultano puliti, ma non c’è traccia dei certificati delle loro analisi. E non si trovano neppure i campioni delle urine e dei capelli che dovrebbero essere conservati nel laboratorio. Gli inquirenti sequestrano i registri e i computer della tossicologia forense e scoprono che, per i due presunti consumatori di cocaina, è stata utilizzata una procedura speciale, in grado di sfuggire a ogni verifica e agli standard di tracciabilità. L’accusa ipotizza uno stratagemma degno di un racconto noir: quelle analisi sarebbero transitate sul canale parallelo, utilizzato per gli esami sui cadaveri, dove la semplice sigla “dec” (“deceduti”), inserita accanto ai nomi degli interessati, era in grado di tenere riservati i relativi certificati e referti medici.

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” l'1 marzo 2019.  Parla a fatica, tace, prende fiato: «Sono tornato poco fa da un piccolo intervento chirurgico, mi rimane ancora qualcosina...». Anche ieri l'ex poliziotto Maurizio Cesarotto è andato all' ospedale per via di un malanno legato a quelle pallottole. Era il 20 aprile 1993, una banda di rapinatori vicina alla Mala del Brenta assalta la filiale della Banca Popolare di Vicenza di Olmo di Creazzo. Una Volante passa casualmente davanti all'istituto, gli agenti si accorgono che qualcosa non va, si fermano, scendono ed è l'inferno. Colpi di pistola, raffiche di kalashnikov, sangue. Cadono a terra Loris Gazzon e Cesarotto. Il primo muore, il secondo ha un proiettile nella spina dorsale e perde l'uso delle gambe. Da allora Cesarotto vive in sedia a rotelle. A sparargli fu il «palo» della banda, Ennio Rigato detto Neno, uno che non andava mai per il sottile. Fedina penale nerissima: 67 rapine con la banda della Parrucca rossa, che lo stesso boss Felice Maniero (cognato di Rigato per aver sposato in prime nozze la sorella) considerava poco affidabile. Perché «Neno» aveva il grilletto facile e gli assalti finivano spesso nel sangue. Condannato a trent' anni, uscirà dal carcere domenica prossima. «Andrà al mare, immagino», s'indigna Cesarotto, che oggi ha 56 anni e abita da solo a Mestrino, alle porte di Padova. L'ex agente ha un figlio, nato proprio 12 giorni prima della tragica rapina. Non è riuscito a fargli da padre, dice. «Oggi fa il poliziotto anche lui, mentre con mia moglie è finita subito. Quando succedono fatti del genere, la famiglia o si rafforza o si disfa. A me è toccato il secondo caso. Chiedo scusa se parlo al rallentatore ma ho qualche problema». In 26 anni ha subito una ventina di interventi. Gli hanno tolto la milza, un pezzo di rene, è entrato mille volte in ospedale. Un calvario. «I dolori non finiscono mai e sento che pian piano peggioro». Non accetta la libertà del suo carnefice. «Lui esce e io sono prigioniero di questa carrozzina e di tutti questi malanni. È giustizia?». Va detto che Rigato la galera se l'è fatta, 23 anni per una condanna di 30 scontata dai benefici di legge: per l'indulto e per la liberazione anticipata grazie alla buona condotta (45 giorni ogni sei mesi). «E la certezza della pena? E Loris che è stato ucciso? E sua moglie e sua figlia?». E lui? «È stata dura, sì. Perché c' è poco da fare, purtroppo quando sei in carrozzina ti usano come portacenere». Quel giorno con «Neno» c' erano suo fratello Massimo, Stefano Ghiro e Pasqualino Crosta, che poi si è pentito e l'ha incastrato. «Chi prese l'iniziativa di sparare a Creazzo? Semplice: io, Massimo Rigato e Ghiro eravamo all' interno della banca - ha confessato Crosta nel 1996 ai magistrati dell'Antimafia di Venezia -. A far da palo c'era Neno. Il kalashnikov lo usava a sempre e solo lui: bisognava mirare e lui aveva un occhio solo». «Neno» sparò. Nonostante i tre agenti avessero abbassato le armi per via degli ostaggi usati come scudo dai malviventi. «"Fermi non si spara, andate pure", abbiamo detto. È successo invece che quello con il kalashnikov ha preso me e poi Loris ed è salito in auto ridendo: "ghe ne go secà do"». «Ne ho presi due». Caricarono il denaro e sgommarono. Bottino, 40 milioni di lire. Non può dimenticare, l'ex agente. La sedia a rotelle, la sofferenza, la solitudine. Ieri è andato a Padova per l'ultimo intervento. È entrato e uscito dall' ospedale. Senza sapere che proprio lì oggi lavora Massimo Rigato della vecchia banda. «A volte vorrei finirla qui...».

·         Nessuno tocchi il carcere della Giudecca.

Nessuno tocchi il carcere della Giudecca. Comunicato l’osservatorio carceri dell’Unione della camere penali per una bozza dopo l’ispezione disposta dal Dap, alla Giudecca, scrive Damiano Aliprandi il 3 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Nessuno tocchi la Giudecca!», scrivono in un comunicato l’osservatorio carceri dell’Unione della camere penali in merito alla presunta esistenza di una bozza scaturita dopo l’ ispezione disposta dal Dap, all’interno dell’istituto femminile veneziano della Giudecca, dall’ 11 al 14 febbraio, per acquisire notizie utili a chiarire il tragico epilogo dell’agente di polizia penitenziaria Maria Teresa Trovato, detta “Sissy”, ferita a morte da un colpo di pistola esploso all’interno dell’ascensore dell’Ospedale Civile di Venezia, l’ 1 novembre del 2016 e deceduta, dopo oltre due anni di coma, il 12 gennaio di quest’anno. «Abbiamo preparato questo comunicato – spiega a Il Dubbio l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’osservatorio carcere delle Camere penali – dopo che il Gazzettino ha pubblicato la bozza». L’avvocato delle Camere penali spiega che tale provvedimento sarebbe scaturito da una vicenda singolare. «Un parlamentare di Forza Italia – racconta Catanzariti – fa un’interpellanza urgente sulle indagini sul presunto suicidio della giovane agente penitenziaria Sissy Trovato Mazza». Una interpellanza che chiedeva però l’opportunità di verificare «se vi siano stati profili di incompatibilità – si legge nell’interpellanza a firma dei parlamentari Francesco Cannizzaro e Roberto Occhiuto – nella conduzione delle indagini da parte della procura di Venezia». Quindi, nessuna richiesta di agire nei confronti del trattamento penitenziario per le detenute, le quali non hanno nessuna colpa rispetto all’evento tragico che ha colpito la giovane. «Due giorni dopo l’interpellanza – spiega l’avvocato Catanzariti – risponde il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, dicendo che l’ispezione non sarà in procura per verificare la presunta incompatibilità, ma nel carcere». In effetti si legge nella risposta del sottosegretario che il Dap aveva disposto una ispezione e «l’equipe ispettiva delegata – ha enunciato Ferraresi – ha ricevuto l’incarico di espletare tutti gli accertamenti necessari, diretti, in particolare alla ricostruzione delle relazioni intercorrenti tra l’agente Trovato e il contesto organizzativo e gestionale del penitenziario, nonché di verificare i presupposti e gli esiti dei procedimenti disciplinari cui risultava sottoposta la Trovato ed ogni altra circostanza utile riconducibile all’agente penitenziario in relazione all’ambiente di lavoro». Quindi, anche dalla risposta, emerge comunque che la visita non sarebbe mirata a colpire le detenute in generale, ma nel ricercare un fatto circoscritto all’ambiente di lavoro. Ma poi è spuntata questa presunta bozza che il Gazzettino ha reso pubblica. Sarebbero quattro i maxi- punti che attraverso “consigli o prescrizioni” per la futura gestione del penitenziario della Giudecca, riassumono l’esito della visita della Commissione ministeriale. Tra i punti salienti, per i commissari, ci sarebbe la cancellazione della “sorveglianza dinamica”, cioè del fatto che le agenti possano camminare in mezzo alle detenute negli spazi di socialità. Il provvedimento prescritto dalla Commissione, si sarebbe spinto a regolamentare anche le differenze tra quante lavorano all’esterno e nelle vicinanze delle mura di cinta del carcere, da chi non esce mai o presta servizio in cucina: chi è impiegata nella lavanderia e nell’orto del carcere – che potrebbe venire in contatto con il mondo esterno – dovrà dormire in un reparto creato ad hoc. Trattamento identico a chi lavora all’esterno del carcere e già dorme nella zona cosiddetta dei semiliberi, secondo quanto previsto dal regolamento carcerario per il lavoro esterno. L’obiettivo? Azzerare il più possibile i contatti tra l’esterno e l’interno della Giudecca. Anche per questo sarebbe stata tolta alle detenute la possibilità di rivolgersi alla cooperativa Granello di Senape per gli acquisti all’esterno. Semaforo rosso, poi, anche per la tintura dei capelli. «Tutto ciò, oltre che paradossale, ci appare inaccettabile!», scrivono nel comunicato gli avvocati Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro dell’osservatorio carceri delle camere penali. «L’istituto femminile di Venezia – sottolineano i penalisti – si è sempre distinto come esempio paradigmatico sulla via della attuazione di quel finalismo rieducativo della pena evidenziato dall’art. 27 della Carta costituzionale e per questo – concludono – ci sembra del tutto illogico che si possa pensare di sostituire i ponti creati, negli anni, tra la civiltà e la detenzione con dei muri insormontabili come quelli proposti dalla commissione d’inchiesta».

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Milano nelle canzoni.

Milano nelle canzoni: un sondaggio per scegliere quella più bella. Dalla, Gaber, Jannacci, Remigi, poi Vecchioni e Fortis e la generazione di mezzo, Afterhours, Carboni, Articolo 31. Fino a The Giornalisti, Calcutta e Ghali: quante sono le canzoni dedicate a Milano? Oriana Liso il 19 agosto 2019 su La Repubblica. Canzoni dedicate a Milano? Impossibile contarle tutte. Tra quelle che hanno la parola 'Milano' nel titolo e quelle che la citano - o citano quartieri precisi della città - nel testo, sono tantissime. Scritte e interpretate da milanesi ma anche da cantanti "stranieri" che Milano la amano e la odiano. E se il 'Milano vicino all'Europa' di Lucio Dalla è un verso citato spessissimo ancora oggi, quando si parla di canzoni su Milano i nomi di Enzo Jannacci e Giorgio Gaber sono tra i primi che vengono in mente, assieme a quello di Roberto Vecchioni, con le sue "luci a San Siro" e di Alberto Fortis, che cantava i suoi "quadri grigi e i suoi cortei" e diceva a Vincenzo che vivendo a Roma che poteva saperne, di Milano.

Alberto Fortis - Milano e Vincenzo

Enzo Jannacci - Vincenzina e la fabbrica, Ma mi

Baustelle - Un romantico a Milano

Lucio Dalla - Milano

The Giornalisti - Milano Roma

Roberto Vecchioni - Luci a San Siro

Calcutta - Milano

Afterhours - Milano circonvallazione esterna

Memo Remigi - Innamorati a Milano

Articolo 31 - Milano Milano

·         Ecco, è Milano.

Maria Salti, l’ultima lavandaia del vicolo sul Naviglio Grande. Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 su Corriere.it da Elvira Serra. La donna, 96 anni, faceva la magliaia, ma lavava i panni nel «fossetto» con le altre: «Cantavamo sempre i canti tradizionali. Da allora i panni mai più così puliti». Maria Teresa Salti, per tutti «la Maria», parla con un filo di voce, ma si fa intendere benissimo dal figlio settantenne quando gli chiede dove ha lasciato la giacchetta. «L’ho messa sulla sedia per tenere il posto, ma il portafogli me lo sono portato dietro», le risponde lui nell’ufficio della residenza Anni Azzurri Navigli di Milano dove ci incontriamo di pomeriggio, la mamma sorridente e ben coperta, avvolta in uno scialle blu elettrico che si è fatta da sola. «Facevo la magliaia, avevo tanto lavoro: mi chiedevano golf, calze, mutande da uomo. Tutti i maglioni di mio figlio li facevo io». Gli ultimi due, in due giorni, risalgono a dieci anni fa, poi si è dovuta arrendere all’artrite. Dal 1947 a giugno, quando è stata male e si è dovuta trasferire in questa struttura dove paga la retta con i suoi risparmi di una vita («Mi raccomando, lo scriva, perché questi sono tutti soldi di mia madre», insiste con orgoglio Claudio Ripoldi), abitava al numero 6 di vicolo dei Lavandai, al primo piano di una casa a ringhiera del 1520. In affitto da sempre, ultimamente pagava un canone di 320 euro ogni tre mesi, che bilanciava poi con i duecento euro che il condominio le riconosceva per ritirare posta e pacchi. Due locali, bagno nel ballatoio (con il «vantaggio» di usarlo ormai da sola), 27 metri quadrati nel quale hanno vissuto a lungo lei, il marito, il suocero, la cognata e Claudio, quando è arrivato. Anche se il suo mestiere era un altro, fino al 1978 ha lavato i panni nel «fossetto», come tutte le altre lavandaie. «Acquistavamo in drogheria il sapone Sole per i capi bianchi, e il “paltone” per quelli da lavoro. I colorati, invece, li stendevamo su un legno appoggiato sul fossetto. Per la centrifuga c’era il torchio dell’altro cortile», spiega aiutata dal figlio, che quegli anni se li ricorda bene. Racconta: «Nel fossetto ci lavavamo anche noi d’estate, prima non avevamo l’acqua in casa. Erano altri tempi. Ricordo che una volta due famiglie avevano litigato tra loro e non si rivolgevano la parola. Allora una persona, per carnevale, organizzò una festa in cortile con il giradischi e alla fine della serata tutti avevano ballato con tutti e nessuno era più arrabbiato». Era un’altra Milano. In tv, per chi l’aveva, c’erano gli sceneggiati con Alberto Lupo e a Sanremo vinceva Carla Boni. In generale si aiutavano tra loro. «Quando uno scendeva a far la spesa, prendeva sempre qualcosa anche per gli altri», va avanti la Maria. «I figli delle lavandaie la sera riportavano a casa i secchi con i panni lasciati dalle loro madri, che invecchiavano e non avevano più la forza per portarli su da soli», ricorda Claudio. «Io ho trovato il mio lavoro, in una fabbrica di macchine per il caffè, grazie a uno di loro». Lo stesso bagno, uno per piano, lo usavano 21 persone, ma nessuno brontolava. Dice Claudio: «Negli ultimi anni ho convinto mia madre a venire a fare la doccia a casa mia in viale Corsica, due volte alla settimana. Ma per tutti gli altri bisogni ha continuato a usare il bagno esterno, in casa non l’abbiamo mai avuto». La Maria è stata ufficialmente riconosciuta come l’«ultima lavandaia» di Milano un paio d’anni fa dall’Associazione dei Navigli, che le ha regalato una targa e l’ha voluta nel suo calendario. «Le lavandaie le conoscevo tutte, lavavamo piegate in ginocchio e cantavamo le canzoni, La bela la va al fosso, cose così». Canta ancora adesso, quando nella residenza Anni Azzurri c’è il karaoke. Ma i panni, assicura, «non sono più venuti così puliti come allora». Quando la lavatrice non c’era.

Andrea Senesi per il “Corriere della sera - Edizione Milano” il 18 novembre 2019. Più dall' estero che dal Sud, più dalla Brianza che da Napoli, in crescita record da Roma. La città «sanguisuga» raccontata da qualche ministro negli ultimi dieci anni ha attratto 533.210 abitanti «cedendone» in cambio 357.365. La differenza tra «arrivi» e «partenze» è di 175.845 nuovi residenti. Un' indicazione spuria, va detto, e che non tiene per esempio conto di un saldo naturale (la differenza tra nati e morti) che rimane invece stabilmente negativo e di un tasso di fecondità bassissimo. Milano cresce e supera la quota simbolo di 1,4 milioni di residenti grazie alla capacità di attrarre da fuori. Già, ma da dove? La sorpresa è appunto che la città sembra in grado di fare da calamita anche all' estero. Nel 2018 gli iscritti all' anagrafe in arrivo da un paese straniero sono stati 14.444, mentre quest' anno - dati ancora parziali e fermi a ottobre - siamo già vicini a quota 13mila. Prima di attrarre a sé nuovi abitanti da altre regioni, la città fa da richiamo sulla provincia, con più di settemila nuovi arrivi dall' hinterland. Sul podio c' è infine la capitale col dato del 2019, come detto parziale, che è clamoroso: fino a ottobre di quest' anno i romani diventati milanesi sono stati 1.898, a fronte dei 1.591 di tutto il 2018. Milano che recupera abitanti dal circondario, in controtendenza rispetto ai due decenni precedenti, e che attira residenti anche dall' estero e dal Sud. Non stupisce allora che, nella graduatoria delle origini dei nuovi meneghini, dopo Roma si trovino, praticamente appaiate, la Brianza e Napoli. Una provincia lombarda e una del Sud: la classifica prosegue così con una certa regolarità. «Questa città è stata fatta grande nel dopoguerra dall' immigrazione del Sud. Oggi stiamo vendendo un ritorno di tanti giovani dal meridione, che è una cosa buona per noi ma il segno di come questo Paese faccia drammaticamente fatica ad aiutare questi giovani che vengono a Milano», ha detto ieri il sindaco presentando la guida per chi si trasferisce in città. «Ieri - ha aggiunto Beppe Sala - leggevo un articolo del Guardian secondo cui l' 85 per cento dei milanesi non vorrebbe abitare in nessun altro posto. In questi anni Milano ha consolidato il suo percorso. Le università hanno quasi 220mila studenti, le istituzioni culturali sono più solide, c' è un' imprenditoria che cerca costantemente di rinnovarsi e i milanesi sono gente generosa e aperta. La città è insomma ben instradata. Si respira una dimensione internazionale che è quasi irreversibile. Basti dire che a Milano hanno sede 4.300 multinazionali sulle 14 mila totali che operano in Italia». Il passo avanti, secondo Sala, va fatto ora sul tema dell' equità sociale: «Questo è il momento in cui Milano deve dimostrare la capacità di fare qualcosa per gli altri,senza però rallentare la propria crescita». L'assessore all'Urbanistica Pierfrancesco Maran è piacevolmente colpito dai dati provenienti dall' anagrafe. «È impressionante che più di 500mila persone oggi residenti in città non lo fossero dieci anni fa. Questi numeri ci dicono che Milano rappresenta il punto di contatto tra l' Italia e il resto del mondo, visto che le nostre università attraggono un numero sempre crescente di studenti europei». «Ma questi numeri - conclude Maran - ci indicano anche un' altra verità e cioè che la nostra città, per molti giovani italiani, rappresenta l' unica possibile alternativa all' espatrio». Cervelli che non fuggono più. Dopo decenni di decrescita un po' infelice, la prima netta inversione di tendenza negli uffici dell' anagrafe è stata registrata nel 2012: da allora la città è tornata a ripopolarsi, fino appunto alla (ri)conquista simbolica di quota 1,4 milioni. Era la fine di settembre e il sindaco Sala volle festeggiare incontrando di persona il milionequattrocentomillesimo milanese. Un avvocato 31enne originario di Catania, perfetto prototipo del nuovo milanese di questi anni. Una città che cresce, ma che non mette su famiglia nonostante non sia più giovanissima. I single sono più di 400mila, mentre i nuclei composti da più di una persona sono 343.093; di questi, il 47 per cento di due unità, il 27 da tre, il 19 da quattro, il 5 per cento da cinque e via a scalare. Per quanto riguarda le fasce d' età, la più numerosa è quella tra i quaranta e i sessant' anni (31 per cento),seguita dai giovani tra i venti e i quaranta (23 per cento), i residenti tra i sessanta e gli ottanta (20 per cento), i giovanissimi under 20 (17 per cento) e gli over 80 (otto per cento).

Da ilfattoquotidiano.it il 7 novembre 2019. Un poliziotto chino su una donna nuda, un indumento tra le gambe, sdraiata sull’argine del Naviglio. Tre colleghi osservano poco lontano: è morta. È la Milano violenta quella raccontata da La Notte, lo storico quotidiano del pomeriggio che dal 1952 al 1995 ha raccontato la cronaca nera nella città di Francis Turatello, Renato Vallanzasca e Luciano Lutring. Rapine, mitra, fuoriserie, sparatorie con la polizia e bella vita fatta di night club, cocaina e champagne. E poi un giornale che ha immortalato quegli anni con i suoi titoli strillati e tante foto. E sono proprio le foto de La Notte che il fotografo Alan Maglio, il fotoreporter Luca Matarazzo e il giornalista Salvatore Garzillo hanno pubblicato in Ultima Notizia, edito da Milieu (350 pagine, euro 39). Oltre 300 immagini, in maggioranza inedite, per ricostruire quell’epoca di violenza,con il contributo di giornalisti e fotografi che hanno lavorato per La Notte. Il libro nasce come progetto di ricerca nel 2017, ed esce come saggio su progetto grafico del designer Beppe Del Greco. Con il sostegno professionale di archivisti e altri collaboratori, l’indagine attraversa diversi fondi di conservazione che riguardano il quotidiano milanese. Presso il Centro Apice, che raccoglie i fondi bibliotecari più pregiati acquisiti dell’Università degli Studi di Milano, i tre autori hanno modo di studiare una parte significativa della produzione fotografica direttamente dai negativi realizzati dai fotoreporter de La Notte. Su un totale di circa 150mila negativi vengono visionati quelli appartenenti alla sezione “Delitti”, circa 13mila. La suddivisione del materiale in categorie quali “Aggressioni e ferimenti”, “Rapine”, “Prostituzione”, “Droga”, “Incidenti”, “Reati Vari” è la stessa creata dai fotografi di redazione. I negativi sono archiviati in piccole buste di carta, sulle quali sono dattiloscritti il titolo del fatto di cronaca, la data e il luogo, i nomi dei protagonisti. La selezione si concentra sui casi meno noti al grande pubblico, nel tentativo di valorizzare specifiche immagini che raccontano la quotidianità dei tempi. L’aspetto di luoghi e persone racconta i cambiamenti sociali del tessuto cittadino di Milano, attraverso decenni di grande e continua trasformazione urbanistica. Grazie alla stretta collaborazione con le forze dell’ordine, i fotoreporter dell’epoca raccontano i fatti in un modo diretto e spesso senza filtri, pur restando poco conosciuti o addirittura non citati come autori delle immagini. Le ricerche permettono, attraverso una serie di fortunati incontri con cronisti e direttori del quotidiano, di ricostruire la formazione della squadra di fotografi interni alla redazione: Eugenio Barbera, Bruno Benedusi, Osvaldo Ossola, Roberto Spiga e Dante Valenza. Oltre a loro è da segnalare la presenza di alcuni fotografi esterni che collaboravano con il quotidiano attraverso le agenzie fotografiche. Vengono anche setacciate le pagine del quotidiano presso la Biblioteca Sormani di Milano, che conserva copia su microfilm di numerose annate de La Notte, e parallelamente l’archivio della famiglia Nutrizio, che mette a disposizione in formato cartaceo tutti i numeri del giornale rilegati in semestri. In questo modo, è possibile fare un importante raffronto tra la produzione originale dei reporter e il materiale effettivamente andato in stampa, con eventuali tagli di inquadratura e ritocco manuale sulle immagini al fine di adattarsi alle pagine cartacee. Le testimonianze dirette di alcuni protagonisti permettono di dare forma al contesto giornalistico in cui La Notte ha conosciuto le sue fortune. Un mondo passato che ha messo le basi per quello presente. Il libro è stato presentato il 6 novembre alla stampa, alla presenza dei curatori del volume, di Cesare Giuzzi (Corriere della Sera) e del Prefetto di Milano Renato Saccone. Sarò presentato presentato 7 novembre (h 18.00) alla Libreria Hoepli di Milano e, nell’ambito di Book City, il 15 novembre (h 18.30) presso il Circolo Arci Bellezza di Milano.

Oh bej Oh bej, la nostalgia: e se tornassero a Sant’Ambrogio? Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 da Corriere.it. Nel 2023, quando saranno finiti i cantieri della M4, si potrebbe ridare spazio ai banchi della tradizione sotto la basilica del Patrono. L’odore è rimasto quello delle caldarroste. Al limite quello dello zucchero filato. Molto però nel mondo degli Oh bej! Oh bej! è cambiato. Certo, il rito più sentito dai milanesi continua a compiersi ogni anno, dal 5 all’8 dicembre, per celebrare Sant’Ambrogio. Ma dai luoghi alle dimensioni fino alla tipologia di offerta, la fiera si è trasformata, passando dall’animare gli angusti vicoli intorno alla basilica del Patrono all’ospitare un centinaio di migliaia di persone sparse per i vialoni attorno al Castello Sforzesco, per il resto dell’anno mesti posteggi per bus turistici. Con annesse le critiche dei nostalgici e le proteste dei residenti con vista fortezza. Tanto da spingere il Municipio 1 a una sorta di aut aut per il 2020: «Bisogna trovare un’altra location» gridano dal centro storico, caldeggiando un ritorno al passato impossibile, se immaginato tra le vie Caminadella e Lanzone come una volta, non fosse altro che per i minimi standard di sicurezza oggi richiesti. Pertanto a Palazzo Marino si pensa di rievocare il passato con una fiera nella fiera: un parterre selezionato e a forte impronta tradizionale lungo i vialetti verdi da poco riqualificati sul fianco della piazza Sant’Ambrogio. Anche se, precisano dal Comune, «bisognerà aspettare la fine dei cantieri M4». Le origini della fiera risalgono al Trecento. Mostarde, castagne infilate in lunghi spaghi, annegate nel vino bianco. Prima in piazza Mercanti, poi dal 1886 all’ombra della basilica di Sant’Ambrogio. Lì rimase per 120 anni. Un dedalo di vie, piccola casbah dove muoversi come sardine secondo corrente e vin brulé. Un formicaio di persone, davanti a centinaia di bancarelle, molte delle quali abusive. Nel 2006, poi, il trasloco in piazza Castello: «Gli Oh bej! Oh bej! non sono una fiera tradizionale, sono un’agorà che si anima» spiega Giacomo Errico, presidente Fiva, gli ambulanti di Confcommercio. È contrario a un ritorno in Sant’Ambrogio: «Idea radical chic: l’evento ormai muove troppe persone». Quello che sarebbe possibile, piuttosto, è una versione ridotta della fiera. «Sono anni che proponiamo location alternative al mercatone del Castello — attacca Fabio Arrigoni, che con il Municipio 1 che presiede, ha chiesto lo sfratto dalla sede attuale: hanno scartato anche l’opzione itinerante, per valorizzare ogni anno un quartiere». «L’alternativa per il 2020 potrebbe essere far convivere una settantina di bancarelle di qualità a Sant’Ambrogio e altre meno tradizionali altrove», aggiunge. Un’idea accolta, ma in parte anche già stoppata da Palazzo Marino: «Prima della fine dei cantieri per la M4 (dal 2023, ndr), non se ne parla. Poi, nessun problema a valutare la location, ma al massimo per 30 stand». Resta il tema della logistica. La fiera degli Oh bej! Oh bej! negli ultimi anni ha puntato sul numero chiuso. Ai tempi di Sant’Ambrogio si stringevano più di 500 bancarelle. A furia di allargare il giro ormai si vendeva di tutto: biancheria intima, scarpe. Niente a che fare con la storia degli Oh bej!. E così si era tornati a dolci, giocattoli, rigattieri e «presepari». «Privilegiare l’aspetto gastronomico — , protesta Marco Bozzi, uno dei tanti residenti arrabbiati — trasforma la fiera in un ristorante a cielo aperto. Chi abita qui cerca di scappare da Milano durante questi quattro giorni». Quest’anno delle 522 domande arrivate, 355 sono state accolte, seguendo il criterio dell’anzianità rispetto all’evento. Un sorteggio ha assegnato le mattonelle intorno al Castello. «Faccio fiere in tutta Italia, ma gli Oh bej! hanno un fascino unico. Attrae tanti bambini come è giusto che sia a un evento pre natalizio», conclude Pierluigi Serracapriola, che vende articoli natalizi e cristalleria. Vanta un grande record. Partecipa a tutte le edizioni degli Oh bej! dal 1991. Quelle prima le aveva coperte suo padre. Dal 1970.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” l'1 novembre 2019. Con le spalle al sipario, la scenografia dei palchi è di solenne splendore: quattro ordini più una galleria e il loggione, rosso acceso di broccati e velluti, oro a bassorilievi con draghi e volute ed arpe e stemmi, sfolgorio di luci; e quel senso di mistero inquietante che viene dal vuoto, dal silenzio, di un luogo bellissimo destinato alla folla, alla musica, alla storia, a ogni passione. Le fotografie geniali di Giovanni Hänninen nelle ore dei fantasmi (dell' opera) esaltano il racconto immaginario delle sue notti di fasto, vitalità, chiacchiere ed emozioni della mostra Nei palchi della Scala. Storie milanesi al Museo Teatrale (dall' 8 novembre al 20 maggio 2020) diretto da Donatella Brunazzi: dall' inaugurazione del 1778 all' esproprio da parte del Comune negli anni 1920, protagonisti non il mondo della musica e dei suoi divi, ma quello degli spettatori, i palchi che si fanno teatro più del palcoscenico. La mostra curata da Pier Luigi Pizzi, assistente Mattia Palma più una quantità di specialisti, è completata da una mappa digitale in rete dal 7 dicembre (ricerca degli allievi del Conservatorio curata da Franco Pulcini). Guardarsi, farsi guardare, nel gioco delle pareti di specchio, esibire bellezza, ricchezza, potere ma non solo: il teatro è il regno delle signore, il salotto quotidiano dove ricevere gli amici di casta ma anche gli intellettuali, gli illuministi, i patrioti. Nello sfolgorio di migliaia di candele, si affaccia la storia di una nazione che ancora non c' è, il dominio austriaco su Milano, Napoleone che si fa re d' Italia in Duomo, travolto dalla Restaurazione asburgica, il Risorgimento, le Cinque giornate di Milano, e dopo l' Unità, la sanguinosa repressione del 1898 perpetrata dal generale Bava Beccaris; la guerra mondiale senza luci e con i primi raid aerei, gli anni del socialismo e i fasci in azione. Le signore della Scala, dette appunto salonnière , quasi sempre aristocratiche ma anche ballerine, cantanti, caffettiere, diventate mogli di aristocratici, di banchieri e industriali tessili, infine di commercianti arricchiti, hanno per la loro bellezza e intelligenza vite tumultuose, un marito dietro l' altro, vedovanze, annullamenti, celebri amanti, figli fuori dal matrimonio, sono al centro di scontri letterari e artistici, di trame politiche, di sostegno ai rivoluzionari (alcune poi al giovanotto Mussolini); ma riparano i loro eccessi di vivacità e spreco con la beneficenza in vita e lasciando in eredità palazzi, tenute, talvolta tutte le loro vaste ricchezze alle tante istituzioni caritatevoli di Milano: e per esempio la contessa Teresa Giorgi Oppizzoni Paceco, palchettista dal 1844 al 1857, ritratta da Giuseppe Landriani, lascia i suoi averi ai Luoghi Pii Elemosinieri (dall' archivio meraviglioso della storia di Milano oggi di proprietà Golgi- Redaelli). I sensi di colpa delle opulente signore soccorrono l' Ospedale Fatebenefratelli e Sorelle, la Società Edificatrice di Case Operaie, gli Istituti delle Figlie di Carità e dei Bambini Rachitici, la Società per lo Spurgo dei Pozzi Neri, quella dei Sacerdoti Malati per Imbecillità e Demenza, i tanti Rifugi Notturni per i senzatetto, ecc.; un immenso mondo di povertà e abbandono che non ha confini. La mostra alterna i ritratti delle signore che privilegiano Hayez, come la patriota Cristina di Barbiano Belgiojoso Trivulzio o Felicina Caglio Perego di Cremnago, (le signore hanno una quantità di nomi) a quelli dei loro ospiti famosi, spesso amanti come Ugo Foscolo invitato da Antonietta Fagnani Arese. E poi Stendhal, Parini, Verri, Vincenzo Monti. C' è il biglietto di Verdi a Giulio Ricordi, «Casomai un individuo senza guanti si decidesse a venire stasera ci sarebbe un posto nel suo palco?». Il primo ospite del grande palco reale è nel 1778 l'arciduca Ferdinando, figlio dell' imperatrice Maria Teresa d' Austria e governatore della Lombardia, e da allora chi c'è c'è. Nelle gigantografie si affacciano in gran pompa il presidente francese Charles De Gaulle con l' italiano Giovanni Gronchi, la cancelliera Angela Merkel con il premier Romano Prodi e la sindaca Letizia Moratti, Juan Carlos di Spagna solo, la regina Elisabetta II e consorte, e in altra occasione il principe Carlo che applaude accanto a Diana giovanissima con diadema. Manca la storica quanto unica apparizione in un luogo musicale di Berlusconi premier, circondato da suoi pari albanesi o croati (con l'allora consorte Veronica, bellissima e ingioiellata). In compenso, in prima fila in platea, circondato da cardinali musoni, c'è papa Benedetto XVI dai ricciolini bianchi e di bianco vestito. C' è pure il documento fotografico della vocazione all' intrigo passionale dell'opera, cioè una meravigliosa, gioiosa Maria Callas, il corpo sottile fasciato di rasi nel Poliuto di Donizetti (1960), affacciata al palcoscenico a un metro dal palco di proscenio dove Aristotele Onassis si nasconde dietro Grace Kelly e il principe Ranieri. Ritratti, documenti, incisioni, fotografie, giochi da tavolo usati nel foyer, dove anche Alessandro Manzoni giocava d' azzardo, video, persino le tappezzerie di Fornasetti che riproducono i palchi, i disegni di Novello e Brunetta, qualche toilette d' epoca indossate da grandi dame. Il percorso si conclude con un montaggio fotografico a grandezza naturale, lungo una intera parete, ultimo omaggio al potere decorativo delle protagoniste della mondanità spregiudicata e lussuosa del socialismo craxiano, composta da 25 star dei 7 dicembre, abiti lunghi con strascico, pettinature barocche, gioielli, volpi e visoni bianchi: la Begum e Grace Kelly, Elizabeth Taylor e Valentina Cortese, Silvana Pampanini e Evelina Shapira e quella che era da ragazza, tra bellissime, la più bella di Milano, Lina Sotis. C'è molto seduttiva Anna Casati Stampa di Soncino, che nel 1970 sarà uccisa assieme al giovane amante dal marito suicida. E c'è pure Giovanna Borletti Bergonzoni, che nell' inaugurazione dei 1967, tra le prime rivolte studentesche arrivò alla Scala in pagliaccetto, praticamente mutande, stivali alla coscia, il tutto di pizzo bianco, facendo svenire le maschere: non si sa se fu la sua audacia spiritosa o l' anno dopo le uova marce di Mario Capanna, a decretare la fine delle cappe di zibellino e dei diamanti anche tra i capelli nello sfarzo della sera dell'inaugurazione.

Marta Bravi per “il Giornale” il 25 ottobre 2019. Milano come Parigi e Copenaghen. Purtroppo si tratta di un triste paragone giocato sul consumo di cocaina, definito «medio» dai ricercatori dallo Score network, rete di gruppi di ricerca europei nata nel 2010 sotto la guida dell' Istituto Mario Negri e dell' Istituto norvegese con il supporto dello European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction, l' agenzia europea per le tossicodipendenze. In questo caso Milano riveste un primato: milanese è il Mario Negri che ha messo a punto il metodo di rilevazione già nel 2005, considerato oggi un sistema di monitoraggio con valenza scientifica. L' analisi dei metaboliti urinari delle droghe nelle acque reflue, infatti, consente di arrivare a una stima quantitativa dei consumi tra la popolazione. «La metodologia applicata - spiega Ettore (...) (...) Zuccato, dell' Istituto Mario Negri - si è confermata in grado di fornire stime oggettive e dirette dei consumi di droghe a livello di popolazione. Le numerose applicazioni disponibili hanno dimostrato che questo metodo è in grado di fornire regolarmente dati più aggiornati rispetto alle indagini epidemiologiche effettuate a livello nazionale a cadenza annuale o biennale». Dalla ricerca emerge dunque come la cocaina sia la droga più consumata in Italia, in Europa occidentale e del sud - spiccano in questo ambito città come Zurigo, Anversa, Londra e Barcellona - e in Sud America. Sono stati misurati, dal 2011 al 2017, i consumi di cocaina, amfetamina, metanfetamina ed ecstasy in 120 città di 37 Paesi di Europa, Usa, Canada, Sud America e Australia, su una popolazione di 60 milioni di persone. Quanto all'Italia, dove il monitoraggio è stato effettuato principalmente a Milano, «la cocaina - spiega Sara Castiglioni, capo dell' Unità di Biomarker Ambientali del Dipartimento Ambiente e Salute del Mario Negri - è risultata la sostanza più utilizzata tra quelle analizzate, con consumi minori di metanfetamina ed ecstasy e pressochè nulli di amfetamina. Milano - precisa Castiglioni - presenta consumi di cocaina che possiamo definire medi, simili a quelli di Parigi e Copenaghen, inferiori a quelli di Zurigo, Londra e Barcellona. In particolare, il trend di consumo è aumentato dal biennio 2016-2017, dopo un periodo compreso tra il 2011 e il 2015 in cui era rimasto stabile». In pratica: si è passati dalle 8 dosi medie al giorno ogni 1000 abitanti alle 12 contro le 40 dosi di Londra, Zurigo e Barcellona per intenderci. A Milano si viaggia invece sulle 40 dosi giornaliere per mille persone di marijuana. Per quanto riguarda la metanfetamina, sebbene con consumi più contenuti, risulta essere la droga prevalente in alcuni Paesi dell' est Europa (Repubblica Ceca, Slovacchia e Germania dell' est) con consumi molto elevati e in crescita in Usa, Canada e soprattutto Australia. Conosciuta come «Ice», «Shaboo» e «Blue sky» nella forma più pura di cristalli, provocando un effetto simile all' amfetamina, è diffusa soprattutto nel week end. A Milano si è registrato un forte calo tra il 2011 e il 2012, controbilanciato da un aumento dell' assunzione di coca. L' amfetamina, utilizzata in prevalenza in Belgio, Olanda, Germania e alcuni Paesi scandinavi come la Finlandia) non è praticamente diffusa a Milano. Così l' Mdma, ovvero l' ectsasy, vede un picco di consumo nel fine settimana, collegato con le serate nelle discoteche o ai rave, e risulta essere pari a 0,2 dosi giornaliere per mille abitanti, anche se registra un leggero calo dal 2014.

Milano, lo scenario apocalittico in via Frigia. I residenti: «Basta con questo degrado, abbandonati». Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019su Corriere.it da Stefano Landi. Dall’«Amazzonia» al deserto. Soltanto macerie dopo anni di progetti. Palazzo Marino: «Studentato con parcheggio». Non è caduta una bomba. Ma questo è il cratere che vede chi si affaccia dai balconi o dalle camere con vista. Uno scenario apocalittico. Una storia antica per i tempi di una metropoli che corre veloce come Milano. Bisogna andare indietro di almeno una decina di anni. Chi doveva riconvertire l’area, in questo inizio di periferia in direzione Sesto, ha avuto problemi con il dilagare della crisi. Non se n’è fatto niente del progetto di edilizia residenziale. Nel frattempo l’area è rimasta dimenticata lì. Almeno era venuto su un bosco di alberi e arbusti. Pioppi, paulonie, alcune andavano su di una quindicina di metri e gli uccellini ci planavano sopra. Solo che il 21 settembre, ironia della sorte, giorno del primo dei due Friday for Future, che apriva una serie di eventi della green week, l’hanno tirato giù. Sono tornate le ruspe per radere al suolo tutto, lasciando qualche resto per terra. «La nostra piccola Amazzonia», l’hanno ribattezzata alcuni residenti. Ora quello che resta è il deserto di via Frigia. E i balconi che si affacciano sono sempre lì. «Il fatto è che non so più a chi rivolgermi per capire che ne sarà di questa zona sotto casa mia, in questo quartiere inquinato, grigio, malato», spiega Sonia Fagioli, impiegata in una rivista, che qui vive da 10 anni, da quando ancora c’erano hangar e capannoni. In un condominio con ingresso su via Breda che affaccia sull’area in questione. «Anni fa fummo noi residenti a chiamare l’Arpa per monitorare la presenza di amianto in questi terreni, il giorno che buttarono giù quelle costruzioni, scatenando oscillazioni tipo mare forza 4», aggiunge Fagioli. «Da almeno sette anni l’area è totalmente incompiuta: quando piove l’acqua ristagna, quanto c’è vento sale la polvere. A pochi passi da qui c’è pure una scuola, l’Istituto comprensivo Calvino», aggiunge Simone Locatelli, presidente commissione verde del Municipio 2, che si è impegnato a seguire la vicenda. Qui in tanti lamentano l’abbruttimento della situazione immobiliare, con sempre più case e capannoni nuovi ma vuoti. Lo dice la gente per strada, lo racconta sui muri Andrea Salpetre, il Banksy del quartiere, con i suoi graffiti. Si chiedono perché così tanti spazi abitativi e lavorativi finiscono per rimanere inutilizzati, favorendo di fatto il degrado urbano. «Altrove il Comune si è speso per valorizzare e investire in aree verdi. Forse sarebbe stato troppo chic per un’area come questa. Noi non siamo NoLo, la parte nobile del municipio 2. La realtà è che ripuliscono solo i quartieri giusti», continua Fagioli. Che insieme ad alcuni abitanti della zona ha iniziato una caccia al tesoro per capire che ne sarà di questo spazio. Le maniche se l’è rimboccate anche l’associazione ViPreGo, sigla che riunisce i tre quartieri Villa San Giovanni, Precotto e Gorla, ma è sempre difficile fare massa critica in un territorio con pochi negozi, locali e praticamente zero vita sociale. «Ho avviato una chat su Facebook con gli uffici comunali e incrociando con quello che ho trovato in Rete deduco che qui nascerà un parcheggio. Ma destinato a chi? Non credo per gli abitanti del quartiere: la zona è piuttosto comoda per chi cerchi posto per auto, motorini e pure per furgoni, camion e tir». Quello che dovrebbe succedere lo spiega meglio il Comune. È un nuovo progetto, gestito da un altro operatore, la società Castello Sgr. Oltre a un parcheggio pubblico in superficie da 50 posti, nascerà uno studentato a prezzi calmierati, in un’area da 10 mila metri quadri. Come, in che ordine e soprattutto quando non si può sapere ancora, dato che manca il via libera sulle convenzioni. Né è all’ordine del giorno una firma. Il problema restano proprio i tempi. Per nulla allineati con il senso di urgenza misto a rassegnazione di chi vive qui. Ormai condannati a tifare per l’unica prospettiva possibile: un cantiere, magari lungo, su questo paesaggio lunare.

Degrado a Milano: in via Ricordi dormono per strada con materasso. Gli abitanti di via Giovanni Ricordi si sono svegliati con uno spettacolo surreale: un materasso sul marciapiede con una coppia che dormiva. Il degrado dilaga vicino piazzale Loreto. Renato Zuccheri, Martedì 27/08/2019, su Il Giornale. Il degrado a Milano non conosce fine. Se ne sono accorti, questa notte, gli abitanti di via Giovanni Ricordi, non lontano da piazzale Loreto, che si sono svegliati all'alba con uno spettacolo a dir poco surreale: due uomini che hanno deciso di portare un materasso sul marciapiede e dormire. Una scena decisamente strana, che ha però ricordato a tutti la situazione in cui vive il capoluogo lombardo. Specialmente l'area vicina a piazzale Loreto. A pochi passi da corso Buenos Aires e poco distante dalla stazione centrale, i residenti devono fare i conti con la prostituzione, che di notte invade gli angoli delle strade, l'accattonaggio, schiamazzi . La scorsa notte, sempre nei pressi di via Porpora, un gruppo di persone - probabilmente prostitute che "lavorano" su quei marciapiedi - hanno inscenato una vera e propria rissa, con tanto di urla che hanno svegliato gli abitanti dei palazzi. E oggi l'ultima scena di degrado. Gli abitanti sono sul piede di guerra: ma il sindaco e il Comune sembrano avere gli occhi voltati altrove.

Spaccio, bivacchi e scippi. In Centrale è tornato il "suk". Davanti alla stazione i pusher offrono la droga ai passanti. Ubriachi e balordi affollano le aiuole. Marta Bravi, Sabato 19/10/2019, su Il Giornale. Arrivando in Stazione Centrale da via Vittor Pisani si viene accolti da una coltre di fumo densa e «aromatica» e dalle morbide note dal reggae. Un gruppo di nordafricani sta ballando, fumando marijuana e facendo festa attorno alla fermata «Centrale». Qui, attorno agli alberi e nella zona delle aiuole, quando inizia a calare il sole, si concentrano anche un centinaio di nordafricani che bivaccano, mangiano, bevono, espletano i loro bisogni per poi decidere dove spostarsi per spacciare, se dal lato di piazza IV novembre o piazza Luigi di Savoia. Arrivati in piazza Duca d'Aosta il quadro non migliora molto. C'è chi dorme, chi è «attaccato al cartone di vino», chi chiacchiera, chi discute, chi vende oggetti contraffatti, chi dorme. Il degrado aumenta con il calare delle tenebre. Per terra si può trovare di tutto, mozziconi di sigarette o di canne, avanzi di cibo, bottiglie di alcolici vuote e lattine di birra. Il livello di sporcizia è tale che alle prime ore del mattino i mezzi di Amsa passano addirittura con gli idranti per ripulire il piazzale. Alle rastrelliere sono legati «cadaveri» di biciclette, ruote, i mega zaini dei rider e i telai di bici arrugginite. Basta attraversare la piazza, presidiata da un furgone della polizia e camionette dei militari, per venire fermati da venditori di cover, accendini, ombrelli e foulard contraffatti e dagli spacciatori, che offrono ogni tipo di droga come se nulla fosse. «Questo la dice lunga sul clima di impunità che si respira - commenta amaro l'assessore regionale alla Sicurezza Riccardo de Corato -. La stazione Centrale è una zona franca dove delinquenti, borseggiatori, pusher credono di poter fare quello che vogliono, e in effetti è così». Con buona pace dei turisti, soprattutto stranieri che oltre a trovarsi davanti uno spettacolo del genere, spesso sono vittime di borseggi, taglieggiamenti da parte dei mendicanti e molestie. Gli ultimi episodi risalgono al 13 agosto quando una ragazzina di 14 anni è stata molestata, mentre un'altra scippata. Tre giorni dopo una seconda villeggiante è stata derubata davanti all'hotel. Eppure la lista degli arresti e dei fermi è lunga: solo a marzo sono state arrestate 9 persone, donne ricercate, pusher e una borseggiatrice, ad aprile 7, a maggio si contano 8 arresti e due aggressioni a danni di un poliziotto e di un'addetta alle pulizie, a giugno 7 arresti di donne rom incinte, così luglio. «Tutta questa serie di arresti offrono uno spaccato sul tipo di frequentazione che c'è in Centrale - continua De Corato -. Si tratta di esperte borseggiatrici, spacciatori, delinquenti di ogni genere, clandestini. Certo, quando venivano fatti i grandi blitz il risultato era diverso». La percezione che si ha in tutt la zona è di insicurezza: balordi, clochard si sommano ai vagabondi e ai mendicanti che hanno eletto la stazione a proprio ricovero. Gli anfratti, nelle nicchie, ogni pertugio ospita letti di cartone e cumuli di coperte, valigie e bagagli improvvisati. Un quadro che si moltiplica all'ennesima potenza se ci si avventura nel sottopasso di via Ferrante Aporti. «Il vantaggio dei blitz - spiega ancora l'assessore regionale alla Sicurezza - modus operandi del prefetto Lamorgese, era l'azione di pulizia: due volte al mese veniva bloccata l'intera zona e si identificava chiunque si trovasse in quel raggio di azione. Gruppi di cinquanta fino a 100 irregolari venivano portati in Questura per i controlli, spesso risultando clandestini venivano rimpatriati. L'identificazione è l'aspetto in assoluto più temuto da tutte queste persone. Quando ero vicesindaco avevo dato l'ordine ai vigili, di stanza in Centrale, di chiedere i documenti a campione, ma il più delle volte queste persone risultavano clandestine. Nessuno si avvicinava per un po' alla stazione dopo». Una situazione che diventa pericolosa anche per le forze dell'ordine, dato il clima di violenza crescente: a partire dalla violenta aggressione di settembre contro due poliziotti che avevano chiesto i documenti a uno straniero, rivelatosi poi irregolare. Una catena di aggressioni partita ad aprile con due aggressioni ai danni di poliziotti seguita a maggio da un episodio analogo e culminata il 27 luglio in una rissa tra stranieri in cui vengono feriti tre carabinieri. Di settembre si è detto, il 5 ottobre un gambiano si scaglia contro gli agenti per scappare con la droga. Non è un caso che una quindicina di giorni fa il ministro dell'Interno Lamorgese a Milano per il Comitato per l'Ordine e la sicurezza avesse detto: «serve più attenzione sulla Centrale», crocevia da 120 milioni di passeggeri l'anno. «è il biglietto da visita della città». E non è escluso, infatti, che a breve possa esserci un'altra maxi operazione per riportare l'ordine.

Ecco il resort (illegale) dei rom tra ville di lusso e macchinoni. L'area occupata abusivamente a pochi chilometri dal centro di Milano. Sardone: "Gli italiani non possono mettere un tavolino fuori posto e loro si fanno le ville abusive". Eugenia Fiore, Martedì 01/10/2019, su Il Giornale. I rom del campo irregolare di via Cusago 275, a Milano, si sono sbizzarriti. Tra ville di lusso, macchinoni e palme in stile Miami Beach, sembrerebbe quasi un villaggio vacanze. Peccato che sia invece un'area occupata abusivamente a pochi chilometri dal centro meneghino. Una delle tante del capoluogo lombardo. E una delle tante che il sindaco Beppe Sala aveva promesso di chiudere. Una promessa, la sua, ribadita anche nel lontano maggio 2018. "La direzione dei campi rom è la chiusura", aveva dichiarato il primo cittadino dem. Quelli irregolari, ma anche quelli regolari, perché - aveva detto - "non sono un modello di successo né da replicare". Qui i nomadi hanno costruito case illegalmente su un terreno non edificabile. "Si sono costruiti veri e propri villoni", spiega SIlvia Sardone. L'europarlamentare della Lega, sul posto per un sopralluogo, fa notare come questa situazione sia "una cosa incredibile considerando il fatto che agli italiani è impedito anche solo mettere dei tavolini fuori posto se hanno un bar perché vengono immediatamente multati". E poi attacca: "Invece questi si fanno le villone alla Scarface e nessuno dice assolutamente nulla".

Dentro al campo rom (abusivo) tra villone e lusso. Abusivismo e delinquenza. I rom - lo ha detto lo stesso Sala - "non vengono a Milano per vacanza". E infatti oltre al problema abusivismo c'è da considerare il problema delinquenza. Non è da escludere che all'interno del campo siano detenute armi illegalmente. A dar adito a questa ipotesi è un fatto di cronaca di qualche mese fa. A febbraio, infatti, un rom di 35 anni di questo campo irregolare è stato arrestato con l'accusa di aver rapinato un 40enne francese. E cosa gli avrebbe rubato? Niente meno che la sua Ferrari F430, ritrovata poche ore dopo il fattaccio proprio in via Cusago. Il nomade avrebbe finto di organizzare una compravendita e poi è passato all'azione. Al momento di versare la cifra richiesta all'uomo, il rom ha estratto una pistola, l'ha minacciato e dopo è salito sull'auto ed è fuggito. Poi, tornato a Milano, con tutta serenità ha parcheggiato la Ferrari davanti al suo villone abusivo.

Nessuna integrazione. Basta farsi un giro intorno a queste abitazioni al mattino e durante la settimama per avere un quadro della situazione. Bambini e adolescenti ciondolano tra la veranda e il giardino nelle varie villone. Insomma, della scuola non c'è neanche l'ombra. "Ho chiesto perché stanno qui invece di andare a scuola e non ho avuto una risposta", aggiunge Sardone. E dire che a giudicare dal tenore di vita del villaggio abusivo, be', i soldi per i libri scolastici non mancherebbero di certo. E poi senza scuola, si sa, non c'è integrazione. E senza integrazione le strade sono poche e tortuose. Ma la loro è una scelta: nessuno ha imposto a queste persone di barricarsi in una lontana vita in nome dell'illegalità.

Da Pinocchio a Craxi. Storia, misteri e leggende delle fontane milanesi. Pubblicato sabato, 17 agosto 2019 da Giovanna Maria Fagnani su Corriere.it. Pinocchio e San Francesco. I bagnanti misteriosi, la torta nuziale, il paesaggio lombardo. Se i passanti conoscessero meglio le storie delle fontane di Milano — dalle più nobili, firmate da Gio Ponti, dal Piermarini o da Aligi Sassu, a quelle più recenti — le degnerebbero ben di più di uno sguardo distratto. Finora le origini di queste sculture d’acqua, però, erano difficili da trovare, se non sui testi storici. Adesso, invece, c’è un sito Internet dedicato a loro, che narra storie e curiosità. Un portale che non è nato dall’iniziativa di un ente culturale, ma dalla passione di una biologa milanese, oggi in pensione. Cristina Arduini, 68 anni, che per lavoro si è sempre occupata di gestione delle acque. Delle fontane storiche, in realtà, sapeva pochissimo. «Finché, quattro anni fa, passando da piazza Fontana, mi sono fermata a ammirare la fontana che le dà il nome. Ero passata tante volte, ma non l’avevo mai veramente notata. Ho pensato che fosse bellissima e che dovevo saperne di più. E così sono andata negli archivi del Comune e poi nelle biblioteche a cercare informazioni. Mi si è aperto un mondo» racconta. Un mondo che valeva la pena raccontare. Delle sculture, però, non esisteva un censimento. E Cristina, di fontana in fontana, ha cominciato a pensare di farlo proprio lei. Dopo quattro anni — e innumerevoli ricerche all’Archivio Bertarelli, alla Trivulziana, Sormani e alla biblioteca del Castello Sforzesco — lo ha completato e lo ha pubblicato sul sito Fontanedimilano.it. In città ci sono 74 «sculture d’acqua» pubbliche. Di quelle private non esistono rilevazioni. «Il sito invita a riscoprire un aspetto spesso dimenticato e sottovalutato della città, che la ricollega al passato di fiumi, navigli, fontanili, risorgive a cui Milano deve le sue origini — spiega —. Il mio sogno sarebbe ora farne anche una guida cartacea». Quali le tappe imperdibili? «Senza dubbio quella di piazza Fontana, per un secolo l’unica di Milano — dice Cristina —. Disegnata dal Piermarini, fu costruita nel 1782 quando ancora non c’era un acquedotto: l’acqua veniva recuperata da un canale derivato dal Seveso, con speciali macchine idrauliche». In un tour delle fontane d’autore non possono poi mancare i «Bagni misteriosi» di Giorgio De Chirico alla Triennale, vasca dalla forma sinuosa, in cui nuotano un cigno e due bagnanti che sembrano fermi a conversare. La scultura fu inaugurata nel 1973. Lo scultore Aligi Sassu disegnò, invece, l’altissimo monumento-fontana di piazza del Tricolore dedicato alla Guardia di finanza, mentre la firma di Gio Ponti si trova sulla fontana in largo Donegani. E se tra le fontane più fotografate c’è quella di piazza San Babila, pochi sanno che il suo autore, Luigi Caccia Dominioni volle con questa riprodurre il paesaggio lombardo, fatto di monti, laghi e fiumi. Ma se cercate una chicca, andate nei giardini di corso Indipendenza, a vedere il monumento a Pinocchio, realizzato da Attilio Fagioli nel 1956. Sulla sommità sorride Pinocchio bambino, ai suoi piedi giace il burattino e i versi scolpiti di Antonio Negri interrogano lo spettatore: «E tu che mi guardi sei ben sicuro d’aver domato il burattino che vive in te?». Molto conosciuta è poi la fontana di San Francesco, dal 1928, in piazza Sant’Angelo. Infine quella del Castello Sforzesco, soprannominata «Torta nuziale». «Fu costruita nel 1936 in occasione di una visita di Mussolini. Poi fu smontata per i lavori della metropolitana negli anni ‘60 e tornò al suo posto solo nel 2000. Nacque così la leggenda che Bettino Craxi l’avesse portata a Hammamet».

Quelle opere scandalose nel museo chiamato Milano. Ben prima del «Dito» di Cattelan, la città accolse arte provocatoria: dalla Ca' di ciapp alla «Dona con tri tett». Mimmo Di Marzio, Martedì 20/08/2019, su Il Giornale. Quando il 24 settembre del 2010 venne inaugurata la scultura L.O.V.E. di Maurizio Cattelan, un gigantesco dito medio in marmo di Carrara nella centralissima piazza Affari, qualcuno gridò al cattivo gusto. Il leit motiv fu la classica accusa nei confronti di un'arte contemporanea che, per colpire, deve a tutti i costi scandalizzare. Sarà. Eppure, a ben guardare, Milano è costellata di opere pubbliche a dir poco provocatorie dove le allusioni sessuali vennero sbandierate da artisti e decoratori di ogni epoca e che fanno parte da sempre dell'arredo urbano della città, al punto da sfuggire spesso allo sguardo distratto dei passanti. Si parte addirittura dal Medioevo, se consideriamo un particolarissimo bassorilievo custodito al Museo d'arte Antica del Castello Sforzesco, che mostra una figura femminile intenta a depilarsi il pube con le gambe divaricate. Stiamo parlando della famigerata «Tosa impudica», così ribattezzata in quanto l'oscena scultura realizzata nel XII secolo era fino alla metà dell'800 situata nella zona di Porta Vittoria, allora chiamata Porta Tosa. Da cui la metafora dialettale. Sull'origine e il significato dell'opera circolano molte tesi: secondo una di queste potrebbe trattarsi di un'immagine celtica di tipo scaramantico, ma c'è addirittura chi identifica la «tosa» nella moglie di Federico Barbarossa, Beatrice di Borgogna, raffigurata con spregio dopo la rovina di Mediolanum. Facendo un balzo a inizio Novecento, i veri milanesi forse ricorderanno le due femmine voluttuose e decisamente curvy fatte scolpire dall'architetto Giuseppe Sommaruga all'ingresso del suo Palazzo Castiglioni in corso Venezia, uno dei primi gioielli liberty della città. Le due donne, realizzate in una posa provocante che metteva in ampio risalto il lato B, fecero ben presto ribattezzare l'austero palazzo in... Ca' di Ciapp; un epiteto popolare certamente simpatico ma che fece storcere il naso ai borghesi residenti al punto da richiederne lo spostamento. Oggi le due sculture campeggiano, un po' più defilate, in Via Buonarroti 48 all'ingresso di Villa Faccaroni, quella che oggi è la Clinica Columbus. Restando alla sinuosa e ammiccante Belle Époque, impossibile non citare le decorazioni liberty sulla facciata di Casa Galimberti che, tra coloratissime ceramiche a motivi floreali, mostrano l'immagine di donnine mezze nude nell'atto provocante di offrirsi ai passanti. Non è un caso se ancora oggi viga la leggenda popolare, tutt'altro che confermata, che la casa ospitasse un bordello. Eccoci invece al religiosissimo Cimitero Monumentale che, tra i monumenti funebri, ospita una statua dedicata alla nobile milanese Isabella Airoldi Casati, realizzata a dimensioni reali in bronzo nel 1890-1891 dallo scultore Enrico Butti. Pur intitolata «La morente» (la sventurata moglie del conte Gian Luigi Casati morì a soli 24 anni), la nudità e la posa platealmente lasciva della giovane scatenarono già all'epoca dell'inaugurazione vivaci polemiche contro lo scultore. Non si era infatti mai vista un'opera tombale così erotica. Ancora oggi pare sia una delle statue più visitate al Famedio. Tornando al suolo urbano, vale la pena menzionare un'altra scultura di inizio '900 posizionata nella nicchia della deliziosa Fontana dei Tritoni, tra via Andegari e via Romagnosi, a due passi dalla Scala. La statua, allegoria neoclassica del risparmio realizzata dall'architetto Alessandro Minali, venne presto ribattezzata dai milanesi la dòna di trè tètt (la donna con tre tette). Il terzo seno è in realtà solo uno sferico salvadanaio tenuto tra le mani della giovane donna seminuda. Ma l'ambiguità (voluta?) rimane. Infine, tra le opere pubbliche più celebri divenute un simbolo sessuale, sia pur a sfondo scaramantico, non si può non citare l'internazionale mosaico del toro nell'Ottagono della Galleria. Omaggio alla Torino di Vittorio Emanuele, l'animale è ritratto con gli attributi ben in vista, simbolo di potenza e vigore, e usanza vuole che porti fortuna schiacciarli con il tacco della scarpa ruotando su sè stessi. Una fama evidentemente meritata, visto che ogni tentativo di restauro del «buco» dura soltanto pochi mesi...

Milano mette il velo. Cittadinanza onoraria alla paladina delle iraniane. Ma le donne con il volto coperto sono sempre di più. Alberto Giannoni, Domenica 18/08/2019, su Il Giornale. Milano mette il velo. Anzi, il niqab, la veste pesante (e spesso scura) che copre il volto e il corpo delle donne, nascondendole al mondo e negando loro un’identità. Milano mette il niqab, dalle vie del centro ai casermoni di periferia. Donne pesantemente velate da tessuti di pregio si vedono nel Quadrilatero della moda, in piazza San Babila e in via Montenapoleone, in quel pezzo di città che anche in questi giorni richiama turisti ricchi da ogni parte del mondo, compresi i Paesi del Golfo. Sono spesso saudite, accompagnate da facoltosi mariti vestiti sportivi e sono cariche di borse, risultato di uno shopping con alti livelli di budget. Sempre più frequenti, quasi una nuova moda, sono le «veline» semitrasparenti che si accompagnano al rigido niqab ma lasciano sperare nel passaggio a veli meno invasivi, o almeno fanno supporre una qualche attenuazione di una «regola» che in questi giorni di gran caldo salta agli occhi ancor di più. «Potremmo definirlo velo 2.0, si vede e non si vede - spiega Maryan Ismail, sufi ed esponente della comunità somala, da anni impegnata nella battaglia per la libertà delle donne musulmane - un timido passo probabilmente per girare in hijab. Mettere il velo così trasparente su un niqab significa forse volerlo abbandonare, per poi passare al hijab. Il velo davanti alla bocca è più semplice toglierlo con una specie di mix fra niqab e hijab. Le donne modificheranno i precetti attraverso una moda inventata, e poi inventeranno qualcosa per abbandonare anche il hijab rivisitandolo in chiave moderna. Noi attendiamo con speranza». Ma donne velate si vedono anche nelle vie dei quartieri più periferici, nell'altro «quadrilatero» per esempio, quello San Siro, o davanti ai casermoni delle case popolari ormai quasi interamente abitati da stranieri. Sono due mondi distinti, che non si toccheranno mai direttamente, molto più distanti delle poche fermate di metropolitana che accidentalmente li separano. Due mondi lontani eppure uniti da questo denominatore: le donne sono nascoste, prigioniere, non si devono guardare, sono «proprietà privata» di mariti abbigliati con bermuda e maglietta. In alcuni paesi europei si stanno adottando normative che regolano il velo. Ultima l'Austria. Dopo la messa al bando due anni fa di burqa e niqab negli uffici pubblici, e dopo lo stop stabilito a novembre per i veli negli asili come misura anti-indottrinamento religioso, a maggio Vienna ha vietato il velo nelle scuole elementari, approvando coi voti della maggioranza di centrodestra - ora andata in crisi - una legge che proibisce di «indossare indumenti religiosi che coprano la testa». Un anno fa anche la Danimarca ha approvato una legge che proibisce burqa, niqab e altri «veli» che coprano il viso. Ma tre anni fa anche la Regione Lombardia ha vietato il velo negli uffici: «Per ragioni di sicurezza è vietato l'ingresso con il volto coperto», si legge nei cartelli che impediscono l'accesso col volto «travisato» all'ingresso degli ospedali e degli uffici regionali. Sono accompagnati a simboli simili a quelli indicati dal codice della strada. Un casco integrale accanto a un passamontagna e a un niqab, appunto. Per quanto timidamente questa usanza cambi, il velo pesante imposto alle donne resta strumento e simbolo di oppressione. E Milano è la città che ha conferito la cittadinanza onoraria a Nasrin Sotoudeh, avvocata paladina delle donne iraniane, condannata a 33 anni di carcere e a 148 frustate. Alberto Giannoni

Milano, la Stazione Centrale come il "terzo mondo" tra bivacchi, degrado e spaccio. Sono tornati numerosi i bivacchi in Stazione Centrale a Milano. La zona adiacente al principale scalo ferroviario meneghino è tornato a essere presa d'assalto da migranti e disperati. Pina Francone, Martedì 23/07/2019, su Il Giornale. Sono (ri)tornati numerosi i bivacchi in Stazione Centrale a Milano. La zona adiacente al principale scalo ferroviario meneghino è tornato a essere presa d'assalto da migranti e disperati, che si accampano nei giardini attigui, aumentando il degrado di una fetta di città già problematica, in cui lo spaccio e la criminalità proliferano. Nei giorni scorsi, ilgiornale.it era stato sul campo, trovando una situazione al limite da piazza Duca d'Aosta fino a viale Vittorio Veneto e scovando appunto gli accampamenti improvvisati di decine di persone. Oggi, a due settimane di distanza, la situazione non è migliorata e, anzi, è forse anche peggiorata. "Lo stato di piazza Duca d'Aosta non è degno di una città che si professa internazionale come Milano, ma semmai di qualche paese del terzo mondo. Di prima mattina ci sono decine e decine di africani stesi a terra in ogni angolo a dormire. La mela del Pistoletto è il luogo preferito dagli extracomunitari per passare la notte, ma anche le aiuole e le grate della metropolitana sono prese d’assalto. Anche la vicina piazza Luigi di Savoia è assediata da decine di immigrati e sbandati di ogni etnia, così come il lato di via Ferrante Aporti vicino al Memoriale della Shoah. Passeggiando da queste parti non sembra nemmeno di essere a Milano, ma in qualche villaggio africano. È questo il tanto decantato modello Milano che la sinistra non si stanca mai di presentare come fiore all'occhiello dell'accoglienza?", è la denuncia e l’affondo di Silvia Sardone, consigliere comunale ed europarlamentare della Lega, che punta il dito contro l’amministrazione Sala. Dunque, l’esponente del Carroccio attacca ancora: "Nella zona della stazione Centrale, che dovrebbe essere un bel biglietto da visita per i turisti che arrivano a Milano, ogni norma di buongusto e decoro è sospesa: si trovano immigrati che urinano sulle piante, che si lavano nelle fontanelle, che si ubriacano e che spacciano. Le aiuole sul lato del McDonald's sono letteralmente occupate da gruppi di africani che bivaccano dalla mattina alla sera, mentre le aiuole recentemente riqualificate verso via Vittor Pisani sono la centrale dello spaccio a cielo aperto. Finalmente ieri la giunta comunale si è decisa a parlare di daspo urbano: anche se non sarei molto sorpresa se l'ideologia tipica della sinistra venisse ancora anteposta alla sicurezza dei cittadini e dei turisti nella zona della stazione".

Il sistema» della droga sui Navigli: cambi turno e ponti militarizzati. Pubblicato domenica, 06 ottobre 2019 su Corriere.it da Andrea Galli. Sei arresti in via Corsico, i covi della cocaina nel «fortino Gola». Dall’una di notte lo spaccio dei richiedenti asilo . La base nelle case Aler. Dice un vecchio sbirro, di casa da queste parti, che se non cambia la strategia complessiva non ne usciamo più. Ennesimo problema di Milano prettamente demandato alle forze dell’ordine, a lungo volutamente ignorato dalle istituzioni anche per non infastidire quel che resta dell’area antagonista cittadina e la sua «resistenza» contro gli sgomberi degli abusivi, lo spaccio di droga intorno ai Navigli, soprattutto quello Pavese che verte sul cancro in metastasi delle case popolari del «quadrilatero» di via Gola, ha visto, nella notte tra venerdì e ieri, una grande operazione. Grande, attenzione, nella sua fase operativa, con l’impiego di decine e decine di carabinieri, sempre peraltro in tempi di carenze d’organico che a Roma non riescono a recepire/risolvere. I carabinieri, aiutati dalla preziosa polizia locale e dalla sua unità contrasto stupefacenti, hanno faticato per quattro ore, dall’una in avanti, obbligati com’erano a ideare una strategia cinturando la zona e agendo in simultanea su più fronti, manco al centro ci fosse un pericoloso latitante armato di bombe. Non potrebbe essere diversamente: non è stato il ricorso alla spettacolarizzazione ma la necessità di fronteggiare il «sistema» della droga dei Navigli. Che è il seguente, come confermato da quattro distinte fonti del Corriere tra Questura e Comando provinciale dell’Arma, per buona pace di chi pensa che Milano sia un villaggio turistico ignorato dalla criminalità, macro o micro che sia. I carabinieri hanno arrestato sei spacciatori, tra i 26 e i 33 anni, tutti africani (Gambia, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal), personaggi noti e stranoti, già visti e controllati in stazione Centrale, uomini che alternano la consueta attesa biblica per sapere se hanno diritto o meno allo status di rifugiato, a brevi permanenze in carcere. A volte una manciata di ore, il tempo di riposare, uscire e ricominciare daccapo. Sui ponti del Naviglio Pavese, gli africani solitamente vendono droga (cocaina ma in larga parte marijuana) a partire proprio dall’una di notte. Prima non possono: ci sono gli altri, che poi sono quelli che comandano. Ovvero i marocchini. Originari dell’abituale zona di Béni Mellal, i marocchini hanno abitazioni e appoggi logistici in via Gola, nei caseggiati dell’Aler sui quali da anni si vocifera di interventi radicali, puntualmente rinviati spesso per ragioni di convenienza politica, e chissà mai che nei prossimi mesi sia la volta buona. I marocchini vivono in appartamenti occupati abusivamente, protetti da pitbull, mentre la droga, che nel loro caso è la cocaina, è imboscata nelle cantine, un buco nero privo di numeri, lettere, nomi e cognomi sulle porte, dunque gli spazi son di tutti e di nessuno, con accesso libero, e anche questi, insieme agli ingressi dei palazzi e alla stessa via Gola, assai sorvegliati da sentinelle. Esiste il fenomeno, anche se residuale, dello stupefacente custodito da incensurati e disgraziati (vecchi, disoccupati, malati cronici, ragazze madri) dietro «stipendi» comunque modesti, ma è più frequente in altri quartieri, ad esempio il Giambellino dov’è una sorta di regola. Una differenza sostanziale tra i due gruppi, quello dei marocchini e quello degli africani, che si dividono il territorio in pace ché c’è pappa per tutti (la famelica richiesta di droga da parte degli italiani è alla base dell’intensità dello spaccio), riguarda la gestione dello stupefacente. Gli africani tengono la droga nelle immediate vicinanze, grazie a complici, una delle tre batterie in azione (l’ultima è formata dalle guardie che monitorano l’accesso ai ponti e le strade nelle vicinanze), mentre una volta concluso l’accordo i marocchini ti portano «dentro» via Gola per la consegna delle dosi. La costituzione urbanistica e l’esperienza degli spacciatori hanno alzato il livello di impenetrabilità, e di conseguenza la difficoltà di indagare e arrestare. Quando ricevono la richiesta di cocaina, gli africani ricorrono ai marocchini, e dunque si capisce, non è un processo mentale complicato, che il nodo era, è e rimarrà via Gola. Il bilancio dei sequestri dell’altra notte (cinquanta grammi di marijuana e cinquecento euro) a fronte di mezzi, risorse e tempo impiegati, e ancor prima della preparazione dell’attività, conferma la sproporzione tra la vita reale, ossia lo spaccio — il suo potere, il suo fatturato, la sua impunità — e la convinzione che le forze dell’ordine possano ancora metterci una pezza e far nascondere, per un po’, la polvere sotto lo zerbino.

Il festival dell'abusivismo dei centri social fra bar, lotterie e fuochi. Eventi dei centri sociali da oggi per tre giorni Protesta Lega e Forza Italia: «Addio legalità». Alberto Giannoni, Venerdì 12/07/2019, su Il Giornale. Si festeggia dieci anni di impunità. Ovviamente in piazzale Selinunte, epicentro di un quartiere, San Siro, che fra gli altri problemi patisce anche la presenza incontrollata dei centri sociali, che spesso intrattengono rapporti ambigui con le occupazioni degli alloggi popolari in mano al racket. È il «Comitato Abitanti San Siro» che dirama gli «inviti». «Invita a festeggiare insieme 10 anni di lotta in 3 giorni di festa». Anche quest'anno, dunque, in piazzale Selinunte andrà in scena la «San Siro Street Festival»: da domani a domenica si alterneranno «laboratori», musica, sfilate, giochi e lotterie popolari, fino alla conclusione pirotecnica fissata per le 22.30: i fuochi d'artificio. Il centrodestra dà battaglia e protesta. «Il centro sociale Cantiere, il comitato Abitanti di San Siro e tutti i loro sodali che occupano abusivamente gli alloggi popolari di San Siro - attacca Silvia Sardone, eurodeputata e consigliera comunale di Milano - saranno in piazza per festeggiare e fare affari in nero. Infatti sarà attiva una street food sponsorizzata dalla Taverna Sociale, il ristorante del Cantiere che ho visitato in incognito, e un servizio bar con cocktail e birre». Sardone enfatizza il carattere etnico della manifestazione, e arriva addirittura alla conclusione per cui a San Siro «per gli italiani non c'è più posto». E chiede: «Il Comune ha dato tutte le autorizzazioni necessarie allo svolgimento di questi eventi? In caso contrario, come auspico, mi auguro che interverrà per impedire l'adunata di centinaia di abusivi». Per Sardone, dietro «una solidarietà di facciata» si nasconde ben altro. «A causa del lassismo della sinistra - accusa - San Siro è diventato un quartiere off limits dove i centri sociali si sentono liberi di fare qualsiasi cosa, dai picchetti anti-sgomberi ai fuochi d'artificio per festeggiare i dieci anni di occupazione». «Piazzale Selinunte - prosegue - verrà requisita da personaggi che per le loro condotte non dovrebbe avere nessuna voce in capitolo a Milano». «Negli anni scorsi - ricorda - abbiamo assistito all'umiliazione della Polizia Locale, costretta a trasferire il proprio comando mobile per l'arrivo degli abusivi, chissà se quest'anno l'amministrazione comunale si schiererà dalla parte della legalità. Se un qualunque cittadino, non appartenente ai centri sociali, si mettesse e spillare birra o infarcire panini in mezzo alla strada verrebbe giustamente fatto sloggiare in due minuti: e allora perché con gli antagonisti si usano due pesi e due misure?». Sono le stesse questioni che pone Alessandro De Chirico di Forza Italia, impegnato già in passato a verificare le modalità di svolgimento di questa «festa»: «Negli anni scorsi, andava così - spiega - veniva chiesta l'occupazione di suolo pubblico per un piccolo gazebo e poi accadeva di tutto. Lunedì presenterò una nuova interrogazione». Ma - prevede - «come ogni anno a nulla serviranno le proteste di noi residenti che chiediamo solo il rispetto della legge, delle norme igienico-sanitarie e della quiete pubblica». E rivela: «Ho parlato personalmente con Luca Camerano, AD di A2a, per sapere se anche quest'anno i tecnici di Unareti faranno gli allacci alla rete pubblica e purtroppo mi ha anticipato che probabilmente la Prefettura darà l'ordine di procedere per motivi di sicurezza. È davvero avvilente dover riconoscere che Milano è ostaggio dei centri sociali e che le istituzioni, davanti a questi fuorilegge, sventoleranno ancora una volta bandiera bianca. Spero almeno che, a differenza degli anni passati, durante i fuochi d'artificio ci sia una presenza massiccia di forze dell'ordine a presidio del patrimonio Aler per scongiurare le occupazioni abusive degli alloggi popolari. L'anno scorso furono ben quattro. Mi chiedo inoltre cosa farà il Ministro degli interni Salvini che aveva promesso il ritorno della legalità a Milano».

Ecco, è Milano. La città laboratorio dove le cose succedono. E da Luini c’è sempre coda. Chi approda a Milano capisce che l’incontro con questa città può cambiare in meglio la sua vita. Carmen Mora il 28 giugno 2019 su Il Dubbio.  Ecco, è Milano. Piace subito. Milano. Una città quasi perfetta capace di farti sentire immediatamente parte di qualcosa. Chi approda a Milano capisce che l’incontro con questa città può cambiare in meglio la sua vita. Beninteso, non tutto funziona e piace fino in fondo. I limiti della città sono numerosi e consistenti. Le rotonde inutilmente semaforizzate che ingorgano il traffico anziché snellirlo, il pavé con pericolosi lastroni sconnessi, i Suv parcheggiati sui marciapiedi, gli insidiosi binari del tram che diventano trappole per bici e scooter, le zanzare in agguato al crepuscolo ormai immuni a qualunque sostanza repellente, i tassisti ostinati che rifiutano il pagamento elettronico, le periferie conciate male, la stazione centrale trasformata in un campo profughi a cielo aperto, gli “ape”, i “raga”, lo spaccio selvaggio, l’assenza di orizzontalità e la coda permanente da Luini. Ma è il ritmo vibrante della città a catturare. La sua straordinaria energia e il continuo fermento. Come narrava un illustre aforista francese, “Vi sono difetti che, sapendoli ben adoperare, fanno miglior figura delle virtù”. La forza di Milano nasce infatti da dentro, da chi la vive tutti i giorni e dalle centinaia di migliaia di pendolari che la intrecciano operosi durante la settimana. Milano non fa distinzioni tra chi ci è nato, chi ha discendenze meneghine pure e chi arriverà domani. Milano è la città dove le cose succedono. Basta osservare i cantieri aperti in ogni quartiere, gli edifici in costruzione, le archistar che fanno a gara per lasciare il proprio segno, gli eventi imperdibili, le rivoluzionarie installazioni, gli ospedali che salvano la vita, le offerte culturali innovative e tanta, tantissima bellezza nascosta. Gli scorci migliori della città si scovano tra le vie meno trafficate nei cortili interni dei palazzi considerati tra i più belli del mondo e, troppo spesso, inaccessibili. Milano non offre una bellezza sfacciata. E per sfatare un luogo comune non offre neppure soltanto rumore. Offre insoliti e suggestivi angoli di quiete e tranquillità a due passi dal caos. E’ una città laboriosa, modesta, capace di grandi intuizioni che ha avuto il coraggio di investire sulla valorizzazione di alcune aree urbane senza perdere di vista la propria identità. Ci sono tanti luoghi che sono i nuovi luoghi di questa Milano più popolare, sicuramente autentica e l’unico modo per comprenderla è uscire dalla cerchia dei bastioni ed entrare, ad esempio, in uno dei bar africani di Porta Venezia dove la mescolanza tra un quartiere che rimane molto milanese per la sua architettura e il cambiamento demografico risulta davvero originale. Pensiamo a Isola, zona di vocazione operaia e artigiana, oggi completamente rinnovata e simbolo della rigenerazione urbana, oppure alla bellissima Via Sarpi, area pedonale riqualificata ed arteria principale del quartiere cinese della città, con tante cose da offrire e da raccontare. Nel microcosmo della Chinatown milanese convivono a stretto contatto botteghe storiche meneghine con l’emergente realtà commerciale cinese in un contesto multi- etnico che sa farsi specchio del mondo. Esaltante e imperdibile la visita al più grande supermarket etnico italiano, con più di diecimila prodotti alimentari tipici, dalla Thailandia al Brasile, che restituisce un esperimento di internazionalizzazione tra i più riusciti della città. E poi la divertente e inaspettata diffusione dello street food, che a Milano è diventata una tendenza apprezzata di ispirazione squisitamente newyorkese o gli straordinari quartieri residenziali dell’alta borghesia, come Vercelli e Conciliazione, con i palazzi austeri di fine ottocento, i giardini segreti, le cascate di edera sulle facciate, gli alberi ultra centenari e i citofoni dorati tirati a lucido. Ma la vetrina milanese offre anche la realizzazione dell’ambizioso polo urbano di Milano Citylife, uno dei piani di riqualificazione più importanti d’Europa, concepito come nuovo modello di vivibilità per la residenza, il lavoro e il tempo libero. Il progetto comprende tre immensi grattacieli con funzioni direzionali dal forte impatto visivo, immobili residenziali di prestigio, uno shopping district e la più grande area pedonale della città in una dimensione quasi futuristica che rende possibile l’accostamento a qualunque grande e solida metropoli della comunità europea. Milano è un laboratorio creativo capace di continui rinnovamenti, spesso in anticipo sul resto del Paese grazie ad un ritmo vitale decisamente più accelerato che nelle altre città. Milano è viva. La gigantesca scultura che riempie Piazzale Cadorna, svettando tra auto e tram con il suo ago in acciaio e il filo multicolorato che sbuca in un altro punto della piazza con il nodo finale, racchiude simbolicamente il doveroso tributo ad una città sorprendente, laboriosa, che non sempre ti aspetta in un processo di metamorfosi urbana che è il vero motore di sviluppo per l’esplosione di tutto il resto. In pochi conoscono il passato fluviale di Milano e il labirinto di corsi d’acqua che si intersecano sotto la città. Le giunte comunali dell’ultimo secolo, a causa dell’aumento costante del traffico automobilistico e l’inquinamento crescente delle acque, non lasciarono purtroppo scampo ai numerosi canali milanesi. Provate a pensare se dove oggi corrono gli autobus e i tram tornassero a scorrere le vie d’acqua e i suggestivi navigli di un tempo forse, la città, risulterebbe davvero perfetta.

·         Milano, i 50 anni della Metropolitana.

Milano, i 50 anni della Metropolitana. Linea 2: la storia e le foto. La M2 o "verde" fu inaugurata il 27 settembre 1969. La seconda linea della rete milanese è lunga 39,6 Km e trasporta 350mila passeggeri al giorno. Edoardo Frittoli il 27 settembre 2019 su Panorama. Sabato 27 settembre 1969 il primo convoglio  della seconda linea della rete metropolitana di Milano si muoveva dalla stazione di Cascina Gobba diretto al primo capolinea di Caiazzo con a bordo le autorità (primo tra tutti il sindaco Aldo Aniasi) e una folla di fortunati passeggeri ospitati gratuitamente per il viaggio inaugurale. Ad oggi la linea "verde" è la linea più lunga d' Italia (39,4 km) sugli attuali 96,8 km complessivi che compongono l'intera rete della metropolitana milanese. La MM2 è anche la linea che attualmente trasporta il maggior numero di passeggeri al giorno (circa 350.000). E'anche l'unica metropolitana di tipo classico in Italia ad avere un tratto di percorrenza in superficie. Ben 35 stazioni sulle 113 in esercizio sulle 4 linee attualmente in esercizio sono sulla "linea verde".

Le cifre della seconda Metropolitana di Milano. Per realizzarla, nella seconda metà degli anni '60 furono impiegati 4 milioni e 100 ore di lavoro. 11 milioni di kg. di ferro, 100.000 m3 di calcestruzzo e 650 mila m3 di scavi che avrebbero generato, se accumulati, una montagna di terra grande due volte il Duomo di Milano. Ed ancora: 11.000 metri di tubi di acqua e gas riposizionati in seguito ai lavori, così come i 14 km. di cavi telefonici e i 3 km. di rete fognaria ricostruita. Per realizzare il progetto della nuova "verde", il Comune di Milano impegnò l'astronomica cifra di oltre 46 miliardi di lire, stanziati poco dopo la già onerosa realizzazione della MM1 terminata appena 5 anni prima. Prima linea metropolitana pensata per il collegamento extraurbano, la MM2 fu progettata per collegare l'asse cittadino da Nord-Est a Sud-Ovest. Il primo tratto ad essere aperto all'esercizio nel settembre 1969 fu quello tra le stazioni di Cascina Gobba e Caiazzo (nei pressi della Stazione Centrale), per una lunghezza complessiva di 6,3 Km.

Così fu fatta la "verde". La Linea 2 era all'epoca una metropolitana molto innovativa, anche nei confronti della sorella maggiore, la linea "rossa". A partire dalla tecnica costruttiva, che vide l'adozione su parte delle gallerie della tecnica di scavo detta "a foro cieco", ossia realizzata eliminando la necessità degli scavi a "cielo aperto" già utilizzati per la linea 1. La soluzione permise di scongiurare i gravi problemi di viabilità che avevano paralizzato Milano tra il 1957 e il 1964 durante i lavori per la prima linea. Questo tipo di scavo permetteva inoltre di ridurre l'impatto in aree intensamente urbanizzate e caratterizzate da fondi irregolari e da immobili e monumenti particolarmente pregiati e delicati, parametri in cui Milano rientrava appieno. Il progetto della MM2, il cui tracciato correva ad una profondità maggiore rispetto a quello della MM1, vide l'adozione in parte della linea di due gallerie parallele a binario singolo intervallate da parti a galleria unica come per la linea "rossa". Questa disposizione si tradusse in una differente conformazione delle stazioni: alcune erano caratterizzate dalla banchina unica, altre dalla banchina doppia ai lati dei rispettivi binari, altre ancora dalla banchina centrale. In un tratto della Linea 2 (tra Cadorna e Porta Genova FS) corre lungo binari in gallerie sovrapposte. La linea verde è l'unica linea italiana che prevede un tratto in superficie. I convogli escono dalla galleria all'altezza della stazione urbana di Cimiano (lungo il viale Palmanova) e percorrono la tratta extraurbana a livello stradale oppure su sopraelevata (soluzione scelta per evitare problemi alla viabilità del comune di Cologno Monzese). Oggi anche l'ultimo tratto per il capolinea di Assago Forum si trova in superficie. Per quanto riguardava i sistemi di comunicazione tra le stazioni anche in questo caso la linea "verde" fu dotata di sistemi all'avanguardia: tutte le stazioni erano dotati di linee telefoniche selettive e di telescriventi collegate tra loro e con la centrale di comando che la nuova metropolitana condivideva con la linea 1 presso la stazione di San Babila. Le banchine erano controllate dagli agenti di stazione tramite telecamere a circuito chiuso a loro volta collegate con la centrale di San Babila dove gli operatori potevano selezionare le immagini dalle singole stazioni e controllare i sistemi di sicurezza. Per quanto riguarda le stazioni, queste erano dotate di scale mobili che servivano i diversi livelli di ingresso stazione e mezzanino (la sola stazione di Loreto di interscambio con la linea 1 ne aveva ben 11). Il primo capolinea, quello di Cascina Gobba, fu messo in uso già dal 1968 come stazione delle linee tranviarie Celeri dell'Adda, già in funzione dagli anni '50 per collegare Milano con i paesi sulla tratta per Vaprio d'Adda. Per un periodo dal 1969 al 1972 la ferrovia leggera condivise i binari con i convogli della MM2 e le relative stazioni extraurbane, alcune delle quali (come ad esempio le stazioni di superficie di Bussero, Cascina Burrona, Villa Fiorita e Villa Pompea) non erano previste nel progetto iniziale ma furono aggiunte tramite la costruzione di semplici strutture prefabbricate le cui banchine erano collegate da un ponte esterno. Il materiale rotabile destinato alla linea 2 era ancora in costruzione alla data dell'inaugurazione. Per questo motivo durante il primo periodo di esercizio furono utilizzate le motrici ed i rimorchi della linea rossa con l'aggiunta di un pantografo di linea (la rossa è elettrificata con terzo binario) e l'adattamento dei motori al voltaggio della Linea 2 (1500 V a differenza dei 750 V della MM1). Ai convogli della nuova metropolitana fu aggiunto, a causa della differente disposizione delle aperture delle porte nelle varie stazioni, un sistema automatico di riconoscimento della banchina al fine di scongiurare pericolose aperture accidentali. Le prime motrici, praticamente identiche a quelle della "rossa", saranno consegnate a partire dal 1970 una volta uscite dalle officine OM e Breda Ferroviaria. Caratterizzate dalla cassa ondulata color grigio con bande verdi, le motrici ed i rimorchi dei primi 44 treni in dotazione alla "verde" sono rimaste in esercizio per oltre 40 anni. L'ultimo accantonamento delle cosiddette "Tradizionali" è previsto entro la fine del 2020. Attraverso gli anni sono state apportate numerose migliorie tecnologiche come l'accensione a inverter al posto di quella a reostato o l'applicazione di nuove porte elettriche al posto delle originali pneumatiche. Anche nella disposizione dei posti a sedere cambiò negli anni e vide l'eliminazione delle due serie di sedili fronte marcia alle estremità delle carrozze per privilegiare la capienza dei posti in piedi.

La linea due e il suo avanzamento. L'evoluzione della Linea 2 proseguì già all'indomani dell'inaugurazione del 27 settembre 1969. Gli scavi erano già avanzati verso la stazione nevralgica Centrale FS, la cui apertura il 27 aprile 1970 metteva per la prima volta in collegamento diretto due stazioni urbane delle Ferrovie dello Stato: la Centrale, appunto, e la stazione di Lambrate. La tratta extraurbana tra Cascina Gobba e Gorgonzola fu inaugurata il 1 dicembre 1972 e da quel momento sparirono dalla circolazione le vetture tranviarie delle "Linee celeri dell'Adda" sostituite definitivamente dai convogli argentei della M2. La nuova linea metropolitana fece proprio un precedente progetto riguardante proprio le vecchie linee tranviarie ormai soppresse, dando il via alla diramazione Cascina Gobba-Cologno Nord. Lungo 3,3 chilometri (parzialmente percorsi in sopraelevata) fu inaugurato nel 1981 e comprese anche un deposito per i convogli che andava ad affiancarsi a quello attiguo alla stazione di Gorgonzola. Il tratto urbano vide un'estensione più lenta e difficoltosa. La stazione di Cadorna fu attivata soltanto il 3 marzo 1978, a quasi 10 anni di distanza dal primo tratto della "verde". I lavori furono rallentati anche da un grave difetto progettuale che riguardava le strutture di interscambio con la preesistente stazione della MM1 predisposte nei primi anni '60. Bisognerà attendere il 30 ottobre 1983 per assistere alla cerimonia inaugurale di una ulteriore stazione di interscambio con la rete ferroviaria, quella di Porta Genova FS. Curiosamente il tracciato della M2 così configurato veniva a ricalcare una delle prime linee in assoluto della storia del trasporto pubblico milanese, il cosiddetto "Interstazionale" del 1898. Mentre il sindaco Carlo Tognoli e le autorità inauguravano sotto la pioggia battente la nuova stazione a pochi metri dai Navigli, sottoterra già si scavava per un ulteriore prolungamento in direzione Sud. Il nuovo capolinea di Romolo fu inaugurato nell'aprile 1985 contemporaneamente al nuovo terminal di Gessate. La linea attuale ha visto il prolungamento del ramo meridionale della M2 con l'estensione fino a Famagosta (1994), Piazzale Abbiategrasso (2005) e l'ultima diramazione per Assago Forum nel 2011. Le vetture "Tradizionali", in linea dal 1970 e soggette a diversi revamping tecnici ed estetici, sono state progressivamente rimpiazzate dai nuovi treni "Meneghino" (Ansaldo Breda) con recupero di energia in frenata e altri sistemi di sicurezza in marcia e climatizzazione di serie di tutte le carrozze. Dal 2015 sono operativi anche i convogli della serie "Leonardo", caratterizzati dai sistemi informativi digitali in carrozza e videosorveglianza integrata. Per chi cercasse ulteriori approfondimenti sulla storia delle linee metropolitane milanesi è suggerito il libro di Giovanni Luca Minici "La Metropolitana Milanese".

·         Strage ferroviaria di Pioltello.

Pioltello, treno deragliato: il guasto era conosciuto da almeno otto anni. Pubblicato mercoledì, 20 novembre 2019 da Corriere.it. Sapevano da almeno 8 anni che lungo la rete ferroviaria italiana i giunti si rompevano a un ritmo preoccupante, ma i responsabili dell’Agenzia nazionale di sicurezza ferroviaria (Ansf) non hanno fatto nulla per far sì che Rfi prendesse provvedimenti più incisivi. «Sottovalutazioni ed omissioni» che hanno impedito di evitare che il 25 gennaio del 2018 il treno Cremona-Milano, proprio a causa di un giunto che si era rotto, deragliasse poco dopo la stazione di Pioltello causando la morte di tre passeggeri e il ferimento di altri 102. Negli atti depositati dai pm Maura Ripamonti e Leonardo Lesti in chiusura delle indagini per disastro ferroviario, omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e violazioni delle norme antinfortunistiche, le accuse agli allora direttore dell’Ansf Amedeo Gargiulo e responsabile dell’ispettorato dell’agenzia Giovanni Caruso sono contenute in due relazioni della Polizia ferroviaria. Il decreto legislativo 162 del 2007, poi abrogato ma in vigore al momento dell’incidente, assegna all’Ansf il compito vigilare sulla sicurezza del sistema ferroviario italiano in ogni settore, strutture e treni, anche facendo ispezioni e indagini autonome. In caso di criticità, l’Ansf ha «poteri per imporre i propri provvedimenti», precisa la norma. Proprio quello che, secondo l’accusa, non è stato fatto perché, infatti, l’Agenzia avrebbe omesso le «direttive e raccomandazioni in materia di sicurezza» che avrebbero dovuto obbligare Rfi a mettere «in atto tutte le necessarie misure di controllo del rischio». Tra il 2010 e il 2017 «ci sono state 250 rotture di giunti isolanti incollatiti» su tutta la rete ferroviaria, scrive in una relazione Angelo Laurino, il dirigente della sezione di polizia giudiziaria della Polfer della Lombardia, e «questo conferma l’ipotesi che Rfi sapeva da tempo della problematica, che addirittura risale al 2006». Il gestore della rete ferroviaria, però, «ha iniziato ad affrontare la soluzione del problema a partire dal 2012» e «negli annui successivi, pur costatando altre rotture, non solo non ha adottato misure mitigative ma non ha nemmeno dato piena attuazione al programma quinquennale 2016-21 di sostituzione dei giunti». La questione preoccupava molto i dirigenti di Rfi. Nel novembre 2013 l’allora direttore di produzione Maurizio Gentile, ora amministratore delegato, indagato con altre 10 persone e la società Rfi per il disastro di Pioltello, aveva costituito un team apposito dopo che le rotture dei giunti erano aumentate del 53% rispetto all’anno prima. «Tali fenomeni incidono pesantemente sulla regolarità dell’esercizio ferroviario, e in qualche caso, possono incidere sulla sicurezza dell’esercizio», scriveva Gentile che dispose immediatamente una campagna «massiccia» di controlli «sull’intero territorio nazionale», precisa Laurino il quale, chiosa: «Sarebbe stato opportuno che anche Umberto Lebruto, direttore di Produzione in carica alla data dell’incidente, avesse predisposto nel 2017 un’analoga campagna di rilievi». Una problematica che era conosciuta da Ansf almeno dal 2010, dopo un incidente nel Lodigiano, ma l’agenzia «ha iniziato ad occuparsene soltanto dal 2015» con tre lettere a Rfi, ma «omettendo provvedimenti» nei confronti del gestore e non verificando «che i processi manutentivi fossero effettivamente idonei», scrive Marco Napoli, il dirigete del Nucleo operativo incidenti ferroviari della Polizia. Una sottovalutazione che ha «sfidato la buona sorte» fino al disastro di Pioltello.

Strage ferroviaria di Pioltello:  «Rfi risparmiò sulla sicurezza». Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. Una serie di omissioni a catena nella manutenzione, commesse a partire dai livelli più bassi fino ai vertici di Rete ferroviaria italiana, avrebbero impedito che la linea Cremona-Milano fosse tenuta «in buon stato di efficienza per la sicura circolazione dei treni» in modo da prevenire il disastro di Pioltello. È l’accusa che la Procura di Milano muove agli undici indagati e alla stessa Rfi, accusata in base alla legge sulla responsabilità amministrativa delle imprese, chiudendo l’inchiesta sull’incidente che il 25 gennaio del 2018 costò la vita di tre persone e il ferimento altre 102. Disastro ferroviario colposo, omicidio e lesioni colpose plurime ed omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro sono le accuse ipotizzate. Tra gli indagati figurano i responsabili locali delle strutture di Rfi incaricate della manutenzione che sono accusati di non aver sostituito immediatamente il giunto che, rompendosi al chilometro 13+400 nei pressi della stazione di Pioltello, causò il deragliamento. Le indagini della Polizia ferroviaria e dei periti, dirette dai pm Maura Ripamonti e Leonardo Lesti, hanno concluso che il giunto era «in pessime condizioni», «non rispondeva alle caratteristiche tecniche previste dal Rfi» già «da novembre 2017», quando fu messa una zeppa di legno per limitare le sue oscillazioni. Nonostante «l’evidente ed elevato rischio del formarsi di cricche interne», le fessurazioni dell’acciaio che porteranno alla rottura di circa 20 centimetri di rotaia che causerà il deragliamento, non vennero disposti «monitoraggi sistematici» del giunto che si trovava su una linea in cui passano treni che sfrecciano anche a 180 chilometri l’ora, la cui sostituzione fu programmata solo per l’aprile 2018 . Indagati anche l’allora direttore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria e il suo vice che non avrebbero vigilato su Rfi obbligandola ad allestire «tutte le necessarie misure di controllo del rischio». L’amministratore delegato di Rfi, Maurizio Gentile, Umberto Lebruto, direttore di produzione, e Marco Gallini, dirigente della struttura organizzativa, sono accusati di non aver dato, «nonostante i ripetuti e frequenti episodi di rotture dei giunti su tutto il territorio nazionale», disposizioni a tutte le Direzioni territoriali di intensificare i controlli e disporre «misure contenitive del rischio», come la riduzione della velocità dei treni, l’uso di apparecchi ad ultrasuoni manuali in grado di verificare lo stato delle rotaie, visto che il treno Galileo che serve proprio a questo era fermo per un guasto dalla metà del 2016, oppure di istallare su tutta la rete ferroviaria italiana dispositivi «in grado di segnalare tempestivamente» le anomalie. La chiusura delle indagini prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. Che non riguarderà l’amministratore delegato di Trenord, Cinzia Farisè, il direttore operativo Alberto Minoia, e la stessa società proprietaria del convoglio. Indagati inizialmente, vanno verso l’archiviazione dopo che le perizie hanno escluso qualsiasi loro responsabilità.

Strage Pioltello, la rete senza controlli e la chat prima dell’incidente: «Se accade qualcosa sono guai». Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. Uno dei messaggi estrapolati dai cellulari degli indagati. È il 26 novembre del 2017 quando sulla linea Torino-Alessandria un treno deraglia per la rottura di un giunto tra due rotaie. Alle 14,40 Umberto Lebruto, direttore di produzione di Rfi, posta un messaggio nella chat aziendale chiedendo ai suoi tecnici di «accelerare l’istallazione» di un particolare sensore che segnala i guasti nei giunti, perché «nel frattempo se dovesse accadere qualcosa di brutto non ce la caveremo facilmente». Tre mesi dopo, alle 6,56 del 25 gennaio 2018, accade più di qualcosa: per un giunto rotto il Cremona-Milano carico di pendolari esce a 130 km/h dai binari dopo la stazione di Pioltello, tre persone muoiono e altre 102 restano ferite. Si avvera la infausta profezia: Lebruto e dieci tra manager e dirigenti di Rfi finiscono indagati con la società per disastro ferroviario colposo, omicidio plurimo e lesioni colpose. Il messaggio WhatsApp, uno dei tanti estrapolati dalla Polizia ferroviaria dai cellulari degli indagati, secondo gli investigatori dimostrerebbe la consapevolezza dei vertici di Rfi del rischio che correva la circolazione ferroviaria. Non solo perché non erano stati istallati i sensori «Marini», ma sopratutto perché per più di un anno e mezzo nessuno ha controllato con gli ultrasuoni l’integrità dei binari della Rete ferroviaria italiana, dato che l’unico mezzo in grado di farlo per prevenire le rotture, il treno Galileo, era fermo per manutenzione dal 26 giugno 2016, rimanendoci fino al 6 marzo 2018, più di due mesi dopo il disastro. Nel tratto dell’incidente di Pioltello la situazione era ancora più grave. In una relazione agli atti dell’inchiesta chiusa dai pm milanesi Maura Ripamonti e Leonardo Lesti, coordinati dall’aggiunto Tiziana Siciliano, Angelo Laurino, comandante della Pg della Polfer della Lombardia, scrive che «dal 22 luglio 2014 fino alla data dell’incidente non sono stati fatti esami ultrasuoni» che, invece, sarebbero dovuti avvenire «ogni sei mesi» su una linea ad alta velocità e alta capacità come quella, dove i treni transitano anche a 180 km/h. I vertici e i tecnici di Rfi avrebbero dovuto «garantire la sicurezza dell’esercizio», sottolinea Laurino, dato che avevano «la certezza» di quanto fossero indispensabili i controlli con gli ultrasuoni sulle linee sottoposte ad usura. In attesa che Galileo tornasse in servizio, a fine 2017 Rfi aveva noleggiato per le verifiche un «carrello» dalla società svizzera Sperry (costo quasi 400 mila euro) che aveva scoperto una quantità di problemi, tra cui giunti rotti, lungo la direttrice Nord-Sud che esclude Pioltello. Ma in Rfi c’era una consapevolezza: «Urge rimettere in pista Galileo», messaggiava molto preoccupato un tecnico. Dopo il disastro la chat aziendale va in fiamme, i messaggi girano vorticosamente. A un collega che cerca di scaricare la responsabilità sulla qualità delle rotaie, Marco Gallini, dirigente di Rfi delegato alla diagnostica, risponde chiedendo «come mai in Inghilterra si fanno i rilievi ultrasuoni ogni quattro settimane e in Rfi ogni 6-12-24 mesi... da quando hanno intensificato i controlli hanno pressoché azzerato le rotture delle rotaie. Credo che la nostra normativa degli ultrasuoni non sia più adeguata».Sarà anche per la normativa, ma resta che su una tratta come quella di Pioltello dove passano 500 treni al giorno, dall’ultimo controllo di Galileo del 2014 «non risultano nemmeno eseguiti i rilievi ultrasuoni manuali», scrive Laurino. Se le verifiche fossero state fatte almeno dopo che un operaio ad agosto 2017 segnalò per la prima volta che quel giunto al km 13+400 si muoveva in maniera anomala, secondo la Polfer, il disastro «con moltissime probabilità non si sarebbe verificato».

Il disastro ferroviario di Pioltello: l’allarme del capo operaio: «Non mi ascoltarono». Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. La deposizione sul deragliamento del 2018, in cui morirono tre persone: dissi più volte di sostituire un giunto guasto, ma non fecero assolutamente nulla. Il capo operaio era preoccupatissimo, come tecnico e come padre. Da maggio 2017 segnalava che al chilometro 13+400 della ferrovia Cremona-Milano c’erano problemi, ma nessuno faceva niente per sostituire subito il giunto, quello che il 25 gennaio 2018 si romperà facendo deragliare il treno dopo Pioltello. «Io tenevo alla sicurezza della linea. Ci viaggiano anche i miei figli e avevo capito che poteva essere pericoloso», dichiara nel verbale agli atti dell’inchiesta sull’incidente che uccise tre persone e ne ferì 102. L’uomo è seduto di fronte ai pm milanesi Maura Ripamonti e Leonardo Lesti che, coordinati dall’aggiunto Tiziana Siciliano, hanno indagato vertici e dirigenti di Rfi per disastro ferroviario colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Gli investigatori hanno la mail con la quale il 29 agosto 2017 il tecnico incaricato delle manutenzione sulla linea comunicò che il giunto doveva essere cambiato. «Decisi di fare una segnalazione scritta. Ma era già da tempo che, a voce, indicavo ai miei superiori la necessità di eseguire interventi urgenti sulla tratta». L’allarme, sostiene, cadde nel nulla: «Ricordo anche che mi arrabbiai perché scoprii che andarono a fare qualche lavoro per il deviatoio dove c’era stato lo svio (un deragliamento senza conseguenze avvenuto a luglio lì vicinio, ndr) e nessuno aveva fatto niente negli altri punti critici». Un collega sbottò contro un superiore chiedendosi quante volte glielo dovevano dire ancora. È lo stesso superiore al quale il tecnico chiedeva spesso «di fare interventi e lui — dichiara — mi rispondeva “chiama quelli di Brescia (unità operativa, ndr) e fatti mandare il personale”. Quelli di Brescia, però, mi hanno sempre risposto di no, forse perché erano tutti impegnati per l’alta velocità su altri punti della tratta. Tra i lavori che volevo fare c’era anche la sostituzione di quel giunto». Aggiunge che «era già almeno da marzo 2017» che continuavamo a fare interventi tampone sul posto e che lui «a maggio-giugno 2017» cominciò a «diventare più pressante verso i superiori». Allarmi sottovalutati, per i pm. «Mi sentivo preso in giro in quella situazione», dice il capo operaio, «sono stato l’unico a chiedere fin da subito e ad insistere per gli interventi (...) mi avevano sempre detto “non ti preoccupare”, ma nessuno faceva niente». Dichiara di essere stato sospeso da Rfi per 10 giorni «per l’incidente di Pioltello perché non avrei rispettato le procedure» per la «compilazione della check list» dei lavori e per «non aver richiesto subito la sostituzione del giunto, secondo le disposizioni Rfi». Sospensione condivisa con il dirigente e altri operai. Spiega che lui preferiva «richiedere a voce gli interventi, piuttosto che annotarlo sui registri, perché mi ero reso conto che nessuno controllava la modulistica». La delusione aumentò un mese prima dell’incidente quando il nuovo giunto fu scaricato vicino a quello danneggiato. Si diceva che entro Natale sarebbe stato istallato, invece fino a gennaio «non si è visto nessuno». Era ancora lì il giorno del disastro.

·         La Boccassini e Robledo in pensione.

Procura di Milano, è rivolta dei sostituti contro Francesco Greco. Tiziana Maiolo il 18 Dicembre 2019 su Il Riformista. Non è stata certo una rivolta dei peones quella che nei giorni scorsi ha visto i sostituti procuratori di Milano contrapporsi in massa al loro capo Francesco Greco e contestare il piano triennale di riorganizzazione dell’ufficio. Si chiedeva loro una cosa semplice: fatevi autorizzare da un aggiunto, cioè da un superiore gerarchico, prima di assumere provvedimenti importanti. La protesta nasce da storie antiche e di puro potere. Il triangolo delle bermude è composto dal Consiglio superiore della magistratura che vuole il controllo totale sui procuratori, i capi degli uffici che mal tollerano l’eccessiva autonomia dei loro sostituti e questi ultimi, spesso ringalluzziti dalla pubblicità ottenuta tramite il circo mediatico, che cercano di giocare in proprio, spalleggiati dal Csm. Il procuratore capo della repubblica di Milano ha semplicemente cercato di mettere ordine in quegli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia da troppi anni popolato da troppi galli nel pollaio. Pur se sono passati i tempi in cui in quel corridoio Tonino Di Pietro egli altri del pool incedevano seguiti da un codazzo di giornalisti e ammiratori, la procura della repubblica di Milano è pur sempre considerata, come la recente vicenda dell’Ilva insegna, un punto di riferimento autorevole e ben organizzato. Per questo Francesco Greco non si aspettava certo la ribellione dell’intero ufficio (con l’esclusione degli otto aggiunti) al piano triennale richiesto a tutte le procure dall’ultima direttiva del Csm. Non se lo aspettava, ma forse avrebbe dovuto. Prima di tutto perché sa bene che il Consiglio morde il freno fin dai tempi dell’ultimo governo Berlusconi e di quella legge del 2006 voluta dal ministro Castelli che, concentrando tutto il potere investigativo ma anche programmatico e organizzativo nelle mani del procuratore capo, prendeva due piccioni con una fava, riconducendo al normale rapporto gerarchico i sostituti e togliendo al Csm il potere di mettere il naso all’interno degli uffici. Secondariamente perché un anno dopo, nel 2007, l’organo di autogoverno con una delibera ha di fatto abrogato le insidie della legge, riaffermando la propria competenza, in quanto “vertice organizzativo della magistratura”, a decidere l’organizzazione interna dei singoli uffici. Fino a sottoporre l’attività di coordinamento dei procuratori capo a un giudizio che può arrivare a influenzarne il fascicolo personale e la stessa carriera. Ma non è tutto. Di delibera in delibera, di circolare in circolare, si è “suggerito” sempre di più ai capi degli uffici di sottoporre ai sostituti i piani organizzativi. Al punto di arrivare nel 2009 a bloccare la riconferma del procuratore capo di una città piuttosto importante perché, pur essendo stata lodevole la sua capacità di smaltire l’arretrato, lo aveva fatto senza consultare i suoi sottoposti. Ecco perché oggi, forse sentendosi appoggiati dalla giurisprudenza del Csm, i sostituti milanesi non accettano di dover consultare preventivamente almeno un aggiunto prima di fare iscrizioni nel registro degli indagati, prima di compiere atti investigativi, disporre intercettazioni, dare l’ok a un patteggiamento. Regole normali in tutti gli altri paesi dell’occidente dove l’ufficio della pubblica accusa è addirittura a gerarchia unitaria a livello nazionale e fa riferimento al ministro di giustizia o vertice equivalente, che coordina le indagini sull’intero territorio. Ma i pubblici ministeri italiani non solo godono del privilegio di appartenere alla stessa carriera dei giudici, ma fruiscono anche di un ampio regime di indipendenza proprio anche all’interno dell’ufficio cui appartengono, che solo formalmente ha una struttura gerarchica. Nei fatti, la potenza di un forte sindacato con le sue correnti, le regole fissate dal Csm anche in barba alle leggi del parlamento, unite al consenso di un’opinione pubblica sempre più aizzata da una stampa complice, hanno di fatto sempre più personalizzato la figura del singolo pubblico ministero. Che è sempre in una botte di ferro, anche rispetto al capo dell’ufficio. Cui si può tranquillamente ribellarsi, come accaduto a Milano.

STRANO MA VERO, IL ''GIORNALE'' TRIBUTA L'ONORE DELLE ARMI A ILDA BOCCASSINI: ''ESULE NELLA SUA PROCURA, SENZA FASCICOLI E FUORI DAI GIRI DI PALAZZO CHE L'HANNO ESCLUSA DALL'ULTIMO SALTO DI CARRIERA, È A SEI MESI DALLA PENSIONE. SUL SUO FURORE INVESTIGATIVO MOLTO SI È SCRITTO, MA NESSUNO NE HA MAI MESSO IN DUBBIO LA POTENZA MICIDIALE NELLE INDAGINI PRELIMINARI; NÉ L'INTUITO INVESTIGATIVO. QUELLO CHE LE E' MANCATO E' STATO…''

Luca Fazzo per “il Giornale” il 6.06.2019. Il lungo addio di Ilda Boccassini comincia in sordina, lunedì scorso. Lei non è in ufficio, non lo è neanche ieri. Chiusa la porta della piccola stanza numero 31 che non ha voluto lasciare neanche all' apice della sua carriera, quando i suoi colleghi si contendevano le suite presidenziali della Procura. Vuote le sedie che nel corridoio del quarto piano ospitano i ragazzi della sua scorta, quelli che ogni giorno - anche in futuro, e chissà per quanti anni - vigileranno sulla sua quotidianità di vittima designata. Intorno, la Procura della Repubblica continua la sua vita, tra la routine dei tempi morti e le improvvise fiammate dei blitz contro il mafioso o il politico di turno. Nella Procura di cui, comunque si guardi la storia, è stata per quasi trent' anni una protagonista, oggi Ilda è un' ospite ingombrante. Lo è dall' ottobre 2017, quando per una norma giusta in teoria ma dannosa nei fatti ha dovuto lasciare la carica di procuratore aggiunto, alla scadenza degli otto anni di carica. Aveva provato a fare il salto finale, puntando alla poltrona più alta, quando venne lasciata libera da Edmondo Bruti Liberati. Non prese neppure un voto: colpa del suo carattere, o dei giochi di corrente che in questi giorni su altre nomine importanti stanno venendo drammaticamente alla luce. Andrà in pensione il 7 dicembre, quando compirà i settant'anni. Per non costringerla alla corvè dei processi qualunque e dei turni di guardia, il nuovo procuratore Francesco Greco le assegnò il compito di mandare avanti il pool più delicato della Procura, quello sull' intreccio tra criminalità economica e politica corrotta, rimasto senza capo per la malattia poi letale di Giulia Perrotti. Ma da lunedì scorso ha preso servizio in Procura Maurizio Romanelli, tornato a Milano come procuratore aggiunto al termine di una battaglia tra Csm, Tar, Consiglio di Stato. Anche se si dovrà passare per una sorta di concorso interno, Romanelli è il candidato ovvio alla guida del pool. E alla Boccassini toccherà farsi definitivamente da parte.

Solo lei sa come intende passare i sei mesi che mancano all' addio alla toga. Potrà smaltire ferie, potrà - se vorrà - chiedere il pensionamento anticipato. Oppure potrà scegliere di restare lì, nella stanzetta, a sbrigare qualche fascicolo. La sua porta è sempre aperta. Sulla sua scrivania non c' è - unico caso in tutta la Procura - né un computer né un monitor. Così l' immagine che appare, a chi si trova a passare in corridoio, è quella di una donna sola, affondata nelle sue riflessioni e nel suo passato. Nei quindici mesi in cui ha guidato il pool anticorruzione non si può dire che abbia portato a segno colpi memorabili. L' ultima retata sul fronte delle tangenti, quella che ha investito buona parte di Forza Italia in Lombardia, è stata realizzata da un' altra squadra, il pool antimafia: nella conferenza stampa, Greco le ha offerto un tributo doveroso, perché l' indagine l' aveva avviata lei. Ma ormai il pallino dell' inchiesta è in altre mani, e la processione delle confessioni scivola via, senza fermarsi alla stanza 31. È stata la prima a incriminare un sindaco di Milano, è stata la prima a incriminare un presidente del Consiglio in carica. Sul suo furore investigativo molto si è scritto, ma nessuno ne ha mai messo in dubbio la potenza micidiale nelle indagini preliminari; né l' intuito investigativo, che le permise di capire da subito che il pentito Scarantino, idolatrato dalla Procura di Palermo, era un bugiardo. A mancarle, e anche questo è giudizio diffuso, è stata la finezza dell' analisi giuridica, quando dalla fase dei pedinamenti e delle intercettazioni bisognava passare a quella dei processi. E lì le mancò l' umiltà di farsi istradare, di individuare i tasselli che ballavano nell' impianto accusatorio prima che il processo andasse a schiantarsi, come nel caso Ruby. Anche questo ha contribuito il suo isolamento. Ma sarebbe ingiusto non ricordare che ha pagato anche la sua estraneità a logiche di corrente di cui ora appare il lato marcio. Cantava Jovanotti: «Un vecchio di quelli che nessuno vuole avere intorno, perché han visto tutto e fatto tutto, e non sopportan quelli che adesso è il loro turno»: saranno lunghi, i sei mesi dell' addio di Ilda.

LA ''DOTTORESSA'' SE NE VA. DA RIINA AL CASO RUBY BOCCASSINI E IL METODO EREDITATO DA FALCONE. Piero Colaprico per ''la Repubblica'' l'8 settembre 2019. Giovanni Falcone, Ilda Boccassini. Se non si capisce questo segmento, non si capiscono le scelte di un magistrato che, alla fin fine, nessuno dei suoi colleghi ha voluto che facesse carriera. Di qualsiasi argomento del codice penale si sia occupata - mafie, corruzione, terrorismo - ha sempre portato a casa il risultato. Sono le sue inchieste che l' hanno trasformata per moltissimi "in un mito", come si diceva, ma nello stesso per altri è diventata un "nemico". Questa settimana il plenum del consiglio superiore della magistratura prende atto che sta per compiere 70 anni e il "collocamento a riposo" è nei fatti, anche se immaginare "la dottoressa", come tutti la chiamano, lontana dall' ufficio dove restava sino a sera, non è facile. La prima inchiesta con il metodo Boccassini (lei dice sempre "metodo Falcone", ma non è lo stesso) si chiama Duomo connection e si svolge a Milano alla fine degli anni '80. Mani pulite, che attaccherà la corruzione politica con il pool, comincerà nel 1992. Lei prima dei colleghi scopre uno "stile". Una famiglia di Cosa nostra, fornita di assassini e trafficanti, deve costruire delle case e per poterlo fare deve pagare la tangente a chi qui a Nord è più forte: il partito socialista. Lo scandalo è gigantesco, le microspie che sono state piazzate nel cantiere dalla squadra del "capitano Ultimo" raccontano una metropoli nera che può lasciare esterrefatti. L'asse Palermo-Milano dell'antimafia diventa sempre più solido, ma il 23 maggio 1992 c' è "l'attentatuni", Falcone, la moglie, la scorta muoiono. Boccassini sceglie la sua barricata. Critica chi aveva criticato Falcone, rompe amicizie, si fa giudicare da Francesco Saverio Borrelli come inadatta a lavorare in pool (poi faranno pace, la stima e l' affetto tra i due erano altissimi) e andrà a vivere "bunkerizzata" in Sicilia, per indagare sulle stragi. È lei che, inascoltata, avverte i colleghi siciliani che il pentito Vincenzo Scarantino, che aveva collaborato per la strage di Paolo Borsellino, nel settembre successivo, stava raccontando bugie. Ed è "Ultimo" che, nel gennaio del '93, sbatte a terra il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, cercato invano da decenni. Il metodo, alla fin fine, è sempre uno: trovare la persona giusta da seguire, o da interrogare, e stringere il laccio quando non ci sono possibilità di mentire. Tornata a Milano, Boccassini contraddice le malignità che la vogliono incapace del lavoro di squadra. Affianca Gherardo Colombo, e cioè uno di quelli che aveva pesantemente bollato come ostile a Falcone, nell' inchiesta clamorosa sulle corruzioni ai giudici di Roma, organizzate da Cesare Previti e pagate da Silvio Berlusconi. Nel 2007 mette in ginocchio gli ultimi brigatisti rossi, reduci degli Anni di piombo, assassini totalmente fuori tempo. E quando diventa procuratore aggiunto della Distrettuale antimafia, mette in linea ogni informazione con i colleghi, quasi una ventina, e non trapela un fiato: chiunque lavori con lei sa che non può fare da "talpa". I suoi dicevano testualmente «Se ne becca uno, se lo mangia». Il suo metodo si moltiplica. Ci sono state a Milano fondamentali inchieste antimafia, ma gli investigatori coordinati da Boccassini riescono a filmare le votazioni delle famiglie di 'ndrangheta per il loro rappresentante e qualche giuramento di affiliazione. Video che fanno il giro del mondo. Ed è così che, quando Edmondo Bruti Liberati, che viene dal civile, diventa il capo della Procura di Milano, si affida a lei per due compiti delicatissimi. Una, l' inchiesta su Ruby Rubacuori e Silvio Berlusconi. È vero, come scrive sua figlia Marina, che Berlusconi è stato infine assolto, ma è anche vero che le sue non erano "cene eleganti", erano porno feste, alle quali aveva partecipato una prostituta di 17 anni, scappata da una comunità di recupero in Sicilia e approdata ad Arcore, nella casa del Presidente del Consiglio. L'altra inchiesta riguarda Expo e va a beccare due vecchi arnesi della Prima Repubblica, il comunista Primo Greganti e il democristiano Gianstefano Frigerio, che provavano a mettere le mani negli appalti. Condannati entrambi. Con un simile curriculum, Boccassini ipotizzava che avrebbe potuto ricoprire il ruolo di procuratore capo. Non è andata così, il Csm a metà del 2016 nomina Francesco Greco e, arrivati all' ultimo quadrimestre del 2019, si può dire che "la dottoressa" non sia stata più utilizzata al meglio. E, se ne ha sofferto, sinora se l'è tenuto per sé.

Ilda Boccassini va in pensione: successi e cadute della pm con i jeans. Tiziana Maiolo il 6 Dicembre 2019 su Il Riformista. Quando è arrivata a Milano, alla fine degli anni settanta, la giovane Ilda Boccassini fu subito definita “la pm in blue jeans”. Mai si era vista, nell’austerità del palazzo di giustizia di Milano, una ragazza così bella, così di esuberante napoletanità, così estroversa. Normale fu, in quegli anni, per i maligni e per gli invidiosi, puntarle gli occhi addosso, soprattutto sui suoi comportamenti e sulla sua vita personale. Nulla di strano se la sera la incontravi, in jeans e maglietta come le ragazze della sua età (era appena trentenne) a divertirsi nei locali sui navigli. Ma lì non c’erano gli “spioni”. C’erano invece dalle parti del palazzo di giustizia, nei suoi corridoi dove fiorivano chiacchiere sui suoi rapporti troppo cordiali con alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine o con i giornalisti. Dentro il palazzo e anche nei dintorni. E arrivò il primo inciampo, quello che avrebbe dovuto in seguito renderla più prudente. Capitò che proprio a due passi dal “palazzaccio” due agenti che scortavano un procuratore aggiunto la vedessero abbracciata a un ragazzo, che per giunta era un cronista accreditato alla sala stampa del tribunale. E questo fu considerato grave e inopportuno dai vertici della magistratura. Scoppiò un putiferio, con denuncia del procuratore capo al Csm per “condotta immeritevole”, dove però lei uscì immacolata. Anche perché fu dimostrato che, nonostante i suoi rapporti personali con qualche giornalista, Ilda Boccassini è sempre stata uno dei pochi magistrati avari di indiscrezioni passate sotto banco ai cronisti giudiziari. Ma anche sul piano professionale i suoi primi anni alla procura di Milano non furono certo coronati da successo. La sua prima inchiesta, la “Duomo connection”, che avrebbe dovuto dimostrare (ci provavano fin da allora) la complicità di associazioni mafiose con la politica milanese fu un vero flop, terminata con l’archiviazione per tutti i politici e qualche modesta condanna per droga nei confronti di personaggi di secondo piano. Aveva alzato troppo il tiro, e non sarà la prima né l’ultima volta. E arrivò il secondo inciampo, non di carattere personale, ma nell’ambito lavorativo. Boccassini è sempre stata un magistrato ambizioso, ma anche il suo collega Armando Spataro lo era. Altrettanto ambizioso ma più abile, meno impulsivo: insomma, un po’ la differenza tra approccio maschile e femminile. E si sa che sul piano del potere troppo spesso vince il comportamento maschile. E Spataro vinse. Perché lei, pur sapendo che il collega indagava in certi ambienti, si sovrappose con un blitz sugli stessi personaggi che lui stava pedinando, mandando così all’aria mesi di indagini che, attraverso un lavoro più certosino e graduale, avrebbero dovuto portare gli inquirenti ai vertici dell’associazione mafiosa.

Siamo all’inizio degli anni novanta. E sarà il procuratore Borrelli a dover sbrogliare la matassa. Ma questa volta Boccassini non se la cavò e fu “licenziata” dal pool criminalità con un marchio che fu quasi uno schiaffo: «È dotata di individualismo, carica incontenibile di soggettivismo e di passione, non disponibilità al lavoro di gruppo». Ma queste sue caratteristiche, che erano state determinanti per la sua uscita dal pool, diventarono in seguito anche un suo punto di forza. Nelle indagini sulla criminalità organizzata Ilda Boccassini ha sempre creduto e ci si è tuffata con le modalità di sempre: più lottatrice che inquirente. Ma la svolta della sua vita sarà determinata nel 1992, con la strage di Capaci. La morte di Giovanni Falcone, con il quale aveva uno stretto rapporto anche personale, sarà per lei uno strazio che non potrà e non vorrà in alcun modo nascondere. La ricordano tutti, a Milano, nell’aula magna del palazzo di giustizia affollata di magistrati, prendere il microfono e lanciare parole dure come pietre: «Lo avete fatto morire con la vostra indifferenza e le vostre critiche e adesso avete pure il coraggio di andare al suo funerale». Era vestita di nero, e i colleghi dissero che si era vestita da vedova. Ma lei tirò dritto, lei che aveva da sempre aderito alla corrente di magistratura democratica come tutti suoi collegi di sinistra, quel giorno stracciò la tessera e non si iscrisse mai più al sindacato delle toghe. Il che forse la danneggiò, dal punto di vista della carriera. Decise invece di farsi trasferire a Caltanissetta, il distretto che indagava sulla morte di Falcone. Vi restò poco, ma il tempo necessario per passare alla storia come l’unico magistrato ad aver capito l’imbroglio del finto pentito Vincenzo Scarantino, il pupazzo costruito a tavolino nelle indagini sulla morte di Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia due mesi dopo la strage di Capaci. Ilda Boccassini capì subito che quel “pentito” puzzava di imbroglio, lo intuì perché conosceva i suoi polli: non solo i mafiosi, ma anche gli “sbirri” e i pubblici ministeri. Forse, se lei fosse rimasta lì, se avesse insistito, se avesse lottato con i suoi colleghi come altre volte aveva fatto, avrebbe salvato la vita a molti innocenti che sono rimasti 15 anni in carcere per un delitto che non avevano commesso. Fatto sta che a un certo punto Boccassini è tornata da dove era partita, cioè a Milano, a continuare le inchieste sulla criminalità organizzata.

Ma quel che rimarrà nella memoria di tutti è legato non tanto alle molte inchieste, non tutte azzeccate, sulle organizzazioni mafiose in Lombardia, quanto la pervicacia ai limiti della persecuzione con cui ha fatto controllare la vita, le abitudini, gli incontri, le abitazioni di Silvio Berlusconi a causa della sua conoscenza con una giovane egiziana, Karima El Mahroug, detta Ruby, di anni diciassette e sei mesi. Minorenne, ma quasi maggiorenne. Con cui lui sarebbe andato a letto: la pm ha insistito fino al limite della morbosità su questo punto. Ma durante il processo si capì anche che la pubblico ministero, da tutti definita come donna molto passionale, non amava le altre donne. I giornalisti del palazzo di giustizia raccontano di averlo già notato per certi suoi atteggiamenti pubblici e imbarazzanti nei confronti della compagna del suo ex marito, il magistrato Aldo Nobili. Ma in aula Boccassini non diede certo il meglio di sé, quando nella requisitoria accusò Ruby di “furbizia orientale” e non risparmiò giudizi di pesante moralismo su alcune ragazze che frequentavano la casa di Berlusconi. Se fosse uscito un fumetto dalla sua bocca avrebbe detto “puttane”. Ma anche quel processo, nonostante i suoi sforzi, non fu un grande successo, visto che, al termine dei tre gradi di giudizio, Silvio Berlusconi è uscito assolto. Dopo la morte del procuratore Borrelli che lei ha salutato con un necrologio di grande esibizionismo, firmato solo “Ilda” (“Hai resistito alle lusinghe del potere, sei stato un esempio di integrità per chi come me non ha ceduto ai compromessi. Dopo di te tenebre. Già mi manchi”), Boccassini ha tirato giù il sipario. Non ha fatto carriera come il suo avversario Spataro. Lui è diventato capo della procura di Torino, lei è arrivata solo al ruolo di aggiunto. Domani compie settanta anni. Va in pensione la “Pm in blue jeans”.

Addio processo: la dolce pensione di Alfredo Robledo. Gabriele Albertini l'8 Dicembre 2019 su Il Riformista. Sicuramente sarà una coincidenza. Guai a pensar male. Ma quando un magistrato decide di appendere la toga al chiodo, spesso i suoi guai giudiziari con la legge finiscono su un binario morto. Uno degli ultimi casi riguarda l’ex procuratore aggiunto, poi degradato a sostituto, Alfredo Robledo. Numero uno del dipartimento reati contro la Pa, ebbe uno scontro violentissimo con il suo capo, Edmondo Bruti Liberati e venne accusato dallo stesso procuratore capo, d’aver assegnato a tre custodi giudiziari la somma di circa 92 milioni di euro, sequestrata nell’inchiesta per la presunta truffa sui derivati, in danno del Comune di Milano. L’indagine aveva a oggetto dei finanziamenti, con clausole ritenute vessatorie, sottoscritti da Palazzo Marino con alcune banche (UBS, Deutsche Bank, JP Morgan e Depfa Bank). Invece di depositare l’intera somma, come prescritto, sul Fondo Unico per la Giustizia (Fug), emanazione di Equitalia Giustizia, Robledo si rivolse a una piccola banca della Brianza, dove era residente, da pretore di Monza, prima di trasferirsi a Milano, come riferisce nell’esposto al Csm Bruti Liberati. Siamo nel 2009. Secondo Bruti Liberati, la decisione di Robledo era illegittima e avrebbe causato un danno alle casse dello Stato, per il pagamento dei compensi ai tre custodi giudiziari (come accertato, oltre un milione di euro in tre). Va aggiunto che il giudice per l’udienza preliminare, presso il Tribunale di Brescia (Mainardi) osserva nella sentenza del 9 ottobre 2017: «I custodi hanno svolto un’attività obbiettivamente minima (in definitiva la ricezione degli estratti conto) ma non hanno potuto negoziare alcun migliore tasso d’interesse, dunque la loro nomina, appare quanto meno discutibile». Il “processo derivati” si conclude con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste», con sentenza passata in giudicato della Corte d’Appello, nel 2014. «Il Comune di Milano ( … ) come differenze tra quanto avrebbe dovuto pagare, mantenendo il vecchio debito e quanto ha effettivamente pagato, con la nuova struttura di debito, aveva guadagnato 103 milioni, nel 2005, 48, nel 2006, 47 nel 2007, per un totale di 198 milioni». Come si legge nella nota alla Corte dei Conti del 2007, dell’allora Direttore Generale Giampiero Borghini. La transazione, intervenuta prima del processo d’Appello, è valsa al Comune di Milano 750 milioni di euro, in parte liquidati subito, in parte entro la data di esaurimento del mutuo originario. Il vantaggio complessivo per il Comune, frutto dell’operazione in cui, secondo l’accusa sostenuta da Robledo sarebbe stato truffato, è stato di circa 950 milioni. Mentre cala il sipario sull’unico caso al mondo di un processo penale su un’operazione di derivati, stenta a partire quello a Robledo, per abuso d’ufficio, al punto che, a luglio 2018, il Tribunale di Brescia, non può far altro che dichiararlo prescritto. La Procura non accetta la decisione e ricorre in Cassazione. Lo scorso marzo piazza Cavour lo accoglie e dispone un nuovo processo nei confronti di Robledo e dei suoi consulenti, in quanto non si sarebbero ancora prescritte le ricche liquidazioni dei loro incarichi, terminate nel 2012. Robledo, con quattro procedimenti disciplinari aperti davanti al Csm, già trasferito a Torino per gravi motivi disciplinari e privato delle funzioni semidirettive di “aggiunto”, degradato a sostituto, all’inizio dell’anno decide di chiudere con la magistratura e diventa presidente della società lombarda Sangalli, leader nello smaltimento rifiuti. Il procedimento bresciano, che, fino a quel momento, correva spedito, rallenta.  A distanza di otto mesi dalla decisione della Cassazione, infatti, non risulta fissata alcuna udienza. A questo punto, una fissazione nelle prossime settimane sarà comunque inutile, in quanto, tenendo conto dei nuovi tempi, fissati dalla Cassazione, i reati contestati a Robledo e ai suoi custodi si prescriveranno definitivamente agli inizi della prossima primavera. Con buona pace di tutti.

·         Tangentopoli lombarda.

Finti pascoli sugli alpeggi lombardi per ottenere fondi: 98 denunciati per la maxi truffa all'Unione Europea. Scoperti dalla Guardia di Finanza di Como 7 persone accusate di associazione a delinquere e 91 titolari di aziende anche venete e piemontesi: affitti fittizi di terreni agricoli per ottenere maggiori contributi. La Repubblica il 22 agosto 2019. Una maxi truffa all'Unione Europea è stata scoperta dalla Guardia di Finanza di Menaggio (Como) che, con l'operazione "Montagne d'euro", ha disposto il sequestro di beni per oltre 10 milioni di euro. Sette persone residenti nelle province di Sondrio, Como e Cremona sono state denunciate alla Procura della Repubblica di Sondrio per associazione per delinquere, mentre 91 titolari di altrettante aziende agricole lombarde, venete e piemontese, sono ritenuti responsabili di truffa aggravata finalizzata all'indebito conseguimento di contributi europei. L'operazione è nata grazie alle segnalazioni di alcuni allevatori locali, che hanno notato come alcuni pascoli venissero concessi in affitto dai Comuni ad aziende agricole non locali, che pur non portando gli animali in quota riuscivano ad ottenere i benefici previsti dalla normativa europea. I finanzieri hanno così scoperto che due società di servizi rastrellavano con contratti di affitto agrario degli alpeggi i territori montani di proprietà degli Enti comunali dell'alto lago di Como e della Bassa Valtellina, per poi subaffittarli ad aziende agricole, offrendo loro anche i documenti necessari per richiedere all'Unione Europea ingenti contributi.  Le 91 aziende agricole coinvolte, per aumentare virtualmente la superficie agricola in uso ed ottenere maggiori premi riconosciuti da Bruxelles, si rivolgevano all'associazione per delinquere, che forniva loro documentazione falsa o alterata, nonché i nominativi di ignari imprenditori agricoli da inserire nelle rispettive domande uniche d'aiuto, i quali, sulla carta, avrebbero dovuto mantenere in buone condizioni i terreni. Gli imprenditori agricoli individuati dai finanzieri della Compagnia di Menaggio hanno confermato di non aver mai messo piede nei terreni oggetto della richiesta di contributo. Eclatante il caso di un pascolatore indicato in 20 diverse domande uniche di aiuto, che avrebbe dovuto mantenere, nel medesimo periodo, alpeggi situati anche in comuni distanti decine di km tra loro. Dal punto di vista normativo l'elemento cruciale è rappresentato dall'inosservanza dei Regolamenti Comunitari che consentono l'ottenimento di contributi alle imprese agricole che assicurino il mantenimento dei terreni in buone condizioni agronomiche e ambientali attraverso il pascolo. L'indebito ottenimento di contributi europei stanziati nel piano della Pac (la politica agricola comune) nel periodo compreso tra il 2007 e il 2014 è stato però scoperto dalla Guardia di Finanza di Menaggio, a conclusione delle indagini coordinate dal Sostituto Procuratore della Repubblica di Sondrio, Stefano Latorre.

«Caso Serravalle», sentenza ribaltata: Filippo Penati condannato in appello. Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Corriere.it. La Corte dei conti ribalta in appello le assoluzioni con le quali il 16 aprile del 2015 si chiuse il processo di primo grado per l’acquisto nel 2005 da parte della Provincia di Milano del 15% delle azioni della Milano Milano-Serravalle dal gruppo Gavio. L’ex presidente Ds della Provincia Filippo Penati e di altre 11 persone sono state condannate a risarcire in danno di 44,5 milioni di euro. Oltre a Penati che risponde di un danno pari a 19,8 milioni, in appello sono stati condannati coloro che all’epoca dei fatti erano il segretario generale della Provincia di Milano Antonio Princiotta (14,8 milioni), il capo di gabinetto Giordano Vimercati e il il direttore generale Giancarlo Saporito (che insieme dovranno pagare 4,9 milioni) stessa somma di cui rispondono, tutti insieme, altri otto “convenuti”. Secondo la Procura della Corte dei conti della Lombardia, nell’operazione che permise alla Provincia di raggiungere il controllo della società, il valore delle azioni era stato sopravvalutato causando così un danno allo stesso ente pubblico che variava da 35,3 a 97,4 milioni e che per il Comune ammontava a 21,8 milioni. Nel 2015 la Corte dei conti aveva assolto Filippo Penati e gli altri componenti della giunta provinciale che nel 2005 deliberarono l’acquisto del 15 per cento delle quote della Serravalle dal gruppo Gavio. La Corte contestava un danno erariale da 100 milioni di euro. Il giudizio era stato sospeso nell’aprile 2014, in attesa della definizione di paralleli procedimenti penali avviati dalla Procura di Milano e da quella di Monza, e il procedimento era ripartito nel settembre 2014 dopo il ricorso presentato dalla Procura contabile lombarda, che aveva impugnato il provvedimento di sospensione del «processo Serravalle». L’operazione finanziaria risale al 2005, quando la Provincia di Milano con Penati comprò dal gruppo Gavio il 15 per cento della Milano-Serravalle al prezzo di 8,9 euro ciascuna per quelle azioni che Gavio aveva acquistato a 2,9 euro. La Corte dei conti, col procuratore regionale Antonio Caruso e i procuratori Adriano Gribaudo e Luigi D’Angelo, contestava “un pregiudizio all’erario connesso a una sopravvalutazione del prezzo unitario delle azioni acquisite dalla Provincia, ben al di sopra del reale valore di mercato, nonché un danno per il deprezzamento del controvalore del pacchetto azionario detenuto dal Comune di Milano nella stessa società”. Ricostruzione che non è stata accolta dal collegio di giudici contabili, che ha assolto Penati e il resto della giunta. La sentenza, ha detto lo stesso Penati, è un’assoluzione nel “merito”, tanto che i giudici hanno evidenziato la “mancata prova di un danno imputabile soggettivamente e contabilmente alle casse della Provincia di Milano”. E’ stato respinto, dunque, ha chiarito l’ex presidente della Provincia, “l’impianto accusatorio contenuto nella citazione della Procura regionale, laddove si riteneva illegittimo il comportamento a suo tempo assunto dalla Provincia”. Ora la Procura regionale avrà la possibilità di fare appello contro la sentenza, anche se, da quanto si è saputo, una decisione sul punto verrà presa soltanto dopo aver letto con attenzione le motivazioni del provvedimento.

"Ho già seminato tanto Ho dato da mangiare a tutti". Così l'imprenditore D'Alfonso faceva il punto con Altitonante sugli aiuti politici di cui poteva godere. Luca Fazzo, Mercoledì 08/05/2019, su Il Giornale. Microspie, intercettazioni telefoniche classiche, cellulari trasformati in «cimici» con virus informatici: per un anno le conversazioni degli indagati, registrate da Finanza e Carabinieri, hanno riempito i brogliacci dell'inchiesta che ieri ha investito la Lombardia.

BEVONO COME SANGUISUGHE. Il 18 gennaio 2018 Daniele D'Alfonso, imprenditore in odore di 'ndrangheta, chiama il gestore di una discoteca di Lissone prenotando il tavolo di un privé per una cena con quindici ospiti. «Stasera faccio una figura della Madonna, c'ho mezza Forza Italia cazzo stasera....tutti i numeri uno di Forza Italia di Varese son lì figa... faccio una figura faccio se va bene stasera Emi (...) siccome lo so che spenderò tanto perché tra mangiare e dopo.. questi bevono come sanguisughe».

HO SEMINATO TANTO. Il 22 gennaio 2018 D'Alfonso in auto parla con Altitonante dei rapporti con Luigi Patimo detto Gigi, manager della spagnola Acciona: «Finché non li vedi, non ci credi, io sono tranquillo... fortunatamente mangio anche senza Gigi, ho seminato talmente tanto! Io a tutti quanto ho dato da mangiare!». Risponde Altitonante: «Io cosa ti avevo detto? Tu devi andare avanti e poi non ti devono rompere i coglioni».

TI BONIFICA 20. Il 13 febbraio 2018 Tatarella e D'Alfonso parlando dei ventimila euro destinati da Patimo alla campagna elettorale di Altitonante, che verranno triangolati con D'Alfonso e Tatarella: «Allora - dice Tatarella - ho visto l'ingegnere con Fabio (...) ti bonifica 20 che però vanno sul mio conto elettorale perché quella spedizione lì devo pagargliela io a Fabio... per una questione di rendicontazioni perché lui non so come te li da».

LA VILLETTA DEL MANAGER. Nella stessa intercettazione, Tatarella dimostra di essere al corrente del motivo del finanziamento di Patimo a Altitonante: lo sblocco della pratica per la ristrutturazione di una villetta della moglie in via Allegranza, in zona Solari. «Glieli dà, sai perché, perché adesso ho anche capito il motivo, ha visto, tu lo sai che ha preso casa nuova, sta proprio facendo una villetta, dove l'ha presa?» «In centro... cosa c'entra Fabio? Cosa fa?» «Perché ha dovuto fare una roba e ha chiamato Fabio, alla fine poi lo chiama sempre».

LI DO' AL BACCALÀ. Nelle intercettazioni, Tatarella chiama l'amico Altitonante «il Baccalà». Un giorno D'Alfonso consegna in auto a Tatarella dei soldi destinati ad Altitonante: sono contanti per migliaia di euro, forniti come al solito a D'Alfonso da un benzinaio amico. «Vabbé dopo contali uguale... Così capiamo quanti sono». Dal benzinaio D'Alfonso ha preso seimila euro. Tatarella: «Sono cinque quattro e novanta (5.490,00 euro)» D'Alfonso: «Ti ho preso quattrocento perché sono senza soldi» «Così glieli do a quel baccalà!»

È MORTO IL CANARINO. Tatarella spiega a Nino Caianiello, coordinatore di Forza Italia a Varese, la necessità di assegnare un appalto a Daniele D'Alfonso. «Ti volevo dire una cosa... adesso è uscita lì a Varese una manifestazione di interesse, lì da Marcello (Pedroni Marcello, consigliere delle municipalizzate) sempre su spurghi, quelle robe lì che fa Daniele. Digli stavolta di gestirla lui... l'altra volta gli ha dato una inculata cazzo!». Caianiello: «Marcello devo chiamarlo stamattina, è campione di canarini». «Ha vinto?» «È morto il canarino».

È UN CALABRESE BRAVO. Il direttore generale dell'Amsa, la società della nettezza urbana milanese, Mauro De Cillis, chiede a D'Alfonso di assumere un vicino di casa rimasto disoccupato. «È uno di origini calabresi, un ragazzo molto bravo, una persona a modo... questo qua è in difficoltà e sta cercando lavoro, lui gestiva anche uomini, è anche uno sveglio, è un calabrese, sveglio, veramente un bravo ragazzo, ti può andar bene?» «Sì, fammi contattare che lo incontro settimana prossima, subito, lunedì».

ATTIVITÀ FRIVOLE. Sergio Salerno, funzionario Amsa, si dà da fare per garantire a D'Alfonso la conquista di un appalto spiegando di avere bisogno di soldi per la figlia malata. Secondo i giudici «non lesinerà di dilapidare parte dei soldi illecitamente guadagnati in attività più frivole». L'ordinanza parla di «numerosissime occasioni dalle quali si evince che lo stesso frequenta abitualmente prostitute, le prestazioni sessuali hanno un costo di svariate centinaia di euro a incontro».

DIECI COSE PER 100MILA. D'Alfonso il 23 ottobre 2018 si vanta con Tatarella dei soldi passati a Mauro De Cillis, direttore di Amsa: «Perché Mauro non mi ha fatto solo una roba, me ne ha fatte due, me ne ha fatte tre, (..) mi ha fatto dieci cose per centomila». «Lui è bravo», commenta Tatarella.

PRELEVA COME UN TORO. Il 30 ottobre 2018 Daniele D'Alfonso si lamenta con la sua compagna dell'utilizzo smodato che Tatarella fa della carta di credito che lui gli ha fornito: «Minchia ma questo preleva come un toro». «Ma chi amore?» «Pietro... ma che cazzo prelevi! Come un toro prelevi!». In quel momento Tatarella era in vacanza in Sardegna con la famiglia.

VOGLIO LE QUOTE. A bordo della sua Cayenne, Tatarella spiega alla moglie i suoi progetti con D'Alfonso: «Siccome adesso che partono una serie di lavori tra cui questo che è già partito ... tutto quel filone lì di lavori lui non li ha mai fatti! Non è che c'è un fatturato pregresso, è una roba che nasce con me... quindi tutto quello che viene fuori di lì è misurabile, vuol dire che è frutto del mio lavoro! Quindi ad un certo punto gli dirò o cioè che percentualmente quello che vale nel fatturato quel tipo di lavori me lo deve dare in quote di azienda! Vuol dire che hai diciamo un quinto delle quote in teoria!».

«SONO DEI VAMPIRI». Paolo Colonnello e Grazia Longo per La Stampa il 7 maggio 2019. «Sentivi le vibrazioni quando facevi quell’ipotesi...ho vista la zanna che...tac! è venuta fuori come un vampiro, cacchiarola...mamma mia sono tremendi...» Dei vampiri. Così gli indagati descrivono gli uomini che trafficano come se non ci fosse un domani per ottenere appalti e favori politici in un vortice corruttivo che ricorda, incredibilmente, i sistemi corruttivi di “tangentopoli”. Gli indagati, nell’intercettazione, parlano in particolare di Gioacchino Caianiello, plenipotenziario di Forza Italia a Varese, considerato il boss, non solo politico, del gruppo di affaristi e corruttori che si muoveva in questa nuova zona grigia sotto il bel cielo di Lombardia. Caianiello, scrivono i magistrati, «esercita di fatto funzioni pubbliche nell’ambito di tutte le più importanti società partecipate del varesotto, grazie alla consapevole tolleranza degli amministratori apicali formali che lui stesso ha contribuito a far nominare...». Intercettati, filmati e pedinati, i protagonisti di questa nuova inchiesta che fa tremare anche i vertici del Pirellone, si muovono in particolare sotto le bandiere di Forza Italia, partito legato alla maggioranza in Regione, tanto da avere alcune importanti assessorati. Nonchè alcuni uomini di Fratelli d’Italia: l’imprenditore Daniele D’Alfonso, uno degli arrestati nella «tentacolare» indagine della Dda milanese, «in occasione della campagna 2018 per le consultazioni politiche e regionali», si legge nelle carte, avrebbe corrisposto «sistematici finanziamenti illeciti a soggetti politici», tra cui Fabio Altitonante, consigliere lombardo di FI arrestato, Diego Sozzani, parlamentare di FI (chiesto l’arresto) e Angelo Palumbo, anche lui di FI, «nonché al partito `Fratelli d’Italia´». Lo si legge nell’ordinanza cautelare. L’inchiesta, portata avanti dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia con l’ausilio dei Carabinieri, nata a Busto Arsizio, estesa poi a Varese e Milano, ha messo in luce il passaggio di centinaia di migliaia di euro di tangenti per ottenere appalti regionali, collegamenti con la ’ndrangheta , infiltrazioni nel Pirellone , fino al tentativo, respinto, di corrompere il presidente Attilio Fontana, con Caianiello che cerca di fargli piazzare dei suoi protetti in posti chiave della Regione in particolare alla direzione generale della Formazione, cui finisce però un professionista indipendente. «Le indagini hanno permesso di cogliere e fotografare un flusso costante di relazioni tra imprenditori, pubblici ufficiali (o incaricati di pubblico servizio) e soggetti politici attraverso il quale i principali indagati procedono sistematicamente a porre in essere condotte illecite al fine di arricchire la propria potenza economica ed imprenditoriale e di incrementare l’influenza su diversi soggetti pubblici ed enti territoriali acquisendo - di fatto - il controllo di molti gangli nevralgici attraverso i quali passa il denaro pubblico in alcune province della regione Lombardia e anche al di fuori di questa». Così scrive il gip Raffaella Mascarino nelle circa 700 pagine che formano l’ordine di cattura con il quale questa mattina i carabinieri hanno eseguito 28 ordinanze di custodia cautelare e notificato a un’altra ventina di indagati provvedimenti con obbligo di firma o di dimora, per un totale di 48 persone. Nel mirino diversi politici, anche di alto livello nella regione Lombardia e in consiglio comunale, tutti appartenenti al centro destra e in particolare a Forza Italia e Fratelli d’Italia. Si tratta del vice coordinatore regionale Pietro Tatarella (che è anche consigliere comunale e candidato alle prossime Europee per l’area Nord Ovest); Fabio Altitonante, assessore regionale Rigenerazione e sviluppo area Expo nonché sottosegretario in Regione; Diego Sozzani, deputato parlamentare e membro della Commissione permanente trasporti, poste e telecomunicazioni (per lui solo la richiesta su cui dovrà decidere il Parlamento); Carmine Gorrasi, consigliere comunale e coordinatore Forza Italia a Busto Arsizio. Tatarella è stato portato in carcere, gli altri sono ai domiciliari. Ci sono poi alcuni funzionari pubblici di alto livello come Mauro De Cillis, procuratore e responsabile operativo di Amsa (l’Azienda di raccolta rifiuti di Milano) accusato di aver ricevuto una tangente di almeno 100 mila euro da Daniele d’Alfonso, amministratore della società Ecol Service. Ma ad inquietare è soprattutto un capitolo che gli stessi giudici intitolano: “Istigazione alla corruzione del presidente Fontana”, e che racconta come questo sottobosco della politica lombarda si muoveva senza timore cercando persino di agganciare la ex moglie di Salvini, Giulia Martinelli che però «fa la cacacazzi» e «non è nostra». Non è un caso infatti che tra le accuse contestate e che la Procura antimafia ritiene provate, vi sia anche l’associazione per delinquere. Esulta, non a caso, il ministro degli Interni Matteo Salvini che ringrazia le forze dell’ordine «per la brillante operazione». Mentre già le opposizioni, in particolare del Pd e 5Stelle, chiedono che Fontana riferisca in Consiglio. «Rispetto all’arresto di un sottosegretario della giunta regionale, ci sembra doveroso che il presidente Fontana appena possibile venga a riferire in Aula quello di cui è a conoscenza. Abbiamo letto che sarebbe parte lesa ma per una questione di trasparenza e chiarezza ci aspettiamo una sua comunicazione al più presto». Lo ha detto il capogruppo del Pd, Fabio Pizzul, intervenendo in Consiglio regionale sull’ operazione della dda di Milano per tangenti negli appalti che ha portato all’arresto del sottosegretario della Regione Fabio Altitonante, mentre il governatore Attilio Fontana, che è parte offesa non è indagato, avrebbe subito un tentativo di istigazione alla corruzione. Alla richiesta del Pd si è unito il capogruppo del Movimento 5 Stelle Andrea Fiasconaro: «Fontana ha una grossa responsabilità politica nell’aver scelto Altitonante. Non deve venire quando ha tempo, ma sarebbe già dovuto essere in quest’Aula per riferire non ai 5 Stelle ma ai cittadini lombardi».

LOMBARDIA CANAGLIA. Luigi Ferrrarella per il “Corriere della sera” il 7 maggio 2019. Uno è nella lista di Forza Italia per le elezioni europee, ma adesso Pietro Tatarella (consigliere comunale milanese e vicecoordinatore regionale di Forza Italia) è in carcere con l' accusa di associazione a delinquere, condivisa con l'uomo forte varesino del partito Gioacchino Caianiello. Ai domiciliari per corruzione finisce il forzista Fabio Altitonante, consigliere regionale e sottosegretario della Regione Lombardia all' area Expo nella giunta del governatore leghista Attilio Fontana, a sua volta indagato per abuso d' ufficio. Alla Camera dei Deputati il gip chiede di autorizzare l' arresto per finanziamento illecito del parlamentare azzurro Diego Sozzani, ex presidente della Provincia di Novara e già consigliere regionale in Piemonte dove è vicecoordinatore del partito. E un nugolo di contestazioni raggiunge dirigenti di municipalizzate e Comuni lombardi, tra i quali per abuso d' ufficio l' attuale direttore (Franco Zinni) del settore Urbanistica nel Comune di Milano del sindaco Beppe Sala, e per turbativa d' asta il responsabile operativo (Mauro De Cillis) dell' Amsa che gestisce i rifiuti del capoluogo lombardo. Sono alcune delle letture giuridiche che i pm Bonardi-Furno-Scudieri - tra 12 arresti in carcere, 16 ai domiciliari, 15 obblighi dimora, e in tutto 90 indagati - danno ai rapporti diretti o mediati con l' imprenditore del settore ambientale Daniele D' Alfonso (Ecol-Service srl), l' unico al quale è contestata anche l' aggravante d' aver agevolato il clan di 'ndrangheta dei Molluso di Buccinasco facendone lavorare uomini e mezzi negli appalti vinti pagando tangenti. Il che fa additare alla gip Raffaella Mascarino «uno scenario di bassissima valenza sociale» dietro il finto «fiore all' occhiello di un certo modo lombardo di "fare sistema"». L' imprenditore che ha a libro paga Tatarella (5.000 euro al mese come consulente per il «posizionamento sul mercato», viaggi, carta di credito e uso di tre auto), che versa 10.000 euro a Sozzani, che scommette 10.000 euro sul futuro consigliere regionale forzista Angelo Palumbo, che su richiesta di Andrea Grossi (figlio dello scomparso plurindagato re delle bonifiche) fa versare 10.000 euro a Fratelli d' Italia, e che per conto del top manager Luigi Patimo della multinazionale spagnola Acciona Agua anticipa 20.000 euro per la campagna elettorale di Altitonante, è infatti lo stesso D'Alfonso che con la propria azienda si presta a fare la faccia pulita del movimento-terra del clan del condannato per associazione mafiosa Giosefatto Molluso (9 anni e 3 mesi nel processo Infinito). Con due tossici risultati per il gip. «Pesanti ripercussioni su gestione del denaro pubblico, libertà dei mercati, e corretto espletamento delle elezioni». E «tutta la fitta rete di collusioni intessuta da D' Alfonso con l' ambiente politico finisce con il convogliare parte delle risorse illecite, ottenute attraverso la perpetrazione di reati contro la P.A. proprio a favore di esponenti della criminalità 'ndranghetista che continuano a operare nell' hinterland».

Luigi Ferrarella per il “Corriere della sera” il 7 maggio 2019. La tangente aguzza la metafora. «Ho seminato talmente tanto! Io a tutti quanto ho dato da mangiare!», si vanta (ignaro di essere intercettato) l' imprenditore dele bonifiche Daniele D' Alfonso, che con una mano finanziava i politici per gli appalti e con l' altra poi vi faceva lavorare il clan di 'ndrangheta Molluso. Certo bisogna però essere persone «educate», per lavorare a Milano, se per educazione si intende la disponibilità a ungere le ruote: è tutta una questione di rapporti, spiega D'Alfonso a un interlocutore, «a Milano vanno da un costruttore, il costruttore più forte, vanno e gli dicono "lui è mio amico, lo fai lavorare per favore?". Quello magari ha fatto un favore, lui gli ha fatto un favore a quello che dice "va bene... piuttosto che far lavorare un estraneo, faccio lavorare Daniele, Daniele mi sta simpatico, si fa voler bene, è una persona educata, lo faccio lavorare"». Del resto non è che dall' estero diano lezioni migliori. D' Alfonso, ad esempio, agisce come tramite di Luigi Patimo (top manager della multinazionale spagnola Acciona Agua) nell'anticipare 20.000 euro di finanziamento alla campagna elettorale del consigliere regionale forzista Fabio Altitonante, che poi però deve darsi da fare (con le sue conoscenze al Comune di Milano quali il direttore dell' Urbanistica) per far ottenere un permesso (nonostante alcuni vincoli paesaggistici) di ristrutturare un immobile della moglie del top manager. Il passo è breve da qui a un «sistema feudale», come lo chiama la giudice quando nelle intercettazioni ascolta parlare proprio di «decima» in relazione alla regola del 10%, fotografata nella realtà di Varese dove «i pubblici funzionari posti a capo di importanti società partecipate (Accam spa, Alfa srl e Prealpi servizi srl) o con ruoli chiave in Comuni (Gallarate) hanno ricevuto la loro investitura dal dominus dell' intero sistema politico e dell' imprenditoria pubblica della provincia», il forzista Gioacchino Caianiello. «I pubblici ufficiali non hanno quindi bisogno di essere "avvicinati" dal "facilitatore" per essere messi in contatto con il privato corruttore, ma sanno "ab origine" di dover rispondere a determinate logiche corruttive e clientelari»: perché, «come accadeva nel sistema feudale, l' investitura non è elargita a titolo gratuito, ma comporta il pagamento della "decima" in favore del dominus. Che neppure ha l' onere di andarla a raccogliere, in quanto i suoi vassalli si premurano di consegnargliela direttamente nel luogo da cui esercita il suo potere». Che, mentre a Milano è il ristorante accanto alla Regione già teatro nel 2011 di una consegna di tangente ad un assessore, e che gli indagati chiamano sarcasticamente «la mensa dei poveri», a Gallarate è un bar dove Caianiello riceve questuanti e complici, e che con humour chiama perciò «l' ambulatorio». Il picco di surrealtà, nell' indagine della Dda guidata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci con i pm Silvia Bonardi, Luigi Furno e Adriano Scudieri, viene toccato con la scoperta di una tangente ideata su una sentenza di condanna per tangenti. Nel 2005 l' imprenditore edile Emilio Paggiaro, per un cambio di destinazione a supermercato dell' area ex Maino a Gallarate (Varese), si era visto pretendere 250.000 euro da Caianiello, vicenda per la quale a fine 2017 il politico varesino di Forza Italia (lo stesso poi protagonista dell' istigazione alla corruzione del governatore leghista Fontana nel 2018) era stato condannato in via definitiva per concussione a 3 anni di pena e 125.000 euro da risarcire alla parte civile concussa. I 3 anni non erano un gran problema per lui, perché coperti da indulto. Ma il risarcimento sì, sia perché ingente sia perché (se non saldato) impediva a Caianiello di chiedere l'agognata riabilitazione funzionale a tornare ad assumere ruoli formali in FI. E così il medesimo imprenditore concusso nel 2005, avendo ora di nuovo interesse a un altro cambio di destinazione urbanistica che Caianiello gli garantisce, per questo promesso favore accetta di concordare con il suo concussore politico del 2005 una transazione (che costa gli arresti domiciliari anche all' avvocato Stefano Besani), in cui finge di aver da Caianiello ricevuto il risarcimento di 125.000 euro fissato dalla sentenza e gli rimborsa pure 36.000 euro di spese legali. Corruzione sulla sentenza per concussione: la tangente al quadrato, questa ancora mancava nell' hit parade post Mani pulite.

Claudia Guasco per “il Messaggero” l'8 maggio 2019. L'efficacia del protocollo di Daniele D' Alfonso sta tutto nella confidenza che l' imprenditore fa ai due enfant prodige di Forza Italia, Pietro Tatarella e Fabio Altitonante, dopo un pranzo Da Berti, naturalmente a sue spese, a gennaio 2018: «Ho seminato talmente tanto. Io a tutti quanti ho dato da mangiare». Contaminando così il mondo produttivo di Milano e della regione fin nelle sue fondamenta. Come scrive il gip Raffaella Mascarino, «si assiste a uno scenario di bassissima valenza sociale: pezzi delle strutture regionali, di primarie municipalizzate facenti parte di gruppi imprenditoriali portati come fiore all' occhiello di un certo modo lombardo di fare sistema, sono di fatto asserviti a interessi che, anche se in modo indiretto, finiscono con l' essere riconducibili e conformati a strutture mafiose». Il meccanismo di D' Alfonso per ungere il sistema, dicono le accuse, è vecchio come il mondo e i beneficiari ne approfittano spudoratamente. Tatarella, per esempio: «Minchia, ma questo preleva come un toro», sbotta l' imprenditore quando riceve sul suo smartphone un sms con le spese dell' American Express in uso al candidato di Forza Italia alle europee del prossimo 26 maggio. La lista dei benefit di Tatarella comprende: 20.800 euro percepiti nel 2017 dalla società Ecol service, da gennaio ad agosto 2018 un biglietto aereo per l' Australia intestato alla cognata, due biglietti per l' Inghilterra come «regalo di compleanno per il piccolo Enea», il figlio, 2.287 euro per un convegno elettorale in pizzeria, 2.000 euro in contanti per andare in ferie in estate, una Bmw X5, una Smart e una Fiat 500 Abarth a disposizione. Il sottosegretario regionale Altitonante invece avrebbe ricevuto per la sua campagna elettorale (vincente) 25 mila euro, di cui 20 mila per far ottenere il permesso a intervenire su un edificio sottoposto a vincoli paesaggistici della moglie del manager Luigi Patimo. Ma alla fine, a quanto pare, sono soldi ben spesi: «Io sui contatti legati all' istituzionale sono molto forte. Conosco molto bene Giuseppe Bonomi, amministratore delegato di Arexpo», confida Tatarella a un interlocutore che gli spiega di voler entrare nel business del post Expo. È lui, spiega il gip, «il pr di D' Alfonso». E così i soldi frusciano nelle intercettazioni ambientali sulla Smart di Tatarella, passano di mano al tavolino dell' House Garden di Gallarare, l' ufficio di Gioacchino Caianello noto come «l' ambulatorio» perché qui si distribuiscono numerini per far la fila e si dispensano consigli. «Io dalle nove sono lì, tranne i giorni festivi. Domani c' è un po' di affollamento, vieni quando vuoi», suggerisce a un cliente il plenipotenziario forzista di Varese. Un vero boss, un genio della mazzetta ideatore della tangente al quadrato: condannato per concussione, finge di versare i 125 mila euro di risarcimento a un imprenditore e in cambio gli firma la concessione per un supermercato. I nemici lo chiamano «vampiro, ho visto la zanna che tac, è venuta fuori» per la sua spietatezza e «Jurassik Park» per la sua inamovibilità politica. In effetti di se stesso dice: «Io non mi muovo. Io faccio il sole e la terra che gira intorno». Per i pm è lui, con Giuseppe Zingale, responsabile del tentativo di corruzione del governatore Attilio Fontana: i due «proponevano tramite l' Afol, l' agenzia per l' orientamento al lavoro diretta da Zingale, consulenze onerose in favore dell' avvocato Luca Marsico, socio dello studio Fontana». Marsico, che stando a Caianello ha un fratello che guadagna 2.600 euro al mese in Trenord distribuendo volantini pubblicitari, è in bolletta. E il forzista riferisce di un «golpe» per farlo entrare nell' organismo di vigilanza della Milano-Serravalle, manovra «fatta saltare dagli stessi amici di Fontana» tra cui Giulia Martinelli, capo della segreterie del presidente nonché ex moglie di Matteo Salvini. Che però, afferma Caianello, «fa la caca..zzi» e «non è nostra». Alla fine un incarico in Regione Marsico lo ottiene e su questo ora sta indagando la Procura. «Io vado avanti corretto e trasparente come sempre sono stato», replica il governatore.

Tangenti in Lombardia,  tra gli arrestati gli azzurri Tatarella e Altitonante. Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 da Corriere.it. Una proposta indecente al presidente leghista della Regione Lombardia, non andata in porto ma nemmeno denunciata. Una «istigazione alla corruzione» che il governatore Attilio Fontana (ex sindaco di Varese) si è sentito fare da un «ras» locale dei voti lombardi di Forza Italia già condannato definitivamente nel 2017 a 3 anni per una concussione del 2005, l’ex coordinatore provinciale varesino Gioacchino Caianiello. Che nel marzo 2018 propone a Fontana di mettere a capo dell’appetìto «settore Formazione» della Regione Lombardia il direttore generale dell’Afol-Agenzia metropolitana per il lavoro; e in cambio gli prospetta la possibilità che poi Afol nomini nel collegio sindacale e assegni lucrose consulenze all’avvocato socio di studio legale di Fontana, il forzista consigliere regionale uscente Luca Marsico, in modo da risolvere il problema di Fontana di trovare una soluzione che risarcisse l’amico e collega di studio per la mancata rielezione in Regione, peraltro maturata proprio per il boicottaggio di Caianiello dentro Forza Italia varesina. È questo progetto di baratto ad essere ora contestato dalla Procura di Milano a Caianiello come reato di istigazione a una corruzione di cui Fontana è indicato come «parte offesa» (anziché come concorrente nella corruzione) perché, pur senza denunciare il baratto, in una intercettazione diretta tra i due avrebbe spiegato a Caianiello di voler esplorare altre possibilità riguardo il futuro di Marsico. Ma in queste ore l’inchiesta dei pm Silvia Bonardi, Luigi Furno e Adriano Scudieri - entro la quale affiora l’iceberg di questa storia imbarazzante per i vertici della Regione - scoperchia peraltro un pulviscolo di ritenuti illeciti nella pubblica amministrazione della Lombardia amministrata dalla maggioranza di centrodestra Lega-Forza Italia, e determina martedì mattina 43 misure cautelari (12 arresti in carcere, 16 ai domiciliari, e il resto obblighi di dimora e di firma) ordinate dalla giudice Raffaella Mascarino – su richiesta due mesi fa della Procura – soprattutto per una urgente esigenza cautelare: quella di dover interrompere un continuo susseguirsi di reati «ascoltati» in diretta dalle indagini della Guardia di Finanza di Milano e di Busto Arsizio, dei carabinieri di Monza e della Polizia municipale meneghina, in un intrecciarsi di filoni autonomi tra loro ma spesso aventi come punti di contatto di volta in volta tre personaggi: o Caianiello, o il consigliere comunale milanese e vicecoordinatore regionale di Forza Italia Pietro Tatarella, o l’imprenditore del settore rifiuti e bonifiche ambientali, Daniele D’Alfonso della Ecol-Service srl, l’unico al quale viene contestata anche l’aggravante di aver agevolato il clan di ‘ndrangheta dei Molluso facendone lavorare uomini e mezzi negli appalti presi pagando appunto tangenti. Così è l’accusa di associazione a delinquere (condivisa appunto con Caianiello e D’Alfonso) che determina l’arresto stamattina di Pietro Tatarella, in questi giorni candidato di Forza Italia nella circoscrizione Nord-Ovest alle prossime elezioni europee del 26 maggio. Per corruzione è arrestato il forzista Fabio Altitonante, consigliere regionale e sottosegretario della Regione Lombardia all’area Expo nella giunta Fontana. Per l’ipotesi di finanziamento illecito l’Ufficio Gip del Tribunale domanda alla Camera dei Deputati l’autorizzazione all’arresto del parlamentare azzurro Diego Sozzari, punta di Forza Italia a Novara e vicecoordinatore in Piemonte del partito di cui guida anche il dipartimento Infrastrutture. Un nugolo di contestazioni raggiunge inoltre dirigenti di municipalizzate e Comuni lombardi, tra i quali l’abuso d’ufficio è ad esempio contestato all’attuale direttore (Franco Zinni) del settore Urbanistica nel Comune di Milano del sindaco Beppe Sala, mentre turbativa d’asta e corruzione sono ipotizzate a carico del responsabile operativo Mauro De Cillis dell’importante municipalizzata milanese Amsa che gestisce i rifiuti della città. L’indagine è l’incrocio di un fascicolo dei pm Bonardi e Scudieri (nella Direzione distrettuale antimafia diretta dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci) con una inchiesta di pubblica amministrazione invece sviluppata dal pm Furno. E che, incredibilmente, uno degli epicentri degli ascolti delle microspie degli investigatori sia stato ancora il rinomato ristorante “Da Berti», vicino alla sede della Regione Lombardia: proprio lo stesso nel quale nel settembre 2011 un imprenditore delle discariche consegnò una mitologica tangente da 100 mila euro in contanti all’allora vicepresidente del Consiglio regionale lombardo Franco Nicoli Cristiani. In questo ristorante ora Tatarella - secondo l’accusa remunerato stabilmente da D’Alfonso con fittizie consulenze da 5.000 euro al mese, con carte di credito e viaggi e noleggio gratis di vetture – propiziava nuove relazioni politiche all’imprenditore corruttore. In gergo, il ristorante diventava “la mensa dei poveri”. Che ora è diventato anche il nome dell’inchiesta. Il picco di surrealtà appare addirittura la scoperta di una tangente su una sentenza di condanna per tangenti. Nel 2005 l’imprenditore edile Emilio Paggiaro, per un cambio di destinazione a supermercato dell’area ex Maino a Gallarate (Varese), si era visto pretendere 250.000 euro da Caianiello, vicenda per la quale il politico varesino di Forza Italia era stato condannato in via definitiva per concussione solo a novembre 2017 a 3 anni di pena e 125.000 euro da risarcire alla parte civile concussa. Ma adesso proprio il medesimo imprenditore, avendo di nuovo interesse a un altro cambio di destinazione urbanistica che Caianiello gli garantisce di poter ottenere, in cambio di questo promesso favore accetta di concordare con il suo concussore del 2005 una transazione, nella quale finge di aver da Caianiello ricevuto il risarcimento di 125.000 euro fissato dalla sentenza definitiva e anzi gli rimborsa pure le spese legali. La tangente sulla sentenza per tangenti: questa sì, questa ancora mancava nell’hit parade delle corruzioni post Mani Pulite.

Fontana: «Altitonante sospeso dall’incarico. In questa vicenda io parte offesa». Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 da Corriere.it. Il presidente della Regione, Attilio Fontana, ha deciso di sospendere dall’incarico il sottosegretario alla Presidenza regionale, Fabio Altitonante, arrestato martedì mattina perché coinvolto nella maxi inchiesta condotta dalla Dda di Milano. «Ho deciso - ha detto il governatore lombardo nel suo intervento in Consiglio regionale - di sospendere immediatamente l’incarico del sottosegretario. Sono il primo a volere che la verità emerga». Quindi ha parlato anche del suo coinvolgimento nell’indagine: «Voglio che emerga tutta la verità e fino in fondo, in questa vicenda sono parte offesa. Non ho percepito alcun atteggiamento corruttivo nelle interlocuzioni avute». Per poi aggiungere: «Da oggi io vado avanti corretto e trasparente come sempre sono stato, consapevole del compito difficile che mi è stato affidato con il voto popolare e dall’assoluta utilità del nostro lavoro. Da un lato la notizia dell’indagine ci conforta perché conferma la presenza di solidi anticorpi nella nostra Regione contro la corruzione, dall’altro ci colpisce in modo particolare per le misure cautelari decise nei confronti del sottosegretario Altitonante». Nel frattempo la notizia dell’inchiesta e degli arresti ha registrato molte reazioni nel mondo politico soprattutto milanese. «Il coordinamento regionale di Forza Italia Lombardia» ha «disposto la temporanea sospensione dalle cariche all’interno del Movimento» dei dirigenti raggiunti da provvedimenti cautelari per l’inchiesta di Milano. Lo scrive in una nota Mariastella Gelmini, presidente dei deputati di Forza Italia e coordinatrice regionale azzurra in Lombardia. Il partito ribadisce «la propria linea garantista e la convinzione che i propri dirigenti colpiti da provvedimenti cautelari potranno dimostrare l’estraneità ai fatti che vengono loro contestati». Il sindaco di Milano Giuseppe Sala, da parte sua, ha commentato: «Ero stamattina (martedì, ndr.) con il mio collega Fontana: siamo su due schieramenti diversi, però Fontana la ritengo una persona specchiata. Il Comune è toccato dal fatto che c’è un dirigente accusato di abuso di ufficio: non voglio dire che la cosa non sia grave, però a questo punto sembra non ci siano soldi che corrono. Stiamo ad osservare. Però, togliendoci un po’ dalle considerazioni politiche, la mafia e la criminalità esistono anche da noi, non l’ho mai nascosto. Si tratta di fronteggiarla e di dare un esempio diverso». Bisogna recuperare la cultura della legalità «altrimenti non saremmo un governo del cambiamento, cambiamento nel diffondere e promuovere la cultura della legalità». Lo ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte al forum di Filiera Italia e Coldiretti a Tuttofood. «Continueremo a tenere alta, altissima la soglia della lotta contro la corruzione. Vogliamo che tutti i pubblici ufficiali si comportino con dignità e onore». Il presidente Conte ha sottolineato che si sta «parlando di inchieste, siamo in una fase delle indagini e non abbiamo ancora sentenze in giudicato. Ma - ha aggiunto - sicuramente dai primi riscontri riportati dagli organi di informazione c’è motivo su cui riflettere e che ci spinge ad essere ancora più determinati in questa direzione».

Tangenti in Lombardia, Fontana indagato per abuso d’ufficio. Pubblicato mercoledì, 8 maggio 2019 da Luigi Ferrarella Corriere.it. Inizia la mattina come «parte offesa» di una «istigazione alla corruzione» che non ha denunciato, ma il presidente leghista della Regione Lombardia Attilio Fontana finisce la sera come indagato per l’ipotesi di «abuso d’ufficio». Vertiginosa montagna russa per chi la settimana scorsa a Palazzo di giustizia, da solo e senza appuntamento, senza che si fosse saputo, aveva bussato all’anticamera del procuratore Francesco Greco, incredibilmente a chiedere se fossero vere le voci impazzite in ambienti politici su imminenti iniziative giudiziarie in Regione. Per uno scherzo del destino Greco era in riunione proprio con i pm che stavano ultimando l’operazione emersa solo ieri con 28 arresti e 15 obblighi di dimora tra politici, amministratori e imprenditori: compresa l’accusa al forzista varesino Gioacchino Caianiello di «istigazione alla corruzione» proprio di Fontana, dopo la mancata rielezione al Pirellone del consigliere regionale forzista Luca Marsico, avvocato socio dell’avvocato Fontana nel loro studio legale. Le indagini avevano infatti registrato «la volontà del presidente Fontana di trovare il modo di ricollocare professionalmente il suo socio di studio». Esigenza di fronte alla quale Caianiello («signore dei voti» dentro Forza Italia nonostante la condanna definitiva nel novembre 2017 a 3 anni per concussione) gli propone un baratto corruttivo: la nomina alla direzione Formazione della Regione dell’attuale direttore generale di Afol Metropolitana, Giuseppe Zingale, in cambio dell’affidamento di consulenze per 80/90.000 euro l’anno da parte di Afol a favore di quello che Caianiello con Fontana chiama «il nostro amico… di studio». Il governatore leghista per un po’ è possibilista. Fin quando, intercettato nel marzo 2018 con lo stimato Caianiello (al quale dice «hai visto che i tuoi consigli li ho seguiti quasi tutti»), accenna di stare coltivando un’alternativa: «Anch’io comunque ho voluto percorrere un’altra strada in modo che abbiamo delle alternative, poi insieme ci troviamo e decidiamo quale sia la migliore o magari tutte e due, vediamo…». È un salvataggio in corner, ma anche l’inizio di un mezzo autogol. Salva in extremis Fontana dal concorso nella corruzione propostagli da Caianiello, facendone per i pm la «parte offesa» di una «istigazione alla corruzione» (seppure non denunciata perché, dirà poi ieri Fontana in Regione, «non percepita»). Ma nel contempo peggiora la posizione del governatore lombardo quando ieri, in Regione, la Guardia di finanza acquisisce i documenti sul fatto che poi Fontana abbia davvero attuato una delle «alternative» che aveva immaginato: e cioè nell’ottobre 2018 abbia proposto alla giunta regionale di nominare il suo socio di studio Marsico tra i membri esterni di un «Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici» (11.500 euro l’anno e 180 a seduta). È a questo punto che Fontana — appena incensato dal vicepremier e segretario leghista Salvini che se ne dice «doppiamente orgoglioso», e reduce da una seduta in Regione nella quale i consiglieri di maggioranza lo acclamano quando rivendica «vado avanti corretto e trasparente come sempre sono stato» — viene indagato dalla Procura per l’ipotesi di «abuso d’ufficio».

La «mensa dei poveri»  dai conti salati dove un assessore prese 100 mila euro. Pubblicato mercoledì, 8 maggio 2019 da Andrea Senesi su Corriere.it. C’era l’ossobuco che piaceva tanto a Gorbaciov e il bollito misto di Bettino Craxi. Di Roberto Formigoni, che qua è stato per più d’un decennio ospite quasi fisso, si diceva invece fosse ghiotto di riso al salto. La «mensa dei poveri» è un enorme pergolato a due passi dai grattacieli del potere. Il soprannome risulta inedito, ma il luogo «eletto a base logistica del sodalizio criminale» è ancora una volta il ristorante «Da Berti», in via Algarotti, a due passi dai due palazzi della Regione. «Vediamoci, sentiamoci magari mangiamo un boccone insieme… alla mensa, sì quella dei poveri», dice Caianiello al governatore leghista Attilio Fontana. Nelle carte del tribunale di Milano il nome del ristorante appare per ben 42 volte. Lì, «con cadenza pressoché settimanale, e da oltre un anno a questa parte, si sono tenute riunioni aventi come reale scopo quello di programmare, anche grazie al contributo di Caianiello molti dei delitti». E ancora, si legge nell’ordinanza, «Berti è un posto strategico, per la sua vicinanza al palazzo della Regione Lombardia ed è luogo di incontro stabile dei tre protagonisti del sodalizio».Blitz in Lombardia per tangenti, le «mazzette» pagate al tavolino del bar. La «mensa dei poveri» è in realtà un’insegna storica della città, di buon livello e dai conti robusti. Da decenni è il ristorante della Regione. Formigoni era di casa, si è detto, e non solo lui: i suoi assessori tra i tavoli riservati (e ben distanziati) di Berti facevano anche di più. È qui che per esempio, stando alle intercettazioni, il 26 settembre del 2011 Franco Nicoli Cristiani, allora potente assessore all’ambiente del Pirellone in una delle tante giunte presiedute dall’ex «Celeste», intascò la tangente da centomila euro proveniente da un imprenditore di Grumello per «oliare» un’autorizzazione di una discarica di amianto nel Cremonese. 

In quegli anni da Berti s’«attovagliavano» più o meno tutti, politici di destra ma anche qualcuno di sinistra. Persino il mondo della cultura faceva la fila per prendere posto tra i tavoli di via Algarotti, Riccardo Muti, Ermanno Olmi e mille altri ancora. Poi con le inchieste sulla «rimborsopoli» lombarda — si scoprì che le libagioni nei ristoranti erano tutte o quasi a carico dei contribuenti — il locale sembrava passato di moda. «Qui non viene più nessuno», allargava le braccia sconfortato il patron Gigi Rota nell’ottobre del 2012. La diaspora è durata qualche stagione: i politici regionali sono tornati in massa ai tavoli di Berti. E non solo a parlare di politica.

Tangenti in Lombardia, così un ingegnere  ha scoperto la cimice. Pubblicato mercoledì, 8 maggio 2019  da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Cappotto: undici su undici, e tutti zitti. Nel senso che tutte le persone arrestate martedì, e di cui ieri la giudice delle indagini preliminari Raffaella Mascarino si era recata a svolgere gli interrogatori di garanzia nelle carceri di San Vittore e Opera, hanno scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere, per lo più motivata dalla comprensibile volontà di leggere prima gli atti completi (e non solo l’ordinanza di custodia cautelare) dell’inchiesta. Su questa linea, ad esempio, l’imprenditore delle bonifiche ambientali al centro dell’indagine, Daniele D’Alfonso; l’influente esponente di Forza Italia a Varese, Gioachino Caianiello; e il consigliere comunale milanese e vicecoordinatore regionale di Forza Italia, Pietro Tatarella, attualmente in lista quale candidato alle elezioni europee del 26 maggio. Tatarella, pur ritenendo non fondate le accuse mossegli (e cioè l’essere stato a libro paga dell’imprenditore D’Alfonso), ha consegnato al suo avvocato Luigi Giuliano una lettera di dimissioni dal Consiglio comunale di Milano, mentre non gli è tecnicamente possibile ritirarsi da candidato europeo (questione rara che si pose negli anni ‘80 quando il socialista Rocco Trane fu arrestato in campagna elettorale, non potè che restare comunque in lista, fu votato, e risultò il secondo non eletto). In caso di elezione, Tatarella potrà esercitare la rinuncia al seggio europeo. Non per tutti l’inchiesta di ieri è piombata a sorpresa. Lo si era già intuito dalle voci politiche che la settimana scorsa avevano spinto a bussare alla porta del procuratore Francesco Greco il governatore leghista Attilio Fontana, ora invitato a comparire lunedì prossimo in un interrogatorio sull’ipotesi di abuso d’ufficio per aver affidato al proprio socio di studio legale Luca Marsico un incarico in Regione per il quale si erano proposti altri 60 candidati. Ma adesso dagli atti si viene a sapere che altri, molto più coinvolti, si erano invece allarmati già dal 30 maggio 2018: giorno in cui l’ingegner Alberto Bilardo (l’altro ieri ai domiciliari per l’ipotesi di associazione a delinquere), consigliere di Accam (società di gestione dei rifiuti di Comuni come Busto Arsizio e Legnano), nonché fino all’agosto 2018 segretario cittadino di Forza Italia a Gallarate, in una casuale attività di pulizia del condizionatore d’aria in ufficio vi aveva trovato nascosto un apparato di videoriprese e intercettazione. Una scoperta che «lo spaventava moltissimo», soprattutto «in ragione del fatto che, pochi giorni prima, all’interno dello stesso ufficio era stata consegnata una parte del denaro» di una tangente. Ne è talmente consapevole che gli scappa detto «io ho paura che domani mattina mi arrestano». Ma l’altro effetto della scoperta è che «mette in fibrillazione Caianiello (subito informato da Bilardo) e tutti gli uomini a lui più vicini, che iniziano a paventare possibili chiamate in correità da parte di Bilardo». E che per questo cominciano a manifestare apparenti (e in realtà strumentali) prese di distanza.

DAGONOTA l'8 maggio 2019. Come va il rapporto tra Salvini e i magistrati? Giudicate voi: mentre era a Milano per la serata di ''Fino a Prova Contraria'', associazione di Annalisa Chirico che promuove la riforma della giustizia, la procura della città, guidata da Francesco Greco, faceva arrestare decine di persone, tra cui molti politici lombardi della maggioranza Forza Italia-Lega e l'ex socio di Siri, e iscriveva nel registro degli indagati il presidente della regione, il leghista Attilio Fontana. Una retata commentata così da Buffagni: ''In Lombardia hanno arrestato gli amici di Salvini''. Insomma uno schiaffo sonoro partito dal Palazzo di Giustizia, lo stesso dove fu scritta la parola ''fine'' sulla parabola politica di Bettino Craxi, un altro milanese che puntava a governare l'Italia con piglio decisionista. I magistrati hanno ormai messo nel mirino il vicepremier, anche perché in questi mesi ha agito sempre senza consultare le toghe nelle sue decisioni, come si è visto chiaramente nei casi delle navi dei migranti. Un atteggiamento molto diverso da quello dei grillini, in particolare del Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che come capo di gabinetto ha Fulvio Baldi, un magistrato attivo nel direttorio della corrente Unicost e studioso proprio delle normative che riguardano l'ordinamento giudiziario. Bonafede e gli altri 5 Stelle hanno mantenuto un rapporto di grande collaborazione con le toghe (a partire da Davigo), e il messaggio è stato ribadito ieri con l'irrituale conferenza stampa congiunta che il ministro ha tenuto insieme al vicepremier Di Maio, nella quale hanno ribadito ''Tangentopoli non è mai finita, la corruzione è ancora una piaga fondamentale e gravissima''. Il messaggio che i M5S vogliono inviare agli elettori (e pure alle toghe) è chiaro: noi siamo il partito dei pm, la Lega invece…Non è un caso se il Capitano, di solito fiammeggiante, abbia lasciato che Conte cacciasse a pedate Siri dal governo, addirittura ribadendo la fiducia al premier. Da qui al 26 maggio Salvini non cercherà altre rogne mettendosi di traverso all'esecutivo o dichiarando guerra ai magistrati. Dopo, chi vivrà vedrà (e conterà i voti delle europee). 

Cesare Zapperi per il ''Corriere della Sera'' l'8 maggio 2019. All' ordine del giorno del Consiglio dei ministri di oggi c' è ben altro, ma se possibile c' è chi vorrebbe che in cima alla lista delle priorità venisse messa la riforma della giustizia. L' associazione «Fino a prova contraria» guidata da Annalisa Chirico ha affidato al vicepremier Matteo Salvini, ospite ieri a Villa Necchi di una serata organizzata ad hoc con il fior fiore della società civile milanese (avvocati, banchieri, imprenditori; da Manfredi Catella a Francesco Micheli), il compito di portare davanti ai colleghi di governo il dossier. «Fatta salva l' obbligatorietà dell' azione penale - ha sottolineato Chirico - è necessario che il Consiglio superiore della magistratura e il Parlamento ogni anno decidano quali reati è giusto perseguire in via prioritaria. Così si avrebbe meno parzialità da parte dei pubblici ministeri e più trasparenza». La serata di «Fino a prova contraria» ha avuto anche un risvolto economico. Per gli organizzatori è necessario rilanciare il partito del Pil (ben rappresentato in platea). Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, ha rivolto a Salvini l' appello a tagliare i lacci e lacciuoli della burocrazia per consentire alle imprese di poter investire con tempi e procedure certe. E l' ex ministro Giulio Tremonti ha ripercorso i tentativi non sempre riusciti di imprimere una svolta liberale alla politica economica dei governi di cui ha fatto parte.

Tommaso Montesano per ''Libero Quotidiano'' l'8 maggio 2019. Lo slogan è semplice: «Più giustizia, più crescita». Da qui l' hashtag che sta accompagnando, da inizio anno, l' azione del movimento Fino a prova contraria: #innomedelpil. «Un imprenditore cosa chiede per investire?

Tempi certi e decisioni prevedibili. Invece, denuncia Annalisa Chirico, in Italia la giustizia continua a essere in uno stato disastroso. Per arrivare a una sentenza di primo grado - ramo civile - ci vogliono almeno 360 giorni. Perfino in Burundi e Zimbabwe sono messi meglio, ricorda il video con il quale a Milano - nella cornice di villa Necchi Campiglio - si apre il nuovo appuntamento organizzato dal movimento presieduto dalla giornalista, che ieri sera ha riunito oltre 300 persone in rappresentanza di quella che Chirico chiama «l' Italia che lavora, produce e si rimbocca le maniche. È questa l' Italia cui vogliamo dare voce.

Non quella che chiede sussidi e reddito di cittadinanza e desidera andare in pensione prima. E all' Italia che produce - «il mondo produttivo» - serve una giustizia che funzioni. Sondaggi, studi e report - anche di fonte europea - confermano che «l' emergenza numero uno in Italia è la lentezza della giustizia». Come può un Paese che vuole crescere, si chiede Chirico, permettere che in tutti questi anni l'«imprenditore sia diventato un presunto colpevole?». Ecco altri numeri: 25mila detenuti incarcerati ingiustamente; 600 milioni di euro di risarcimenti. «E li paghiamo noi». Così il sistema è al collasso: «L' Italia ha troppe leggi penali. Tante leggi penali producono altrettante notizie di reato. Così i magistrati devono destreggiarsi: a causa della scarsità di risorse devono scegliere quali fascicoli portare avanti e quali no». Ma non è così che funziona. Da qui la proposta lanciata al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede (che, al contrario del suo collega Matteo Salvini, ministro dell' Interno, continua a disertare, seppure invitato, gli appuntamenti del movimento): «Gli chiederemo l' impegno di sostenere la nostra prossima battaglia affinché, pur mantenendo l' obbligatorietà dell' azione penale, la scelta di quali notizie di reato perseguire non spetti alla discrezionalità del procuratore, ma all' organo di autogoverno della magistratura, il Csm, cui dovrebbe spettare il compito di stabilire, ogni anno, le priorità della politica giudiziaria. Il Guardasigilli, sempre così impegnato, apra al confronto». In sala, oltre a Salvini, tra gli altri ci sono Giulio Tremonti, i magistrati Carlo Nordio e Stefano Dambruoso, il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi. Il presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha inviato un messaggio. Chirico ringrazia e rilancia: «Costruttori, imprenditori, liberi professionisti, rappresentanti del mondo agricolo. Questa è una comunità che vuole vivere in un Paese più libero e competitivo. È ora di parlare di giustizia in modo pragmatico e costruttivo».

Blitz dei pm su Fontana. Spunta anche Giorgetti. Il presidente accusato di abuso d'ufficio. Lunedì sarà davanti ai pm: "Risponderò serenamente". Cristina Bassi, Giovedì 09/05/2019, su Il Giornale.  La morsa si è chiusa in pochissime ore. Le voci insistenti che davano il governatore lombardo Attilio Fontana indagato nell'inchiesta della Dda su un giro di tangenti e appalti pilotati, che martedì ha portato a 43 misure cautelari, trovano conferma ieri direttamente alla Procura di Milano. L'ipotesi è quella di abuso d'ufficio. Il presidente della Regione, assistito dall'avvocato Jacopo Pensa, è stato convocato per lunedì prossimo dai pm per l'interrogatorio. «Risponderò ai magistrati puntualmente e serenamente», annuncia. L'accusa a Fontana è relativa alla nomina di Luca Marsico, suo ex socio di studio legale, per un incarico al Pirellone. Nell'ottobre del 2018 il governatore avrebbe fatto nominare con una delibera Marsico tra i membri esterni del Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici. Un posto da 11.500 euro all'anno più 185 euro a seduta. In questa occasione Fontana avrebbe violato il principio di imparzialità, in quanto quell'incarico non era di nomina fiduciaria. C'era stato al contrario un avviso pubblico, cui avevano partecipato circa 60 persone. La delibera è stata acquisita agli atti dell'inchiesta coordinata dall'aggiunto Alessandra Dolci e dai pm Adriano Scudieri, Silvia Bonardi e Luigi Furno solamente martedì. In un'altra vicenda di presunta istigazione alla corruzione invece il presidente lombardo è indicato come parte offesa: rifiutò una proposta di Gioacchino Caianiello, finito in carcere, relativa sempre al tentativo di «piazzare» in qualche modo Marsico. Fontana non denunciò la cosa, ma solo perché - come ha dichiarato - non si rese conto della tentata corruzione. Su questo ultimo punto gli inquirenti sono dello stesso avviso. «Per quanto concerne la vicenda della nomina di Luca Marsico - dice il governatore leghista -, ribadisco che si è trattato come sempre di una procedura caratterizzata da trasparenza e da assoluta tracciabilità. Quanto all'imparzialità, è stato garantito l'assoluto interesse della Pubblica amministrazione nella scelta di un professionista dotato delle capacità e competenze richieste per quel ruolo. Risponderò quindi puntualmente e serenamente alle domande che i pm riterranno rivolgermi». Intanto ieri sono cominciati gli interrogatori di garanzia dei dodici indagati finiti in carcere. Tra loro anche Caianiello, ex coordinatore provinciale di Fi a Varese difeso dall'avvocato Tiberio Massironi e ritenuto il «grande burattinaio» del sistema corruttivo, che ha deciso di non rispondere alle domande del gip Raffaella Mascarino. Dalle carte dell'inchiesta emerge anche il nome del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e fedelissimo di Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, che non è indagato. «Chi è che va al tavolo? Giorgetti, chi va?». Così nelle intercettazioni agli atti un imprenditore, Claudio Milanese, legato secondo gli inquirenti al «burattinaio» Caianiello, chiedeva al parlamentare azzurro Diego Sozzani (per lui è stata chiesta alla Camera l'autorizzazione all'arresto). Milanese voleva sapere se Giorgetti avrebbe avuto «un potere di scelta», come scrive il gip, su una nomina all'Anas. Nomina che interessava all'imprenditore per alcuni ostacoli burocratici incontrati per un appalto. Con riferimento «alla figura di Milanese», continua il gip, «Caianiello racconta che lo stesso è amico» di Giorgetti essendo entrambi nati nello stesso paese. Alla domanda di Milanese su «chi va al tavolo» per la nomina, Sozzani risponde riferendosi a Giorgetti: «È lui! Lui sicuramente nella Lega è quello che... che dice la sua».

Il governatore nei guai per la nomina del socio. Ma ecco cosa non torna. Marsico è un esperto con tutti i requisiti Manca l'«ingiusto vantaggio» per Fontana. Luca Fazzo, Giovedì 09/05/2019, su Il Giornale. Stesso numero di fascicolo: 33490/16. Al presidente della Lombardia, Attilio Fontana, la Procura della Repubblica non ha riservato neanche il garbo istituzionale di tenerlo un passo fuori dalla malabolgia di corrotti, faccendieri e malavitosi che affolla l'inchiesta «Mensa dei poveri». L'episodio che viene attribuito al governatore, la nomina del suo collega Luca Marsico in un organismo della Regione, ha poco o niente a che fare con la megainchiesta esplosa martedì mattina; gli inquirenti vi sono praticamente inciampati, intercettando il forzista varesino Nino Caianiello; Fontana è l'unico indagato, non vi sono altri inquisiti sospettati di avere tramato con lui la scelta di Marsico come componente esterno del «Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici»; e insomma si sarebbe forse potuto stralciare la vicenda, e aprire un fascicolo a parte risparmiando al presidente della Lombardia di finire in un calderone di compagnie imbarazzanti. Che invece si sia presa la strada dell'inchiesta unica è un messaggio esplicito a Fontana in vista dell'interrogatorio di lunedì prossimo: non si aspetti di venire trattato con i guanti. Il reato indicato nell'invito a comparire notificato ieri a Fontana, l'abuso d'ufficio, è di quelli che in caso di condanna porterebbero - già dopo la sentenza di primo grado - a estromettere il governatore dalla carica in base alla legge Severino. Ma è anche uno dei reati storicamente più elastici e controversi, anche se nel 1997 venne reso meno vago, rendendo necessario che l'abuso porti a un «ingiusto vantaggio patrimoniale». E proprio su quell'aggettivo, «ingiusto», è probabile che si concentrerà la difesa di Fontana, che spiegherà ai giudici come Luca Marsico avesse tutte le caratteristiche professionali per fare parte dell'organismo regionale. Non si trattava di un tirapiedi o di un'amichetta, ma di un professionista con una lunga esperienza politica e legale alle spalle. Il problema per Fontana, però, si chiama conflitto di interessi. Ieri in Procura veniva spiegato chiaramente che ad inguaiare il presidente della Regione è la scelta di partecipare personalmente alla nomina dell'amico. Da questo punto di vista, i pm hanno in mano un paio di documenti espliciti. Il primo è il verbale XI/701 della giunta regionale, che documenta la seduta del 24 ottobre 2018: Fontana viene indicato regolarmente come presidente, e non si fa cenno di un suo allontanamento dalla riunione. Al punto 6 del verbale, si decide la nomina dei componenti esterni del Nucleo «nella composizione di cui all'allegato C»: non c'è traccia di discussione o di motivazione. L'allegato C riporta al primo posto il nome di Marsico come «esperto in ambito giuridico con particolare riferimento alla legislazione territoriale, urbanistica e ambientale». Il problema è che nessuna di queste specializzazioni appare nel curriculum di Marsico disponibile su Europass, anch'esso acquisito agli atti. E un problema ulteriore è la dichiarazione sui «potenziali conflitti di interesse» che il 18 gennaio scorso Marsico deposita in Regione in cui non fa cenno ai rapporti professionali con il presidente Fontana. È su questi perni che poggia il capo d'accusa al governatore lumbard. Ma lunedì a Fontana toccherà spiegare non solo i passaggi burocratici ma anche le sue frasi nelle intercettazioni, che dimostrano come - in un modo o nell'altro - piazzare l'amico Marsico gli stesse molto a cuore. Forse troppo.

Grazia Longo per “la Stampa” il 9 maggio 2019. Non corrotto, ma disponibile ad abusare del suo potere per aiutare gli amici. La nuova Tangentopoli milanese porta guai a Forza Italia ma anche alla Lega, con il governatore della Lombardia indagato per abuso d' ufficio. Attilio Fontana ha incaricato il suo socio di studio legale Luca Marsico su base «fiduciaria», malgrado quella nomina fosse passata per un «avviso pubblico» di selezione a cui hanno partecipato 60 candidati. Per aver violato questo principio di imparzialità, e per essere ricaduto nel conflitto di interessi (anche se in verità una volta eletto Fontana aveva ceduto le sue quote dello studio alla figlia) lunedì prossimo, assistito dall' avvocato Jacopo Pensa, verrà interrogato in Procura. Dovrà rispondere del «favore» al socio al quale aveva concesso una consulenza di circa 65 mila euro fino al 2021 come componente esterno del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici. La nomina di Marsico, avvenuta con una delibera del 24 ottobre 2018, è dunque ora al vaglio dei magistrati guidati da Francesco Greco. Luca Marsico, peraltro, aveva già ottenuto mandati anche da altri enti, tipo quella da Trenord: circa 8 mila euro all' anno per «revisione e procedure di audit» di ferrovie Nord Milano. L' incarico gli era stato affidato lo scorso settembre da Dario Della Ragione, Direttore Internal audit e membro del Cda Trenord. Con la società ferroviaria, peraltro, la famiglia Marsico è praticamente abbonata: anche il fratello di Luca, Marco Marsico, ha una consulenza. Lo riferisce in una conversazione intercettata con Fontana il «burattinaio» Nino Caianiello, potente ex coordinatore di Forza Italia a Varese. Mentre cerca di corrompere, invano, Fontana proponendo di nominare Zingale direttore generale all' Afol, in cambio di un aiuto a Marsico per risarcirlo della mancata elezione alle Regionali del 2018, gli ricorda che il fratello, Marco «prende 2.600 euro al mese in Trenord portando in giro i volantini della pubblicità e ci sono i dirigenti incazzati...». Proprio da questa conversione è emerso lo spunto per indagare il presidente della Lombardia per abuso d'ufficio. Caianiello riportava infatti la volontà di Fontana di trovare «un' alternativa» per Marsico. Quell' alternativa, secondo la pubblica accusa, è appunto la nomina alla commissione per gli acquisti. Nelle 712 pagine dell' ordinanza del gip Raffaella Maraschino - che ha determinato la custodia cautelare per 43 persone, di cui 12 in carcere, per corruzione, finanziamento il lecito ai partiti e associazione a delinquere con l' aggravante mafiosa - Caianiello precisa inoltre le cifre corrisposte all' avvocato Marsico: «11.500 euro come emolumento annuale e 185 euro come gettoni di presenza». E aggiunge che il lavoro è stato concesso grazie alla mediazione dell' assessore Giulio Gallera e l' ex compagna di Salvini Giulia Martinelli, fidata collaboratrice di Fontana. I due non sono indagati. Per l' esponente azzurro varesino comunque, Luca Marsico rappresenta una spina nel fianco. Da un lato vorrebbe sistemarlo, dall' altro però non vuole che venga «piazzato in quota Forza Italia». Ecco allora che al telefono con Angelo Palumbo si mostra preoccupato del fatto che Fontana possa nominare «Marsico da qualche parte considerandolo comunque in quota a Forza Italia». E per evitarlo vuole rivolgersi alla coordinatrice regionale di Forza Italia: «Bisogna parlare con la Gelmini perchè io non vorrei mai che Fontana mi mette lì...Marsico da qualche parte, perché questo sta insistendo. E che se lo mette non è un peso da dare a Forza Italia, eh! sia chiaro!». In un altro punto delle carte viene invece tirato in ballo Giancarlo Giorgetti, vicesegretario federale della Lega e sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri (estraneo all' inchiesta). Il deputato Fi Diego Sozzani (per cui è stata richiesta l' autorizzazione a procedere in Parlamento ), intercettato sulla possibilità di un intervento di Giorgietti per definire i ruoli apicali di Anas, dichiara : "al tavolo è lui! lui sicuramente nella Lega è quello che... che dice la sua». Quanto a Fontana, il capogruppo regionale del M5S Marco Fumagalli stigmatizza la sua vicenda giudiziaria che «ha la responsabilità politica diretta dei suoi collaboratori». Ma al momento non annuncia mozioni di sfiducia. Il governatore dal canto suo, si definisce «sereno». «Ribadisco che la nomina di Marsico è avvenuta come sempre attraverso una procedura caratterizzata da trasparenza e da assoluta tracciabilità. Quanto all'imparzialità, è stato garantito l'assoluto interesse della Pubblica Amministrazione nella scelta di un professionista con competenze richieste per quel ruolo». E il suo leader di partito e vicepremier Matteo Salvini lo difende a spada tratta: «La Raggi è indagata da anni ed è al suo posto. Noi abbiamo nessun problema, la questione morale riguarda altri. Mi dispiace che qualcuno si stia sporcando la bocca su Attilio Fontana».

Attilio Fontana   ai pm: «L’incarico al mio ex socio?  L’ho voluto io». Pubblicato martedì, 14 maggio 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Addirittura il giorno prima che la Regione Lombardia diramasse l’avviso pubblico di interesse per quanti avessero voluto candidarsi a componenti dell’istituendo «Nucleo valutazione investimenti» (11.500 euro l’anno e gettone di 185 euro a seduta), il presidente leghista Attilio Fontana incaricò una componente del proprio staff di chiamare il proprio ex socio di studio legale, cioè il consigliere regionale forzista non rieletto Luca Marsico, e di dirgli di presentare la candidatura, evidentemente avendo già deciso a priori di incaricare lui (tra i 10 nominandi) una volta che il collega avvocato si fosse proposto all’interno di una solo cosmetica rosa di 60 candidati. Per quanto possa sembrar strano, a dirlo lunedì ha finito per essere Fontana stesso nell’interrogatorio in Procura sull’ipotesi di reato di abuso d’ufficio, di fronte a una nuova circostanza emersa nel confronto con i pm Bonardi-Furno-Scudieri alla presenza del difensore Jacopo Pensa: e cioè che , tra giovedì e venerdì scorso, almeno tre membri dello staff di presidenza di Fontana, tra i quali anche il capo della sua segreteria politica Giulia Martinelli (ex compagna di Matteo Salvini), avessero accennato ai pm, pur tra mille distinguo e sfumature, che da Fontana avevano sentito prima il nome di Marsico come problema da risolvere, e poi la soluzione. Tutto vero, ha confermato Fontana, aggiungendo l’importante elemento della candidatura di Marsico indotta da lui già il giorno prima del bando, e iscrivendo questo suo intenso interessamento per il proprio ex socio con la volontà di non perderne le competenze maturate nella legislatura. Fontana ha su questo persino spiegato il contrario di quanto si credesse sinora, e cioè ha affermato di essere andato proprio lui a chiedere l’aiuto di Gioacchino Caianiello nell’interesse della ricollocazione di Marsico, non rieletto per il boicottaggio da parte del ras dei voti di Forza Italia a Varese (benché formalmente privo di qualunque carica nel partito). Richiesto del perché discutesse di nomine con una persona in teoria senza titoli, e per giunta già condannata a fine 2017 a 3 anni per concussione ai danni di un imprenditore nel 2005, Fontana ha ammesso di sapere benissimo che si stava relazionando a un pregiudicato per tangenti (riarrestato una settimana fa ancora con l’accusa di tangenti), ma ha spiegato che aveva necessità di dialogare con lui in quanto restava comunque il referente di Forza Italia a Varese. Dove in teoria il coordinatore provinciale varesino è l’eurodeputata Lara Comi. La quale però, a sentire Fontana, invitava il governatore a rivolgersi a Caianiello. «Ho chiarito tutto, sono più che sereno», dice Fontana dopo 3 ore senza nemmeno uscire dall’auto, ma solo abbassando il finestrino dove cercano quindi di infilarsi grappoli di microfoni tv. E l’avvocato Pensa riassume: «Con i pm abbiamo discusso tutte cose di fatto e non di diritto, come rivedere un film dall’inizio ai titoli di coda. Sono fatti da niente, si parla di nulla. Poi, le valutazioni, ognuno fa le proprie».

Luigi Ferrarella per il “Corriere della sera” il 9 maggio 2019. Chi ha voce in capitolo nel mettere questo o quell' assessore in questo o quel posto quando si decide la composizione della giunta della Regione Lombardia? Uno immaginerebbe soprattutto il presidente. Ma a sentire come parlava Gioacchino Caianiello - che in teoria sarebbe soltanto un (pur fortissimo in termini di voti locali) ex dirigente varesino di Forza Italia, peraltro gravato a fine 2017 da una condanna definitiva per concussione a 3 anni e 125.000 euro -, era uno come lui a sussurrare a Fontana alcune scelte. «Non mettere Cattaneo all' assessore all' Urba... alle Infrastrutture...», racconta il 31 marzo a un interlocutore di aver asseritamente detto al governatore: «Infatti l' altro giorno lui (Fontana, ndr ), quando mi ha risposto agli auguri che gli avevo mandato via WhatsApp, il giorno dopo, poi mi scrive e dice "ho seguito il tuo consiglio!"». Questa di Caianiello è una millanteria da gradasso? No, rilevano gli inquirenti, e non soltanto perché Fontana in un' altra occasione - proprio discutendo con Caianiello di come trovare un incarico al proprio socio di studio legale Luca Marsico dopo la sua mancata rielezione a consigliere regionale - esprime la propria stima verso Caianiello dicendogli «hai visto che i tuoi... i tuoi consigli li ho seguiti quasi tutti». Per i pm, che Caianiello non millantasse il proprio intervento sulla questione Cattaneo è «provato da una conversazione tra Caianiello e Fontana» del 24 marzo 2018, il cui contenuto viene così sintetizzato dagli inquirenti nel brogliaccio dell' intercettazione: «Conversano in merito alle nomine della giunta regionale, ed in particolare Caianiello sconsiglia a Fontana di nominare Cattaneo assessore ai Trasporti perché già in passato ha creato problemi a Ferrovie Nord-Trenord e ciò sarebbe sconveniente, quindi gli dice che secondo lui potrebbe essere collocato altrove». Per la cronaca, alla fine Raffaele Cattaneo verrà davvero nominato non alle Infrastrutture ma ad un altro assessorato nella giunta Fontana, l' Ambiente: di per sé non certo una circostanza illecita, né necessariamente determinata dal suggerimento di Caianiello. Ma per i magistrati questo è uno dei tanti segnali di quanto egli avesse nella politica lombarda una influenza incomparabilmente superiore al suo formalmente inesistente ruolo pubblico. A dispetto del quale, per i pm, sarebbe dunque «riduttivo attribuirgli il ruolo di mero "facilitatore", essendo egli risultato» invece «il vero e unico manovratore di ampi e rilevantissimi settori di amministrazione pubblica nell' intera provincia di Varese e, in misura meno pervasiva, in Regione Lombardia». Cioè, in termini giuridici, un «amministratore pubblico di fatto», la stessa veste che mesi fa la Procura di Roma attribuì ad esempio al manager Luca Lanzalone nell' indagine sul progettato nuovo stadio capitolino a Tor di Valle. Le intercettazioni colgono ad esempio Caianiello mentre «interviene costantemente e prepotentemente nella programmazione e nella successiva attuazione di tutte le più importanti scelte gestionali di aziende pubbliche alle quali è formalmente estraneo» come Accam spa (rifiuti di Busto Arsizio e Legnano), Alfa srl e Prealpi Servizi srl (servizi idrici di Varese), in particolare «nella scelta dei soggetti ai quali affidare le nomine dirigenziali o incarichi o consulenze», a condizione che poi retrocedano la «decima», cioè il 10% del valore. All' influenza di Caianiello non sarebbero estranei, secondo i magistrati, anche «metodi apertamente ricattatori per ottenere obbedienza: la sua pluriennale esperienza nel mondo politico gli consente di essere a conoscenza di molti "scheletri nell' armadio" dei suoi oppositori, e Caianiello non si fa scrupolo nel rievocare gli episodi potenzialmente compromettenti per ottenere ciò che vuole» (come nelle «allusioni fatte» su un sindaco o su manager di una municipalizzata). La giudice Mascarino coglie ad esempio un passaggio della deposizione della teste Orietta Liccati, già assessore all' Urbanistica di Gallarate, coinvolta nel 2017 nell' inchiesta nella quale il suo compagno ex sindaco di Lonate Pozzolo, Danilo Rivolta, fu arrestato e poi patteggiò 4 anni: deposizione - riassumono i pm - «a proposito del tentativo di Caianiello di imporre al detenuto Rivolta il "proprio" legale "di fiducia", avvocato Besani, in modo da concordare le dichiarazioni da rendere all' autorità giudiziaria e da essere informato su eventuali chiamate di correità». Su questo tentativo di Caianiello di far prendere a Rivolta l' avvocato storico di Caianiello (Besani, arrestato martedì in altra vicenda per l' ipotesi di concorso in corruzione), i pm chiedono alla Liccati: «Le risulta la circostanza che Lara Comi ha suggerito a Rivolta di cambiare il legale di fiducia e di scegliere l' avvocato Besani?», e la teste risponde «sì». L' europarlamentare di Forza Italia, interpellata ieri sera dal Corriere , risponde «no, grazie, su queste cose non ho niente da dire, vado avanti a fare la campagna elettorale» .

Luigi Ferrarella per il “Corriere della sera” il 9 maggio 2019. C'è anche un incrocio tra le indagini di Milano e Catanzaro nel filone che illumina i rapporti tra l' imprenditore delle bonifiche ambientali Daniele D' Alfonso (quello che finanziava i politici lombardi) e il clan di 'ndrangheta Molluso tra Buccinasco e Corsico nell' hinterland milanese. In zona Bisceglie a Milano «le società Acadis spa e Ambiethesis spa hanno affidato i lavori di bonifica e movimento terra del cantiere Calchi-Taeggi» (una zona da bonificare) «alla Ecol-Service s.r.l. di D' Alfonso, il quale, come concordato, si avvale poi della ditta M.G. Lavori Stradali srl della famiglia Molluso per le operazioni di movimento terra, impiegando anche personale appositamente selezionato da Giosefatto Molluso (9 anni e 3 mesi definitivi per associazione mafiosa nel processo Infinito) e assunto dalla Ecol service». D' Alfonso lo fa perché ritiene in questo modo di poter scoraggiare eventuali tentativi di infiltrazione di altri soggetti calabresi, dimoranti nell' area del cantiere «Calchi Taeggi», nei lavori di movimenti terra. L' imprenditore, rilevano i pm, «è consapevole che la partecipazione ai lavori dei Molluso costituisce una garanzia da eventuali danneggiamenti sui mezzi in cantiere, azioni intimidatorie o estorsive ad opera di organizzazioni criminali locali che premono per inserirsi nei lavori affidati alla società». Ma l'aspetto istruttivo - emergente da intercettazioni trasmesse dalla Procura di Catanzaro - è che anche altre aziende più grandi di quella di D' Alfonso, e per nulla coinvolte nelle corruzioni al centro dell' indagine milanese, non solo cercano «protezione» presso i clan di 'ndrangheta, ma si fanno consigliare dalla casa madre calabrese la «famiglia» dalla quale farsi «proteggere». È il caso di un manager di un grossa ditta del Centro Italia, aggiudicataria con un consorzio di un appalto della società Metropolitana milanese spa per lavori di fognatura e acquedotto: «Di notevole utilità sono le conversazioni ambientali captate, attraverso l' inoculazione di un virus» intercettativo, nelle quale la famiglia Molluso viene indicata da 'ndranghetisti di Isola Capo Rizzuto come il referente giusto, e a ruota «offre ampie rassicurazioni in merito al controllo del territorio e alla conseguente "sicurezza" del cantiere anche tramite il servizio di "guardiania"» per il quale vengono anche assunti manovali indicati dal clan.

Tangenti in Lombardia,  le 131 telefonate del «manovratore» a Lara Comi e ai parlamentari. Pubblicato giovedì, 09 maggio 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Tu nomina il mio uomo Giuseppe Zingale (direttore generale dell’Afol-Agenzia metropolitana per il lavoro) al vertice del settore Formazione della Regione Lombardia, e in cambio noi faremo sì che dall’Afol arrivino poi consulenze di 80/90.000 euro l’anno al tuo ex socio di studio legale, Luca Marsico, che ti sta così a cuore dopo la sua mancata rielezione in Consiglio regionale: si era già ascoltato (nelle intercettazioni) che nel marzo 2018 questo era stato il tenore dell’istigazione alla corruzione del governatore leghista (ed ex sindaco di Varese) Attilio Fontana da parte di Gioacchino Caianiello, un condannato definitivo a 3 anni per concussione, eppure temutissimo (dentro Forza Italia) detentore a Varese di un pacchetto di voti significativo anche a livello lombardo. Ma adesso altre intercettazioni di Caianiello, stavolta proprio con Zingale, ripropongono curiosamente uno schema analogo riferendolo però — riassumono i magistrati — «ad una società riconducibile a Lara Comi (eurodeputata e coordinatrice provinciale di Forza Italia di Varese)». Società che, stando ai due intercettati, avrebbe ricevuto «contratti di consulenza da parte dell’Afol di Zingale per un totale di 38.000 euro (come preliminare conferimento di un più ampio incarico che può arrivare alla totale cifra di 80.000 euro), dietro promessa di retrocessione di una quota parte agli stessi Caianiello e Zingale». 

«Le indagini sulla vicenda sono ancora in corso», scrivono i pm circa questo colloquio del 29 novembre 2018. 

Caianiello: «Questa (cioè Comi, ndr) fino a oggi quanto ha preso?». 

Zingale: «38», poi però precisando «17 li ha presi, liquidi sempre! Già incassati!». 

Caianiello: «Da quando abbiamo iniziato? Basta! E quindi può arrivare a un monte di 80!». 

Zingale: «Sì, però ti voglio dire una roba, se non c’è disponibilità, non becca un cavolo! Se non vediamo, non vedrà più nemmeno lei!».

Comi, oggi in campagna elettorale, esprime «stupore» e replica che «l’unica mia società di comunicazione è la Premium Consulting, regolarmente denunciata al Parlamento europeo: questa società non ha nulla a che spartire con le consulenze sotto inchiesta e nessun’altra società è a me riconducibile». Di certo i rapporti tra Comi e Caianiello (in teoria un privato senza ruoli formali in politica) appaiono rovesciati ai carabinieri di Monza, persuasi dalle intercettazioni che «Caianiello ricopra di fatto la funzione di coordinatore provinciale del partito di Forza Italia, ad onta del ruolo solo formalmente ricoperto dall’eurodeputata Comi». E in effetti lo racconta lo stesso Caianiello il 9 maggio 2018, quando, parlando della propria condanna del 2017 per una concussione del 2005, spiega chiaramente «che io faccio il coordinatore provinciale di Forza Italia da 30 anni, questo è vero, ma ufficialmente durante i fatti (della sentenza, ndr) io non lo ero. Come è adesso, no?! Tutti dicono “il Caianiello è quello che..”, ed è vero! Però oggi il coordinatore provinciale di Forza Italia è Lara Comi, all’epoca io ero, come adesso, ma non ero io». Per i pm, ad «attestare il potere di cui gode Caianiello», nel periodo di intercettazione del suo telefono «sono state registrate» indirettamente (ma per legge non trascritte) «numerosissime telefonate con la eurodeputata Comi (92), con la deputata Giusy Versace (21), con la coordinatrice regionale di Forza Italia on. Maria Stella Gelmini (18), e con il governatore della Lombardia Attilio Fontana (18)». In vista di lunedì, quando il presidente leghista indagato sarà interrogato sull’ipotesi di abuso d’ufficio nella nomina (11.500 euro l’anno) del suo ex socio di studio Marsico nel «Nucleo valutazione investimenti» della Regione, ieri i pm hanno ascoltato come teste il capo della sua segreteria, Giulia Martinelli, ex compagna di Matteo Salvini; e hanno avviato verifiche sulla consulenza da 8.000 euro data a Marsico nel settembre 2018 dalla controllata regionale Fnm-Ferrovie Nord Milano. Tutto mentre in Procura si presentava il primo imprenditore (fornitore di una municipalizzata citata nelle indagini) a spontaneamente voler raccontare corruzioni che temeva fossero scoperte prima dai pm: si vedrà presto se un caso isolato di collaborazione, o se l’inizio di una frana sotto i piedi dei corrotti.

Il tariffario di Caianiello: il neo consigliere gli gira il suo primo stipendio. Pubblicato venerdì, 10 maggio 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Esperimento scientifico di creazione in laboratorio di un consigliere regionale lombardo: c’è anche questo portento nelle indagini che, tra i 28 arrestati di martedì per reati contro la pubblica amministrazione, hanno monitorato in diretta il successo di Gioacchino Caianiello (in teoria un privato senza ruoli formali in politica, ma super influente nella Forza Italia lombarda a dispetto di una condanna definitiva a 3 anni per concussione) nel propiziare nel 2018 l’elezione in Consiglio regionale del forzista Angelo Palumbo. Caianiello, riassumono infatti i pm Bonardi-Furno-Scudieri, «dispone di un grande bacino di voti elettorali, posizione di vantaggio che gli deriva da un radicato sistema clientelare che scientificamente coltiva da anni e che lo pone al centro di un collaudato sistema di relazioni trasversali. Perciò rappresenta un punto di riferimento di Forza Italia in elezione comunale, provinciale o regionale». Ed è così che, per affondare il forzista consigliere regionale uscente Luca Marsico (l’ex socio di studio legale del presidente leghista Attilio Fontana, che in effetti non verrà rieletto), Caianiello «è riuscito a far eleggere al consiglio regionale un giovanissimo candidato, di sua strettissima fiducia, Angelo Palumbo, consentendogli peraltro poi di ottenere anche la presidenza di un’importante Commissione consiliare» (Territorio). Non un assessorato, per quello era troppo presto a detta di Caianiello: «Il mio Palumbo deve fare il consigliere regionale, punto! Magari prende una presidenza di una Commissione…e inizia a fare quello che deve fare… Lui sta lì per imparare…e sostiene chi deve sostenere». E del resto Palumbo è il primo a riconoscere di dovere tutto al suo pigmalione. Il 9 marzo 2018, in una conversazione a tre, quando Caianiello accenna a uno dei tanti che avevano chiamato Palumbo per congratularsi dopo l’elezione, Palumbo interviene a raccontare: «Mi fa: “Complimenti, bravo, tanti voti, di qua e di là”, e io gli detto: “Guarda, i miei (voti, ndr) erano 1.000, gli altri ce li ha messi Nino…”», cioè Caianiello. Il quale in campagna elettorale nel 2018 aveva utilizzato Carmine Gorrasi (consigliere comunale di Forza Italia a Busto Arsizio e direttore generale della squadra locale di calcio «Busto 81») per far giungere al candidato Palumbo un finanziamento illecito di 10.000 euro (6.000 con bonifico bancario e 4.000 in contanti) da parte di Daniele D’Alfonso, l’imprenditore arrestato martedì come principale finanziatore di un bouquet di politici. Ma «l’appoggio elettorale da parte di Caianiello ovviamente non è a costo zero per Palumbo, il quale, subito dopo la sua elezione e l’ottenimento della presidenza della Commissione, ringrazia Caianiello formalmente con una sostanziale donazione (circa 9.500 euro) nei confronti della Associazione culturale Agorà di cui Caianiello è presidente onorario ed amministratore di fatto». E lo fa quasi con l’entusiasmo di dimostrarsi persona che mantiene la parola data a Caianiello: «Hai visto la foto che ho mandato ieri sera? Promessa mantenuta! Io le promesse le mantengo! Primo stipendio, 7.500 di aprile, 500 di maggio, 500 di giugno, 500 di luglio e 500 di agosto. Dicevi il primo stipendio? Aprile! Il primo stipendio! Non ero presidente, poi c’è maggio, giugno, luglio agosto sono altre 2.000 (…) Oh!, cioè ho versato più io in 4 mesi che Marsico in 5 anni!». Qui Caianiello non raccoglie l’ironia, e nello scambio di battute se ne esce a evocare quasi un tariffario, nel senso che «l’impegno era che chi si candidava tirava fuori 1.000 euro, il capolista tirava fuori 2.000 euro». Palumbo: «E già questo...e già questo non l’hanno fatto tutti!».

“ABBIAMO IN MANO LA PROVINCIA. IO FACCIO IL SOLE E LA TERRA CHE GIRA INTORNO”. Sandro De Riccardis e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 12 maggio 2019. Tra i divani di pelle scura e i piattini di sandwich e tartare, Nino Caianiello apparecchiava il suo potere. « Alle nove di mattina io sto qua... domani è festa... l' ambulatorio è chiuso... - rideva al telefono -. Io sto qua tutte le mattina dalle nove » . All' Haus Garden di Gallarate, intorno a un tavolo da qualche giorno desolatamente vuoto, un po' più protetto dal viavai dei camerieri e da occhi indiscreti, Caianiello riceveva la lunga lista di questuanti. «No, se c' è qualche po... se c' è qualche possibilità a Milano, qual.. non so.. se a Milano c' è qualche possibilità.. di crescita anche.. a livello regionale.. no?! » , balbetta incerto Alessandro Petrone, l' ormai ex assessore all' Urbanistica di Gallarate, da martedì in carcere. «Si, ma fammi capì.. tu cosa vuoi fare!? - gli risponde bruscamente Caiainiello -. Non ho capito..cioè, Ale che vuoi fare? Tu non sai e vuoi sapè da me!... Tu mi devi dire che cazzo vuoi fà! Se mi dici "voglio fa questo!", allora io so che posso andare.. andare lì! Mi capita che sto facendo una discussione... se uno dice "c' è questo qua!", io potrei dire " vabbè cazzo ci può andà Alessandro!”». A ogni richiesta Caianiello risponde con la sua "cura": un incarico, una consulenza, una nomina, un appalto. E ora molti di quelli che si accomodavano ai divanetti del bar nel cuore di Gallarate, chiedono di essere sentiti in procura, prima che la procura chieda di loro. « Non li stiamo chiamando noi, sono loro a chiamarci », dice una fonte investigativa al quinto piano di Palazzo di giustizia. Dove ieri sono state raccolte le confidenze di tre imprenditori. Anche loro hanno raccontato della " decima", la retrocessione di parte dei soldi incassati su ogni commessa o incarico assegnato, al ras della politica varesina, chiamato il "Mullah di Gallarate" dai suoi nemici politici, "Mister 10%" dai colleghi di partito. « Io ti devo questo!.. la famosa decima », dice Paola Saporiti, assessore a Cassano Magnago, mentre lascia sul tavolino del bar una busta con 500 euro, dopo l' incarico incassato dalla società della sorella. « Così non vedono bonifici, niente... ok?!.. dovrebbe essere 500, contali!». «Ma no... ma guarda che se figurano è meglio! - risponde Caianiello " visibilmente agitato" - Fai il bonifico direttamente, senti a me! Fai il bonifico! ».

Poco denaro - solo 120mila euro trovati sui suoi conti bancari - molto potere. Con il suo capitale di voti, alle ultime Regionali Nino aveva favorito l' elezione del consigliere di Forza Italia Andrea Palumbo, a danno proprio del socio di Fontana, Luca Marsico. Alle Europee invece quel pacchetto di voti sarebbe confluito sul nome di Laura Comi. Per anni sfilano al suo cospetto assessori, sindaci, imprenditori, manager pubblici, funzionari di partito. I politici ne riconoscono il potere, come capita a Massimo Buscemi, più volte consigliere regionale ed ex assessore in Lombardia. « Ho bisogno di un consiglio per una cosa non...tutt' altro che... regolarissima...dice al telefono - ho bisogno di avere la tua... la tua consulenza. Tu mi puoi dare udienza settimana prossima?». «Quando vuoi vieni, io alle nove sono lì - risponde - domani c' è un po' affollato, però vieni, non è un problema..». Napoletano d' origine, 61 anni, " coordinatore di fatto" di Forza Italia nella provincia di Varese per quasi trent' anni, Caianiello è per il fisco nullatenente dal 2016. La Finanza verifica che sui suoi conti ci sono versamenti esclusivamente in contanti e uscite solo per il pagamento delle bollette. « Ma tu come campi? È una domanda che si fanno tutti » , gli chiedono a Varese. Così Nino, per giustificare i soldi delle decime, apre la Sacro Graal srl "per il commercio di opere d' arte". E racconta in giro di aver iniziato a comprare e vendere quadri. Ma ogni mattina Nino è sempre lì. A decidere destini politici e carriere all'"ambulatorio". Con le poltroncine dell' Haus Garden trasformate negli scranni di una sala di giunta. « Se non tradisce Leonardi ( coordinatore cittadino di Fi, ndr.), se non tradisce Gorrasi. ( consigliere comunale di Busto Arsizio, ndr.) abbiamo in mano la provincia... punto.. io non mi muovo... io faccio il sole e la terra che gira intorno...».

ORA SI CHIAMA “CONSULENZA”. Luca De Vito per “la Repubblica” il 16 maggio 2019. La svolta è arrivata martedì quando Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, è stato ascoltato per ore dai pm milanesi. Arrivato come testimone, è uscito dalla stanza del quinto piano del Palazzo di Giustizia come indagato. L'accusa nei suoi confronti è chiara: aver effettuato un finanziamento illecito di 31 mila euro per la campagna elettorale di Lara Comi, candidata al parlamento europeo con Forza Italia. Vicenda per cui la stessa europarlamentare è stata iscritta nel registro degli indagati. Le nuove iscrizioni arrivano nell' ambito dell' inchiesta che la procura di Milano sta portando avanti sulle tangenti in Lombardia che ha portato a 43 arresti tra Milano, Varese e Novara e che ha visto anche il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana (Lega Nord) indagato per abuso d'ufficio. Secondo la tesi degli investigatori, il passaggio dei soldi sarebbe avvenuto attraverso una consulenza fittizia assegnata alla Premium Consulting della Comi dalla Officine Meccaniche Rezzatesi (Omr), l'azienda di Bonometti, a gennaio di quest' anno. "L'approccio strategico per la promozione del made in Italy" e "approccio strategico per il settore automotive in Italia e in Cina e le implicazioni sulle auto elettriche" sono i titoli dei due studi. In realtà gli investigatori hanno riscontrato che il contenuto dei testi era copiato da una tesi di laurea reperibile online, firmata da un laureato della Luiss nel 2015, Antonio Apuzza. Da qui, la convinzione che quello delle consulenze fosse solo un espediente per schermare il finanziamento illecito. L'avvocato di Lara Comi, Gian Piero Biancolella, ha respinto le accuse: «Posso con decisione contestare che sussista l' illecito ipotizzato. Non c' era alcun motivo che impedisse che un finanziamento del tutto lecito potesse essere effettuato secondo le modalità previste dalla legge. In ogni caso la prestazione è stata resa dalla società nell' ambito delle specifiche competenze». Anche Bonometti ha fatto sapere di «non aver mai commesso alcun illecito». Al vaglio dei pm Silvia Bonardi, Luigi Furno e Adriano Scudieri - coordinati dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci - ci sono anche due cifre pagate da altri due imprenditori che avrebbero seguito lo stesso schema: finanziamenti illeciti, mascherati da consulenze. In uno dei due casi, si tratterebbe di un imprenditore che ha pagato 40 mila euro per uno studio specifico, a fronte di un fatturato della sua azienda di 200 mila euro all' anno. Nei giorni scorsi era emersa anche un' altra consulenza, stavolta assegnata a una società riconducibile a Lara Comi da Afol, l' ente per la formazione e il lavoro della Città Metropolitana di Milano guidata dal direttore generale GIuseppe Zingale. Una consulenza per la comunicazione da 38 mila euro su cui i pm vogliono vederci chiaro, visto che il nome della Comi spunta anche in una serie di intercettazioni di Caianiello, in cui il "burattinaio" di Gallarate tira in ballo proprio il ruolo dell' eurodeputata.

«Vedere cammello, pagare niente»: il codice della nuova Tangentopoli lombarda. Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Giampiero Rossi su Corriere.it. «Vedere cammello, pagare niente». Una battuta secca, un classico da mercanti che riassume il codice non scritto della nuova Tangentopoli lombarda: si trattano affari e baratti su tutto ciò che le rendite di posizione politica e amministrativa consentono di tradurre in denaro (anche poco) o in ulteriori opportunità di potere e controllo. Il tutto gestito con smania e impeto dai politici che non hanno vissuto le stagioni delle grandi inchieste anticorruzione, frenati e indirizzati da un navigato regista. Il dialogo del cammello riassume tutto questo. È il 31 marzo 2018. All’Haus garden cafè di Gallarate le «cimici» degli investigatori catturano un dialogo tra Gioacchino Caianiello e Giuseppe Zingale. Il primo, almeno in teoria, sarebbe semplicemente un ex dirigente varesino di Forza Italia, con una condanna definitiva per concussione che lo segna come una cicatrice sul volto di un veterano di guerra. È molto influente, controlla pacchetti di voti ed è il burattinaio di una vasta trama di operazioni politico-affaristiche su cui riesce ad affacciarsi dal bar-ufficio, rastrellando per sé «la decima», cioè il 10 per cento di ogni somma che si muove. Il secondo è il presidente della Afol metropolitana di Milano, cioè il centro per l’impiego più efficiente d’Italia, dai tempi in cui il centrodestra governava la Provincia. L’udienza con Caianiello verte su un oggetto specifico: la possibile nomina di Zingale alla direzione generale del settore Formazione e lavoro della Regione come contropartita di una serie di consulenze (ovviamente remunerate) che lo stesso Zingale, nel suo attuale ruolo, assicurerebbe all’ex socio di studio del governatore Attilio Fontana, Luca Marsico, per «risarcirlo» dalla bocciatura alle elezioni per il consiglio regionale. «Invece di darli alla Treu, che gli giro ottanta, novantamila euro l’anno, glieli giro a... al suo...», dice prontissimo Zingale (che al pm ha spiegato di alludere al caso in cui avesse avuto bisogno di un penalista). Ma Caianiello è molto concreto: «Devo avere questa garanzia». E alla risposta immediata («la garanzia c’è») prende il telefono e compone il numero del presidente della Regione, che però non risponde: «Allora mo’, adesso lo chiamiamo e diciamo... davanti a te lo chiamo...». Il direttore di Afol si sbilancia: «Ascoltami Nino siccome il 3 mi scade pure l’Odv (Organismo di vigilanza, ndr) che ne devo nominare due, uno è l’amico di Carminuccio, Luca potrebbe fare la domanda e si piglia già i primi 10.000 euro». Ma il veterano blocca lo slancio con una frase eloquente: «Vedere cammello!... pagare niente». L’atteggiamento da guida del veterano Caianiello emerge nitidamente anche in un dialogo (con il sottosegretario regionale Fabio Altitonante) in cui si parla di Angelo Palumbo, consigliere comunale eletto proprio a scapito di Marsico e per volontà esplicita del ras di Forza Italia a Varese. Una volta al Pirellone, il giovane Palumbo «non dovrà in alcun modo fare l’assessore», perché è ancora inesperto. Al massimo potrebbe ambire alla presidenza di una commissione, «cosa che — annotano i magistrati — puntualmente si verificherà». Ma al bar di Gallarate tutto ha un prezzo: così Palumbo subito dopo la sua elezione, «ringrazia formalmente con una sostanziale donazione (circa 9.500 euro) nei confronti della Associazione culturale Agorà di cui Caianiello è presidente onorario». Il sistema della decima, osservano gli inquirenti, è «perfettamente funzionante». Anche Fabio Altitonante, tuttavia, tradisce una certa smania di arrivare al risultato, quando si tratta di sbloccare — dietro la contropartita di un finanziamento elettorale che lui indicherà poi come destinato al collega di partito Pietro Tatarella — la pratica di un imprenditore negli uffici dell’Urbanistica comunale, che però si lamenta dei tempi lunghi («la processione non cammina, la cera si consuma») e della scortesia del funzionario che lo ha ricevuto. Altitonante non ha esitazioni: «Si prenderà la cazziata». Certo, perché gli imprenditori sono i clienti, i fruitori di certi «servizi». Ma pochi giorni dopo la retata e la pubblicazione delle prime notizie sull’inchiesta hanno iniziato a presentarsi in procura. Un copione visto nei mesi successivi al 17 febbraio 1992: collaborazione spontanea. Ma rigorosamente dopo, quando la macchina giudiziaria si è ormai messa in moto, e non prima, per denunciare il politico che imponeva il suo tariffario. Anche ai tempi di Mani pulite, tra l’altro, il capo d’accusa di finanziamento illecito era di grande e attualità. Ma nella Tangentopoli del 2019 è del tutto scomparsa una delle frasi standard di allora: «Non li ho presi per me, ma per il partito».

O MIA BELLA TANGENTINA. Gianni Barbacetto per "il Fatto Quotidiano” il 16 maggio 2019. Passata la tempesta, Milano torna a far festa. Ha dimenticato in fretta lo choc della grande retata del 7 maggio, oltre 90 indagati, 43 arresti, gare truccate, un fiume di mazzette, uomini politici a libro paga di imprenditori disposti a pagare, funzionari pubblici pronti a vendersi per un piatto di lenticchie. E non ha proprio preso atto che, rispetto alla Tangentopoli di 27 anni fa, oggi c' è una novità, nerissima: dietro all' imprenditore che si compra il politico, ora c' è anche il boss della 'ndrangheta. Politico, imprenditore, mafioso: insieme a Milano come nella Sicilia del "tavolinu". Nessuno si agita. Il sindaco Giuseppe Sala minimizza l' impatto della corruzione e rilascia serene interviste dagli Stati Uniti in cui recita il ruolo di chi è pronto a fare il grande salto come candidato del centrosinistra a Palazzo Chigi (E non si mostra preoccupato per la condanna a 13 mesi, per falso in atti Expo, richiesta dal pm al processo in cui è imputato). Ha fortuna, Giuseppe Sala. Fortuna e buona stampa: ha fatto passare, aiutato dai giornali amici (quasi tutti), la convinzione che il centro della rete di corruzione svelata dall' inchiesta "Mensa dei poveri" sia il Pirellone della Regione Lombardia. In effetti, a raggiungere questo risultato lo ha aiutato il suo amico Attilio Fontana, il presidente leghista scivolato in comportamenti di certo discutibili (se siano anche reati lo stabiliranno i giudici) come affidare incarichi, pagati con soldi pubblici, al suo socio di studio, l' avvocato Luca Marsico: lo ha piazzato in una commissione regionale, gli ha fatto assegnare una consulenza delle Ferrovie Nord e finanche un mandato a difendere l' ospedale Fatebenefratelli contro un gruppo di medici. Il centro della rete di corruzione svelato dall' inchiesta "Mensa dei poveri", però, non è il Pirellone, ma Palazzo Marino. È attorno agli appalti del Comune e delle sue società partecipate (Amsa, A2a) che ronzava il ras delle tangenti Daniele D' Alfonso (arrestato), imprenditore socio e prestanome del boss calabrese Giuseppe Molluso, collegato con i Barbaro-Papalia di Buccinasco (Milano) e di Platì (Reggio Calabria). Siede a Palazzo Marino come consigliere comunale Pietro Tatarella (arrestato), candidato di Forza Italia alle Europee. Sono dipendenti del Comune il dirigente dell' Urbanistica Franco Zinna e la geometra Maria Rosaria Coccia (indagati), pronti a concedere licenze per compiacere il forzista Fabio Altitonante (arrestato). È un uomo della galassia del Comune Mauro De Cillis (arrestato), responsabile operativo dell' Amsa, l' azienda milanese dei rifiuti, che secondo l' accusa trucca le gare d' appalto per lo sgombero neve, per la raccolta dei rifiuti pericolosi, perfino per la pulizia delle aree per cani e bambini, in accordo con un altro imprenditore vicino alle cosche, Renato Napoli. Ha ragione il consigliere comunale Basilio Rizzo: "Mi sembra che non si sia colta la portata di quello che è accaduto nella nostra città. Noi abbiamo il dovere di fare tutto quello che è utile per impedire che episodi come questi si ripetano. Sono emerse cose che non sono giudicabili dalla magistratura, ma sono fatti: spartizione di nomine e di incarichi, bandi costruiti su misura, appalti assegnati per spartizione predeterminata, decisa dagli operatori e non da chi deve decidere. Tre o quattro anni fa, in occasione di altre indagini, avevo richiesto più volte in Consiglio i famosi audit di cui non ho saputo nulla. Se niente cambia, come possiamo non pensare che tra due anni le cose si ripeteranno? Che cosa ci facevano gli uomini della Mm ai pranzi insieme agli arrestati? E le aziende citate nelle carte dell' inchiesta stanno lavorando ancora per la nostra amministrazione?". Aspettiamo risposte da Sala, possibilmente prima che parta per Palazzo Chigi.

Lega, arrestato il sindaco Gianbattista Fratus: magistrati scatenati prima del voto. Libero Quotidiano il 16 Maggio 2019. L'offensiva delle toghe non si ferma. Oggi è il turno di Gianbattista Fratus, sindaco di Legnano della Lega, arrestato in un'operazione su turbata libertà degli incanti e corruzione elettorale, condotta dalla Guardia di Finanza del Comando provinciale di Milano su disposizione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio. A Fratus, si apprende, sono stati concessi gli arresti domiciliari, così come ai domiciliari è finita l'assessore alle opere pubbliche, Chiara Lazzarini. In carcere, al contrario, ci finisce l'assessore al bilancio e vicesindaco del comune di Legnano, Maurizio Cozzi.

Le nomine nella Legnano leghista: «Promette i voti, assunta la figlia». Pubblicato giovedì, 16 maggio 2019 da Cesare Giuzzi e Marco Galluzzo su Corriere.it. Nomine pilotate nelle partecipate, bandi ad personam per i dirigenti comunali e un baratto elettorale con voti in cambio dell’assunzione della figlia di un candidato tagliato fuori dal ballottaggio. «Dall’Alpi a Sicilia, dovunque è Legnano», canta l’inno di Mameli ricordando la vittoria del 1176 di Alberto da Giussano e della Lega Lombarda sul Barbarossa. E oggi con il sindaco leghista Giambattista Fratus ai domiciliari, le vicende della città simbolo del Carroccio diventano il paradigma di un sistema di corruzione e gestione della cosa pubblica che scuote la Lombardia e arriva fino al governo. Dopo l’appaltopoli e l’avviso di garanzia al governatore Attilio Fontana, con i vertici di Forza Italia sotto inchiesta, tocca alla Lega. Un terremoto che parte dalla cittadina di 60 mila abitanti al confine con Varese e porta ai domiciliari anche il neo assessore alle opere pubbliche Chiara Lazzarini, e in carcere il titolare della delega al bilancio Maurizio Cozzi, entrambi di Forza Italia. In mezzo un sistema di nomine nelle municipalizzate «Europa Service» e «Amga Legnano» fondato sul principio dello spoil system e su incarichi affidati ad «amici e alleati politici». Con i magistrati di Busto Arsizio (l’indagine è affidata al pm Nadia Calcaterra e alla guardia di Finanza di Milano) che fotografano in diretta «il pagamento» del sostegno elettorale offerto dal candidato escluso dal ballottaggio del giugno 2017, Luciano Guidi (lista Alternativa popolare) al sindaco Fratus. Un bottino di 1.046 voti che al secondo turno Guidi riversa sul candidato di centrodestra nel duello con il primo cittadino uscente Alberto Centinaio (centrosinistra). In prima battuta a Fratus erano toccati 9.196 voti contro i 7.717 di Centinaio. Un divario esiguo che porterà il candidato leghista a stringere Guidi un patto politico che si tradurrà — dopo il pubblico endorsement di Guidi in favore di Fratus — in un totale di 10.865 preferenze. Il prezzo da pagare, si scopre nelle carte dell’inchiesta «Piazza pulita», è l’assunzione in «Amga» della figlia di Guidi, la 29enne, Martina, avvocata fresca di nomina. Un patto che, almeno a livello politico, ha ricevuto l’approvazione dei vertici del centrodestra lombardo. Come spiega, intercettata, l’allora coordinatrice di Forza Italia, e dominus del sistema Legnano, Chiara Lazzarini riportando le parole del neo sindaco Fratus: «Ha detto “io siccome negli accordi elettorali che ho preso con Guidi per il ballottaggio gli avevo detto che se mi appoggiava”, accordi che ha preso al livello regionale con Paolo Alli (ex braccio destro di Formigoni), Graziano Musella (FI) e Salvini, avrebbe dato un posto alla Guidi...». La «ragazzetta», cooptata nel cda dopo che il sindaco ha costretto alle dimissioni un’altra consigliera, è così spaventata dall’incarico che chiede consiglio alla Lazzarini: «Ma devo firmare quando vado o no? Perché ho sempre paura di dire delle cazzate...». Il gip Piera Bossi parla di «controllo totalitario delle amministrazioni pubbliche», che si traduce nella nomina di un «inquisito per gestione di rifiuti» a dirigente comunale. E alla consulenza affidata a «un amico» all’interno della municipalizzata «Europa service». Incarico che poi non si concretizza perché il candidato, dopo un bando costruito su misura, non parteciperà alla selezione. Tanto da essere bollato dall’assessore Cozzi come un «cagasotto».

Fabio Poletti per “la Stampa” il 17 maggio 2019. Il vicesindaco di Legnano Maurizio Cozzi di Forza Italia aveva capito tutto: «Nessuno sa che c' è 'sto regolamento...». E via a questo balletto di nomine taroccate, incarichi conferiti ad hoc e cattiva politica. Un traffico finito ieri con un giro di manette della Procura di Busto Arsizio, che ha raso al suolo i vertici del Comune. Agli arresti domiciliari finiscono il sindaco leghista Gianbattista Fratus e l' assessore alle Opere pubbliche Chiara Lazzarini di Forza Italia. In carcere invece Maurizio Cozzi, il vicesindaco anche lui del partito di Silvio Berlusconi. L' operazione chiamata «Piazza pulita» dalla Guardia di finanza è stata coordinata dal pm di Busto Arsizio Nadia Calcaterra, la prima a stupirsi del livello di impunità in cui si muovevano gli indagati: «Avevano un bassissimo senso della legalità. Siamo di fronte a un sistema di colonizzazione della politica». Comune commissariato Nei tre episodi contestati da marzo dell' anno scorso il titolo di reato è turbativa di gara. Undici le persone indagate per ora. Non risultano passaggi di danaro, ma solo aiuti ad amici e ad amici di amici. Scrive il giudice Piera Bossi che ha firmato le ordinanze: «La gravità e la serialità delle condotte in contestazione appare caratterizzata da particolare pervicacia e da totale mancanza di percezione del disvalore (oltre che sociale) anche penale delle stesse». Le eventuali dimissioni dagli incarichi pubblici non avrebbero garantito la non ripetizione dei reati. Per questo ci ha pensato il prefetto di Milano Renato Saccone che ha azzerato i vertici del Comune nominando un commissario. Al centro dell' inchiesta ci sono le nomine ad incarichi dirigenziali in Comune, della municipalizzata Agma che si occupa di rifiuti e nella partecipata Euro.pa Service. Ma c' è pure un episodio di corruzione elettorale avvenuto nel 2017, quando il candidato di una lista civica di centrodestra Luciano Guidi affossato al primo turno, offre al sindaco Gianbattista Fratus l' appoggio al ballottaggio in cambio di un incarico alla figlia. Parla il sindaco al telefono all' avversario: «Tua figlia si chiama Martina vero? S to provvedendo alla nomina in Ala». E fa niente se Martina Guidi al telefonino balbetta di non essere capace ad affrontare queste cose: «Io non le capisco... Ho sempre paura di dire delle caz...». Poco importa, a suo padre basta e avanza per esultare su Facebook dopo il trasferimento dei voti al sindaco. Nelle numerose intercettazioni telefoniche e ambientali spunta anche il nome di Matteo Salvini tirato in ballo indirettamente dal sindaco. Ne parlano l' assessore Lazzarini poi finita ai domiciliari e un altro componente della Giunta, che riferiscono parole di Gianbattista Fratus: «Siccome prima del ballottaggio a livello regionale ho fatto un accordo con Paolo Alli, Salvini e quell' altro provinciale loro della Lega in cui Paolo Alli e Guidi hanno detto che mi avrebbero appoggiato al ballottaggio e che io in cambio gli avrei dato un posto, quindi io devo mantenere questa promessa». In questa storia dove si conferiscono incarichi aggirando ogni norma, il vicesindaco Cozzi descrive bene il modus operandi: «Prima si trova il candidato poi si fa il bando». E se ci sono posizioni che non si possono mettere a posto perchè incompatibili, basta non farci troppo caso. Enrico Barbarese, uno dei manager pubblici ora indagati, destinato ai vertici di una municipalizzata, assicura che non ci si ferma davanti a niente: «Mica abbiamo problemi di andare in galera, non è questo il problema. È non dare spazio a robe strumentali... Una letterina e vi sistemo tutto». Certo c' è poi il commercialista che si tira indietro all' ultimo momento. «Un cagasotto», lo bolla il vicesindaco. Alla fine quello che emerge lo scrive il giudice Piera Bossi nella sua ordinanza: «Le indagini hanno consentito di accertare da parte dell' attuale vertice del Comune di Legnano una gestione non tanto improntata al soddisfacimento degli interessi pubblici quanto alla inspirata collocazione di amici o conoscenti, comunque persone gradite ed in ogni caso manovrabili in quanto asservite alle loro direttive».

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 17 maggio 2019. «Una volta che si individua la persona, basta! Fai la gara, finito!». Nel «sistema di selezione parallelo» di dirigenti comunali e manager pubblici, al Comune di Legnano le nomine procedono «in direzione esattamente contraria » a quanto previsto dalla legge. Prima l' uomo da piazzare, poi il bando da cucire su misura. Il sindaco leghista Gianbattista Fratus, il vicesindaco Maurizio Cozzi e l' assessore alle Opere pubbliche Chiara Lazzarini, entrambi di Forza Italia, si attivano appena c' è un posto da coprire.  Agganciano i candidati, li sottopongono a colloqui, cercano poi di limare gli ostacoli nei bandi da pubblicare o addirittura già pubblicati. «Ho chiesto se conosce anche lui qualcuno del suo giro... - dice Fratus al telefono a Paolo Pagani, ex dg della municipalizzata Amga - se c' è qualcuno che possa fare il direttore generale». Il comitato controllo nomine Quello che emerge dall' inchiesta del procuratore aggiunto Giuseppe D' Amico e del pm Nadia Calcaterra, è un «comitato di controllo politico delle nomine» dei dirigenti nelle partecipate e in municipio. Caratterizzato, scrive il gip Piera Bossi, «dalla totale mancanza di percezione del disvalore, anche penale ». Un meccanismo oliato, basato su relazioni politiche e amicizie, per la designazione di «soggetti manovrabili e in futuro riconoscenti ». E che fa leva sulla «spregiudicata manipolazione di procedure per ottenerne la nomina».

I tre incarichi pilotati. Tra i tre incarichi pilotati in appena cinque mesi di indagine, ricostruiti dai finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano, guidato dal colonnello Vito Giordano, con il gruppo Tutela spesa pubblica, il caso più eclatante è quello di Enrico Barbarese, chiamato a dirigere il settore per lo Sviluppo organizzativo del Comune. «Fuori da ogni canale istituzionale e ben prima dell' emanazione del bando », il gruppo si mette alla ricerca di un candidato «di riferimento». Per la procura la procedura di nomina è in realtà «un mero simulacro in quanto, mesi prima, era stato già individuato». Barbarese è amico del dirigente dimissionario Enrico Peruzzi, ed è quest' ultimo a segnalare il professionista. «C' aveva lì un curriculum che gli ha trovato Peruzzi», dice Cozzi a Lazzarini, non ancora assessore, e quindi «senza alcun ruolo formale all' interno dell' amministrazione ». Ma è lo stesso Barbarese a considerare ardua la sua nomina, perché è amministratore di una srl e quindi incompatibile. «Il vostro regolamento mi impedisce di tenere l' altro incarico... è un caso di incompatibilità assoluta di stampo veterocomunista... io non posso...io ho firmato un contratto falso...», dice alla fine. Ma il manager, descritto dal gip come «soggetto privo di esperienza in materia di enti locali e gravato da precedenti di polizia», offre anche la soluzione. «Mica abbiamo problemi di andare in galera, non è questo il problema... è non dare spazio a robe...strumentali...». «Nessuno sa che c' è il regolamento», risolve Cozzi. Il prezzo è stato pagato Oltre alle turbative d' asta, Fratus deve rispondere anche di corruzione elettorale per aver stretto un "pactum sceleris" con Luciano Guidi, candidato sindaco escluso dopo il primo turno. Che decide di appoggiare Fratus al ballottaggio in cambio dell' assunzione della figlia Martina nel cda di un' altra partecipata, Aemme Linea Ambiente. Gli investigatori annotano che al primo turno Fratus ha incassato 9.196 voti, mentre Guidi - che capeggiava una lista di ex Udc - viene escluso con 1.046. Al secondo turno invece Fratus trionfa con 10.865 voti. «Il prezzo è stato pagato», dice Lazzarini quando viene a conoscenza della nomina della ragazza. «Sto provvedendo alla nomina in Ala», dice Fratus intercettato, a Guidi. Un atto che, scrive il gip, avviene in «totale assenza di ragioni concrete ad assumere una neolaureata, sì in possesso del titolo abilitativo della professione legale, ma del tutto priva dell' esperienza necessaria per adempiere autonomamente il mandato amministrativo conferito». E infatti, la vita in ufficio per la ragazza non è semplice. «Io non le capisco... cioè poi ho provato a leggerle... ma non mi è chiara la tempistica... ho sempre paura di dire delle cazzate», si preoccupa la giovane in merito a una prossima riunione del cda, confidandosi con Chiara Lazzarini, che le fa un po' da tutor. L' accordo prima delle elezioni Proprio lei, intercettata, racconta che il patto elettorale tra Fratus e Guidi sarebbe basato su un accordo con Paolo Alli, per anni braccio destro di Formigoni in Regione Lombardia, e Matteo Salvini. «Prima del ballottaggio a livello regionale io ho fatto un accordo con Paolo Alli, Salvini e quell' altro provinciale loro della Lega - dice Lazzarini, il 25 ottobre scorso, riportando le parole di Fratus - in cui Paolo Alli e Guidi hanno detto che mi avrebbero appoggiato al ballottaggio e che io in cambio gli avrei dato un posto... quindi devo mantenere questa promessa che ho fatto io, Gianbattista Fratus». La nomina infatti è «in quota sindaco - dice l' assessora - non in quota Forza Italia. Perché lui deve pagare pegno ». La rinuncia del prescelto Il sistema s' inceppa quando uno dei candidati selezionati da Cozzi, non se la sente di farsi nominare. E non presenta il curriculum. L' incarico riguarda i servizi di consulenza fiscale in Europa Service, un' altra municipalizzata. Cozzi, pur di favorire un suo amico, il commercialista Gabriele Abba, convince il dg dell' azienda Mirko Di Matteo a modificare il bando già pubblicato. Ma Abba è scettico, vede che i requisiti del bando lo lascerebbero fuori. «Io non rientro... non rientro... - dice a Cozzi - Si richiede esperienza di dieci anni... negli enti pubblici... per cui io non rientrerei... ». Ma Cozzi non si dà per vinto: «Ma tu avevi fatto... e oltretutto... non è la cosa fondamentale...». Subito dopo si attiva con Di Matteo. «Adesso faccio una rettifica - assicura il direttore generale - che l' esperienza decennale è da intendersi in società ed enti di diritto privato come consulente professionale ». Ed effettivamente il bando cambia. Nonostante «l' attività di turbativa realizzata dai due», finalizzata al conferimento ad Abba, il commercialista declina.  «Perché non c' ha lo studio qua... è un cagasotto... non c' ha lo studio abbastanza attrezzato.. è un cagasotto », lo prende in giro Cozzi. Come la nomina di Abba, anche l' ultima turbativa non si compie. Gli arresti scattano prima che venga nominato il nuovo direttore di Agma. Lo schema si ripete: prima il candidato, poi il bando. «Ho finito le selezioni - dice ai politici Massimiliano Roveda, consigliere di Amga - Nel bando ho messo delle caratteristiche... volevo essere certo che andasse bene anche a voi».

L'assessore ha scontato già metà della pena. Ma senza il processo. A Lazzarini, ai domiciliari da 5 mesi, i pm hanno offerto di patteggiarne 11. Ha detto no. Luca Fazzo, Giovedì 17/10/2019, su Il Giornale. Sono passati cinque mesi e un giorno dalla mattina in cui la Procura di Busto Arsizio fece piazza pulita (e proprio così venne battezzata l'operazione, «Piazza Pulita») nel municipio di Legnano, arrestando in un colpo solo il sindaco, il vicesindaco e l'assessore ai Lavori pubblici. L'inchiesta è chiusa, e lunedì prossimo inizierà il processo: quali prove ci siano ancora da salvaguardare quindi non si capisce, né è comprensibile come i tre - il leghista Gianbattista Fratus e i forzisti Maurizio Cozzi e Chiara Lazzarini - possano delinquere ancora, essendo ormai tagliati fuori non solo dal Comune - che è retto da un commissario - ma anche da qualunque prospettiva di tornare alla vita politica. Eppure i giudici si rifiutano di liberarli. Restano agli arresti domiciliari, scontando di fatto una condanna che non è mai stata loro inflitta, per accuse di cui si proclamano innocenti. L'ultima a chiedere di tornare libera per stare vicina al padre in fin di vita è stata la Lazzarini: la Procura ha finalmente dato parere favorevole, ma il tribunale (lo stesso tribunale che dovrà processarla e stabilire se è colpevole o innocente) ha già stabilito che è pericolosa, perché «la riattivazione della fitta rete di conoscenze e condizionamenti» potrebbe «concretamente incidere sulla serenità dei testimoni». Quindi niente da fare, la Lazzarini affronterà il processo da detenuta, e così dovranno fare Fratus e Cozzi. Non è un trattamento consueto. Politici ben più potenti, ben più in grado di incutere soggezione ai testimoni (da Roberto Formigoni a Filippo Penati) hanno potuto affrontare le indagini e i processi a piede libero. Ma a rendere ancora più particolare la vicenda di Legnano è la sproporzione tra la detenzione che i tre indagati hanno già scontato e la pena che rischiano di vedersi infliggere. Meno di un anno di carcere. Non è semplicemente una ipotesi. Nelle settimane scorse, la Procura della Repubblica di Busto ha contattato ripetutamente i difensori degli imputati proponendo loro di patteggiare la pena, evitando il processo. Alla Lazzarini sono stati proposti undici mesi di carcere con la condizionale, undici a Fratus, dodici a Cozzi. Tutti e tre hanno rifiutato, perché continuano a ritenersi e a proclamarsi innocenti, e intendono dimostrarlo in un pubblico processo. Di una comoda via d'uscita per limitare i danni, hanno fatto sapere, non sappiamo che farcene. A colpire è semmai l'esiguità della pena che la Procura proponeva agli imputati specie se paragonata al risalto mediatico con cui - tra comunicati e conferenze stampa - venne annunciato il loro arresto. Alla Lazzarini, accusata di turbativa d'asta e turbativa di procedimento, pena massima fino a cinque anni, i pm offrono un supersconto di pena pur di convincerla a patteggiare. L'ex assessore rifiuta. Ma il problema è che, comunque vada a finire il processo, metà di quegli undici mesi di detenzione la Lazzarini li ha già scontati. E anche se venisse assolta nessuno glieli restituirà mai. Che la Procura fosse pronta, e anzi insistesse, per chiudere l'intera vicenda con pene appena sopra il minimo, potrebbe indicare che lo stesso pm titolare dell'inchiesta, Nadia Calcaterra, si rende conto di una certa fragilità dell'impianto accusatorio, e della difficoltà di sostenere in un processo la colpevolezza dei tre. Alcuni buchi logici della tesi della Procura d'altronde erano saltati all'occhio già in maggio dalla lettura dell'ordinanza di custodia. Dopo oltre un anno di intercettazioni a tappeto sia telefoniche che ambientali, la Guardia di finanza era riuscita a attribuire ai tre indagati solo due episodi di irregolarità nelle nomine di dirigenti comunali, e in nessuno dei casi erano emersi passaggi di denaro né interessi personali o di partito. Tra le nomine sotto tiro c'era quella del direttore generale dell'Amga, la principale azienda municipalizzata, che però secondo alcuni esponenti della maggioranza aveva il difetto di essere vicino al Pd. Ma parlando al telefono con la Lazzarini, Cozzi rispondeva netto: «Ma che cazzo c'entra se uno è del Pd o non è del Pd. Se uno è capace...». Mentre per la carica di direttore generale del Comune è la Lazzarini a indicare i criteri della scelta; «Vogliamo una persona superpreparata, soprattutto nelle partecipate e nel personale». Ancora più surreale una delle accuse a Cozzi, che avrebbe truccato una gara per affidare una consulenza a un suo amico: ma si scopre che l'amico non presenta nemmeno la domanda, perché il compenso previsto è irrisorio. Come per accuse di questo genere tre persone siano state tenute agli arresti per cinque mesi è un mistero.

Politica e corruzione, l’eterno ritorno: adesso pene certe e condanne rapide. Pubblicato martedì, 07 maggio 2019 da Venanzio Postiglione su Corriere.it. Anche lo sfregio. Si vedevano al ristorante e lo chiamavano «la mensa dei poveri». Hanno immaginato la tangente su una sentenza per tangenti: pure la corruzione sa essere creativa. Il mago delle relazioni e dei voti, raccontano i pm, è un signore già condannato in via definitiva nel 2017: per concussione. Quando si dice la competenza. E l’inchiesta poteva e doveva andare avanti, alla ricerca di prove e reati: hanno dovuto interrompere. D’urgenza. Con gli arresti. Perché, ascoltando i colloqui, saltavano fuori nuovi illeciti: così, in diretta. Sono passati 27 anni dal famoso 17 febbraio del ’92, quel mattino d’inverno in cui Mario Chiesa veniva arrestato, Tonino Di Pietro diventava famoso, si apriva Tangentopoli, cadeva un sistema politico e si immaginava la lunga primavera dell’onestà. Da Milano all’Italia tutta. Però 27 anni fa è come 27 mesi fa e 27 ore fa, la corruzione ambientale specchio e condanna di un Paese uguale a se stesso, al di là delle norme, dei partiti, delle inchieste. Delle promesse, dei proclami. Ma forse anche dei garantisti e dei giustizialisti. Che si scontrano sul nulla e parlano di nulla se non si aggrediscono i due temi aperti (quelli veri): la selezione della classe politica e l’efficacia e la rapidità della giustizia. Altrimenti avremo sempre mezze figure con la bustarella in tasca e processi infiniti che aiuteranno lo spettacolo e mortificheranno la legalità. E avremo pene molto severe e molto inapplicate, grandi megafoni per la propaganda e nuovi tagli alla giustizia. La delusione sarà più forte, se i primi passi dell’inchiesta di Milano verranno confermati, a cominciare dalle «sinergie con le cosche della ’ndrangheta». Perché nell’immaginario italiano davvero, e ancora, la Lombardia è la regione che lavora-produce-innova partendo dalle sue imprese e prova a trascinare un Paese frenato dalle risse (quotidiane) al governo e malmenato dalle bastonate (mensili) dell’Europa. È una spinta che fa bene all’Italia e ci tiene ancorati al mondo: tutti i giorni. Ma poi, un martedì mattina, la notizia che scuote il sistema lombardo di governo, costruito da sempre sull’alleanza Forza Italia-Lega e citato con insistenza come modello nazionale. Ci sono 43 misure cautelari, con 12 arresti in carcere e con gli «azzurri» emergenti sotto scacco. A partire da Pietro Tatarella, vice coordinatore regionale di Forza Italia e anche candidato alle Europee del 26 maggio: in lista, ma ora in cella. Indagato lo stesso governatore leghista, Attilio Fontana, per abuso d’ufficio, anche se la Procura ha mostrato cautela e quindi servirà prudenza. Non è solo un fatto giudiziario. E non è facile scagliare pietre. La Lega, a Roma, si è incartata nella vicenda Siri e ha ridato slancio ai 5 Stelle. Gli stessi 5 Stelle che hanno visto il proprio presidente del consiglio comunale, Marcello De Vito, finire in carcere per corruzione. Nella capitale, dove governano. Il Pd, solo per citare l’ultima pagina, ha la ferita dell’Umbria ancora aperta, dopo decenni di amministrazione e di potere. Poi, certo, ogni caso è un caso, ogni responsabilità è personale e l’indagato non è un condannato. Ma neppure la legge «spazzacorrotti» si è rivelata (per ora) una minaccia sufficiente e l’ipotesi della «giustizia a orologeria» si spegnerà prima di nascere. Sarebbe uno strano orologio. Visto che in Italia ci sono sia elezioni che indagini in continuazione. È una battaglia che va fatta nei partiti. Dentro i partiti. Con le inchieste. Ma anche nella società, nella cultura, alla ricerca degli anticorpi che esistono in Lombardia e non solo in Lombardia. È forse qui che, un giorno, deve davvero finire la pacchia. Senza dire che le persone marciranno in galera o che bisogna buttare la chiave nel lago di Como o che si devono tagliare le mani come nelle leggi ispirate alla sharia. Le persone degli altri partiti, naturalmente. Meglio pene certe e condanne rapide: la riforma più semplice sarà quella più difficile. Partendo da Cesare Beccaria, milanese e gloria nazionale, che l’ha scritto nel Settecento. E poi una politica che chiama «mensa dei poveri» il ristorante dove si scambiano tangenti dovrebbe vergognarsi subito. Prima di inchieste e processi.

Non chiamatela Tangentopoli: questo è un nuovo teorema giudiziario. Tangentopoli, analisi di un’indagine mediatico-giudiziaria. Tiziana Maiolo il 9 Maggio 2019 su Il Dubbio. Non è la Nuova Tangentopoli e neanche una nuova inchiesta Stato-mafia in salsa locale. Il blitz che si è palesato martedì mattina in Lombardia con le sembianze di un calderone contenente oltre 90 indagati e 43 persone arrestate per reati contro la pubblica amministrazione non ha infatti nulla a che vedere né con le vicende che nel 1992 rasero al suolo un’intera classe politica né con le tradizionali inchieste di mafia e politica. La storia di Tangentopoli ( così fu battezzata proprio la città di Milano da cui partirono quelle indagini ) non è solo una vicenda giudiziaria. È lo specchio di un assetto politico- economico che riguardò i primi quarant’anni della storia repubblicana in cui si annidò anche la malattia, un sistema di finanziamento illegale dei partiti di governo e del principale di opposizione con la complicità dei maggiori imprenditori italiani. Tutto era controllato, con una spartizione chirurgica tra le parti, e tutto era conosciuto ( anche dalla magistratura ) e accettato ( anche dagli elettori, a una parte dei quali ogni tanto veniva lasciata cadere qualche briciola ). C’erano anche casi di corruzione personale, certo. Ma erano secondari rispetto al sistema che il pm Antonio Di Pietro chiamò “dazione ambientale”. La Tangentopoli del 1992 è un fenomeno irripetibile. E qualche santo ci tenga lontano dagli imitatori di quel gruppo di investigatori che si autodefinì “Mani Pulite”, quasi a sottolineare il proprio compito finalizzato più a moralizzare la società che non a perseguire i singoli reati. Anche questa grande anomalia per fortuna è irripetibile. Non c’è più quel rapporto di complicità tra i partiti né tra questi e il mondo dell’impresa. Non c’è più neppure «quell’intelligenza politica, individuale e collettiva», che insieme ai frutti sani aveva prodotto anche la malattia. Ne parlò l’ultima volta in Parlamento il leader socialista Bettino Craxi quando denunciò che tutti i bilanci dei partiti erano falsi e illegali così come illegale era stato il loro finanziamento. Nessuno osò contraddirlo. Che cosa succede oggi (ma anche ieri e probabilmente domani)? Succede prima di tutto che esploda una vera bomba nel bel mezzo di una campagna elettorale quanto mai importante e delicata per gli equilibri in campo. Possibile che su richieste di arresto di due- tre mesi fa da parte dei Pm il giudice delle indagini preliminari non potesse assumere i provvedimenti un mese prima o un mese dopo le elezioni? La seconda osservazione è che si ha l’impressione, leggendo l’ordinanza, che si vogliano mettere insieme episodi e soggetti molto lontani tra loro, quasi a voler a tutti i costi indirizzare ogni singolo fatto in un “unico disegno criminoso”, all’ombra protettiva di una associazione mafiosa cui tutto ricondurre. Non è un caso che le indagini siano state condotte dalla Direzione distrettuale antimafia, e non è la prima volta, in Lombardia. Il nuovo teorema di questi anni è: ormai la ‘ ndrangheta si è trasferita al nord, dove ci sono i capitali più succulenti e le maggiori occasioni di fare affari, soprattutto perché la classe politica è sempre e comunque corrotta e pronta a farsi complice. Quindi, se è corrotta è anche mafiosa. Un ragionamento che pare molto in linea con gli orientamenti della parte Cinquestelle del governo, che tende a equiparare per gravità i reati contro la Pubblica Amministrazione a quelli di mafia a terrorismo. Così anche episodi sia pur gravi ma “minori” come la mancata denuncia di un contributo elettorale di 10.000 euro finiscono nel calderone non solo della corruzione ma anche della criminalità organizzata. Va anche detto che una classe politica più giovane e inesperta di quella dei tempi di Tangentopoli possa essere meno accorta nei rapporti individuali. Anche se il limite tra una certa di disinvoltura politica e lo scivolamento nella commissione di reati è spesso sottile. E succede anche che lo stesso mondo dell’impresa navighi spesso su confini scivolosi. Così finisce che se l’assessore A fa un favore all’imprenditore B e costui ha rapporti borderline con il signor C considerato contiguo ad ambienti mafiosi, ecco che il vestito giudiziario che viene costruito addosso all’assessore è il più terribile di tutti: mafia. E’ il caso anche della vicenda che ha riguardato l’ex sottosegretario Armando Siri. L’uso disinvolto dei reati associativi ( che andrebbero aboliti, come sostiene da tempo l’Unione delle Camere Penali ) fa il resto, con intercettazioni e arresti come conseguenza diretta. Anche questa nuova inchiesta milanese si sta infilando in un filone che non è più solo giudiziario e che pare molto pericoloso. Davanti a presunti casi di piccola corruzione o di piccolo o grande clientelismo ( come pare il filone di Varese, che ha finito per coinvolgere anche una persona stimata da tutti come il Presidente della regione Lombardia Attilio Fontana ), si lancia l’allarme che qualcosa di grande stia accadendo, qualcosa di sistemico, qualcosa che necessiti la maxi- inchiesta, la maxi- retata, il maxi- processo. Qualcosa di invincibile, in definitiva, come lo è stata per decenni la mafia nel sud d’Italia. Non è così, per fortuna. E qualche maggior forma di autocontrollo all’interno dei partiti e qualche iniezione di laicità all’interno della magistratura così come di un certo mondo dell’informazione forse sarebbero più utili di calderoni giudiziari inevitabilmente destinati, almeno in parte, a sgonfiarsi nel corso dell’iter giudiziario e nei tempi lunghi della giustizia.

“Nuova Tangentopoli”, si smonta l’inchiesta milanese. Scarcerazioni a raffica. Il Dubbio il 5 Novembre 2019. In libertà domani anche Piero Tatarella, ex capogruppo di Forza Italia a palazzo Marino e l’imprenditore Mauro Tolbar. La «nuova Tangentopoli milanese», come tra gli altri la definì Luigi Di Maio, è già finita. Cala per il momento il sipario sulla maxi inchiesta denominata “Mensa dei poveri”. Mercoledì prossimo tornerà in libertà, dopo le scarcerazioni delle scorse settimane, anche Piero Tatarella, ex capogruppo di Forza Italia a Palazzo Marino ed ex candidato alle ultime Europee, e Mauro Tolbar, imprenditore novarese, titolare di una società di consulenze. Il gip del Tribunale di Milano, Raffaella Mascarino, ha rigettato la richiesta della Procura di sostituire con una misura meno afflittiva, come l’obbligo di dimora o di firma, l’attuale misura detentiva di cui ha, invece, dichiarato l’inefficacia per scadenza termini. Era il 7 maggio quando la Dda di Milano diede il via alla retata che decapitò, alla vigilia delle elezioni europee, i vertici di Forza Italia. Tra le 28 persone arrestate, oltre a Tatarella, Fabio Altitonante, coordinatore azzurro di Milano e sottosegretario in Regione Lombardia. I Pm avevano chiesto anche l’arresto, respinto dalla Camera, del deputato forzista Diego Sozzani. Per i magistrati milanesi Silvia Bonardi, Luigi Furno e Adriano Scudieri, coordinati dall’aggiunto Alessandra Dolci, l’accusa era quella di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al finanziamento illecito. Secondo il gip, nella richiesta della Procura, «non vengono esplicitate in alcun modo le esigenze cautelari» che legittimerebbero l’adozione di un provvedimento alternativo come quello proposto dai Pm, quasi alla scadenza del termine di custodia cautelare dei sei mesi e del quale mancherebbero i "presupposti". Inoltre, si legge ancora nell’ordinanza, si considera «che il tempo decorso rispetto al momento» in cui furono arrestati «e la puntuale osservanza degli obblighi (…) consente di ritenere che gli indagati abbiano tratto dall’esperienza giudiziale un sufficiente monito per astenersi, nel futuro, dal commettere altri reati della stessa specie», e quindi ritornano liberi. Rimane ai arresti domiciliari l’imprenditore Daniele D’Alfonso, al quale è stato però cambiato il capo di imputazione, e cioè di aver favorito la ‘ ndrangheta tramite il clan dei Molluso. Altitonante, tornato in libertà da mesi dopo che il Riesame aveva smontato gran parte delle accuse, ha già ripreso il suo posto al Pirellone. Con gli imputati liberi sfuma la possibilità per la Procura di chiedere il giudizio immediato. La speranza, a questo punto, è che qualcuno decida di patteggiare confermando le tesi dell’accusa. I tempi dell’indagine, ad oggi ancora in corso, avevano sollevato perplessità nel Pd milanese.

Quegli strani arresti: l'inchiesta su Legnano non si regge in piedi. I pm ipotizzano gare truccate: ma dalle carte emerge solo l'intenzione di far funzionare le cose. Luca Fazzo, Sabato 18/05/2019, su Il Giornale. Una gara truccata per fare vincere un amico: peccato che l'amico alla gara non abbia mai neanche partecipato. Un'altra gara truccata per far vincere il prescelto: che però a quel posto era l'unico aspirante. Una terza gara alterata per far vincere un candidato rimasto sconosciuto, e di cui nelle intercettazioni la cosa più grave che si dice è che «è bravissimo». Eccoli, riletti a mente fredda, i capi d'accusa della operazione che giovedì fa ha colpito Legnano, la città-simbolo del Carroccio, mandandone agli arresti domiciliari il sindaco Gianbattista Fratus e in galera il vicesindaco Maurizio Cozzi. Annunciata con spolvero di telecamere dalla Procura di Busto Arsizio, l'operazione «Piazza Pulita» ha fatto irruzione nella campagna elettorale a ridosso del voto: clamore inevitabile, è la prima volta che un sindaco della Lega viene arrestato. Ma l'ordinanza di custodia, depurata dalle ipotesi, dai «verosimilmente», dalle valutazioni morali a casaccio, lascia alcuni dubbi aperti. Perché più di aiutare Tizio o Caio, i politici di Legnano sembrano - dalle stesse intercettazioni depositate agli atti - preoccuparsi soprattutto di far funzionare le cose.

CHI SE NE FREGA SE È DEL PD. È il passaggio forse più significativo delle intercettazioni. Si parla della nomina del nuovo direttore generale dell'Amga, una importante municipalizzata. Il vicesindaco Maurizio Cozzi parla con Chiara Lazzarini, coordinatrice di Forza Italia, dei possibili candidati: e già lì si capisce che non c'è un vincitore designato: «Prova a sentire anche questo qui che così magari poi fissiamo di incontrarli a fine settimana, questi qua sono i primi due che mi sono venuti in mente». Tra i nomi possibili, quello di un candidato di Alessandria che i pm non sono riusciti a identificare, e che pare avere un ottimo profilo, «ha esperienze più diffuse, anche nella gestione di cose complicate», ma non piace ad un assessore. Dice la Lazzarini: «Alpoggio è arrivato e ha detto assolutamente quello lì no, è uno del Pd, è un massone, è uno che non va bene perché mi sono informato io». E Cozzi: «Ma che cazzo c'entra se è uno è del Pd o non è del Pd. Se uno è capace....».

LO STIPENDIO DIMEZZATO. Da coprire c'è anche il posto di direttore generale del Comune. Intercettazione della Lazzarini: «Vogliamo una persona superpreparata, soprattutto nelle partecipate e nel personale». Viene individuato un candidato, Enrico Barbarese, che però fa presente di essere incompatibile per qualche mese, essendo commissario liquidatore di una società, e per risolvere il problema si offre di lavorare a mezzo stipendio: «Per tre quattro mesi io mi prendo il 50 per cento dello stipendio ma non mi importa, formalmente un part-time che tanto io non ho orario, rinuncio al 50 per cento della retribuzione quindi il Comune non ha nessun problema di tipo erariale». Anche questo per la Procura di Busto diventa un elemento di accusa.

IL PERICOLOSO CRIMINALE. Il sindaco Fratus viene accusato di avere nominato Barbarese «nonostante fosse gravato da pendenze penali». In realtà dagli atti emerge che contro Barbarese c'è solo una denuncia mai sfociata in una condanna neanche in primo grado.

LA FIRMA ANTICIPATA. Fratus viene accusato di avere firmato troppo in fretta la nomina del nuovo direttore generale. Ma il candidato era uno solo (gli altri erano inammissibili) quindi l'esito era scontato.

LA CIFRA IRRISORIA. La prima accusa a Cozzi è di avere truccato a gara per una consulenza per affidarla a commercialista Gabriele Abba. Ma Abba non presenta neppure la domanda per partecipare alla gara, perché il compenso è di appena ottomila euro all'anno: «È una cifra irrisoria, per me non si presenta nessuno», dice Abba..

IL POSTO PER LA FIGLIA. In cambio dell'appoggio al ballottaggio, Fratus dà un posto in un consiglio d'amministrazione alla figlia del candidato dell'Udc. È l'unico capo d'accusa che appare solido. Ma è l'unica accusa per cui la Procura non ha chiesto l'arresto.

La "nuova Tangentopoli" e la noia del "vecchio" uso politico della giustizia. Dopo 30 anni c'è chi torna a parlare di Tangentopoli da cui, è chiaro, non abbiamo imparato niente. Maurizio Tortorella il 17 maggio 2019 su Panorama. Certo, se ancora all’alba del maggio 2019 un grande quotidiano nazionale (nella fattispecie la Repubblica ) si mette a titolare in prima pagina “Legnati a Legnano” perché un partito per cui antipatizza (nella fattispecie la Lega) finisce coinvolta in un’inchiesta, questo vuol dire che quasi trent’anni d’indagini, di arresti, di verbali di interrogatorio, d’intercettazioni e tutto l’armamentario giudiziario di complemento non sono proprio serviti a nulla. Attenti. Il ragionamento di certo non vale soltanto per gli arrestati leghisti di quest’ultima tornata: la stessa logica vale per chiunque finisca in una qualsiasi retata di “detenuti politici”. Rispetto delle garanzie degli indagati? Certo che no. Presunzione d’innocenza? Nemmeno a parlarne. Attesa per il giudizio? Ma va là. La sensazione prevalente all’ennesimo scattare di manette (e si spera sia così non soltanto in chi scrive), la è la noia, quasi la nausea. E non certo per simpatia o favore nei confronti della Lega, dei cui evidenti difetti siamo più che avvertiti. No: è l’uso politico della giustizia che davvero ha stancato. I magistrati ogni volta ce lo dicono: noi non possiamo fermarci (e ci mancherebbe!) perché l’obbligatorietà dell’azione penale ci impone di agire. Aggiungono: non è che poi possiamo rallentare a ogni elezione, visto che in Italia ogni settimana c’è un voto (ci mancherebbe!). Vero, tutto vero. Che noia. In chi non smetta di porsi domande, però, resta la fastidiosa sensazione che in questo povero Paese a ogni tornata elettorale, d’improvviso, qualcosa si accenda: che un brivido cominci ad agitare i corridoi di questa o di quella Procura. Partono allora le legnate (copyright la Repubblica). E ora, in questa fase storica, tocca alla Lega. Obiettivamente, questa non è soltanto la verità di Matteo Salvini. È un dato statistico, inoppugnabile. Così come è inoppugnabile la simpatia tra i grillini e certi ambienti giudiziari, un feeling che si muove in parallelo alla corrente che da alcuni anni collega certi uffici giudiziari (e certi magistrati) e il giornale di riferimento del Movimento 5 stelle. Che a ogni arresto urlano urràh, pretendono pene più elevate per ogni reato (e ora che sono al governo le piazzano anche in tutte le leggi), chiedono più poteri per i pubblici ministeri…Grida, pene più elevate, poteri più intrusivi, però, non sono la risposta. Non è di certo la pena che ferma il reato, altrimenti in Cina (dove la giustizia è un po’ più brutale e veloce che nei Paesi democratici) non ci sarebbe nessun corrotto, non ci sarebbe un rapinatore, non ci sarebbe nemmeno un ladro: tutti quei delitti sono puniti con la pena capitale. Quanto alla corruzione, volete sapere che cosa si dovrebbe fare per arginarla nel nostro Paese? Basterebbe una sola norma, semplice semplice: depenalizzare il reato di chi compie una corruzione, dare un salvacondotto al “versatore di mazzette”. Io do una tangente a un sindaco, a un parlamentare, a chiunque? Se poi vado a denunciarlo resto impunito (ovviamente vengo però processato per calunnia se denuncio un reato inesistente). Vedreste allora che nessuno rischierebbe più di farsi corrompere o di chiedere una tangente. Troppo rischioso diventerebbe. E forse noi tutti saremmo meno annoiati di leggere certe cronache giudiziarie.

Se vince l’uso strumentale della giustizia. Carlo Fusi il 17 Maggio 2019 su Il Dubbio. Veniamo al punto. Alla luce della vicenda Siri, dell’arresto del sindaco di Legnano, dell’indagine della Corte dei Conti su un presunto uso indebito dei voli di Stato, è vero o no che la Lega è sotto attacco dei magistrati, in particolare di quelli ritenuti (a che titolo?) vicini all’M5S, al fine di limitarne l’espansione elettorale il prossimo 26 maggio? Se sì, si tratta di un tentativo che va stroncato subito e chi deve intervenire lo faccia con solerzia e determinazione. Se invece così non è, è necessario che gli inquirenti possano lavorare con serenità e al di fuori di indebite pressioni pro o contro, senza che sia sollevato il polverone della giustizia ad orologeria che è un modo particolarmente subdolo per svilire o delegittimare il controllo di legalità. Allo stesso modo – e poco importa se risulta allettante in termini di voti – è parimenti subdolo far lievitare l’immagine di una corruzione ormai endemica e pervasiva; dividere il mondo tra chi la vuole combattere e chi la spalleggia autoassegnandosi un posto esclusivo nel primo campo con la Durlindana dell’onestà e incorruttibilità sguainata. Come pure lanciarsi in disinvolti ed impropri parallelismi con la stagione di Tangentopoli, fortunatamente alle nostre spalle. Il garantismo che ci appartiene non prevede né crociate da combattere né sconti o favoritismi da elargire. Considera che al doveroso accertamento delle responsabilità si arrivi rispettando le regole dello Stato di diritto, senza sconfinamenti verso innocentismi ideologici o derive giustizialiste. Seguendo la civiltà giuridica iscritta nella Costituzione per cui nessuno può essere sottoposto a indagini in mancanza di una qualsiasi traccia ma anche che non basta una traccia per poter assegnare patenti di colpevolezza. Proprio la vicenda di Mani Pulite dovrebbe funzionare da monito per allontanare intromissioni e indebite invasioni di campo tra politica e magistratura. Chi intende strumentalizzare l’una ai fini dell’altra e viceversa, non rende un buon servizio ai cittadini. I quali presto o tardi se ne accorgono e finiscono per punire, nelle urne, tutti gli apprendisti stregoni.

Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 17 Maggio 2019: "Mi autodenuncio. Sono corrotto". La lezione ai "magistrati ridicoli". In questi giorni Forza Italia e la Lega sono sotto assedio: imputate di corruzione e roba simile, come fossero bande di ladri consumati. Ricevono avvisi di garanzia, mandati di arresto, galera e domiciliari quasi piovesse. Motivi? Valli a capire. Tangentine da miserabili, aiutini da straccioni, furti di galline, promesse non sempre mantenute. La politica è vita e la vita è agra, imperfetta quanto l'umanità, complessa, fatta di relazioni tra gente di ogni tipo. E la politica, le istituzioni, sono piene di scambi: do ut des è un motto latino che vale da oltre duemila anni. Come dire che nessuno fa nulla per niente. Chi non se ne rende conto è fuori di testa e dal mondo. Cosicché se tu vuoi accusare qualcuno di essere un corrotto o un corruttore ci metti cinque minuti a imbastire una inchiesta giudiziaria. Io, per esempio, non ho un gran potere eppure un sacco di persone mi telefona e chiede delle cortesie: fammi un pezzullo, una intervistina, recensisci il mio libro, dedicami un po' di spazio dato che sono candidato alle europee o alle comunali, ho bisogno di una mano e so che tu sei in grado darmela. Certe pressioni mi rompono le scatole, ma il più delle volte soccombo per evitare storie e recriminazioni. Lo ammetto, è difficile se non impossibile sottrarsi agli obblighi imposti da un intricato sistema di relazioni pubbliche. Pertanto mi autodenuncio quale corrotto e corruttibile. Mio cugino ha scritto un romanzo (bruttino) e anziché mandarlo al diavolo l'ho elogiato onde evitare rogne. Sono un delinquente? Forse sì in quanto il mio parente per ringraziarmi dell'attenzione immeritata mi ha fatto recapitare tre fiaschi Chianti Gallo nero, buono, per altro. Mi sono venduto o adattato alle consuetudini? Giudicate voi cari lettori. Di già che sono in vena di confessioni, vi dico che a Natale mi sono stati regalati da alcune ditte vari panettoni di marca e me li sono mangiati volentieri coi colleghi. La nostra è una redazione di banditi che fanno merenda a sbafo dopo aver leccato il culo a certe aziende? Mah! Non è finita. Moretti, quello dello spumante ottimo di Franciacorta, poiché gli avevo dedicato un articolo per segnalare che nel suo potere aveva utilizzato i cavalli al posto dei trattori, in omaggio alla tradizione, mi ha recapitato una magnum del suo splendido vino. Anche in questo caso ho commesso un delitto? Altra circostanza, più grave. La senatrice Bernini, che stimo profondamente, capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, recentemente mi ha donato una culaccia squisita, che ho sbranato in famiglia. Mi sono forse venduto a lei? Può darsi, ma allora pure i tre re Magi, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, che portarono a Gesù oro, mirra e incenso erano furfanti corruttori di merda che intendevano comprarsi un posticino in paradiso. Virgilio nell'Eneide scriveva: Timeo danaos et dona ferentes, cioè temo i greci se portano doni. Aveva ragione. I greci tutti in galera, in galera i beneficati. E in galera ogni leghista e ogni forzista. Siamo una massa di criminali. Non ha torto Davigo: gli unici innocenti sono soltanto coloro che l'hanno fatta franca. Anche lui? Cari magistrati, piantatela di rendervi ridicoli. Vittorio Feltri

·         Lombardia: la nuova Terra dei Fuochi.

Lombardia e rifiuti: la nuova Terra dei Fuochi. Nella regione più avanzata d'Italia aumentano gli smaltimenti illegali di rifiuti. Con problemi per la salute pubblica. Giorgio Sturlese Tosi il 9 luglio 2019 su Panorama. «Si invita la popolazione a tenere le finestre chiuse, a sostare il meno possibile all’aperto e a non mangiare verdure e frutta prodotte nell’area». L’appello del Comune di Milano è da coprifuoco. Tre scuole chiuse, la circolazione del «passante» ferroviario deviata, centri sportivi con i lucchetti ai cancelli. Alle 22 e 40 del 14 ottobre scorso, in via Dante Chiasserini a Milano, tra i quartieri di Quarto Oggiaro e Bovisasca, è divampato un incendio gigantesco in un capannone industriale stipato fino al tetto di rifiuti. I focolai, quasi contemporanei, erano stati innescati in posizioni strategiche e in pochi minuti le fiamme hanno raggiunto 40 metri di altezza. I trenta mezzi dei Vigili del Fuoco hanno impiegato tre giorni per spegnere i roghi: con quellla colonna di fumo denso, nero e acre che si alzava sopra il cielo di Milano, per poi ricadere depositando veleni al suolo.

In Lombardia i falò tossici di montagne di spazzatura hanno il ritmo di almeno due al mese. Sempre dolosi, sempre appiccati dai trafficanti di rifiuti. Sono 37 gli incendi in capannoni stipati di immondizia o in discariche nel capoluogo negli ultimi mesi, altre decine nella regione. Non è la terra dei Casalesi raccontata da Roberto Saviano in Gomorra, ma la città che si è appena aggiudicata le Olimpiadi invernali del 2026.

La mappa degli «incendi liberatori» provoca rabbia e apprensione. Cinisello Balsamo, Mariano Comense, Cassago Brianza, Cologno Monzese, Alzano Lombardo, Chiari, Pioltello, Cremona, Corteolona, Mortara, Novate Milanese, Arese, Lainate sono solo alcuni dei centri della regione colpiti dai roghi tossici, che spesso vicino a terreni agricoli, che hanno riguardato soprattutto i siti autorizzati allo stoccaggio dei rifiuti, segno che il virus della monnezza ha infettato anche il circuito legale dello smaltimento. Mentre i fascicoli sui tavoli dei magistrati annunciano prossimi terremoti negli uffici pubblici. Un rapporto dell’Università Statale di Milano è allarmante: in Lombardia sono state rilevate 399 infrazioni, che hanno portato a 451 denunce, a 21 arresti e a 268 sequestri. La statistica negli ultimi mesi si è però impennata, le cifre moltiplicate. Nell’incendio di via Chiasserini sono andati a fuoco tremila metri cubi di rifiuti stoccati abusivamente: 18 mila tonnellate di plastica, carta, cisterne di olii esausti, pneumatici, scarti di edilizia, furgoni e persino una barca. Materiali che arrivavano dalle regioni del Centro e del Nord Italia. Le indagini condotte dal Noe, il Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, e dalla polizia, su coordinamento della Direzione distrettuale antimafia di Milano, a febbraio hanno portato a 15 arresti. Quattro mesi dopo, il 4 giugno, altri 20 arresti tra Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Campania, per traffico illecito. Un milione di euro il profitto di pochi mesi per la gestione criminale di 10 mila tonnellate di rifiuti provenienti dalla Campania e da vari impianti, anche a partecipazione pubblica, del Nord.

Il business delle cave. Le indagini hanno quindi svelato come funziona il sistema dello smaltimento illecito di rifiuti e chi lo gestisce. Il territorio viene contaminano senza alcuna preoccupazione. Contano solo i guadagni illeciti e i soldi facili, che comunque vada sono tanti.

Il ruolo più importante spetta a imprenditori senza scrupoli che da anni operano nel settore. Sono i titolari di società che ritirano i rifiuti dalle aziende di raccolta per portarli in siti di trattamento o smaltimento. Questo sulla carta. In realtà i boss della monnezza si affidano ai cosiddetti broker, intermediari che ricercano sul territorio cave abbandonate o capannoni in disuso. Ai proprietari delle strutture mostrano documenti falsi o provvisori, millantano impossibili fideiussioni bancarie ed elargiscono qualche migliaio di euro per l’affitto dei siti. Pochi soldi che però sono come ossigeno per gli imprenditori, spesso strozzati dalla crisi. Entrano quindi in gioco i corrieri, aziende di trasporto conniventi che effettuano decine di viaggi al mese, trasportando migliaia di tonnellate di immondizia dai siti di raccolta a quelli di stoccaggio. Il compenso per i camionisti? Fino a 1.800 euro al giorno. Agli atti dell’ultima inchiesta della Dda milanese c’è la testimonianza di uno di loro che racconta di aver abbandonato il camion in mezzo alla piazzola di scarico, infuriato per la puzza che ne usciva e i ratti, grossi come gatti, che saltavano fuori dal carico. Il business prosegue fino a quando i capannoni o le discariche traboccano. E «alla fine interviene un incendio liberatorio che risolve loro il problema» spiega Alessandra Dolci, procuratore aggiunto di Milano e capo della Dda. Queste dinamiche si ripropongono identiche nelle numerose inchieste ancora aperte e condotte dalle procure del centro e nord Italia, delle Dda di Milano, Torino e Venezia e nelle indagini dei carabinieri forestali, del Ros e del Noe, polizia, Guardia di finanza e alcune polizie locali, sempre del Nord. Le inchieste aperte sono decine e raccontano il destino dei nostri scarti. L’apparente tregua dei capannoni dati alle fiamme non illude il presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno del traffico di rifiuti, Stefano Vignaroli, che ha scelto proprio Milano come tappa per la missione di luglio: «Il rogo alza troppo il livello di attenzione delle forze di polizia. Per questo, sempre più spesso, leggiamo di capannoni abbandonati stipati di rifiuti anziché di roghi. Certo è che prezzi bassi praticati da intermediari che operano nell’illegalità inquinano il mercato legale e mettono fuori gioco le aziende oneste».

Bonifiche milionarie. I guadagni illeciti del traffico di rifiuti possono mettere d’accordo gli imprenditori del settore e i boss della criminalità organizzata. Nel maggio 2018 la Guardia di finanza ha stroncato, con otto arresti, un colossale riciclaggio di denaro della cosca di Sinopoli e San Procopio di Reggio Calabria che stava per investire nell’attività di smaltimento rifiuti, con tanto di inceneritore, nel comune di Lezzate, provincia di Monza. Ma è almeno dal 2008 che le cosche calabresi della Lombardia avevano fiutato l’affare. L’indagine «Star Wars», condotta dalla polizia provinciale di Monza e Brianza, ha appurato che esponenti della cosca Iamonte di Melito Porto Salvo avevano riempito cave e terreni agricoli intorno a Desio con camion di pneumatici, scarti edili, residui plastici e altri materiali intrisi di idrocarburi, per un totale stimato di 160 mila metri cubi di rifiuti. Un traffico andato avanti per mesi, con centinaia di mezzi pesanti che scaricavano a ritmo continuo, tanto che ai camionisti veniva regalata cocaina per far fronte a turni di lavoro massacranti. Oggi la cava della ’ndrangheta è ancora lì. Il costo stimato per la bonifica ammonta a 5 milioni di euro, ma i soldi non si trovano. Il comune di Desio ha appena stanziato 150 mila euro per i carotaggi, che dovranno analizzare il terreno e le falde, pare già contaminate da piombo, cadmio e cromo. S’inquina senza limiti, qualcuno semmai provvederà a ripulire.

Pene troppo leggere. Secondo la Camera di commercio di Milano l’attività di gestione dei rifiuti in Lombardia vale 562 milioni l’anno, le società specializzate nel trattamento sono 134 e danno lavoro ad almeno duemila persone. Per l’assessore regionale all’Ambiente, Raffaele Cattaneo, in Lombardia arrivano ogni anno 400 mila tonnellate di rifiuti urbani da fuori regione, ma i dati si riferiscono soltanto al mercato legale e censibile. «Non conosciamo poi quanti rifiuti speciali siano spediti qui» ammette Cattaneo «perché è il mercato a dettare le rotte e il prezzo». I soldi dei rifiuti infatti non puzzano e fanno gola. Anzi, «la merda è oro» dice, intercettato dai carabinieri, il titolare di un’azienda di trasporti che consegnava carichi dall’odore pestilenziale nei capannoni di una banda che operava nel milanese. Il giudice che ha firmato gli arresti, nella sua ordinanza, ha parlato di «pervicacia criminale degli indagati, totalmente accecati dalla prospettiva di realizzare in tempi brevi ingentissimi guadagni con rischi penali contenuti». Oggi infatti i trafficanti rischiano una pena massima di sei anni, ma raramente vengono condannati a più di tre, evitando quindi il carcere. A fronte di guadagni importanti: ogni tonnellata di rifiuti rende all’organizzazione fino a 200 euro.

Spedizioni da nord a sud. Il mercato illecito della spazzatura è talmente vantaggioso che ci guadagnano anche le società municipalizzate o a partecipazione pubblica. In pratica i cittadini pagano la Tari, la tassa comunale sui rifiuti, mentre le aziende risparmiano sui costi affidandosi a chi offre il prezzo di raccolta e smaltimento più basso. Il prezzo di mercato per i rifiuti da smaltire aumenta di continuo e oggi arriva a 280 euro a tonnellata. I trafficanti, invece, chiedono al massimo 180 euro a tonnellata. Un risparmio che nasconde il malaffare. La procura di Brescia ad aprile ha chiuso le indagini su un traffico di grosse dimensioni gestito da un manager del settore, Paolo Bonacina. L’indagine, condotta dal Noe dei carabinieri, era partita dall’incendio di un capannone nel bresciano, in cui erano bruciati almeno 1.000 tonnellate di rifiuti solidi urbani. Per risalire alla provenienza delle ecoballe incendiate i militari hanno viaggiato dalla Lombardia, al Piemonte, alla Campania e al Lazio. La maggior parte dell’immondizia bruciata proveniva dagli impianti di Caivano (gestito da A2A di Brescia) e di Giugliano, di proprietà della Regione Campania, dalla S.a.p.Na. di proprietà della città metropolitana di Napoli. Non solo: avevano conferito lì materiali di scarto anche la Co.La.Ri., il Consorzio Laziale rifiuti del patron romano della monnezza Manlio Cerroni. Altri rifiuti, stavolta di tipo umido, arrivavano dalle società pubbliche Acam di Vezzano Ligure, Net spa di Udine e Quadrifoglio di Firenze, che gestiscono la raccolta in migliaia di comuni. Nell’inchiesta bresciana risultano indagate le società Aral di Alessandria, di proprietà del Provincia, e A2A Ambiente, il colosso dell’energia partecipato dai comuni di Brescia e Milano e quotato in Borsa.

Amministratori Corrotti. Il generale Maurizio Ferla, comandante dei carabinieri per la Tutela ambientale, delinea un’altra in crescita della corruzione di pubblici funzionari: «Riscontriamo regolarmente situazioni di corruzione e di reati contro la pubblica amministrazione e truffe alla collettività, con bandi di assegnazione della gestione dei rifiuti cuciti su misura sulle aziende che in realtà non hanno i titoli per partecipare. In alcuni casi si può ipotizzare che la corruzione coinvolga gli amministratori e i politici che poi firmano quei provvedimenti».

Prova ne sono i 105 indagati e le 43 misure cautelari chieste dalla Dda milanese nell’ultima maxi inchiesta sul sistema di tangenti in Lombardia che lambisce in queste settimane il Pirellone. Uno dei filoni dell’indagine coordinata dai pm antimafia Alessandra Dolci, Adriano Scudieri e Silvia Bonardi riguarda politici, amministratori e imprenditori, e si focalizza proprio sugli appalti per la gestione dei rifiuti, la cui presunta regia occulta sarebbe in capo all’impresario Daniele D’Alfonso. Il quale, intercettato, diceva della sua attività: «Ho seminato talmente tanto, io a tutti quanti ho dato da mangiare». Il 7 maggio, con lui, è finito in carcere anche Mauro De Cillis, da 30 anni in Amsa, numero uno degli appalti dell’azienda milanese dei servizi ambientali, chiamato il «maestro d’orchestra», al quale sarebbe stata promessa una tangente di 100 mila euro per pilotare le assegnazioni dei lavori. Proprio uno dei testi dell’accusa, Matteo Di Pierro, dipendente di D’Alfonso, racconta di avere inoltrato per errore una mail a tutti gli indirizzi Amsa con i prezzi dello smaltimento per una gara che non era stata ancora neppure bandita. Sott’osservazione è finito anche il bando per il teleriscaldamento di A2A. Fino a oggi sono secretati gli accertamenti su una decina di situazioni che coinvolgono tutte le principali aziende municipalizzate pubbliche del territorio lombardo. Se i sospetti venissero confermati il terremoto giudiziario coinvolgerebbe gran parte del sistema dei rifiuti nella regione e non solo.

Non troppo "differenziata". Dove finisce la plastica che mettiamo da parte per essere riciclata? Il 20 giugno il Noe dei Carabinieri ha scoperto a Cumiana, nel Torinese, quattro capannoni stipati di ecoballe con 6.500 tonnellate di rifiuti plastici che arrivavano da Campania, Lombardia e Veneto. Una fonte autorevole conferma a Panorama quello che traspare leggendo le carte delle numerose inchieste giudiziarie: parte della plastica della nostra raccolta differenziata finisce in capannoni come quelli sequestrati a Torino. Il problema è che oggi all’estero non ci sono più Paesi disposti ad accoglierla, seppur a caro prezzo - come la Cina e la Malesia - perché il costo di quel riciclaggio che ci viene promesso è ancora troppo alto. Il presidente della commissione Ecomafie Vignaroli, oltre ad auspicare la necessaria riduzione degli imballaggi, coglie il punto, anche politico, della questione: «Se si spostassero gli incentivi dagli inceneritori al riciclo, supportando la nascita di nuove filiere per materiali che oggi non hanno sbocchi industriali, tutto il sistema ne trarrebbe beneficio». Le previsioni però non sono positive. In Lombardia ci sono 13 termovalorizzatori, 68 impianti di compostaggio e circa 300 di trattamento, con 16 milioni di tonnellate di rifiuti speciali e oltre 12 milioni di inerti. Numeri da record in Italia, che però non basteranno a reggere l’ondata di immondizia, destinata ad aumentare. Dice il generale Ferla: «La situazione è critica. Al blocco di importazioni di rifiuti dall’Asia e alle problematiche ricettive degli impianti del nostro Meridione, si aggiungono le emergenze che già si preannunciano per esempio in Sicilia». Le ecoballe arriveranno sempre più numerose in Lombardia.

Le scorie sotto la risaia. Le conseguenze della malagestione degli scarti, privati e industriali, le spiega il tenente colonnello dei carabinieri Massimiliano Corsano, comandante del Gruppo tutela ambientale del nord Italia: «Il problema è più grave di quel che si pensi. È come se i trafficanti si macchiassero del reato di strage per le gravissime conseguenze che le loro attività producono sull’ambiente e sulla nostra salute». Un esempio? In provincia di Pavia, a Mortara, sotto alcune risaie della Lomellina, sono stati scaricate 5 mila tonnellate di percolato proveniente da una acciaieria di Brescia. La gestione approssimativa del sito di stoccaggio ha portato alla probabile contaminazione di scorie radioattive con Cesio 137 di ben 197 ettari di territorio agricolo, soprattutto risaie. Un inquinamento che potrebbe aver interessato 240 mila consumatori, mentre agli atti della Commissione parlamentare sui rifiuti risulta «accertata una contaminazione chimica e radiologica della falda». Per la malavita dell’immondizia conta solo ciò che finisce nel portafogli, non quello che mettiamo nel piatto.

·         Il disagio dei cittadini.

«La mia Milano negli anni Sessanta, con  le rovine e i ricordi della guerra». Pubblicato lunedì, 13 maggio 2019 da Lorenzo Cremonesi su Corriere.it. Per andare verso le montagne si superava la vecchia Fiera Campionaria e subito, sulla sinistra c’era «Monte Stella», che allora si chiamava «la Montagnetta di San Siro». Intendiamoci, la Fiera Campionaria alla metà degli anni Sessanta non era per nulla vecchia. Anzi, condensava lo spirito ottimista dell’imprenditoria lombarda in piena espansione: l’Italia del boom economico, aperta al mondo, che produceva ed esportava. Per i milanesi invece quella montagnola innalzata con le macerie della guerra era il memento degli anni bui, dei bombardamenti, della paura, della morte. Oltretutto, sulla destra non troppo lontano, si vedevano anche le mura giallognole e scrostate dell’immenso cimitero di Musocco. A poche centinaia di metri gli uni dagli altri c’erano dunque i simboli molto visibili degli opposti: la tristezza del vecchio, se possibile da dimenticare in fretta, e però anche la speranza del nuovo. Un mondo fatto di vacanze, di utilitarie per tutti, di un futuro proiettato verso la scoperta, il viaggio, il benessere individuale. Ci si andava in bicicletta da bambini e ragazzi, ancora non erano stati piantati cespugli o aiuole, e nei vialetti alla base era possibile intravedere i resti di calcinacci, cornicioni, ferraglie arrugginite di ringhiere, traversine. D’inverno si venivano a provare gli scarponi sugli sci nuovi sui pendii imbiancati. Perché, nonostante Giuseppe Marotta se ne fosse uscito alla fine degli anni Quaranta con un libricino molto ottimista e gonfio d’amore per la nostra città dal titolo che era tutto un programma, «A Milano non fa freddo», nelle nostre strade allora tra inizio novembre e fine marzo si gelava. La mattina presto d’inverno si scendeva una decina di minuti prima di avviare l’auto per grattare via le incrostazioni di ghiaccio dal parabrezza. Nevicava tanto e spesso, con i camini che creavano aloni scuri nel biancore, ben visibili sui vecchi tetti di tegole rosse, dove la neve attecchiva più spessa. Il traffico era rallentato, si girava spesso con le catene per viale Tibaldi e lungo tutta la circonvallazione interna sino a San Siro, ma le scuole restavano sempre aperte, al meglio si gettava la segatura chiara sul portone. E la neve cadeva anche alla Montagnetta, dalla cui sommità si poteva distinguere chiaramente il panorama piatto della pianura Padana, che era ancora brada, marcata dai canali, le risaie, i campi coltivati, senza quel susseguirsi monotono di capannoni, fabbrichette ed edifici sgraziati che da allora hanno creato una anonima continuità urbana, ricca, ma senza carattere da Milano alla cerchia delle Alpi contenuta nella frontale tra Lecco e Sesto Calende. Ma, per tornare a quei calcinacci semisepolti tra le periferie in crescita, va anche detto che non costituivano affatto una curiosità. I milanesi continuamente raccontavano delle loro esperienze di guerra. L’incontro tra due vecchi compagni di scuola, che magari non si vedevano da un pezzo, era spesso caratterizzato da domande del tipo: «ma sai chi è tornato dalla Russia?», oppure, «in che battaglione stavi in Africa?», e quella più comune, «dove stavi durante i bombardamenti, che ne è stato della casa?». Ancora tra piazza del Duomo e via Torino erano visibili i resti dei palazzi ridotti in briciole. La città era puntellata di macerie, lo rimase sino alla metà degli anni Sessanta. Non erano diverse da quelle che oggi si trovano ad Aleppo, Bengasi, Mosul o Raqqa. Ogni tanto in Galleria Vittorio Emanuele si esponevano le foto dei danni causati dai bombardamenti Alleati, compresi quelli terribili dell’estate del 1943. E mia nonna con le sue amiche insisteva nel ricordare la prima volta che nel maggio 1945 aveva gustato il profumo del caffè in Galleria portato dalle truppe americane. «Ma non il surrogato che dava il governo italiano con la tessera annonaria, quello vero, macinato di fresco, come prima della guerra», diceva. Non lontano dalle mura di cinta dell’attuale Istituto Tecnico Industriale Feltrinelli e su quelle delle scuole di via Brunacci stavano ancora disegnate le indicazioni per i «Rifugi» anti-aerei. Abbondavano i ricordi delle lunghe biciclettate verso le campagne dopo Pavia o i viaggi sul trenino che percorreva il vecchio Sempione oltre Pero e Rho per andare a caccia di uova, carne e verdura fresca dai contadini fidati che vendevano a «borsa nera». Oggi di tutto ciò in questa nuova Milano «gioiello italiano» resta praticamente nulla. La «Montagnetta» sembra un giardino boscoso, molto naturale, che nulla ha a che fare con le bombe. Siamo davvero una città europea, efficiente, tutto sommato pulita, ben connessa, relativamente ben governata. Nessuno ti caccia dal pronto soccorso se arrivi in emergenza. I servizi essenziali funzionano. Però ricordare ciò che fu è importante. Non solo per amore della storia. Ma anche per il fatto che a poche centinaia di chilometri da noi gli scenari della guerra sono tutt’ora realtà quotidiane, immanenti, pressanti. E a dimenticare troppo in fretta si rischia di ricadere in ciò che è stato.

Il giallo  del volantino  anti studenti alla Statale di Milano. Pubblicato mercoledì, 1 maggio 2019 da Federica Cavadini su Corriere.it. Un avviso del rettore per dire che visti i comportamenti «impropri e inaccettabili», l’università «procederà ai conseguenti provvedimenti anche di natura giudiziaria» e i responsabili dovranno rispondere «dei gravi danni anche di immagine». Il messaggio è stampato con il logo dell’università ed è affisso nel Cortile Legnaia, sede centrale della Statale. Il rettore, Elio Franzini, smentisce di aver autorizzato quella comunicazione. E i cartelli, almeno una decina, che fino a ieri mattina erano sulle vetrate della Biblioteca di Geografia e del dipartimento di Storia, sono subito cestinati. Ma alla Statale di quell’avviso parlano studenti e professori. «C’è il giallo dei cartelli: ora sappiamo che il rettorato non era al corrente ma non si capisce chi siano gli autori - dice un docente -. C’è comunque anche il tema degli spazi dell’ateneo e dei limiti. Ci sono posizioni e sensibilità diverse, fra noi e anche fra i ragazzi ma è vero che c’è chi sta nei cortili della Statale come al parco. E qualcuno ha pensato di intervenire così». Intanto il caso degli avvisi. Lunedì la fotografia del cartello è sul web, con il collettivo di «Assemblea della Statale» che sulla pagina Facebook segnala la comparsa di «un “avvertimento” da parte del rettorato». I commenti degli studenti sono sul contenuto e anche sui toni. Ma arriva subito la smentita di Franzini, professore di Estetica, alla guida dell’ateneo da ottobre. «Erano da due settimane su porte e vetrate della Legnaia», spiega un professore. E racconta che nel Dipartimento di Storia c’era stata anche un’indagine interna: «Non era una direttiva arrivata dall’alto e non si capiva di chi fosse l’iniziativa. Eppure i cartelli erano stati affissi dall’interno, da chi ha le chiavi degli uffici». Dal rettorato intanto fanno sapere: «Premettendo che non si sono registrati nel Cortile Legnaia episodi di particolare criticità, un servizio di vigilanza è già attivo, anche se la situazione di queste settimane, dopo quasi un mese di visite di pubblico esterno in occasione del Fuorisalone di Interni, tuttora in fase di smontaggio, non rappresenta una situazione ideale dal punto di vista del controllo degli spazi». E sul tema del «controllo» all’interno dell’università il confronto resta aperto. «Purché non si arrivi ai tornelli all’ingresso, siamo in un ateneo», taglia corto una professoressa. «Ma è vero che questi cortili sono territorio di tutti», è un altro commento. «Non sono un bacchettone ma non so più quali sono i limiti», dice un professore che insegna in uno dei dipartimenti che si affacciano sulla Legnaia. E racconta: «Nel cortile c’è chi fuma canne, il venerdì è la giornata delle partite di frisbee e quando ci sono le lauree questo spazio diventa un’area per le feste con amici e parenti, molto rumorosa, mentre sono in corso colloqui e gli studenti preparano esami, il disagio è soprattutto per loro». «Anche gli antichi sarcofagi sono usati per allestire banchetti, la mattina troviamo cestini pieni e bottiglie anche sul prato», racconta una studentessa. «Succede soltanto nelle settimane delle lauree. Ed è così in tanti atenei», è il parere di un compagno di corso. «Difficile fissare i limiti. E a chi tocca poi farli rispettare? - chiede un professore -. Intanto negli ultimi mesi è stato rinforzato un servizio di vigilanza privato, potrebbe bastare come deterrente». E aggiunge: «Questa generazione di studenti, più delle precedenti, colpisce per i modi: sono ragazzi educati, formali, quasi si alzano quando entri in aula. Gli eccessi li vediamo ma sono di pochi».

La protesta degli inquilini: «Noi ostaggio dell’assalto ai bus». Le segnalazioni dei lettori. Pubblicato mercoledì, 1 maggio 2019 su Corriere.it. La combinazione fatale è 91, 56, 55, 39 e 2 (di NM2). Le cinque linee di trasporto fanno tutte tappa nello stesso punto di via Stradivari, al civico 1. E i residenti faticano a entrare e uscire di casa. «I passeggeri in attesa affollano il marciapiede - spiega la portavoce Tiziana Zollino -, quando piove si riparano nei portoni, lasciano spazzatura a terra». Non è sempre stato così. «Io abito qui solo da un paio d’anni, chi sta nel palazzo da più tempo è testimone di come sia cambiata la situazione». Alla fermata della circolare 91 si sono progressivamente aggiunti gli stop del 56 che collega il quartiere Adriano a Loreto, il 55 che fa la spola tra Loreto e il cimitero di Lambrate, il 39 Loreto-Pitteri e anche la NM2, sostitutiva notturna della metropolitana «verde». La somma dei passeggeri trasportati dai bus crea il caos in via Stradivari, tanto che «è difficile persino entrare in casa - continua Zollino - e c’è chi approfitta del via vai per vendere cibo pronto all’angolo, aumentando il trambusto». Un mozzicone lasciato acceso da uno dei passanti ha fatto anche incendiare le cantine del palazzo al civico 1. Così i residenti dell’isolato due anni fa hanno iniziato a segnalare il problema. È partita una raccolta firme, per sottolineare che la questione riguarda più palazzi. Poi i contatti con il Comune, il Municipio 3 e Atm per capire il da farsi. È chiaro che i bus non possono sparire, «ma vorremmo almeno una regolamentazione del traffico - dicono i residenti -. Qui non ci sono pensiline, né preferenziali per gli autobus e controllo del territorio». L’assessorato alla Mobilità e i consiglieri di zona, dopo un sopralluogo in via Stradivari, hanno ipotizzato l’installazione di un paio di pensiline. Una proposta che ha trovato d’accordo tutti i commercianti affacciati sulla strada, i quali chiedono però di non avere ingombra la porta d’ingresso del locale. A seguito di questi passi, lo scorso ottobre il Municipio 3 ha approvato una delibera, un piccolo passo verso la vittoria per il quartiere. Nel documento si ricorda l’«afflusso ingente di pedoni» che sostano sul marciapiede e rendono difficoltosa la circolazione, per questo il consiglio di zona invita Palazzo Marino e Atm a installare una o due pensiline o in alternativa alcuni separatori metallici nella via «per meglio regolare l’afflusso pedonale». In aggiunta, la richiesta di valutare «una diversa distribuzione delle fermate» lungo la strada interessata dal problema e le altre limitrofe. A distanza di sei mesi però la situazione non è cambiata, anzi. «Continuiamo a essere ostaggi di Atm» si lamenta Zollino a nome dei vicini di casa. Dall’assessorato alla Mobilità sottolineano che via Stradivari è un importante interscambio tra mezzi di superficie e linee metropolitane e un eventuale «trasloco» delle fermate non è preso in considerazione. Il Comune con Atm sta preparando un piano per il posizionamento di pensiline alle fermate, che sarà rivisto con i Municipi per decidere le priorità. Intanto, in via Stradivari continua con la corsa a ostacoli verso il portone. Tiziana Zollino

Vivo al civico 1 di via Stradivari, dove si concentrano cinque fermate delle linee 91-55-56-39-Notturna M2, senza la predisposizione di banchine per i passeggeri. Il via vai quotidiano di centinaia di persone rende difficoltoso il transito dei residenti, limita l’ingresso al portone di casa, genera degrado . Abbiamo in più occasioni chiesto l’intervento del Comune e di Atm. Ad ottobre dello scorso anno il Municipio 3 ha deliberato l’installazione delle pensiline, ma non c’è stato alcun seguito. Tiziana Zollino

·         Giuseppe Sala: a sua insaputa.

MENZOGNE DI FORZA MAGGIORE. Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano”  il 3 ottobre 2019. Giuseppe Sala era consapevole di sottoscrivere un documento falso. Ma lo ha fatto per evitare ulteriori ritardi nei lavori, con il rischio di non aprire in tempo Expo 2015. Questo dicono le motivazioni della sentenza che a luglio ha condannato l'allora commissario e amministratore delegato di Expo spa a 6 mesi di reclusione, convertiti in una multa di 45 mila euro. Sala, in seguito eletto sindaco di Milano, era accusato di falso materiale e ideologico, per aver firmato, nella sua casa di Brera, due atti che cambiavano due commissari della più importante gara d' appalto Expo, quella della "piastra", valore 272 milioni di euro. Li ha firmati il 31 maggio 2012, ma la data scritta sui due documenti era antecedente e falsa: 17 maggio 2012. I manager Expo avevano segnalato la probabile incompatibilità dei due commissari. Ma per cambiarli, era necessario ricominciare da capo la procedura, e questo avrebbe allungato i tempi e messo a rischio l' apertura di Expo, il cui cronoprogramma era già in grave ritardo. Sala temeva di non riuscire ad aprire i cancelli il 1° maggio 2015. Ecco dunque che nel 2012 furono forzate le procedure e falsificati i due atti con una firma falsa. Condanna, dunque. Sala, scrivono i giudici, "deve essere ritenuto penalmente responsabile del reato ascrittogli. Integrato sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo". Ma per lui scatta l' attenuante di aver "agito per motivi di particolare valore morale o sociale". Secondo il Tribunale, "Sala firmò i verbali per evitare ritardi", con "l' obiettivo di evitare che la questione della paventata incompatibilità" dei due componenti della commissione di gara potesse comportare il "rischio di ulteriori ritardi nell' espletamento della procedura" e quindi mettere in pericolo l' apertura di Expo. "Deve dunque trovare particolare considerazione la volontà di realizzare le infrastrutture in tempo utile, pena il fallimento vero e proprio della manifestazione". Esclusa comunque, per i giudici, la "volontà di avvantaggiare taluno dei concorrenti alla gara. O danneggiare altri". È emersa solo la volontà "di assicurare la realizzazione in tempo utile delle infrastrutture necessarie per la realizzazione e il successo dell'Esposizione universale del 2015. Risultato poi effettivamente conseguito e unanimemente riconosciuto". Il Tribunale sembra ipotizzare una sorta di reato commesso a fin di bene. Anche se le eventuali buone intenzioni di norma non possono addolcire il codice penale. Eppure nelle motivazioni si legge chiaramente che l' allora numero uno di Expo ha sottoscritto i due verbali "consapevole delle illecite retrodatazioni". E quindi "della surrettizia creazione in data 31 maggio 2012 di documenti che alla data del 17 maggio 2012 non erano esistenti". Sala era certamente consapevole del falso. Dunque ha mentito quando nell' aula del processo e in numerose dichiarazioni fuori dall' aula ha più volte ripetuto di non essersi accorto delle date false e di non ricordare come e quando firmò i due documenti. Ha mentito in aula: e questo a un imputato è concesso. Ma ha mentito da sindaco fuori dall' aula: è questo per un primo cittadino è grave. I legali di Sala hanno annunciato che ricorreranno in appello contro la sentenza di condanna. Mossa del tutto inutile, perché il reato di falso che gli è stato contestato, a novembre evaporerà, per effetto della prescrizione. Questa potrebbe essere rifiutata dal condannato, che potrebbe difendersi nel merito anche in secondo grado: ma sembra escluso che Sala scelga questa strada.

DUE PESI E DUE GIUSTIZIE - FRANK CIMINI: “LA RAGIONE DELLE ATTENUANTI CONCESSE A SALA È POLITICA". Dagospia  il 3 ottobre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago premesso che il falso relativo alla retrodatazione di due verbali per sostituire i componenti di una commissione resta una quisquilia rispetto a quello che la mitica procura ha fatto finta di non vedere.... premesso questo... la ragione delle attenuanti concesse a Sala per aver agito per motivi di alto alto valore morale e sociale dimostra che i giudici ancora una volta sono bravi a pisciare fuori dal vaso...la logica è quella che Expo non si tocca e non si discute... eppure stiamo parlando di un evento del quale ancora oggi non conosciamo i conti ufficiali...la motivazione non è giuridica è prettamente politica è la magistratura che a volte scopre di dover fare parte del sistema paese rinunciando ai suoi doveri... insomma per non farla troppo lunga mostrando quel senso di responsabilità istituzionale per il quale l’allora premier Renzi ringraziò la procura di Bruti che pur di far realizzare Expo cacciò l’unico pm che voleva fare le indagini... con il supporto dell’allora capo dello stato Napolitano....

A SUA INSAPUTA. Ansa.it il 15 aprile 2019. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala non aveva la consapevolezza della retrodatazione dei verbali relativi alla commissione di gara per la Piastra di Expo. Lo ha detto lo stesso Sala in aula rispondendo alle domande e spiegando che "della data non me ne sono preoccupato" e di non ricordare il momento esatto della firma. Sala, imputato per falso in relazione alla retrodatazione di due verbali per sostituire in corso d'opera due componenti della commissione di gara per la Piastra, ha ricordato che la questione della incompatibilità dei due commissari, posta da Ilspa (Infrastrutture Lombarde spa, società partecipata da Regione Lombardia), per lui "era uno dei tanti problemi sorti in Expo e che era stato risolto in modo abbastanza veloce", in quanto ha ribadito in aula, "c'era sempre il tema dell'urgenza. Ogni giorno, nonostante fossimo a tre anni dalla chiusura, era chiarissimo che eravamo in ritardo. Ogni giorno perso era un giorno in meno. E' stata una lotta contro il tempo".  Rispondendo ai cronisti, a chi gli ha chiesto se spera di essere assolto ha replicato: "Spero fortemente di sì".

Da Il Sole 24 ore il 5 luglio 2019. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala è stato condannato a sei mesi, trasformati in una multa di 45mila euro. La condanna si riferisce al periodo in cui Sala era manager dell’Expo: era imputato per falso materiale e ideologico per la presunta retrodatazione di due verbali, nel maggio del 2012, della commissione di gara per il maxi appalto della Piastra dei servizi per l'Esposizione Universale del 2015. La sentenza è stata emessa dai giudici della decima sezione penale. «Questa sentenza non produrrà effetti sulla mia capacita di essere sindaco di Milano». È il primo commento del sindaco di Milano Giuseppe Sala dopo la condanna a sei mesi nel processo Expo. «Assicuro i milanesi - ha aggiunto - che resterò a fare il sindaco per i due anni che restano del mio mandato. Di guardare avanti ora non me la sento».

Il sindaco Sala: «Io vittima di uno scontro tra pm. Resterò al mio posto». Pubblicato venerdì, 05 luglio 2019 da di Andrea Senesi e Venanzio Postiglione su Corriere.it. Una vittima della guerra tra Procure. La prima considerazione, che Beppe Sala confessa solo a chi gli è vicino, suona più o meno così. Un retropensiero implicitamente confermatogli dalla contemporanea assoluzione di Angelo Paris, coimputato dello stesso reato. Sono da poco passate le 13 e la sentenza di condanna è appena stata pronunciata. Il sindaco di Milano non nasconde la rabbia né l’amarezza. Incalzato da microfoni e taccuini, scurissimo in volto, Sala si sforza comunque di dare un ordine razionale a pensieri ed emozioni. Resterà sindaco, intanto: questa volta non si autosospenderà dalla carica, come decise di fare nel dicembre 2016 quando fu raggiunto dalla notizia dell’indagine a suo carico. «Rassicuro i milanesi che resterò a Palazzo Marino per i due anni che rimangono del mio mandato e lo farò con l’ambizione che conosco», è la prima frase che non a caso pronuncia pubblicamente: «Questa sentenza non produrrà effetti sulla mia capacità di amministrare Milano. Ma di guardare avanti in questo momento non me la sento». Il sindaco ha cambiato programma all’ultimo momento. Non era previsto infatti che seguisse tutta l’udienza dal mattino, con le repliche dell’accusa e della difesa, fino alla lettura del dispositivo all’ora di pranzo. Voleva insomma a tutti costi esserci: il tempo di ricevere di buon mattino il «collega» di Napoli Luigi de Magistris e poi via verso Palazzo di Giustizia. Dopo la sentenza, il ritorno in municipio e l’incontro con lo staff per rassicurare tutti che comunque si deve andare avanti. Con il passare delle ore la rabbia sbollisce, l’amarezza no. A qualche amico conferma di essere rammaricato, ma determinato ad andare avanti. «Si è sacrificato per il bene di Milano», dicono i suoi. «Dal punto di vista politico questa vicenda equivale a una medaglia appuntata sul petto», aggiungono i sostenitori politici locali a lui più vicini. Ma al di là degli attestati di stima, chi lo conosce assicura che questa è una ferita che sarà difficile da rimarginare e che peserà in ogni caso su ogni decisione futura. Una riflessione approfondita su quello che sarà, sulla possibilità di candidarsi di nuovo a sindaco o prendere altre strade, andrà insomma fatta. Sala conferma tra le righe: «Mi viene da pensare che io alla fine sono una persona resistente, l’ho dimostrato in tanti momenti delicati della mia vita e attingerò alle mie risorse per essere un’altra volta resistente e riuscire ad andare avanti». L’amarezza del sindaco, condannato a sei mesi per falso ideologico, affiora a ogni frase: «Una sentenza del genere, dopo sette anni abbondanti, per un vizio di forma che non ha prodotto nessun effetto credo che allontanerà tanta gente onesta, capace, tanta gente perbene dall’occuparsi di cosa pubblica. Questi sono i sentimenti che ho dentro e che ovviamente sono sentimenti negativi ma credo che siano anche giustificati. La mia conclusione è che oggi qui si sia processato il lavoro e io ne ho fatto, per la comunità, veramente tanto». A complicare il quadro c’è poi la questione delle governance olimpica, dove bisognerà a tutti i costi evitare che si ripeta l’esperienza iniziale di Expo, coi ritardi, le liti, i cantieri fermi e il concretissimo rischio della figuraccia internazionale. Su questo punto il sindaco insiste dal minuto dopo la vittoria di Losanna, con l’assegnazione dei Giochi 2026 al tandem Milano-Cortina. Bisogna far presto proprio per evitare di trovarsi nella situazione in cui si è ritrovato lui nelle vesti di commissario unico dell’evento 2015. La condanna può ora indebolire la posizione del sindaco che chiede alla politica di star lontano dalla cabina di regia olimpica? «Andiamo avanti», ripeterà nel pomeriggio ai suoi. A Palazzo Marino arriva in serata anche Nicola Zingaretti, in città per altri appuntamenti, ma che non manca di recapitargli la solidarietà sua e del Pd. Da oggi si torna al lavoro. In agenda prima di pranzo, c’è la visita al villaggio allestito dalla Coldiretti davanti al Castello Sforzesco. È atteso lì anche Matteo Salvini, il vero avversario del sindaco pronto a un ruolo da leader nazionale.

Beppe Sala condannato a 6 mesi. E ora chi lo idolatra cosa dice? L'uomo indicato come simbolo e baluardo della sinistra in Italia condannato in primo grado per falso ideologico. Come la mettiamo? Panorama il 5 luglio 2019. Il sindaco di Milano, Beppe Sala è stato condannato a 6 mesi di carcere per "falso ideologico", per aver firmato il 31 maggio 2012, ma «con la data del 17 maggio», due atti con cui sono stati sostituiti due commissari della più grande gara di Expo (la cosiddetta «Piastra» da 272 milioni). In trucchetto fatto a fin di bene, per evitare altri ritardi di un'opera già in difficoltà, al punto che il tribunale gli ha riconosciuto a sua difesa i "particolari motivi di valore sociale". La pena è stata tramutata in un'ammenda di 45 mila euro e forse l'appello nemmeno ci sarà dato che siamo vicini alla prescrizione. Quello che ci interessa però non è la vicenda processuale, che di per se sembra davvero poca cosa, ma quella che sarà la reazione dei suoi fan. Si, perché Beppe Sala da tempo ormai è l'uomo forte della sinistra, della Milano che non cede a Salvini, dell'unica città ancora rossa. Sala, il miglior sindaco del mondo; Sala che twittava pochi giorni fa «Da domani, Pride! Per una Milano dei diritti. E dei doveri», con le calze arcobaleno per prendersi l'applauso della comunità lgbt; Sala che ha portato le Olimpiadi invernali in Italia (con buona pace per l'inutile ed insignificante sindaco di Cortina, una comparsa...) e si mostrava con gli sci tra le mani (gli sci, a Milano???). Sala che pochi giorni fa diceva che "Il Pd cresce ma non basta più; serve un nuovo partito". Qualsiasi cosa dica Sala partono gli applausi... Ma ora? Ora che è stato condannato da un tribunale? Ora che ha la fedina penale macchiata (come un Berlusconi qualunque)? Ora cosa pensano i suoi tifosi? Cosa dicono? Può ancora essere l'uomo nuovo della sinistra un "condannato"? Certo che per il Pd sono giorni (giuridicamente) complicati. Siamo nel pieno della bufera sull'inchiesta riguardo gli affidi di diversi bambini concessi, secondo l'accusa, a famiglie amiche anche con l'aiuto di sindaci compiacenti. Ora ci si mette pure il Tribunale di Milano a impallinare l'uomo forte. Ci aspettiamo tra breve i primi distinguo, diranno che esite condanna e condanna, che ci sono quelle buone e quelle cattive. Ma nulla cancellerà la decisione del Tribunale di oggi. Certe macchie sulle tovaglie belle si possono lavare e trattare. Persino portare in tintoria. Ma restano. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 7 luglio 2019. Caro Dago, sono giorni e giorni che rimugino su questa condanna a 6 mesi – convertiti in una multa di 45mila euro – del sindaco di Milano Beppe Sala, reo di avere firmato documenti che assegnavano due importanti appalti dell’Expo (la benemerita e magnifica Expo di Milano del 2015) apponendo a quei documenti una data anteriore, e questo perché altrimenti si sarebbe inceppata la produzione di quell’evento di cui noi italiani dovremmo tutti andare orgogliosi. Vedo che nella stessa motivazione dei giudici c’è una sorta di imbarazzo, tanto da accordare a Sala l’attenuante di avere agito “per motivi di particolare valore sociale”. E vorrei ben vedere, ché altrimenti l’Expo rischiava di non farsi. Non c’è nessun altro motivo per cui Sala ha agito come ha agito: non ha tolto il pane a nessuno, non ha avuto il benché minimo vantaggio pecuniario, non ha offeso la Costituzione. E’ stato solo un manager che puntava alla realizzazione di un’opera importante, per certi aspetti immane. E dunque in quella condanna non c’è di che attenuare di una virgola la stima che alcuni cittadini repubblicani quale il sottoscritto portano a Sala. Volevo scrivertene, solo che mi tratteneva il sospetto che mi sfuggisse qualcosa di quel processo. Non sono di mestiere un lettore carte processuali; non me lo posso permettere, dato che ancora non ho letto alcuni dei libri di Dostoevskij, di Elias Canetti, di Isaiah Berlin. Pensavo: non è che scrivo in difesa di Sala e poi c’è che uno di quei giornalisti che per mestiere leggono le carte processuali mi fa un culo così? Uno di quei giornalisti specializzati in carte processuali, o per meglio dire specializzatissimi in carte processuali che documentano in ciascun processo le ragioni dell’accusa, è Gianni Barbacetto del “Fatto” . In qualcuno dei quindici libri di Marco Travaglio che riempiono uno scaffale della mia biblioteca, figura anche la sua firma. Ed ecco che stamane apro il “Fatto” e vedo la sua firma in testa a un articolo about il caso Sala. Ovviamente si presenta come un articolo che vuole fare il culo così al sindaco di Milano, uno che “ha falsato gli atti”. Lo leggo da cittadino repubblicano, non da adepto dell’una o dell’altra consorteria. Dopo averlo letto, e letto due volte, non sposto di un ette i miei convincimenti su quanto fosse vacua l’accusa a Sala. Sì, certo, l’attuale sindaco Di Milano ha anteposto la data dei documenti che ha firmato. Non c’è dubbio. E con tutto ciò reputo che abbia fatto benissimo, io avrei fatto lo stesso al suo posto. Chiunque dotato di senno e di realismo civico avrebbe fatto lo stesso. Non c’è un solo e benché minimo argomento in appoggio del contrario, argomento sostanziale e dirimente voglio dire. Me lo ricordo dai tempi dei miei tristissimi studi universitari di Giurisprudenza (studi abbandonati per poi laurearmi in Lingue e letterature moderne). Sommo diritto, somma ingiuria. Almeno quello l’ho imparato per sempre, ed è una dizione su cui non  piove una sola goccia.

Gianni Barbacetto per "il Fatto Quotidiano" il 7 luglio 2019. Condannato. Ma per un reato commesso "a fin di bene". A onore e gloria di Milano e dell' Expo. È questa la reazione prevalente alla sentenza che ha comminato 6 mesi di reclusione (convertiti in una pena pecuniaria di 45 mila euro) a Giuseppe Sala, commissario dell' esposizione universale 2015 e poi sindaco di Milano. Per falso ideologico: per aver firmato il 31 maggio 2012, nella sua casa di Brera, due atti che cambiavano due commissari della più importante gara d' appalto Expo, quella della "piastra", valore 272 milioni di euro. Ma la data scritta sui due documenti era antecedente e falsa: 17 maggio 2012. I due commissari, sostituiti da due supplenti grazie ai documenti con la data falsa, erano stati indicati dai manager attorno a Sala come probabilmente incompatibili. Avrebbero dovuto essere cambiati ricominciando da capo la procedura, ma questo avrebbe allungato i tempi e messo a rischio l' apertura di Expo, il cui cronoprogramma era in grave ritardo. Sala temeva di non riuscire ad aprire i cancelli della grande fiera nel giorno previsto, il 1° maggio 2015. Ecco dunque che furono forzate le procedure - in questo come in altri casi - e falsificati i due atti che ora costano a Sala la prima condanna mai inflitta a un sindaco di Milano in carica. Si può commettere un reato "a fin di bene"? La Procura di Milano, allora guidata da Edmondo Bruti Liberati, decise di non indagare Sala, considerando la retrodatazione dei due atti "un falso innocuo". Erano i mesi in cui Bruti (in contrasto con il suo aggiunto Alfredo Robledo), considerava necessario trattare Expo con la "sensibilità istituzionale" per cui fu poi ringraziato dall' allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Fu la Procura generale, per iniziativa di Felice Isnardi, a giudicare "inerte" la Procura e ad avocare le indagini sull' esposizione universale. Fu sconfitta nel 2018, quando Sala fu prosciolto dal reato di abuso d' ufficio per aver affidato senza gara alla Mantovani spa la fornitura degli alberi di Expo, che furono poi pagati il triplo del loro valore. Ha vinto questa volta, con i sostituti procuratori generali Massimo Gaballo e Vincenzo Calia che sono riusciti a veder convalidate le loro ipotesi d' accusa. I giudici Paolo Guidi, Angela Minerva e Chiara Valori hanno riconosciuto a Sala, oltre alle attenuanti generiche, la ben più rara attenuante di aver agito "per motivi di particolare valore sociale". La condanna è mite (6 mesi) e non fa rischiare l' intervento della legge Severino, che per questo reato fa scattare la decadenza da sindaco, ma solo per condanne definitive sopra i 2 anni. Tra quattro mesi, del resto, a mettere una pietra sulla vicenda arriverà la prescrizione (peraltro rinunciabile). Ma davvero si possono commettere reati "a fin di bene"? Bastassero le buone intenzioni, sarebbero del tutto inutili i codici, i giudici e il diritto. Gli psicologi e i preti si sostituirebbero ai tribunali. E chiunque, anche il peggiore dei criminali, potrebbe attribuirsi ottime motivazioni per i suoi comportamenti. Invece è certo che Sala abbia mentito, quando ha dichiarato di non essersi accorto di aver firmato due atti falsi, o almeno è certo che abbia agito con leggerezza non degna di un manager considerato meritevole di essere premiato con la candidatura a sindaco di Milano. "Faremmo un grave torto al dottor Sala", ha detto in aula il Pg Gaballo, "se gli attribuissimo una tale negligenza e superficialità". Di certo il sindaco ha ripetuto la scena in voga ai tempi dei politici della Prima Repubblica, quando davanti ai giudici, il 15 aprile 2019, ha ripetuto per dieci volte "non ricordo". Ha dichiarato di non essersi accorto "della retrodatazione dei verbali": "Ho firmato migliaia di atti, non lo ricordo come uno dei passaggi più rilevanti della storia di Expo". "Non ricordo quando e dove ho messo la firma". "Non ricordo (la data sugli atti, ndr), per me l' importante era la parte sui sostituti commissari, non ho guardato la data". Ha firmato due volte? "Non lo ricordo". Chi portò i documenti da firmare? "Non lo ricordo". "Si è sacrificato per il bene di Milano", dicono i suoi sostenitori. È inciampato in "un vizio di forma che non ha prodotto alcun effetto": ma la retrodatazione è sostanza, non forma. Quanto agli effetti, ci sono eccome. E sono clamorosi: l' insuccesso di Expo avrebbe determinato la fine della sua carriera; il (parziale) successo gli è valso invece la poltrona di sindaco di Milano (e domani, chissà, l' ingresso a Palazzo Chigi).

Marco Travaglio per “il Fatto Quotidiano” il 7 luglio 2019. Ieri chi ha avuto la sventura di leggere un qualunque quotidiano che non fosse il nostro s' è fatto l' idea che Giuseppe Sala, sindaco Pd di Milano, abbia subìto un vile attentato o un grave lutto. L' intera stampa si è stretta intorno a lui e ai suoi famigliari insieme al Pd, alla Lega e a FI per tributare alla vittima i sensi della più profonda commozione e della più sentita solidarietà, con incitamenti a resistere, a non mollare, a non darla vinta ai birbaccioni. Invece Sala è stato semplicemente condannato dal Tribunale di Milano a 6 mesi di reclusione (commutati in multa) per falso in atto pubblico. Motivo: il 31 maggio 2012, quand' era amministratore delegato di Expo2015, firmò un verbale (retro)datato 17 maggio: cioè il secondo atto di nomina della commissione aggiudicatrice del più grande appalto di Expo (quello della "Piastra" da 272 milioni), finalizzato a sanare il primo, quello che infilava in quell' organismo due commissari incompatibili. Un verbale falso per ripulirne uno illegittimo, evitare di rifare tutto daccapo e garantire il mega-business a chi doveva aggiudicarselo, ovviamente senza gara: il gruppo Mantovani, già coinvolto in Tangentopoli e ribeccato nelle mazzette del Mose. Un groviglio di illegalità giustificate con la solita fretta per i soliti ritardi nella realizzazione delle opere di un evento assegnato a Milano il 1° aprile 2008. Di chi era la colpa dei ritardi? Sempre di Sala, Ad di Expo dal giugno 2010. Ma su quelle illegalità la Procura di Milano chiuse un occhio, anzi due, fino alla revoca delle indagini sulla Piastra al titolare, il procuratore aggiunto Robledo, da parte del suo capo Bruti Liberati, poi ringraziato per cotanta "sensibilità istituzionale" da Napolitano e da Renzi. Così Sala la scampò, mentre tutti i suoi principali collaboratori finivano in galera o sotto inchiesta, senza contare le retate per le infiltrazioni della 'ndrangheta. L' Expo partì con un terzo dei padiglioni incompleti (7 anni e mezzo dopo l' aggiudicazione) e si chiuse con un buco di 2 miliardi: un trionfo. Nel 2016 la Procura generale notò l' inerzia della Procura e avocò l' inchiesta sulla Piastra, indagando Sala e ottenendone il rinvio a giudizio. E, l'altroieri, la condanna. Dunque, per il Tribunale, Sala è un falsario. E pure un bugiardo, per le balle che ha rifilato ai giudici, ai giornali e ai cittadini per difendersi: tipo che firmò i due verbali retrodatati "senza esserne consapevole", per colpa di "avvocati incapaci" che ovviamente si era scelto lui). Come se il casino dei due commissari incompatibili da rinominare senza ripartire da zero non fosse il principale ostacolo al mega-appalto della Piastra. E come se un manager potesse firmare atti il 31 maggio senza domandarsi come mai sono datati 17 maggio. Che farebbe, in un paese serio, un politico che falsifica verbali d' appalto, mente per evitarne le conseguenze e viene condannato? Si dimetterebbe ipso facto. È quel che si era impegnata a fare la sindaca di Roma Virginia Raggi, in base allo Statuto 5Stelle, in caso di condanna nel suo processo, anch' esso per falso, sia pure per fatti molto più veniali (una dichiarazione sulla nomina di Renato Marra alla direzione Turismo, in cui escludeva interferenze del fratello Raffaele, capo del Personale). Tutti i quotidiani le davano della falsaria e della bugiarda ben prima del processo e della sentenza, che attendevano con la bava alla bocca per levarsela di torno. Poi purtroppo la Raggi fu assolta, ma si trovò comunque il modo di darle della bugiarda, anche se il Tribunale ha accertato che disse la verità a lei nota, perchè le interferenze avvennero alle sue spalle, in una riunione senza di lei. Nessuno, dicesi nessuno, aveva mai ipotizzato che la Raggi potesse restare al suo posto in caso di condanna anche a un solo giorno. Ora invece il quadro si ribalta: il sindaco di un' altra metropoli - detta umoristicamente "capitale morale d' Italia" - viene condannato per falso e tutti lo implorano di non dimettersi (cosa che peraltro il falsario non ha alcuna intenzione di fare), sperticandosi in elogi, baci e salamelecchi. Da Zingaretti a Salvini a Toti (sono soddisfazioni). E i giornali (tutti) a ruota. La condanna di Sala, sulle prime pagine, non è degna dell' apertura neppure in una giornata priva di notizie. Gli spazi sono addirittura inferiori alla richiesta di condanna per la Raggi. E il falso che ha portato alla condanna spariscono dai titoli, tutti occupati dalle dolenti lamentazioni di Sala e dagli alti lai dei suoi compari di partito e di casta. Il Corriere ha un titolino in basso a destra: "Sei mesi a Sala: 'Un processo al mio lavoro'" (come se il suo lavoro fosse taroccare verbali d' appalto), sormontato dal rassicurante occhiello: "Il sindaco: 'Vado avanti'" e corredato dall' editoriale strappalacrime di un affranto Venanzio Postiglione: "Nel labirinto italiano (aspettando i Giochi)". La tesi è quella di Sala "un po' condannato" (6 mesi sembrano pochi: si aspettavano l' ergastolo?) e del delitto a fin di bene: "meno male che ha sbagliato" perchè col falso "i lavori sono finiti in tempo" (balle: Expo partì largamente incompiuto). E poi le solite geremiadi sul Pg che "sconfessa i pm" (come se le Procure non fossero soggette alle Procure generali) e sulla "Bisanzio" dell'"intreccio di norme" in cui rischia di incappare il povero manager che "agisce", mentre solo chi "resta immobile e impaurito non finisce indagato" (panzane: per non finire indagato, bastava che Sala non firmasse i verbali farlocchi). Il Venanzio piangente ora teme di perderlo: come faremo senza il condannato che "congela il mandato bis da sindaco e le ipotesi di leadership nazionale"? Fortuna che "la prescrizione, a novembre, renderà inutile l' appello" (fandonie: se Sala vuole appellare la condanna, non ha che da rinunciare alla prescrizione). Mirabile la chiusa postiglioniana: "A Milano fa caldo e si dorme poco". Il che spiega le succitate corbellerie, ma anche gli altri titoli: "Il sindaco: io vittima di uno scontro tra pm" (lo statista non sa nemmeno distinguere fra Pg e pm, e nessuno gli spiega che l' hanno condannato 3 giudici di tribunale), "Una sentenza del genere, per un vizio di forma (vuole abolire pure il reato di falso?, ndr), allontanerà tanta gente onesta e perbene dalla cosa pubblica (almeno gli onesti che taroccano i verbali d' appalto, ndr)". Repubblica, in prima, ha ben di meglio da raccontare: Gentiloni contro Salvini sui migranti (sorpresona) e la "nostra intervista esclusiva" a Carola (intervistata, sempre in esclusiva, anche da Spiegel e Guardian). Però uno spazietto per Sala a fondo pagina lo trova. Anche lì la sentenza è un' opinione (di Sala): "Expo, condannato Sala: 'Un' ingiustizia, resterò sindaco'". All' interno, anziché del reato, si dà conto della "solidarietà anche da Lega e FI " (tra condannati ci s' intende) e si intervista l' ex sindaco Albertini ("Sto con lui": e meno male, si stava in pensiero). Il Massaggero ha una caccolina in prima, mentre all' interno spiega che "retrodatò i verbali per far ripartire lavori" (falso più del falso di Sala) e intervista il capogruppo leghista Molinari, un altro che ha capito tutto: "Così amministrare è impossibile, bisogna abolire l' abuso ufficio" (infatti Sala è condannato per falso). Poi, per la serie Oggi le comiche, c'è La Stampa: mezza paginetta su Sala a pagina 8 e nemmeno una riga in prima, occupata da ben altri notizioni: "L' estate calda dei treni", "Pernigotti, niente intesa: il passo indietro del re del gelato", "Il mago-artista che crea manichini e maschere di mostri", "Il baby batterista tra scola elementare e concerti in Germania", "Feticcio o status symbol: così la scarpa svela la nostra personalità". Molto meglio degli house organ di FI e Lega che, con quel che digeriscono ogni giorno, hanno stomaci fortissimi. Il Giornale: "Toghe impazzite. Indagano su Sala per un successo" (in realtà lo condannano, ma fa lo stesso). Il Foglio: "Sala condannato in base a un 'ragionamento'. La singolare motivazione della sentenza" (sarebbe un verbale retrodatato e la motivazione sarà nota fra due mesi, ma che sarà mai). Libero: "Sala condannato per il successo Expo" (sarebbe per falso, ma fa niente). Del resto è lo stesso Sala a confidare a Repubblica, restando serio: "Ho ricevuto più sms positivi oggi che quando abbiamo portato a casa l' Olimpiade". Non è meraviglioso? Per i Giochi bisognerà purtroppo attendere l' inverno del 2026, ma lui ha già vinto la medaglia d' oro. In falso con l' asta, falso in alto e falso in lungo.

·         Salvataggio a Volo d’Angelo…

SALVATAGGIO A VOLO D'ANGEL. Enrico Galletti per milano.corriere.it il 14 settembre 2019. Lavora in quel distributore di benzina da due anni. Stamattina, come fa di solito, si stava occupando del lavaggio delle auto di alcuni clienti, poi è successo tutto. Il bimbo che, secondo una prima ricostruzione, è precipitato dal secondo piano di una palazzina a Casalmaiocco (Lodi) e lui, Angel Vargas, 20 anni, che è riuscito a prenderlo al volo evitando il peggio.

Il racconto. È il suo titolare, Alessandro Soleto, 36 anni, a ricostruire il gesto che ha portato il ragazzo agli onori delle cronache. «Io mi ero allontanato per qualche minuto, stavo andando a prendere l’auto di un cliente da lavare – racconta -, ma quando sono arrivato al distributore ho visto i soccorsi e mi sono spaventato. Più in là c’era Angel con il mento pieno di sangue e diverse ferite, sono riuscito a parlargli per qualche istante prima che lo portassero in ospedale, mentre gli mettevano il collare». «Il ragazzo si è subito accorto che quella che aveva davanti agli occhi era un’emergenza - continua -, il bimbo chiedeva aiuto, era appeso al balcone di una palazzina di tre piani. È salito di istinto sul tetto di un furgone parcheggiato, che avevamo lavato poco prima. Voleva cercare di raggiungere il bimbo e metterlo in salvo ma non ci arrivava. Così si è lanciato dal furgone, ha attutito il colpo ed è riuscito ad afferrarlo al volo ma per il contraccolpo è caduto per terra e si è ferito anche lui».

Un gesto che ha colpito tutti. «Mentre parlo mi emoziono – racconta Soleto -. Sono orgoglioso di questo ragazzo. Ha dimostrato una prontezza incredibile, non oso pensare se non avesse agito in quel modo, o se non si fosse accorto di nulla. È un ragazzo splendido, lavora da me da due anni». Alessandro, invece, quel distributore lo gestisce da quasi dieci anni. Da ore continua a ripensare al momento in cui è arrivato con la sua auto, come fa tutti i giorni, e si è accorto di tutto. «Quando mi ha visto, Angel ha pronunciato queste parole: “Ho visto il bambino volare, mi sono lanciato nel vuoto”. Non so se si è reso conto del gesto che ha compiuto, l’orgoglio arriverà col tempo».

Lodi, il bimbo caduto dal balcone. Angel: l’ho visto precipitare e mi sono lanciato nel vuoto per salvarlo. Pubblicato sabato, 14 settembre 2019 da Corriere.it. Ha il nome di un angelo, Angel Micael, e come un angelo non ha esitato a lanciarsi dal tetto di un furgone per prendere al volo quel piccolo bambino, 4 anni soltanto, che precipitava dal secondo piano di un palazzo. «Non avrei mai potuto lasciarlo cadere senza far niente», racconta con semplicità l’eroe, un ragazzo ventenne argentino. Così ieri mattina a Casalmaiocco, in provincia di Lodi, è stata evitata una tragedia. Tutto è accaduto poco prima delle 9, in un piazzale davanti a una stazione di servizio lungo la provinciale che costeggia il paese. Angel Micael Vargas Fernandez, figlio di un argentino e di una peruviana, da 12 anni in Italia, stava facendo il proprio turno di lavoro nel distributore quando le urla di alcuni clienti hanno richiamato la sua attenzione verso il palazzo che si affaccia sul piazzale. «Ho visto il bambino. Era sulla parte esterna del balcone, al secondo piano, aggrappato alla balaustra, che urlava terrorizzato — racconta ancora scosso Angel Micael —. Insieme a un cliente sono corso sotto il balcone e sono salito sul tetto di un furgone parcheggiato quasi sotto al piccolo che penzolava. Volevo arrampicarmi al primo piano per prenderlo, ma appena sono salito sul tetto del camioncino ho visto le manine che lasciavano la presa e il bambino che cadeva proprio nello spazio tra dove ero io e un’altra auto parcheggiata. E allora mi sono buttato».

Angel Micael è riuscito a prendere al volo il bambino e insieme sono finiti sull’asfalto, con il corpo di Angel che ha attutito la caduta del piccolo, probabilmente salvandogli la vita. Sul posto sono arrivati subito i soccorsi e i carabinieri della stazione di Tavazzano. In un campo vicino è atterrato l’elicottero del 118, il cui intervento però non è stato necessario. Angel e il piccolo sono stati trasportati in ambulanza all’ospedale Maggiore di Lodi. Dopo le prime cure di pronto soccorso, i due si sono rivisti proprio in ospedale. «Ci siamo salutati, ma il piccolo era confuso e molto agitato: si è preso un brutto spavento, come me del resto — aggiunge Angel —. I genitori mi hanno ringraziato tanto. Ma io ho fatto tutto d’istinto: non avrei mai potuto lasciarlo cadere senza tentare di fare qualcosa». Nel volo Angel ha riportato varie contusioni e abrasioni, anche in faccia, ma nessuna frattura. Nel pomeriggio è stato dimesso dall’ospedale di Lodi e ha fatto ritorno a casa. Anche il piccolo sta bene, nonostante i traumi, ma per prudenza è stato trattenuto dai medici, in osservazione. Angel di giorno lavora nella stazione di servizio, mentre la sera studia. Racconta orgogliosa la madre, Sofia: «In ospedale, mentre lo medicavano, voleva solo sapere del bambino, chiedeva come stava. Era sotto choc, poi ha avuto un pianto liberatorio quando ha saputo che il piccolo stava bene. Angel è sempre stato così, non si è mai tirato indietro per aiutare qualcuno. Questa volta però ha fatto proprio una cosa grande». La Procura della Repubblica di Lodi ha aperto un’indagine con l’ipotesi di reato di abbandono di minori. La madre sui social ha scritto: «Io stavo andando al lavoro, a casa era rimasto mio marito e stava cambiando il pannolino all’altro bimbo». I carabinieri della Compagnia di Lodi sono al lavoro per ricostruire la dinamica precisa dell’accaduto e per capire come sia stato possibile che il bambino sia sfuggito al controllo, prima uscendo sul balcone e poi scavalcando il parapetto. E come mai non abbiano sentito le urla terrorizzate del piccolo, sospeso nel vuoto, prima che precipitasse. Per fortuna, tra le braccia di Angel.

Bambino precipita dal balcone, salvato dal benzinaio di fronte casa: lo ha preso al volo. E’ accaduto in provincia di Lodi. A evitare che la caduta del piccolo si concludesse sul selciato è stato un ventenne che lavora in un distributore di carburante. La Repubblica il 14 settembre 2019. Un bambino di 5 anni è precipitato dal secondo piano di una palazzina ma è stato salvato al volo da un ventenne argentino residente da tempo in Italia. E' accaduto nei pressi del distributore di carburante Ip lungo la strada provinciale 159 a Casalmaiocco (Lodi). Il piccolo si trova ora, in condizioni ritenute non gravi, all'ospedale di Vizzolo Predabissi (Milano) per controlli. Si chiama Angel Micael Vargas Fernandez, è di nazionalità argentina e da 12 anni vive in Italia, ha la residenza a Sordio (Lodi), studia informatica ai corsi serali dell'Itis Volta di Lodi e lavora part time dal benzinaio con autolavaggio che si trova nelle vicinanze della palazzina dalla quale è caduto il bimbo. Angel Micael ha visto che il bambino aveva scavalcato il balcone e si trovava all'esterno aggrappato alla balaustra, sospeso nel vuoto mentre urlava di terrore. Il ventenne ha così portato sotto il balcone un furgone Mercedes, che aveva appena lavato, per salirvi sopra per avvicinarsi al piccolo. Poi, però, il bimbo si è spostato e, mentre stava precipitando, Angel Micael si è lanciato dal furgone, lo ha preso in aria ed è finito a terra con lui attenuandone la caduta. Anche il ventenne argentino è stato portato in ospedale e medicato per gli effetti della caduta. Sono in corso accertamenti da parte dei carabinieri di Lodi soprattutto per capire dove fossero, in quel momento, i genitori. "Noi abbiamo un vero e proprio angelo in famiglia. Lo sappiamo da sempre e oggi ne abbiamo avuta un'ulteriore conferma". Lo ha detto Miguel Angel Vargas, il padre di Angel Micael Vargas Fernandez. "Io ho sempre cercato – ha aggiunto - di inculcargli valori cattolici. Siamo molto credenti. Mio figlio Angel ha anche frequentato da piccolo, in Argentina, una scuola cattolica gestita dalle suore. E arrivato in Italia, 12 anni fa, non ha mai dimenticato gli insegnamenti con alla base l'aiuto del prossimo. Se lo chiamano di notte amici o conoscenti che hanno bisogno di aiuto, lui si alza dal letto e va a aiutarli. E' un figlio davvero speciale". La procura di Lodi ha aperto un'inchiesta per l'ipotesi di reato di abbandono di minori. L'iscrizione sul registro degli indagati riguarderà i familiari o il familiare che si riterrà avesse, nel momento in cui è avvenuto l'incidente, l'obbligo di custodia del minore. Stando a testimonianze acquisite, il bambino si sarebbe, infatti, trovato solo nell'appartamento al momento dei fatti. "Sarà fatta - spiega il procuratore della Repubblica di Lodi Domenico Chiaro - anche una segnalazione al tribunale dei minorenni".

Lodi, Angel: «Non sono un eroe». Il prefetto: ci ha insegnato molto. Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 su Corriere.it da Francesco Gastaldi. Il giovane che ha salvato il bimbo caduto dal balcone: «Ho giocato con il piccolo in ospedale. Ora spero di diventare cittadino italiano a tutti gli effetti». Il prefetto: «Ha insegnato a tutti qualcosa» La sequenza del salvataggio. «All’inizio Pablo (nome di fantasia, ndr) non mi riconosceva; abbassava lo sguardo, si vedeva che era spaventato. Allora i suoi genitori gli hanno fatto segno di guardarmi: “Pablo, questo è il tuo superman”. E lui mi ha sorriso». Così Angel Micael Vargas Fernandez martedì mattina in prefettura a Lodi ha rievocato il primo incontro in ospedale a Lodi con il piccolo di 4 anni da lui afferrato al volo sabato a Casalmaiocco mentre stava precipitando dal balcone di casa. Il bimbo e il suo eroe si sono incrociati per la prima volta dopo il drammatico salvataggio in corsia in ospedale a Lodi sabato pomeriggio (“Eravamo vicini di stanza”) e poi ancora domenica, quando Angel è stato dimesso e il piccolo trasferito ai piani superiori in pediatria. “Sono andato a salutarlo: se sabato era spaventato, domenica l’ho visto più vispo. Abbiamo giocato e scattato qualche foto insieme. Sorrideva ed era disteso. Davvero non c’è nulla che mi interessi di più che lui stia bene e torni alla sua vita, a casa con i suoi genitori e i fratellini”. Angel Vargas, 20enne di origini peruviane e cittadinanza argentina, in Italia da dieci anni, rifiuta l’etichetta dell’eroe e sogna “di tornare presto alla normalità”. I giorni immediatamente successivi al suo atto di eroismo “sono stati difficili, il telefono non smetteva di squillare un momento: chiudevo una chiamata e subito ne arrivava un’altra”. Il suo ringraziamento va anche a Luigi Fiipponi, il 51enne tavazzanese che era con lui e lo ha aiutato a salvare il piccolo: “Mi ha dato un sostegno psicologico incredibile e quando io e “Pablo” siamo caduti a terra lui è riuscito ad attutire il colpo facendoci ulteriormente da scudo. Lo ringrazio ancora, se non ci fosse stato lui non so come sarebbe finita”. Angel lavora di giorno in un distributore/autolavaggio di Casalmaiocco e di sera studia informatica. Il papà ha già avviato le pratiche per la richiesta di cittadinanza italiana, che potrebbero subire un’accelerata – così spera la famiglia – dopo l’atto di eroismo di Angel. Il quale non chiede trattamenti di favore: “So che ci vuole un po’ di tempo, ma come tanti altri prima di me conto di diventare cittadino italiano a tutti gli effetti”. In prefettura, presentato ed elogiato pubblicamente dal prefetto Marcello Cardona che lo ha ringraziato a nome di tutti regalandogli una copia della costituzione italiana, Angel è arrivato accompagnato da papà Miguel Angel e mamma Sofia Judith. “Siamo orgogliosi di lui – dicono -, in questi giorni abbiamo cercato di infondergli un po’ di serenità perché è ancora molto scombussolato e non si sente un eroe”. “Invece ha fatto una cosa eccezionale – afferma il prefetto – insegnando a tutti noi qualcosa: non puoi compiere un gesto del genere se dentro di te non hai una grande generosità intellettuale”. E rivolto ad Angel gli ha ricordato che “anche quel bambino quando tra qualche anno potrà rendersi conto di quanto successo ti verrà a cercare per dirti di persona grazie”. Tra le autorità erano presenti anche i sindaci Salvatore Iesce di Sordio, dove Angel vive, e Marco Vighi di Casalmaiocco che ha invitato l’eroe alla Festa del ringraziamento dell’11 novembre per consegnargli di persona la benemerenza civica del paese.

·         Trovato morto in auto Peppino Franchini.

Trovato morto in auto Peppino  Franchini, il re dei  market brianzoli. Pubblicato sabato, 13 aprile 2019 da Federico Berni e Marco Mologni su Corriere.it. Aveva convinto gli italiani, soprattutto quelli del nord, ad andare a fare la spesa al supermercato. Uno dei pionieri della grande distribuzione, ai tempi della nascita delle grandi catene di centri commerciali. Peppino Franchini, l’imprenditore che aveva dato vita ai «Supermercati Brianzoli», è stato trovato privo di vita giovedì pomeriggio all’interno della sua automobile, nel parcheggio dell’aeroporto di Malpensa. Aveva 74 anni, ed era di Lentate sul Seveso, in provincia di Monza. Era stata la moglie, con la quale conduceva una vita riservata tra Milano e la Brianza, a mettere in allerta le forze dell’ordine, dal momento che non aveva avuto sue notizie. Gli agenti della Polaria, in servizio allo scalo milanese, lo hanno trovato grazie al gps del suo telefono cellulare. La salma di Franchini è stata messa a disposizione della procura di Busto Arsizio (Varese) che, da quanto emerso, ipotizza si sia trattato di un gesto volontario, forse un’ingestione di farmaci. Un epilogo triste, che stride con il passato dell’uomo, fatto di grandi successi imprenditoriali. La sua è una storia tipica di una piccola impresa a conduzione famigliare che cresce fino a diventare un piccolo impero di 60 supermarket sparsi tra Lombardia, Piemonte, Veneto, con uno «sconfinamento» anche nell’Emilia Romagna delle coop rosse. D’altra parte, Franchini nasce in una famiglia di lavoratori che avevano il fiuto per il commercio. Il capostipite era stato il nonno, Felice Franchini, partito dall’apertura di un mattatoio, a Lentate sul Seveso. Attività che, in pochi anni, si era ingrandita a tre macellerie. Negozi che erano serviti da base per compiere il salto di qualità, negli anni sessanta e settanta. Prima i figli Oreste e Vittorio, che ebbero l’intuizione di aprire il primo supermercato self service in Italia. Poi il passaggio di consegne alla nuova generazione: Peppino, Angelo e Gianfelice. Con loro nasce il marchio verde e arancione «SB», Supermercati Brianzoli, che dai quattro punti vendita lombardi del 1974, cresceranno fino a diventare appunto oltre sessanta. Quell’epoca è un susseguirsi di intuizioni vincenti. È in corso un cambiamento delle abitudini dei consumatori italiani. Sono i tempi dell’Esselunga, dell’altro pioniere del settore Bernardo Caprotti, e, appunto, dei supermercati «Essebi» di Franchini. Le merci e i prodotti sugli scaffali appaiono di continuo con il martellamento pubblicitario sulle televisioni private, che iniziavano a spopolare nelle case di tutto il Paese, con i loro messaggi commerciali. Il marchio appare anche come sponsor di diverse squadre ciclistiche. Nel 1982, i Franchini spostano il quartier generale dell’impresa a Cantù, nel comasco, dove inaugurano un magazzino centrale di oltre 10 mila metri quadrati. All’inizio degli anni novanta, invece nascono altri punti vendita, compreso uno ad Arcore. Al taglio del nastro di quest’ultimo, è presente anche un altro imprenditore lombardo in grande ascesa, Silvio Berlusconi, che l’anno successivo acquisterà tramite Fininvest l’intero gruppo, accorpandolo al marchio Standa. Chi lo ha conosciuto negli anni della grande espansione lo definisce un imprenditore «vecchio stampo», legato alla comunità locale in cui è nato, anche se negli ultimi tempi sembrava vivere un’esistenza più chiusa e riservata. Forse minata da problemi personali che potrebbero averlo condotto a un gesto estremo.

·         Milano patria dello scippo.

Milano patria dello scippo. Prese 17 rom, incinte in 13. Arrivate per il Salone dai campi nomadi di tutta Italia, sono state bloccate in metro dalla polizia, scrive Cristina Bassi, Venerdì 12/04/2019, su Il Giornale. Gruppi di nomadi borseggiatrici, in trasferta in massa a Milano per sfruttare le occasioni offerte dal Salone del mobile. In queste giornate di marciapiedi e mezzi pubblici affollati i predatori di portafogli e borselli hanno gioco facile. Anche la polizia però ha intensificato i controlli, in particolare i servizi di vigilanza a bordo della metropolitana. Gli agenti hanno bloccato ben 17 giovani rom nello stesso momento alla stazione di Amedola Fiera. Avevano appena borseggiato una cittadina cinese. Ben 13 delle ladre individuate erano incinte. Tra le ragazze fermate, una 17enne è stata arrestata. Mentre le due complici, entrambe in stato di gravidanza, sono state denunciate e rilasciate. Le segnalazioni sulla presenza di borseggiatrici nella metropolitana nella giornata di ieri sono cominciate ad arrivare da parte dei passeggeri fin dalle 8. Le nomadi erano talmente tante che hanno dato nell'occhio. Sugli schermi che trasmettono le immagini delle telecamere di sorveglianza sono state viste muoversi a gruppi di 30-40. L'allarme è scattato sulla linea rossa. Le nomadi avvicinavano ripetutamente le persone, spintonandole e derubandole. Quando la Polmetro è intervenuta, le giovani donne avevano appena preso di mira una turista cinese di 36 anni, salita sul treno a Pagano intorno alle 9 con alcune connazionali per scendere poi ad Amendola Fiera. La turista si confondeva nel flusso di visitatori diretti al Salone.

La 36enne è stata circondata da almeno tre donne rom, che l'hanno strattonata. In contemporanea una delle ladre le ha aperto la borsetta, da cui ha preso il portafogli che conteneva circa mille euro. Il gruppo ha poi tentato di correre via, ma la vittima aiutata da un'amica e da una passeggera italiana ha trattenuto una delle nomadi. All'arrivo della polizia il gruppo si è diviso. Tre borseggiatrici sono state bloccate, mentre altre 14 sono state fermate poco dopo nel mezzanino. Di 17 controllate, tutte senza documenti, 13 sono incinte. Provengono da diverse parti d'Italia. Da campi nomadi di Milano e del Milanese, di Torino, perfino da Roma. Una vive in una casa popolare, un'altra in uno stabile abbandonato. La presunta autrice della rapina, una 17enne, è stata arrestata e portata al carcere minorile Beccaria. Due complici, di 32 e 20 anni, in stato di gravidanza, sono state denunciate. Un'altra nomade, una 18enne originaria della Bosnia con molti precedenti, è stata arrestata in un altro episodio dai carabinieri del Nucleo radiomobile, nel mezzanino della metropolitana in stazione Centrale. Aveva tentato di borseggiare un cittadino di Singapore di 27 anni che si trova in città sempre per la Design Week che però si è accorto di tutto bloccando la ladra. La ragazza è stata arrestata per tentato furto aggravato. Le presunte borseggiatrici incinte, denuncia l'assessore regionale alla Sicurezza Riccardo De Corato, «non possono essere arrestate in base ad una circolare emessa il 12 dicembre 2016 dalla Procura della Repubblica di Milano. Dunque le nomadi sanno di avere buona possibilità di farla franca. Nel 2018 a Milano sono state intercettate dalle forze dell'ordine una trentina di latitanti nomadi, l'80 per cento delle quali era appunto in stato di gravidanza per assicurarsi la totale impunità».

Milano, l’assalto delle scippatrici da tutta Italia ai turisti sul metrò. Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 i Federico Berni su Corriere.it. «L’assalto» parte al mattino presto. Le «prede» sono i turisti del Salone del Mobile, generalmente stranieri distratti, con lo sguardo immerso nello smartphone, o nelle mappe della città, e soprattutto con i portafogli gonfi di contanti (in prevalenza asiatici, arabi e russi). Vittime privilegiate delle borseggiatrici partite in questi giorni dai campi nomadi di tutta Italia, e arrivate a frotte a Milano, per colpire nel loro territorio di «caccia» preferito: le stazioni della metropolitana, preferibilmente quelle della linea rossa, da e verso il capolinea Rho-Fiera. Mercoledì mattina, le telecamere installate alla fermata Amendola ne hanno riprese almeno una trentina, ferme alla banchina. I poliziotti ne hanno fermate diciassette, successivamente identificate negli uffici di via Fatebenefratelli. Di queste, tredici erano incinte. Una di loro, una ragazzina di 16 anni, era stata notata al binario opposto, dove aveva appena «alleggerito» una visitatrice cinese di 36 anni dei circa mille euro che custodiva nella borsa. Soldi che la ladra aveva già fatto sparire, passandoli nelle mani di qualche complice, nel frattempo dileguatasi chissà dove. E tutto questo quando erano passate da poco le nove del mattino. Soltanto l’inizio di una lunga giornata di «lavoro», tra furti e borseggi, in cerca di soldi, portafogli, telefonini, gioielli. Colpi messi a segno con tecniche non particolarmente raffinate. Anzi, stando a quanto segnalato da molti passeggeri spaventati (racconti confermati dalle forze dell’ordine), le donne, molte delle quali in avanzato stato di gravidanza, si radunano in gruppi numerosi, prima di separarsi eventualmente in «batterie» da cinque, sei persone. Poi puntano decise verso la folla. Agguerrite, si fanno avanti a spintoni, si pigiano sulle banchine della metro, o sui vagoni affollati, e fanno razzia, accerchiando la vittima di turno, facendosi forti della loro superiorità numerica. Il bottino, come nel caso della turista orientale borseggiata mercoledì mattina, scompare in fretta, trasferito con mano veloce sotto i vestiti di qualche altra criminale, che si separa veloce dal resto del gruppo. Per quell’episodio, la minorenne è stata condotta dagli agenti al carcere minorile, mentre altre due donne di 31 e 20 anni sono state denunciate a piede libero. In qualche caso le vittime si rivelano più attente, come la ventiseienne malese che, alle 21 di mercoledì, alla fermata della metro della Stazione centrale, si è accorta dei movimenti sospetti di una ragazza che le aveva preso il portafogli, riuscendo a bloccarla. Si trattava di una diciottenne bosniaca, arrestata dai carabinieri del Nucleo Radiomobile. Il più delle volte, però, le ladre, scaltre, spregiudicate, e abili, raggiungono il loro scopo, a giudicare dagli stranieri che in questi giorni si presentano per fare denuncia. Dai controlli effettuati sulle nomadi fermate ad Amendola, tutte senza documenti, e per questo condotte negli uffici della Questura per gli accertamenti del caso, è emerso comunque che le stesse provenivano dai campi nomadi dell’hinterland (sopratutto Baranzate di Bollate), da un edificio occupato in zona Lorenteggio, ma anche da Torino, e persino da Roma. A dimostrazione del fatto che la settimana dedicata al mobile e al design, muove anche un altro tipo di indotto, attirando parecchie delinquenti in trasferta, che vanno ad incrementare il numero di quelle già presenti in pianta stabile attorno a Milano. Quello delle ladre bosniache incinta, infatti, è un fenomeno criminale consolidato, con il quale le forze dell’ordine combattono tutto l’anno.

Milano, i quartieri dei rom. Così "assaltano" i turisti. Lambrate, piazzale Cuoco, Cascina Gobba, via Novara e Maciachini: ecco le zone più frequentate dai nomadi, scrive Giovanni Giacalone, Venerdì 12/04/2019, su Il Giornale. Quello a cui hanno dovuto assistere turisti e pendolari del Salone del Mobile nella giornata di giovedì è stato un vero e proprio assalto di borseggiatrici rom sulla linea rossa M1 diretta a Rho Fiera. Un “bollettino” impressionante che pone seri interrogativi sul fatto che a Milano i reati siano in calo. Il resoconto fornito da MilanoToday è più che eloquente: batterie da trenta borseggiatrici arrivate da Roma, dal campo rom di Baranzate, di Bollate e dalle case occupate di via Bolla e Lorenteggio. I primi allarmi sono iniziati ad arrivare alla centrale operativa intorno alle ore 8, per poi susseguirsi nell’arco della mattinata; le segnalazioni riferivano sempre le stesse dinamiche, una quarantina o cinquantina di nomadi sulle banchine, alcune di loro in stato di gravidanza, in attesa di “prede” da borseggiare. Interessanti le dinamiche della rapina subita da una turista cinese, salita sulla metropolitana assieme ad alcuni amici: la donna è stata avvicinata da tre nomadi (una 16 enne, una 19enne e una 31enne, queste ultime due in stato di gravidanza) che hanno iniziato a spingerla e nel frattempo una della banda le ha sfilato dalla borsa il portafoglio con dentro mille euro. Gli agenti accorsi sono riusciti a fermare subito la 16enne mentre le altre due sono state bloccate sull’altra banchina. Numerose le borseggiatrici trovare senza documenti e portate in Questura, tredici di queste incinte. Un vero e proprio "esodo" verso un evento, il Salone del Mobile, ritenuto dalle ladre una miniera d'oro e non a caso sono arrivate persino da Roma e Torino, oltre che dai dintorni di Milano. Emerge così per l’ennesima volta il problema dei campi e degli edifici occupati abusivamente dai rom che si spostano poi in città per derubare chiunque capiti loro a tiro. La presenza di tali borseggiatrici sulle linee della metropolitana milanese è infatti ben nota e costante ma si intensifica durante importanti eventi ospitati nel capoluogo lombardo. Lo scorso 30 marzo Il Giornale aveva pubblicato un servizio fatto dal consigliere regionale Silvia Sardone proprio a Baranzate, in via Grassi 93, un vero e proprio perimetro dell’illegalità. La Sardone spiegava: “I nomadi mi hanno espressamente detto che non hanno la minima intenzione di andare a lavorare, preferendo vivere qui, in mezzo a topi e rifiuti". Bivacchi di nomadi sono poi stati segnalati anche in altre zone della città, come Lambrate, piazzale Cuoco, Cascina Gobba, via Novara e Maciachini. Un problema serio che va risolto, perché il proliferare di aree di illegalità e degrado di quel genere non fanno altro che alimentare quel meccanismo delinquenziale che i cittadini sono costretti a subire quotidianamente. Dunque più che inseguire le ladre in azione, sarebbe forse più efficace intervenire su queste "oasi" del degrado. Tutto ciò non è certo un bel biglietto da visita per Milano.

Milano, ecco la baraccopoli rom vicino all'ospedale Sacco. A Milano esiste una vera e propria baraccopoli a due passi dall’ospedale Sacco dove vivono un centinaio di rom ma anche qualche nordafricano, scrive Franco Grande, Sabato 30/03/2019, su Il Giornale. A Milano esiste una vera e propria baraccopoli a due passi dall’ospedale Sacco dove vivono un centinaio di rom ma anche qualche nordafricano. A documentarlo è stato un sopralluogo effettuato in via Grassi 93 da Silvia Sardone, consigliere regionale e comunale del gruppo misto. "L’aspetto più sconvolgente è la baraccopoli costruita dai rom al confine con l’autostrada A8: almeno una decina di casette in legno, con tanto di serratura e frigoriferi, dove le famiglie con bambini (che non vanno a scuola) al seguito vivono in condizioni igienico-sanitarie raccapriccianti", racconta la Sardone che ha girato lungo questa enorme area abbandonata e piena di eternit. Una distesa di favelas che si protrae lungo tutta l'autostrada e dove ogni famiglia di rom si è fatta suo "mini-appartamento" con tanto di materassi, tavolini da giardino e armadi. Al secondo piano dello stabile abbandonato e ricolmo solo di spazzatura e detriti hanno, invece, trovato riparo i nordafricani. "È inconcepibile – continua Silvia Sardone – che a poca distanza dall’area Expo proliferi un microcosmo del genere dove decine di abusivi fanno quello che vogliono alla luce del sole. In diverse occasioni sono scoppiati incendi causati dagli occupanti intenti a smaltire illegalmente i rifiuti e i residenti delle case vicine sono preoccupati per l’aria che respirano, oltre alla situazione di completa insicurezza che li circonda". "I nomadi mi hanno espressamente detto che non hanno la minima intenzione di andare a lavorare, preferendo vivere qui, in mezzo a topi e rifiuti", aggiunge la consigliera che descrive l'intera zona come "buco nero tollerato dalla giunta Sala", una specie di "città nella città dove regnano degrado e illegalità, ormai i classici marchi di fabbrica della sinistra a Milano”. La Sardone, infine, invita il sindaco Beppe Sala a girare per le periferie come via Grassi che sono "lasciate a marcire in nome di un buonismo nocivo che di fatto premia rom e clandestini a discapito dei cittadini onesti”.

·         Milanesi felici per i Giochi…Poi insultano i maratoneti.

Milanesi felici per i Giochi…Poi insultano i maratoneti, scrive il 6 aprile 2019 Antonio Ruzzo su Il Giornale. Nove milanesi su dieci sono favorevoli alle olimpiadi che Milano potrebbe organizzare con Cortina nel 2026 se le verranno assegnate il 24 di giugno a Losanna. É una piacevole sorpresa scoprire che nel sondaggio del Comitato olimpico internazionale  la città sia entusiasta, non veda l’ora di ospitare un evento sportivo, di applaudire, seguire, partecipare. Siamo tra l’altro molto più felici degli svedesi  di Stoccolma che, alla stessa domanda, hanno dato un gradimento del 55 per cento. Evviva quindi, non c’è partita  con quei “parrucconi” del Nord che evidentemente non hanno cultura sportiva. A «chiacchiere» non ci batte nessuno. A chiacchiere siamo tutti sportivi, ospitali, tolleranti, plaudenti e felici  di esserci. Poi però lo sport arriva davvero in città e allora le cose si complicano: il motto diventa  viva lo sport ma «non nel mio giardino». Milano da questo punto di vista non ha un storia esemplare. Più dei sondaggi parlano i fatti. Anni fa, quando al Parco Sempione arrivò la Coppa del mondo di sci di fondo con tanto di campioni e decine di televisioni collegate, finì in polemica. Con chi si lamentava perchè gli sciatori si erano impossessati del parco, perchè la neve artificiale che l’organizzazione aveva poi lasciato ai milanesi per sciare gratis rovinava le aiuole e perchè non si poteva più portare a passeggio il cane. Idem l’anno scorso per la Formula Uno alla Darsena: troppo rumore, troppo smog, troppo tutto. Del Giro d’Italia meglio non parlare. In Francia, la tappa dei Campi Elisi è tradizione nazionale, un giorno di festa in cui la città si ferma e guai a chi la tocca. Qui da noi  non si vede l’ora che Nibali e compagni tolgano il disturbo per poi sbaraccare tutto nel minor tempo possibile e riprendere a scorrazzare in auto o tornare tranquillamente a far shopping in centro. L’esperienza insegna che bisogna sempre diffidare un po’ dei sondaggi, come degli exit poll in politica, perchè uno poi dice una cosa e ne fa un’altra. Così, tanto per smentire questa maldicenza, quei nove milanesi ( su dieci) che non vedono l’ora che di applaudire i Giochi comincino domattina a farlo.  Domattina si corre la maratona di Milano. La maratona è quanto di più alto un’olimpiade possa esprimere a prescindere dalle stagioni. Un rito magico come succede a New York, a Londra a Parigi. Da noi invece ancora ci si insulta agli incroci. Ecco comincino domattina ad applaudire. Comincino a dimostrare nei fatti che siamo pronti e tutti un po’ più credibili…

·         Roberto Formigoni libero.

Vittorio Feltri, perché Sergio Mattarella deve liberare Roberto Formigoni, scrive il 6 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. Non sono una persona nota per l' eccessiva sensibilità. Eppure sono quaranta giorni che fatico a prendere sonno. Per la maggior parte dei colleghi imbrattacarte, che da cronisti si sono trasformati in allegri questurini, sarò, una volta saputa la ragione della mia agitazione notturna, oggetto di scherno, ma non mi importa un fico secco del parere di chi non stimo. Il fatto è che mi viene in mente Roberto Formigoni. Se ne sta in cella, a 72 anni suonati, condannato al massimo dei massimi della pena, per una colpa idiota: quella di essersi tuffato da un natante un paio di volte, oltretutto con uno scadente mutandone. Un esercizio di cui era ammirato specialista Gianni Agnelli, il quale però a differenza dell' ex governatore della Lombardia aveva la riconosciuta finezza di esibirsi con eleganza, i riccioli romanticamente al vento, ignudo e tenendosi il bigolo in mano. Tutto lì? Non ci si crede, tuttavia dietro formule da azzeccagarbugli avvelenati dal moralismo, non scorgo altro. Più rileggo i resoconti del processo, e constato la galleria fotografica che ne fungeva da illustrazione, e più diventa chiaro che si è trattato di un caso tipico non di uno Stato di diritto bensì di uno Stato etico. Dove non si applica la legge sulla base di prove di grassazioni e di arricchimenti indebiti, ma la si trasforma in un cappio ad uso dell' invidia vendicativa di avversari politici e di falsi amici. È noioso per i lettori ripercorrere le accuse e i reati di cui l' ex governatore è stato giudicato colpevole in via definitiva. Repetita iuvant. I magistrati non hanno trovato un soldo nei suoi conti, dopo aver rastrellato la Svizzera e non so quali altri paradisi fiscali. I Tribunali hanno riconosciuto che non c' è stata alcuna circolazione di denaro ciononostante si è ripiegato sulla formula «altra utilità». Hanno perciò misurato in milioni di euro il beneficio di essersi fatto trasportare gratis a prendersi la tintarella su uno yacht di un ricco signore, una pratica consueta peraltro a molti giornalisti, sia pure su panfili in dotazione di compari danarosi di circoli berlinesi. Si sono travestiti da verginelle contro la baldracca unica, il Capro Celeste. Personalmente lo ritengo meritevole di un ritiro in un' abbazia priva di monache per tre mesi. Ma cinque anni e dieci mesi, senza alcuna possibilità di beneficio, cioè pena alternativa, permessi, come un Totò Riina, e per di più sulla base di una legge approvata pochi mesi fa, ma nel suo caso applicata con un balzo a ritroso, sono una forma di tortura ad personam. Formigoni che cosa avrebbe combinato pur di pucciare i piedi nei Caraibi? È stato giudicato e ingabbiato come un criminale per aver assegnato un finanziamento cospicuo ad un ente ospedaliero privato, i cui servizi d' eccellenza erano e sono a disposizione gratuita di ogni cittadino. Quegli stanziamenti, secondo funzionari giudicati innocenti, erano dovuti, così come se ne stabilirono con identico criterio, ad altre decine di istituti pubblici e no. Del resto hanno dato buoni frutti. La rete ospedaliera lombarda, usufruibile da tutti gli italiani, durante gli anni formigoniani ha scalato le classifiche stilate da organismi internazionali, divenendo la migliore d' Europa. Questa verità fattuale non è stata negata dalla sentenza, ma è stata giudicata un «colossale sistema di truffa nella sanità». Sistema? In effetti è stata una scelta collettiva di organi democratici. La giunta aveva votato a favore dello stanziamento incriminato, e pure il consiglio regionale aveva detto di sì. E allora che sistema è se si punisce soltanto Formigoni? La responsabilità è personale, non si colpisce un individuo per la decisione di un organo collettivo, invece per lui, dato che è ritenuto un uomo pio, si è applicato il motto che il Vangelo attribuisce al Sinedrio: è meglio che uno solo paghi per tutti. Mi rendo conto di apparire esagerato e dinanzi allo stuolo di ingiustizie che assiepano la storia dell' umanità, quella di cui è oggetto l' ex governatore della Lombardia risulterà a tanti trascurabile. Eppure questa è una schifezza che accade vicino a me, riguarda una persona a cui non solamente i lombardi devono molto: ha governato la Regione - un' istituzione brevettata al Sud come idrovora di risorse pubbliche - in un gioiello di efficienza. Trattare il buon governo come fosse marciume e corruzione è un capovolgimento della realtà. Mi dicono che l' uomo sopporti con vigore la prova, però visto che la sentenza è irrevocabile, si attenui almeno l' ingiuria. Finora, niente da fare. Gli avvocati hanno chiesto invano gli arresti domiciliari, per via dell' età, e dell' articolo 25 della Costituzione in base al quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». Il procuratore generale, nel chiedere al Tribunale d' Appello di negare questa pena alternativa, è stato beffardo: di che deve lamentarsi il Celeste? «Ci sono carceri e carceri. C' è chi viene mandato a Opera o a Busto Arsizio, dove le celle sono strettissime. E c' è chi invece viene mandato a Bollate, un carcere cinque stelle, celle aperte tutto il giorno, laboratori di pasticceria, laboratorio di pelletteria, non sembra neanche una prigione». Che goduria, non è vero? Prometto che, finché avrò energie, e saprò picchiare sui tasti con le dita, mi batterò contro tale ingiustizia. Voglio dormire bene la notte. Vittorio Feltri

"Carcere hotel a 5 stelle". Il procuratore umilia il detenuto Formigoni. Negati i domiciliari all'ex governatore. Che agli amici confida: il letto è troppo corto..., scrive Luca Fazzo, Giovedì 28/03/2019, su Il Giornale. Si può dire a un uomo in galera che in realtà non è affatto in galera ma in una specie di albergo di lusso, come se non ci fossero le sbarre, le guardie, e quel portone blindato che per anni non potrà varcare? Ieri a liquidare la prigionia di Roberto Formigoni come una specie di vacanza a spese dello Stato è Antonio Lamanna, il procuratore generale che ha spiccato l'ordine di carcerazione nei suoi confronti, dopo che era divenuta definitiva la condanna a cinque anni e dieci mesi per corruzione. E che ieri davanti alla Corte d'appello ha dovuto difendere la legittimità di quell'arresto, anche se il condannato ha più di settant'anni e avrebbe diritto agli arresti domiciliari. La Manna dice che è tutto regolare, perché la legge «spazzacorrotti» vieta qualunque beneficio carcerario ai condannati per tangenti: e fin qua niente di strano, anche se la difesa sostiene che una legge simile non può essere retroattiva. Ma poi il pg spiega alla Corte d'appello che in realtà Formigoni è in realtà ospite di un resort. «Ci sono carceri e carceri. C'è chi viene mandato a Opera o a Busto Arsizio, dove le celle sono strettissime. E c'è chi invece viene mandato a Bollate, un carcere a cinque stelle, celle aperte tutto il giorno, laboratorio di pasticceria, laboratorio di pelletteria, non sembra neanche un carcere». Invece un carcere Bollate lo è davvero: un carcere avanzato, dove alla privazione di libertà non vengono aggiunte le condizioni di vita umilianti di altre galere. Ma pur sempre una prigione. Ed è lì che dal 22 febbraio l'ex governatore della Lombardia sconta la sua pena, come altri milleduecento detenuti qualunque. Lo sta facendo con dignità, ma convinto di essere vittima di un'ingiustizia. Ieri, nella cella 315 dove vive insieme ad altri due condannati, Formigoni riceve una nuova visita. È Gianmarco Senna, consigliere regionale della Lega. Fa capolino, Formigoni lo riconosce, lo saluta calorosamente. È una costante, per l'ex presidente, il flusso di visitatori: sono parlamentari e consiglieri regionali, che per legge possono entrare nelle carceri. «Ho ricevuto visite di amici - racconta Formigoni a Senna - ma anche di persone che non mi sarei mai aspettato di vedere, e mi ha fatto particolarmente piacere». Nella lunga chiacchierata col leghista, Formigoni si lascia andare ad una sola lamentela: il letto. È corto, troppo corto per un omone di un metro e ottantasei, e sostituirlo con uno un po' più accogliente pare sia difficile. Ma per il resto, il Celeste - come lo chiamavano all'epoca del suo lungo regno sulla Lombardia - snocciola a Senna solo dettagli positivi. Parla del suo rapporto con la polizia penitenziaria, «eccellente». Racconta di come si è sentito accolto dagli altri detenuti, quelli che la seconda sera lo invitarono a una cella collettiva in suo onore, e che cominciano un po' alla volta a essere volti noti, familiari, ognuno con le sue storie. E indica con orgoglio la mole di fogli e di buste sul letto e nell'armadietto. Sono le lettere che gli sono arrivate da quando è entrato in carcere: sono più di mille, ogni giorno dalla matricola gliene arrivano una trentina. «Evidentemente qualcosa di buono ho fatto», sorride Formigoni. «Cerco di rispondere a tutti, uno per uno». La posta, le letture, le tante attività del carcere; ma anche la fiducia che là fuori qualcosa cambi, e che gli si apra la strada per le pene alternative cui è convinto di avere diritto. «Per piacere, fa sapere a tutti là fuori che sono sereno», dice alla fine a Senna. Ma non gli dice di essere in albergo. È in galera.

Formigoni, l'ex Re della Lombardia finisce in carcere. Ecco perché. Corruzione milionaria per i casi Maugeri e San Raffaele e niente pene alternative per la legge "Spazzacorrotti, scrive Panorama il 22 febbraio 2019. Roberto Formigoni è entrato nel carcere di Bollate dopo la condanna per corruzione confermata ieri dalla Cassazione che ha ridotto la pena a 5 anni e 10 mesi. La vicenda giudiziaria contro quello che era il "Re" della Lombardia nasce nel 2010, quando Formigoni viene eletto per la quarta volta consecutiva Governatore della Regione. La legislatura però durerà poco, tramortita da inchieste e scandali giudiziari che colpirono membri della giunta e del consiglio regionale. 

L'inchiesta Maugeri - San Raffaele.

Il 16 aprile 2012 il Corriere della Sera scrive che uno dei fiduciari svizzeri di Pierangelo Daccò, amico di Formigoni e uomo vicino a Comunione e Liberazione, è stato arrestato per aver creato milioni di fondi neri nello scandalo dell'Ospedale San Raffaele e aver distratto dal patrimonio della Fondazione Maugeri circa 70 milioni di euro sotto forma di consulenze e appalti fittizi. Inoltre avrebbe pagato viaggi aerei compiuti dallo stesso Governatore, da un suo collaboratore, a dal fratello di Formigoni e sua moglie. Tra questi benefici, un viaggio Milano-Parigi da ottomila euro, avvenuto nel dicembre 2008. 

Il 14 giugno 2012 Roberto Formigoni viene iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di corruzione e finanziamento illecito dei partiti per il caso della Fondazione Maugeri e del San Raffaele. Secondo i magistrati milanesi Daccò grazie all'amicizia con Formigoni e attraverso anche i presunti "benefit" riusciva ad ottenere fondi e delibere a lui favorevoli. Si indaga anche su un versamento da 500 mila euro da parte di un'azienda sanitaria privata e che sarebbe stato utilizzato da Formigoni per la campagna elettorale del 2010.

A luglio arriva la conferma dalla Procura di Milano: Formigoni è indagato e con lui Daccò, Antonio Simone, Umberto Maugeri e Costantino Passerino.

Nell'ottobre 2012 Daccò viene condannato a 10 anni di reclusione per associazione a delinquere, bancarotta e altri reati nell'inchiesta sul dissesto dell'ospedale San Raffaele.

Febbraio 2013. La Procura di Milano fa sapere che i capi d'accusa contro Formigoni sono aumentati e si sono aggravati. Adesso viene contestata anche il reato di associazione a delinquere.

2016, comincia il processo di primo grado. La Procura nelle carte definisce Formigoni "capo di un gruppo criminale responsabile di un sistema di corruzione durato 10 anni e che avrebbe sperperato circa 70 milioni di denaro pubblico". Formigoni contesta ogni accusa. Il processo si chiude con la condanna a 6 anni di reclusione e di interdizione dai pubblici uffici.

2018. La Corte dei Conti stabilisce il sequestro dei beni di Formigoni per un valore di 5 milioni di euro.

Nel settembre 2018 si arriva alla sentenza nel processo di appello: Formigoni viene condannato a 7 anni e 6 mesi di carcere. L'ex Governatore annuncia ricorso in Cassazione.

21 febbraio 2019. La Cassazione mette la parola fine al processo. Formigoni viene condannato a 5 anni e 10 mesi. Pur avendo 71 anni non godrà dei benefici previsti dalla legge ma andrà in carcere a causa della cosiddetta legge "Spazzacorrotti" che colpisce i condannati per reati contro la pubblica amministrazione.

Accusa e difesa: Formigoni al redde rationem. Oggi la Cassazione dovrà decidere se confermare la condanna a 7 anni e sei mesi di carcere per l'ex Governatore della Lombardia, scrive Maurizio Tortorella il 20 febbraio 2019 su Panorama. Al “redde rationem” manca poco. Oggi, davanti alla quarta sezione penale della Cassazione, inizia il “processo finale” contro Roberto Formigoni. Condannato in secondo grado a sette anni e sei mesi di reclusione per la presunta corruzione sugli investimenti sanitari della Regione Lombardia, l’ex governatore si prepara alla battaglia affiancando il penalista Franco Coppi al suo storico difensore, Luigi Stortoni. Il collegio difensivo sta preparando le ultime carte. Dovrà dimostrare l’incongruenza delle accuse che lo scorso settembre avevano portato la Corte d’appello di Milano addirittura ad aggravare la pena (in primo grado, nel dicembre 2016, Formigoni era stato condannato a sei anni), ritenendo l’ex presidente della Lombardia colpevole di avere garantito dal 2001 alla Fondazione Maugeri e all’ospedale San Raffaele una serie di provvedimenti che hanno fatto ottenere alle due strutture ricchi rimborsi e finanziamenti: circa 200 milioni soltanto alla clinica Maugeri. In Cambio, Formigoni dal 2006 avrebbe “goduto di utilità per un valore di almeno sei milioni di euro”, sotto forma di vacanze e viaggi offertigli dall’imprenditore Pierangelo Daccò, e da Antonio Simone, ex assessore regionale alla Sanità. I difensori dovranno dimostrare che di tutto questo castello d’accuse non esistano le prove. Logicamente potranno fare forza su un concetto lampante: se è vero che tra 2001 e 2006 le società presunte corruttrici consegnano a Daccò e Simone circa 25 milioni di euro per corrompere i funzionari regionali e lo stesso presidente della Lombardia, come mai fino al 2006 nulla viene effettivamente speso per Formigoni? Intervistato in novembre da Panorama, l’ex presidente aveva rivendicato due fatti incontrovertibili: non esiste alcun documento né alcuna testimonianza diretta che provino passaggi di denaro da Daccò e Simone, e non esiste un solo atto amministrativo tra quelli contestati dall’accusa che porti la sua firma. All’inizio del processo, del resto, i pubblici ministeri sostenevano che contro l’imputato fossero puntate “41 pistole fumanti”, cioè le 41 delibere della Regione Lombardia che, a dire degli stessi pm, avevano avvantaggiato la clinica Maugeri e il San Raffaele. Ma poi s’è scoperto che quelle delibere erano tutte collegiali e corrette, e così di quelle “41 pistole” nessuno ha più parlato. Da quel punto in poi, l’accusa ha fatto invece valere il concetto di una “protezione globale” che, con il suo potente ruolo di governatore, Formigoni avrebbe garantito a chi lo corrompeva. Ma i difensori insistono sul punto: tutte le delibere e le norme regionali contestate dall’accusa sono atti della giunta regionale, e quindi sono frutto della decisione non di Formigoni, ma di una collegialità formata da 17 persone. Anzi, più di una volta i provvedimenti vengono modificati, e in certi casi Formigoni deve adeguarsi al volere prevalente della giunta. Per di più, i due potenziali complici di Formigoni nell’attività di predisposizione delle delibere di giunta presumibilmente viziate da favoritismo, e cioè Nicola Sanese, segretario generale della Regione, e Carlo Lucchina, direttore generale della sanità, sono stati assolti definitivamente e con formula piena dall’accusa di concorso in corruzione. In altri casi, le norme contestate sono state approvate non dalla giunta, ma addirittura dal consiglio regionale: la legge che nel dicembre 2007 investì 3 miliardi di euro per il miglioramento degli ospedali (all’85% pubblici e al 15% privati), per esempio, era stata votata in massa anche dalle opposizioni di sinistra. Agli atti ci sono i verbali che certificano il voto favorevole dei consiglieri del Pd: 78 a favore su 80, con un solo contrario e un astenuto. Possibile che Formigoni riuscisse a condizionare anche i suoi avversari politici? Inoltre, se davvero ci fossero stati specifici favoritismi, perché nessun ospedale concorrente ha mai cercato di contrastare i presunti “regali” presentando un ricorso al Tar? Uno dei punti più controversi riguarda infine la prova che l’accusa ha utilizzato per dimostrare che Formigoni abbia attinto per anni a fondi non suoi. I pubblici ministeri hanno mostrato le carte bancarie dalle quali emerge che Formigoni, in alcuni anni, non ha praticamente usato i suoi conti correnti: questa sarebbe la dimostrazione del fatto che, evidentemente, l’ex presidente trovava altrove il denaro da usare per le sue spese quotidiane. Ma Formigoni si è difeso ricordando le caratteristiche organizzative della sua vita nella comunità religiosa dei “Memores domini”: all’interno della comunità, a inizio d’anno, ogni membro consegna la sua cifra pro-quota a un amministratore comune. È soltanto per questo se dai conti correnti dell’ex governatore non compaiono spese ricorrenti, né uscite quotidiane. E del resto anche Ernesto Carile, il colonnello della Guardia di finanza alla guida degli inquirenti della polizia giudiziaria, ha ammesso in udienza che per l’amministrazione della casa dai conti di Formigoni sono usciti “più o meno 500mila euro in dieci anni”. Quindi la sua quota di bollette, spese condominiali, pulizie, acquisti alimentari e di ogni genere. Ora la partita sta per riaprirsi, per la terza volta. Ma in questo caso la parola passa ai supremi giudici della Cassazione. Formigoni ha sempre detto di sperare molto “che ci sia un giudice a Roma”. Per saperlo, non dovrà attendere molto.

Roberto Formigoni è in carcere a Bollate: l'ex governatore si è costituito dopo la conferma della condanna. Ieri sera la conferma della Cassazione per l'accusa di corruzione nell'inchiesta Maugeri. I legali di Formigoni chiedono i domiciliari: "Ha più di 70 anni e la “Spazzacorrotti” non ha valore retroattivo", scrive Luca De Vito il 22 febbraio 2019 su La Repubblica. L'ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni è arrivato in carcere a Bollate, dopo la conferma in Cassazione - ieri sera - della condanna per corruzione a 5 anni e 10 mesi (dai 7 e mezzo iniziali). Il sostituto procuratore generale di Milano Antonio Lamanna ha firmato alle 9.30 di questa mattina l'ordine di esecuzione della pena per l'ex governatore e ad eseguire il provvedimento sono stati delegati i Carabinieri: ma nel frattempo, eludendo giornalisti e fotografi appostati sotto casa sua, Formigoni si è costituito spontaneamente a Bollate. Gli avvocati Mario Brusa e Luigi Stortoni hanno presentato questa mattina una istanza di sospensione dell'ordine di esecuzione, chiedendo quindi - come ci si aspettava - che la pena venga scontata ai domiciliari. Perché, sostengono, Formigoni ne avrebbe diritto in quanto ultra 70enne (ha 72 anni) e anche perché la “Spazzacorrotti” appena introdotta dal nuovo governo non si applicherebbe a questa sentenza in quanto legge posteriore ai fatti oggetto del processo. Il sostituto pg Lamanna, per adesso, ha inviato l'istanza dei difensori di Formigoni alla Corte d'Appello, che dovrà decidere, allegando però il suo parere negativo. L'istanza, quindi, non ferma l'ordine di carcerazione, ma verrà valutata successivamente.

Roberto Formigoni si è consegnato in carcere a Bollate, prima l'ultima sorpresa: come frega i giornalisti, scrive il 22 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dopo la condanna in Cassazione a 5 anni e 10 mesi, Roberto Formigoni si è consegnato in carcere. Di sua volontà. L'ex governatore, però, ha riservato l'ultima sorpresa: è riuscito ad eludere giornalisti e fotografi assiepati sotto casa sua. Ne attendevano l'uscita, ma non è stato visto da nessuno. Eppure si è appreso che Formigoni si è costituito al carcere di Bollate. Il sostituto procuratore generale di Milano Antonio Lamanna ha firmato alle 9.30 di questa mattina, venerdì 22 febbraio, l'ordine di esecuzione della pena per l'ex governatore e ad eseguire il provvedimento erano stati delegati i Carabinieri, i quali però non hanno avuto bisogno di entrare in azione. Nel frattempo, gli avvocati del Celeste provano a giocarsi la carta dei domiciliari. I legali Mario Brusa e Luigi Stortoni hanno infatti presentato un'istanza di sospensione dell'ordine di esecuzione, chiedendo quindi - ed era attesto - che la pena venga scontata ai domiciliari. Perché, sostengono gli avvocati, l'ex governatore della Lombardia ne avrebbe diritto in quanto ultra 70enne (ha 72 anni) e anche perché la cosiddetta legge "Spazzacorrotti" appena introdotta dal nuovo governo non si applicherebbe a questa sentenza in quanto legge posteriore ai fatti oggetto del processo. Il sostituto pg Lamanna, si apprende, ha inviato l'istanza dei difensori di Formigoni alla Corte d'Appello, seppur corredata da un parere negativo. L'istanza verrà valutata successivamente alla carcerazione.

Formigoni in galera, è battaglia sui benefici. Polemica sulla retroattivà della nuova legge sull’anticorruzione, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 Febbraio 2019su Il Dubbio. E alla fine Roberto Formigoni entrò in carcere. Da solo, senza attendere la notifica da parte dei carabinieri dell’ordine di esecuzione della pena. L’ingresso all’istituto penitenziario di Bollate, alle porte di Milano, è avvenuto ieri mattina. Numerosi erano i giornalisti ad attendere l’ex presidente della Regione Lombardia, condannato in via definitiva a cinque anni e dieci mesi nel processo sulle fondazioni Maugeri e San Raffaele. Secondo i giudici, il Pirellone avrebbe modificato la legge sul no profit e riconosciuto fondi per le funzioni non tariffabili, per favorire la Maugeri e il San Raffaele con rimborsi pubblici. In cambio, a Roberto Formigoni sarebbero state concesse varie utilità, come viaggi in posti esotici o soggiorni in alberghi di lusso. L’ex presidente della Regione Lombardia “paga” dunque per tutti. I dirigenti che hanno materialmente redatto le delibere, frutto degli asseriti accordi corruttivi, erano stati infatti assolti già in primo grado. Mai indagati, poi, i consiglieri regionali e i componenti della sua Giunta che avevano votato negli anni i provvedimenti prezzo della corruzione. Ma tant’è. L’ordine di esecuzione della pena era stato firmato dal sostituto procuratore generale di Milano Antonio Lamanna. Gli avvocati di Formigoni, Mario Brusa e Luigi Stortoni, hanno però presentato già ieri mattina istanza per la sua sospensione, chiedendo per il proprio assistito i domiciliari. Due i motivi alla base dell’istanza: il primo anagrafico, in quanto Formigoni è ultra 70enne (compirà 72 anni fra qualche giorno); il secondo perché le nuove disposizioni anti corruzione appena introdotte dal Governo non si applicherebbero a questa sentenza in quanto legge posteriore ai fatti oggetto del processo. La legge “Spazzacorrotti”, come noto, ha inserito i reati contro la PA nell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. Cioè fra i reati, come quelli per mafia e terrorismo, ostativi a tutti i benefici penitenziari, tranne la liberazione anticipata. Lamanna, ricevuta l’istanza dei difensori di Formigoni, ha trasmetto le carte, allegando il proprio parere negativo, alla quarta sezione penale della Corte d’Appello, la stessa che condannò Formigoni in questo processo a sette anni e mezzo, per la decisione. Che si prevede avverrà in tempi rapidi. Secondo la tesi prevalente, le norme sull’esecuzione della pena introdotte dallo “Spazzacorrotti” riguardano il diritto processuale e non il diritto sostanziale. Altrimenti non sarebbe stato possibile una riforma in “pejus”. La riforma sta facendo già molto discutere su questo punto. Per quanto attiene l’esecuzione della pena, invece, sarà il giudice Gaetano La Rocca del Tribunale di sorveglianza del capoluogo lombardo ad occuparsi del detenuto Formigoni. La Rocca, prima di andare in Sorveglianza, era presidente del collegio che ha condannato Formigoni in primo grado a sei anni. Da quanto si apprende, il ruolo di magistrato di Sorveglianza non sarebbe però incompatibile con il ‘ suo’ condannato da giudice. In questa grande “confusione” giudiziaria non è da escludersi che venga sollevato un conflitto davanti alla Corte costituzionale. Lo “Spazzacorrotti” potrebbe essere messo in discussione per aver violato il principio della ragionevolezza della previsione. In caso fosse, sarebbe però alquanto difficile avere una risposta in tempi rapidi. Alla Consulta occorrono molti mesi solo per la fissazione dell’udienza. A favore dello Spazzacorrotti ci sarebbe, comunque, l’autonomia del legislatore in tema di esecuzione della pena. Al momento, quindi, l’unica strada che potrebbe portare Formigoni “fuori” dal carcere è l’incompatibilità per motivi di salute. Una strada che chi conosce bene l’ex presidente della Regione Lombardia sa bene non verrà mai percorsa.

Formigoni e gli eccessi della legge Spazza-Corrotti. Un giudice di Como trasferisce un condannato dal carcere ai domiciliari, negando la retroattività della norma. Ora potrebbe toccare all’ex governatore, scrive Maurizio Tortorella il 10 marzo 2019 su Panorama. Dallo scorso 22 febbraio l’ingresso di Roberto Formigoni nel carcere milanese di Opera, a causa della sua condanna definitiva per corruzione, ha giustamente riacceso il dibattito sugli eccessi e sulle forzature introdotte nel nostro ordinamento dalla legge che i grillini hanno ribattezzato "Spazza-corrotti". Com’è noto, pur avendo 72 anni, l’ex presidente della Regione Lombardia non ha potuto andare agli arresti domiciliari (come avrebbe potuto sino a poche settimane fa) proprio perché la legge, stabilendo un’inedita equiparazione tra i delitti contro la Pubblica amministrazione e i reati di criminalità organizzata, ha precluso ai condannati per corruzione l'accesso ai benefici penitenziari. In molti, ancor prima che la norma si applicasse al caso di Formigoni, ne avevano criticato la logica. Perché la Spazza-corrotti (entrata in vigore il 9 gennaio 2019, e intitolata "Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici") è in realtà una norma-bandiera voluta dal Movimento 5 stelle e dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. E in nome del più brutale “populismo giudiziario” ha escluso per i reati contro la Pubblica amministrazione sia l’affidamento in prova ai servizi sociali, sia la possibilità di scontare la pena agli arresti domiciliari: per ogni reato di peculato e corruzione, insomma, oggi c’è soltanto il carcere, con l’ingresso immediato del condannato in una struttura detentiva. Ma è sempre più evidente che la Spazza-corrotti presenta profili gravemente anticostituzionali. La legge, infatti, non prevede norme transitorie, quindi è stata già applicata retroattivamente in svariati casi. E anche in quello di Formigoni, che il 21 febbraio è stato condannato a 5 anni e mezzo di reclusione dalla Cassazione per reati che avrebbe commesso al più tardi entro il 2011. Ma ora anche l’ex presidente della Regione Lombardia può forse cominciare a sperare. Perché ieri un giudice di Como, per la prima volta, ha escluso l’applicazione retroattiva della legge e ha sospeso un ordine di carcerazione: ha ordinato così al pubblico ministero di mettere ai domiciliari un avvocato che era stato condannato a 4 anni di reclusione per peculato. E non sembra lontano il momento in cui un giudice finalmente chiederà alla Corte costituzionale si pronunciarsi sulla “Spazza-corrotti”. Non soltanto sull’aspetto, gravissimo in sé, della sua retroattività. Ma anche su quello del suo equilibrio giuridico. Perché la norma ha illogicamente posto un peculato anche del valore di poche migliaia di euro, o una corruzione per una modestissima utilità, sullo stesso identico piano della “presunzione di pericolosità” che in passato era prevista esclusivamente per i condannati per i ben più gravi reati di mafia e di criminalità organizzata, ma anche di terrorismo e strage. Ma questa decisione del legislatore, ed è questo il cuore del problema, sembra contrastare con i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza, e soprattutto con l’articolo 27 della Costituzione in base al quale ogni pena dovrebbe “tendere alla rieducazione del condannato”. Al contrario, stabilendo un'ingiustificata preclusione all'accesso alle misure non detentive, cioè quelle più tese a favorire la finalità rieducativa della pena, ed equiparando in modo illogico la pericolosità dei condannati per corruzione ai condannati per reati di mafia, la Spazza-corrotti sembra violare in più parti il dettato costituzionale. Del resto, nel 2010 è stata la stessa la Consulta a ricordare (con la sentenza numero 265) che "le presunzioni legali, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza se sono arbitrarie o irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati”.

Formigoni dopo la prima notte in carcere a Bollate: "E' sereno e combattivo". L'ex governatore, da ieri detenuto dopo la condanna definitiva per corruzione, ha incontrato gli operatori del carcere. Messaggio a familiari e amici: "Siate forti". Con lui in cella il coimputato Passerino, il reparto è lo stesso di Stasi e Boettcher, scrive il 23 febbraio 2019 La Repubblica. "Voglio che sappiano che devono essere forti": il messaggio arriva dall'ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, da ieri detenuto nel carcere di Bollate, ed è rivolto ai suoi amici, familiari e sostenitori che - dopo la conferma della Cassazione della condanna definitiva per corruzione a 5 anni e 10 mesi - stanno scrivendo messaggi di solidarietà e protesta per la decisione di mandare in carcere Formigoni. L'ex governatore è stato destinato a una cella che divide con altri due detenuti con pena definitiva (entrambi italiani) nel I reparto della casa circondariale, un'ala dove si trovano generalmente persone dai 50 anni in su, un ambiente definito come un luogo tranquillo, dove le celle sono aperte dalle 8 alle 20 e dove c'è libertà di spostamento non solo sul proprio piano, ma in tutta la palazzina di competenza. Nello stesso reparto sono detenuti anche Alberto Stasi, condannato per l'omicidio di Chiara Poggi, e Alexander Boettcher, condannato per le aggressioni con l'acido. In cella, però, Formigoni sarebbe con un suo coimputato: Costantino Passerino, l'ex direttore amministrativo della clinica Maugeri, che si è visto rigettare il ricorso e confermare dalla Cassazione la pena di 7 anni e 7 mesi inflitta in appello. Le sue prime parole dal carcere arrivano dopo la giornata di ingresso, iniziata alle 10 di ieri, quando Formigoni si è presentato spontaneamente a Bollate, mentre i carabinieri erano a casa sua per consegnargli l'ordine di esecuzione della pena firmata dal sostituto procuratore generale di Milano Antonio Lamanna. E chi ha avuto modo di parlare con Formigoni dopo la prima notte in carcere fa sapere che ha trovato l'ex governatore "forte". "Sereno, combattivo" lo definisce anche Mario Brusa, il suo avvocato che gli ha fatto visita questa mattina. "Da parte degli altri detenuti è venuta una grande comprensione - ha spiegato Brusa che l'ha incontrato stamani -: gli chiedono di che cosa ha bisogno, in una realtà in cui mai avrebbe pensato di trovarsi, anche se non appare scosso". Da quanto ha fatto sapere il cappellano di Bollate, Formigoni avrebbe chiesto di partecipare alla messa di domani. L'ex presidente della Lombardia non sarebbe apparso abbattuto. Camicia, maglione con la zip e pantaloni scuri, ha iniziato la mattina incontrando gli operatori del carcere. Assicura di star bene e di non avere problemi. La sua preoccupazione è però per gli altri, per la sua famiglia. E così ripete che "si devono far forza quelli che sono fuori, che sanno tutta la storia: voglio che sappiano che devono essere forti". Proprio questa mattina un lungo applauso per lui è scattato durante l'evento 'Mettere in cantiere la crescita', organizzato da Forza Italia al Palazzo delle Stelline a Milano.  A ricordare l'impegno di Formigoni, che ha militato a lungo in Forza Italia e due giorni fa è stato condannato dalla Cassazione per corruzione a 5 anni di carcere, è stato il consigliere milanese Pietro Tatarella.

Formigoni va a messa. E i compagni in prigione cucinano per lui. Dopo la prima notte nel carcere di Bollate, scrivono Cristina Bassi e Luca Fazzo, Domenica 24/02/2019, su Il Giornale. È sereno, combattivo, pensa al dolore della famiglia. E ha chiesto di poter partecipare alla messa delle 10 di oggi. Roberto Formigoni ha trascorso tranquillamente la prima notte nel carcere di Bollate, dove si è presentato dopo la condanna definitiva a cinque anni e dieci mesi per la corruzione nel caso Maugeri e dove ieri mattina ha incontrato uno dei difensori, Mario Brusa. «Si trova in una realtà in cui mai avrebbe pensato di trovarsi - spiega l'avvocato - anche se non appare scosso. Ha ricevuto grande comprensione e simpatia da parte degli altri detenuti, che gli chiedono di continuo di cosa ha bisogno. Da persona estremamente intelligente qual è, sta trovando il modo di adattarsi all'ambiente in cui si trova». L'accoglienza al nuovo arrivato in carcere è stata buona. La prima cena dell'ex governatore lombardo, quella di venerdì, è stata preparata per lui dai compagni. La cella di Formigoni è la numero 315, condivisa con altri due italiani di mezza età. L'ex senatore ha con sé il rosario e due libri scelti per i primi giorni della sua nuova vita: La banalità del male di Hannah Arendt e un manuale sull'industria 4.0. Il Primo reparto è quello riservato ai detenuti non più giovani o a quelli le cui vicende hanno suscitato particolare clamore mediatico. Nella stessa palazzina di quattro piani, in cui le celle sono aperte dalle 8 alle 20 e si può circolare liberamente su tutti i livelli, si trovano anche Alexander Boettcher, condannato per i delitti con l'acido, Alberto Stasi, a Bollate per l'omicidio di Chiara Poggi, e Costanino Passerino, l'ex manager della clinica Maugeri che deve scontare sette anni e sette mesi per gli stessi fatti contestati al Celeste. Ieri mattina Formigoni ha incontrato gli operatori della casa di reclusione. Al suo legale ha assicurato di stare bene e di non avere problemi. Si preoccupa per i familiari e per chi gli è stato vicino. «Si devono fare forza quelli che sono fuori - ripete -, che sanno tutta la storia. Voglio che sappiano che devono essere forti». L'altro legale dell'ex governatore, Luigi Stortoni, aggiunge: «Il presidente Formigoni sta soffrendo serenamente dopo la sentenza della Cassazione che ha sancito una grande ingiustizia. Ha dimostrato come sempre una grande dignità e un grande coraggio nell'affrontare anche questa situazione». Nelle prossime ore il sostituto pg di Milano Antonio Lamanna inoltrerà il proprio parere negativo all'istanza di sospensione dell'esecuzione della pena e di concessione dei domiciliari avanzata dalla difesa. A decidere sarà la Quarta sezione della Corte d'appello, la stessa che ha inflitto la condanna di secondo grado. Ieri intanto un lungo applauso è stato dedicato dalla sala a Formigoni durante il convegno dal titolo «Mettere in cantiere la crescita» organizzato da Forza Italia al Palazzo delle Stelline.

Roberto Formigoni. Filippo Facci e il trucco con cui negano i domiciliari all'ex governatore, scrive il 23 Febbraio 2019 Filippo Facci su Libero Quotidiano. Il troglodita medio - il grillino, insomma - gioisce perché Roberto Formigoni non andrà in detenzione domiciliare, e questo per ragioni che val la pena di spiegare anche a prescindere dal suo caso. Al suo caso, questo sì, è associata anzitutto una mancata volontà politico-giudiziaria di favorirlo: Formigoni è antipatico a molti e nessuno si dannerà per trovare quel genere di scappatoie che la giustizia è sempre in grado di trovare, se vuole: ma non vuole. Al suo specifico caso, pure, è legato il paradosso che il magistrato di sorveglianza che deciderà sulla detenzione domiciliare di Formigoni è lo stesso giudice che condannò Formigoni in primo grado: si chiama Gaetano La Rocca e ai tempi, dicembre 2016, era presidente della decima sezione penale del tribunale: gli diede 6 anni. Il primo spunto di riflessione, quindi, è che la giustizia italiana, quando vuole, sa essere velocissima, visto che tra il primo grado e la Cassazione sono passati solo due anni e due mesi. Secondo spunto: a quanto pare, e lo dice la legge, un magistrato di sorveglianza può tranquillamente rioccuparsi di un suo condannato. Il terzo spunto di riflessione è legato al fatto che questo giudice, pur non avendo ancora valutato gli atti e avendo tempo per farlo, pare abbia già deciso: ieri l'agenzia Ansa titolava «Pg Milano pronta dire no a domiciliari Formigoni», spiegando che «negli uffici giudiziari si fa notare che il reato di corruzione, in base alle norme della "spazzacorrotti", è ostativo alle misure alternative al carcere». Il che è vero. La mentalità medievale grillina ha recentemente introdotto la corruzione tra i reati che non prevedono la concessione di misure alternative al carcere e altri benefici penitenziari: questo in compagnia di reati di sangue, di mafia, terrorismo, estorsione eccetera. Un' assurdità immotivata se non dalla bassa demagogia di chi seguita a dipingere la corruzione tra i principali problemi del Paese, dato acclaratamente falso. I legali di Formigoni, in tal senso, hanno già cercato di sostenere che la legge «spazzacorrotti» (che appunto ha reso ostativa la corruzione) essendo molto recente non può essere applicata al caso in specie perché è peggiorativa rispetto a quando i fatti-reato sono accaduti: purtroppo la giurisprudenza della Cassazione ha già chiarito che le norme sull' esecuzione della pena sono applicabili a un processo in corso, che nel caso di Formigoni si è appena concluso. Ma sono anche altre le ragioni per cui Formigoni non andrà in detenzione domiciliare, che non va confusa con gli arresti domiciliari che sono una misura cautelare legata alle indagini preliminari. Una ragione è che Formigoni sta benissimo, o così risulta: avere 71 anni, o anche 80 o 90, non rende automaticamente incompatibili con la carcerazione, ma permette solo di presentare un'istanza affinché il tribunale di sorveglianza valuti se le condizioni di salute siano idonee a stare in carcere. Un' altra regola spesso dimenticata è che la detenzione domiciliare non potrebbe essere concessa per più di quattro anni: Formigoni è stato condannato a più di cinque. Insomma, gli spunti di riflessione proseguono e vanno tutti nella direzione di una totale discrezionalità dei magistrati, eventualmente contraddetti soltanto da altri magistrati. La verità, banale, è che la detenzione domiciliare in Italia viene concepita come un premio o un ripiego e non come una soluzione, spesso concessa a chi debba scontare un residuo di pena non superiore a due anni, anche se dal 2012 esiste anche una detenzione domiciliare speciale prevista solo per gli ultimi 18 mesi di pena. In qualche caso c' è il problema che molti il domicilio manco ce l'hanno (per varie ragioni) e neppure parliamo delle concessioni particolari legate alle madri o padri con prole infante. Ma la stiamo mettendo troppo sul tecnico. Quello che stiamo trascurando è che la detenzione domiciliare rappresenta probabilmente il futuro della detenzione, essendo meno costosa - le spese sono a carico del detenuto - e riservando solo a individui realmente pericolosi la costruzione di galere sempre insufficienti e sovraffollate. Ma alla grassa ignoranza grillina non puoi opporre temi di diritto o l'articolo 27 della Costituzione: «Formigoni è solo il primo», tuonava ieri un tronfio Stefano Buffagni, sottosegretario alla presidenza del Consiglio che era tutto contento perché qualcuno andava in galera: «Niente più favori per i colletti bianchi e la politica». Lontani i tempi in cui alcune persone normali, che avevano studiato e che erano addirittura competenti, facevano il ministro della Giustizia - come Paola Severino del governo Monti, o Anna Maria Cancellieri del governo Letta - e proponevano che la detenzione domiciliare potesse essere comminata direttamente dal giudice, senza bisogno di passare in seguito dal tribunale di sorveglianza. Le stesse norme prevedevano la possibilità di non far entrare in carcere chiunque avesse compiuto i 70 anni. Soluzioni futuribili - interrotte assieme alle legislature - a cui gli stati moderni sono mediamente già arrivati, forse perché non hanno dovuto fare i conti col ritorno all' età della pietra che la visione vendicativa e frustrata dei trogloditi grillini sta tornando a imporre. Gioendo, ora, per il carcere imposto a una persona che ha contribuito a rendere la Lombardia una delle ragioni più avanzate d' Europa come loro, i grillini, non riuscirebbero a fare in cento, mille delle loro inutili vite. Filippo Facci

Formigoni in cella. Perché? Perché è un peccatore. All’ex governatore non contestano mazzette ma un tenore di vita eccessivo…, scrive Tiziana Maiolo il 23 Febbraio 2019 su Il Dubbio. In uno Stato liberale il peccatore Roberto Formigoni non sarebbe mai comparso davanti a un giudice in toga. Piuttosto, in quanto credente, avrebbe avuto a che fare con un tribunale non meno severo e con l’inferno di severe penitenze per i suoi comportamenti, con l’aggravante della recidiva. Il personaggio è ingombrante, e ai magistrati non sta simpatico. Perché li tratta con arroganza, non si assoggetta, non si lascia interrogare, sbuffa come un cavallo imbizzarrito contro chi voglia mettergli le redini. Anche le redini della giustizia, del processo, e infine del carcere, cui da ieri è schiacciato, dopo la condanna a cinque anni e dieci mesi. Formigoni in cella. Perché? Perché è un peccatore. La sentenza, oggi definitiva, sancisce che Roberto Formigoni, nei 18 anni in cui è stato presidente (e anche un po’ monarca) della Regione Lombardia, abbia barattato finanziamenti consistenti all’ospedale S. Raffaele e all’Istituto Maugieri non con elargizioni economiche ma con l’offerta di un tenore di vita impensabile per un casto e sobrio “Memores Domini”. Poco importa il fatto che a partire da quegli anni la Lombardia abbia raggiunto i livelli della migliore Europa nell’assistenza sanitaria e che, grazie al sapiente intreccio pubblico- privato creato da Formigoni e la sua squadra, qualunque donna abbia potuto partorire senza spesa anche nella migliore clinica esistente. Poco importa il fatto che ogni delibera non sia stata l’imposizione di un dittatore, ma sia stata sempre approvata sia in giunta che in consiglio. Poco importa di tutto ciò a uno Stato che si arroga il diritto di giudicare i comportamenti. E magari di sovrapporre il reato al peccato, decidendo, come teorizzato dai filosofi politici dello Stato etico Hobbes e Hegel, quale debba essere il comportamento “politicamente edificante”. Se a questo aggiungiamo il fatto che in questa tipologia di società non esiste la divisione dei poteri voluta da Montesquieu (e prima di lui dal liberale John Locke), ne risulta che il giudizio su Roberto Formigoni appare come una decisione “di Stato”. Una pietra tombale sulla sua vita, prima ancora che sui reati per i quali è stato condannato. Certo, alcuni comportamenti di vita del Celeste non sono stati proprio “edificanti” agli occhi dei Grandi Moralisti di Stato. Partiamo dal suo abbigliamento, sempre glamour sgargiante e impeccabile, che lui indossava anche leggermente ondeggiando, quasi si trovasse sul red carpet invece che nei luoghi istituzionali. Inappropriato? Certamente diverso. Va anche aggiunto il fatto che Formigoni usa incedere, più che camminare. E questo lo mette fuori, decisamente. Ma forse quel che più disturba è quella parte un po’ segreta di ognuno di noi che ha a che fare con gli affetti e la sessualità. E’ noto a tutti che l’ex Presidente della Regione Lombardia facesse parte (e con loro vivesse in comunità) del gruppo dei Memores Domini, laici che avevano fatto voto di povertà e di castità. Ma a volte sentimenti e pulsioni ti portano oltre, chiedi il permesso di un passo indietro e ti viene rifiutato. E magari ti ribelli. Esci dal cliché. Ma non ottieni il perdono dello Stato. E così, belle vacanze in luoghi da sogno, crociere su barche lussuose, la possibilità di acquistare una casa in Sardegna da un amico che ti fa un prezzo speciale, l’immagine distorta di un mezzo frate che in realtà se la gode, vive sopra le righe e chissà che altro combina e chissà con chi. Pare poco rilevante quel che ha detto invano in Cassazione il professor Coppi: perché ci sia corruzione occorre dimostrare un concreto nesso di causalità tra un provvedimento (in questo caso finanziamenti a due ospedali privati) e il “compenso” ricevuto, pur se non sotto forma di mazzette ma di tenore di vita. Invece i giudici hanno soppesato e valutato il tenore di vita come se si trattasse di soldi. E giudicato il peccatore come un delinquente. “Troppo Stato conduce alla non libertà”, dice Popper. E il peccatore Formigoni è stato condotto in carcere.

Formigoni, tanto odio tanto onore, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 23/02/2019, su Il Giornale. A poche ore dall'aver sottratto a un processo, che per quanto ingiusto avrebbe portato a condanna sicura, il loro ministro degli Interni i grillini esultano per l'arresto di un altro politico, Roberto Formigoni, e se ne attribuiscono pure il merito per via di una recente legge che annulla i benefici ai condannati ultra settantenni. Garantisti e addirittura per l'immunità quando i fatti riguardano se stessi, manettari con tutti gli altri: questi sono i Cinque Stelle che in queste ore stanno offrendo uno spettacolo indegno di una forza di governo. Il fatto non mi sorprende, da tempo sappiamo di che pasta umana e politica è fatta questa gente. Roberto Formigoni è stato condannato in via definitiva a cinque anni di carcere per il reato di «antipatia e arroganza» anche se la storia, come già dimostrano le numerose e trasversali dichiarazioni di queste ore, lo assolverà e sarà ricordato come un grande governatore. Provino i grillini a chiedere al «popolo lombardo» che opinione ha dell'era Formigoni, della qualità degli ospedali, dell'assistenza, delle reti di trasporto e delle infrastrutture in generale che con la «ricetta Formigoni» un mix di pubblico efficiente e privati eccellenti ha fatto decollare la regione verso standard europei. E poi facciano la stessa domanda ai romani e ai torinesi le cui città sono precipitate per l'incapacità e l'insipienza delle sindache Cinque Stelle. Sarebbe un sondaggio assai interessante. D'accordo, Roberto Formigoni non era un mostro di simpatia ma è stato politico di grande talento che ha sempre tenuto i conti pubblici a lui affidati ben in ordine. Chi se ne frega delle sue vacanze in Sardegna ospite di ras della sanità lombarda. È scivolato sull'ego, come tutti i sessantenni ha pensato che una botta di vita non fa male a nessuno ma non per questo deve finire i suoi anni in cella come un criminale comune quando le soluzioni e punizioni potevano essere ben altre se solo si fosse usato equilibrio e buon senso giudiziario. Cosa che sarebbe stata possibile se non fossimo precipitati in un clima politico di caccia alle streghe avvelenato dall'odio e dall'invidia. La politica del «più manette per tutti», ovviamente non per loro e i loro parenti stretti (non c'è solo il padre di Renzi, ballano anche quelli di Di Maio e Di Battista ma ce lo siamo già dimenticati), farà soffrire tante persone ma non porterà da nessuna parte. Tanto odio, tanto onore.

Il caso Formigoni, le parole di Davigo: i dubbi di un garantista. L’ex presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, non dovrebbe stare in carcere, scrive Valter Vecellio il 28 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Carissimo Dubbio, chi se non a voi, a questo giornale, “dubbioso” di nome e per costituzione, affidare il mio turbamento e, anche, sgomento?

Il primo. A costo di esser scambiato per un simpatizzante di Roberto Formigoni (non lo sono mai stato); a costo di far credere di avere qualche simpatia per don Luigi Giussani e Comunione e Liberazione (mai avute, anche quando tutti ai meeting di Rimini ci correvano o si dispiacevano per i mancati inviti): ora mi sembra che siano delle grandi carognate, quelle di chi spara addosso a un Formigoni in ginocchio; spesso sono gli stessi che nulla dicevano quando era potente (e prepotente). Vecchia regola, essere forte coi deboli, e debole coi forti. Regola e comportamento ignobili, ripugnanti. Cattivi. Trovo inoltre incivile che Formigoni (e, beninteso, chiunque), a 72 anni sia chiuso in una cella (quale sia la cella), di un carcere (quale sia il carcere). Trovo inconcepibile che un giudice debba impiegare un mese per stabilire se Formigoni può o non può scontare la sua pena in forme diverse dalla detenzione carceraria. Quel Formigoni integralista e intollerante, che faceva falsificare arrogantemente le firme per le liste elettorali, e per questo è stato condannato; quel Formigoni che vedeva come fumo negli occhi Marco Pannella, acerrimo nemico di ogni iniziativa politica dei radicali, dei libertari, degli autentici laici e socialisti liberali; quel Formigoni che ne avrà fatte di tutte e di più. Proprio perché è Formigoni dico quello che dico. Sì, devo proprio confessare che, potessi farlo, andrei a stringere la mano di Formigoni. Oggi, sì.

Secondo motivo di turbamento e di sgomento. Piercamillo Davigo, componente del Consiglio Superiore della Magistratura, rilascia una lunga intervista a La Stampa. Dice che la commissione “incarichi” di cui fa parte, è la più sgradevole: «Chi vince non ti è grato perché convinto di meritarlo, gli altri ti ritengono responsabile della mancata nomina». Conviene scomporre la frase. Se chi vince è convinto di avere i titoli per meritare il posto ambito, perché mai dovrebbe essere grato a Davigo o a chiunque altro? Se lo merita. E perché Davigo o chiunque altro si attende “gratitudine”? Si dice “grazie” per un favore ricevuto. Se non c’è favore ma diritto, perché si deve essere grati? Veniamo agli “altri”: quelli che non hanno vinto; per quale contorto pensiero devono pensare che non è per mancanza di sufficiente titolo e merito, ma per mancato appoggio? Ecco sarebbe necessario approfondire la cosa con qualche ulteriore domanda (e risposta).

L’altro passaggio è quello relativo ai risarcimenti e alle ingiuste detenzioni. Davigo sostiene che in «buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca». Di per sé, nulla di nuovo: Davigo ha sempre detto che per lui il mondo si divide tra colpevoli e quelli che non sono stati scoperti (per sapere: Davigo, tra queste due categorie, dove si colloca? Oppure si deve pensare che non sia parte dell’umanità?); il farla “franca” accade perché di «norma le prove raccolte nelle indagini non valgono in dibattimento. Ciò allontana il giudice dalla verità. Per non dire dell’Appello, dove buona parte delle assoluzioni dipende dalla difficoltà di conoscere a fondo il processo». A questo punto mi sento di dire (nei paesi dove diritto ha un senso è così): Davigo fornisca le prove a sostegno di accuse così gravi; quali sono gli innocenti che sarebbero colpevoli di averla fatta franca? Ne faccia nomi, cognomi, indirizzi. Quali i processi d’appello celebrati nonostante la difficoltà di conoscere a fondo il processo.

Il ministro della Giustizia: di fronte ad accuse così gravi, circostanziate mosse da un autorevole componente del Csm, promuove almeno un’indagine conoscitiva sul presunto fenomeno? Qualche parlamentare presenta interrogazioni al ministro in questo senso, “semplicemente” per sapere? Mi si perdonerà il “cattivo” pensiero. Ma ogni volta che ascolto o leggo Davigo in automatico il pensiero al presidente della Corte Suprema Riches, immaginato da Leonardo Sciascia ne Il contesto; in particolare, il passaggio dove Riches parla dell’amministrazione della giustizia, un qualcosa simile al mistero della transustanziazione: il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo: «Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dall’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione, il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo…». Tutta colpa, conclude, di Voltaire, degli illuministi; in sostanza dei laici. Questa concezione della giustizia/ transustanziazione è il problema, la questione; e s’arriva, come si è arrivati, al punto che si tratta di difendere lo Stato, ma tutti noi, da coloro che lo Stato lo rappresentano; abbiamo uno Stato detenuto, che andrebbe liberato, ma anche solo aprire “semplici” crepe è faticosissimo. Lo si vede, se ne ha pratica, concreta dimostrazione ogni giorno. Davigo- Riches dice cose da far, letteralmente, tremare le vene ai polsi. L’indifferenza con cui queste affermazioni sono accolte, tra gli stessi colleghi di Davigo che dovrebbero essere i primi a insorgere, è ulteriore motivo di preoccupazione.

Il Celeste, figlio prediletto di don Giussani. Il ritratto di Roberto Formigoni di Paolo Delgado del 24 Febbraio 2019 su Il Dubbio.  Li chiamavano "gli extraparlamentari della Dc" (copyright L’Espresso, nel 1975). Era una definizione azzeccata come poche: solo nel clima di quegli anni poteva nascere e crescere con la velocità di una pianta liofilizzata un movimento come quello dal quale proviene l’ex potentissimo oggi sulle porte del carcere. Origini affondate negli anni ‘ 50. Padre fondatore don Luigi Giussani, con una visione molto diversa dalla holding tentacolare nella quale si è trasformata nel corso del tempo la sua creatura. Quando nel 1954 fondò Gioventù Studentesca, inizialmente come articolazione interna dell’Azione cattolica, don Giussani avvertiva «l’urgenza di proclamare la necessità di tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali». Il Vaticano storceva un po’ il naso, l’Azione cattolica pure. Destava sospetti l’abbattimento della tradizionale divisione tra maschi e femmine, si sa che in questi casi il peccato è sempre in agguato. Suscitava perplessità la tendenza dei giovani studenteschi a muoversi ‘ sul territorio’, come si direbbe oggi, snobbando le parrocchie. Ma il proselitismo funzionava, il gruppo calamitava giovani e il cardinal Montini, futuro Paolo VI, chiuse entrambi gli occhi: "Non capisco i suoi metodi ma vedo i frutti: vada avanti così". Il dubbio sulla promiscuità si rivelò presto infondato. Al contrario Gioventù studentesca è all’origine di uno tra i principali ‘ scandali’ degli anni ‘ 60, uno di quei fatti di cronaca destinati a segnare un’epoca. Sul giornaletto studentesco del pregiato liceo Parini di Milano, La Zanzara, uscì nel febbraio 1966 un’inchiesta sulla sessualità delle studentesse. GS restò scandalizzata e denunciò «l’offesa recata alla sensibilità e al costume morale comune» e il caso finì in Tribunale, nonché sulle colonne dei giornali di mezzo mondo. I primi accusatori, comunque si smarcarono dalla richiesta di condanna penale, invocata invece dalla Dc. Invano: gli osceni e amorali furono assolti. Il secondo addebito, quello di privilegiare il territorio alla parrocchia, si rivelò invece la carta vincente dei giovani giussaniani. Quando l’onda del ‘ 68 spazzò via gli insediamenti tradizionale, GS, che nel 1969 si era ribattezzata Comunione e Liberazione e nei primi anni ‘ 70 si era affrancata dall’Azione cattolica, era quasi l’unica forma di cattolicesimo movimentista capace di reggere l’urto tra i giovani. Presero botte dai rossi e anche dai neri, qualche volta finirono pure nel mirino dei gruppi armati, ma si radicarono nelle università e poi nelle scuole. Montini, ormai pontefice da parecchio, confermò la benedizione direttamente a Giussani: «Vada avanti così. E’ la strada buona». Mancava solo un passetto per approdare alla politica vera e propria, e a spingere in quella direzione fu un giovanotto che dal 1970, a 23 anni, era anche “Memores Domini”, con tanto di voti di castità, obbedienza e povertà, nel ‘ gruppo’ che nel frattempo si era dotato di strutture e livelli organizzativi avanzati ed efficienti. Già militante nella Dc, Roberto Formigoni da Lecco, fonda nel 1975 il Movimento popolare, che un po’ fiancheggia un po’ si contrappone in alcune tornate elettorali alla Balena bianca. Nel ‘ 78 arriva anche l’approdo nei media con la fondazione del Sabato. Nel 1984 Formigoni è il primo eletto alle elezioni europee nelle liste Dc: 450mila preferenze. Nel 1986 nasce la Compagnia delle Opere, associazione nazionale di aziende e cooperative che dovrebbe costituire la ‘ terza via’ tra statalismo e liberismo. In realtà è lo sbarco in grande stile nel mondo dell’economia. Grande? Grandissimo. La CdO ha 41 sedi in Italia ed è presente in 17 Paesi esteri. Riunisce 34mila imprese e 1000 imprese no- profit. La cooperativa La Cascina, coinvolta in un congruo numero di storiacce, è l’ammiraglia nel mondo delle cooperative bianche. Il fatturato annuo si aggirerebbe intorno ai 70 mld. Una superlobby economica che fa a sua volta parte di una lobby che estende i tentacoli ovunque: tra le gerarchie ecclesiastiche, nel mondo dell’economia e naturalmente in politica. Quando la Dc frana con tempi e modalità che ricordano il repentino crollo del Muro di Berlino il filosofo di riferimento dei Cl, Rocco Buttiglione, si ritrova segretario del partito che ne vorrebbe prendere il posto: il partito popolare. Buttiglione è espressione compiuta della destra cattolica, ma lo affiancano invece esponenti della sinistra Dc, in particolare il potente responsabile dell’organizzazione Franco Marini, ex segretario della Cisl. Buttiglione mira a far risorgere la Dc, con le sue correnti interne capaci di convivere, ma i tempi sono cambiati e il primo a capire che bisogna guardare da un’altra parte, in direzione Arcore, è proprio Formigoni. Quando, dopo pochi mesi, il Ppi si scinde Formigoni è quello che più tira verso Fi e infatti di lì a poco proprio il partito azzurro sostituirà lo scudo crociato come sponda politica di Cl. Tempi che oggi sembrano lontani. Il potentissimo ex governatore se la gioca tra galera e arresti domiciliari. Buttiglione è fuori gioco da anni. Maurizio Lupi, l’altro rappresentante del movimento all’interno di Fi, è deputato ma in un partito in fase di accelerato declino. Per Cl e perla Compagnia delle Opere, oggi, il problema che si pone con massima urgenza è trovare al più presto un nuovo referente politico, e la Lega sta lì apposta.

Marco Travaglio e Vauro, la vergogna indecente su Roberto Formigoni: come lo umiliano in prima sul Fatto, scrive il 23 Febbraio 2019 su Libero Quotidiano. Formigoni in mutande da bagnante davanti al carcere di Bollante. E la scritta: "Glielo spieghi tu che questo è un bagno penale?". Così Vauro ridicolizza in prima pagina sul Fatto Quotidiano l'ex governatore della Lombardia, finito in gattabuia per corruzione. Formigoni deve scontare la condanna a cinque anni e dieci mesi che gli è stata inflitta giovedì dalla Cassazione per la vicenda Maugeri. Ieri si è presentato spontaneamente al penitenziario accompagnato in auto dal suo legale. Vestito con un cappotto scuro, è entrato senza fermarsi dalla porta carraia e si è poi avviato a piedi verso l'ingresso. La difesa di Roberto Formigoni ha depositato una istanza per chiedere la detenzione domiciliare per l'ex governatore lombardo. La richiesta è stata presentata dall'avvocato Mario Brusa, suo storico difensore, al sostituto procuratore generale di Milano Antonio Lamamma. La richiesta si basa soprattutto sull'età anagrafica dell'ex governatore, che ha superato i 70 anni. Per questo, secondo i suoi legali, Formigoni avrebbe il diritto di beneficiare della detenzione domiciliare.

Formigoni: "Andare in carcere? Non ho paura". L'ultima intervista esclusiva di Panorama all'ex Governatore della Lombardia condannato in Cassazione a 5 anni e 10 mesi, scrive Maurizio Tortorella il 21 febbraio 2019 su Panorama. Ha paura? «No, nemmeno un po’. Se mi fermo a pensarci, però, divento pazzo». Roberto Formigoni, 71 anni e per 18 presidente della Lombardia (ma per una vita anche senatore, deputato, europarlamentare) tutto sembra, tranne che pazzo. Eppure, anche dalle carte che gli ingombrano il tavolo, è chiaro che la sua vicenda giudiziaria continua a riempirgli i pensieri, senza sosta. In settembre, la Corte d’appello di Milano l’ha condannato a sette anni e sei mesi di reclusione per le presunte corruttele sulla sanità lombarda. Una condanna confermata in Cassazione, ridotta a 5 anni e 10 mesi. Formigoni ora dovrà scontare la pena nel carcere di Bollate: «Non ne ho paura» conferma lui «e posso dire di non averne mai avuta, anche in situazioni che rischiose erano per davvero. Comunque non mi sono neanche mai sottratto a un processo: ne ho subiti 18, finendo assolto in 16 e prosciolto in due».

Quindi in questi mesi non ha mai pensato di scappare?

«Sa che me l’hanno anche suggerito? Ma no, non c’è verso. Io non scapperei mai».

Lo sa che Piero Calamandrei, il grande giurista che fu anche uno dei padri costituenti, diceva: «Se m’accusano di avere rubato la torre di Pisa, mi do alla latitanza»?

«No, non lo farei mai. Perché so di essere innocente. Perché spero di trovare un giudice a Roma. E perché sono un uomo delle istituzioni. Certo, mi amareggia essere finito in questo processo senza una sola prova contro di me, e sono anche preoccupato per lo Stato di diritto».

E se alla fine dovesse andare male?

«Da uomo, soffrirei la condanna e il carcere come l’ingiustizia finale. Da cattolico, però, accetterei la prova, sia pure con sofferenza e ribellione: so che il Signore può chiederci il sacrificio. Certo, a 71 anni mi sarei augurato di vivere una «terza età» più tranquilla».

Già. Le hanno anche sequestrato la pensione...

«Nel 2014, a dire il vero, mi hanno sequestrato tutto; proprietà, automobile, conti correnti. Mesi fa la Corte dei conti mi ha bloccato anche la pensione. E non si è fermata, come credo accada sempre in questi casi, a un quinto del mio assegno, che è sopra i 4 mila euro: me l’ha preso per intero».

E quindi, oggi, di che cosa vive?

«Faccio consulenze».

Chi la difenderà in Cassazione?

«I miei due avvocati, Mario Brusa e Luigi Stortoni, mi hanno proposto di coinvolgere Franco Coppi, uno dei più grandi cassazionisti d’Italia: il professore ha letto tutte le carte e poi ha accettato la difesa, con grande convinzione. M’è parso un ottimo segnale. Ora abbiamo appena presentato il ricorso. La Corte deciderà la data dell’udienza. Poi...»

Lei dice che non c’è una sola prova contro di lei. Come fa a dirlo?

«Confermo. Non c’è un solo atto contestato dall’accusa che porti la mia firma. All’inizio del processo, i pubblici ministeri dicevano che contro di me c’erano «ben 41 pistole fumanti»: le 41 delibere della Regione che avevano avvantaggiato la clinica Maugeri. Ma poi s’è scoperto che tutte erano corrette».

Lei, però, era il potente presidente della Regione...

«E infatti, cadute le 41 pistole fumanti, è stato fatto valere il concetto di una «protezione globale» che, da governatore, io avrei garantito personalmente a chi mi corrompeva. C’è soltanto un piccolo problema».

Quale?

«Tutte le norme contestate dall’accusa o sono atti della Giunta regionale, e quindi in quel caso frutto della decisione di 17 persone. Oppure sono state approvate dal consiglio regionale: la legge che nel 2006 investì 3 miliardi per il miglioramento degli ospedali, per esempio, era stata votata anche dalle opposizioni. Agli atti ci sono verbali che certificano il voto favorevole dei consiglieri del Pd: 78 a favore su 80, un solo contrario e un astenuto. E io sono l’unico colpevole? E di che cosa, poi? Di un atto politico votato praticamente da tutti?»

Con quei fondi non è stata avvantaggiata soprattutto la sanità privata?

«Questa è una delle accuse che mi fanno impazzire, come quella di avere sottratto soldi ai malati. Quei fondi sono stati usati per migliorare le cure, per nuove attrezzature, per assumere personale. Per questo le opposizioni non avevano potuto fare altro che votare a favore. All’85 per cento, tra l’altro, quei fondi erano andati agli ospedali pubblici, e solo per il 15 ai privati. E sulla base di controlli rigorosi».

E i favori che lei avrebbe ricevuto? L’accusa parla di 6 milioni di euro spesi per lei: vacanze, yacht...

«Ho avuto la colpa di avere amici danarosi.

Dal 1980 Pietro Daccò (l’imprenditore condannato a nove anni, ndr) organizzava le sue vacanze con 30 amici. Invitava anche me. Dov’è il reato? Ripeto, non c’è nulla che il presidente della Lombardia possa decidere o fare, in solitudine. E difatti non c’è un solo atto con la mia firma».

L’accusa ha però sostenuto che lei non abbia quasi usato i suoi conti correnti per anni: non è una prova?

«Già. È stato detto che avrei avuto ogni cosa pagata da altri. Ma è soltanto un’altra falsità, e un’altra sofferenza. Si sa che io vivo in una comunità religiosa (i «Memores domini», ndr): al suo interno, a inizio anno, ognuno consegna la sua cifra pro-quota a un amministratore comune. È per questo che dai miei conti non compaiono spese ricorrenti, o uscite quotidiane».

Dopo la condanna d’appello, tra i suoi amici c’è chi si è allontanato?

«Sì, ma non ne voglio fare i nomi. Sono molto più numerosi, comunque, quanti mi sono rimasti vicini. È anche grazie a loro, e alla mia famiglia, che resisto».

E per strada ha mai avuto problemi?

«Problemi? Intende dire gente che si manifestasse aggressiva? No, per nulla. Mai. Pensi che qualche giorno fa un gruppo di ragazzini sui 16 anni mi ha chiesto di fare un selfie con loro. Buffo: quando ero presidente avranno avuto non più di dieci anni...»

Davvero? Nemmeno una critica?

«Oh, qualche critico si trova sempre. Un giorno, uno passava in bici mi e ha gridato dietro: «Pirla!». Ho incontrato anche alcuni che volevano discutere. In due casi su tre, però, se ne sono andati quasi scusandosi, ogni volta dicendo: «Questo proprio non lo sapevo». È la testimonianza che c’è stato bisogno di distruggermi con falsità mediatiche. Come quella sui 49 milioni che mi avrebbero sequestrato».

Falso anche quello?

«Totalmente. Nel 2014 la Procura aveva ordinato il sequestro, «fino a 49 milioni di euro», nei confronti di tutti gli imputati. Chi più aveva, più si è visto sequestrare. A me non hanno trovato molto. Eppure certi giornali hanno scritto: «Sequestrati 49 milioni a Formigoni». Malgrado tutto, comunque, la strada è con lei... Mi capita molto spesso di essere fermato da persone, soprattutto anziani, che mi dicono: «Quando c’era lei, la sanità funzionava meglio». Anche questo mi fa impazzire».

Che cosa?

«Che abbiano cercato di distruggere non solo la mia immagine, ma anche tutto quello che era stato fatto. Non ci sono riusciti, però: perché la gente, quando ha sperimentato il bene, non dimentica».

Ci sono stati avversari che le hanno manifestato solidarietà, vicinanza?

«Alcuni. Mi ha fatto molto piacere lo abbia fatto un mio predecessore che stimo: Piero Bassetti, uno che di certo non può ascriversi alla mia parte, visto che ha sostenuto tutti gli ultimi candidati di sinistra a sindaco di Milano».

Che spiegazione si dà, per tutto quel che le è accaduto?

«Ho avuto potere. Tra 2010 e 2011 ero il presidente della Lombardia per la quarta volta consecutiva. Ero stato designato come il possibile successore di Silvio Berlusconi alla guida del centrodestra. Avevo fatto riforme positive. Può bastare?»

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 22 febbraio 2019. Si impegnano allo scopo di spedire in carcere Formigoni, condannandolo a una pena esagerata, 5 anni e 10 mesi, che per un uomo di 71 anni è un mezzo ergastolo. Sarebbe troppo quand' anche fosse colpevole, però non ho capito dove stiano le prove della corruzione. Non gli hanno trovato una lira, gli rimproverano qualche giro in barca. Gli hanno imputato l'acquisto di una villa in Sardegna a prezzi di favore, ma chiunque di noi che ha provato a vendere una casa sa che il valore di un immobile è aleatorio, e l'incasso preventivato dai periti è quasi sempre il doppio della realtà di mercato: e a certificarlo sono le aste proprio dei Tribunali. In cambio di un paio di vacanze ai Caraibi, il Formiga avrebbe autorizzato sovvenzioni a cliniche private per l'acquisto di macchinari d' avanguardia. Nessuno ha potuto dimostrare che si sia trattato di un trattamento di favore. L'unica cosa sicura è che con lui la Regione Lombardia, di cui è stato governatore per quasi vent' anni, è diventata non in Italia ma in Europa la terra d' eccellenza della medicina: pubblica e privata non c' è differenza, in quanto ogni cittadino ha acquisito il diritto, grazie alla sua riforma, di scegliersi l'ospedale. Se fosse vivo Umberto Veronesi, confermerebbe. Se ci fosse bisogno di una prova a discolpa, peraltro ormai inutile, essa consiste nell' accanimento e nella voluttà con cui si è stabilito di appioppare proprio a lui, e - a memoria di archivio - solo nel suo caso, il massimo dei massimi di quanto la legge prevede. Non basta. Nel frattempo, quasi ad Formigonum, il Parlamento, su pressione manettara dei grillini, ha stabilito che se il reato è la corruzione (e qui - ripeto - non se ne vede la prova) puoi essere entrato nella terza età, ma niente domiciliari, niente minestra da far sorbire ai vecchietti degli ospizi, esercizio con il cucchiaio in cui si esibì magnificamente Berlusconi. Per Formigoni niente vecchietti ma lucchetti: prigione, gattabuia, gabbio. Ci sono violentatori cui sono stati dati i domiciliari, i ladri romeni che si sono presi una schioppettata all' ennesimo furto hanno patteggiato dieci mesi con la condizionale. Ciononostante se una volta sei stato potente, vale la massima di Mao Tse Tung: bastona il cane che affoga. Lo si era capito da tempo che Formigoni era stato destinato alla galera. Mi era bastato osservare il corredo di fotografie e di filmati che sui giornali e in tivù hanno circostanziato le accuse, suggestionando il tribunale del popolo: il delitto di giacca arancione e di chiappa al vento sulla barca. Pessimi costumi, tali da escluderlo dal club della caccia, ma non crimini per cui includerlo nel circuito penitenziario. Immaginavo pertanto che la Cassazione non si sarebbe discostata dalla linea segnata dal Palazzo di Giustizia di Milano, eppure mi restava un margine di dubbio. Finché ho avuto la certezza assoluta di come sarebbe finita (male) la faccenda. È stato quando la Chiesa, a nome della Madonna, lo ha scaricato alla vigilia della udienza finale. È accaduto che il pro-rettore del Santuario di Caravaggio (provincia di Bergamo, ma diocesi - sottolineo da bergamasco - di Cremona) avendo saputo che privatamente, senza striscioni, un gruppo di amici di Formigoni aveva organizzato di andare a messa nella basilica dedicata a Santa Maria del Fonte, patrona della Lombardia, per chiederle soccorso in vista della sentenza, ha scomunicato l'iniziativa con tanto di comunicato ufficiale. Il senso? Qui si celebrano le Messe per i barconi, non per Formigoni. Che tristezza. Quando il cosiddetto Celeste, col manto della Vergine, era governatore della Lombardia i preti lo incensavano, e a ragione: aveva trovato la strada per sostenere le scuole cattoliche e gli oratori, mostrando come ciò fosse un guadagno perfino per i miscredenti. Probabilmente, se morisse, gli rifiuterebbero il funerale. Per quanto mi riguarda, se me lo lasceranno fare, gli porterò le arance in carcere. Poserei anche una corona di fiori in morte della giustizia. Non lo farò solo perché voglio bene a Formigoni, ma non al punto di condividere l'ora d' aria con lui per vilipendio della magistratura.

Caso Maugeri, via libera al sequestro di pensione e vitalizi di Formigoni: 5 milioni di euro.  Il giudice della Corte dei Conti di Milano: "Gravissimo storno di denari pubblici a fini privati", scrive il 16 agosto 2018 La Repubblica. Per il "gravissimo sistema illecito di storno di denari pubblici a fini privati" che ha trovato "ampi riscontri, oltre ogni ragionevole dubbio" nelle indagini sul caso Maugeri, è stato convalidato il sequestro disposto dalla procura della Corte dei Conti di 5 milioni di euro (compresi vitalizi, pensione, conti correnti e immobili) all'ex governatore lombardo Roberto Formigoni, di 4 milioni a Umberto Maugeri, ex presidente della Fondazione, di 4 milioni all'ex direttore finanziario Costantino Passerino e di 10 milioni a testa al faccendiere Pierangelo Daccò e all'ex assessore regionale Antonio Simone. A dare l'ok è stato il giudice Vito Tenore con un provvedimento depositato la vigilia di Ferragosto e nel quale si accoglie la ricostruzione dei pm Antonino Grasso e Alessandro Napoli, guidati da Salvatore Pilato, che hanno contestato ai principali protagonisti della vicenda giudiziaria un danno erariale di circa 60 milioni di euro e, di conseguenza, hanno firmato provvedimenti cautelari bloccando le quote del presunto profitto realizzate da ciascuno per un totale di 30 milioni. In sede penale per la stessa vicenda che riguarda le tangenti nella sanità, Formigoni è già stato condannato a sei anni in primo grado, il prossimo 19 settembre è attesa la sentenza d'Appello. Quando nel mese di giugno uscì la notizia del sequestro preventivo, l'ex governatore, interpellato dai giornalisti, definì la notizia una fake news: "Nulla posseggo - disse all'epoca - tutto quanto possedevo (poco in realtà) mi è stato già sequestrato da anni, per ordine della magistratura". Come si legge nel provvedimento di convalida del sequestro conservativo milionario, si legge che c'è un "numero poderoso di riscontri probatori" che testimoniano un "danno erariale" dato dai "plurimi fatti corruttivi posti in essere dal 2006 al 2011 dai vertici della fondazione Maugeri (...) nei confronti di Formigoni", tramite Daccò e Simone, "per ottenere, con interferenze nel procedimento decisorio, più rilevanti finanziamenti pubblici regionali (rispetto a quelli dovuti per servizi innegabilmente resi dalla clinica Maugeri come riconosciuto anche in sede penale) e sviando inoltre poderose somme di denari pubblici - prosegue il giudice in un passaggio dell'atto datato 14 agosto - destinati ai fini di rilevante e basilare interesse sociale (cure mediche)". Il giudice, che sposa in pieno la ricostruzione delle sentenze penali, ha ribadito che Formigoni, indicato come "pubblico ufficiale corrotto", avrebbe percepito "rilevantissime utilità, per oltre 5 milioni di euro", in viaggi, vacanze, ristoranti, alberghi, l'uso della villa in Costa Smeralda e così via, in cambio di interventi e atti amministrativi regionali "ispirati a una logica di evidente favoritismo" nei confronti della fondazione con sede a Pavia. Vicende queste che "non sono state plausibilmente smentite dal Formigoni fornendo spiegazioni alternative (...) ai fatti, specie con riguardo alle enormi ed anomale utilità ricevute".

Caso Maugeri, il processo a Roberto Formigoni: le tappe di una vicenda lunga 7 anni. Dai primi passi dell'inchiesta, nel 2012, alla condanna a sette anni e mezzo in Appello per l'ex governatore della Lombardia, scrive il 21 febbraio 2019 La Repubblica. Ecco le tappe della vicenda giudiziaria che ha coinvolto l'ex presidente della Regione Lombardia ed ex senatore di Forza Italia, Roberto Formigoni.

13 aprile 2012. Con l'accusa di avere distratto 56 milioni di euro dalla Fondazione Maugeri di Pavia, vengono arrestati nell'ambito di un'inchiesta della procura di Milano, l'ex assessore alla Sanità lombardo Antonio Simone, il direttore amministrativo del polo sanitario Costantino Passerino, il consulente Gianfranco Mozzali, il commercialista Claudio Massimo e l'uomo d'affari Pierangelo Daccò. Ai domiciliari il presidente della Fondazione, Umberto Maugeri. Le accuse a vario titolo sono riciclaggio, appropriazione indebita, associazione per delinquere, frode fiscale, fatture false. Dagli atti spunta il nome del Presidente della Regione Roberto Formigoni.

14 aprile 2012. Il Celeste, come era stato soprannominato Formigoni, dà mandato ai legali del Pirellone di querelare le testate giornalistiche che "hanno parlato delle vicende legate alla Fondazione Maugeri come di vicende riguardanti la Regione Lombardia".

16 aprile 2012. Vengono pubblicati sulla stampa i verbali in cui Giancarlo Grenci, fiduciario svizzero di Daccò indagato per associazione per delinquere, mette in relazione l'uomo d'affari e Formigoni: "So che erano in rapporti d'amicizia e che risultano pagamenti con carte di credito di viaggi". La replica del governatore lombardo: "Un presidente di Regione conosce tanta gente, nulla di male ad aver passato alcuni di giorni di vacanza con Daccò".

12 giugno 2012. La portavoce di Formigoni precisa che il governatore non è indagato.

16 luglio 2012. La guardia di Finanza sequestra a sei indagati, tra i quali Daccò, uno yacht di 30 metri, mille bottiglie di vini pregiati per un valore di oltre 300mila euro, 34 immobili, auto, moto e quote di società, oltre a 50 conti correnti riconducibili agli indagati. La procura ipotizza l'esistenza di un'associazione a delinquere transnazionale finalizzata a plurimi reati. Emergerebbe l'esistenza di oltre 70 milioni di fondi neri accumulati negli anni e di cui Daccò era il 'tesoriere'.

25 luglio 2012. Il capo della procura di Milano Edmondo Bruti Liberati rende noto con un comunicato che Formigoni è indagato per corruzione aggravata dal carattere transnazionale. Secondo la ricostruzione della procura, Formigoni avrebbe favorito con 15 delibere del Pirellone la Maugeri in cambio di un lungo elenco di "utilità", il cui valore ammonterebbe a 8 milioni e mezzo di euro. "Almeno 4 milioni - rivela un'informativa della Guardia di Finanza - sarebbe lo 'sconto' di cui avrebbero goduto Formigoni e Alberto Perego (ndr Memores Domini convivente del Celeste) cui Daccò ha venduto una villa in Sardegna".

12 febbraio 2013. I pm Laura Pedio, Antonio Pastore e Gaetano Ruta notificano l'avviso di chiusura delle indagini al presidente della Lombardia e ad altre 16 persone tra cui, oltre a Daccò, Simone e agli ex vertici della Maugeri, a Nicola Maria Sanese, segretario generale della Regione e al dg dell'assessorato alla Sanità Carlo Lucchina. Formigoni ironizza: "Pensavo mi accusassero anche di omicidio e di strage e quindi posso dichiararmi soddisfatto. Dov'è la corruzione? Qui la corruzione la gh'è minga. Non è reato essere stato ospite a cena insieme ad altre 50 persone o per qualche weekend".

8 maggio 2013. La procura chiede il rinvio a giudizio per gli indagati. L'accusa per Formigoni è di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione.

27 settembre 2013. La Fondazione Maugeri esce di scena patteggiando davanti al giudice preliminare un risarcimento complessivo di sedici milioni di euro.

15 novembre 2013: 'falsa partenza' per l'udienza preliminare che viene subito rinviata perchè la Corte d'Appello di Milano ha accolto l'istanza di ricusazione del gup Maria Cristina Mannocci (che aveva già giudicato e condannato Daccò per il San Raffaele), presentata dalla difesa di Simone.

17 febbraio 2014. I pm ribadiscono la richiesta di rinvio a giudizio per Formigoni e gli altri indagati. Sulla richiesta deciderà il gup, Paolo Guidi. Nel corso della discussione, il pm Pedio parla di tre flussi di denaro al centro del "sistema" individuato dall'accusa: uno che sarebbe andato dalla Fondazione Maugeri e dal San Raffaele verso l'uomo d'affari Pierangelo Daccò e l'ex assessore al Pirellone Antonio Simone, entrambi imputati; un secondo dagli stessi Daccò e Simone sarebbe consistito in utilità a vantaggio di Formigoni; infine, un terzo sarebbe andato dalla Regione a Maugeri e San Raffaele. Formigoni 'risponde' (fuori dall'aula): "Dov'è la novità? è da qualche anno che i pm di Milano chiedono il mio rinvio a giudizio, ma non sono mai riusciti a dimostrare la mia colpevolezza".

3 marzo 2014. La procura chiede il rinvio a giudizio per Formigoni e altre 12 persone.

10 aprile 2014. Il Tribunale di Milano dispone il sequestro preventivo di tutti i conti di Formigoni motivandolo col recupero dei profitti dai reati contestati al presidente della Regione. Il sequestro ammonta a 49 milioni di euro e comprende una villa che Formigoni vendette nel 2011 a un prezzo ritenuto di favore a un suo coinquilino nella comunità ciellina dei 'Memores Domini'.

16 APRILE 2014. Arrivano le prime pene nell'inchiesta. Paolo Mondia, fiduciario dell'ex direttore centrale della struttura Costantino Passerino, e Gianfranco Parricchi, amministratore di una società, patteggiano davanti al gup Paolo Guidi rispettivamente le pene a un anno e dieci mesi e due anni e quattro mesi.

4 novembre 2014. La Fondazione San Raffaele del Monte Tabor patteggia un milione di euro di sanzione pecuniaria e altri 9 milioni le vengono confiscati come provento del reato di corruzione. E' accusata di avere violato la legge 231 del 2001 sulla responsabilità degli enti per reati commessi dai propri dipendenti.

18 novembre 2015. L'ex presidente della Fondazione, Umberto Maugeri, patteggia 3 anni e 4 mesi dopo aver messo sul piatto un risarcimento ai fini della confisca di 3 milioni e 850mila euro.

15 aprile 2016. La Procura chiede 9 anni di carcere per Formigoni. "E' stata una gravissima corruzione sistemica durata dieci anni che ha assunto le forme dell'associazione a delinquere con importi enormi messi in gioco. Questo processo ha dimostrato quanto la corruzione possa essere devastante per il sistema economico: settanta milioni sono usciti dalle casse dello Stato per essere usati in una serie di benefit, due enti erogatori, San Raffale e Maugeri al collasso, imprenditori che hanno depredato i loro enti. Il modo di operare dei componenti dell'associazione a delinquere è stato un cancro".

16 maggio 2016. Nelle arringhe difensive, i legali di Formigoni sostengono che "è un processo basato sulla persona più che sui fatti, il bilancio della sanità lombarda è l'unico andato in pareggio".

22 dicembre 2016. Formigoni viene condannato dai giudici della X sezione penale di Milano a 6 anni di carcere per corruzione, mentre per i giudici non è provata l'accusa di associazione a delinquere. Quest'ultima, per la difesa, "è un'ottima notizia in vista dell'appello". Nei confronti del 'Celeste' viene disposta anche la confisca di 6,6 milioni di euro. Condannati anche Daccò (9 anni e due mesi) e Simone (8 anni e otto mesi). Cinque le assoluzioni.

20 giugno 2017. Nelle motivazioni alla sentenza, i giudici spiegano che a Formigoni "non possono essere riconosciute le attenuanti generiche non essendo emerso, all'esito del dibattimento, alcun elemento di valutazione positiva dei gravi fatti posti in essere dalla più alta carica della Regione per un lungo periodo, con particolare pervicacia sotto il profilo del dolo, con palese abuso delle sue funzioni".

22 maggio 2018. Durante il processo d'appello, Daccò (2 anni e sette mesi) e Simone (4 anni e otto mesi) patteggiano. Anche Formigoni chiede di patteggiare ma la Procura rigetta l'istanza perchè non ritiene congrua la pena indicata dalla difesa del 'Celeste' a due anni di carcere.

21 giugno 2018. La procura regionale della Corte dei Conti lombarda esegue un sequestro conservativo per un valore di cinque milioni a carico di Formigoni " a garanzia del credito risarcitorio dell'amministrazione regionale, a fronte della commissione di illeciti dolosi".

19 settembre 2018. I giudici della Corte d'Appello alzano la pena a Formigoni a 7 anni e mezzo di carcere. Nelle motivazioni che vengono depositate a ottobre, i giudici ribadiscono la scelta di non concedergli le generiche anche per le altre pendenze giudiziarie che ha in corso. Il riferimento è a un'altra inchiesta sulla sanità che lo vede indagato assieme all'ex consigliere regionale Gianluca Guarischi. Per i giudici, "non basta l'amicizia a spiegare più di 640mila euro per cinque capodanni di cui sarebbe stato beneficiario".

Roberto Formigoni, tutte le inchieste in cui è stato coinvolto. Otto procedimenti penali a partire dal '97 (dal crac di Lombardia Risorse al caso Maugeri): in cinque casi è stato assolto, prosciolto o archiviato, scrive il 21 febbraio 2019 La Repubblica. Sono cominciati nel 1997, con il crac di Lombardia Risorse, i guai giudiziari per Roberto Formigoni. Escluse le due condanne per aver diffamato i Radicali, nei suoi confronti sono stati aperti 8 procedimenti penali. In 5 casi è stato assolto, prosciolto o la sua posizione è stata archiviata.

Crac Lombardia Risorse. Nel 1997 è indagato per bancarotta con altre persone per il fallimento di Lombardia Risorse, controllata dalla Regione. Nel 2001 viene prosciolto dal gup.

Discarica Cerro Maggiore. Nel settembre 2000 riceve un invito a comparire per abuso d'ufficio per irregolarità nella gestione della discarica di Cerro Maggiore. Nel 2005 viene assolto dal Tribunale.

Fondazione Bussoleri Branca. Nel gennaio 2001 è tra gli indagati, solo per abuso di ufficio, nell'indagine sulla fondazione Bussolera Branca. Nell'ottobre 2002 viene assolto con i coimputati in primo grado, sentenza confermata in appello e in Cassazione.

Inchiesta su Pm10 Milano. Il primo dicembre 2009 riceve un avviso di garanzia con Letizia Moratti e altri in un'inchiesta, poi archiviata, sullo sforamento dei limiti di PM10 a Milano.

Discarica Cappella Cantone. Nel 2013 è tra gli indagati per corruzione per il caso della discarica di Cappella Cantone (Cremona). L'accusa viene modificata in induzione indebita e nel 2014 per una imputazione viene prosciolto e per l'altra archiviato.

Inchiesta su presunte tangenti nella sanità. Nel 2013 viene indagato per corruzione e turbativa d'asta per presunte tangenti in cambio di appalti nella sanità lombarda con altre persone tra cui l'ex consigliere regionale Massimo Guarischi. Per questa vicenda è sotto processo davanti al Tribunale di Cremona.

Esondazioni fiume Seveso. E' indagato con altri, tra cui il suo predecessore e alcuni ex sindaci, per disastro colposo. Il fascicolo è ancora aperto.

Maugeri-San Raffaele. Nel giugno 2012 viene indagato per corruzione aggravata dalla transnazionalità con altre persone, tra cui Daccò e Simone per il caso Maugeri. Per la Procura ha "svenduto la sua funzione" in cambio di utilità come viaggi, vacanze e cene. Stessa ipotesi per il filone sul San Raffaele. Nel febbraio 2013 con i coimputati viene accusato di associazione per delinquere. Nel dicembre 2016 viene condannato a 6 anni per corruzione, assolto per l'associazione. Lo scorso settembre in appello la pena aumenta a 7 anni e mezzo. La Corte dei Conti ha disposto il sequestro di 5 milioni. 

Ascesa e declino del Celeste tra lusso, figuracce e inchieste. Sino al 2012 sembrava un re intoccabile. A tradirlo è stata la sete di potere, ostentata con ristoranti stellati, vacanze e yacht, scrive Luca Fazzo, Venerdì 22/02/2019 su Il Giornale. Già nel 2012 per cogliere gli scricchiolii della lunga era di Roberto Formigoni non serviva annusare l'aria nei corridoi della Procura. Bastava fargli visita nel suo ufficio all'ultimo piano del Pirellone-bis, il nuovo grattacielo della Regione Lombardia. Era in quella stanza sterminata, nel punto più alto della città, che l'ego da Nabucco del Celeste manifestava il suo straripamento. L'orgoglio (legittimo) per i successi politici e amministrativi trasmutava in mania di grandezza: ed inevitabilmente, passo dopo passo, nella perdita di contatto con la realtà. È lì, ben prima che nei processi, che entra in crisi il sistema di potere formigoniano. Tutto quello che accade dopo, e che viene crudamente alla luce, si spiega solo con la perdita della percezione non tanto di ciò che è illegale quanto di ciò che è semplicemente immorale o inopportuno. E che Carla Vites, amica di una vita e moglie del suo coimputato Antonio Simone, descriverà spietatamente: i vizi di «Robertino», dai ristoranti stellati di Milano «ai locali a la page della Costa Smeralda dove il nostro Governatore seguiva come un cagnolino al guinzaglio Daccò»: Piero Daccò, terzo vertice del triangolo magico con Formigoni e Simone, gli amici di bisbocce divenuti la cabina di regia della Sanità modello Lombardia. Quando Daccò finì in galera, Formigoni pensò di cavarsela con una battuta quasi blasfema: «Anche Gesù aveva dei collaboratori sbagliati». A lungo, nella suo regno quasi ventennale, era sembrato che un «effetto Teflon» tenesse al riparo Formigoni dai guai giudiziari: gli avvisi di garanzia finivano regolarmente in niente, e in niente finivano anche i tentativi di inguaiarlo di rimbalzo, facendo perno sugli aspetti più surreali della sua grandeur: come i contatti con Saddam Hussein e Tareq Aziz per alleviare gli effetti dell'embargo sulla popolazione irachena, ricompensati - secondo una strampalata inchiesta dell'Onu - con qualche milione di barili di greggio. Non capivano, i giudici, che a muovere il Governatore non era la sete di quattrini (nessuno gli ha mai consegnato un euro, neppure secondo le inchieste) ma la libidine del potere: di cui i pranzi, le vacanze, gli yacht, le ville erano l'orpello e la conferma. Come lo erano a loro modo le giacche improbabili che lo facevano a volte apparire come una imitazione della imitazione di Crozza. Dovette dimettersi per un reato non suo, i rapporti con la 'ndrangheta dell'assessore Zambetti. Cade, e non poteva essere diversamente, sul fronte che era anche il suo orgoglio: la trasformazione della sanità lombarda in un business efficiente e redditizio, una macchina in grado di soddisfare tanto i bisogni dei pazienti che le casse di pochi e selezionati soggetti privati. Una scommessa vincente, ma che - per gli interessi mostruosi che muoveva - doveva essere tutelata da una visione quasi monastica dei rapporti personali. Il Formigoni de l'Etat c'est moi non se ne rendeva più conto.

"Le sue politiche liberali resteranno un unicum". Il conduttore Mediaset: «Rimango allibito per i suoi guai giudiziari ma ne riconosco i meriti», scrive Stefano Zurlo, Venerdì 22/02/2019, su Il Giornale. È il giorno del giudizio. Che non può cancellare quel che Roberto Formigoni ha saputo costruire in quasi vent'anni di guida della Regione Lombardia. Paolo Del Debbio, volto popolare delle reti Mediaset, presto in onda con un nuovo talk, «Diritto e rovescio», traccia un bilancio che non può appiattirsi sull'aritmetica giudiziaria: «Formigoni ha preso il mitico programma liberale del '94, quello sbandierato da tutti e poi puntualmente rimesso in qualche cassetto, e l'ha fatto diventare realtà. Non tutto per carità, ma i suoi meriti, al di là delle vicende giudiziarie, che pure mi lasciano perplesso, mi paiono innegabili».

Da dove cominciamo? Dalla sanità?

«Certo. Prima c'erano gli ospedali per i ricchi, e quelli per i poveri, di solito strutture pubbliche di livello inferiore».

Il cambiamento?

«L'intuizione giusta è stata quella di inserire il pubblico e il privato in un unico circuito virtuoso, attraverso il sistema degli accreditamenti, e di aprirlo a tutti i cittadini, senza le divisioni e le barriere di prima».

Ci furono critiche furibonde.

«Sì, ma quelle più feroci non vennero dall'opposizione al Pirellone ma dal ministro Rosy Bindi che aveva una visione statalista, a mio modo di vedere antiquata, e che non capiva la portata dell'innovazione: fornire alle classi sociali più deboli servizi e cure d'eccellenza, favorendo una sana concorrenza e dunque la crescita del pubblico e del privato».

Gli scandali?

«Solo chi non fa non sbaglia. Ci sono stati arresti e casi di corruzione, ma è purtroppo fisiologico nell'arco di tanti anni. La verità è che il sistema è cambiato e la Lombardia è diventata su questo versante uno delle regioni più avanzate d'Europa. Lo stesso è accaduto sul fronte dell'educazione».

Si riferisce al buono scuola?

«Certo. Il principio ero lo stesso: dare una dotazione economica alle famiglie per permettere loro di scegliere senza problemi la scuola migliore per i figli. Pubblica o privata. Senza demonizzazioni, senza divisioni, senza gli steccati di prima. E poi ricordo quell'altra idea, molto suggestiva e concreta, degli sgravi fiscali per le famiglie che si riunivano in associazioni e facevano nascere piccoli asili di quartiere».

Risultato?

«Decine di risposte sul campo ai bisogni di migliaia di famiglie. Senza proclami e frasi retoriche, ma fornendo un aiuto concreto a mamme e papà che non sapevano dove sbattere la testa. Per questo, insisto, Formigoni è un unicum nella storia nazionale: è stato lui a togliere dalla naftalina interi capitoli del programma varato dal centrodestra all'inizio della Seconda repubblica».

Lei a suo tempo ha anche scritto con l'ex governatore un libro a quattro mani, Una rivoluzione possibile. Ma la rivoluzione non è finita in un altro modo?

«Questo finale sulla soglia del carcere mi lascia basito: non l'avrei mai immaginato. Ma i fatti per fortuna restano, quel libro li documenta e documenta uno dei momenti più felici del riformismo italiano. Pensi, ad esempio, agli sportelli aperti dal Pirellone nelle diverse città, da Bergamo a Brescia, per avvicinare l'istituzione al territorio. O alla grande efficienza della macchina pubblica, raggiunta anche grazie all'azione di dirigenti e funzionari bravissimi, come Nicola Sanese e tanti altri. Alcuni pure risucchiati in processi dolorosi ma rimpianti da tutti».

Formigoni viene spesso dipinto come lo sponsor di obliqui interessi privati. Un pregiudizio?

«Ci saranno stati errori e deviazioni, ma in quell'epoca si realizza anzitutto una felice sintesi, frutto di una rivoluzione culturale, fra pubblico e privato. Due motori, la Lombardia che mette il turbo, i cittadini pronti a premiare ad ogni tornata elettorale questa esperienza. E il suo artefice, un possibile leader nazionale di grande caratura. Mi pare davvero misero chiudere questa storia fra le carte di un processo che non mi ha mai convinto».

Paragone esulta: «Formigoni in cella per merito nostro». Il parlamentare grillino ed ex direttore di giornali e reti tv pubbliche, rivendica la cella per l’ex governatore, scrive Davide Varì l'1 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Se Formigoni è in prigione è grazie alle leggi di questo governo». La palma d’oro per la frase più manettara dell’anno la vince, per distacco, Gianluigi Paragone. L’ex direttore della Padania, ex vicedirettore di Libero ed ex vicedirettore di Rai1 e poi di Rai2, nonché attuale parlamentare grillino (insomma, una vita vissuta controcorrente e alla larga dal potere) ha rivendicato l’arresto dell’ex governatore della Regione Lombardia via facebook e in un tripudio di like e di “ben detto”. E mentre Paragone si prendeva i meriti dell’arresto e gli applausi dei suoi, Formigoni, condannato appena una settimana fa a 5 anni e 10 mesi, scriveva la sua prima lettera dal carcere milanese di Bollate: «Carissimi amici, grazie per l’abbonamento, e per gli articoli e le testimonianze che mi avete inviato. Vi prego di pubblicare, magari anche più di una volta, queste mie parole, perché i messaggi che mi arrivano sono proprio tanti». Una lettera sentita che però non ha fatto breccia nel cuore di Paragone. Eppure nei giorni scorsi le voci del governo – almeno la parte leghista del governo – erano state decisamente contenute: «Non festeggio mica se arrestano i genitori di Renzi, se arrestano Formigoni o condannano Alemanno…», aveva dichiarato a caldo Salvini. Per non parlare dei fratelli di Comunione e Liberazione: «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme, scrisse san Paolo. In questo momento soffriamo insieme a Roberto, nella consapevolezza che solo Dio può ultimamente e veramente vedere il cuore dell’uomo e può rispondere al bisogno di misericordia che tutti abbiamo. Lo accompagniamo con la preghiera in questa circostanza per lui così drammatica, che viviamo come un potente richiamo alla conversione di ciascuno di noi». Decisamente diverse la parole del Blog delle Stelle: «Formigoni è stato protagonista di un imponente baratto corruttivo. Chi ha sottratto risorse dei cittadini italiani per proprio tornaconto personale deve scontare la sua pena. Solo una cosa normale in un paese normale. Ma forse nessuno era abituato a tutto ciò». Chiude la carrellata un avversario storico di Formigoni, Gad Lerner: «Per anni mi sono scontrato con Roberto Formigoni ma vederlo finire in carcere non mi dà nessuna soddisfazione. Chi augura con troppa facilità al prossimo suo di finire in carcere, dovrebbe trascorrervi prima una notte per prova».

Vittorio Feltri il 27 Febbraio 2019 su Libero Quotidiano: la più grande menzogna dei grillini contro i corrotti: chi è la vera spazzatura. Ieri oggi e domani al centro della discussione c' è e ci sarà il risultato elettorale sardo. E ciascuno lo interpreta come vuole anche se non conta nulla ai fini della durata del governo. L' unica cosa che si può affermare è che non si prevedono cambiamenti nella maggioranza, pertanto l'esecutivo andrà avanti alla carlona: succede da oltre sei mesi. Gli italiani continueranno a leggere sui giornali che la Tav non si farà, che la legittima difesa slitta, che il reddito di cittadinanza ucciderà la miseria e balle simili. Il vero problema è che siamo tutti preoccupati per il nostro portafogli. Temiamo una manovra anticipata in tarda primavera, che significherebbe nuove e pesantissime tasse, qualcuno trema all' idea che piova da Roma ladrona una patrimoniale, cioè imposta sugli averi. Il resto è noia. La Lega non può crescere all' infinito e i 5 stelle calano però non crepano, almeno per ora, al massimo accuseranno ulteriori mali di pancia. Forse Di Battista ciulerà il posto a Di Maio, ma chi se ne frega. Se uno zero sostituisce un altro zero il prodotto non cambia. I grillini poveri cristi non ne hanno azzeccata una, si sbattono e si dibattono allo scopo di perdere consensi e ci riescono benissimo. Si sono dannati l'anima al fine di approvare la legge spazzacorrotti e non si sono accorti di accumulare soltanto spazzatura giudiziaria. A causa della quale hanno ingabbiato Formigoni in un modo che grida vendetta e, non paghi, si accingono a blindare Gianni Alemanno per un reato non accertato. Lo hanno condannato in primo grado a oltre 5 anni di carcere in seguito a una vicenda talmente incasinata da essere incomprensibile. L'ex sindaco di Roma non merita una medaglia per come ha amministrato Roma, ma neppure una condanna. La Raggi lo fa rimpiangere, il che è tutto dire. Il problema è complesso tuttavia si potrebbe risolvere indagando meglio ed emettendo sentenze più eque. Invece se un politico non è di sinistra sono cavoli suoi. Bene che gli vada gli danno il massimo della pena e lo buttano dietro le sbarre onde dimostrare al colto e all' inclita quanto sia opportuno castigare chiunque sgarri. Se poi non si capisce quando e come un tizio abbia violato la legge, non importa: si applica la teoria di Davigo, secondo il quale non esistono innocenti bensì colpevoli che l'hanno fatta franca. Anche lui? Non saprei rispondere, ciononostante il dubbio è lecito. Vittorio Feltri

Altro che prove. Formigoni dovrebbe ringraziare per il “martirio”, scrive Correttore di bozze il 26 febbraio 2019 su Tempi. Doppia esibizione di impareggiabile forcaiolitudine del Fatto quotidiano sulla condanna del Celeste. Il Correttore di bozze, ammutolito, applaude.  Di feccia corrotta come il Correttore di bozze ce n’è poca al mondo. Meglio farebbe dunque quel vile mariuolo a starsene muto e contrito in un angolino (di gabbio, possibilmente) a meditare sulla sua nocività sociale. Oggi tuttavia, dall’alto della sua impunita criminalità, egli non riesce a trattenere un moto di enorme ammirazione per il Fatto quotidiano e per l’inarrivabile forcaiolitudine di certi suoi giornalisti. Una menzione speciale merita in tal senso, a detta del Correttore di bozze, nonché del Corruttore di bozze, il notevole commento alla condanna di Roberto Formigoni firmato sabato scorso dal «professore di Scienza Politica» Alberto Vannucci. (Il quale professore Vannucci, tra parentesi, nella pagina di presentazione del suo blog rivendica «anni e anni di studi sulla corruzione», ma solo per vantarsi che «quando mi hanno proposto qualcosa che somigliava a una tangente all’inizio neanche me ne sono accorto»; non è detto, però, che ciò faccia di lui obbligatoriamente un citrullo, attenzione, poiché potrebbe anche trattarsi di una misteriosa manifestazione dell’imperscrutabile sense of humour manettaro). Chiusa la parentesi, e però coltivando nel suo cuore infingardo il dubbio se ridere o piangere, il Correttore comunque invita tutti i lestofanti come lui a non indugiare oltre e a far tesoro delle pregevoli considerazioni del blogger. Sentite qua. A differenza di noialtri scappati di casa, l’esimio professore di Scienza Politica non si lascia disorientare dal fatto che non si capisce bene che cosa avrebbe barattato Formigoni in cambio dei suoi indimenticabili tuffi a bomba dallo yacht col naso turato. No, Vannucci non vacilla davanti al piccolo particolare che – come ebbe a dire l’avvocato del Celeste Franco Coppi – «nessuno è riuscito a dimostrare la riconducibilità di un singolo atto di ufficio a queste utilità». È che a volte, se nessuno riesce a dimostrare un fatto, la colpa potrebbe essere del fatto. Potrebbe esserci stata, manco a dirlo, «un’evoluzione più generale della corruzione italiana».

Vero, ammette Vannucci, «hanno avuto gioco facile, benché alla fine perdente nella valutazione della Cassazione, gli avvocati difensori di Formigoni nell’affermare la mancanza di correlazioni dirette tra la cospicua serie di sontuosi vantaggi ricevuti e la sequenza di provvedimenti politici – leggi regionali e atti di giunta – che tanta gratitudine avevano generato nei fornitori privati di servizi di assistenza sanitaria». Tuttavia, solo quel semplicione del Correttore di bozze può concludere che di solito in un processo «gli avvocati hanno gioco facile» quando mancano le prove. Qui c’era, continua Vannucci, un «sofisticato meccanismo corruttivo impiantato dal Celeste – con pagamenti differiti, mascherati in forme conviviali e svincolati da contropartita contestuale». Che tradotto nella lingua dei correttori di bozze, l’ignorantese, significa: qui non ci sono atti contrari al dovere d’ufficio. A essere corrotta è «una logica di fondo». E se le famigerate quindici delibere contestate a Formigoni sono state tutte approvate da giunte e consigli regionali, i cui membri e funzionari sono stati tutti assolti tranne il signore in giacca arancione, beh, non bisogna arrivare a conclusioni affrettate. Non è detto infatti che se una legge ha scritto sopra “legge” sia per forza una legge, dal momento che potrebbe trattarsi di «corruzione legalizzata». A prescindere dall’ipotesi che essa sia riconducibile alla libera volontà politica di un governo o piuttosto alla famosa escursione in barca.

Come insegna la Scienza Politica: «La corruzione tanto faticosamente ravvisabile nei singoli atti d’ufficio la si riconosce piuttosto nella logica di fondo che ha presieduto alla produzione di tutte quelle norme di legge e misure che hanno accompagnato la progressiva estensione al governo della spesa sanitaria lombarda un modello d’impianto neoliberista di privatizzazione dei modelli organizzativi nell’esercizio delle funzioni di assistenza sanitaria […]. Scelte programmatiche comunque strumentali a una svendita alla galassia imprenditoriale di Comunione e Liberazione, così come a una selezionata pattuglia di corruttori e faccendieri, di rendite create attingendo copiosamente dai bilanci pubblici. In queste forme innovative di corruzione legalizzata, i corruttori acquistano le norme di legge, rendendo superflua la loro violazione. Il Celeste incarna una politica che sull’altare di una dichiarata (ma raramente rilevata) efficienza si asservisce a interessi privati nella stessa definizione degli interessi collettivi, assumendo vesti che nello scenario peggiore rendono i suoi protagonisti immuni dal controllo giudiziario. Non è stato così per Formigoni». 

Leggere e rileggere il brano qui sopra, prego. E una volta riletto, leggerlo ancora. Letto? Bene. Scemo chi legge, e scemo non solo chi legge. Scemo pure il Correttore di bozze e chi come lui pensa ancora che per compiere un reato bisogna violare una legge. E scemi tutti quelli che per diciotto anni hanno governato la Lombardia con Formigoni senza accorgersi che stavano svendendo la sanità lombarda a Cl. Scemi tutti quelli che per vent’anni hanno votato gli scemi di cui sopra, illudendosi di rilevare un’efficienza che invece la Scienza Politica rilevava solo «raramente». E infatti notoriamente la Scienza Politica in caso di malore consiglia allo scemo di andare a farsi curare nel Terzo Mondo piuttosto che da quegli scemi dei lombardi che hanno legalizzato la corruzione. Scemi tutti quanti. Che poi è inevitabile che un uomo completamente privo di neuroni come il Correttore di bozze a questo punto si domandi: e adesso come farà la Scienza Politica, per esempio, a spiegare a certi altri scemi che se la sanità lombarda è «corruzione legalizzata», l’aborto invece non è un «omicidio legalizzato»?

A proposito di gente uccisa ingiustamente (ancorché metaforicamente). Sempre dal Fatto quotidiano il Correttore di bozze ieri ha appreso un’altra importante verità ancora: Formigoni dovrebbe essere contento, almeno un poco, della sua nuova sistemazione in galera, e proprio non si capisce come mai non lo sia.  Appunto allo scopo di sollecitare il doveroso ringraziamento alla giustizia italiana da parte del fortunato detenuto, il Correttore di bozze sente il dovere di far circolare il sermone di Fabrizio D’Esposito, tenutario sul Fatto di una rubrica intitolata “Il chierico vagante”, noto per riuscire a dare immancabilmente l’impressione di non avere mai la minima idea di quel che scrive. Non è facile farla sempre fuori dal vaso, ma vagando il chierico D’Esposito ci riesce regolarmente.

Ecco qua la sostanza della sua raffinata spigolatura: «Quello che colpisce non è tanto la figura di Formigoni peccatore convertito ai lussi del potere (solo “la fedeltà del Signora [sic, ndr] dura in eterno”, recitano i Salmi) ma l’assoluta mancanza di accettazione cristiana del martirio, ovviamente dal punto di vista del credente. […] Se guardiamo con lo sguardo della fede al carcere di Formigoni (peraltro politico arrogante e pieno di sé) spicca proprio la mancanza di una “vera umiltà” che non può essere tale “senza umiliazione” (papa Bergoglio). E se il martirio è imitazione di Cristo innocente ucciso in croce cosa c’è di più grande per un cristiano che si proclama non colpevole e viene rinchiuso, a suo dire, ingiustamente? […] Forse tutto è da ricondurre all’esperienza dei cattolici di Comunione e Liberazione, per anni accusati di essersi secolarizzati facendo solo politica e affari. Non proprio la strada per il martirio». Tutto verissimo, amici del Fatto. Anzi, grazie, troppo clementi. Ma per favore, non fermatevi a mezza strada. Conscio della sua sconfinata malversazione e della sua inguaribile disonestà intellettuale, inferiori soltanto a quelle di Formigoni e dei ciellini, il Correttore di bozze osa qui suggerirvi un’idea che potrebbe in un sol colpo soddisfare la vostra sete di manette facili e il bisogno di scudisciate dei cattolici arroganti: che ne dite ragazzi, vogliamo metterlo su un bel «martirio legalizzato»?

Chi è Roberto Formigoni? Il ritratto di Gaia Carretta, scrive il 27 febbraio 2019 Vita. Gaia Carretta, già dirigente radicale e corrispondente alla camera per Radio radicale, è stata portavoce di Roberto Formigoni quando era presidente della regione Lombardia, ecco il suo ritratto. Ho conosciuto quest'uomo, quasi 10 anni fa. Era seduto nella sua poltrona e dalle finestre del suo ufficio si poteva scorgere il Monte Rosa e vedere quasi Lodi. Era un uomo sicuro di sè, circondato dalle foto con Mandela, Papa Giovanni Paolo II, don Giussani. Appoggiate ad un mobile c’erano delle calle bianche freschissime e mi ricordo che dando uno sguardo alla scrivania notai che il pc era spento e sopra c’era un santino di San Giuseppe. Non era la prima volta che avevo a che fare con lui, perché lo avevo incontrato quando vivevo a Roma e lo avevo intervistato diverse volte. Era però la prima volta che lui conosceva me e mi aveva voluto conoscere per darmi un lavoro, nonostante fossi una donna, nonostante non fossi di Milano e nemmeno lombarda e nonostante la mia formazione politica fosse totalmente opposta alla sua. Quell'uomo chiedeva tanto, in termini di impegno fisico e intellettuale. Era capace di sciorinare versi in latino con citazioni che non avrei saputo ricordare nemmeno due secondi dopo, mi limitavo a fare sì con la testa per dare la parvenza di aver capito. Quel uomo il lunedì incontrava tutti i dirigenti della Regione, il martedì i membri dell’opposizione, il mercoledì partecipava al Consiglio Regionale, il giovedì partiva per Roma per la Conferenza delle Regioni, il venerdì radunava lo staff per le cose in sospeso e programmare la settimana successiva. Verso le 18 andava quasi tutti i giorni a messa. E io, per quasi tre anni, ho avuto la fortuna di seguire ogni suo passo, di essere la sua ombra, di sedergli a fianco ogni giorno, di ascoltare le sue telefonate, di sapere cosa avrebbe mangiato a pranzo, di sapere quanti km aveva corso, di riconoscere nelle sfumature del suo respiro il suo umore, anche se concretamente non c’è mai stata confidenza tra di noi. Non ho mai avuto l’impressione di lavorare per un ladro, un corrotto, un poco di buono. Era vero che girava sempre senza soldi e che non pagava mai nulla e che io lo facevo per lui, ma mi veniva tutto puntualmente rimborsato. Mi sono data una spiegazioni a tutto questo: come memores, lui non era il detentore della gestione “cassa” in casa e tutto ciò che era suo era anche dei suoi coinquilini. Ho conosciuto altri memores in questi anni e ho capito che il denaro e le cose materiali sono quello che sono, per loro natura effimere. Ho capito anche una cosa stando vicino al mondo cattolico di Cl, che esiste la confessione ad ogni peccato, purché non sia mortale. E quindi è come se tutto fosse sempre concesso. Sapevo che Simone era uno dei suoi migliori amici. Sapevo che la sua ambizione era quella di sfondare a livello nazione e la sua scelta era caduta su di me proprio con questo scopo. Sapevo che il suo era un odio-amore con Berlusconi, e che avrebbe voluto essere il suo successore, assumendo la leadership del centrodestra. Sapevo che il sistema sanitario lombardo era considerato uno dei migliori al mondo e questo grazie alla sua riforma regionale, che dopo molti anni doveva comunque subire una revisione. Sapevo che i politici della sua generazione (perché li ho visti con i miei occhi vivendo a Roma) accettavano vacanze, cene, case (vi ricordate lo scandalo della Propaganda Fides?), feste pagate, etc. E non ho visto nessuno di questi finire in galera. Con questo non voglio dire che fosse giusto e corretto quel sistema. All’epoca vedevo un uomo che pretendeva il massimo da tutti, lo vedevo che quando camminava lasciava una scia e non era il codazzo di persone che si portava sempre dietro, ma il carisma che emanava. Era arrogante e la sua erre moscia dava ancora più senso di altezzosità. Forse nell’ultimo periodo ha pure un po’ esagerato, non lo metto in dubbio. Ha fatto molti errori, tanti dei quali io non ne sono nemmeno a conoscenza. Non voglio nemmeno giudicare una sentenza che ha raccolto prove su prove, confermata da tutti i tribunali. Dico solo che sono triste, perché di fronte a questa sentenza definitiva non si fa male ad un solo uomo, si fa male ad un paese intero, che con un solo colpo mette in galera qualcuno che qualcosa di buono lo ha fatto e che si è comportato né più né meno di tanti altri che non hanno avuto il suo processo. Sono arrabbiata, perché lasciare che quest’uomo entri nelle patrie galere significa che lo Stato ha perso credibilità nel suo sistema e che vale tutto. Il giudizio morale viene prima di tutto. Oggi leggo tanti che lo difendono, quando all’epoca dei titoloni sull’inizio indagini urlavano “in galera”. Oggi lui è entrato in galera. Siamo tutti più sollevati? No. Rimane un senso di vuoto e di profonda tristezza. Tristezza prima di tutto perché facciamo di quel uomo, che degli errori li ha commessi, la vittima di un sistema giudiziario che oggi viene ritenuto troppo punitivo, ma è obbligato ad applicare una legge. Quanti di noi hanno lo hanno votato o si sono fermati per strada a fare con lui un selfie, o gli hanno gridato vedendolo passare “Grande Roberto!” e lui rispondeva con un “Ciao”. Umiliato, ma sono certa che sia ancora forte. E’ stato spazzato via, ma questo non bastava, bisognava anche ucciderlo. Spero di rivederlo uscire da lì, sorridere e fare il segno roger dal finestrino dell’auto. Scusate questo sfogo disordinato, ma non riesco a mettere insieme parole adatte a questo momento. Qualcosa però lo volevo dire. Non rileggo nemmeno. Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio da Leopost

Cattaneo: “Roberto Formigoni non è un corrotto!” L'assessore all'ambiente della Regione Lombardia prende posizione a difesa di Roberto Formigoni, ricostruendo gli anni di governo e riflettendo sul ruolo dei cattolici in politica, scrive varesenews.it il 22 febbraio 2019. Riprendiamo un lungo post Facebook di Raffaele Cattaneo, noto esponente politico legato a Comunione e liberazione, grande amico di Roberto Formigoni e oggi assessore all’ambiente di Regione Lombardia sulle vicende che hanno coinvolto l’ex presidente e sul ruolo dei cattolici in politica. “Innanzitutto voglio chiedere scusa. Comincio da questo punto strano perché se “qualche pretesto dovremo pur averlo dato” io vedo i miei limiti e chiedo scusa. Ho vissuto ogni giorno dal 1995 al 2013 di questi straordinari 18 anni di Presidenza di Roberto Formigoni in Regione Lombardia, con responsabilità diverse, ma sempre vicino a lui e in ruoli non secondari. Con lui sono stato Dirigente della Presidenza e Assessore. Ho partecipato a una esperienza di governo straordinaria, con risultati sconosciuti prima e ineguagliati dopo. Ho conosciuto, visto e udito un gruppo di cattolici che ha provato a trafficare i propri talenti nel campo arduo della politica, in un tentativo sincero e indomito, costruendo soluzioni originali e innovative, ricche di intelligenza e di competenza, nell’interesse di tutti e per migliorare la vita soprattutto dei più poveri e dei più fragili. Vorrei enumerare le tante riforme che hanno reso la Lombardia un modello di buon governo, dalla sanità alle politiche del lavoro, alla formazione professionale. Ma non è questo il momento. Certamente però avremo fatto anche degli errori. Siamo, sono un uomo come tutti, con tanti limiti e peccati. Non sono un superuomo e neppure ahimè un santo. Ho un pessimo carattere e molti comportamenti discutibili. Certamente ho sbagliato anch’io e questo avrà turbato o colpito qualcuno: me ne dolgo e chiedo perdono. Anche Roberto avrà certamente sbagliato. Alcune vacanze probabilmente non avrebbe dovuto permettersele, alcuni eccessi nel lusso stridevano troppo con la sua scelta di vita consacrata… Avrà certamente molto anche lui di cui chiedere scusa, ma non è l’uomo che viene dipinto da questa sentenza! Chiediamo scusa, ma non siamo dei corrotti! C’è differenza tra peccato e reato! Come ho già avuto modo di dire in occasione della sentenza d’appello: “mi rendo conto che questa affermazione oggi è assolutamente controcorrente e non può che caricarmi di strali e contumelie se non di peggio… non scrivo queste cose per incoscienza. Al contrario le scrivo proprio in forza di una coscienza che si fonda su anni di esperienza personale. Alla comodità di una posizione opportunistica e di convenienza personale (tipo “attento, chi te lo fa fare, stai zitto che ti conviene.. non cercarti guai”) preferisco raccontare quello che ho visto e personalmente vissuto”. Roberto Formigoni non è un corrotto! Non è un malfattore, un ladro, un poco di buono. Lo dico con tutto il rispetto che si deve a una sentenza definitiva e all’autorità che l’ha emessa, ma lo dico in forza di una esperienza, di ciò che ho vissuto, visto, toccato, conosciuto. Quindi lo dico per il rispetto che si deve ancor prima alla verità. Formigoni non è il capo di una banda di criminali semplicemente perché la Lombardia non è stata governata per 18 anni da un gruppo criminale, ma da un Presidente e intorno a lui da una squadra composta innanzitutto da cattolici che hanno preso sul serio la vocazione alla politica come forma più alta di carità. Che non si sono arricchiti, che non hanno rubato, che non hanno coltivato i propri interessi oscuri e affari loschi, benché oggi in molti paghino un prezzo altissimo per aver cercato di servire il bene comune non solo nelle discussioni fatte prendendo il the, ma sporcandosi le mani nella concretezza dell’azione politica. Come Paolo Valentini, Ingegnere aeronautico con 2 Master (alla SDA Bocconi e in una Università Inglese) Consigliere Regionale per quattro legislature e capogruppo del PDL, che – travolto dallo scandalo degli scontrini per i rimborsi dei consiglieri (come capogruppo gli è stato contestato il 25% degli importi di ciascun membro del gruppo) – oggi per campare spalma maionese sui tramezzini che vende vicino al Pirellone o con un Apecar davanti al Politecnico. O come Giulio Boscagli, Assessore alla Famiglia, uno degli uomini più retti che abbia mai conosciuto, a cui non è mai stato perdonato di essere il cognato di Formigoni, quindi anch’egli oggetto di indagini concluse al più con un nulla di fatto ma che gli sono costate soldi, tempo e fatica immeritata. È tornato ad insegnare e oggi è in pensione, dopo aver fatto parte per 5 anni del Corecom a titolo gratuito perché da ex consigliere gli venne persino negata l’indennità prevista per i componenti. E potrei continuare parlando di Romano Colozzi – assessore al bilancio stimato da amici e avversari, vero riferimento per tutte le regioni in materia di finanza Regionale – anche lui indagato e poi prosciolto; Nicola Sanese – Segretario Generale e uomo dalla capacità di lavoro straordinaria e apprezzata da tutti, coinvolto pesantemente nel processo Maugeri/San Raffaele e poi assolto, come Carlo Lucchina, allora Direttore Generale della Sanità, dopo travagli e sofferenze estreme per loro e le loro famiglie. E tanti altri che non cito perché diventerebbe troppo lunga. Questi li ho voluti ricordare perché la storia che ho vissuto è fatta di nomi, facce, persone concrete che con Roberto Formigoni hanno dato l’anima per Regione Lombardia, perché tutto funzionasse, almeno come desiderio e tentativo, nel modo migliore e fosse all’altezza di essere davvero al servizio di tutti. Quasi tutti in cambio hanno ricevuto guai e travagli. E oggi per molti, anche fra gli amici, sono oggetto di sospetti, critiche, contumelie, prese di distanza. È giusto così? Ditelo voi. A settembre scrissi: “Roberto Formigoni non è un corrotto perché gli sono stato vicino per anni, ho visto come lavorava, che cosa aveva a cuore, la passione che ci metteva, l’impegno senza risparmiarsi, la tensione continua a costruire, insieme alla sua squadra, soluzioni utili al bene comune e al benessere di tutti. Un corrotto non desidera costruire il bene comune, ma solo il proprio interesse personale. Ama il disimpegno, la vita comoda, non si danna l’anima per cercare di governare nel modo migliore una regione di dieci milioni di abitanti. Non si spende dalla mattina presto a notte per metter in piedi un sistema sanitario, formativo, di welfare, di infrastrutture, in grado di competere con le regioni più avanzate del mondo e soprattutto di trasformare un’idea culturale e valoriale come la sussidiarietà in un modello di governo funzionale ed efficiente, anche in termini di costi. Un modello di governo che in gran parte resiste ancora oggi in Lombardia e continua a produrre frutti positivi per tutti i lombardi.” Ancora oggi, di fronte alla condanna definitiva, la penso esattamente così! Chiudo dicendo quale secondo me oggi è la nostra responsabilità. La sintetizzerei così: cattolici svegliatevi! Aprite gli occhi, guardate la realtà, accorgetevi di cosa accade! Abbandonate il divano e smettetela di bere il the o peggio di abbeverarvi al rancore! Abbandonate dunque ancor più le divisioni, i sospetti, i personalismi. Non fermatevi alla rappresentazione che vi viene data in pasto, quella che domani troverete sui giornali, per dire che certamente qualcosa Formigoni avrà pur fatto, che sono tutti uguali, che non ne vale la pena. Chi crede in Gesù crede in un Dio ingiustamente condannato, incarcerato, processato in malo modo e messo a morte innocente. Noi cristiani dovremmo avere una certa dimestichezza con le condanne ingiuste… Non possiamo fermarci alla superficie della realtà, né possiamo farci vincere dalla paura e scappare (si capisce, lo hanno fatto anche gli apostoli, ma resta sbagliato). Ci vuole coraggio, pazienza e consapevolezza. Ma bisogna coltivare il seme! È certamente necessario ma non basta stare vicino a Roberto Formigoni con la preghiera, l’amicizia e la nostra solidarietà concreta. Oggi, in questo tempo confuso dove vince chi titilla urlando le emozioni della pancia e non chi suscita riflettendo il pensiero della testa e la corrispondenza del cuore, noi abbiamo un compito: far sì che continui a vivere, che non debba finire come molti vorrebbero dannandone anche la memoria, ciò che Roberto Formigoni ha costruito e di cui è stato il segno più evidente. Dobbiamo conservare e sostenere una presenza politica che afferma e prova a tradurre in pratica questi valori e questi ideali, perché è ciò di cui ha davvero bisogno il nostro tempo; una presenza che oggi ha bisogno di nuova vita. Dobbiamo conservare e sostenere un modello di governo in cui la sussidiarietà non sia solo una bella espressione accademica da usare nei convegni ma un principio ordinatore di ogni legge o delibera; in cui la libertà di scelta non rimanga un principio astratto ma possa essere esercitato concretamente nella sanità, nella scuola, nel welfare, ecc.; in cui la solidarietà non sia il pietismo di una carità pelosa o peggio interessata, ma un fatto riconosciuto dalle norme e attuato da chi la vive con un ideale prima che dalla burocrazia, un dovere per chi la pratica e un diritto per chi la riceve. Io continuerò a spendermi con raddoppiato slancio per questo e sono a disposizione di chiunque voglia farlo con me. Stasera più che mai, nel nome di Roberto Formigoni che si prepara ad andare in carcere, per fare anche la sua parte.

Formigoni scrive dal carcere al periodico Tempi: "Ringrazio e saluto tutti gli amici tramite Tempi", scrive Silenzi e Falsità l'1 marzo 2019 su Tempi. Roberto Formigoni, politico di centrodestra che ha governato la Lombardia dal 1995 al 2013, ha scritto una lettera indirizzata al periodico Tempi, direttamente dal carcere di Bollate in cui si trova. Ha ringraziato “per l’abbonamento, e per gli articoli e le testimonianze che mi avete inviato!” E ha proseguito scrivendo: “Vi prego di pubblicare magari anche più di una volta, queste mie parole, perché i messaggi che mi arrivano sono proprio tanti. Ringrazio tutti gli amici e le persone che in questi giorni mi stanno facendo pervenire lettere, telegrammi, cartoline, mail di sostegno e di stima. Non riuscirò mai a ringraziarvi personalmente come vorrei. Vi ringrazio e vi saluto tutti tramite Tempi. Ciao. Roberto Formigoni”. Formigoni è stato accusato di corruzione per i presunti fondi neri creati dalla Fondazione Maugeri, e dall’ospedale San Raffaele. È stata la Cassazione a decidere di condannarlo a 5 anni e 10 mesi, con un leggero sconto di pena per prescrizione. Ma è grazie alla nuova legge ‘spazza-corrotti’ che Formigoni è andato in carcere, perché il reato di corruzione è tra quelli ‘ostativi’ che escludono misure alternative al carcere. Mentre precedentemente, per una pena inferiore ai 4 anni, era possibile fare richiesta per misure alternative anche per il reato di corruzione.

Altre lettere per Formigoni, scrive l'1 marzo 2019 Tempi. Pubblichiamo di seguito altre lettere giunte in redazione dopo la condanna di Roberto Formigoni. Pubblichiamo di seguito altre lettere giunte in redazione dopo la condanna di Roberto Formigoni.

Caro Formigoni, ti do del tu, perché sono anch’io una figliola del don Gius. Ma non ti chiamo Roberto anzitutto perché, come si dice qui in Belgio, nous n’avons jamais gardé les cochons ensemble… e poi per i più come me sei il Formigoni, come ci si chiamava a scuola “ai nostri tempi”. Da quando sei arrivato a Bollate, siamo tutti un po’ in carcere con te: questo è stato il mio primo sentimento e, siccome sono una specie di casalinga di Voghera, voglio solo dirti che prego con te e ti sono sinceramente e fraternamente vicina. Che la coincidenza dell’anniversario della nascita al Cielo di don Giussani, ti aiuti in questo nuovo percorso alla santità. Ti abbraccio, in unione di preghiera. Orietta Tunesi

Caro Roberto, ho un breve ma significativo ricordo del primo incontro con te a Pesaro. Nei primi anni del 1970 tu accompagnavi le schiere di studenti agli esercizi spirituali dettati da don Giussani che si tenevano nell’allora palazzo dello sport della città. Io giovane lavoratore pesarese, insieme ad altri amici eravamo preposti al servizio d’ordine lungo le strade del lungo mare, dove lunghissime file di giovani studenti percorrevano per raggiungere nuovamente gli alberghi nelle ore serali. È stato proprio in quel tragitto che ebbi modo di incontrarti e affiancarti camminando insieme a te fino all’arrivo in hotel. A distanza di tanti anni, ancora permane quel momento, che mi ha accompagnato fin ora. Tu sei prezioso agli occhi di Dio, ma anche ai miei. Un abbraccio. Massimo Tonucci  

Buongiorno Roberto, sono Piergiorgio, un amico del Veneto che sta condividendo assieme a Lei il cammino in Comunione e Liberazione, che ha avuto il piacere di conoscerLa (anche se mai di persona) attraverso i suoi contributi e interventi al Meeting di Rimini e che ha condiviso un percorso politico comune in passato. Non voglio soffermarmi sulle questioni politiche o giudiziarie, non è mio compito farlo e ci sarà chi sarà chiamato a farlo. Con questo mio contributo voglio solamente farLe arrivare il mio attestato di stima per il suo operato politico a Regione Lombardia, che io trovato molto positivo, nonché l’amicizia per un percorso comune di fede. Assieme ad una grande solidarietà per il momento difficile che sta attraversando. Nella speranza che presto giustizia sarà fatta, Le assicuro la mia preghiera. Con amicizia, Piergiorgio Zecchin

Non importa cosa dicono di te i giornali, perché non è vero quel che afferma la sentenza passata in giudicato: noi lo sappiamo bene che non sei corrotto! Io lo so bene perché ti ho visto lavorare per anni e anni prendendoti a cuore il bene di tutti, anche di chi non la pensava come te. Io lo so bene perché non hai mai operato “contro”, ma “per”, perché ti ho visto favorire e sostenere le iniziative che partivano dal basso affinché ci si potesse sentire protagonisti veri della res publica, affinché la libertà di ciascuno fosse mossa a mettersi in gioco nei luoghi e nei territori in cui siamo chiamati a stare: collaboratori di un bene che è per tutti! Più del dolore inizia finalmente a vincere in me la gratitudine: se amo la politica, se non ragiono di pancia ma con testa e cuore, se sono certa che non sia qualcosa di insano e sporco è merito tuo, dello zio, di mio fratello e di tanti amici che, pagando anche prezzi personali altissimi, non si stancano di sacrificarsi per il bene di tutti. La tua vita è un dono che Dio ha fatto al mondo e ora ti è chiesto di giocarti questa chiamata in un luogo di cui io, più di altri, conosco le fatiche ed i dolori, ma anche la speranza certa che non c’è sbarra che possa impedire a Lui di compiere meraviglie. Non è tempo di smarrirsi o battere in ritirata, è tempo di scoprire e dar ragione della speranza che sostiene la nostra vita: un volto concreto e reale, un amico, un uomo che è Dio: Gesù! Non ti lasceremo solo: continuiamo questo cammino insieme. Grazie. Giuditta Boscagli

Ero un neo papà, quando mi sono avvicinato alla politica attraverso la compagnia dei miei amici. Ci incontravamo spesso tra noi veneti e, una volta l’anno, tutta Italia a Riva del Garda. W la politica viva, urlavamo! Che bello, che respiro, che spinta ideale. Quella tre giorni di Rete Italia era il Segno di una grande amicizia. Tu, Mauro, Lupi e poi tutti gli ospiti che, in virtù del vostro carisma personale, eravate capaci di catalizzare ci fornivate strumenti, rapporti e idee che poi ognuno singolarmente riportava nel proprio ambito. Allora facevo l’assessore a Caorle, piccolo ma bel comune in riva all’adriatico. La nostalgia di quei momenti, la forza di quella compagnia guidata, la profonda sintonia con tutti sembrano oggi lontani ricordi. Ho sperato, invano, che la giustizia ti restituisse i meriti del tuo governo. Ho creduto che non si potesse non riconoscere il modello del tuo agire politico, la forza di un vero governo del popolo, della libera scelta e dell’amore al destino dell’uomo (frutto dell’educazione ricevuta) che avevi prepotentemente costruito. Mi sono sbagliato. Il mio cuore si ribella all’ingiustizia che ho visto. Il mio cuore, che è il cuore di tutti, urla vendetta qui ed ora, subito. La rabbia cresce e la voglia di scuotere tutti per svegliarci dal torpore è incontrollabile. Non so se mai leggerai queste righe, ma semmai capitasse, vorrei farti giungere tutta la stima e l’ammirazione che provo nel considerarti un amico che ha saputo innovare, come nessuno mai prima, la regione più importante d’Italia e che certamente troverò descritto nei libri di storia come quell’uomo che seppe rendere viva la dottrina sociale della chiesa e che fu imprigionato per colpa della suoi Tuffi, bizzarri e poco armoniosi, mentre maldestramente si tappava il naso con la stessa innocenza di uno scolaretto. Il cuore è vivo e la politica che ho visto ancora pulsa in me. Ora tocca a noi farne memoria e lasciare ai posteri l’ultimo giudizio. Con stima, Luca Antelmo  

Caro presidente, difficilmente ti ricorderai di me. Non ci vediamo, infatti, ormai, da oltre vent’anni. Da quando io, giovane laureato del Sud, ho avuto il piacere di incontrarti a Piazza del Gesù, nel momento dell’implosione dell’esperienza unitaria dei cristiano democratici in politica. Apprezzai molto, fin da subito, nel corso dei nostri colloqui, la tua sincera disponibilità al confronto e la tua costante cortesia. Successivamente, ti ho seguito dai media, ammirando la tua visione politica e la tua azione amministrativa. Desidero confidarti, soprattutto oggi, che il libro Io e un milione di amici, che narra l’ascesa del tuo percorso pubblico, è stato a lungo custodito con cura nella mia biblioteca e campeggia ancora ora su quegli scaffali. Certo, nel corso del tempo, ho notato in te alcuni cambiamenti, a cominciare dal sarto per finire, ahimè, ad alcune compagnie, che non hanno portato del bene nella tua vita. Ciononostante, ho sempre sperato che le tue grandi doti, chiare ed indelebili, potessero consentirti di liberarti di quella zavorra e di porti al servizio del Paese. Avresti, così, superato gli angusti confini della sola Lombardia, nella quale, a mio sommesso parere, hai trascorso troppa parte della tua esperienza politica. Mi sono, oggi, risolto a scriverti perché avvertivo la necessità di ringraziarti di quel che, senza saperlo, hai fatto per me e per i miei familiari. In questi anni abbiamo, infatti, sovente avuto bisogno di cure per i motivi più disparati, più o meno gravi. Ebbene Roberto, la Sanità che tu hai creato in Lombardia è stata, in ogni emergenza che abbiamo vissuto, un presidio di fiducia costante per tutta la mia famiglia. Sempre, e sottolineo sempre, gli ospedali e le cliniche lombarde hanno rappresentato per noi un punto certo cui affidare speranze di guarigione o, nell’estremo frangente, cure compassionevoli. Ho buona memoria e ricordo bene che prima del tuo avvento non era così. Solo la tua scelta di porre in competizione sistema pubblico e privato ha, infatti, consentito di giungere alle attuali vette di efficienza e funzionalità. Solo la tua determinazione ha consentito a tante persone, provenienti da ogni lembo della nostra amata Italia, di poter essere curate, assistite e, con l’aiuto di Dio, guarite. Il bene che tu hai determinato trabocca ancora oggi. Questo bene ha pervaso la mia vita. E di questo bene voglio oggi, anche pubblicamente, ringraziarti con un abbraccio che mi auguro possa idealmente avvolgerti. Con amicizia, Antonio Ilardi

Caro Roberto, mi permetto di rivolgermi così a lei in forza della mia età non troppo distante dalla sua e dell’adesione a un comune ideale di vita. Ho letto tanti commenti in questi giorni sui giornali che mi hanno fatto rabbrividire. Ma ne ho letto anche qualcuno (pochi per la verità) che manifestavano una limpidezza di giudizio e di cuore. Fra questi in particolare mi ha colpito l’intervento audio di Piero Sansonetti che da “ex-nemico” dimostra di guardare a lei e alla sua vicenda con ragionevolezza e rettitudine e le esprime la sua solidarietà. So che tanti suoi amici le sono e le saranno vicini e questo le sarà di consolazione. Io posso dirle che ho visto tante cose buone derivare dalle scelte della Regione Lombardia nei suoi 18 anni di presidenza, dalla scuola alla sanità. Ancor oggi ho sotto gli occhi l’esperienza di una bimba sordomuta che la mamma, pur non essendo abbiente, può seguire e far seguire in modo esemplare grazie alle professionalità di un Istituto privato. Anche questa mia piccola testimonianza spero che le sarà di consolazione. Errori ne commettiamo tutti e probabilmente ne avrà commessi anche lei, ma quello che lei sta subendo è spropositatamente più grande di ogni suo possibile errore. Le assicuro la mia vicinanza nella preghiera, le auguro di trovare ogni giorno il pane quotidiano del coraggio e della speranza. Con stima, Daniela Cattaneo

L’altra notte, dopo la condanna di Roberto non sono riuscita a prendere sonno. Era stato privato della sua libertà. Pensavo che a un certo punto della mia vita, grazie a lui e ai suoi collaboratori ho potuto usufruire di ospedali pubblici e cliniche private per curarmi, in ambienti puliti, senza formiche sui letti, con medici preparati, strutture all’avanguardia. Spesso mi sono trovata con vicini di camera che venivano da altre regioni. Pensavo ai miei nipoti (ne ho 17) che grazie al buono scuola hanno potuto frequentare le scuole che i loro genitori hanno ritenuto meglio per loro. Ho pensato ai mezzi di trasporto che a Milano mi permettono di girare tutta la città con una spesa ragionevole. Pensavo ai corsi di formazione professionale che alcuni miei nipoti, ormai adulti, hanno frequentato, e in seguito trovato lavoro. Quando al mattino mi alzo e dalla mia finestra vedo il palazzo della Regione, mi sento orgogliosa di essere milanese. Ho 85 anni e ho visto tanti cambiamenti in questa mia amata città, ma l’impronta che ha dato Formigoni è stata sicuramente rivoluzionaria. L’ho conosciuto quando lui era ancora giovanissimo e cominciava il suo impegno politico. L’ho sempre seguito e sostenuto e mi sento di affermare che non è un malfattore e un corrotto. Ha fatto degli sbagli, ma la storia lo ricorderà non perché ha fatto un tuffo da uno yacht, ma perché ha governato e fatto della Lombardia una regione all’avanguardia, non solo in Italia. In una circostanza così faticosa, gli sono vicina con tanto affetto. Nanda Dubini

Cari amici della redazione di Tempi, noi vogliamo esprimere la nostra vicinanza e preghiera per Roberto con queste parole di Gesù a Nazaret: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore». Per favore, fateci sapere della sua condizione quando andate a visitarlo in carcere. Non lasciamolo solo. Preghiamo per lui ogni giorno. Roberto, ti vogliamo bene! Shirley e Angelo Mandelli

Caro Roberto Formigoni, sabato sera ci siamo ritrovati nel nostro gruppo di Fraternità e non abbiamo non potuto parlare di te. Sappiamo che in questo momento il ricevere testimonianze di affetto per te assume un fatto utile come sappiamo che la tua forza poggia nella fede e nell’aiuto del Nostro Signore. Vorremmo scrivere tutti i nostri sentimenti, ma desideriamo tacere ciò che bolle in noi per lasciarti giungere, in serenità, la nostra vicinanza e l’affetto più caro di tutti noi. Noi, come te, confidiamo nel Signore che è l’Unico Giusto, Santo, Buono e Misericordioso. Il gruppetto di Fraternità di Ambrogio in Biassono

Ti conosco dai tempi dell’università, anni ’70, seguendoti con stima perché fin da allora parlavi al cuore della gente e ti interessavi al bene comune, come hai fatto dopo da politico. Ti rinnovo stima e affetto. Hai fatto grandi cose, spero che non vadano perdute. Ti penso, so che dove sei non puoi che spargere il “buon profumo di Cristo”. La tua persona è il segno evidente di come Dio opera nel cuore di chi Lo ama e soffre per Lui. Sei sempre presente nelle mie preghiere e non ti dico “coraggio” perché sei tu che ci indichi il coraggio. Ti abbraccio fraternamente dalla Calabria. Serafina Tavella

Caro Roberto, mi chiamo Bruno Minelli, classe 64, e appartengo alla comunità di Cl di Gualdo Tadino (PG). Anche se di persona ti ho solo visto tanti anni fa al meeting, ti chiamo per nome solo perché l’appartenenza a Cristo ci rende fratelli. Voglio solo che tu sappia che tutti noi siamo orgogliosi di ciò che sei e che preghiamo per te, consapevoli che la tua grande fede, più che mai in questo momento di prova, ti mostrerà la sua massima espressione di Amore. Forza Roberto. In comunione Bruno e Tiiziana

Non puoi ricordarti di me. Forse di Maurizio… che ora è in paradiso. Credo che ricevere posta possa far piacere. Ne riceverai tantissima ma vorrei che la vicinanza non terminasse con i primi giorni. Non so come finirà o procederà ma la vicinanza in Cristo è bella di più quando dura nel tempo, quando “regge” al tempo. Nulla di grande o di importante: il martirio coglie l’uomo come proposta e urgenza del reale, coinvolge a dispetto di ogni dubbio o sconcerto. Resta la preghiera. Che il Signore accompagni i testimoni della fede. Ciao, Marina di Marino Rizzi

Caro Roberto, vorrei esprimerti, tramite gli amici di Tempi, tutto il mio affetto, la stima, la simpatia umana unita alla riconoscenza per tutto quello che hai fatto in questi anni in politica, dall’impegno per i diritti umani e la libertà religiosa ai tempi della vicepresidenza al Parlamento Europeo fino a Roma e poi in Lombardia. E in questo momento mi fa piacere anche ricordarti tre momenti, minori sicuramente, ma per me e la mia famiglia importanti, che ti hanno visto protagonista e mi hanno riempito il cuore di gioia ed emozione che non è mai passata. Il primo risale proprio ad una campagna elettorale agli inizi della tua avventura in politica. In Zona 17 (ora zona 6) io e i miei amici di un giovane comunità nata attorno alla Comunità dei S. Patroni (d’Italia), lavorammo con grande passione (il famoso “pancia a terra” fu implacabile!) e il risultato elettorale davvero inatteso, addirittura strepitoso! Il lunedì elettorale nel tardo pomeriggio (o forse era martedì) ero a casa (stranamente), probabilmente a tirare il fiato dopo l’ultima fatica ai seggi… Suona il telefono (il fisso ovviamente). «È fausto?… Le passo Roberto»…. «Sì sì Formigoni». «Ciao Fausto volevo ringraziare te e i tuoi amici per il vostro grande impegno… ho in mano i dati, siete stati splendidi». Il secondo ha una data e un’ora precisa: sabato 22 settembre ’90 ore 13:50 mi sto preparando per il grande giorno (aiutato da mia mamma), squilla il telefono (sempre il fisso ovviamente): «Sto partendo per gli Esercizi del Gruppo Adulto, ma sono vicino a te e Paola e prego per voi, il vostro matrimonio e la vostra vita insieme». Il terzo al Meeting (era il 2011 o il ’12 credo), mio papà malato di alzheimer, in carrozzina e insieme a noi come sempre, ci incontriamo casualmente nei padiglioni: «Roberto ti ricordi di mio papà, è sempre stato un tuo fans e ti ha seguito spesso nei momenti pubblici». «Certo! Me lo ricordo anche alla vostra Settimana dei Giovani” del Giambellino con la telecamera». Lungo abbraccio con i nostri occhi, ma mi sembra proprio anche i tuoi, lucidi di emozione. Grazie! Uno di quel “1.000.000 di amici” orgoglioso della dedica sul tuo libro delle origini (o quasi). Fausto Grazioli

Amici di Tempi, oltre ad esprimere il mio fastidio e contrarietà per quello che sta accadendo a Roberto Formigoni vorrei che voi poneste attenzione alla vicenda del cardinale Pell. Andatevi a leggere come ho fatto io i giornali australiani per capire di che cosa è accusato e vi renderete conto, che nessuno può credere a certe cose, io credo sia ora che qualcuno si esponga un po’ per difendere gli innocenti, un saluto. Manghi Pietro

Chi ha le palle di difendere Roberto Formigoni, scrive il 20 settembre 2018 Tempi. Pubblichiamo le reazioni pubblicate dopo la sentenza di ieri da amici ed esponenti politici che hanno lavorato con Formigoni e ora non lo scaricano: «Non è un corrotto». Ieri la corte d’appello di Milano ha condannato Roberto Formigoni a 7 anni e mezzo di carcere per corruzione nel processo Maugeri, aggravando la condanna di sei anni inflitta all’ex governatore della Lombardia nel primo grado di giudizio. Secondo l’accusa, Formigoni avrebbe ricevuto una serie di utilità (vacanze, cene, giri in barca) per favorire l’ospedale con 200 milioni di euro di rimborsi pubblici deliberati dalle giunte guidate da lui. Pur essendo caduta l’accusa di associazione a delinquere, i giudici hanno ritenuto di infliggere al “Celeste” la massima pena prevista per questa fattispecie di reato. L’ex senatore è stato inoltre interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, ed è stata confermata nei suoi confronti la confisca “diretta” da 6,6 milioni di euro stabilita nel dicembre del 2016. Proponiamo di seguito una serie di reazioni alla sentenza pubblicate in queste ore da amici ed esponenti politici che nei quasi vent’anni di Formigoni al vertice della Regione Lombardia hanno avuto modo di conoscerlo da vicino, avendo in molti casi lavorato al suo fianco.

Raffaele Cattaneo, assessore all’Ambiente e Clima della Lombardia, su Facebook: "Roberto Formigoni oggi (ieri, ndr) è stato condannato a 7 anni e mezzo nel processo d’appello per il caso Maugeri. La sentenza d’appello gli ha inflitto il massimo della pena possibile per corruzione, aggravando la condanna di I grado. Il massimo della pena nonostante sia caduta l’accusa di associazione a delinquere e non sia stata riscontrata l’evidenza di una mazzetta. La condanna infatti si basa sul beneficio di utilità quali viaggi, vacanze, ospitalità su yacht ecc. E sul presupposto che delibere regionali (che certo Formigoni non può aver fatto ed approvato da solo) fossero orientate esclusivamente ad ottenere quei benefici. È un po’ difficile da comprendere e lascia senza parole. Roberto Formigoni è una delle persone più importanti nel mio percorso politico e anche personale. È un uomo da cui ho imparato molto, che stimo e che gode, ancor di più oggi, della mia considerazione e della mia amicizia. Dunque ammetto di essere di parte. Ma non in forza di un un pregiudizio, bensì di una esperienza. Sto rivendicando l’amicizia e la stima per un politico condannato per corruzione e al grado più grave? Si, semplicemente perché il Roberto Formigoni che ho conosciuto io non è un corrotto. Mi rendo conto che questa affermazione oggi è assolutamente controcorrente e non può che caricarmi di strali e contumelie se non di peggio… non scrivo queste cose per incoscienza. Al contrario le scrivo proprio in forza di una coscienza che si fonda su anni di esperienza personale. Alla comodità di una posizione opportunistica e di convenienza personale (tipo “attento, chi te lo fa fare, stai zitto che ti conviene…non cercarti guai”) preferisco raccontare quello che ho visto e personalmente vissuto. Anche questo l’ho visto fare tante volte da Formigoni e un po’ l’ho imparato da lui. Roberto Formigoni non è un corrotto perché gli sono stato vicino per anni, ho visto come lavorava, che cosa aveva a cuore, la passione che ci metteva, l’impegno senza risparmiarsi, la tensione continua a costruire, insieme alla sua squadra, soluzioni utili al bene comune e al benessere di tutti. Persino le cazziate che ho ricevuto per ciò che non era all’altezza delle sue aspettative me lo confermano! Un corrotto non desidera costruire il bene comune, ma solo il proprio interesse personale. Ama il disimpegno, la vita comoda, non si danna l’anima per cercare di governare nel modo migliore una regione di dieci milioni di abitanti. Non si spende dalla mattina presto a notte per metter in piedi un sistema sanitario, formativo, di welfare, di infrastrutture, in grado di competere con le regioni più avanzate del mondo e soprattutto di trasformare un’idea culturale e valoriale come la sussidiarietà in un modello di governo funzionale ed efficiente, anche in termini di costi. Un modello di governo che in gran parte resiste ancora oggi in Lombardia e continua a produrre frutti positivi per tutti i lombardi. Una sanità all’avanguardia che consente a tutti di accedere a carico del sistema sanitario regionale a ospedali e strutture pubbliche e private; una rete di servizi sociali, basati sull’idea di welfare community, per gli anziani, i minori, i disabili, le dipendenze, i drop out, insomma i più fragili e gli ultimi che le altre regioni ci invidiano e che è stato studiato in tutto il mondo; un sistema formativo con soluzioni innovative come il modello di accreditamento e il sistema dotale, il buono scuola, ecc. Politiche per il lavoro e per le imprese aperte alla collaborazione tra pubblico e privato che hanno portato a risultati formidabili nel sostegno a chi cerca lavoro, alle nostre piccole e medie imprese, agli artigiani, ai commercianti, agli agricoltori. Un modello di innovazione persino nel campo delle infrastrutture che ha permesso alla Lombardia di dotarsi di opere stradali e autostradali (Paullese, SS38 Valtellina, terze e quarte corsie su A4, A8, A9, Tem, Brebemi, Pedemontana, ecc), ferroviarie (dall’alta velocità al raddoppio delle linee per Lecco, Bergamo, Pavia, all’incremento di oltre il 50% dei treni/km, ai collegamenti a Malpensa) aeroportuali, intermodali. Per fortuna le opere di Formigoni sono sopravvissute a questo tentativo di distruzione, persino di damnatio memorie e sono lì, visibili a tutti, per coloro che vogliono vedere. So bene che tanti non apprezzeranno questa mia difesa. Ma è semplicemente il racconto di ciò che ho vissuto e a cui ho partecipato di persona. Formigoni non è un santo asceta: amava il bello, il lusso e le belle vacanze. Forse in questo avrà persino ecceduto. Come ho sempre pensato eccedesse in certe sue scelte estetiche nel vestire… Ma non è mai stato un uomo avido, attaccato al denaro, insensibile alle sue responsabilità e preoccupato solo di sè. Insomma non è mai stato un corrotto. Anzi ha sempre cercato di rendere concreta la sua vocazione cristiana in un campo difficile come quello della politica. Sbagliando certo, ma con una tensione al bene mai doma. Per queste ragioni sono profondamente dispiaciuto dell’esito della sentenza odierna, che certamente speravo diversa, e del giudizio che inevitabilmente ne deriverà nell’opinione pubblica sulla sua persona e sul suo lavoro di politico e di amministratore. Proprio per questo però non voglio che manchi anche pubblicamente il racconto e il giudizio di chi come me ha avuto la fortuna di conoscerlo e di stargli vicino. L’evidenza di questa esperienza è per me più forte, con tutto il rispetto dovuto, di qualunque giudizio emerso in un tribunale. Coraggio Roberto: il tempo è galantuomo e la verità alla lunga vince sempre!"

Maurizio Lupi e Alessandro Colucci, deputati di Noi con l’Italia: «La nostra totale solidarietà a Roberto Formigoni, della cui innocenza eravamo e siamo ancora convinti. Confidiamo ora nella Corte di Cassazione, fino al cui pronunciamento non si può parlare di giustizia. Ma non può essere questa condanna, e non lo sarà, il giudizio su vent’anni di amministrazione della Regione più all’avanguardia in Europa, per la sua sanità, per i suoi servizi, per l’innovazione, per la formazione, per la capacità di creare lavoro, per il welfare sussidiario, per i conti in ordine, per il miglior rapporto tra numero di dipendenti ed efficienza della pubblica amministrazione. Formigoni corrotto dal lusso è un’offesa alla sua intelligenza umana e politica, alla sua grande competenza amministrativa, alla capacità di fare squadra, di mettere insieme le persone a lavorare per obiettivi comuni. C’è un’eredità politica di costruzione positiva che non può e non deve essere dimenticata. I lombardi lo sanno. Siamo vicini a Roberto in questo momento difficile che, da lottatore qual è, troverà la forza di superare».

Carolina Pellegrini, consigliera di parità regione Lombardia, su Facebook: "In un periodo di sentenze arriva oggi come un’accettata netta che taglia in due anche il tronco più solido, la sentenza a Roberto Formigoni. Dura, durissima il massimo di pena che potevano dare. Il mio garantismo è noto ma oggi desidero dire qualche cosa di più e mi auguro che nessuno insulti o faccia battutacce perché non è proprio il caso, ma se qualcuno di voi proprio non ce la fa a controllare i suoi istinti almeno conti fino a 10 prima di esprimersi. Sarebbe stato facilissimo per me e tanti amici “cambiare aria”, metterci in posti più comodi o magari oggi essere già sul carro dei vincitori. Non l’ho fatto e di questo ho già scritto. Ma oggi voglio parlare di Roberto a cui sono vicina e a cui esprimo la mia più sincera solidarietà. La mia amicizia con Roberto Formigoni ha dell’assurdo ma proprio perché ha dell’assurdo credo proprio che sia vera. Ho cominciato a frequentare Roberto quando era praticamente già finita la sua esperienza di governatore Lombardo quindi quando nulla poteva offrirmi E qui desidero fare un affondo forte nei confronti di tutti coloro che abbandonano gli amici (amici?) quando non servono più quando l’onda del successo finisce… quando… Vili! Alla mia età, libera come sono lo posso dire, VILI. Roberto non ha un carattere facile ma è grande quando apre il cuore e quando cerca di trasmettere una passione per la politica e per il bene comune che francamente ho visto raramente. Oggi di questa passione e di questa straordinaria capacità di governo cosa resta? La LOMBARDIA!

Si può anche non condividere il modello regionale lombardo ma credo che nessuno possa negare cosa sia la Lombardia e quanto sia stato fatto in tanti anni. Io non ho nessunissima voglia di elencare le cose fatte e la validità di un modello geniale che è l’unico vero modello di centrodestra attivo e straordinario che c’è in questo paese. Vogliamo parlarne? Io aspetterò ancora l’ultimo pezzo del lavoro della magistratura in doveroso silenzio e credo che Formigoni farà la stessa cosa, ma non finirò mai di essere orgogliosa della mia Lombardia e dell’uomo che l’ha resa grande."

Luca Del Gobbo, capogruppo Nci nel Consiglio regionale lombardo: «Conosco Roberto Formigoni come politico e uomo di grandi valori, di indiscussa competenza, di passione sincera per il bene comune; doti che si sono trasformate, in quasi vent’anni di amministrazione regionale, in un lavoro continuo e instancabile per dare migliori opportunità ai lombardi in ogni settore: dalla scuola al lavoro, dalla formazione alla sanità, dai trasporti alla sicurezza. Un modello per il Paese e buona parte dell’Europa. Efficienza e qualità raggiunte non con una politica che impone e “cala dall’alto”, ma con quel metodo sussidiario che ha favorito il protagonismo delle persone, delle famiglie, delle imprese, dei corpi intermedi. Di questo sono e dobbiamo tutti essere grati a Roberto Formigoni. A lui, va la mia totale solidarietà per la condanna ricevuta oggi, che ancora non può dare in modo definitivo un giudizio di colpevolezza. Fanno male, infatti, tutti coloro che, in queste ore, si attardano a pronunciare sentenze definitive. Scivolare nel giustizialismo è un gioco facile, ma alquanto vile e meschino».

Milano popolare: "Dopo i “corrotti” del penta-partito messi alla sbarra alla fine della prima Repubblica, un altro importante pezzo della seconda viene punito quale nemico del popolo. Se il centro destra liberale esiste ancora rivendichi la storia dei 20 anni di azione politica di Formigoni in Regione Lombardia. Con la condanna di Roberto Formigoni in realtà si vuole far passare un giudizio negativo su tutti i suoi venti anni di esperienza di governo. E noi non ci stiamo. La recente storia di Regione Lombardia non è una storia criminale. Giudicarla attraverso il codice penale è ingiusto e sbagliato. Per noi l’applicazione del principio di sussidiarietà, proprio della dottrina sociale cattolica, e che qui ha trovato una sua esemplare concretizzazione, rimane modello e parametro del nostro impegno politico. Se un centrodestra esiste ancora, e vuole esistere ancora, deve confrontarsi con quel modello e quella storia, fatta di liberalizzazioni vere senza creare nuovi monopoli privati anziché pubblici, di strumenti reali di partecipazione democratica da parte dei singoli cittadini come di tutte le forze sociali e dei corpi intermedi, di libertà di scelta nell’erogazione dei servizi di cura e di educazione che ha finito per migliorarne la qualità, di importanti risparmi di risorse pubbliche senza incidere sulla carne viva delle persone, di tutela della vita e della famiglia. Se un’area liberale e popolare esiste ancora, e ha interesse ad esistere ancora, deve trovare il coraggio di rivendicare quella storia, ripensarla e riadattarla per rispondere alle sfide dell’oggi. A chi invece, sempre della vulgata, saluta con favore la condanna dell’ennesimo esponente “arrogante” della “casta”, diciamo di essere molto cauti. La pianta del giustizialismo, che ha messo radici con la stagione di Mani pulite, oggi vede i suoi fiori più maturi al governo del Paese. Ma si tratta di una pianta velenosa per chi pensasse di avvicinarsi e mangiarne i frutti. Infatti chi di giustizialismo ferisce, di giustizialismo perisce. Matteo Forte (consigliere comunale di Milano), Alessandro Bramati (presidente del Municipio 5), Deborah Giovanati (assessore del Municipio 9) e i consiglieri municipali di Milano Stefania Bonaccorsi, Elio Torrente, Nicola Natale, Massimo Casiraghi, Marco Campagnano, Giovanni Ferrari, Massimiliano Perri, Franco Vassallo, Eugenio Dell’Orto, Roberto De Lorenzo".

Roberto Formigoni, notizie drammatiche dal carcere: "Sta male, ecco le sue condizioni", scrive il 18 Aprile 2019 Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano. Ci giungono notizie infauste dal carcere di Bollate. Roberto Formigoni, ex governatore della Lombardia, non se la passa affatto bene. Dietro le sbarre da quasi due mesi per scontare una pena di 5 anni e 10 mesi per corruzione, il settantunenne in un primo momento ha affrontato la detenzione con serenità ed addirittura ottimismo. Tuttavia, negli ultimi giorni egli appare sempre più stanco e provato. Chi ha modo di incontrarlo di frequente ci riferisce che, nonostante l' ex politico mantenga un atteggiamento dignitoso e non si pianga mai addosso, cercando persino di dissimulare la sua sofferenza fisica ed emotiva al fine di non pesare su chi gli sta vicino, è facile accorgersi che il suo spirito oggi è del tutto mutato. Formigoni è stato accolto con amore dagli altri carcerati, che lo chiamano con riguardo «presidente». Ed egli stesso, che si trova in cella con tre condannati, legge ogni dì i quotidiani e li passa ai compagni commentando poi con loro le notizie di stretta attualità. È un modo per non perdere i contatti con il mondo esterno, per restare nella realtà. Sebbene Formigoni sia integrato nella comunità detenuta, l' esistenza in gattabuia non è mica un bel vivere, tanto più quando hai già compiuto i settant' anni. La galera non dovrebbe ospitare anziani, posto che la stessa Costituzione prevede che la pena sia umana nonché la sua finalità rieducativa. Anche l'art. 47 dell' ordinamento penitenziario specifica che la persona che abbia compiuto i settant' anni possa scontare la condanna ai domiciliari, ossia nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora.

LA "SPAZZACORROTTI". Eppure nei confronti dell' ex presidente lombardo c' è stata una sorta di accanimento, che non possiamo fare a meno di rilevare: è stato ritenuto reo dai giudici di corruzione, anche se non è stato trovato il corpo del reato, ossia il grano, o comunque la contropartita che il soggetto ha potuto ricevere in cambio di vantaggi concessi all' altra parte, ci rifiutiamo di reputare che un giro in barca, come pure una vacanza intera su uno yacht, in mezzo ai paparazzi pronti a carpire la consumazione del delitto, possa costituire il compenso che il politico abbia richiesto e ottenuto, la prova infallibile della sua disonestà. Formigoni, inoltre, è stato sbattuto al fresco sulla base di una legge, la cosiddetta "spazzacorrotti", che ha esteso pure agli ultra settantenni giudicati colpevoli di corruzione l' obbligo di scontare la punizione in carcere e non ai domiciliari, così come previsto dall' ordinamento. Codesta norma, approvata nel 2018, è stata applicata però dai magistrati retroattivamente, in violazione dell' articolo 25 della Costituzione in base al quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». La richiesta dei domiciliari avanzata dagli avvocati dell' ex governatore è stata bocciata poco più di due settimane fa, estinguendo le ultime speranze dell' uomo. E questa è un' altra stranezza. È evidente che esista un conflitto normativo ancora da chiarire e che tiene incatenato alle sbarre un individuo il quale dovrebbe vivere questi ultimi anni della sua esistenza, che noi gli auguriamo siano decenni, in un ambiente consono e non in una cella fredda, umida ed angusta.

I NUMERI. Gli ultimi dati disponibili e risalenti al 2017 attestano che i detenuti over 70 in Italia sono quasi 800 (inclusi soggetti nati negli anni 30 del secolo scorso), numero che è lievitato in modo vertiginoso nell' ultimo decennio fino a raddoppiare e che continua a crescere, anche per effetto dell' invecchiamento generale della popolazione. Ci si domanda perché le misure alternative alla detenzione, compresi gli arresti domiciliari, non vengano concessi sebbene lo stabilisca la legge. Queste persone - preme sottolinearlo - non scontano ergastoli, ma è come se di fatto fossero castigate al carcere a vita, ossia fino al decesso. Poiché se già la terza età è dura, faticosa, piena di acciacchi, codesti patimenti si acuiscono quando si permane lontani dagli affetti, privi di libertà, di assistenza, di amore e di sicurezze nelle quali gli anziani cercano rifugio e conforto. Dovremmo avere sete di giustizia, invece spesso ci dimostriamo bestie affamate di giustizialismo, che altro non è che giustizia spogliata di umanità e di buonsenso, tracimata infine nel suo esatto opposto.

Formigoni, i pm contabili chiedono un risarcimento di 60 milioni di euro. Pubblicato mercoledì, 22 maggio 2019 da Corriere.it. La Procura lombarda della Corte dei Conti ha chiesto la condanna al risarcimento del «danno erariale» per circa 60 milioni di euro per l’ex governatore Roberto Formigoni, per la Fondazione Maugeri e per altri imputati nel procedimento sulla vicenda dei finanziamenti erogati dalla Regione Lombardia alla Maugeri, fino all’anno 2011. Vicenda che sul fronte penale ha portato alla condanna definitiva per corruzione a 5 anni e 10 mesi per Formigoni, ora recluso nel carcere di Bollate. All’ex governatore lombardo, che si trova in carcere dal 22 febbraio scorso dopo la condanna in via definitiva per corruzione, sono stati già sequestrati in via conservativa, lo scorso giugno, dalla Procura regionale della Corte dei Conti 5 milioni di euro, compresi vitalizi e pensione, e in caso di condanna quella cifra potrebbe essere pignorata. «Senza pensione vivrò d’aria», era stato il commento di Formigoni, che aveva affermato di aver «rinunciato da tempo» ai vitalizi. La decisione sulla richiesta dei pm contabili, guidati dal procuratore Salvatore Pilato, davanti alla prima sezione della Corte dei Conti sarà depositata nelle prossime settimane. Mercoledì i sostituti procuratori della Corte dei Conti, Antonino Grasso e Alessandro Napoli, hanno ricostruito che Formigoni e gli altri imputati avrebbero fatto parte di un «sodalizio di persone fisiche» a cui sarebbero stati retrocessi quei circa 60 milioni di euro di finanziamenti pubblici erogati dalla Regione Lombardia, a titolo di «funzioni non tariffabili», alla Fondazione Maugeri con sede a Pavia. Gli imputati nel procedimento sono, oltre all’ex governatore e alla Fondazione Maugeri, l’ex patron della struttura sanitaria Umberto Maugeri, l’ex direttore finanziario Costantino Passerino, e i «collettori» delle tangenti a favore del Governatore (tra cui spese per vacanze e anche l’uso di yacht) Pierangelo Daccò e l’ex assessore lombardo Antonio Simone. «L’impianto accusatorio della Procura della Corte dei Conti - ha detto il pm Grasso nella requisitoria - si basa in buona parte, ma non solo, sulla ricostruzione accusatoria fatta dalla Procura ordinaria. E riguarda, in particolare, la concessione di finanziamenti pubblici a titolo di “funzioni non tariffabili” che in parte sono stati utilizzati per remunerare le prestazioni rese dalla struttura sanitaria, e in buona parte, per circa 60 milioni, sono stati retrocessi alle persone fisiche, che fanno parte di un sodalizio».

Quadri, denaro, case  e terreni: le ultime  confische a Formigoni. Pubblicato mercoledì, 05 giugno 2019 da Giuseppe Guastella su Corriere.it. Mancavano solo quattro quadri antichi, ma ora anche quelli ufficialmente fanno parte del patrimonio dello Stato. Valore complessivo 70mila euro circa, è quanto rimaneva dei beni di Roberto Formigoni che doveva ancora essere confiscato dopo la condanna definitiva dell’ex Governatore lombardo a 5 anni e 10 mesi di reclusione nel processo San Raffaele-Maugeri. È stato il legale di Roberto Formigoni, l’avvocato Mario Brusa, a consegnare i quadri agli agenti della sezione di pg della Guardia di Finanza che nei giorni scorsi avevano già eseguito una serie di confische a carico di tutti gli imputati condannati nel processo. Si tratta di tre tele acquistate tra il 2010 e il 2012 con fondi delle Ferrovie Nord da Norberto Achille, l’allora presidente dell’ente che ha patteggiato due anni di reclusione (pena sospesa) per le spese pazze fatte usando le carte di credito dell’ente. Achille aveva regalato i quadri a Formigoni. Il quarto è un dono del 2009 fatto da Giuseppe Grossi, il defunto re delle bonifiche che fu coinvolto nell’inchiesta sull’inquinamento dell’area di Santa Giulia. È il dipinto che vale di più, dato che è stimato intorno ai 50 mila euro. A luglio 2015 la Gdf aveva bussato alla porta dell’abitazione in cui allora Formigoni viveva con la comunità dei Memores Domini di Comunione e Liberazione, ma le Fiamme gialle si erano dovute fermare sulla soglia perché lo stesso Formigoni era senatore del gruppo di Ncd e, come tale, non era possibile accedere nella sua casa per sequestrare i quadri senza autorizzazione del Senato. La consegna fatta dall’avvocato Brusa è un gesto che potrebbe avere una lettura precisa. Formigoni, che è in carcere a Bollate da più di tre mesi, ha voluto chiudere senza fare resistenza anche l’ultima partita aperta negli strascichi del processo. Un atteggiamento di apertura che potrebbe tornargli utile quando, ma soprattutto se, dovesse presentarsi la possibilità di accedere ai benefici penitenziari, a partire dalla detenzione domiciliare che, nonostante lui abbia oltre 70 anni (ne ha 72), gli è preclusa dalla legge «spazzacorrotti». È necessario, però, che la Corte Costituzionale dichiari illegittima la preclusione per coloro che, come Formigoni, hanno commesso reati prima della sua entrata in vigore oppure che il Tribunale di Sorveglianza accolga le richieste del condannato. Su ordine della Corte d’Appello, la GdF ha confiscato all’ex governatore anche circa 32 mila euro già bloccati su tre conti correnti e le quote di alcune proprietà di famiglia: due box, un terreno, alcune abitazioni a Lecco e una casa a San Remo. C’è anche il 50% della villa di Arzachena (Sassari) che, secondo l’accusa dei pm Laura Pedio e Antonio Pastore, sarebbe stata venduta da Pierangelo Daccò ed acquistata da Formigoni con l’amico Alberto Perego (che è stato assolto) per tre milioni, ma con uno sconto di almeno un milione e mezzo sul valore reale. La confisca riguarda anche tre vecchie auto dal valore modestissimo. Anche Daccò, l’apriporte in Regione condannato in via definitiva a 9 anni per la vicenda San Raffaele e aveva patteggiato altri 2 anni e 7 mesi per la Maugeri, si vede confiscare quote societarie e 3,2 milioni su conti correnti. Come Costantino Passerino, l’ex amministratore Maugeri condannato a 7 anni e 7 mesi rinchiuso a Bollate, al quale viene confiscato circa un milione e 454mila euro.

INTELLIGENTI O FURBI. Vittorio Feltri, la lezione ai giudici: un'amarissima verità sui politici corrotti. Libero Quotidiano 1 Giugno 2019. Nei giorni scorsi il viceministro Rixi è stato condannato con altri per aver cenato qualche volta a sbafo della Pubblica amministrazione. Una sentenza grossa per un reato piccolo piccolo. Il governatore del Piemonte Cota fu silurato per un paio di mutande verdi che poi non risultarono provento di furto. Oltre venti anni fa ci fu tangentopoli che cancellò la Seconda Repubblica travolta da inchieste e processi a carico di politici che avevano intascato miliardi. Già, la questione morale sollevata da Enrico Berlinguer non era uno stato d'animo bensì una solida realtà. Tutti sgraffignavano per il partito e qualcuno sgraffignava anche al partito per vivere agiatamente. Risultato, spazzate via le forze politiche quasi fossero organizzazioni criminali. Se ne salvò una soltanto, quella degli ex comunisti che pure grattavano di brutto, quanto gli altri. Botteghe Oscure furono salvate da un miracolo giudiziario. Forse la sinistra godeva di una protezione celeste esattamente come accade adesso. Lo dico senza spirito polemico ma con spirito critico. È passato tanto tempo dall'epoca gloriosa di Mani pulite, però le mani continuano ad essere considerate sporche cosicché i pesci nani seguitano a finire nella rete e a pagare prezzi enormi per aver intascato bazzecole, briciole. Irubagalline vengono perseguiti con un accanimento degno di miglior causa e i ladroni, e gli imbecilli, la fanno franca. La regione Lombardia, la più efficiente, è sotto tiro per quattro minchiate, tipo abuso d'ufficio (equiparato a una sosta vietata) mentre quelle del Sud, che ne combinano di ogni colore, sono risparmiate dai tutori distratti della legge.

Ma non è questo il punto. Si discute di corruzione come fosse un dramma nazionale, poi si scopre che nel Settentrione si va in galera per una consulenza di ottomila euro assegnata a un pirla tuo conoscente o per una nota spesa esagerata. Il senso delle proporzioni è svanito. Si vuol far credere che il seme del malaffare germogli prevalentemente nella politica, ed è una fandonia. È l'umanità ad essere imperfetta e tendente ad approfittarsi delle situazioni. La gente è pronta ad arraffare per campare meglio di quanto le consenta il proprio reddito, evade il fisco in massa, non paga l'assicurazione dell'automobile, va in moto senza casco, riscuote pensioni di invalidità pur essendo sanissima. Il popolo si arrangia in qualsiasi modo, soprattutto se illecito. Personalmente ho diretto sette o otto giornali e mi sono trovato dinanzi a episodi imbarazzanti. Al vertice dell'Europeo, settimanale di prestigio, un giornalista mi presentò una lista costi da brivido: una stecca di Marlboro, un chilo di parmigiano, una bottiglia di whisky e il pernottamento in un motel dove normalmente non si va per recitare il Rosario e neppure per compilare un articolo. Ovviamente contestai la richiesta di rimborso e litigai col redattore. Mancò poco che lo picchiassi perché aveva preso per il culo me e l'azienda, la Rizzoli. Questo significa che non è necessario essere un politico per cedere alla tentazione di fregare soldi, la qual cosa è estesa alla collettività, e i cronisti non sono esenti dal desiderio di lucrare disonestamente. Ne sono testimone e per darmi un po' di arie dico che da lustri non presento note della spesa nel timore di sbagliare a mio vantaggio. Lo faccio per una ragione semplice: temo di rimediare figure di merda. Tutto ciò dimostra che non si può pulire il mondo e renderlo lindo quale un giglio. Gli uomini o sono intelligenti o furbi. In ogni caso preferisco essere governato da un briccone che da un idiota senza macchia.  Vittorio Feltri

Vittorio Feltri a Roberto Formigoni: "Basta, adesso devi chiedere la grazia a Sergio Mattarella". Libero Quotidiano il 4 Giugno 2019. Mi dice il direttore di Tempi, Emanuele Boffi, che Formigoni desiderava mi sentissi a pieno titolo tra gli amici destinatari della sua lettera. Questo titolo di amico mi sorprende e mi onora.  Il fatto che tale appellativo mi sia dedicato da un uomo in galera non mi provoca disagio. Anzi. Ho confessato in passato di stimare l'ex presidente della Lombardia come eccellente amministratore di una regione che ha trasformato in un prototipo invidiato e imitato nel mondo specie in campo sanitario (non purtroppo al Sud). Adesso la missiva, dove racconta la sua carcerazione con semplicità e senza lagne, desta in me l'ammirazione per la persona. Si dichiara innocente, e cita a sostegno il giudizio del grande avvocato Franco Coppi, secondo cui non ci sono a suo riguardo né colpa né prove. A 71 anni è caduto dal 31° piano di un grattacielo con vista su Milano e sulle Alpi nel cortile di una prigione ma non si è spiaccicato al suolo, si è tirato su. La prospettiva di farsi sei anni in cella non lo ha umiliato, non è stato schiacciato interiormente dal calcagno dei suoi nemici. Non ostenta chissà quali speciali sofferenze per l'ingiustizia. Ritiene le sue pene dolorose, ma paragonandosi alla situazione di altri, compagni di detenzione o agenti della penitenziaria, riconosce che forse hanno più problemi di lui. Non nasconde la sua fede, però non si esibisce in Gesummarie, una sobrietà che dà maggior credibilità alla sua testimonianza. La finisco con gli elogi, giacché sarei io a risultare patetico. Confesso. Leggere come questo signore trascorre le giornate, tra pratiche burocratiche pervasive anche per prendersi la medicina tre volte al giorno, dove per ogni minima esigenza deve dipendere dall'umore altrui, regredito per legge in una specie d'infanzia delimitata dalle sbarre, mi sgomenta, poiché, come il grande Coppi, da povero gregario sono pure io arciconvinto della non colpevolezza penale di Formigoni. Sull'etica e soprattutto sull'estetica discutibile di certe sue vacanze non esisteva alcun diritto di imbastirgli un processo in tribunale, e lascio ai moralisti un tanto al chilo di giudicarlo, loro che hanno adorato l'eleganza dei tuffi dallo yacht dell'Avvocato con il pistolino per aria. Se lo dice di me, allo stesso modo credo che il Celeste chiami amici i lettori di Libero, dei quali sono sicuro di aver interpretato i sentimenti quando ho chiesto al capo dello Stato di esercitare la sua facoltà di concedergli la grazia. Ribadisco la richiesta, e se possibile con più determinazione. Mi rendo conto che l'epistola formigoniana dalla cella non faciliti, a dar retta ai giureconsulti, la clemenza del presidente della Repubblica. Infatti essa presupporrebbe - mi si dice - il pentimento del reo o almeno uno stato di salute a rischio di decesso. Le ultime scelte di Sergio Mattarella non sono andate però in questo senso: ha saputo correggere con la sua saggezza decisioni della magistratura formalmente corrette ma cariche di ingiustizia. È il caso di Formigoni. Il fatto che non strisci accusandosi e non si demolisca con scioperi della fame per ottenere pietà è prova semmai di rettitudine. Formigoni ha già pagato abbondantemente presunte colpe con l'umiliazione della prigione. Questo non appagherà di certo gli strilloni del crucifige, ma se ne faranno una ragione. Una cosa chiedo a Formigoni: domandi umilmente la grazia, pieghi il suo orgoglio. Chiedere la grazia a un galantuomo, allorché è l'ultima ratio affinché si faccia almeno un po' di giustizia, è un servizio alla buona causa. E, se permette, un piacere personale al mio bisogno di addormentarmi in pace. Vittorio Feltri

Formigoni racconta la vita in cella "Mi hanno scritto duemila persone". L'ex governatore sconta 5 anni e 10 mesi: «C'è solidarietà tra detenuti. La condanna ingiusta non inquina il mio cuore». Paolo Bracalini, Martedì 04/06/2019 su Il Giornale. Da tre mesi e una settimana nel carcere di Bollate per scontare una condanna a 5 anni e 10 mesi, Roberto Formigoni mantiene un contatto con la realtà esterna attraverso le lettere. Quelle che riceve, «ben oltre duemila» sia in forma cartacea che attraverso una casella di posta elettronica gestita per i detenuti da una cooperativa. Sia quelle che scrive, molte in forma privata e qualcuna in forma pubblica a Tempi, settimanale di area Cl, il movimento cattolico da cui proviene l'ex governatore. Nell'ultima lettera Formigoni racconta per la prima volta la sua vita da carcerato, smentendo le voci che lo danno depresso e privo di speranze: «In galera, come ho imparato nella mia vita, vivo il presente istante per istante, e il presente è il luogo della presenza di un Altro, e ogni istante è un'occasione di sofferenza ma anche di incontro, di dialogo, di riflessione - scrive nella lettera Formigoni - Tutto ciò ha destato qui una certa sorpresa, perché ci si aspetta che il detenuto, specie nei primi tempi, sia almeno un po' provato, un po' depresso, se non addirittura che mediti intenti cattivi, tant'è che per un certo periodo devi incontrare quotidianamente lo psicologo o lo psichiatra. E uno di questi un certo giorno mi ha fatto chiamare per domandarmi: «Ma lei si rende conto di dove è, di cosa le è successo, di come dovrà vivere?». In realtà voleva chiedermi: Ma lei è pazzo? Come fa a vivere così?. Eppure anche qui si può vivere così. E si può vivere così anche in rapporto agli altri detenuti e agli agenti di polizia penitenziaria. Ciascuno è una persona, ovviamente coi suoi problemi, a volte grandi o grandissimi, con una prospettiva di futuro pesante o incerta, con speranze che vanno e vengono. Ma con molti si può creare uno scambio, un riconoscimento, qualche forma di solidarietà». Dagli altri detenuti (che lo chiamano «presidente») ha ricevuto un'accoglienza inaspettata, tanto che si è accorto solo recentemente che in carcere il caffè è a pagamento, finora glielo avevano sempre offerto gli altri carcerati. La vita da detenuto è scandita da ritmi burocratici che riducono il «tempo utile», il resto lo utilizza per leggere testi classici e contemporanei, politica, economia, teologia. «Al contrario di quel che si può pensare, in carcere il tempo è poco almeno per me -, non tanto. Devi fare tutto ciò che è legato alla sopravvivenza quotidiana, devi sottoporti a pratiche burocratiche e tempi di attesa, devi compilare la domandina per ogni cosa. Se vai in biblioteca ti chiamano in reparto per consegnarti la posta che viene aperta in tua presenza lettera per lettera, poi ritorni in biblioteca per essere di lì a poco richiamato per ritirare una raccomandata che ti viene consegnata in un luogo diverso, mentre la consegna dei pacchi è in un altro luogo ancora con un'altra trafila. E pure le medicine le devo ritirare, una pastiglia al giorno, in tre momenti diversi». E poi appunto la corrispondenza, moltissime lettere e mail «che per settimane mi sono arrivati a fiumi. È qualcosa di straordinario, che mi emoziona e mi sorprende ogni volta. Il mio più grande cruccio è di non riuscire a rispondere che a pochi. Ma i messaggi li conservo tutti, è un tesoro che non hanno potuto né condannare né distruggere. E che porterò sempre con me». Chi gli ha parlato racconta del «senso di ingiustizia profonda» che l'ex governatore lombardo sente di aver subito. Lo scrive anche nella lettera citando il penalista Coppi: «Una condanna senza colpa e senza prove». Ma quello in carcere è ancora il Formigoni combattivo di una volta: «Mi è stato chiaro fin dal primo istante che questa situazione non poteva dominare né i miei giorni né i miei minuti. Hanno potuto condannarmi ma non hanno potuto decidere del mio modo di reagire e di vivere, non hanno potuto inquinare né il mio cuore né il mio cervello».

Formigoni lascia il carcere: concessi gli arresti domiciliari. Pubblicato lunedì, 22 luglio 2019 da Giuseppe Guastella su Corriere.it. Il tribunale di sorveglianza di Milano ha disposto la scarcerazione di Roberto Formigoni, che sta scontando una condanna definitiva a 5 anni e dieci mesi di carcere per corruzione, e gli ha concesso gli arresto domiciliari. Li sconterà, come aveva annunciato, ospite di un amico in una casa di Milano, e se gli sarà concesso farà volontariato in un convento di suore. Meno di cinque mesi di carcere avevano sgretolato il suo costante e fermo rifiuto ad ammettere le sue responsabilità: mercoledì scorso per la prima volta, a sette anni dall’inizio delle sue disavventure giudiziarie per il caso Maugeri–San Raffaele, aveva affermato «Comprendo il disvalore dei miei comportamenti». L’ex potente governatore della Lombardia, 72 anni, che dal 22 febbraio scontava la pena nel carcere di Bollate, si era presentato mercoledì pomeriggio di fronte al collegio presieduto da Giovanna Di Rosa, con il giudice Gaetano La Rocca e due esperte. Smagrito, polo bianca su un paio di jeans, era accompagnato dai suoi legali, Mario Brusa e Luigi Stortoni. Aveva chiesto la detenzione domiciliare riservata ai detenuti che hanno più di 70 anni, ma che è impedita dalla legge «Spazzacorrotti». Gli avvocati hanno puntato a scardinare il divieto passando attraverso il principio di non retroattività della norma penale. Una questione sulla quale pende un ricorso alla Corte costituzionale sollevato a Venezia. I difensori hanno sostenuto anche la «collaborazione impossibile», quella che permette di concedere i benefici penitenziari anche ai condannati per reati di mafia o di terrorismo (di norma ne erano esclusi) quando i giudici accertano che i condannati, pur volendolo, non possono fornire elementi utili alla giustizia nel corso dei processi o dopo per fare altra luce sulle vicende che li riguardano. Il sostituto procuratore generale Nicola Balice, che rappresentava l’accusa in Sorveglianza, aveva dato parere negativo sulla prima questione, ma aveva detto sì alla seconda, nonostante il procuratore aggiunto Laura Pedio, che ha sostenuto l’accusa in primo grado e in appello, abbia trasmesso un parere in cui sostiene che Formigoni potrebbe fare ancora luce su questioni rimaste oscure. Pedio ha aggiunto che in passato, se l’ex governatore avesse voluto collaborare, avrebbe dovuto quantomeno farsi interrogare, cosa che ha sempre rifiutato sia durante le indagini che nei processi, limitandosi a rilasciare solo dichiarazioni spontanee. In aula Formigoni ha assicurato di aver riflettuto molto in questi mesi. «Oggi comprendo che avrei fatto meglio a farmi interrogare», ha detto, giustificando le dichiarazioni spontanee con la volontà di evitare che le domande dell’accusa e delle difese frammentassero il suo ragionamento. Ha parlato di Bollate, dei compagni di cella, degli operatori che l’hanno aiutato in questi mesi. «Mi conformo alla sentenza», ha detto, porgendo ai giudici l’elemento dell’accettazione della condanna, indispensabile per ottenere i benefici penitenziari. Poi ha spiegato che, anche volendo, non può contribuire a far rientrare altri soldi frutto dei reati anche perché, ha affermato, «sono povero», ricordando che gli è stato sequestrato o confiscato tutto, compreso il vitalizio che gli versava la Regione Lombardia dopo 18 anni ininterrotti di presidenza. Ha detto di non sapere nulla di conti esteri e di società in paradisi fiscali. Ora che i giudici hanno accolto la sua richiesta, Formigoni lascerà il carcere per proseguire la detenzione in un’abitazione di Milano che ha già indicato. Se possibile, vorrebbe essere autorizzato a fare volontariato in un convento di suore per il resto della pena, che scadrà a metà 2023, benefici compresi.

Formigoni ai domiciliari: volontariato con anziani e disabili. E la sorella gli porta libri di etica e storia della chiesa. L'ex governatore ha lasciato dopo cinque mesi il carcere, sconterà la pena a casa di un amico di Milano, un docente di statistica della Bicocca. Il cappellano di Bollate: "Era come tutti gli altri detenuti, si è adattato a questo luogo". Luca De Vito e Zita Dazzi il 23 luglio 2019 su La Repubblica. La sua nuova casa, dopo i cinque mesi trascorsi nel carcere di Bollate, è un appartamento di Milano, ospite di un amico. Da qui, ogni giorno, l'ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, condannato in via definitiva a cinque anni e dieci mesi per corruzione, potrà uscire ogni mattina per andare a fare volontariato, come ha chiesto, all'istituto religioso Piccolo Cottolengo Don Orione, che ospita persone anziane e disabili e dove prima del carcere aveva già insegnato l'italiano a sei religiosi provenienti dal Madagascar. E' uscito dal carcere poco prima delle 14 di ieri, Formigoni, appena è stata notificata la decisione del giudice di Sorveglianza: domiciliari, per finire di scontare la sua pena. L'indirizzo accolto dai giudici è quello di un amico di vecchia data di Formigoni, Walter Maffenini, docente di statistica alla Bicocca, che lo aiuterà anche economicamente, visto che l'ex 'Celeste' ha sempre sostenuto di non potersi "più nemmeno comprare da mangiare" per via del procedimento della Corte dei Conti e per il sequestro di tutti i suoi beni. Ieri, in serata, la sorella Anna Maria è andata a trovarlo portandogli un pacco di libri, tra questi 'L'etica fiscale ed economica nell'opera di Ezio Vanoni' di Paolo Del Debbio e "Storia del monachesimo occidentale". La decisione dei giudici del tribunale di Sorveglianza arriva dopo l'udienza, la scorsa settimana, in cui gli avvocati di Formigoni, Mario Brusa e Luigi Stortoni, avevano chiesto per lui una pena alternativa. La scarcerazione dell'ex governatore è stata decisa dal tribunale di Sorveglianza per ragioni tecniche, ma anche per il suo ravvedimento. Davanti ai giudici che gli hanno concesso i domiciliari, Formigoni aveva ammesso 'errori': "Solo oggi comprendo che sarebbe stato meglio rispondere alle domande e comprendo il disvalore dei miei comportamenti. Le mie convinzioni personali e culturali mi hanno fatto decidere di costituirmi per rispetto dello Stato". Anche se appena un mese fa, in una lettera inviata alla rivista Tempi, usava un tono ben diverso: "Hanno potuto condannarmi ma non hanno potuto decidere del mio modo di reagire e di vivere, non hanno potuto inquinare né il mio cuore né il mio cervello". Dal carcere di Bollate parla don Antonio Sfondrini: "Ci siamo salutati prima che uscisse, mi ha detto che senz'altro ci rivedremo, anche se lui sarà fuori, da un'altra parte: è stato un momento commovente, perché in questi mesi si era creato un rapporto fra di noi. Lo vedevo praticamente tutti i giorni, questo è il mio lavoro. Io aiuto i detenuti, parlo con loro quando hanno bisogno, e in questo Formigoni non si distingueva dagli altri, ha mostrato grande adattamento. Era un uomo come gli altri uomini nella condizione della prigionia. Il carcere è un luogo che livella le differenze sociali, un posto dove si sta molto assieme e ci si conosce". Come motivazione del provvedimento c'è una questione tecnica. La legge infatti, per effetto della Spazzacorrotti, prevede la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere solo per chi collabora, anche nei casi di reati contro la pubblica amministrazione. La posizione degli avvocati - accolta dai giudici - sosteneva che Formigoni non potesse più collaborare sui fatti che lo riguardavano, visto che tutto era accertato. Diverso il parere della procura, che in una memoria ha sostenuto di non avere "elementi certi per ritenere, ma nemmeno per escludere" che l'associazione a delinquere di cui facevano parte Pierangelo Daccò e l'ex assessore Antonio Simone, gli intermediari della corruzione, fosse "ancora in atto". I guai giudiziari di Formigoni, però, non sono finiti. È ancora pendente un procedimento nei suoi confronti a Cremona, dove deve sostenere l'accusa di corruzione su un presunto giro di tangenti nella sanità; tra gli imputati anche l'ex direttore generale dell'ospedale di Cremona Simona Mariani e l'ex direttore generale dell'assessorato regionale alla Sanità Carlo Lucchina.

Formigoni ai domiciliari: «Un errore quelle vacanze. In cella mi ha aiutato la fede». Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Giuseppe Guastella su Corriere.it. Un’occhiata a destra, una a sinistra. Un passo oltre la soglia del portone e poi ancora un’occhiata a destra e una a sinistra. Solo quando si convince che non ci sono fotografi ad aspettarlo, Roberto Formigoni fa la sua prima passeggiata «libera» dopo che il Tribunale di sorveglianza di Milano gli ha concesso la detenzione domiciliare. Alla persona che lo ospita dopo 5 mesi di carcere a Bollate, confida: «L’errore che ho commesso? Non dovevo fare quelle vacanze. È stata un’imprudenza, un’inopportunità». Camicia bianca a quadri neri, pantaloni scuri, l’ex potente governatore della Lombardia si avvia sul marciapiede di una strada nei pressi di Piazza Firenze. Accogliendo la richiesta degli avvocati Mario Brusa e Luigi Stortoni, i giudici gli hanno concesso di scontare in casa quanto rimane della condanna per corruzione a 5 anni e 10 mesi per la vicenda Maugeri, con i 6,6 milioni di euro in viaggi esotici da sogno, uso esclusivo di due yacht e metà di una villa in Sardegna acquistata a prezzo scontato che gli ha elargito Pierangelo Daccò, «apriporte» in Regione, e dal socio di questi Antonio Simone. I giudici hanno imposto varie prescrizioni, esattamente come avviene per tutti i detenuti, perché colui che per 18 anni è stato alla presidenza del Pirellone, va ricordato, resta sempre un detenuto. Può uscire di casa solo per necessità di salute e, due ore al giorno, «per soddisfare indispensabili esigenze di vita», come andare a fare la spesa o in farmacia senza mai lasciare Milano. Deve, tra l’altro, avere contatti costanti con gli assistenti sociali dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna e non deve frequentare pregiudicati né tossicodipendenti. Formigoni approfitta delle due preziose ore anche per fare un po’ di moto. Dimagrito, nove chili in meno lo hanno ringiovanito, si muove a passo veloce sul marciapiede. Qualcuno lo riconosce e lo saluta, c’è anche chi gli stringe la mano. Lui si ferma, cordiale, quel tanto che basta per non essere scortese. Non può rilasciare interviste, ma parla con il professore universitario che lo ospita. Ha ottenuto la detenzione domiciliare anche perché, come hanno scritto i giudici, ha fatto una «revisione sulle condotte processuali assunte» dopo che per anni, come era suo diritto, si è difeso negando ogni responsabilità e non facendosi mai interrogare. Ora, però, sembra pentito: «Ripensandoci, forse sarebbe stato meglio rispondere alle domande. Io non ho compiuto reati». A chi dice che ha cambiato linea, risponde: «Ho accettato la sentenza e l’ho rispettata. Subito. Tanto è vero che mi sono presentato spontaneamente in carcere 12 ore dopo. Questo, però, non vuol dire essere d’accordo con essa. L’ho fatto per formazione, per cultura e rispetto delle istituzioni». Perché, confida al professore, si sente sempre «un uomo delle istituzioni». Errori? «Non certamente quello di aver fatto della Lombardia una delle prime regioni d’Europa, e non solo nella sanità», dice. A chi, come i pm nel processo, obietta che forse, senza sprechi e tangenti, la Lombardia poteva essere migliore, risponde sarcastico: «Migliore? Tutti riconoscono che è stata la migliore». Un errore lo ammette: «Dovevo smettere di frequentare quegli amici trentennali (Daccò e Simone, ndr) quando cominciavano a occuparsi di materie di competenza regionale (la sanità, ndr)». Come ha superato l’impatto con la detenzione? L’amico spiega che ad aiutare Formigoni è stata la conoscenza del carcere visitato molte volte come parlamentare e «la fede e l’educazione a guardare gli altri negli occhi». Tra poco più di un anno potrebbe chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali. Progetta di riprendere il volontariato che faceva al Piccolo Cottolengo Don Orione di Milano, dove insegnava italiano a 6 suore straniere che assistono anziani e disabili.

Formigoni scarcerato, una buona notizia. Ma il Tribunale è andato contro la legge. Avv. Michele Passione il 27 luglio 2019 su Il Dubbio. Con ordinanza del 17 luglio il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha disposto che la pena inflitta dalla Corte di Appello di Milano nei confronti di Roberto Formigoni per corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio venga espiata in regime di detenzione domiciliare, ex articolo 47 ter, comma 01, dell’Ordinamento penitenziario, trattandosi di condannato ultra settantenne. Per chi ama la libertà, ancorché limitata alle mura domestiche, è una buona notizia. Tuttavia, affinché non resti un non detto, occorre fare chiarezza. Sulle pagine di Repubblica Luigi Manconi ha affermato che è possibile, sia pur “faticosamente”, difendere l’indifendibile, “in nome della forza del diritto e dei principi del garantismo”. Ci permettiamo di osservare come non sia affatto faticoso rispettare la Legge, e così anche che non vi sono indifendibili ( neanche quelli definitivamente condannati), per la buona ragione che le regole valgono per tutti; le regole, però. Ha invece ragione Luigi Manconi quando deplora l’argomentazione populista ( quasi un ossimoro) per la quale l’uguaglianza andrebbe praticata al ribasso, e dunque anche il Celeste, come i suoi ( non pochi) coetanei detenuti, avrebbe dovuto scontare la pena per intero in carcere ( o, se si preferisce, marcire in galera – strano, ma in questo caso non si è levata voce dal Viminale). Infine, e questo è ciò che ci preme evidenziare, Manconi sbaglia quando sostiene che il provvedimento milanese è corretto (“legittimo”, certo, ma “previsto dall’ordinamento giuridico”, no). Vediamo perché. Il ragionamento del Tribunale milanese è il seguente: la Legge 3 del 2019 si applica anche se i fatti son stati commessi molti anni prima ma non occorre sollevare questione di legittimità costituzionale ( come fatto da altri Giudici, anche di legittimità), dovendosi valutare se il condannato abbia prestato attività di collaborazione con la Giustizia, o se la stessa debba essere ritenuta impossibile o inesigibile, ai sensi del comma 1 bis dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. Una volta accertato questo, l’ostatività verrebbe meno, e dunque l’ex presidente della Regione potrebbe accedere alla misura richiesta, la detenzione domiciliare per ragioni di età, “peraltro l’unica misura alternativa praticabile” ( per il quantum di pena inflitta e da espiare), sostiene il Collegio. Non è così. E infatti, il Tribunale non spiega ( neanche in un obiter) come sia possibile superare l’espressa esclusione apposta alla concessione della misura dal primo comma dell’articolo 47 ter comma 01 Ordinamento penitenziario ( introdotta, assai prima della recente Legge 3/ 2019, dalla Legge ex Cirielli), che per l’appunto ( così come tante disposizioni dell’Ordinamento penitenziario) pone preclusione per i condannati per delitti di cui all’articolo 4 bis ( tra i quali oggi, in virtù stavolta proprio della Legge 3/ 2019, anche l’articolo 319 del Codice penale, il reato attribuito a Formigoni). Era, questo, il tentativo riformatore e apotropaico percorso dalle Commissioni Ministeriali dei cosiddetti Stati generali dell’esecuzione penale ( liberare le misure alternative dalle ostatività e dai tipi di autore), come noto fallito sulla linea di arrivo. L’unica strada percorribile, chiara, corretta, sarebbe stata quella di sollevare questione di legittimità costituzionale, o chiedendo una sentenza ablativa dell’articolo 47 ter comma 01 ( eliminando la preclusione del 4 bis introdotta a suo tempo dalla ex Cirielli), o una sentenza additiva della norma ( che aggiunga ad essa quanto previsto dal comma 1 bis dell’articolo 4 bis, così applicando anche alla detenzione domiciliare il meccanismo della collaborazione impossibile). Poiché risulta “immanente al vigente sistema normativo una sorta di incompatibilità presunta con il regime carcerario per il soggetto che abbia compiuto i settanta anni” ( Cassazione, Sez. I, 12.2.2001, n. 16183), l’irragionevolezza del divieto e la conseguente violazione dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione ( giacché una incarcerazione irragionevole impedisce l’efficacia rieducativa della pena) avrebbero dovuto essere denunciati, così determinando la pronuncia della Consulta nell’interesse di tutti. Questa, ci pare, la strada da seguire, per conferire ragionevolezza al sistema, per dare parità di condizioni, rivendicandone le ragioni. Ma, come scriveva Fabrizio De Andrè, “si rannicchiano zone d’ombra, prima che il sole le agguanti”.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Torino nelle canzoni.

Torino nelle canzoni, dieci brani che raccontano la città. Da Lucio Dalla ai Subsonica a Gipo Farassino: gli interpreti che hanno cantato la città della Mole. Qual è la più bella? Il sondaggio. Gino Li Veli il 26 agosto 2019 su La Repubblica. Fedele al suo stile un po' riservato, Torino si è raccontata nella musica con discrezione, facendo emergere l'immagine di una città che conserva tesori non sempre conosciuti ma di grande bellezza e pregio, come ha raccontato Il Quartetto Cetra nel brano "Passeggiando per il centro di Torino". La città della Mole è stata cantata sia dai suoi interpreti tradizionali (uno su tutti lo chansonnier Gipo Farassino, che le ha dedicato "La mia città", oltre ad una lunga serie di canzoni in dialetto) ma anche da interpreti non torinesi, come Lucio Dalla, che nell'album "Automobili" scritto con Roberto Roversi raccontò l'immigrazione nella città della Fiat nel brano "Un'auto targata To". Sempre dagli anni Settanta emerge il gruppo degli Arti e Mestieri, formazione di jazz progressivo, che ha raccontato la storia di "Mirafiori", il quartiere di uno degli stabilimenti della grande fabbrica. Persino un romano a tutto tondo come Antonello Venditti ha cantato "Torino" a fine anni Settanta (l'album era "Sotto la pioggia"). Anche artisti emersi nei decenni successivi hanno voluto dedicare canzoni a Torino, come i Subsonica ("Il cielo su Torino") o gli Statuto, che prendono il nome da una celebre piazza cittadina ritrovo dei mods ("Qui non c'è il mare"). A quel luogo, un tempo ricco di fascino, come il lungofiume dei Murazzi, si è ispirato Vinicio Capossela con il "Tanco del Murazzo" mentre gli Zen Circus hanno fotografato la situazione di uno dei quartieri tipici della movida torinese, con "San Salvario" . Senza dimenticare Ligabue che nel brano "Siamo chi siamo" ha fatto sapere di conoscere una ragazza di Torino. Adesso tocca a voi, scegliete la canzone che a vostro giudizio racconta meglio la città. Le canzoni di Torino:

Quartetto Cetra: "Passeggiando per il centro di Torino"

Gipo Farassino: "La mia città"

Lucio Dalla " Un'auto targata To"

Antonello Venditti: "Torino"

Subsonica: "Il cielo su Torino"

Statuto: "Qui non c'è il mare"

Vinicio Capossela: "Tanco del Murazzo"

Zen Circus : "San Salvario"

Arti e Mestieri: "Mirafiori"

Ligabue: "Siamo chi siamo".

·         Rimborsopoli, incubo carcere per alcuni consiglieri regionali piemontesi.

Rimborsopoli, incubo carcere per alcuni consiglieri regionali piemontesi. Effetto legge "spazzacorrotti": detenzione per chi ha avuto condanne definitive pari a due anni. Ottavio Giustetti il 24 giugno 2019 su La Repubblica. La legge " Spazzacorrotti" potrebbe rendere ancora più buie le pagine della rimborsopoli piemontese. Un gruppo di politici condannati nel primo processo per le " spese pazze" dei consiglieri regionali rischia il carcere per effetto della nuova norma, una misura fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle e approvata a dicembre con effetto retroattivo. L'asticella è fissata sui due anni di condanna, e chi è sopra può cominciare a preoccuparsi.

Alcuni di loro hanno fatto la storia politica del Piemonte con qualche decennio di rappresentanza nella assemblee regionali, Angelo Burzi per esempio, e Angiolino Mastrullo. Altri sono saliti sul carro della politica più che altro da avventurieri, come Michele Giovine. Se la Cassazione confermerà le severe condanne pronunciate a luglio dalla Corte d'Appello ( 25 in tutto) per chi non gode della sospensione condizionale della pena potrebbero aprirsi le porte del carcere. Almeno per il tempo necessario a che gli avvocati chiedano e ottengano dal tribunale di sorveglianza una misura alternativa alla detenzione. Qualche settimana o qualche mese. Corrono ai ripari i difensori che avevano rinunciato ai ricorsi confidando nella possibilità di sospendere l'ordine di carcerazione. Il caso di Mastrullo, per esempio: ha patteggiato in appello un anno e sei mesi, dopo aver restituito alla Regione 70 mila euro che gli erano stati contestati dai pm Enrica Gabetta e Giancarlo Avenati Bassi, ma poiché aveva una precedente condanna a 8 mesi rischia che la sentenza, diventata definitiva, faccia partire l'ordine di carcerazione, un provvedimento che per effetto della Spazzacorrotti non si può più sospendere come un tempo. Giovine è quello che ha sulla testa la spada di Damocle più affilata con i suoi 4 anni e 6 mesi. Ma anche Angelo Burzi e Rosanna Valle ( 2 anni e 4 mesi), Massimiliano Motta ( 2 anni e 2 mesi). "Confidiamo che presto si pronunci la Corte Costituzionale su una delle eccezioni che sono partite da diversi tribunali d'Italia - dice Michele Galasso, l'avvocato difensore di Angiolino Mastrullo - ci sono alcuni giudici che hanno già dichiarato fondata l'eccezione di costituzionalità " . Il punto è tecnico: si tratta di una norma processuale applicata in tutti i casi ( anche se il reato è stato commesso in passato) che si definiscono in questo momento. "In realtà però deve essere considerata nella sua valenza sostanziale - spiega Galasso - in quanto incide sulla libertà personale". L'8 marzo il gip di Como interpellato come giudice dell'esecuzione ha sospeso l'ordine di carcerazione, tralasciando di fatto la nuova norma. Anche a Venezia, a maggio, il tribunale di sorveglianza ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sospendendo il giudizio. E quattro giorni fa, il 18 giugno, la prima sezione penale della Cassazione ha fatto lo stesso. Le voci che arrivano da diverse parti d'Italia sembrano scongiurare l'ipotesi peggiore. L'epilogo sarà importante anche per chi è finito nella seconda indagine sui rimborsi, quella per la legislatura 2008- 2010 che si sta definendo in queste settimane. E non è questo il solo binario sul quale viaggiano i politici sotto inchiesta a Torino dove la giustizia sembra muoversi a due velocità. C'è un filone del primo processo che è rimasto un ramo secco, sospeso fino a ora. È il processo che in primo grado si è celebrato con il rito abbreviato davanti al gup, Roberto Ruscello. Con condanne anche pesanti, come Boniperti (2 anni e 6 mesi), Valerio Cattaneo, ex presidente del Consiglio regionale ( 1 anno e 8 mesi) e Gabriele Moretti, ex consigliere comunale dei Moderati, la sua è la pena più alta: 3 anni. Di questo processo "abbreviato" dopo cinque anni l'appello non è mai stato fissato e una parte delle accuse (per truffa) sono prescritte, o quasi.

·         Appendino: Sindaco a sua insaputa.

Salone del libro 2017, il portavoce della sindaca "punisce" Repubblica: taglio al budget pubblicitario. I verbali dell'inchiesta sulla consulenza svelano gli interventi di Pasquaretta. Ottavia Giustetti, Sarah Martinenghi e Jacopo Ricca su La REpubblica il 18 ottobre 2019. Meno pubblicità a "Repubblica" dalla Fondazione che organizza il Salone del Libro, perché il giornale non si è dimostrato abbastanza favorevole a Chiara Appendino. Il particolare emerge dagli atti dell’inchiesta torinese che ha come principale indagato Luca Pasquaretta, l’ex portavoce della sindaca di Torino. L’indagine per peculato nasce quando si scopre che il giornalista è stato pagato come consulente del Salone per l’edizione 2017, ma dalle bollature in Comune risulta sempre in servizio a Palazzo Civico nei giorni della kermesse. In dubbio ancora il ruolo della sindaca che sostiene di non aver mai saputo di quella consulenza affidata al suo portavoce e ha portato un’altra chat di maggio 2018 al pm Gianfranco Colace dalla quale si capirebbe che lui l’aveva tenuta all’oscuro di tutto. Il 24 aprile di un anno prima però, mentre si preparava l’edizione del Salone per cui gli è stata pagata la consulenza, Pasquaretta scambia con lei questa sequenza di messaggi. “Sono passato un attimo dalla Fondazione per il Libro” scrive il portavoce ad Appendino, per giustificarsi di non aver risposto alla sua chiamata. “Dovevo controllare come hanno destinato il budget per la pubblicità”. Il proposito di Pasquaretta è modificare la distribuzione del budget pubblicitario della Fondazione sui diversi giornali cittadini. Lo spiega Nicola Gallino, capo ufficio stampa del Salone del libro, in sede di testimonianza il 7 luglio 2018: “In effetti, abbiamo - dove commercialmente sostenibile - ridotto gli investimenti con La Repubblica e Lo Spiffero, testate a dire del Pasquaretta non cosi favorevoli al Sindaco”. Il portavoce della sindaca redistribuisce gli investimenti pubblicitari della Fondazione sulle testate che sono politicamente più favorevoli ad Appendino e le preannuncia: “Ho sistemato un po’ di cose sul budget. Stasera ti faccio vedere. Così sono tutti contenti”. Lei risponde “ok”. Ma gli chiede anche: “Tutto ok in Fondazione? Tutti gasati?”. “Gasatissimi” risponde lui. Forse a maggio 2018 Appendino cadrà dalle nuvole, scoprendo che Pasquaretta aveva ottenuto la consulenza per il Salone. Ma certamente ad aprile 2017 sa che il giornalista si sta occupando della pubblicità della Fondazione e sembrerebbe avergli dato carta bianca anche sulla distribuzione sulle diverse testate giornalistiche in vista dell’evento. “Questa attività l’ho seguita io per anni e ho predisposto anche per il 2017 il piano di ripartizione degli investimenti pubblicitari – ha spiegato Gallino al magistrato -. Come espressione del vertice Pasquaretta diede delle indicazioni operative e concrete sulla ripartizione dei fondi consigliando alcuni siti o testate o comunque dando indicazione sul riposizionamento delle risorse presso le testate, indicazioni anche di tipo politico. In particolare, ricordo che mi diede precise indicazioni su tagli da applicare a testate meno favorevoli, a suo dire, alla Sindaca”. La ricostruzione di Gallino sembra confermata dal messaggio che lui stesso inviò al portavoce di Appendino alle 16,08, sempre del 24 aprile 2018: “Mi rimandi per cortesia quel prospetto. L’ho perso. Grazie”.

Chiara Appendino difende gli abusivi: "Non firmerò lo sgombero della Cavallerizza". Dopo l'incendio che ha distrutto parte della struttura Patrimonio Unesco, il sindaco ha spiegato di non aver alcuna intenzione di firmare per allontanare gli occupanti. Giorgia Baroncini, Venerdì 25/10/2019 su Il Giornale. Chiara Appendino ha già avvisato: non ci sarà alcuno sgombero. Dopo l'incendio che ha distrutto parte del tetto della Cavallerizza Reale a Torino, il sindaco della città ha spiegato di non aver alcuna intenzione di firmare per allontanare gli occupanti dello storico complesso architettonico tutelato dall'Unesco. L'incendio (il secondo in cinque anni) era scoppiato in uno dei locali occupato da anni dagli abusivi. Ma la maggioranza grillina non vuole mandarli via. Come spiega Libero, Chiara Appendiano ieri ha incontrato una delegazione dell'Assemblea Cavallerizza, i residenti irregolari, in Prefettura. L'idea, secondo quanto riporta il quotidiano, è quella di lasciare spazio agli abusivi e sistemare l'edificio a spese della collettività. Un costo ingente che aveva già portato la giunta Fassina a decidere di vendere tutto. E da lì, gli irregolari avevano dato avvio all'occupazione, in atto ancora oggi. L'incendio, oltre a danneggiare l'edificio, ha messo a rischio l'incolumità degli abusivi. I consiglieri 5S però non solo non vogliono mandare via gli irregolari, ma difendono anche "l'esperienza dell' autogestione". Così il sindaco ha precisato: non sarà lei a firmare l'ordinanza di sgombero del complesso.

Ottavia Giustetti, Sarah Martinenghi e Jacopo Ricca per “la Repubblica” il 19 ottobre 2019. Una chat non basta. Per chiarire se la sindaca di Torino Chiara Appendino sapesse oppure no della consulenza al Salone del Libro al suo ex portavoce Luca Pasquaretta, saranno decisive le parole del diretto interessato e del vicepresidente della Fondazione per il Libro Mario Montalcini che aveva stipulato il contratto per arrotondargli lo stipendio. Entrambi sono indagati per peculato, e la sindaca per ora non è stata archiviata. Ma ha prodotto una conversazione Whatsapp dove sostiene di non essere stata informata in anticipo di quel lavoro mai svolto. «Il problema è che chiedono se sono io che ho autorizzato. E io non ne sapevo niente» scrive la sindaca al portavoce alle 12.12 del 5 maggio 2018. Sono passate 24 ore da quando si è diffusa la notizia che Pasquaretta ha incassato 5mila euro senza lavorare davvero per il Salone del Libro 2017. «Tu non ne sapevi nulla» conferma Pasquaretta. In tre, però, sostengono il contrario. L'ex capo di gabinetto di Appendino, Paolo Giordana, silurato per aver fatto togliere una multa a un suo amico: «Tutte le volte che ne ho parlato con la Appendino lei mi ha detto che era al corrente della consulenza» ha detto ai pm. Anche Giuseppe Ferrari, vicedirettore generale della Città di Torino, accusato di peculato per aver autorizzato il contratto al giornalista, ricorda di averne parlato con la sindaca. E Alessandro Dotta, direttore amministrativo della Fondazione per il Libro interrogato, racconta: «Posso con estrema serenità e certezza affermare che il sindaco Appendino sapeva che la consulenza era stata attribuita al suo collaboratore». Sinora Pasquaretta e Montalcini non sono mai comparsi davanti al pm Gianfranco Colace. Sono loro che potrebbero confermare la versione di Appendino o quella dei tre che la "inguaiano". E la prossima settimana potrebbe essere decisiva per il destino della sindaca. Venerdì Montalcini sarà interrogato, mentre Pasquaretta aspetterà ancora. Le parole del vicepresidente esecutivo del Salone potrebbero mutare le intenzioni degli inquirenti su Appendino. Una vicenda intricata quella della consulenza. I pm, iniziando a indagare sulla questione, hanno scoperchiato un covo di veleni, che contrappongono i collaboratori della prima cittadina 5stelle, ma anche di reati. Nell' atto di chiusura indagine Pasquaretta è accusato di peculato, corruzione, traffico di influenze e addirittura estorsione nei confronti di Appendino e della viceministra all' Economia, Laura Castelli, che lo ingaggerà come collaboratore per alcuni mesi e definirà l' inchiesta sulla consulenza «una ca..ta gigantesca». I consiglieri comunali pentastellati avevano pressato Appendino perché si liberasse di lui. «Era Appendino che doveva occuparsi di Pasquaretta perché lui non è un iscritto al M5s» precisa ai pm Pietro Dettori, il portavoce del capo politico Luigi Di Maio. «Adesso vi sotterro tutti» diceva Pasquaretta che non aveva digerito l'allontamento. E così iniziava la questua tra i vertici nazionali del M5s. E in attesa di un nuovo incarico minacciava la sindaca di rivelare segreti compromettenti: «Mi sono preso due avvisi di garanzia per lei» si sfoga con l' assessore al Commercio, Alberto Sacco. È lui ad aiutarlo a prendere contatto con l' europarlamentare Tiziana Beghin. Mentre il contatto con il portavoce di Di Maio, se lo procura da solo. «Ci siamo incontrati sotto una colonna davanti a Palazzo Chigi racconta ai pm Dettori - Non c' erano posti negli staff naz ionali e non ci interessava come profilo. Mi sono stupito quando l' ho visto al fianco di Castelli ». Appendino era sotto ricatto e per questo continuò a cercare una sistemazione al suo ex collaboratore: «Si arrabbio molto per le minacce conferma Sacco agli investigatori Ma continuò ad aiutarlo». Scoprendo il perché forse si può trovare la risposta al dubbio che la chat non ha fugato.

Appendino, figuraccia in procura: si proclama sindaco "a sua insaputa". Interrogata dai pm per la consulenza all'ex portavoce si dice all'oscuro. Stefano Zurlo, Giovedì 20/06/2019, su Il Giornale. La consulenza a sua insaputa. Il genere, lanciato a suo tempo da Claudio Scajola con la casa di cui secondo la sentenza era all'oscuro, si arricchisce di un nuovo capitolo: a scriverlo è il sindaco di Torino Chiara Appendino inciampata nella terza tegola giudiziaria della sua carriera. Dopo i guai di piazza San Carlo e dopo i bilanci ballerini del Comune, ecco il lavoro commissionato dal Salone del Libro all'ex portavoce del primo cittadino, Luca Pasquaretta. Obiettivamente, non una gran cosa: un impegno relativo ma non trascurabile, 17 giorni, ricompensato con 5mila euro lordi ma finito nel mirino dei magistrati che l'hanno addebitato anche ad Appendino. Lei non ci sta ad arroccarsi in una difesa tecnica ed esce allo scoperto. Va dai pm per un lungo interrogatorio, poi all'uscita chiarisce il suo punto di vista: «Ho potuto dimostrare agli inquirenti, richiamando il mio intervento in Consiglio del febbraio 2017 dove avevo chiaramente espresso la mia contrarietà a qualunque tipo di assegnazione di carattere consulenziale con attribuzione economica, di non essere stata a conoscenza del successivo sviluppo». Sì, Appendino si chiama fuori. È indagata per concorso in peculato, ma fa scouting d'innocenza, o meglio pesca le sue vecchie parole per rivendicare la sua correttezza. I tempi mitici della purezza fondativa sono ormai alle spalle, i 5 Stelle sono nella stanza dei bottoni, insomma si sono aperti al mondo con le sue tentazioni, talvolta irresistibili, e in particolare i sindaci delle metropoli sono i parafulmini di innumerevoli situazioni e collezionano di regola un guardaroba intero di avvisi di garanzia su qualunque argomento. Ma Appendino, con i grillini in caduta libera anche in Piemonte e Torino alle prese con i fantasmi del declino, tira fuori le unghie e rilancia: lei era contraria. E la consulenza è arrivata a sua insaputa. Come la casa con vista sul Colosseo a Scajola. «Ero convinta - spiega lei - che tutti avessero preso atto di tale mia ferma posizione e quando invece il 4 maggio 2018, e cioè ad un anno dalla fine dell'incarico, venni a saper da una testata giornalistica che la consulenza era stata assegnata, immediatamente reagii lamentando l'assegnazione dell'incarico contro la mia volontà e a mia insaputa».

Ecco, siamo alla proclamazione del dogma dell'innocenza, anche se in questo modo Appendino dimostra di non controllare nemmeno atti che la riguardano da vicino, cosi vicino che si ritrova accusata dai pm. Tutto può essere: demagogia e arzigogolo. Un fatto è certo: nell'Italia in cui le leggi non si contano e si contraddicono, anche i 5 Stelle dovrebbero riflettere sulla giustizia. Non è alzando le pene che si risolvono i problemi e per un sindaco è facilissimo rimanere invischiati nella palude degli avvisi di garanzia. Un tema decisivo, a maggior ragione mentre la riforma complessiva di tutta la materia è tornata d'attualità «A tal fine - è la conclusione di Appendino - ho prodotto ai pm materiale attestante quanto da me riferito». Chissà. Forse, Appendino se la caverà. Anche se su questa storia e sulla consulenza, che gli investigatori sospettano fittizia, è stata ondivaga e ha dato più di una versione. Ma resta il disagio di fondo: amministrare una metropoli è un'impresa temeraria, esposta a mille insidie e mille verifiche. Cosi, magari a ragione, anche il sindaco 5 Stelle si iscrive al partito di quelli che hanno fatto qualcosa senza sapere di farlo.

·         La capitale del «No».

La capitale del «No». Tony Damascelli, Sabato 13/07/2019 su Il Giornale. Nelle ultime ore nessuna notizia di grandine e affini su Torino. Ciò nonostante la città ha perso il salone dell'Automobile, come aveva suggerito il nuovo meteorologo dei grillini, Montanari Guido, socio della Ferrero, che non è la casa dolciaria, bensì trattasi di Viviana, detta Vivi e basta, pure lei atta a demolire qualunque proposta che non provenga dal proprio ballatoio ideologico. Dunque, come era accaduto nel famoso e vituperato Ventennio, il Salone trasloca a Milano, secondo suggerimento, con un cìcìcìn di disprezzo, il suddetto vicesindaco di una città che sta sciogliendo il trucco dei Giochi invernali del duemila e sei per vestire panni usati e lerci. Il Valentino torna a essere un territorio di chiunque, Montanari, che ha fatto gli studi allo scientifico di Alessandria per laurearsi poi in Architettura e diventare docente della stessa, ritiene che l'esposizione di autovetture contribuisca al degrado del sito e, infatti, ha minacciato di inviare i civich, i vigili urbani, per appioppare multe a destra, se non a manca. Già aveva respinto la riqualificazione di Italia '61 e quella della Città della Salute, facendo queste parte delle proposte normali di Piero Fassino dunque, per l'architetto, tutta roba per la quale farsi due risate. A Torino gente del genere viene soprannominata (se avete pensato a balengo siete fuori traiettoria ma non del tutto) fafioché, nel senso che parla e parla e non combina mai nulla di serio. Svanito il Salone, che faceva parte della storia e della geografia e pure della grammatica torinese (parco del Valentino, Biscaretti, Agnelli, Anfia), non c'è stata partita nemmeno per le Olimpiadi invernali, prese alla grande da Milano e Cortina, perché Appendino e la sua orchestra, come la Raggi e il clan romano, hanno ritenuto inutile, inopportuna, sciocca la candidatura. Massì, andiamo avanti così, via il salone dell'auto e quello del libro, magari via il giandujotto e il tramezzino d'annunziano, via la Juventus (ci siamo quasi) e via il Torino di Cairo che sta a Milano, via la ciurma di ultras che è cosa ben diversa dai simpatico goliardi dei centri sociali. Del resto Piazza San Carlo, teatro tragico, per la giunta pentastellata, di una notte di champions perduta, fu anche il palcoscenico di un memorabile Vaffa Day con Beppe Grillo in forma mussoliniana. Senza dimenticare il No Tav che fa parte ormai del dialetto piemunteis, frequentato dalla Ferrero di cui sopra e dalle sue coorti e corti. NO, dunque, come le due ultime lettere della città, NO a tutto ciò che possa, potrebbe rappresentare la novità oppure la tradizione, il rispetto della storia, perché il salone dell'auto, al di là di modifiche nell'allestimento e nella cosiddetta e male-detta location, è stato un punto di riferimento per intere classi scolastiche, in gita premio dinanzi a vetture scintillanti, con la mattinata riempita, poi, da un film in tivvù, per la sola zona di Torino, roba in bianco e nero che però rappresentava la fiera dei sogni, in una settimana di festa. Hanno voluto togliere anche questo balocco, perché il Montanari una ne fa (non so quale) e cento ne pensa (anche più di mille) e ha avuto il coraggio di don Abbondio, tirando fuori il solito alibi, lui, vicesindaco, architetto, docente «è stato travisato, strumentalizzato, voleva dire ben altro». Lui non è Bernacca e nemmeno Giuliacci, lui la grandine non sa nemmeno da dove provenga e dove si diriga e lui, come le altre bandiere o banderuole, giura di avere a cuore l'interesse dei cittadini. Tuttavia non ha precisato di quale città.

Architetto, No Tav: chi è Guido Montanari, il vice che può far cadere la sindaca. Pubblicato venerdì, 12 luglio 2019 da Corriere.it. «Fosse stato per me, il Salone dell’auto al parco Valentino non ci sarebbe mai stato. Anzi, nell’ultima edizione ho sperato che arrivasse la grandine e se lo portasse via. Sono stato io a mandare i vigili per multare gli organizzatori». Sono queste le parole di Guido Montanari, vicesindaco di Torino con delega all’Urbanistica nelle giunta M5S, che hanno innescato l’ira della sindaca Chiara Appendino, pronta a presentare le dimissioni dopo che le dichiarazioni del suo braccio destro hanno offerto il destro agli organizzatori del Salone per annunciare l’addio della manifestazione al capoluogo piemontese per traslocare a Milano. «Sono frasi inqualificabili», attacca Appendino riferendosi a quanto detto dal suo vice. Ma chi è Guido Montanari, finito al centro di roventi polemiche già in campagna elettorale, quando Piero Fassino lo dipinse come «il signor no a tutto», domandandosi «in quale modo costruirà il futuro di Torino?». Montanari, 61 anni, ambientalista convinto, è docente di Storia dell’architettura al Politecnico di Torino. In passato, sempre nell’ambito della sua battaglia anticemento, aveva fondato e guidato il comitato con un nome emblematico: «Non grattiamo il cielo». Montanari è anche un convinto «No Tav», a tal punto che più volte si è presentato in piazza con la fascia tricolore per contestare l’opera assieme al popolo grillino e antagonista: «Le madamine? Non rappresentano la città reale», commentò Montanari riferendosi alla manifestazione pro Torino-Lione con 35 mila persone scese in tutt’altra piazza. Ma il vicesindaco ha sempre proseguito a testa bassa, dichiarando Torino «capitale No Tav»: «Un azzardo? È possibile. I rischi politici ci sono sempre. Ma per me fare politica non è seguire l’onda del momento». E nel frattempo è arrivato il via libera ai bandi per l’assegnazione del mega appalto per la conclusione della Torino-Lione. E alla fine, dopo l’ufficializzazione dell’addio a Torino del Salone, davanti allo spettro delle dimissioni del sindaco Appendino, Montanari ha provato a correggere il tiro: «Ho sempre ritenuto che il Salone dell’auto sia una ricchezza della città e che si possa fare al Parco del Valentino con una mediazione tra esigenze degli organizzatori e fruizione del parco». Per Montanari «limitare i tempi di montaggio e smontaggio dei padiglioni e compensare con interventi sulla qualità del verde è una semplice scelta di buon senso. Questa mia posizione è stata travisata per giustificare evidentemente scelte già assunte», ha concluso chiedendo «scusa» alla sindaca di Torino.

Torino perde il Salone dell’Auto: la prossima edizione in Lombardia Appendino contro M5S. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Gabriele Guccione e Umberto La Rocca su Corriere.it. Torino dice addio al Salone dell’Auto. La kermesse a quattro ruote per il prossimo anno si trasferisce a Milano. Ad annunciarlo una nota degli organizzatori in cui si precisa appunto che «la sesta edizione del Salone dell’Auto all’aperto Parco Valentino si svolgerà in Lombardia dal 17 al 21 giugno 2020». E la sindaca Chiara Appendino non manda giù il cambio di rotta e attacca: «Sono furiosa per la decisione del comitato organizzatore del Salone dell’Auto di lasciare Torino dopo 5 edizioni di successo. È una scelta che danneggia la nostra città, a cui hanno anche contribuito alcune prese di posizione autolesioniste di alcuni consiglieri del Consiglio Comunale e dichiarazioni inqualificabili da parte del vicesindaco. Guido Montanari si è infatti sempre detto contrario al Salone. «Senza sottrarmi alle mie responsabilità — ha aggiunto ancora la sindaca — mi riservo qualche giorno per le valutazioni politiche del caso». La replica di Montanari arriva sui social: «Ho sempre ritenuto — scrive — che il Salone dell’auto sia una ricchezza della città e che si possa fare al Parco del Valentino con una mediazione tra esigenze degli organizzatori e fruizione del parco». Per Montanari «limitare i tempi di montaggio e smontaggio dei padiglioni e compensare con interventi sulla qualità del verde è una semplice scelta di buon senso. Questa mia posizione è stata travisata per giustificare evidentemente scelte già assunte» conclude il vicesindaco che dice di comprendere «lo sconcerto e il disappunto della Sindaca e mi scuso per aver dato pretesto a polemiche strumentali». «Seguendo la nostra vocazione innovativa - ha spiegato nella nota il presidente Andrea Levy - abbiamo scelto per il 2020 di organizzare la sesta edizione in Lombardia in collaborazione con Aci. Sarà un grande evento internazionale, all’aperto e con una spettacolare inaugurazione dinamica a Milano nella giornata di mercoledì 10 giugno 2020». Levy ringrazia poi «la Città di Torino per aver collaborato in questi 5 anni alla creazione di un evento di grande successo, capace di accendere sulla città i riflettori internazionali». La sindaca, in merito alla mozione firmata da alcuni consiglieri del M5s in cui si chiede che il parco del Valentino non venga più utilizzato per eventi fieristici in mattinata aveva detto: «Voterò contro». «Il Salone dell’auto è un evento che quest’anno ha portato 700mila persone — ha ricordato la prima cittadina — Come città, ieri, insieme all’assessore al Turismo Alberto Sacco abbiamo incontrato il presidente Levy, gli abbiamo garantito il pieno supporto da parte della città, stiamo ragionando in un’ottica pluriennale anche di comunicazione e quindi noi siamo a disposizione».

DIEGO LONGHIN per repubblica.it il 12 luglio 2019. E' ufficiale: Torino perde il Salone dell'auto. E l'addio alla manifestazione apre la crisi nella giunta Cinque stelle torinese: Chiara Appendino  furiosa attacca il suo vice Guido Montanari che aveva duramente criticato la manifestazione: "Le sue dichiarazione inqualificabili". E adesso la sindaca pensa alle dimissioni. "Senza sottrarmi alle mie responsabilità, mi riservo qualche giorno per le valutazioni politiche del caso". Decisivo potrebbe essere l'incontro con il vicepremier Luigi Di Maio che domani sarà a  Torino proprio per incontrare i consiglieri e i militanti Cinque stelle divisi ormai su molti argomenti dalla Tav alle Olimpiadi. Il casus belli è il trasloco del Salone: La sesta edizione si svolgerà in Lombardia dal 17 al 21 giugno 2020. Lo annuncia un comunicato degli organizzatori nel quale si sottolinea che "con 54 case automobilistiche, 700mila visitatori e oltre 2000 vetture speciali che hanno sfilato nel centro città, Parco Valentino si conferma pioniere di un nuovo concetto di motor show internazionale. Il modello Parco Valentino ha anticipato e ispirato le recenti evoluzioni introdotte dai grandi Saloni internazionali: Ginevra, Detroit e Parigi hanno infatti annunciato saloni diffusi per la città e test drive di vetture elettriche per le prossime edizioni". Il presidente Andrea Levy annuncia: “Seguendo la nostra vocazione innovativa, abbiamo scelto per il 2020 di organizzare a Milano, in collaborazione con Aci. Sarà un grande evento internazionale, all’aperto e con una spettacolare inaugurazione dinamica nella giornata di mercoledì 10 giugno 2020. Ringraziamo la Città di Torino per aver collaborato in questi 5 anni alla creazione di un evento di grande successo, capace di accendere sulla città i riflettori internazionali”. A nulla dunque è valso il tentativo della sindaca di trattenere la manifestazione dopo le critiche della sua maggioranza. C'è una mozione firmata da nove consiglieri M5S che bocciava l'allestimento del Salone nel parco del Valentino. Appendino - dopo aver incontrato ieri Levy - si era detta pronta a votare contro la mozione. Una mossa che non ha convinto gli organizzatori a recedere dalla fuga. E adesso Appendino è fuori di sè: "Sono furiosa per la decisione del comitato organizzatore del Salone dell'Auto di lasciare Torino dopo 5 edizioni di successo. E' una scelta che danneggia la nostra città, a cui hanno anche contribuito alcune prese di posizione autolesioniste di alcuni consiglieri del Consiglio Comunale e dichiarazioni inqualificabili da parte del vicesindaco (Guido Montanari anche lui M5s, ndr)". Che aveva detto: "Fosse stato per me, il Salone al Valentino non ci sarebbe mai stato - ha detto - Anzi, nell'ultima edizione ho sperato che arrivasse la grandine e se lo portasse via. Sono stato io a mandare i vigili per multare gli organizzatori". Immediata la replica, alla sindaca, via Facebook di Montanari: "In merito a mie pretese dichiarazioni su Salone dell'auto al Parco del Valentino usate per giustificare un abbandono dei promotori da Torino, preciso quanto segue. Ho sempre ritenuto che il Salone dell'auto sia una ricchezza della città e che si possa fare al Parco del Valentino con una mediazione tra esigenze degli organizzatori e fruizione del parco. Limitare i tempi di montaggio e smontaggio dei padiglioni e compensare con interventi sulla qualità del verde è una semplice scelta di buon senso. Questa mia posizione è stata travisata per giustificare evidentemente scelte già assunte. Capisco lo sconcerto e il disappunto della Sindaca e mi scuso per aver dato pretesto a polemiche strumentali". Duro il commento del presidente della Regione Alberto Cirio: “Questa notizia è un’altra doccia fredda, perché Torino non può continuare a perdere tutto quello che è stato costruito con anni di lavoro e fatica dai suoi cittadini, dalle istituzioni e da tutto il sistema produttivo e territoriale. Io - lo dico senza polemica e con assoluta sincerità - mi chiedo quale sia il progetto del Comune per quella che è una delle più importanti città d’Italia. Tutto questo è inaccettabile. Siamo al governo della Regione da poche settimane e ci siamo già dovuti attivare per recuperare la perdita delle Olimpiadi e adesso faremo di nuovo di tutto per rincorrere un altro grande evento come il Salone dell’Auto. Perché sono manifestazioni che non perde solo Torino, ma l’intero Piemonte, per scelte che non dipendono da noi e su cui non abbiamo avuto la possibilità e il tempo di intervenire. Questa idea di “decrescita felice” non ci appartiene e non intendiamo restare a guardarla. Faremo di tutto per fermare questa emorragia. Se c’è anche solo una possibilità di mantenere un legame con il Salone dell’Auto a questo lavoreremo. Nella speranza che al più presto possa tornare nel luogo che gli dà il nome, quel Parco del Valentino incastonato nel cuore storico di Torino che lo ha reso un evento unico e speciale”. Dario Gallina, Presidente dell’Unione Industriale di Torino: "Proprio nella giornata in cui è stata celebrata Torino Città dell’auto, con i  bellissimi festeggiamenti per gli 80 anni di Mirafiori e la nuova linea di montaggio per la Fiat 500 elettrica, la notizia del trasferimento del Salone dell’Auto a Milano mi lascia sconcertato e molto amareggiato. Stiamo perdendo l’ennesima opportunità: le polemiche e le sciagurate posizioni di questa maggioranza non fanno che allontanare tutti gli eventi dalla nostra Città, lasciandoci in eredità una Torino sempre più isolata e meno attrattiva. Spero che la Sindaca - che solo questa mattina confermava il ruolo strategico di tutta la nostra filiera automotive - prenda una posizione netta e faccia di tutto per porre rimedio a questa situazione, mantenendo a Torino un Salone che appartiene al suo dna". Molto preoccupato anche Gianfranco Banchieri, presidente di Confesercenti Torino: "Un altro pezzo di Torino se n'è andato e non certo per colpa del destino cinico e baro. Il trasferimento del Salone dell'automobile a Milano ha un colpevole preciso: il solito, da qualche anno, un'amministrazione allo sbando che evidentemente vuole male a questa città. D'altra parte, che dire di un vicesindaco che si augura la grandine su una iniziativa economica della città che governa (si fa per dire)? La misura è colma. È venuto il momento che le forze economiche e sociali danneggiate da questa politica fatta di ideologia pauperistica e di odio per il lavoro e l'impresa dicano basta a questa deriva inarrestabile".

Torino, grillini a rischio implosione, questa sera Di Maio prova a mediare. L’interpellanza contro il motor show è solo l’ultima di una lunga serie di contrasti tra Appendino e i cinque stelle duri e puri, dalla Tav alle Olimpiadi. Jacopo Ricca il 12 luglio 2019 su La Repubblica. La metamorfosi di Torino. Da " Villaggio di Asterix" del centrosinistra a ultimo baluardo del Movimento 5stelle delle origini. Quello dei tanti No, dalla Tav alle Olimpiadi, sbandierati come vessillo, ma che fanno infuriare la sindaca Chiara Appendino pronta addirittura alle dimissioni. La città pentastellata che il capo politico Luigi Di Maio incontrerà questa sera è molto diversa da quella che la narrazione 5stelle aveva dipinto fino a un anno fa. Il paradosso di un Movimento che, pronto a governare, rischia invece di trasformarsi nell'ennesimo esempio di ingovernabilità. La maggioranza in Sala Rossa dice no a tutto, o a molto, e la sindaca, dopo aver divorziato dai suoi consiglieri, si scaglia contro il vicesindaco, Guido Montanari. Sullo sfondo resta l'altra grande frattura, quella sull'alta velocità Torino- Lione, che è la madre di tutte le battaglie per gli attivisti 5stelle piemontesi ma è anche una vertenza sacrificabile, come tante altre, se vista dai palazzi del potere a Roma. Questa, almeno, la lettura preoccupata degli attivisti che, dopo l'assemblea di una settimana fa, ribadiranno al vicepremier 5stelle che per Torino e il Piemonte "il Tav non s'ha da fare". Di Maio, nella sala congressi del Qualys Hotel Royal di corso Regina Margherita, dovrà cercare di trovare una mediazione su tanti punti. Nell'intervento iniziale, programmato per le 18, è previsto faccia un punto sulla situazione del M5s a livello nazionale e locale, illustrando poi le proposte per la riorganizzazione interna. Ma dopo le 5 ore di interventi di attivisti, consiglieri comunali e regionali, sarà inevitabile che nelle conclusioni cerchi una sintesi e una mediazione. Molti dei consiglieri, che peraltro saranno assenti o dovranno entrare con una deroga perché non si sono registrati, non sono mai stati lontani dalla sindaca come in questo momento. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è il testo sul salone dell'auto al Parco Valentino, depositato più di un anno fa e che porta la firma della vicepresidente del consiglio comunale, Viviana Ferrero, e di altri pentastellati (Daniela Albano, Marina Pollicino, Maura Paoli e Fabio Gosetto), lo zoccolo duro più intransigente su tutte le battaglie, dalla Tav alle Olimpiadi, che Appendino ora sente più distanti. In un primo momento alle esponenti dell'opposizione, Eleonora Artesio (Torino in Comune) e Deborah Montalbano (ex grillina), si era aggiunto anche l'attuale presidente del consiglio comunale, Francesco Sicari, il cui nome però è scomparso negli ultimi giorni. La mozione, che Appendino ieri ha detto non avrebbe votato, però aveva il sostegno di quasi tutti i consiglieri 5stelle ed è solo l'ultimo esempio di una luna di miele tra pentastellati e sindaca che si è interrotta bruscamente con la lunga e lacerante vertenza sulle Olimpiadi invernali del 2026, che i consiglieri non volevano riportare in città, se non a certe condizioni, e che invece Appendino pensava fossero un'opportunità. Non è bastata l'assegnazione, tribolata anche questa, della Atp finals di tennis dal 2021, né la battaglia condivisa da giunta e maggioranza per la nuova Ztl, ma che ha alienato ad Appendino le simpatie dei commercianti, per riportare la pace in un gruppo che andrà davanti a Di Maio autenticamente lacerato. Le minacciate dimissioni della sindaca sono arrivate come una doccia fredda ieri sera, ma tra i consiglieri anche a lei più vicini nessuno per ora si è schierato pubblicamente al suo fianco. Anche questo dovrà considerare il capo politico quando proporrà una soluzione per portare avanti l'amministrazione comunale simbolo per il M5s.

·         La morte del piccolo Leonardo. La nonna “Avevo denunciato, nessuno ha fatto nulla”.

Leonardo, ieri funerali a Novara. La nonna “Avevo denunciato, nessuno ha fatto nulla”. Davide Giancristofaro Alberti 29.05.2019 su Il Sussidiario. La nonna di Leonardo ai microfoni di Storie Italiane: “Avevo denunciato ma nessuno ha mosso un dito”. Il programma di Rai Uno, Storie Italiane, ha intervistato la nonna del piccolo Leonardo, il bimbo di 20 mesi ucciso la scorsa settimana in quel di Novara, massacrato di botte forse dal patrigno e dalla mamma. Ieri si sono tenuti i funerali della vittima, e la nonna (mamma di lei) si è rivolta così alle telecamere della televisione pubblica: «Mi hanno tolto una figlia, il nipotino, la decenza, l’onore, la pace interiore… Questo signore io non l’ho mai visto (riferendosi al compagno della figlia ndr), mai presentato, quando ha avuto il bambino ho detto a mia figlia di venire a casa». Quindi la nonna in lacrime ha aggiunto: «Mi vergogno, non ho bisogno di questa platea, sono una persona semplice, io non ho più niente, mi hanno tolto la vita. Anche Dio mi ha abbandonato, allora che queste persone abbiamo almeno la decenza di stare zitte, mi hanno detto “Dove ero io”? Sempre presente con enormi sacrifici». Una vicenda drammatica e di degrado, l’ennesima purtroppo nell’ultimo periodo dove ad avere la peggio è un piccolo innocente di pochi mesi, come appunto Leonardo, o di pochi anni, come ad esempio il piccolo Giuseppe di Cardito. «Io ho denunciato, sono andata da chi di dovere – ha aggiunto la nonna – ma non hanno fatto nulla. Chi sapeva non è venuta prima ad avvisarmi, ora vengono fuori tutti: perché me lo dite oggi che mio nipote non c’è più?». (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

Momenti di commozione e tensione ai funerali del piccolo Leonardo. Molte persone accusano la famiglia della mamma, sostenendo che non avrebbe fatto nulla per aiutare Gaia, supportata dai servizi sociali che le avevano dato un alloggio. A “La Vita in Diretta” è intervenuto il padre biologico, che era stato allontanato a causa dei suoi precedenti per spaccio: «Lo fanno passare per un pazzo, ma i pazzi non fanno così». Poi ha spiegato che l’ex compagna si era allontanata da tutti: «Non le faceva frequentare nessuno, neppure i nostri amici in comune. E quindi nessuno sapeva niente. L’aveva isolata anche dalla sua famiglia. Ora ho scoperto che ha problemi di droga, ma scherziamo?». Ma il programma di Raiuno ha diffuso anche il testo di un messaggio inviato da Nicolas, l’uomo accusato di aver ucciso Leonardo, ad un’amica del papà biologico. «Sparo in bocca a lui e a tutta la sua razza. Deve stare lontano da mia moglie, tanto del figlio non se n’è fregata nulla. Lo faccio sparire. Lo faccio ammazzare di botte. Io lo ammazzo, sto pezzo di m…». (agg. di Silvana Palazzo)

Si terranno oggi pomeriggio, alle ore 14:00, i funerali di Leonardo, il bimbo di 20 mesi massacrato di botte dalla mamma e dal patrigno, in quel di Novara. Il comune ha decretato il lutto cittadino, a conferma di quanto questa vicenda abbia toccato da vicino i cuori della gente. Nella serata di ieri, invece, è andata in scena una fiaccolata silenziosa in ricordo del piccolo Leo Russo, con dei palloncini azzurri che sono stati liberati in cielo, in onore di quell’anima innocente il cui corpo è stato rinvenuto martoriato e senza vita. Presente il sindaco del paese, Alessandro Canelli, nonché la maggior parte della giunta e dei consiglieri comunali; alla fiaccolata anche il padre naturale di Leonardo, la nonna, e alcuni parenti della vittima. Intanto, sempre nella giornata di ieri, il gip ha convalidato il fermo di Gaia Russo, la 22enne mamma della vittima, e di Nicholas Musi, il 23enne compagno della madre. Il “patrigno” si è avvalso della facoltà di non rispondere, mentre Gaia ha rotto il silenzio dichiarandosi innocente.

«Non sono stata io ad aver ucciso mio figlio», ha riferito al Gip di Novara la ragazza, ed ora gli inquirenti stanno cercando di capire se tale pista sia attendibile, ed eventualmente, se vi siano dei concorsi di colpa nella morte del bambino di quasi due anni. Tra l’altro Gaia Russo è incinta di un secondo figlio di cinque mesi, figlio che sarebbe del padre biologico di Leonardo, come confermato ieri a Pomeriggio Cinque dalla signora Maria, la zia di Leo: «Il bimbo che sta aspettando Gaia è del papà biologico di Leonardo – le sue parole in diretta televisiva – me lo ha detto lui stesso. Perché sta ancora con quel mostro? Hanno ucciso un bambino come non si dovrebbe neanche uccidere un cane». Nonostante si dichiari innocente, la cognata punta il dito nei confronti di Gaia Russo: «Non avrebbe mai dovuto permettere una cosa del genere, arrivare in ospedale e giustificare quello che ha fatto il suo compagno è stato vergognoso». 

Pomeriggio 5, le amiche di Gaia Russo: “Lei è incinta del padre di Leonardo, non del compagno”. Redazione Blitz. Pubblicato il 28 maggio 2019. Pomeriggio 5, le amiche di Gaia Russo: “Lei è incinta del padre di Leonardo, non del compagno”. Colpo di scena nella vicenda di Leonardo, il bimbo di 20 mesi ucciso a Novara e per l’omicidio del quale sono stati arrestati la madre, Gaia Russo, e il compagno di lei, Nicholas Musi. Il secondo figlio di cui è incinta la donna sarebbe non del suo attuale compagno, bensì del padre biologico di Leonardo, Mouez Ajouli. Almeno questo è quanto hanno sostenuto gli amici di Gaia Russo a Pomeriggio 5, il programma del pomeriggio Mediaset condotto da Barbara D’Urso. “Ci sono voci che la bimba di cui è attualmente incinta non è del compagno, ma del padre biologico di Leonardo”, hanno detto gli amici della donna. Durante la trasmissione la D’Urso ha anche mandato in onda una intervista fatta alla nonna di Leonardo, Tiziana, durante la fiaccolata in ricordo del piccolo: “Io mi vergogno perché non ho più niente. Mi hanno tolto un nipote e una figlia”, ha detto la donna, distrutta dal dolore per la morte del nipotino. “Io gli ho comprato la culla. Io ho denunciato, sono andata da chi di dovere. Gente che sapeva e non mi ha avvisato. Mi hanno tolto tutto, anche la decenza. Anche Dio mi ha abbandonato. Leonardino è già santo. Martire da Novara, proteggerà i bambini”, ha aggiunto la donna. A Pomeriggio 5 anche le parole di Mouez Ajouli: “Ho visto il bimbo fino a un mese e mezzo fa. Il compagno mi mandava minacce, non voleva che facessi il padre. Penso che lui sottraesse a Gaia anche i soldi del bambino”. (Fonte: Pomeriggio 5)

·         Said Machaouat e Stefano Leo: un omicidio senza colore.

Said Machaouat, cosa non torna: "Ha ucciso Stefano perché italiano e felice? Mente, lo sgozzamento è un rito", scrive il 2 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Qualcosa non torna nel caso di Said Machaouat, il 28enne italo-marocchino che ha barbaramente ucciso con una coltellata alla gola Stefano Leo ai Murazzi, a Torino. Il magrebino ha confessato di averlo scelto dopo 20 minuti di "osservazione" tra i passanti, e di essersi deciso ad ammazzarlo perché voleva una vittima "italiana, felice e sorridente. Volevo togliergli tutto, a lui e ai suoi familiari. E lo volevo giovane perché avrebbe fatto più scalpore". Una motivazione sconvolgente, anche per il pm che ha voluto "far ripetere quelle parole due volte", e dietro cui si celerebbe un fortissimo disagio sociale, economico e psichico. "Non credo che sia la vera motivazione", è però la tesi della psicologa Vera Slepoj, intervistata dal Giornale: "Leggiamo che l'uomo è depresso, ma ogni manuale di psicologia insegna che il depresso solitamente si sente implodere in se stesso e in lui piuttosto, matura un sentimento di auto eliminazione. Qui qualcosa non torna. Vedo piuttosto un desiderio di stabilire un potere sugli altri. Prova è che il killer si sarebbe preparato all'evento. Ha comprato i coltelli, ha aspettato la sua preda. L'ha scelta con determinate caratteristiche". A disturbarlo non era tanto la felicità dell'italiano, spiega la Slepoj, quanto la sua normalità, "che lui voleva annientare". Per invidia, dunque: per "punire il mondo perché il mondo ha più di quello che ha lui, che lui non ha più. Di fondo c'è un fortissimo bisogno di protagonismo", patologico e ossessivo. "Ha voluto punire la società che non si accorge di lui e l'arma usata non è casuale. Lo sgozzamento è un rito, un sacrificio, una punizione in cui si ribadisce la sottomissione dell'altro che lui riteneva di dover punire. Ha visto la sua preda, lo ha aspettato e lo ha sacrificato, gli ha preso l'anima, non i soldi".

"Stefano Leo? Un omicidio razzista. ​E la sinistra resta in silenzio..." Cirielli (FdI) chiede l'aggravante per discriminazione razziale. Poi punta il dito contro la sinistra: "Boldrini e Zingaretti in silenzio", scrive Angelo Scarano, Martedì 02/04/2019, su Il Giornale.  Il delitto di Stefano Leo è assurdo e agghiacciante allo stesso tempo. Un ragazzo che passeggia per le strade di Torino muore dopo essere stato sgozzato da un marocchino con cittadinanza italiana. Ma a rendere il tutto più doloroso, soprattutto per i familiari di Stefano, sono le parole con cui Said ha spiegato il suo gesto e la furia omicida: "Volevo uccidere un bianco, giovane e italiano. Avrebbe fatto scalpore. Ha comprato un coltello, poi è andato ai Murazzi del Po a Torino e ha osservato i passanti in attesa dell'uomo giusto". Il suo racconto poi si fa ancora più agghiacciante: "Mi bastava che fosse italiano, uno giovane, più o meno della mia età, che conoscono tutti quelli con cui va a scuola, si preoccupano tutti i genitori e così via. Non avrebbe fatto altrettanto scalpore. L’ho guardato ed ero sicuro che fosse italiano. Volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le promesse che aveva, dei figli, toglierlo ai suoi amici e parenti". Insomma Said Mechaquat cercava un "italiano". Ha trovato Stefano che sorrideva e che per un assurdo motivo è finito sotto la furia omicida del marocchino. Proprio quella ricerca di "un uomo italiano" potrebbe far scattare l'aggravante di discriminazione razziale. A chiederlo Edmondo Cirielli, questore della Camera e parlamentare di Fratelli d'Italia: "L'assassino di Stefano Leo confessa che voleva uccidere “un italiano”. Ha agito, dunque, per finalità di discriminazione razziale. Mi sembra strano che la procura di Torino non abbia ancora contestato all'assassino l'aggravante". Poi l'esponente di Fratelli d'Italia punta il dito contro una parte di quella sinistra che ha preferito restare in silenzio davanti ad un ragazzo italiano trucidato con una coltellata alla gola: "Appare ancora più imbarazzante- prosegue Cirielli- davanti a un omicidio crudele, spinto dall'odio verso gli italiani, il silenzio dei paladini dell'integrazione, Nicola Zingaretti e Laura Boldrini. E soprattutto mi aspetterei parole forti anche da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per condannare questo omicidio razzista".

Giorgia Meloni sull'omicidio dei Murazzi: "Voleva uccidere un italiano. Ora i paladini dell'anti-razzismo...", scrive il 2 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Risolto l'omicidio dei Murazzi di Torino, dove è stato ucciso Stefano Leo. Risolto con la confessione di Said Machaouat, 27enne di origine marocchine, che ha rivelato di voler uccidere "un italiano felice", dunque "lo ho ammazzato a coltellate". Così ai poliziotti dopo essersi costituito. Una confessione rivoltante. Parole che indignano l'Italia e anche Giorgia Meloni, che si sofferma sul fatto che Machaouat abbia affermato chiaro e tondo di voler "uccidere un italiano". Scrive la leader di Fratelli d'Italia su Twitter: "Volevo ammazzare un italiano, ammette Said Mechaquat, assassino di #StefanoLeo. La Procura contesti a questo folle l’aggravante di #odiorazziale! I paladini della lotta al razzismo non hanno nulla da dire? O il #razzismo contro gli italiani nella loro visione non è contemplato?". Poco da aggiungere.

Torino, il killer maghrebino di Stefano e l'agghiacciante gesto al finestrino: sputa sul morto, scrive il 2 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Un pazzo o un terrorista, un cane sciolto anti-occidente? Il profilo dell'italo-marocchino Said Machaouat, il 28enne che ha ammazzato brutalmente il 34enne Stefano Leo ai Murazzi, a Torino, dopo averlo scelto per caso perché "italiano, giovane e felice" è decisamente complicato. Sicuramente si tratta di un giovane violento, disturbato. Prova ne è anche la agghiacciante reazione dopo l'arresto: davanti ai fotografi, mentre lo portano via in auto, Said incappucciato in un parka "saluta" tutti con un beffardo, vergognoso gesto delle corna con la mano destra, dietro il finestrino della vettura. La motivazione offerta agli inquirenti ha fatto "venire i brividi", parola di pm che lo ha interrogato, e lasciato nella più cupa disperazione il padre del povero Stefano: "Volevo una spiegazione, ma non questa - ha commentato distrutto -. Ora cosa dirò ai suoi fratelli?".

Omicidi senza colore. È tutta questione di… fragilità, scrive il 4 aprile 2019 Alessandro Bertirotti su Il Giornale. Premetto che non provo nessuna umana pietà nei confronti di Said Mechaout, l’uomo che il 23 febbraio scorso ha ucciso Stefano Leo. Tuttavia, non giudico; lascio che una giustizia superiore lo faccia. Se ne parlo è soltanto perché, da antropologo della mente, vorrei capire i meccanismi mentali che inducono un uomo a togliere la vita ad un altro uomo, specialmente quando, alla base del gesto omicida, v’è una motivazione etichettabile, a tutta prima, come “razziale”. La prima domanda che mi sono posto è se, effettivamente, la ragione di questo omicidio sia razziale. Un accenno di risposta si trova stabilendo un parallelismo tra la storia di Said Mechaout e quella di Luca Traini. Quest’ultimo è un giovane uomo di 28 anni di età, bianco, caucasico, di media scolarizzazione. Segni particolari: porta tatuato, sulla tempia destra, il simbolo di Terza posizione. Aderente a posizioni politiche proprie della destra radicale, tenta la strada dell’impegno politico con un risultato pari a zero. Questo giovane balza agli onori della cronaca per avere aperto il fuoco, in maniera randomizzata, su alcuni extracomunitari per vendicare Pamela Mastropietro, a sua volta barbaramente uccisa da un immigrato. A raid conclusosi, Luca Traini si consegna alle Forze dell’Ordine, non prima di essersi avvolto nel tricolore ed aver gridato, col saluto romano, “Viva l’Italia”, dinanzi al monumento ai Caduti di Macerata. Sin dal primo momento del suo arresto, Luca Traini ha affermato di avere agito per vendicare la giovanissima Pamela. In buona sostanza, un uomo bianco vendica la morte di una donna bianca, uccisa da un uomo di colore. Infatti, i reati contestatigli sono aggravati dai motivi di odio razziale. Il gesto è sembrato subito così folle, da far pensare che, al momento del gesto, Traini non fosse capace di intendere e di volere. La perizia psichiatrica eseguita su di lui ha stabilito, al contrario, che il giovane era in grado di rappresentare a se stesso le proprie azioni, il loro valore, ed era anche in grado di autodeterminarsi al compimento degli atti criminosi posti in essere. Tuttavia, la perizia ha cura di precisare che, sebbene capace di intendere e di volere, Traini presenta dei “tratti disarmonici della personalità”. Ad un anno di distanza dai fatti di Macerata ci troviamo davanti a Said Mechaout. 27 anni compromessi da scelte (od occasioni, non sappiamo…) di vita fallimentari, e che lo conducono a trovare ricovero in un luogo per chi è senza tetto e senza un lavoro. Un giovane che, prima, pensa di uccidersi e poi matura rabbia e voglia di vendetta. Said acquista una confezione di coltelli a basso costo, sceglie quello più grande, va a sedersi su una panchina dei Murazzi sul Lungo Po Machiavelli, ed attende pazientemente. Attende che, dinanzi a lui, passi non una persona qualsiasi, ma una persona precisa. “Mi bastava che fosse italiano, uno giovane, più o meno della mia età. (…) L’ho guardato ed ero sicuro che fosse italiano”. Attendeva quello che noi italiani definiamo “un bravo ragazzo e di buona famiglia”, dall’aspetto sereno, all’apparenza privo di problemi, e portatore di quelle aspettative verso al vita che solo la giovane età può dispensare. Ad un certo punto, il bravo ragazzo si è materializzato davanti agli occhi di Said, che decide di ucciderlo con un fendente al collo perché muoia subito. Lo uccide così, esattamente come aveva programmato. Poi è tornato al dormitorio. Attende un mese prima di consegnarsi e, nell’atto di farlo, dice: “Volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le speranze e i progetti che aveva, toglierlo ai suoi amici e parenti” – e prosegue – “Madre natura stava cercando di farmi uccidere e allora ho pensato io di uccidere. Ho detto che potevo far pagare a Torino quello che è di Torino”.

Cos’hanno in comune Luca Traini e Said Mechaout?

Tre cose evidenti: la stessa età, l’odio razziale, la capacità di pianificare e portare a compimento un progetto criminoso. Un cosa è meno evidente però, il disagio psichico che, di per sé, non elimina né affievolisce la capacità di intendere e di volere, così come non giustifica né giuridicamente né eticamente i fatti da loro commessi. A dir la verità, neppure spiega la ragione dei loro crimini. Ma è, senz’altro e secondo la mia visione, un elemento fattuale che accende un enorme faro sulla natura delle nuove generazioni. 27-28 anni sono un’età in cui una persona sente di essere sul punto di considerare conclusa la propria giovinezza e di approssimarsi ad una nuova fase della vita, ovvero quella della vera costruzione del proprio mondo e dell’assunzione di responsabilità. Fino alla soglia dei trenta anni, viviamo le aspettative, sappiamo che siamo esseri in fieri, che gettano le basi per il futuro. Il nostro must (per dirla all’inglese e come i giovani amano…) è attuare le aspettative. Giunti a circa trenta anni, si apre il periodo del consolidamento di ciò che si è seminato dopo i 20. Le aspettative personali di base, quali la serenità di fondo ed il lavoro, devono essersi attuate od essere in procinto di attuarsi. È a questo punto della vita che si dà una cornice a se stessi, valutando i risultati ottenuti nell’età formativa. Il punto è che se i risultati ci sono e sono valutabili positivamente, il trentenne si incammina verso il processo di maturazione, con la concreta consapevolezza e speranza di lavorare su buone fondamenta per la costruzione del suo avvenire. Se i risultati non ci sono, oppure non sono suscettibili di considerazione positiva, il trentenne si avvia verso la maturità, con la percezione di un dolore interiore che, se non elaborato, non solo si evolve negativamente, ma si cronicizza verso forme di impotenza, rabbia, desiderio di vendetta. Verso la ricerca di una rivalsa contro la collettività, indistintamente considerata. Tutto ciò si trasforma in quel che, comunemente, definiamo “disagio psichico” e che, oggi, accomuna Luca e Said. L’impossibilità di vedere un futuro, ci fa odiare coloro che, apparentemente, sembrano avere prospettive di un futuro ottimo e certo, perché si ritiene che la differente nazionalità od il colore della pelle conferiscano loro posizioni economico-sociali di favore. Si badi bene: l’odio razziale nutrito da Luca Traini e da Said Mechaout è esattamente identico perché specularmente inverso. Un bianco odia i neri extracomunitari perché, secondo lui, in Italia l’immigrato nero è trattato in maniera migliore di un bianco italiano. Un nero di cittadinanza italiana, per adozione, odia i bianchi italiani perché, a suo modo di vedere, in Italia l’essere bianco consente quella felicità che il nero italiano non può nemmeno sognare. Ed allora, un compito si impone alla famiglia, come nucleo primordiale ed alla scuola come nucleo formativo secondario: insegnare che la felicità, se esistente, non deriva dall’appartenenza ad una specie, ma dalle scelte che il libero arbitrio ci fa compiere, nella valutazione delle occasioni che la vita stessa ci pone di fronte. Lo fa con tutti, anche se in misura, tempi e modi diversi. In tutte le geografie, più o meno ricche o povere. Certo, senza occhi e mente adeguata non ci si accorge di nessuna occasione. E l’attenzione alle occasioni, anche le minime, si impara, da ciò che ci insegnano in famiglia e da ciò che ascoltiamo a scuola da coloro che ci impartiscono gli elementi di qualsiasi disciplina. E una delle nozioni primarie che possiamo apprendere in famiglia e a scuola è la consapevolezza che possiamo sempre lavorare su noi stessi, per emanciparci quando il destino non ci ha fatto nascere dentro una Rolls Royce, e da madre coperta di diamanti ed ermellino.

Said Mechaquat doveva essere in carcere  il giorno in cui uccise Stefano Leo. Pubblicato giovedì, 04 aprile 2019 da Corriere.it. Il 23 febbraio, giorno in cui ha ucciso Stefano Leo accoltellando alla gola in lungo Po Machiavelli, Said Mechaquat avrebbe dovuto essere in carcere. Il 27enne marocchino era stato infatti condannato, senza sospensione condizionale della pena, a un anno e sei mesi di carcere nel 2015 per maltrattamenti in famiglia nei confronti dell’ex compagna. E la sentenza è diventata definitiva nel 2018, dopo che l’appello proposto dall’avvocato di Said, Basilio Foti, è stato respinto perché inammissibile: a questo punto il verdetto avrebbe dovuto essere eseguito e Said avrebbe dovuto essere arrestato. Ma così non è stato. Un ritardo nella trasmissione della sentenza definitiva da parte della cancelleria della Corte d’Appello ha fatto sì che la Procura non potesse emettere un ordine di carcerazione. Per questo motivo Said era libero. L’uomo era stato condannato senza sospensione della pena perché da minorenne aveva ottenuto un perdono giudiziario in un processo per rapina. E, compiuta la maggiore età, aveva avuto guai giudiziari a Milano per aggressione e resistenza. La vicenda relativa al suo mancato arresto è ancora tutta da chiarire. In queste ore i magistrati stanno cercando di capire come mai ci sia stato questo ritardo nella procedure.

Arrestato e condannato ma libero. Così il killer ha ucciso Stefano. Said era stato fermato per due volte per violenze sulla ex compagna: "Sputi e calci". Poi la condanna. Era in attesa dell'appello, scrive Angelo Scarano, Giovedì 04/04/2019, su Il Giornale. Said Mechaquat, il marocchino con cittadinanza italiana che ha ucciso con una coltellata alla gola Stefano Leo a Torino nella zona dei Murazzi, a quanto pare aveva diversi precedenti penali quando ha deciso di accoltellare in modo mortale il ragazzo. La prima condanna in primo grado è arrivata il 20 giugno del 2016. Come rirporta la Stampa le accuse sono pensanti: violenza fisica psicologica, ingiurie, minacce e danneggiamenti. Nelle motivazioni della sentenza emerge il vero volto di Said Mechaquat: "Un violento che aveva ridotto la sua ex compagna in uno stato di succubanza, costretta a subire percosse e minacce con frequenza costante. Per sua stessa ammissione almeno tre volte al mese". L'uomo a quanto pare prendeva a calci e pugni la sua compagna costretta spesso alla fuga da casa. Il procedimento dopo il primo grado si è bloccato. Said è in attesa della sentenza di appello che non è ancora stata fissata. Ma già nel 2015 il marocchino aveva avuto i primi problemi con la giustizia. Il 19 febbraio 2015 aveva subito una condanna a un anno e due mesi. Il motivo? Sempre lo stesso: violenze sulla sua compagna. La donna era stata colpita con pugni e schiaffi. Anche calci mentre la donna era incinta. Un vero e proprio incubo. La storia tra Said e la sua ex compagna Ambra è stata di fatto scandita dalle violenze e dalle denunce. Said viene arrestato per ben due volte. Nel 2013 i poliziotti trovano la donna seminuda in strada in lacrime con il piccolo figlio tra le braccia. Era stata picchiata. Dieci giorni di prognosi. Come ricorda sempre la Stampa, Said viene scarcerato. Ma tornano le violenze. Dopo le denunce, la condanna per Said arriva nel 2015. L'uomo però è rimasto in libertà fino all'incontro con Stefano. La giustizia non ha fatto in tempo a mettere dietro le sbarre un assassino così spietato che ha spezzato per sempre il sorriso di questo ragazzo. Il tutto per un errore burocratico. La sua condanna infatti era diventata definitiva nel 2018. Ma la comunicazione che sarebbe dovuta giungere dagli uffici di Cancelleria della Corte d’Appello ma non è mai arrivata. La sentenza così non è stata eseguita. Said è rimasto libero e ha ucciso il povero Stefano.

Omicidio Leo, l’ex datrice di lavoro del killer: «Da quel video l’avrei riconosciuto». Pubblicato giovedì, 04 aprile 2019 da Corriere.it. C’è un video, che la Procura acquisì mesi fa e che adesso, dopo l’arresto di Said Mechaquat, assume una valenza più inquietante di allora. È stato girato il 28 giugno dalle telecamere del locale in cui il 27enne faceva il pizzaiolo. Il marocchino ha appena ricevuto una lettera di richiamo dal capo. Entra nel locale, a passo deciso. Lo colpisce con tre pugni in faccia. Colpi forti, pugni chiusi scagliati con una furia che fa impressione. L’episodio segna la fine del rapporto di lavoro di Mechaquat. E l’inizio di un incubo per Ilaria, socia del gestore. Da allora (ma in realtà da prima), Ilaria è una perseguitata. Lui l’aggredisce, la minaccia di morte, la segue. Diventa il suo stalker. Lei denuncia. Una, due, tre e più volte. In dieci mesi nessuno l’aiuta. I procedimenti giacciono in procura. L’ansia la divora. La bomboletta spray al peperoncino che tiene in tasca, come consente la legge, non riesce a placare quel sentimento di angoscia. Nemmeno adesso. È vero, lui è in prigione, ma per quanto vi resterà? Si chiede lei. Domanda che tutte, al suo posto, si farebbero. «So bene che lui poteva colpire ancora: la prossima ero io», racconta Ilaria. Viso pulito, mani che non stanno ferme sulle ginocchia. Negli occhi la paura. «Perché lui non era e non è pazzo, è lucido», dice con sofferenza. «Quando lo abbiamo assunto era gentile, sorridente», racconta. «Poi — prosegue — è emersa la furbizia, insieme alla scaltrezza. È diventato arrogante. Sono iniziati i problemi, era violento con tutti. A giugno, quando lo riprendemmo per l’ultimo fatto grave che aveva commesso, mi disse che mi avrebbe accoltellata. Il giorno dopo ha preso a pugni in faccia il mio socio». Dopo il licenziamento, la vendetta di Said diventa un piano che comprende più di una puntata. «Era agosto — rammenta la vittima — ero in bici in via Garibaldi. È spuntato all’improvviso, mi ha bloccata e con occhi gelidi ha detto: «Tu devi fare molta attenzione, mi devi dei soldi». Non era vero. Le minacce continuano: «Attenta o vedrai». Urla. Ilaria non fa in tempo a chiedere aiuto, lui se ne va. Meno di un mese dopo, la ragazza è al caffè Fiorio, in un momento di pausa. Da sola, seduta a un tavolino. «Erano quasi le 12, guardavo la piazza — ricorda — quando con una specie di balzo è comparso davanti a me. “Hai visto che pugno ho tirato a S.?” ha urlato e con aria minacciosa mi veniva addosso, sempre più vicino. Gli ho detto “Said vai via”, tremavo, ma lui non smetteva e diceva “Devi finirla di pensarmi la notte, io lo so che mi pensi sai”. «Ho messo la mano sullo spray che mi porto sempre dietro da giugno, in un marsupio, come mi avevano detto di fare i poliziotti», aggiunge Ilaria, che anche quella volta si salva, perché c’è folla e il suo persecutore si allontana. Dopo quel giorno si intensifica una fase forse peggiore. Quella del bombardamento di messaggi su Facebook: «Cambiava nome e profilo in continuazione, per mandarmi chat inquietanti e poi fare sparire le conversazioni, cambiando identità senza lasciare tracce». «Un giorno ero a casa mia — rammenta la ragazza — e mi è arrivata questa frase: “Che cazzo hai da ridere?” Mi stava spiando, ne sono sicura». Ilaria denuncia, di nuovo. L’ansia aumenta. Lui le dà il tormento. Il 25 gennaio le fa un agguato in piazza Castello. «Sai cosa devi fare per non vedermi più? Devi andare via da Torino» le grida sotto i portici, mentre la rincorre per picchiarla, dopo aver sputato in faccia al socio che accorre in suo aiuto. Arrivano carabinieri e polizia, davanti alle fontane. Lei piange. Lui viene fermato. «È stato dentro mezza giornata, poi era di nuovo libero. Mi hanno detto di stare tranquilla, che era solo un buffone», si sfoga Ilaria, che aggiunge: «Se avessero diffuso prima quel video in cui attraversa piazza Vittorio, l’avrei riconosciuto subito. Quel cappellino grigio, gonfio dietro, che non sono dei rasta, lo indossava anche il 25 gennaio quando mi aggredì». «Quando l’hanno fermato mia mamma ha pianto, perché ha capito che il coltello lasciato in piazza D’Armi era per ammazzare me», dice Ilaria, che ammette: «Io non dormo più la notte. Nemmeno ora che lo hanno preso».

Il killer di Stefano doveva essere in cella. Il caso delle carte mai arrivate in Procura. Pubblicato venerdì, 05 aprile 2019 Giovanni Falconieri e Simona Lorenzetti da Corriere.it. Non avrebbe dovuto trovarsi lì, Said Mechaquat. La mattina del 23 febbraio non avrebbe dovuto sedere su quella panchina di fronte al Po, dalla quale per quaranta lunghi minuti ha osservato la gente che passeggiava lungo il fiume aspettando una «persona felice» da uccidere. Quando ha accoltellato alla gola Stefano Leo, che sul volto aveva disegnati i tratti inconfondibili della serenità, il marocchino ventisettenne avrebbe dovuto essere in carcere da un pezzo. Da almeno nove mesi. Da quando, nel maggio 2018, la Corte d’Appello di Torino ha ritenuto inammissibile il ricorso che il suo difensore aveva presentato contro una condanna per maltrattamenti in famiglia pronunciata in primo grado il 20 giugno 2016: un anno e 6 mesi di reclusione senza la sospensione condizionale della pena. Di fronte all’ordinanza di inammissibilità depositata dai giudici della settima sezione, il verdetto è diventato definitivo. E per Said avrebbero dovuto aprirsi le porte del carcere. Ma qualcosa si è inceppato nei meccanismi che regolano l’attività degli uffici giudiziari. E alla Procura non sarebbero stati trasmessi gli atti che avrebbero permesso di emettere un ordine di carcerazione. «Sono in viaggio da Roma verso Torino — ha commentato ieri pomeriggio il presidente della Corte d’Appello del capoluogo piemontese, Edoardo Barelli Innocenti —. Ho già chiesto una relazione su questo fascicolo e voglio capire al più presto come sia potuta accadere una cosa del genere». La confessione di Said Mechaquat arriva cinque giorni fa, domenica 31 marzo. Il ragazzo si presenta dai carabinieri e si autoaccusa del delitto sul lungo Po Machiavelli. «Sono stato io», spiega ai militari. «Ho ucciso Stefano Leo perché mi sembrava una persona felice». La sua confessione convince i sostituti procuratori Ciro Santoriello ed Enzo Bucarelli, ma anche il giudice per le indagini preliminari Silvia Carosio: al termine dell’udienza celebrata mercoledì, il gip decide di convalidare il fermo del ventisettenne sottolineando la sua «elevatissima aggressività priva di freni inibitori» e la sua «fredda lucidità». Nelle stesse ore, però, viene alla luce una vecchia condanna per maltrattamenti contro l’ex compagna e il figlio, inflitta a Said il 20 giugno 2016. Una vicenda che racconta la storia di un uomo violento che «ha ridotto l’ex compagna in uno stato di succubanza, costringendola a subire percorse e minacce». Ma emerge, soprattutto, che quel verdetto è diventato nel frattempo definitivo. Ma nessuno se n’è accorto. Succede che dopo la sentenza di primo grado, la difesa di Said ricorre in appello. Ma il ricorso viene giudicato inammissibile, perché «troppo generico». L’avvocato del giovane marocchino avrebbe dovuto quindi depositare un nuovo ricorso, ma in Cassazione. Ricorso di cui non c’è traccia. Stando così le cose, la condanna di primo grado a 1 anno e 6 mesi di reclusione diventa definitiva. Said deve andare in carcere, non può restare libero. I giudici del Tribunale non gli hanno infatti concesso la sospensione condizionale della pena. E non lo hanno fatto per due motivi. Perché quando era minorenne aveva ottenuto il «perdono giudiziario» in un processo per rapina. E perché quando ormai aveva compiuto i 18 anni era finito di nuovo nei guai per un’aggressione e una resistenza commesse a Milano tra il 2013 e il 2014. Come se non bastasse, anche il coinvolgimento del figlio minore nella condanna per maltrattamenti in famiglia del giugno 2016 avrebbe impedito a Said di chiedere e ottenere sospensioni o misure alternative alla detenzione. Ma è a questo punto che si inceppa qualcosa negli ingranaggi della giustizia. È il maggio del 2018 e la sentenza definitiva per maltrattamenti in famiglia resta in Corte d’Appello, anziché essere trasmessa all’ufficio esecuzioni della Procura. La mancata notifica impedisce al pubblico ministero di emettere un ordine di carcerazione nei confronti di Said. Che resta libero. Libero di accumulare denunce per il suo carattere violento, di perdere il lavoro e pure la casa. Libero, soprattutto, di andarsene a spasso per nove mesi, prima di incrociare la propria strada con quella di Stefano Leo, il 33enne di Biella aggredito lungo il Po perché quella mattina di fine febbraio aveva «un’espressione felice sul volto».

CHI HA SETE DI GIUSTIZIA SARÀ GIUSTIZIATO. Giuseppe Legato per ''La Stampa'' il 4 aprile 2019. Violenza fisica psicologica, ingiurie, minacce, danneggiamenti. In una sola parola: maltrattamenti in famiglia. E lesioni aggravate. La condanna di primo grado - a 1 anno e 6 mesi di carcere senza sospensione condizionale della pena - è firmata dal giudice Giulia Casalegno. Data: 20 giugno 2016. In 10 pagine c' è il volto oscuro di Said Mechaquat, 27 anni, l' assassino dei Murazzi, l' uomo che ha ucciso Stefano Leo il 23 febbraio scorso. Che non è solo un' anima in pena perché non vede il figlio da tempo. Ma è «un violento», uno «che aveva ridotto la ex compagna in uno stato di succubanza, costretta a subire percosse e minacce «con frequenza costante. Per sua stessa ammissione almeno tre volte al mese». Calci, pugni, nasi sanguinanti, fughe da casa e temporanee riappacificazioni. Poi di nuovo, daccapo. Un inferno. Quel procedimento penale che nel caso di pronuncia definitiva avrebbe condotto dritto in carcere Said - nonostante la condanna inferiore ai due anni - è fermo da due anni e mezzo. Pende l' appello e - si apprende dal legale di parte civile - non è stata ancora fissata la data. E pensare che in aula, la prima volta, la ex compagna Ambra B. vittima di violenze e soprusi costanti, ci era entrata il 19 febbraio 2015. Fu un dibattimento relativamente veloce: un anno e 2 mesi di condanna per l' uomo. Nelle motivazioni della sentenza c' è l' indole fin qui nascosta dell' assassino dei Murazzi. Della convivenza con la donna che gli ha dato un figlio e poi lo ha lasciato. Oggi si capisce perché. Per 3 anni Said e Ambra hanno abitato in via Principessa Clotilde a Torino. Si erano conosciuti a novembre del 2011 ai corsi professionali dell' istituto professionale Boselli: «Eravamo innamorati, ma tantissimo» ha detto in aula. «Siamo partiti per Ibiza dove lui aveva trovato un lavoro. Quando siamo tornati, nel 2012, abbiamo deciso di andare a vivere insieme in un appartamento in affitto. La mia famiglia ci aveva aiutato a metter su casa. Lui lavorava e pagava il canone. Ci amavamo molto anche se litigavamo spesso. Le prime volte che è capitato mi aveva dato uno spintone, poi..». Poi lui diventa ancora più aggressivo. La colpisce con schiaffi e pugni. E calci. Anche mentre è incinta. Lei che tace. I vicini di casa sentono tutto. Chiamano la polizia. In 3 anni e mezzo le volanti faranno visita sei volte a quell' alloggio ormai ostaggio della violenza di un uomo fuori controllo. Said viene arrestato in due occasioni: a novembre 2013 Ambra viene trovata dai poliziotti in strada. E' seminuda e ha il piccolo figlio in braccio. Lui intanto sta sfasciando i mobili. «Era in lacrime e veniva soccorsa dai passanti» scrive il giudice. Verrà accompagnata all' ospedale: «Distorsioni multiple». Prognosi: 10 giorni. Torna a casa, lui viene scarcerato. E lei lo perdona. Ricapita: di nuovo violenze inaccettabili. A Said viene imposto il divieto di avvicinamento. Lei lo accoglie di nuovo a casa. Non cambia nulla. «Cerca anche di convincerlo a rivolgersi a una psicologa. Ma l ui non conclude il percorso». Emerge sempre di più il profilo dell' uomo che non governa le sue pulsioni aggressive. Altre botte a fine 2013: «Ambra aveva visto in un carabiniere una figura paterna e lui l' aveva spronata a denunciare» si legge in sentenza. Non segue querela in caserma. Il giudice motiva: «Ambra, al tempo era una giovanissima donna diventata mamma inaspettatamente non capace di affrontare una situazione del genere. Di certo non era in grado per costituzione e per carattere di fronteggiare l' aggressività di Said che prevedeva sistematicamente la risoluzione delle discussioni attraverso l' uso della violenza a senso unico». E poi «si è innamorata e in uno stato di succubanza che si manifesta attraverso l' assenza totale di denunce». Si lasciano nel 2014. La condanna arriva un anno dopo. Quaranta giorni fa il terribile omicidio di Stefano Leo. Ambra è sullo sfondo, si è rifatta una vita con un altro uomo. E forse Said voleva uccidere lui.

Sarah Martinenghi e Ottavia Giustetti per repubblica.it il 4 aprile 2019. Arriveranno gli ispettori del ministero per capire dove si è inceppata la macchina della giustizia impedendo che Said Mechaquat, l'assassino dei Murazzi finisse in carcere per una condanna a 18 mesi per maltrattamenti in famiglia. Il Guardasigilli vuol capire cosa è successo. Cosa non ha funzionato. Perché se la giustizia avesse fatto il suo corso - ripetono i familiari di Stefano Leo, il commesso di 34 anni ucciso con una coltellata sul lungopo Machiavelli, a Murazzi, la mattina di sabato 23 febbraio - oggi il giovane biellese sarebbe ancora vivo. Del caso della sentenza incredibilmente mai eseguita di condanna per Said Mechaquat la Corte d'Appello parlerà nel dettaglio solo oggi. Né la procura generale né la procura ordinaria che avrebbe dovuto ricevere gli atti per disporre l'ordine di carcerazione hanno voluto commentare senza prima aver visto tutte le carte. Dal 18 aprile 2018 si sono perse le tracce della sentenza e negli uffici al settimo piano del Palazzo di giustizia nulla è mai arrivato. Eppure era irrevocabile la sentenza che il 20 giugno 2016 condannava Said Mechaquat a un anno e sei mesi di carcere per maltrattamenti aggravati, lesioni e minacce nei confronti dell'ex compagna Ambra. Il pm che sosteneva l'accusa, Stefano Castellani, aveva chiesto e ottenuto che la pena non fosse sospesa perché l'imputato aveva altri precedenti e la vicenda di maltrattamenti coinvolgeva anche il figlio piccolo della coppia, elemento che impedisce al condannato di chiedere sospensioni o misure alternative alla detenzione. Ma l'ordine di carcerazione per colui che poi diventerà l'assassino di Stefano Leo non è mai stato emesso perché la sentenza di condanna irrevocabile si è fermata in Corte d'Appello il 18 aprile 2018 senza arrivare all'ufficio esecuzioni della procura. Quel giorno i giudici hanno dichiarato inammissibile il ricorso del suo avvocato ma gli atti si sono bloccati lì e la pena non è stata eseguita. "Pensavamo che fosse tutto tranquillo e che l'iter giudiziario fosse ancora in corso" dice l'avvocato Fabrizio Reale, che nel processo per maltrattamenti aveva assistito Ambra, l'ex compagna e vittima. " In realtà, dopo che Mechaquat si è consegnato e ha confessato l'omicidio di Stefano Leo, la mia assistita mi ha contattato raccontandomi di aver personalmente presentato altre denunce contro di lui in questi anni. Purtroppo nessuna ha sortito l'effetto di riaccendere l'attenzione su questo caso". Ed è verosimile che Said sarebbe stato in carcere il 23 febbraio 2019 anziché ai Murazzi dove ha tagliato la gola a Stefano Leo. "Tutti i magistrati d'appello - ha detto il presidente - sono impegnati in una sforzo eccezionale non per eliminare l'arretrato ma per farlo rientrare entro limiti fisiologici accettabili". "Noi tutti vorremmo essere messi in condizione di rendere un servizio efficiente alla società e soffriamo quando dobbiamo dichiarare una prescrizione del reato perché è decorso il tempo previsto per la definizione del processo". L’avvocato Nicoló Ferraris, che assiste i genitori di Stefano Leo commenta: “Trovo sorprendente che ci sia prima la conferenza stampa che un incontro con il legale della famiglia in ogni caso prima di trarre ogni conclusione vogliamo vedere gli atti del procedimento che avrebbero determinato questo errore che laddove fosse confermato è evidentemente assai grave. La famiglia vuole approfondire la questione con le modalità di spiccata civiltà che ha contraddistinto fin dall’inizio ogni singola richiesta di giustizia”. Pensate di poter chiedere un risarcimento al ministero della Giustizia? “Ovviamente è scontato ma non è certo il primo pensiero di due genitori che hanno perso un figlio di 33 anni”.

Le sentenze smarrite negli uffici della Corte d’Appello: mille colpevoli in libertà. Pubblicato sabato, 06 aprile 2019 da Corriere.it. Si comincia alle 8.30. Si finisce alle 14.30. Trentasei ore settimanali suddivise in sei giorni. Sette persone in tutto. Scala C. Settimo piano del Palazzo di giustizia. Eccolo «l’ufficio sentenze arretrate» della Corte d’Appello di Torino, dove ogni giorno il personale amministrativo analizza i fascicoli da inviare all’ufficio esecuzioni della Procura perché proceda con gli ordini di carcerazione. E quindi con l’arresto dei colpevoli. Quattro stanze stracolme di faldoni sistemati in ogni dove: sulle scrivanie, sugli scaffali, sulle sedie e persino per terra a creare pile in bilico. «Fossero solo questi, non avete visto il piano di sotto e il seminterrato», chiosa Daniela Olivetti, la responsabile. Sono diecimila le sentenze definitive, tutte precedenti alla metà del 2017, che devono essere ancora eseguite. In quelle carte ci sono i nomi degli imputati. Alcuni di loro sono stati assolti, altri invece sono stati condannati e devono finire in carcere. Persone, quest’ultime, che in realtà sono ancora in libertà. Proprio come lo era Said Mechaquat, l’uomo che ha ucciso Stefano Leo. E i numeri dei colpevoli non sono indifferenti. Sono almeno mille i potenziali detenuti in attesa di scontare la pena. Un numero approssimativo e in difetto, visto che i procedimenti possono coinvolgere anche più persone. «Si fa quel che si può», dicono in Corte d’appello allargando le braccia in segno di resa. L’ufficio è stato creato un anno fa, quando Edoardo Innocenti Barelli è diventato presidente della Corte d’Appello. Obiettivo? Smaltire un arretrato spaventoso. «Quando abbiamo iniziato ci siamo trovati di fronte a 15 mila fascicoli non trattati. Giorno dopo giorno abbiamo cercato di mettere in ordine e in un anno ne abbiamo evasi 5 mila», spiega Olivetti. Un impegno non da poco. «Ci sono sentenze racchiuse in poche decine di pagine. Altre si portano al seguito anche cinque o sei faldoni di carte, se non di più. Dipende dal numero degli imputati e dalla complessità del caso. E per ciascun procedimento ci sono da compilare schede, controllare sequestri e recuperare spese di giustizia». In media, ogni giorno vengono trattati tre fascicoli, ma può succedere che per un solo procedimento ci vogliano anche due giorni. Si procede sulla base dell’entità della pena. Ma il personale scarseggia. «All’inizio eravamo in 11, adesso siamo in 7 — spiega ancora la responsabile —. Ci vorrebbe più personale, ma la coperta è corta». Non esiste solo l’ufficio sentenze arretrate. Ogni sezione della Corte d’Appello ha una propria cancelleria che si occupa di smaltire l’ordinario: cioè, le sentenze emesse dalla metà del 2017 in poi. In tutto sono cinque le cancellerie. Ed è in una di queste, quella che fa capo alla seconda sezione, che si è registrato il corto circuito che ha fatto sì che Said Mechaquat non finisse in carcere nel maggio del 2018, quando la sua condanna è diventata definitiva. La seconda sezione è l’unica che oggi ha un arretrato che va oltre il fisiologico di qualche decina di fascicoli. Un problema ben conosciuto a Palazzo di Giustizia, tanto che nel dicembre scorso anno la cancelleria è finita sotto la lente del Consiglio giudiziario. In seconda sezione ci sono ben 956 sentenze che aspettano di essere eseguite. Tra queste, fino a tre giorni fa, c’era anche quella di Said.

Innocenti scuse, scrive il 5 aprile 2019 Augusto Bassi su Il Giornale. «Come rappresentante dello Stato mi sento di chiedere scusa alla famiglia di Stefano Leo. Non consento di dire che la Corte d’Appello sia corresponsabile dell’omicidio. Qui abbiamo fatto quello che dovevamo fare», sono le accorate parole del presidente della Corte d’Appello di Torino, Edmondo Barelli Innocenti, che apprendo dal Giornale. «Io sono qui a prendermi i pesci in faccia per quello che è successo, ma non è solo colpa dei magistrati. La massa di lavoro che abbiamo da smaltire è tale che il Ministero dovrebbe provvedere. Siamo qui, prima ancora che come magistrati e giornalisti, come essere umani. Il mio pensiero va ai parenti della vittima, ai quali manifesto il mio cordoglio e il mio dolore. Se la cancelleria della Corte d’Appello avesse inviato l’estratto alla Procura e la Procura avesse emesso l’ordine di carcerazione, non c’è alcuna certezza sul fatto che Said Mechaquat sarebbe stato in carcere il giorno in cui ha accoltellato a morte il 33enne di Biella. Ogni sei mesi il detenuto ha diritto a 45 giorni di sconto. L’equazione due più due fa quattro, non funziona sempre. C’è stato un problema, chiedo scusa alla famiglia come uomo di Stato, ma non è corretto dire che Said Mechaquat sarebbe stato in carcere il 23 febbraio 2019 se la precedente condanna fosse stata eseguita. Poteva non essere in carcere, quel giorno. La Corte d’Appello non è corresponsabile del fatto, questo va detto. Alla Corte d’Appello vengono concesse le attenuanti generiche per la carenza di personale. Ma non è un’attenuante, è una scriminante. I servizi spettano al ministero della Giustizia. E noi siamo in seria difficoltà. Dai 23 mila fascicoli pendenti siamo scesi adesso a 17 mila e 500. Ma le cancellerie sono comunque in affanno. Il nocciolo è che i magistrati stanno facendo l’impossibile, ma i servizi di cancelleria sono carenti», leggo ancora sul Corriere della Sera di oggi. Dunque, per l’ennesimo e fatale episodio di malagiustizia non sembrano esserci colpevoli, solo Innocenti. Cedo a voi le riflessioni del caso perché le mie sarebbero eccessivamente sapide, limitandomi a una citazione di Gogol’, perché in fondo tutti respiriamo con il suo naso e qui c’è afrore di anime morte: «Hanno un bell’essere stupide le parole dello sventato: esse, a volte, sono sufficienti per confondere l’intelligente». Tuttavia, vorrei suggerire a Barelli Innocenti di cooperare maggiormente con la Procura, lasciandosi contagiare dalle lodevoli iniziative del procuratore Spataro, al fine di porre rimedio alla rovinosa assenza di personale. Su Repubblica del 24 ottobre 2018 leggevo infatti: «A metà novembre metteranno piede al Palazzo di giustizia di Torino i primi richiedenti asilo arruolati negli uffici della procura per aiutare il personale amministrativo, che da tempo soffre di pesanti carenze d’organico, in alcune delle attività quotidiane. Si tratterà di un gruppo di 4-6 migranti selezionati dalla cooperativa sociale L’isola di Ariel grazie a una convenzione firmata con il procuratore capo. Spataro si è sempre molto impegnato contro la discriminazione razziale, decidendo di recente una stretta della procura contro i reati di odio razziale. «È impensabile immaginare l’immigrato come un peso di cui sbarazzarsi. Ci vuole l’intervento di chi ha la responsabilità pubblica perché non possiamo lasciare tutto il peso del problema alle cooperative e mi auguro che questa nostra iniziativa possa essere replicata. Ricordo le parole di Stefano Rodotà, che diceva come la solidarietà non è un sentimento, ma è un dovere e un diritto». Dopo aver fatto sommessamente notare a Spataro che l’odio razziale è un sentimento e non un reato, mi limito a prefigurare un futuro di cooperazione fra organi giurisdizional-amministrativi; sono certo che la Procura sarà lieta di cedere qualche suo arruolato alla Corte d’Appello per le urgenti mansioni di cancelleria affinché non vi siano più italiani sgozzati per la strada. Al limite accadrà direttamente in un ufficio giudiziario. «Se una cosa la vuoi, una strada scoprirai; se una cosa non la vuoi, una scusa troverai». Proverbio africano.

Luigi Ferrarella per il ''Corriere della Sera'' il 6 aprile 2019. Magari fosse solo «un» errore, e magari riguardasse solo Torino, il fatto che l' assassino, il 23 febbraio, di Stefano Leo, Said Mechaquat, avesse alle spalle una condanna a 18 mesi (per maltrattamenti familiari nel 2013) emessa nel 2016 e divenuta definitiva nel maggio 2018, ma da allora non ancora trasmessa dalla Corte d' appello alla Procura per l' esecuzione. Sarebbe persino consolante. E invece, in giro per le Corti d' appello d' Italia, sono almeno 50.000 le sentenze irrevocabili non ancora messe in esecuzione a causa delle carenze dei cancellieri, che devono svolgere tutti quei successivi adempimenti necessari a produrre gli effetti di una sentenza. «Siamo qui da esseri umani prima ancora che da magistrati», e «come rappresentante dello Stato mi sento di chiedere scusa alla famiglia di Stefano Leo», rimarca ieri il presidente della Corte d' appello torinese Edoardo Barelli Innocenti con voce che gli si incrina per la commozione: «Ho anche io un figlio e, fosse successo a me, anche io sarei mortificato. Sono qui a prendermi pesci in faccia», aggiunge, «ma è solo colpa nostra? Vengano a vedere in che condizioni siamo in cancelleria. Come capo dell' ufficio non distinguo tra giudici e cancellieri, ma la massa di lavoro è tale che, con le attuali forze, non posso garantire che quello che è successo non possa capitare di nuovo». Le statistiche ministeriali non estraggono questo dato, e dunque è solo con una ricerca del Corriere ieri in alcune grandi sedi che si riesce ad afferrare le dimensioni del fenomeno, ben noto senza bisogno che a far finta di meravigliarsi arrivi ora il solito annuncio dell'«invio degli ispettori». Dovunque è una corsa disperata a cercare di stare in pari con le sentenze a pene da eseguire in carcere (cioè quelle o oltre i 4 anni o per reati ostativi alle misure alternative), mandando però in coda l' esecuzione di quelle per reclusioni sotto i 4 anni (il cui ordine di carcerazione verrebbe per legge sospeso per consentire al condannato di chiedere entro 30 giorni al Tribunale di Sorveglianza una misura alternativa). In Corte d' appello a Torino, dove l' acceleratore dei giudici è passato a decidere da 70 a 160 verdetti al mese, l' imbuto di cancelleria fa però poi sì che i possibili «Said» accumulatisi siano almeno 10.000 (957 solo nella sezione del processo a Said). Roma, che sino a qualche tempo fa aveva un arretrato di 21.500 fascicoli risalenti persino a verdetti del 2007, dopo un enorme sforzo della Corte d' appello in un progetto sostenuto dalla Regione Lazio è scesa all' inizio del 2018 a comunque 15.500 fascicoli di arretrato. Se Palermo dichiara un lusinghiero equilibrio quasi in tempo reale, la Corte d' appello di Napoli invece è arrivata a stimare un arretrato di 20.000 sentenze irrevocabili da mettere in moto. Milano, in pari con le sentenze a pena da eseguire in carcere, ma sulle altre in passato giunta a sfiorare le 5.000, ora viaggia con 5 mesi di sfasamento, pari ieri ad ancora 1.537 sentenze alle quali dar corpo, e con un progetto mirato punta ad abbassare la media a 40 giorni. Brescia da 4.000 è scesa sulle ancora 2.500 sentenze da eseguire, e pure Venezia ne stima 2.000. Il denominatore comune è la carenza di cancellieri sino a un picco di 9.000 unità mancanti in 20 anni senza assunzioni, con una scopertura nazionale attorno al 22% e punte del 30% in alcuni distretti del Nord. Carenza ancor più avvertita in Appello, dove un quarto del lavoro delle già sguarnite cancellerie è assorbito da compiti amministrativi pure imposti dalla legge ma non attinenti i processi (esami avvocati, collegi elettorali, spese di giustizia, manutenzione degli uffici, ecc.). Va dato atto all' ex ministro Orlando (governo Renzi-Gentiloni) di aver bandito, appunto dopo due decenni, il primo concorso peraltro di dimensioni mostruose, partecipato da oltre 300.000 candidati; e all' attuale ministro Bonafede (governo Conte) di stare proseguendo su questa direttrice con soldi veri. Solo che i pur preziosissimi 5.500 assunti dal 2014 a oggi hanno appena pareggiato i corrispondenti pensionamenti di una categoria dall' età media ormai alta appunto a causa del lungo blocco di concorsi e turn over. E le ulteriori 4.300 assunzioni, che l' attuale governo ha finanziato per i prossimi tre anni, dovranno fare i conti non solo con i pensionamenti fisiologici, ma anche con le maggiori possibilità offerte dalla legge su «quota cento» a un bacino di pensionandi che persino la più prudenziale proiezione stima non inferiore alle 3.000 uscite su 10.000 dipendenti teoricamente interessati nei tre anni.

Omicidio Stefano Leo e fascicoli fermi: impuniti anche stupratori. Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Corriere.it. Una violenza sessuale prescritta, stessa sorte per un episodio di maltrattamenti in famiglia. E poi altri due processi per violenza, con imputati detenuti, che a distanza di un anno dalla sentenza non sono stati trasmessi in Cassazione. E un quinto caso, sempre di violenza sessuale, che non si è ancora prescritto solo perché all’indagato è contestata una aggravante specifica. Procedimenti simbolo che raccontano la débacle giudiziaria della cancelleria della seconda sezione penale della Corte d’Appello di Torino, la stessa che non ha trasmesso il verdetto che avrebbe portato in carcere Said Mechaquat nove mesi prima dell’omicidio di Stefano Leo. Il quadro disarmante emerge dalla Commissione di vigilanza del Consiglio giudiziario, che lo scorso 19 febbraio ha depositato una relazione che evidenzia tutte le criticità. Il caos che da oltre un anno regna nella seconda sezione non mette a rischio solo le 956 sentenze che non vengono eseguite. In bilico ci sono anche 560 fascicoli andati a sentenza nella cosiddetta «sezione stralcio» e 450 verdetti che dovrebbero essere trasmessi in Cassazione e che invece giacciono su scaffali impolverati. E su molti di questi procedimenti penali incombe la prescrizione. Se per alcuni fascicoli c’è ancora speranza, per altri invece la parola fine è già stata scritta. Tra questi, quattro processi per violenza sessuale e uno per maltrattamenti in famiglia. Storie di vittime che potrebbero non avere mai giustizia. A lanciare l’allarme sono stati i presidenti di sezione che si sono succeduti, Paola Dezani e Mario Amato (quest’ultimo è attualmente in carica). In diverse missive, i vertici «segnalano un allarmante ritardo nella cura degli adempimenti post udienza relativi agli anni 2016 e 2017. Evidenziano — si legge — che per molti di quei fascicoli nemmeno è noto se essi siano stati colpiti o meno da ricorso in Cassazione (sicché nemmeno è noto se la sentenza sia irrevocabile o meno); evidenziano altresì che ciò comporta un significativo ritardo dei fascicoli in Cassazione, con il conseguente rischio che, nelle more, maturi il termine di prescrizione». Un esame rapido dei faldoni giacenti ne ha portati alla luce alcuni particolarmente urgenti. «Casi di processi sentenziati nel 2016 o nel 2017 (con condanne per reati di violenza sessuale) che non sono stati trasmessi tempestivamente alla Cassazione, così determinando l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione»: tra questi, una violenza sessuale il cui fascicolo è datato 2011 e un caso di gravi maltrattamenti. E ancora: «Casi i cui fascicoli relativi ai ricorsi presentati avverso le sentenze di condanna per reati di violenza sessuale (anche con imputati detenuti) non sono stati trasmessi alla Cassazione nemmeno dopo un anno». Insomma, una disfatta giudiziaria che imbarazza e annichilisce i vertici della Corte d’Appello. I presidenti evidenziano anche «disfunzioni» nei fascicoli relativi alle misure cautelari. Il rischio, in questo caso, è che le persone restino in carcere più del dovuto. Una presa d’atto disarmante: «I due presidenti riferiscono che ad oggi si riesce solo a coltivare l’obiettivo di trattare in tempo quasi reale i fascicoli sentenziati nell’anno corrente». Nel corso del 2018, la seconda sezione penale ha emesso 2.400 sentenze. Ma solo per 600 sono stati trattati gli adempimenti successivi. Un quarto. I restanti giacciono in attesa.

Tribunale choc: uffici vuoti e faldoni spariti. Dopo le 12.30 non lavora più nessuno. Due anni fa uno stupratore la fece franca, scrive Luca Fazzo, Sabato 06/04/2019, su Il Giornale. Uno ascolta le spiegazioni del giudice Barelli Innocenti, lo vede commuoversi in diretta, lo ascolta spiegare alla famiglia di Stefano Leo che se il loro ragazzo è stato ammazzato senza motivo da un criminale che avrebbe dovuto stare in galera è tutta colpa della carenza di personale: e si immagina che due piani più sotto, nelle cancellerie della corte d'appello, chini sotto il peso delle pratiche, poche unità di uomini e donne lavorino senza sosta per cercare di salvare il salvabile, assicurando alla giustizia il maggior numero possibile di colpevoli. Purtroppo non è così, non è proprio così. Non lo era alle undici del mattino, mentre il presidente della Corte parlava con i giornalisti; e lo era ancora meno un paio d'ore dopo, quando la pausa pranzo aveva ormai segnato il rompete le righe verso il weekend. D'altronde chi abbia provato un pomeriggio qualunque a entrare nel Palazzo di giustizia torinese - come in qualunque altro tribunale d'Italia - ha la percezione di essere in una sorta di deserto, lunghe teorie di porte chiuse, interrotte solo dagli uffici precettati per le urgenze. Orario di chiusura delle cancellerie: 12,30. La macchina della giustizia, questa è la verità, è una macchina che funziona a mezzo servizio. E l'eterna lagnanza sulla carenza di personale nasconde ritmi di lavoro - come dire - dal volto umano. Se il fascicolo che doveva portare in carcere Said Mechaquat non è mai arrivato alla Procura, arenandosi su un tavolo della Corte d'appello, la colpa non può essere rifilata alla mancanza di personale. Qualche buco in organico negli uffici c'è di sicuro: ma si tratta di organici ampi, che dovrebbero essere in grado di supplire con la buona volontà dei singoli a qualche carenza. Anche perché sul capoluogo piemontese è caduta l'anno scorso, ancora sotto il governo Gentiloni, una massiccia infornata di personale. Poco prima, gli stesso uffici torinesi avevano potuto beneficiare di una robusta iniezione di «mobilità», l'afflusso di dipendenti da altre amministrazioni pubbliche in fase di dismissione come le province. Poi il ministro della Giustizia Orlando aveva mandato a Torino altre decine di assistenti giudiziari: e si trattava in questo caso di personale giovane, fresco di studi, dinamico. Ma a quel punto scoppiarono le polemiche tra i magistrati di vertice degli uffici torinesi: «ne avete mandati troppi in tribunale»; «ne avete mandati pochi in corte d'appello»; e via di questo passo, nel solito contesto per cui il prestigio di un dirigente dipende anche dalla quantità di risorse che riesce ad ottenere. Il problema era - ed è tutt'ora - che la Corte d'appello torinese è recidiva: stavolta ha permesso a un colpevole di tornare a delinquere, due anni fa aveva consentito che uno stupratore la facesse franca. Il fascicolo del processo di secondo grado ad un violentatore di bambine si era perso anch'esso nelle cancellerie, proprio come si è smarrita ora la condanna di Mechaquat, e ne era riemerso solo quando il reato era ormai prescritto. Il ministro Orlando aveva chiesto pubblicamente scusa alle famiglie delle vittime, e aveva annunciato una ispezione negli uffici giudiziari torinesi - e in particolare alla Corte d'appello - perché si scoprisse come una mancanza di tale gravità fosse potuta avvenire. L'esito della ispezione non è mai stato comunicato. Ora si scopre che a Torino le cose sono andate sempre peggio.

Delitto Murazzi, l'allarme del presidente della Corte d'Appello: "Il caso di Torino può ripetersi". Stefano Leo ucciso da un uomo che avrebbe dovuto trovarsi in carcere. Parla Edoardo Barelli. "Scriverò a tutti”, scrive Sarah Martinenghi il 7 aprile 2019 su La Repubblica. L'amarezza per il ciclone che si è abbattuto sulla sua Corte d'Appello. La resa di fronte alla mancanza di personale amministrativo all'origine del problema che ha portato a lasciare in libertà l'assassino di Stefano Leo, il giovane sgozzato ai Murazzi del Po. E la decisione di chiedere più attenzione alle cancellerie e di lanciare un monito ai presidenti di tutte le Corti d'Italia: "Scriverò a tutti i colleghi per avvisarli: quel...

Omicidio di Stefano Leo,  la sentenza di Said fu mandata all’avvocato sbagliato Il caso. Pubblicato lunedì, 15 aprile 2019 da Simona Lorenzetti  su Corriere.it. Non ci fu solo un ritardo nella trasmissione del fascicolo dalla Corte d’Appello alla Procura, con la successiva mancata esecuzione della sentenza. Ci fu, nel caso di Said Mechaquat, anche un errore di notifica delle carte processuali: il suo ricorso contro la condanna per maltrattamenti in famiglia sarebbe stato infatti inoltrato al legale sbagliato. Il ventisettenne marocchino è ora rinchiuso in carcere con l’accusa di avere ucciso Stefano Leo, il 23 febbraio scorso sul lungo Po Machiavelli. Mechaquat era stato condannato a 18 mesi di reclusione senza condizionale per maltrattamenti in famiglia. La sentenza era diventata definitiva perché la Corte d’Appello, su richiesta dell’Avvocato generale Giorgio Vitari, nell’aprile del 2018 aveva dichiarato «inammissibile» il ricorso in appello. Secondo quanto è stato possibile ricostruire, tuttavia, la notizia non sarebbe stata comunicata al suo difensore dell’epoca (un legale d’ufficio), ma a un altro avvocato: Basilio Foti. Quest’ultimo sarebbe stato indicato evidentemente dallo stesso Said. Ma Foti non aveva mai assunto l’incarico. E con il giovane non era mai entrato direttamente in contatto. L’avvocato Foti ora assiste Said nel procedimento per omicidio. Nei giorni scorsi, visto il difetto nella notifica, ha chiesto al Tribunale di Torino di dichiarare la «non esecutività» della sentenza di condanna.

 “MI SENTO TRADITO, MI VIENE VOGLIA DI LASCIARE L’ITALIA”. Marco Bardesono per “Libero quotidiano” l'8 aprile 2019. Il presidente della Corte d'Appello di Torino ha chiesto scusa alla famiglia Leo. I ritardi della sua cancelleria hanno fatto sì che il tagliagole dei Murazzi potesse agire e uccidere. Scuse formalmente accettate, ma che lasciano il tempo che trovano perché, spiega Mariangela Chiri, la mamma della vittima, «Stefano non ritornerà mai più e nessuno potrà restituircelo, purtroppo non si può tornare indietro». Per quanto il legale della famiglia Leo, l'avvocato Nicolò Ferraris aggiunga: «C'è un errore da parte dello Stato e quindi è giusto che ci sia un risarcimento», al momento non è ciò che interessa maggiormente alla famiglia del commesso trentatreenne del punto vendita K-way di Torino. Dopo la tragedia, mamma e papà di Stefano Leo vivono un dramma che si consuma in maniera diversa ogni santo giorno. Il tono di voce di Maurizio, il padre, un ex poliziotto, è quello di una persona angustiata. «È vero - dice -, cosa vuole che le racconti, è da stamattina alle sette che rispondo a domande dei giornalisti. Anche voi dovreste essere più rigorosi di fronte a quanto è accaduto. Intanto dico che nessun errore della giustizia può cancellare le responsabilità di chi ha ammazzato mio figlio».

Dunque nessuna attenuante per il tagliagole?

«Qui in Italia sembra che abbiamo una giustificazione per tutto. Un anno fa a Torino un uomo che si chiamava Maurizio Gugliotta è stato sgozzato come mio figlio, in pieno giorno in un mercato della città. L'assassino, giudicato pazzo, è stato condannato a 12 anni. Ma vi sembra? Questa gente quando colpisce mira alla gola o al cuore, semplicemente perché vuole uccidere. Oggi come oggi chi va in galera? Chi sconta la pena? Mi viene voglia di lasciare questo Paese, di andarmene via».

Non vede altre possibilità?

«Guardi sto per sedermi a tavola per cena con la mia famiglia, io ho ancora tre figli, uno ha 27 anni e da quando Stefano è stato ucciso vive nel terrore. Il punto è che in Italia abbiamo un giro di persone pericolosissime che quando vanno fuori di testa uccidono i nostri figli».

Dunque lei invoca certezza e severità delle pene?

«Io non sono una persona che chiede quaranta o cinquant'anni di galera a vanvera, perché Stefano non me lo restituirà più nessuno. Abbiamo celebrato il funerale, ora devo pensare agli altri miei figli e alla mia famiglia. Per il resto, cosa posso aggiungere? Prima hanno detto che Stefano lo hanno ucciso perché era felice e per me è stato come vederlo morire una seconda volta, ora si scopre che il killer doveva essere in galera, mentre invece era a piede libero. Neanche al cinema si vedono certe cose, siamo all' assurdo e questo è il mio dramma».

Signor Leo, cosa bisognerebbe fare per cercare di cambiare le cose, ammesso che sia possibile?

«Tutti noi, ma dico proprio tutti, dovemmo essere più incazzati perché queste cose non accadano più, non viviamo nella giungla».

Un ragazzo viene sgozzato in pieno giorno nel centro di Torino, l'assassino era libero mentre invece avrebbe dovuto essere in cella, non c'è nulla che funzioni.

«Anche i servizi sociali, lo dico come esempio, sono pagati e hanno il dovere di agire e di aiutare persone come quella che ha ucciso mio figlio o perlomeno di segnalarli a chi di dovere. No, le cose non vanno affatto bene, lo Stato dovrebbe essere gestito come un'azienda, chi sbaglia paga. Se un settore non funziona, allora bisogna cambiare qualcosa e bisogna farlo in fretta»

Ieri il presidente della Corte d'Appello di Torino ha fatto il mea culpa e ha detto che non può assicurare che certi fatti non accadano più, cioè che un condannato in via definitiva possa ritrovarsi libero anziché in galera.

«La giustizia italiana ha delle carenze, è lenta, ci sono errori e ritardi? Va tutto bene finché non ci scappa il morto. E adesso come la mettiamo? Credo che sia necessario lavorare per prevenire certe cose. A pensarci mi viene la nausea, perché questo Paese non tutela i suoi cittadini. Lo ripeto, voglio andarmene via, non voglio più saperne nulla, mi sento completamente svuotato e tradito».

Sondaggio, la sentenza di Antonio Noto sui magistrati e la giustizia: i numeri che asfaltano le toghe, scrive il 7 Aprile 2019 Libero Quotidiano. La fiducia degli italiani nel sistema giudiziario e nei magistrati sta vivendo una nuova stagione di crisi, simile a quella di 10 anni fa, quando i processi contro Silvio Berlusconi tenevano banco sulle prime pagine dei quotidiani, ma con una differenza sostanziale. In passato, l'insoddisfazione nei confronti della magistratura era dichiarata per la maggior parte dagli elettori di centrodestra, come sostiene il sondaggista Antonio Noto sul Quotidiano nazionale, oggi invece la sfiducia è diventata più trasversale. Secondo l'ultimo sondaggio dell'Istituto Noto, per quanto il 43% degli italiani dichiara di avere un giudizio positivo nei confronti della magistratura, va ricordato che 10 anni fa quel giudizio toccava quota 50%. Per il 58% dei cittadini è giusto il sistema dei tre gradi di giudizio, sul quale si fonda il sistema della Giustizia in Italia. Ma per il 63% resta la convinzione che il tempo necessario per arrivare a una sentenza definitiva incida negativamente nella percezione del sistema Giustizia.

·         Che successe quella brutta notte del 2016 nel carcere di Ivrea?

Che successe quella brutta notte del 2016 nel carcere di Ivrea? Interrogazione di Walter Verini (Pd) al ministro Bonafede sui presunti pestaggi. Una delegazione del garante aveva visitato il penitenziario riscontrando anche l’esistenza della cella liscia, chiamata “acquario”, scrive Damiano Aliprandi il 4 Aprile 2019 su Il Dubbio. «Chiediamo al ministro della Giustizia quale esito ha avuto l’indagine amministrativa attivata dal provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e quali iniziative di competenza siano state adottate». Parliamo dell’interrogazione parlamentare presentata venerdì scorso, a firma del deputato del Pd Walter Verini, in merito ai presunti pestaggi che sarebbero avvenuti nel carcere di Ivrea nella notte tra il 25 ed il 26 ottobre 2016. Di quei pestaggi il Dubbio ne diede conto per primo dopo pochi giorni. Nell’interrogazione di Verini viene ricordata la relazione del 15 dicembre 2016 del Garante Nazionale, relativa alla visita effettuata presso la casa circondariale di Ivrea, a seguito delle denunce di alcuni detenuti e del Garante comunale di violenze fisiche e azioni repressive nei loro confronti. Si legge, sempre nell’interrogazione, che la visita del Garante nazionale «finalizzata alla verifica dei fatti verificatisi nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016» era stata «originata dalla segnalazione pervenuta all’Ufficio in ordine ad azioni repressive violente che sarebbero state messe in atto dalla polizia penitenziaria nei confronti di alcuni detenuti in protesta e dai riscontri ricevuti dai primi interventi di monitoraggio richiesti dal Garante Nazionale ai Garanti territoriali ed effettuati il 30 ottobre dal Garante comunale, Armando Michelizza, e il 2 novembre dal Garante Regionale Bruno Mellano». In sostanza, l’onorevole Verini chiede al guardasigilli Bonafede se è a conoscenza dei fatti e quali iniziative sono state intraprese dopo l’indagine amministrativa. Da ricordare che sono due i procedimenti aperti, nonostante riguardano le stesse presunte violenze, dove erano finiti sotto inchiesta alcuni agenti penitenziari e detenuti coinvolti. La Procura ha chiesto l’archiviazione per entrambi, però il legale di Antigone Simona Filippi per il primo e l’avvocato Luisa Rossetti per il secondo, hanno fatto opposizione, smontando pezzo per pezzo l’intero impianto delle richieste di archiviazione. A febbraio scorso c’è stata l’udienza davanti al Gip che ha accolto l’opposizione su una parte del procedimento, mentre sull’altro ancora, sempre sugli stessi fatti denunciati da Antigone e dal Garante nazionale, l’udienza preliminare è stata fissata per il 5 giugno. Ribadiamo che l ‘ evento più clamoroso si sarebbe verificato nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016: infatti, almeno un paio di detenuti avrebbero subito delle violenze, denunciate da un altro compagno di cella con una lettera indirizzata a Infoaut, a seguito delle quali aveva indagato la procura di Ivrea. Questi episodi furono riscontrati dalla delegazione del Garante nazionale delle persone private della libertà, dove venne confermata l’esistenza della cella liscia chiamata ‘ l’acquario’, poi chiusa – grazie alla segnalazione del Garante, Santi Consolo, ex direttore del Dap. La visita, effettuata da Emilia Rossi, componente del collegio del Garante, insieme a Bruno Mellano, Garante regionale del Piemonte, era stata effettuata per verificare l’attendibilità della denuncia. «Senza entrare nel merito degli accertamenti della Procura – spiegò Emilia Rossi riassumendo il rapporto i due aspetti più inquietanti sono: la presenza di due celle di contenimento – una denominata "cella liscia" dallo stesso personale dell’Istituto, l’altra chiamata ‘ acquario’ dai detenuti che oltre ad essere in condizioni strutturali e igieniche molto al disotto dei limiti di accettabilità nel rispetto della dignità dell’essere umano e di integrare una violazione dei più elementari diritti delle persone detenute, costituiscono un elemento che accresce la tensione presente nell’Istituto». Il secondo aspetto segnalato riguarda l’assenza da oltre quattro anni di un comandante della Polizia penitenziaria stabilmente assegnato alla Casa circondariale. Nel rapporto si apprese che la delegazione, nel corso della visita, ha potuto effettuare i controlli nei reparti interessati dalla denuncia: dalla cella di isolamento alla sala d’attesa dell’infermeria, collocata al piano terra lungo lo stesso corridoio al fondo del quale è posta la sezione isolamento, dove secondo la denuncia dei detenuti si rinchiudevano e si punivano le persone irrequiete da contenere. Il Garante aveva annotato che quanto verificato nel corso della visita «ha reso oggettivo riscontro alle denunce e alle segnalazioni, quantomeno in ordine agli elementi di natura materiale e strutturale». Interessante non solo il riscontro della cella liscia, denominata ‘ L’acquario’, ma anche di una seconda cella di isolamento che era situata nel reparto infermeria fornita soltanto di un letto collocato al centro della stanza, ancorato al pavimento, dotato del solo materasso, peraltro strappato e fuori termine di scadenza. Gli assistenti di polizia penitenziaria avevano affermato alla delegazione del Garante che quella cella non veniva utilizzata da qualche anno. In realtà subito sono erano stati smentiti dagli atti delle annotazioni degli eventi critici esaminati dalla delegazione. Nella relazione del vicecomandante Commissario Paolo Capra, in ordine ai fatti accaduti nella notte tra il 25 e il 26 ottobre, veniva riportato testualmente, infatti, che il detenuto A. N. P. A., prelevato dalla stanza numero 8 del quarto piano, «veniva condotto in infermeria e successivamente allocato in una cella priva di arredi al reparto piano terra».

·         Avvocati intercettati.

Avvocati intercettati, giallo ad Asti: «È un errore del pc». Spese per mezzo milione in un foglio della procura, che minimizza. Perduca, capo dei pm dell’ufficio piemontese: «crash del sistema che gestisce gli ascolti». La camera penale: «caso inquietante scoperto per caso, restano ombre», scrive Errico Novi il 28 Marzo 2019 su Il Dubbio. Ventisette pagine di “foglio notizie su spese della Procura”. Le scorri e rigo dopo l’altro ti accorgi che la maggior parte delle voci riporta nomi di studi legali piemontesi, giudici onorari e consulenti di quelle stesse circoscrizioni, ossia Asti, Cuneo e Torino. Come se i pm in questione, quelli di Asti, avessero di recente condotto un’inchiesta sull’avvocatura dell’intero Nordovest del Paese. Una grossa inchiesta: perché arrivi all’ultima delle ventisette ( sic!) pagine e trovi una cifra totalemostre: 559.221 euro. Non è buttata lì a caso: di fianco c’è la firma del funzionario di cancelleria che ha raccolto le informazioni. Il punto è che almeno ufficialmente non c’è mai stata negli ultimi anni alcuna indagine su avvocati, giudici onorari e consulenti condotta dalla Procura di Asti. «È un errore del sistema informatico», è la risposta solo in apparenza tranquillizzante data dal capo dell’ufficio, Alberto Perduca. Il foglio spese in effetti fa parte del fascicolo di un processo per droga con imputati in prevalenza albanesi, da poco terminato con 20 persone condannate. Non una bagatella, ma neppure un procedimento di tali dimensioni da giustificare un esborso per intercettazioni di quasi 600mila euro. Ma l’avvocatura piemontese è tutt’altro che rasserenata. Anche perché il giallo degli studi legali spiati è ormai divampato sulla stampa locale, ha indotto il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa, deputato, a presentare un’interrogazione al guardasigilli Alfonso Bonafede, e lo stesso ministro ha dato segno di non accontentarsi delle letture minimaliste dei pm. «La Procura ha formulato richiesta di archiviazione, l’ipotesi di intercettazioni illecite non avrebbe trovato riscontro», è la risposta di Via Arenula all’intercettazione di Costa. «In ogni caso la questione permane all’attenzione del ministero che vigila sugli sviluppi della richiesta di archiviazione e ha attivato i propri ispettori per gli approfondimenti». Segno che neppure dal punto di vista del governo ci si accontenta dell’ipotesi di un pc capriccioso. L’incredibile vicenda è emersa per puro caso. Non è stata la Procura di Asti a segnalare l’anomalia ( e mezzo milione di spese inspiegabili costituirebbero un’anomalia gigantesca), ma uno dei professionisti spiati loro malgrado. Si tratta di Roberto Caranzano, con studio ad Asti, che difende uno degli imputati al processo per droga. Alcuni mesi fa, prima di intervenire in aula, rivede gli appunti: incrocia quel foglio spese che non aveva mai notato prima e trova anche il proprio nome. Pochi giorni dopo il procuratore Perduca apre l’indagine e sempre pochi giorni dopo conclude appunto per la richiesta di archiviazione perché «si tratta di un non accadimento: il sistema ha semplicemente inserito nomi a caso». Rispetto all’enormità dei costi sostenuti dalla giustizia per questo crash informatico, Perduca aggiunge che la somma effettivamente liquidata al gestore del sistema «è risultata trovare piena corrispondenza nell’importo riportato nel foglio notizie inserito nel fascicolo dal giudice». Il che non basta a chiarire se si tratta di importi giustificabili. I motivi di allarme per gli avvocati sono numerosi. Tanto che a occuparsi della vicenda è anche l’Unione Camere penali italiane, il cui responsabile Comunicazione Giorgio Varano ha pubblicato un’intervista video al presidente dei penalisti del Piemonte della Valle d’Aosta, Alberto De Santis. «La prima domanda, inquietante, è se gli avvocati che secondo quel foglio notizie sarebbero stati intercettati per anni, cioè dal 2012 al 2014, siano stati sottoposti a tale attività per fini diversi dal procedimento a cui si riferirebbe quell’elenco», nota il presidente della Camera penale. «Abbiamo avvisato tutti i colleghi in modo che possano avviare tutte le azioni possibili, ma naturalmente li supportiamo e riteniamo che a occuparsi del caso debba essere la Procura di Milano. Certo è che», nota giustamente De Santis, «se mi venisse in mente di difendere una persona indagata per false fatturazioni con la tesi che è stato il sistema informatico a emettere quelle fatture per sbaglio, si tratterebbe di una difesa suicida». A giudicarla tale sarebbe, eventualmente, proprio un magistrato. Possibile che ora non ci sia un giudice pronto a respingere tale ricostruzione?

·         Il crac Marenco, una colossale bancarotta fraudolenta (battuta solo da Parlamat).

MARENCO CONNECTION. Mario Gerevini per Corriere.it il 4 giugno 2019. Marco Marenco, il vice campione italiano di bancarotta fraudolenta (4 miliardi contro gli inarrivabili 14 di Calisto Tanzi), aveva al suo personale servizio un ex agente dei servizi segreti che faceva da «reclutatore». Cioè ingaggiava le persone ritenute più adatte (un finanziere, tre poliziotti bresciani e un privato, ex consigliere comunale della Lega a Brescia) per garantire la sicurezza personale del capo e della sua compagna, per esempio quando andavano allo splendido «Sylvia Luxury Resort» di St. Tropez, acquistato distraendo denaro dalle società del gruppo, indebitate, tra gli altri, con le banche, con la Snam e con l’erario. Che non hanno più visto quei soldi. Ma il team security, secondo le ipotesi investigative, sarebbe stato attivo anche nel business delle «intimidazioni & pressioni» e negli accessi illeciti al database del ministero dell’Interno. La retribuzione della squadra? Almeno 700mila euro all’anno, si legge nelle carte giudiziarie. I nomi: Giuseppe Campaniello, ex agente dei servizi, Vanni Pagati, Lorenzo Zoin, Giannetto Zotto, i poliziotti, Alessandro Bizzarro, tra l’altro ex consigliere comunale della Lega (2008-2013) e Tommaso Gentile della Gdf di Roma. Tutti indagati per concorso in corruzione per aver compiuto atti contrari ai doveri d’ufficio. Anche Luigi Antonio Cappelli, colonnello della Guardia di Finanza, oggi in pensione, è indagato per favoreggiamento personale: avrebbe interceduto nelle indagini contattando i colleghi titolari e minimizzando i fatti come «accise non pagate» e «cazzate». Questo quadro d’insieme, ovvero il bancarottiere e il gruppetto di pubblici ufficiali che sarebbero stati al suo servizio, è la vera novità che emerge dalle carte dell’inchiesta sul dissesto del gruppo, coordinata dal procuratore di Asti, Alberto Perduca, e dal suo sostituto Luciano Tarditi. Anche se ieri si è saputo che sono complessivamente 51 le persone denunciate dalla Gdf di Torino e Asti, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari riporta 26 nomi di indagati (truffa, appropriazione indebita, bancarotta fraudolenta ecc) a partire proprio da Marenco, 63 anni, che nel 2016 aveva già patteggiato una condanna a 5 anni. L’ex re del gas ed ex patron dei cappelli Borsalino, azienda poi rilevata dall’imprenditore svizzero Philippe Camperio, si muoveva sui mercati internazionali del trading. E dalle indagini emerge un singolare «spaccato» di questi movimenti: la security personale di Marenco lo affiancava nelle sue missioni in Ucraina contrapponendosi allo strettissimo controllo operato da due agenti dei servizi segreti detti «i pelati». Parmalat ha fatto scuola, oltre che sulla «gestione finanziaria» anche sulla gestione delle carte compromettenti. I ragionieri di Collecchio dovettero confessare di aver triturato documenti e inferto martellate ai pc nel tentativo di cancellare le prove. Così Marenco ha dato ordine a un suo assistente di distruggere la documentazione e l’assistente faceva ponte telefonico con un altro dipendente per dare istruzioni precise su cosa distruggere e cosa nascondere. Inoltre le indagini avrebbero rilevato una serie di operazioni di depistaggio e di pressione sulla stampa per tentare di bloccare le notizie sul crac. Compito che Mister Crac assegnò all’ ex agente dei servizi, il reclutatore del security team.

Il crac Marenco, una colossale bancarotta fraudolenta (battuta solo da Parlamat). Pubblicato lunedì, 03 giugno 2019 da Mario Gerevini su Corriere.it. L’inchiesta però è andata avanti e ora si è saputo che ci sono 51 denunciati per i fallimenti a cascata delle società riconducibili a Marenco. Chi siano ancora non è noto ma in buona parte dovrebbe trattarsi di professionisti, manager e amministratori ai quali era delegata la gestione delle aziende e dei flussi finanziari. Ma è emerso che tra gli indagati ci sono anche pubblici ufficiali che garantivano a Marenco e ai suoi familiari servizi di sicurezza e notizie sull’andamento delle indagini (leggi anche: I “furbetti” alla Borsa del gas, 300 milioni di buco da coprire di Stefano Agnoli).In particolare, gli illeciti ipotizzati nei confronti degli indagati sono reati tributari (dichiarazione fiscale infedele, omesso versamento delle imposte, sottrazione al pagamento delle accise), truffa aggravata, appropriazione indebita, false comunicazioni sociali e, soprattutto, bancarotta fraudolenta aggravata. Quest’ultimo reato, secondo gli accertamenti dei finanzieri, è stato commesso «con l’unico scopo di distrarre e occultare somme, partecipazioni e beni aziendali in favore di imprese costituenti un mero schermo dell’imprenditore astigiano, spostando, in tal modo, tutte le attività patrimonialmente significative sotto il diretto e personale controllo di quest’ultimo». Il dissesto, alimentato e nascosto utilizzando decine di società sparse in paradisi fiscali, è nell’ordine dei 4 miliardi, secondo quanto accertato dagli inquirenti che hanno aggiornato in peggio il dato comunicato nel 2015 di 3,5 miliardi, già allora indicato come il peggior crac dopo Parmalat (ma le banche venete erano ancora «vive»). Nel corso dell’inchiesta sono stati anche sequestrati beni per un valore complessivo di 107 milioni di euro. Dal disastro si è faticosamente salvata la Borsalino, oggi rilanciata dall’imprenditore svizzero Philippe Camperio che ne ha assunto il controllo.

Crac Borsalino: gli intrecci tra l’imprenditore, il manager con un passato nei servizi e il colonnello della Finanza. Secondo l'accusa, Mario Marenco e la sua compagna, Silvia Grosso, cercavano di proteggersi dalle inchieste e per farlo si erano affidati a Giuseppe Campaniello, con un “passato militare e nei servizi segreti”: nell'avviso di chiusura indagini il suo ruolo di addetto alla sicurezza a capo di una squadra di 5 uomini. Indagato anche un ufficiale superiore in congedo, Luigi Antonio Cappelli, per favoreggiamento personale. Andrea Giambartolomei il  4 Giugno 2019 su Il Fatto Quotidiano. Servizi segreti, agenti al soldo e ufficiali amici. Così secondo l’accusa Mario Marenco, patron di Borsalino, e la sua compagna, Silvia Grosso, cercavano di proteggersi dalle inchieste. Per farlo l’imprenditore 64enne, indagato per bancarotta fraudolenta e altri reati dalla procura di Asti per il fallimento di dodici società, si era affidato a un manager con “passato militare e nei servizi segreti”. Il suo nome è Giuseppe Campaniello, ha 46 anni ed è nato a Milano. Dall’avviso di conclusione dell’inchiesta “Dedalo” condotta dalla Guardia di Finanza di Torino e Asti, che ieri è stato notificato ai 26 indagati, emerge il suo ruolo e anche quello di un colonnello della Guardia di Finanza ora in congedo, Luigi Antonio Cappelli, che cercava di raccomandare la Grosso ai colleghi di Asti impegnati nell’inchiesta.

L’addetto alla sicurezza. Secondo la procura astigiana, Campaniello depistava e arruolava uomini delle forze dell’ordine per la sicurezza personale di Marenco. L’ex militare, manager di una società, è indagato insieme all’imprenditore e altre persone per la bancarotta fraudolenta di due aziende, Speia e Metanprogetti: tra il gennaio e l’aprile 2014 “in concorso tra loro”, avevano “sottratto e distrutto” i documenti sulle due società, come le mail “più scottanti”. Per il sostituto procuratore Luciano Tarditi avrebbe anche fatto pressioni sui cronisti per evitare che pubblicassero notizie sul crac Marenco. Il manager “con passato militare e nei servizi segreti” è indagato insieme a Marenco e Grosso per appropriazione indebita: secondo l’accusa, l’imprenditore aveva prelevato dai conti della Metanprogetti poco più di 609mila euro da destinare a Campaniello per attività diverse da quelle dell’azienda. Quali? La sicurezza personale di Marenco e famiglia e anche la protezione in “audaci operazioni finanziarie in Italia e all’estero”, in Francia e Ucraina. L’accusa lo ritiene un “reclutatore” degli uomini della security: un ispettore e un assistente della questura di Brescia, un assistente della polizia stradale bresciana, un ispettore della Guardia di finanza di Roma e un privato. I cinque uomini e Campaniello sono indagati di accesso abusivo a un database delle forze di polizia, lo Sdi (“Sistema di indagine”), da loro utilizzato per controllare le persone o i veicoli da cui Marenco e Grossi si sentivano seguiti. Inoltre sono accusati di corruzione perché, nonostante gli incarichi, lavoravano come bodyguard e autisti pronti a usare la forza su chi si metteva contro l’imprenditore astigiano. In alcuni casi si sono “contrapposti” a due agenti dei servizi segreti italiani che “esercitavano una vigilanza ancora più stretta e pregnante su Marenco anche accompagnandolo nelle sue missioni in Ucraina nell’ambito delle operazioni di acquisizioni di fonti energetiche”. E per coordinare la “squadra”, il manager 46enne utilizzava un telefono “nero”, ovvero criptato e impossibile da intercettare. “Campaniello vuole dimostrare la liceità di ogni suo comportamento – dichiara il suo difensore, l’avvocato Daniel Sussman Steinberg – e vuole affrontare il dibattimento per dimostrare l’infondatezza di ogni addebito”.

Il colonnello della Guardia di finanza. C’è anche un ufficiale superiore della Guardia di finanza tra le persone indagate al termine dell’inchiesta condotta dai suoi colleghi del comando provinciale di Asti e di Torino. Si tratta di Luigi Antonio Cappelli, ora in congedo, indagato per favoreggiamento personale. Secondo l’accusa, nell’estate 2014 l’ufficiale aveva contattato l’allora comandante provinciale di Asti, il colonnello Michele Vendola, per chiedere notizie sull’indagine riguardante Grosso, la compagna di vita di Marenco definita da Cappelli “amica nostra”. La donna si era rivolta all’ufficiale superiore che, a sua volta, si raccomandava al collega di “trattarla bene”, di avere “un occhio di riguardo” affinché non fosse “trattata come una pezza da piedi”. L’allora comandante di Asti e gli uomini impegnati nell’inchiesta non si erano fatti sorprendere e, su autorizzazione della procura, avevano registrato la telefonata per la quale Cappelli è finito sotto inchiesta.

Crac Marenco-Borsalino: il conto sale a quattro miliardi. Chiusa l’indagine sul gruppo del gas: 51 denunce e 26 indagati, c’è anche un ex colonnello della Finanza. Gianluca Paolucci il 04/06/2019 su "La Stampa". La storia del più grande crac che non avete mai sentito nominare prende avvio in un ufficio anonimo alla periferia di Alessandria. E porta fino a un buco da 4 miliardi di euro, la più grande bancarotta italiana dopo Parmalat. Ventisei indagati, 51 persone denunciate, uno schema di oltre 190 società in giro per il mondo utilizzato per tenere in piedi un castello di carta dove far sparire i soldi. Poi ci sono 107 milioni di euro di sequestri: una villa a Campione d’Italia, un resort in Costa Azzurra, hotel in Grecia, quote societarie. Un marchio glorioso e noto in tutto il mondo, Borsalino, finito in ginocchio. È anche una storia di funzionari dello Stato infedeli che hanno coperto prima gli affari e poi la latitanza dell’uomo dietro tutto questo e di funzionari fedeli che il buco hanno scoperto e svelato. L’uomo si chiama Marco Marenco e fino al 2012 si occupava prevalentemente di trading e distribuzione di gas. Nell’ufficio anonimo alla periferia di Alessandria c’è la sede locale dell’Agenzia delle dogane ed è lì che si accorgono per primi che una serie di società non in regola con le accise anche per molti milioni di euro portano tutte allo stesso indirizzo, un capannone industriale ad Asti. E allo stesso uomo, Marenco appunto. Da lì parte una storia che meriterebbe un film. Succede ad esempio che nel luglio del 2014 Marenco sparisce dalla sera alla mattina. La mattina che la procura di Asti aveva ottenuto dal gip l’arresto dell’imprenditore, guarda caso. Nell’avviso di fine indagini recapitato ieri a 26 persone viene svelata almeno in parte la rete di protezioni. E ricostruito il coinvolgimento dall’ex militare e agente dei servizi segreti Giuseppe Campaniello, tre agenti della polizia di Brescia, un ispettore della Guardia di finanza di Roma che si sarebbero occupati della «sicurezza» di Marenco e dei suoi familiari. A questi sarebbero andati circa 700 mila euro di compensi usciti dalle casse delle varie società di Marenco. Si occupavano anche di faccenduole piuttosto spicce, come minacciare un socio fastidioso e i dipendenti dell’impresa incarica di ristrutturare il resort in Francia, secondo Marenco troppo lenta nell’esecuzione dei lavori. Tra gli indagati c’è anche un ex colonnello della Guardia di Finanza, Luigi Antonio Cappelli, per il quale la procura di Asti ipotizza il favoreggiamento personale. Nel giugno del 2014 Cappelli chiama il comandante provinciale della Gdf di Asti, colonnello Michele Vendola, per avere informazioni sull’indagine. Solo che Vendola aveva già informato il magistrato e loro conversazione è stata registrata. Maniacale ai limiti della paranoia, in mesi d’intercettazioni la sua voce non si sente quasi mai. Si sente però due suoi collaboratori che, commentando la denuncia di Snam per il buco lasciato dalle società di Marenco nel sistema di stoccaggio del gas, commentano: «Tanto paga la signora Maria». Cioè noi, per chiarire il concetto. Quando capisce che il castello di carte che ha messo in piedi sta crollando, si fa dotare dalla sua security personale di telefoni criptati. Un investigatore che si è occupato del caso racconta come fosse in grado di passare da un hotel a cinque stelle al dormire in un divano buttato in un capannone. Dopo la fuga rocambolesca da Asti continua a seguire i suoi affari. In Svizzera, Germania, Lussemburgo, Ucraina. Forse si reca anche in Africa per almeno due volte, con un volo privato, ma quando vanno a cercarlo lui non c’è mai. Alla fine viene rintracciato un account Skype che utilizzava per comunicare con alcuni collaboratori, geolocalizzato e incrociato i dati con le telecamere di sorveglianza di Lugano. E finalmente preso dalle autorità svizzere ed estradato in Italia. Nel frattempo è fallita anche Borsalino, oltre ad altre 12 società solo in Italia. Nel 2018 ha patteggiato una condanna a cinque anni e richiesto l’affidamento in prova ai servizi sociali. Nel periodo passato in carcere, la sua unica preoccupazione è stata il fatto di non avere accesso ai canali satellitari per seguire l’informazione finanziaria internazionale. L’indagine su Marenco non ha nulla a che fare con la Borsalino di oggi che fa capo all’imprenditore italo-svizzero Philippe Camperio che l’ha rilevata e rilanciata a seguito di un’asta indetta dal Tribunale di Alessandria a luglio 2018. Borsalino sarà infatti presente tra qualche settimana a Pitti Uomo a Firenze per presentare la nuova collezione Primavera Estate 2020.

Crac Marenco, nei guai anche tre poliziotti bresciani. Giornale di Brescia il 4 giugno 2019. Parte da Asti e passa anche a Brescia il più grande crac finanziario dopo quello della Parmalat di Callisto Tanzi. Ammonta a quattro miliardi di euro il buco creato da Marco Marenco, ex re del gas, ex patron del marchio Borsalino, finito al centro di una vasta indagine della Guardia di finanza e della procura di Asti. Nel registro degli indagati ci sono i nomi bresciani di quella che viene considerata la squadra che si occupava della sicurity dell’imprenditore piemontese. Nei guai sono finiti V.P, 52enne ispettore di Polizia della Questura di Brescia, L.Z, 43enne assistente nella stessi uffici di via Botticelli, G.Z, 45enne assistente della Polizia stradale di Brescia e infine A.B. 48enne di Orzinuovi. Per loro l’accusa è di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio e accesso abusivo nel sistema informatico del Ministero degli Interni. 

·         A Biella una via per Aiazzone.

A Biella una via per Aiazzone, icona pop degli anni ’80. Pubblicato martedì, 19 marzo 2019 da Corriere.it. Il consiglio comunale di Biella, nella sua ultima seduta prima delle elezioni ha approvato una mozione con la quale chiede di intitolare una via della città a Giorgio Aiazzone, l’imprenditore «re del mobile» protagonista di uno straordinario successo imprenditoriale e mediatico negli anni ‘80. Un successo che declinò altrettanto rapidamente dopo la morte di Aiazzone in un incidente aereo nel 1986 . Con i suoi spot martellanti sulle tv private, gli slogan caserecci, i «jingle» orecchiabili il mobilificio biellese divenne tout court uno dei simboli «pop» dell’ottimismo del decennio e il successo dell’imprenditore fu al lungo accostato a quello di un altro rampante di quel periodo, Silvio Berlusconi. La mozione per intitolare una via di Biella ad Aiazzone è stata presentata da due consiglieri del Pd ma ha riscosso consensi trasversali, ad esempio dai rappresentanti di Fratelli d’Italia mentre i rappresentanti di Forza Italia hanno lasciato l’aula al momento del voto. Parlando del «de cuius» la consigliera Livia Caldesi l’ha ricordato con queste parole: «Aveva un modo di comunicare innovativo, se vogliamo anche poco elegante, che lo aveva portato ad essere un po’ escluso dalla Biella conservatrice di allora. Ma trovo che sia doveroso dedicargli una via. Ancora oggi c’è chi identifica Biella come la città di Aiazzone». Un «parvenu»: ecco l’etichetta che il «re del mobile non si strappò mai veramente di dosso; nato nel 1947 , ereditò la piccola fabbrica del padre espandendola fino a farla diventare la più famosa d’Italia nella fascia medio-bassa del mercato. Due le chiavi del successo: la prima fu l’intuizione della potenza degli spot sulle tv private. Chi c’era negli anni ’80 non può non ricordare «la consegna in tutta Italia, isole comprese», «l’invito a pranzo degli architetti», il «provare per credere» pronunciato ossessivamente da Guido Angeli, televenditore divenuto «guru» del marchio. Aiazzone divenne proprietario di un network di piccoli canali privati dalle quali bombardava l’etere con le incessanti televendite. L’altro asso nella manica fu quello che in anni successivi sarebbe stato definito «customer care»: l’idea di far sentire la clientela seguita da vicino, dilatando gli orari di apertura, offrendo sconti e regali a pioggia. Giorgio Aiazzone morì pagando a caro prezzo una sua passione, quella del volo: precipitò con un piccolo aereo privato il 6 luglio del 1986 a Sartirana Lomellina, nel Pavese. Curiosamente - e fatte le dovute proporzioni - non lontano da dove nel 1962 aveva perso la vita in circostanze analoghe un altro imprenditore simbolo di un’epoca italiana, Enrico Mattei. Per commemorare l’amico morto, Guido Angeli fece un’orazione funebre televisiva di 80 minuti parlando a una sedia vuota. Un pezzo di televisione che fece epoca. Da lì in avanti la discesa dell’impero del «re del mobile», che arrivò a fatturare in un anno 60 miliardi di lire, fu repentina. Il gruppo venne ceduto dalla famiglia ad altri imprenditori che finirono anche arrestati per evasione fiscale: le varie sedi sparse per l’Italia caddero in rovina, uno dei magazzini, vicino a Bergamo, fu assalito e depredato dalla clientela, lo stabilimento di Biella giace abbandonato e si rianima solo in occasione di rave party clandestini. Ma d’altronde, quanti oggi si ricordano della «meteora» Aiazzone? E quanti sono disposti a valorizzarne la storia al di là degli aspetti più «kitsch»? A suo modo prova a metterci una toppa la mozione della città di Biella.

·         La PM Youtuber.

Dieta di primavera, la PM su Youtube prescrive cibi e palestra, scrive Maria Tafuri su blitzquotidiano.it il 27 febbraio 2019.  “Pm torinese diventa youtuber e propone il suo metodo dimagrante. La magistrata spiega davanti ai fornelli di casa la sua dieta i suoi esercizi di fitness”. Così Repubblica annuncia un divertente e interessante articolo di due sue giornaliste della redazione di Torino, Ottavia Giustetti e Sarah Martinenghi. La dieta della Pm non è deprimente ma anzi appetitosa. Mele cotte a colazione, crepes di solo albume e muffin alle carote. Lei è Monica Supertino, pm di un certo rilievo nella Procura della Repubblica, con inchieste di un certo rilievo al suo attivo, la più nota quella sul caso dell’ospedale S.Anna di Torino. Ora ha aperto un suo canale Youtube dove dà consigli per avere un fisico scultoreo e “pietroso” come il suo. Con l’arrivo della bella stagione, scrivono Giustetti e Martinengo, in Procura a Torino impazza un nuovo metodo tra dieta e fitness firmato dalla pm Monica Supertino che sabato ha aperto un suo canale Youtube per dettare consigli per avere un fisico scultoreo e “pietroso” come il suo. e si propone in video in versione influencer sui temi della salute e del benessere anche a tavola. Ai fornelli direttamente dalla sua cucina di casa, vestita però in un fasciante e cortissimo tubino da sera, la magistrata spiega i suoi segreti per rimanere in forma. E li battezza “il metodo Supertino”: “un percorso di benessere che vi porterà nel giro di poco tempo a mangiare con menù che appagheranno tutti i vostri sensi per raggiungere naturalmente un fisico non solo magro ma statuario, pietroso”. Una cucina “sensoriale”, senza faticose limitazioni, per mangiare a volontà cose golose senza rinunciare alla linea e dando il massimo anche in palestra. Un vero stile di vita che mostra una passione anche per il video, finora sconosciuta ad avvocati e colleghi che sono rimasti così stupiti da rendere i primi video già “virali”, se non ancora sul web, quanto meno a Palazzo di Giustizia.

Dalle aule di giustizia ai video Youtube, la pm-influencer insegna a dimagrire. Da pubblico ministero a youtuber, la mutazione di Monica Supertino che consiglia il metodo per dimagrire e presentarsi all'estate in forma, scrive Martedì, 26 febbraio 2019, Affari Italiani. Da pubblico ministero a youtuber è un attimo, ce lo dimostra Monica Supertino, magistrato di Torino che dalle aule di giustizia è passata ai filmati guida su Youtube in cui spiega e consiglia i suoi personali metodi per dimagrire, tenersi in forma e prepararsi nel migliore dei modi alla prova costume che ormai è dietro l’angolo. E’ il metodo Supertino, così l’ha definito la pm con una vera e propria fisima per il fitness, lanciando lo slogan: “Segui il metodo Supertino e arriverai all’estate in forma smagliante”. Con tanto di neologismo coniato per l’occasione o forse da lei sempre usato: “Pietroso” in riferimento allo stato fisico a cui si arriva dopo aver seguito attentamente la sua dieta. Non solo donna di giustizia quindi ma anche nutrizionista perché la pm, dalla cucina di casa, si esibisce nella preparazione di ricette light affiancandole a corrette abitudini di vita. A dimostrazione dell’affidabilità del suo metodo uno splendido fisico esaltato da un aderente abito da sera. I consigli vanno dalla colazione che deve prevedere mele cotte, crepes di solo albume e crusca, alla cena con “muffin di melanzane” con crema di barbabietole su un letto di purè di piselli. Al momento, il magistrato di professione che nel tempo libero si trasforma in influencer, ha messo a disposizione dei suoi seguaci i primi due video, che al momento sono bastati per portarla alla ribalta e che da qualche ora risultano rimossi. Ma non è la prima volta che si parla di Monica Supertino: anni fa venne fotografata a sua insaputa in un negozio di via Montenapoleone, a Milano, mentre indossava un vistoso paio di stivali stile “pretty woman” sotto la supervisione di un noto magistrato torinese, nonché suo capo.

La pm youtuber lancia la dieta/ Video, la pena di una giustizia dimagrante. Il “metodo Supertino”: la dieta della pm youtuber e il video cancellato. La “pena” di una “giustizia dimagrante”, scrive il 26.02.2019 Niccolò Magnani su Ilsussidiario. Fa un certo effetto vedere una pm, autorevole come Monica Supertino, abbandonare per un attimo sentenze, inchieste, istanze e condanne per indossare i “panni” di una novella youtuber che dà consigli su come dimagrire e come rimettersi in forma con metodi non esattamente “inclini” alla normale dieta mediterranea. Che così la pm di Torino Monica Supertino sia divenuta più simile al farmacista-istrionico-macchietta Alberigo Lemme (che spopola nella trash tv di Barbara D’Urso) noi non pensiamo sia proprio un complimento eppure pare non averci pensato granché ben prima di sbarcare in rete lo scorso weekend con un proprio canale YouTube per lanciare il suo “Metodo Supertino” che così tanto ricorda l’arcinoto “Metodo Lemme”. «Un percorso di benessere che vi porterà nel giro di poco tempo a mangiare con menù che appagheranno tutti i vostri sensi per raggiungere naturalmente un fisico non solo magro ma statuario, pietroso»: bella donna, ottimo fisico, la Supertino invita il suo pubblico (in poche ore il video spopolava con già migliaia di visualizzazioni, il che ci fa capire perché Lemme e la D’Urso fanno quei picchi di share) a fare come lei prendendo di petto il problema dell’ingrassamento e della cattiva forma. Una cucina “sensoriale”, senza limitazioni faticose, in modo che gli “adepti” possano mangiare a volontà pietanze golose senza rinunciare alla linea e dando il massimo anche in palestra: qualche esempio lo dà lei stessa nel video su YouTube, «mele cotte a colazione, crepes di solo albume e muffin alle carote». La pm youtuber come subito è stata “ribattezzata” dal web ha cercato di sfondare nel campo dell’influncer dopo anni passati dietro la sbarra, al banco dei processi con le proprie rogatorie e requisitorie in difesa o attacco dell’imputato di turno. Lo ribadisce ancora nel video di fare come lei, in bel tubino e grandi occhiali affascinanti: «percorso di benessere finalizzato a nutrirvi sempre di cibi ad alto contenuto sensoriale e al contempo avere un fisico non solo magro ma statuario, pietroso, scolpito». Poi qualche “sentenza” sparata qua e là, dove la Supertino si fa di fatto più giudice che pm – «I grassi non fanno colazione» – e la generale impressione di un persona fuori contesto e fuori posto dalla sua consueta e importante professione. Lei stessa forse deve essersene accorta visto che stamattina, dopo che i video sono divenuti virali, quelle stesse immagini sono sparite dal canale YouTube che al momento risulta “dimagrito” all’improvviso, anzi praticamente “svuotato”. Forse quando si vuole fare la “star-influencer” sul cibo, meglio lasciare certe pratiche ai veri protagonisti del mondo trashin stile Lemme e tornare a fare quello che più riesce meglio: il pubblico ministero. Lì almeno la “pena” la si attende dal giudice e non si rischia di generarla negli utenti su YouTube.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Genova nelle canzoni.

Quante sono le canzoni dedicate a Genova? Noi ne abbiamo selezionate 10: qual è la vostra preferita? Dai pezzi che hanno fatto storia alle ultime hit. Scegliete la canzone che rappresenta di più la città. La Repubblica il 26 agosto 2019. Chi è lontano, ma non solo lui, non potrà trattenere una lacrima riascoltando "Ma se ghe pensu", e un po' a tutti, senza stare troppo a filosofeggiare, scapperà un sorriso con il ritornello di "Trilli Trilli". Parole e note che sono un pezzo della vita, talvolta entusiasmante, spesso faticosa, troppe volte tragica, della nostra città. Ma quale canzone rappresenta meglio la nostra indole, o rappresenta con più efficacia Genova. Sceglier non sarà facile, dall'affresco in lontananza di Paolo Conte, a quello impregnato di profumi di Fabrizio De Andrè. E che dire poi delle notti genovesi raccontate dal figlio Cristiano o la poesia di Ivano Fossati? O dell'erede della grande scuola dei cantautori, Max Manfredi. E poi c'è l'ironia di Francesco Baccini (accompagnato per l'occasione da Faber), l'inarrivabile Gatta che divideva con Gino Paoli la soffitta di Boccadasse. Fino al tributo intorno a cui Paolo Kessisoglu ha riunito alcuni dei più famosi artisti italiani, per dare il suo contributo alla gara di solidarità post crollo del ponte Morandi. Scegliete con un clic e avrete la classifica in tempo reale. Quante sono le canzoni dedicate a Genova? Noi ne abbiamo selezionate 10: qual è la vostra preferita?

Mario Cappello - Ma se ghe pensu

Paolo Conte - Genova per noi

Francesco Baccini - Genova Blues

Gino Paoli - La gatta

Max Manfredi - La Fiera della Maddalena

Fabrizio De André - Creuza de ma

Ivano Fossati - Chi guarda Genova

I Trilli - Trilli trilli

Cristiano de André - Notti di Genova

Paolo Kessisoglu - C'è da fare

La Genova di  De André: viaggio tra canzoni e carruggi. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 su Corriere.it da Silvia Morosi. Nel 2019 ricorrono i vent'anni dalla morte di Faber, ma la sua memoria è ancora viva. Nei suoi brani, il cantante dipinge la città con grazia e disincanto, regalandoci un itinerario tra i luoghi che ha amato. Genova è una città che ispira poesia e fa riflettere. Talvolta malinconica e schiva, altre volte vivace. La città della Lanterna, crocevia di commerci e culture sin dall'antichità, è stata cantata da Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Gino Paoli, Umberto Bindi, Fabrizio De André e tanti altri. Proprio alla Genova di Faber è dedicato La Genova di De André di Giuliano Malatesta, il libro inserito nella collana «Passaggi di dogana» (Giulio Perrone editore) che racconta le città attraverso gli artisti e le loro opere. «Volevamo celebrare il ventennale dalla scomparsa di uno dei più straordinari cantautori italiani - guai a definirlo un poeta, avrebbe immediatamente citato la frase di Benedetto Croce: "Dai diciotto anni in poi rimangono a scrivere poesie due categorie di persone: i poeti e i cretini" - cercando di evitare l’immagine un po’ caricaturale del De André benestante che racconta gli ultimi», spiega Malatesta al Corriere della Sera. Per questo motivo «abbiamo scelto di raccontare i suoi anni genovesi attraverso storie, ritratti di personaggi e racconti di amicizie, quella fugace con Tenco o quella impossibile con Riccardo Mannerini, che da un lato evidenziassero la sua formazione genovese e dall’altro facessero anche emergere un piccolo ma significativo spaccato di vita cittadina del tempo», continua l'autore nell'intervista. Con la sua canzone De André ha saputo rendere Genova unica, una città dove ritornare «sempre volentieri, perché Genova è mia moglie», come amava dire lui. L'idea — aggiunge Malatesta — non era di scrivere una semplice guida della città, ma di «raccontare la Genova vissuta da Faber a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Una città affascinante ma al tempo stesso difficile, dove era più facile fare lo spedizioniere che non il cantautore». Una città sempre in «eterna lotta con gli spazi, culturalmente luterana ma anche forzatamente cosmopolita». Un luogo, direbbe Renzo Piano, dove alla fine «tutte le storie finiscono in mare». Una delle abilità di De André — infatti — è stata proprio quella di essere riuscito a «trasfigurare in musica tutte queste diverse sfumature, spesso anche contraddittorie, ma che sono parte integrante della città. Naturalmente, alla sua maniera, con quella stupefacente propensione a tenere insieme un unico grande affresco quarti di nobiltà e vita di strada. Chi altri poteva raccontare, in Dolcenera, la terribile alluvione che ha sommerso Genova nel ’70 attraverso la solitudine di un matto innamorato, per di più non corrisposto?», chiarisce l'autore. Ma cosa ha fatto di Genova una città laboratorio culturale, nel teatro, nel mondo delle arti e in quello musicale, patria amata di così tante figure chiave della cultura italiana? «Non so se per via della sua posizione geografica, ma certamente in quegli anni a Genova si respirava un’ansia di libertà e di emancipazione, una sorta di inquietudine da Generazione Perduta». Anche se è tecnicamente improprio parlare di una vera e propria scuola, «in campo musicale è incontrovertibile che la canzone italiana abbia trovato a Genova le condizioni ideali per dar vita a una rivoluzione dalla quale sarebbe stato impossibile tornare indietro. Ma novità dirompenti ci furono anche nel teatro, grazie alla breve stagione della Borsa d’Arlecchino, capitanata da Aldo Trionfo, carismatico e vivace animatore intellettuale che per un triennio provò a rimescolare i codici della cultura teatrale, e nel mondo delle arti, con l’avventura della Galleria Deposito, piccola cooperativa artistica fondata nell’antico borgo marinaro di Boccadasse da un gruppo composito di nove amici che sognarono di moltiplicare l’arte in modo da renderla meno elitaria e più accessibile a un vasto pubblico». Fu una piacevole illusione, come spiegò in seguito Umberto Eco, «ma quelli erano anni in cui era lecito almeno sognare», ricorda Malatesta. Tra i luoghi più cari della città della Lanterna, De André aveva il quartiere della Foce, «l’unica zona del centro con accesso diretto al mare, dove una volta c’era la spiaggia e un borgo di pescatori, si guardavano partire i piroscafi con un pizzico di malinconia e, come diceva Bruno Lauzi, "si sognava di andare a Broadway, a sostituire Gershwin, che era appena morto”». E ancora, tutta la zona della "Città vecchia", «da dove è partita e si è alimentata gran parte della poetica deandreiana, e infine la "casa rossa" di Ponte Morosini, accanto al Porto Antico ridisegnato da Renzo Piano, dove De André aveva acquistato un appartamento in costruzione. «Aveva deciso di far ritorno a casa, un po’ come quei marinai ad un certo momento sentono il bisogno di lasciare andare gli ormeggi e rimettere i piedi a terra. Purtroppo allora non era ancora a conoscenza della malattia», aggiunge Malatesta. Quali le contraddizioni della città che più amava/odiava? «Direi sempre la stessa che si imputa a Genova da decenni. Da un lato una città bellissima, forse la città italiana più sottovalutata, con una posizione geografica invidiabile, grandi tradizioni, una storia importante ed enormi potenzialità, tutti aspetti che però nel tempo si sono scontrati con un atteggiamento culturalmente rinunciatario di una popolazione che ha spesso preferito addormentarsi "sulle memorie del suo settecento glorioso", per utilizzare le parole di Gillo Dorfles», conclude l'autore. La storia di Faber riecheggia tra i portici di Sottoripa, dove negli anni Cinquanta De André frequentava insieme all’amico Paolo Villaggio il locale Ragno Verde, citato nel romanzo “Un destino ridicolo”. Durante i primi anni di gavetta Fabrizio si esibiva in un altro locale mitico, La Borsa di Arlecchino, che si trovava in via XX Settembre; sugli stessi marciapiedi batteva Anna la Gorilla, con la quale si dice che per un periodo De André abbia persino convissuto. «Nessun classico giro con guida turistica. Niente app alla mano. Per rivivere l’anima della città di De André, la Genova “autentica” dei genovesi come lui, mi sono lasciata rapire dai luoghi, profumi e sapori che hanno come traccia le note delle sue canzoni». Quali lo raccontano meglio? La Genova cosiddetta "autentica" non credo esista più. E forse è normale che sia cosi. Ma, senza stilare classifiche, in quasi ogni angolo di strada si possono ritrovare tracce di Faber. Cammini nel ghetto ed è difficile non pensare a Princesa, passi davanti al civico numero 5 di Via del campo e ti ritrovi a canticchiare Vecchio professore cosa vai cercando in quel portone, forse quella che sola ti può dare una lezione, ti sposti in direzione della Foce e ti viene un accenno di malinconia ripensando a Le acciughe fanno il pallone, infine arrivi a Nervi e ti trovi davanti l’insegna della ex stazione ferroviaria di S. Ilario. Mi fermo qui, ma il tour potrebbe proseguire per giorni. Non solo luoghi. Quali sono le persone che a Genova meglio raccontano De André? «Mi piace pensare di poter ritrovare qualcosa di De Andrè e di quegli anni genovesi attraverso le storie di altri personaggi, a lui direttamente legati o che comunque hanno raccontato in modi differenti la stessa porzione città. E quindi le bellissime fotografie di Lisetta Carmi, il gruppo della (non) scuola genovese, i racconti di Vittorio De Scalzi, le osterie e i bordelli di Remo Borzini», conclude Malatesta, sottolineando come per non perdere il ricordo di De André e renderlo immortale, nella visita non devono mancare «il museo a cielo aperto del Cimitero di Staglieno, dove Faber riposa non lontano dalla sua amica Fernanda Pivano. La Basilica di Carignano, dove un gelido 13 gennaio di venti anni fa un’intera città si fermò, con genovese sobrietà, per rendere omaggio al Maestro, e il cosiddetto Albergo dei Poveri, uno splendido edificio fatto costruire a metà del Seicento dall’aristocratico Emanuele Brignole, simbolica metafora che attraversa la storia dell’intera città».

·         Demolito il Ponte Morandi: l’esplosione alle 9,37 di venerdì 28 giugno 2019.

“Per noi che eravamo sul Morandi saranno sempre le 11.36”. Il docufilm sul crollo visto da Gianluca Ardini, uno dei protagonisti: rimase appeso nel vuoto per quattro ore. Matteo Macor il 14 settembre 2019 su La Repubblica. "C'è tutto il brutto e tutto il bello possibile", nel racconto che fa della tragedia di ponte Morandi "Genova ore 11,36", il nuovo docufilm dedicato al crollo che un anno e un mese fa sconvolse il mondo. Gianluca Ardini, il ventinovenne genovese che sotto il diluvio del 14 agosto 2018 rimase appeso nel vuoto per quattro ore, aggrappato alle lamiere del suo furgone sopra un inferno in terra fatto di morti e macerie, lo fa notare mentre si rivede per la prima volta nelle immagini inedite del film. "C'è l'orrore ma ci sono anche vite che proseguono", sospira. È per questo che ha accettato "di raccontarmi da protagonista, nonostante il trauma", per questo - anticipa - sarà in prima fila questa sera nel teatro genovese in cui il documentario (in prima visione su Rai3 alle 21,20 di domani) sarà proiettato in anteprima. "Ogni pensiero a quel giorno è come una cicatrice che si riapre, ma chi è rimasto in qualche modo deve andare avanti - dice, lo sguardo fisso sullo schermo - e sento il bisogno di farmi in qualche modo testimone, della sete di giustizia come della voglia di ripartire. Mio figlio Pietro ha appena compiuto un anno, mi ha salvato la vita nel crollo quando neanche era nato e continua a farlo ogni giorno". Prodotto da 42° Parallelo insieme a RaiCinema, il nuovo lavoro dedicato al Morandi ("non fiction film", lo definiscono gli autori Giorgio Nerone, Fabrizia Midulla e Fabio Emilio Torsello) è del resto la ricostruzione del disastro più assurdo attraverso l'intreccio di vite, storie, uomini e donne comuni. Un inno alla vita nel nome delle vittime, una moderna Spoon River del Polcevera fatta di interviste e filmini di famiglia, le immagini lontane di chi non c'è più e le testimonianze sofferte "di chi è rimasto in vita per puro caso, e si sente in colpa senza sapere se e chi ringraziare". Così ammette Ardini davanti alle immagini di ricordi felici di Luigi Matti Altadonna, il collega ucciso dal crollo che al momento in cui ha ceduto l'asfalto era in auto con lui, "al posto del guidatore, dove avrei dovuto essere io". Un anno dopo, mentre procede la costruzione del nuovo viadotto, il crollo per Ardini è insieme passato e presente. Il rumore della pioggia, che in "Genova ore 11,36" pare senza fine, "mi perseguita, anche se mi ha tenuto vigile durante le 4 ore più lunghe della mia vita - spiega - così come mi terrorizza veder passare un furgone o sentire una sirena". Del suo 14 agosto, del resto, "mi ricordo tutto: l'asfalto che inizia a creparsi, la strada che si deforma, il vuoto che ci inghiotte. Poi il dolore per la cintura che mi lacera il braccio, l'acqua in faccia, gli occhi del primo soccorritore". Ora però c'è il futuro: un lavoro da ritrovare e "tutta la mia vita". Se al film ha accettato di contribuire "anche per rispetto delle 43 vittime di questa vergogna, perché io ho potuto scegliere di farlo e loro no", nella sua seconda vita si è riscoperto "più sensibile, capace di apprezzare le piccole cose del quotidiano, quello che era normalità e ora è pura meraviglia". Nel film cui non avrebbe "mai voluto partecipare" c'è anche la prima cullata a suo figlio, "pochi giorni dopo il parto a cui non ho potuto assistere, motivo in più per odiare quel maledetto ponte". "Pietro è un bambino come gli altri, però è il mio", si ascolta dire in video, e riscopre un sorriso inaspettato. "Quando è stato girato il documentario era piccolo, ora è inarrestabile e faticoso quanto montare una cucina, il lavoro che facevo prima. Ma è ancora la mia migliore medicina".

Tommaso Fregatti Marco Grasso per “la Stampa” il 20 ottobre 2019.  Le accuse messe per la prima volta nero su bianco dalla Procura sono pesantissime. Ed evidenziano come agli occhi dei pm Autostrade per l'Italia abbia violato il patto con lo Stato. «Da Aspi - scrivono - assistiamo a una strategia complessiva volta alla realizzazione di comportamenti di sistematica falsificazione finalizzata al mascheramento di gravissime inadempienze agli obblighi di legge e della convenzione tra Autostrade e lo Stato». Il passaggio, tecnicamente, è contenuto nella richiesta di misure cautelari, variamente eseguite nelle scorse settimane, per 9 tra dirigenti e ingegneri della stessa Aspi e della controllata Spea Engineering, accusati di aver compilato falsi report sulla sicurezza di alcuni viadotti. L'atto d'accusa, scritto dal pm Walter Cotugno e depositato negli ultimi giorni al tribunale del Riesame, dipinge un inquietante quadro «sistemico», come mai si era visto in precedenza. «Dalle carte dell' inchiesta - precisa il magistrato - emergono reiterati e organizzati comportamenti di falsificazione di numerosi atti pubblici, tutti caratterizzati dalla finalità di occultare il reale stato di ammaloramento di svariate opere della rete autostradale». La sistematicità Soprattutto, i pm rimarcano come certi comportamenti, molto diffusi, siano stati sia «antecedenti» che «successivi» al crollo del Ponte Morandi. «Vengono tuttora falsificati (il documento risale alla seconda parte dell' estate, ndr)- aggiunge Cotugno - con pari sistematicità gli atti pubblici relativi agli accertamenti e alle verifiche circa la sicurezza della circolazione su una serie di ulteriori opere d' arte della rete autostradale». Sempre a parere di chi indaga, la morte di 43 persone e il crollo del viadotto non hanno rappresentato uno spartiacque e dietro le relazioni truccate c' è una regia precisa. «Tale sistematica falsificazione - evidenziano gli inquirenti - lungi dall' essere espressione di comportamenti isolati di un singolo indagato, risulta invece legata ad un preciso modus operandi. Emerge, infatti, il coinvolgimento diffuso di svariate articolazioni della società Spea e di Autostrade per l' Italia, con i loro rispettivi responsabili al più alto livello».

Qual era l' obiettivo, secondo gli investigatori?

«Risulta dalle indagini - si sottolinea nel dossier - che il concessionario e per esso alcuni indagati ai massimi livelli di responsabilità, richiedano costantemente a Spea e a volte per il tramite dell' amministratore delegato Antonino Galatà (sottoposto mercoledì mattina a una lunga perquisizione della Finanza sia nella sua abitazione sia nel suo ufficio, ndr) la falsificazione di atti e documenti. Al fine di mantenere occulto, anche nei confronti delle specifiche attività d' ispezione ministeriale, il grave stato di ammaloramento delle rete autostradale». La "contro indagine" Nel documento si evidenzia infine come lo spirito generale non sia stato collaborativo verso i magistrati. «Gli indagati interni a Spea - conclude il pm - non solo si coordinano tra di loro nell' esecuzione dell' attività criminosa, ma si sono organizzati per sviare ed eludere le indagini, che sanno essere in corso, ostacolando sia l' acquisizione delle prove sia la genuinità delle stesse. Anche tale attività di inquinamento probatorio viene svolta ai massimi livelli dirigenziali. Risulta infatti che il direttore responsabile dell' ufficio legale di Spea abbia posto in essere con l' aiuto di numerosi collaboratori indagati una sistematica attività di "contro indagine" e d' inquinamento probatorio, anche mediante comportamenti penalmente rilevanti. Tra questi la preparazione degli interrogatori dei testimoni e il posizionamento di jammer per disturbare le intercettazioni. Le indagini hanno inoltre consentito di accertare che i testimoni vengono convocati per essere preparati alle indagini e sono poi ri-convocati per riferire in ordine alle dichiarazioni rese».

Aspi precisa che ha avviato da tempo monitoraggi sui viadotti attraverso società esterne specializzate, che verificano a loro volta i monitoraggi eseguiti da Spea. Entro la fine dell' anno tutte le 1943 opere della rete autostradale saranno state verificate anche da queste società esterne.

Giuseppe Filetto e Marco Lignana per “la Repubblica” il 20 novembre 2019. Lo hanno scovato all' interno del registro digitale di Atlantia: un documento che per la prima volta svela il «rischio crollo» per il Ponte Morandi. Anche se finora i dirigenti di Autostrade per l' Italia davanti ai magistrati e ai media hanno dichiarato che per il viadotto genovese sul torrente Polcevera nessun report di Spea (società delegata al monitoraggio della rete autostradale) aveva mai messo in allarme, scritto nero su bianco del pericolo di crollo. E però adesso, dopo 14 mesi dal disastro che fece 43 morti, si scopre che quell' attestato c' era. Lo hanno sequestrato lo scorso marzo i finanzieri del Nucleo operativo metropolitano (guidati dal tenente colonnello Giampaolo Lo Turco) e del Primo gruppo di Genova (diretto dal colonnello Ivan Bixio) nella sede di Atlantia, a Roma. E anche in quella di Autostrade per l' Italia. Quel "documento di programmazione del rischio", stilato dall' apposito Ufficio Rischio di Aspi, è passato dai vari consigli di amministrazione, sia di Autostrade che di Atlantia, la capogruppo che in Italia e in Europa controlla 14 mila chilometri di autostrade. Dal 2014 al 2016 del "Morandi" si parla di «rischio crollo»; dal 2017, a sorpresa, la dicitura è trasformata in «rischio perdita stabilità». Che non è la stessa cosa. Lo spiega Alfio Leonardi, ingegnere oggi in pensione, ma che per 36 anni ha lavorato per il ministero delle Infrastrutture e per il provveditorato alle Opere pubbliche della Liguria e del Piemonte: «La perdita di stabilità non significa che crolli, ma si può risolvere con una lesione che si apre e che comporta la limitazione del traffico; il rischio crollo comporta invece l' immediata chiusura della struttura ». Secondo fonti di Atlantia e di Aspi l' attestato viene presentato ai cda sia per informare gli azionisti, sia per programmare gli interventi, chiedere consulenze tecniche e studi a ditte esterne, come quello prodotto nell' autunno del 2017 dal Cesi di Milano. Va ricordato che la società di ingegneria aveva segnalato le criticità sugli stralli corrosi dall' acqua piovana e dal salino. E suggerito alcune soluzioni: controlli trimestrali mirati, applicazione di sensori e prove riflettometriche. Indicazioni che secondo le indagini sarebbero state disattese.

Ma non è questo il punto centrale. I pm Massimo Terrile e Walter Cotugno piuttosto vogliono capire perché mai il progetto di retrofitting (di consolidamento del ponte) soltanto nel febbraio del 2018 sia stato sottoposto alla valutazione del provveditorato alle Opere pubbliche e nel giugno sia giunto al Mit, nonostante quel «rischio crollo» fosse certificato già quattro anni prima. I lavori sarebbero dovuti iniziare in autunno. Troppo tardi. Il disastro è arrivato la vigilia di Ferragosto. Inoltre, magistrati ed investigatori chiedono ai 73 indagati di omicidio e disastro colposo plurimi come mai da una parte il ponte veniva classificato con voto inferiore a 50 (oltre questo livello si applicano misure di limitazione del traffico o chiusure). Quindi con rischio basso. È però ormai chiaro dalle intercettazioni telefoniche che i monitoraggi di Spea fossero edulcorati: appunto per evitare chiusure di alcuni tratti autostradali. E soprattutto per risparmiare sui costi. Come diceva Michele Donferri Mitelli, responsabile della Manutenzioni di Aspi, ai suoi al telefono: «Che sono tutti questi 50... me li dovete toglie tutti... adesso riscrivete e fate Pescara a 40». Si riferiva al viadotto Moro di Pescara, uno dei dieci ponti entrati nell' inchiesta bis. Eppoi, con tono perentorio: «... Devo spendere il meno possibile, sono entrati i cinesi, sono entrati i tedeschi, devo ridurre al massimo i costi... Lo capisci o non lo capisci?». I cinesi e i tedeschi entrano nell' azionariato di Atlantia nel maggio del 2017. E però c' è un altro dato che fa riflettere gli inquirenti: dal 2014 in poi le polizze assicurative sul viadotto genovese erano aumentate notevolmente. Il documento finora è stato tenuto nascosto dalla procura e dalla Gdf. Un asso nella manica, da tirare fuori al momento opportuno, in sede di chiusura delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio. Domani chiederanno conto di quelle variazioni inspiegabili ad Antonino Galatà, ex ad di Spea, uno degli undici dirigenti raggiunti dalla misura cautelare (sospensione dal servizio per un anno). Il primo di una serie di interrogatori in procura.

Alfredo Arduino per “la Verità” il 22 novembre 2019. Tre anni prima della tragedia era noto che il Ponte Morandi rischiava di cedere. Nel 2015 lo sapevano sia Autostrade per l' Italia (Aspi) che il ministero delle Infrastrutture, quando a guidarlo era Graziano Delrio, oggi capogruppo del Partito democratico alla Camera. Lo dimostra un documento stilato nel 2014 e messo a disposizione di un uomo del Mit l' anno dopo, che fa riferimento al «rischio crollo». Si tratta di carte finora rimaste segrete ma sequestrate nel marzo scorso dalla Guardia di finanza nella sede di Atlantia e di Autostrade. Ciò che rende questa relazione di particolare importanza per gli inquirenti è la conferma della consapevolezza di un grave problema di «staticità» del viadotto sul Polcevera, tanto grave da ipotizzarne il collasso. Un' informazione che era conosciuta ai massimi livelli aziendali e ministeriali e di cui si discusse in un cda di Aspi. In altre parole la carenza di sicurezza della struttura sarebbe stata ignorata, nonostante il citato «documento di programmazione del rischio» preparato dagli stessi tecnici di Aspi indicasse chiaramente un «rischio crollo». Crollo che si è puntualmente verificato il 14 agosto 2018, quando a Genova persero la vita 43 persone. Adesso si scopre, come rivelato da Repubblica, che anche i vertici del dicastero erano informati. Infatti alle sedute del cda di Autostrade partecipava un rappresentante del Mit, come membro del collegio sindacale. E quest' ultimo organo è proprio quello che ha condiviso con il cda «l' indirizzo di rischio basso», non dando importanza all' allarme lanciato dagli esperti. Eppure, se si esaminano le relazioni tecniche sequestrate sempre nella sede di Atlantia nello scorso marzo, il pericolo risulta lampante: le note degli ingegneri denunciano chiaramente che «l' opera non si riesce a tenere sotto controllo, vista l' impossibilità di monitorare gli stralli e i cassoni del viadotto». Quindi i vertici del ministero delle Infrastrutture avvallarono la decisione della holding di non dare troppo peso ai campanelli d' allarme. Si aggiunge poi un altro inquietante giallo: il documento sul rischio veniva compilato in base ai segnali che arrivavano dai sensori montati sulla infrastruttura. Però quei sistemi non hanno più funzionato dal 2015, quando sono stati tranciati durante i lavori di manutenzione. Nessuno li ha mai sostituiti, come ha rivelato ieri il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi. La concessionaria aveva programmato l' inserimento dei sistemi di controllo nel progetto di consolidamento delle pile 9 e 10 del ponte, che sarebbe dovuto partire nell' autunno del 2018. Ma il viadotto è crollato prima. Perché tanto ritardo? Il sospetto è che i sensori, se presenti, avrebbero confermato il pericolo di cedimento e che, quindi, il fatto che mancassero alla fine permetteva di stilare relazioni «edulcorate». Dal 2015, è il ragionamento seguito dalla Procura, il documento è stato compilato soltanto con le prove riflettometriche e non con altri sistemi di monitoraggio: un sistema che non sarebbe stato sufficiente a valutare le reali condizioni del Morandi. La storia non finisce qui, perché nel 2017 si verificano altri cambiamenti di rilievo che riguardano i controlli sul Ponte Morandi. Per la cronaca allora era ministro delle Infrastrutture sempre Delrio, riconfermato nel ruolo anche da Paolo Gentiloni. Primo «strano» cambiamento: la responsabilità della sicurezza del Morandi passa dalle manutenzioni dirette da Michele Donferri Mitelli alla Direzione di tronco di Genova, guidata da Stefano Marigliani, oggi entrambi sotto inchiesta. Secondo: nel documento del rischio della concessionaria sparisce la parola «crollo» sostituita da una più blanda e rassicurante «perdita di staticità». Come riporta Il Secolo XIX, i magistrati hanno chiesto conto di questo declassamento sia a Donferri Mitelli che a Marigliani, ma questi ultimi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Sulla relazione «ignorata» dai rappresentanti del Mit è intervenuto il ministro delle Infrastrutture, Paola De Micheli, commentando che quanto si è scoperto «è inaccettabile e intellettualmente incomprensibile» e promettendo «l' attuazione della nuova Agenzia sulla sicurezza». Invece Autostrade per l' Italia ha spiegato che il rischio di un crollo era in realtà solo teorico. E quanto fosse teorico lo abbiamo purtroppo visto. Inoltre Aspi precisa in una nota: «La società non è in alcun modo disponibile ad accettare rischi operativi sulle infrastrutture. Di conseguenza, l' indirizzo del cda alle strutture operative è di presidiare e gestire sempre tale tipologia di rischio con il massimo rigore, adottando ogni opportuna cautela preventiva». Aldilà di tutte le precisazioni e i distinguo resta il fatto che 43 persone, che si trovavano a passare per caso sul viadotto, sono morte inghiottite dal vuoto e dalle macerie. Per questo motivo magistrati e investigatori continuano a domandare ai 73 indagati di omicidio e disastro colposo plurimi come mai il ponte veniva classificato con rischio basso. E inoltre perché mancassero i sensori. Ma anche altri elementi fanno riflettere: le intercettazioni agli atti evidenziano che i monitoraggi di Spea fossero «ammorbiditi» per evitare limitazioni al traffico e per risparmiare sugli interventi. C' è infine un punto su cui si concentrano le indagini: dal 2014 in poi le polizze assicurative sul viadotto genovese erano aumentate notevolmente. Perché questo aumento se il ponte era da considerarsi sicuro?

Giuseppe Filetto per “la Repubblica” il 22 novembre 2019. Gli impulsi provenienti dai sensori posizionati sul Ponte Morandi, che avrebbero dovuto recepire le oscillazioni della struttura, non potevano essere trasmessi, tantomeno registrati da un computer, per poi essere analizzati dai tecnici per stilare il documento di rischio. Semplicemente perché i sensori erano stati tranciati nel 2016, durante alcune lavorazioni sulla sede stradale da parte della Pavimental per conto di Autostrade. Eppure dal 2014 fino al 2017 un report molto riservato - il cui contenuto è stato pubblicato da Repubblica negli scorsi giorni - affermava che il viadotto genovese era considerato dalla stessa concessionaria a "rischio crollo". Come poi è avvenuto, con 43 morti. C' è di più. Secondo quanto trapela dalle indagini, Aspi aveva scritto che il sistema non segnalava anomalie, perciò il rischio era basso. E successivamente, dal 2017 in poi, il giudizio era passato a "rischio perdita di staticità"; un livello che comporta interventi di manutenzione, ma non l' interdizione del traffico. L' assenza di un sistema di monitoraggio è stata scoperta dai militari della Guardia di Finanza di Genova, gli stessi che lo scorso marzo hanno sequestrato il documento del rischio, nascosto nei registri digitali di Atlantia, a Roma. E ieri il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, ha sottolineato come l' impianto dei sensori non sia stato ripristinato dopo il danno del 2016. Neppure quando Aspi aveva chiesto una consulenza tecnica all' ingegner Carmelo Gentile. Il professore del Politecnico di Milano, peraltro, aveva suggerito sensori di ultima generazione, ma la concessionaria non li aveva installati, inserendoli invece nel progetto di retrofitting (consolidamento) delle pile 9 (quella crollata) e 10 del ponte. Operazione che sarebbe dovuta partire nell' ottobre del 2018. Il "Morandi" è crollato due mesi prima, il 14 agosto. L' ipotesi accusatoria è che si sia cercato di risparmiare sui costi. «Ed oggi ci chiediamo come Autostrade abbia compilato quel documento - ripete il procuratore - : non si capisce come nel catalogo in cui si presentano criticità generalizzate su altri ponti, il Morandi invece sia classificato a rischio crollo localizzato». Aspi ribatte che si trattava di "rischio teorico". «Se arriva una relazione sul rischio di crollo, parliamo della sicurezza dei cittadini italiani. E Autostrade che fa? Parla di rischio teorico? Qual è il rischio pratico allora? Per il rischio teorico sono morte delle persone», dice il ministro Luigi Di Maio, parlando al programma tv "L' aria che tira". Il documento imbarazza Autostrade, che ha sempre sostenuto di "non avere mai letto nero su bianco di rischio crollo". Tanto che ieri in una nota ha ripetuto: «In merito...ad alcuni sensori che erano presenti sul Ponte Morandi, la società ricorda che nessuna delle analisi svolte sul viadotto Polcevera, anche da qualificati soggetti terzi, aveva evidenziato allarmi sulla sicurezza dell' infrastruttura». E ancora Autostrade «dichiara di essere il primo soggetto interessato affinché vengano chiarite eventuali responsabilità, sia in sede di incidente probatorio che successivamente nell' ambito del processo». Si riferisce anche ai report di Spea, la società "gemella", delegata al monitoraggio della rete autostradale. Ieri, l' ex ad di Spea Antonino Galatà, indagato anche per i falsi report su una dozzina di viadotti sparsi in tutta Italia, davanti al pm Walter Cotugno di Genova si è avvalso della facoltà di non rispondere. Comunque, il documento sul "rischio crollo" tira in ballo anche Atlantia, la capogruppo. Quel documento è stato vagliato dai cda delle due società. E in quello di Aspi dal 2015 al 2018 era presente anche un funzionario del ministero delle Infrastrutture, come membro del collegio dei sindaci: Antonio Parente, ancora in prorogatio. «Ho letto quello che avete letto voi. Per me è inaccettabile. Anche intellettualmente incomprensibile», dice il ministro dei Trasporti e Infrastrutture Paola De Micheli, commentando la presenza del ministero a quella riunione del 2015.

Ponte Morandi Genova, i sensori erano fuori uso dal 2015: tranciati durante i lavori e mai sostituiti. Pubblicato giovedì, 21 novembre 2019 da Corriere.it. Il Documento di Programmazione del rischio, in cui nel 2014 venne scritto che il Ponte Morandi di Genova era «a rischio crollo», veniva compilato con i dati dei sensori che Autostrade aveva montato anni prima sul viadotto. Che però dal 2015 non funzionavano più, perché i cavi di collegamento erano stati tranciati durante lavori di manutenzione sulla carreggiata. Secondo gli inquirenti, inoltre, i sensori non vennero sostituiti, nonostante il Cesi e il Politecnico di Milano avessero consigliato di farlo. Il sistema era stato poi inserito nel progetto di «retrofitting», i lavori di rinforzo delle pile 9 e 10, che però non sono mai partiti perché nel frattempo il ponte è crollato, provocando la morte di 43 persone. E allora, si chiedono gli inquirenti, perché il «rischio crollo» non era stato preso in considerazione»? Una delle ipotesi è che si dovesse risparmiare sui costi di gestione e che una chiusura parziale o totale della struttura potesse influenzare l’entrata nell’asset aziendale di nuovi soci cinesi e tedeschi. Sulla questione è intervenuta anche la ministra ai Trasporti e alle Infrastrutture, Paola De Micheli, riferendo di avere «letto quello che avete letto voi» e che «il contenuto di quello che ho letto è per me inaccettabile. Anche intellettualmente incomprensibile», commentando la presenza di rappresentanti del suo ministero alla riunione del 2015 in cui si evidenziò il rischio per il ponte Morandi. «Stiamo realizzando il rafforzamento e l’attuazione della nuova Agenzia sulla Sicurezza, che riguarda la sicurezza stradale e ferroviaria. Finalmente abbiamo avuto la possibilità di dare il via all’agenzia e nominerò il capo tra poco», ha aggiunto.

Il procuratore capo di Genova: "I sensori del ponte Morandi tranciati nel 2015 mai più sostituiti". Il documento del "rischio crollo" veniva compilato in base ai segnali che sarebbero dovuti arrivare dai dispositivi. Autostrade per l'Italia: "Nessuna delle analisi aveva evidenziato allarmi". Giuseppe Filetto il 21 novembre 2019 su La Repubblica. Il catalogo del rischio, cioè quel documento che certificava lo stato in cui versava il Ponte Morandi, veniva compilato in base ai segnali che arrivavano dai sensori montati sulla infrastruttura anni prima. E però quei sistemi non funzionavano più dal 2015, quando sono stati tranciati durante i lavori di manutenzione. Secondo le indagini i sensori di cui si parla e danneggiati, non sono stati mai sostituiti da Aspi. Neppure quando nel 2017 il professore Carmelo Gentile del Politecnico di Milano aveva suggerito di sostituirli con altri di nuova generazione, più all'avanguardia. La concessionaria aveva programmato l'inserimento dei sistemi di controllo nel progetto di retroffitting (consolidamento delle pile 9 e 10 del ponte) che sarebbe dovuto iniziare nell'autunno del 2018. Troppo tardi: il viadotto è crollato il 14 agosto, due mesi prima. Lo svela il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, all'indomani della notizia pubblicata da Repubblica relativa alla esistenza di quel documento che certificava il "rischio crollo" per il ponte sul Polcevera. La relazione tecnica, compilata nel 2014 e sequestrata lo scorso marzo dalla Guardia di Finanza nella sede di Atlantia, a Roma. Anche se Autostrade ieri in una nota ha precisato che si sarebbe trattato di "rischio teorico". Ma il ministro Luigi Di Maio, a "L'Aria che Tira", su La7, commenta: "Autostrade parla di rischio teorico? Qual è il rischio pratico?". E però quel documento sul "rischio crollo", in cui per la prima volta compare la parola "crollo" per il viadotto genovese, è stato vagliato persino dai consigli di amministrazione di Atlantia e di Autostrade. C'è di più: alle sedute di quest'ultima partecipa un rappresentante del Ministero delle Infrastrutture come membro del Collegio dei Sindaci. "Ho letto quello che avete letto voi, il contenuto di quello che ho letto è per me inaccettabile. Anche intellettualmente incomprensibile", dice il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Paola De Micheli, commentando appunto la presenza del Ministero alla riunione del 2015 in cui si evidenziò il rischio per il Ponte Morandi. In serata Autostrade per l'Italia "ricorda che nessuna delle analisi svolte sul viadotto Polcevera, anche da qualificati soggetti terzi, aveva evidenziato allarmi sulla sicurezza dell'infrastruttura" e "dichiara di essere il primo soggetto interessato affinché vengano chiarite eventuali responsabilità, sia in sede di incidente probatorio che successivamente nell'ambito del processo".

Ponte Morandi, anche il ministero sapeva. Autostrade: il rischio crollo era solo teorico. Un rappresentante delle Infrastrutture partecipò alla riunione del consiglio di amministrazione della società. Il titolo di Atlantia in Borsa cede il 2,2%. Primo incidente nel cantiere del nuovo viadotto: tre operai contusi. Giuseppe Filetto e Marco Lignana il 21 novembre 2019 su La Repubblica. Anche i vertici del ministero delle Infrastrutture nel 2015 erano a conoscenza del “rischio crollo” per il Ponte Morandi: di quel documento stilato un anno prima, finora segreto ma sequestrato dalla Guardia di Finanza nella sede di Atlantia e di Autostrade. Alle sedute del consiglio di amministrazione di Aspi partecipa un rappresentante del Mit, membro del Collegio sindacale. E questo organo con il cda ha condiviso “l’indirizzo di rischio basso” per il viadotto genovese, poi crollato il 14 agosto 2018 (proprio ieri il primo incidente nel cantiere del nuovo ponte, con tre feriti lievi). Autostrade per l’Italia, però, in una nota precisa: «La società non è in alcun modo disponibile ad accettare rischi operativi sulle infrastrutture. Di conseguenza, l’indirizzo del cda alle strutture operative è di presidiare e gestire sempre tale tipologia di rischio con il massimo rigore, adottando ogni opportuna cautela preventiva». E ancora: «Per quanto riguarda l’area dei rischi operativi, nella quale rientrava anche la scheda del Morandi, il cda di Autostrade ha sempre espresso l’indirizzo di mantenere la propensione di rischio al livello più basso possibile». La concessionaria non smentisce l’esistenza del rapporto svelato da Repubblica, ma sostiene che il rischio fosse solo teorico. Il titolo Atlantia, in ogni caso, comunque ieri in Borsa ha perso il 2,22 per cento. E però i finanzieri del Nucleo operativo metropolitano e del Primo gruppo di Genova, in quello stesso giorno del marzo scorso, hanno sequestrato altre relazioni tecniche a corredo del “catalogo del rischio”. In esse gli ingegneri esprimono preoccupazioni: «L’opera non si riesce a tenere sotto controllo», data l’impossibilità di monitorare gli stralli e i cassoni del viadotto. Il documento sul rischio crollo già nel 2015 viene sottoposto al vaglio dei cda di Aspi e Atlantia, in concomitanza alla presentazione del progetto di retrofitting (consolidamento) delle pile 9 (quella crollata) e 10. Nel 2017 però avvengono due variazioni di rilievo. La prima: la responsabilità sul Morandi passa dalle Manutenzioni dirette da Michele Donferri Mitelli alla Direzione di tronco di Genova, guidata da Stefano Marigliani (entrambi indagati). La seconda modifica: nel catalogo del rischio non si parla più di “crollo” ma di “perdita di staticità”. Durante gli interrogatori a tutti e due è stato chiesto conto di quei cambiamenti: si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.

Il testimone: «Così cambiavano i miei report sui ponti». Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. Il tecnico di Spea Costa: «Ho aperto il server aziendale e ho trovato la sorpresa: relazione cambiata a mia insaputa» Cosa ha causato il crollo. «Quel 18% non l’avevo mai scritto. Io ricordavo 25%, che mi aveva colpito perché è tanto. Era anche appena venuto giù il Polcevera e quindi ero più sensibile...». Una sensibilità che ha portato Alessandro Costa, tecnico della società Spea addetta alle manutenzioni per conto di Autostrade, a sospettare il peggio: «La mia relazione era stata modificata!». Si parla di sicurezza e quelle percentuali rappresentano la sintesi del suo lavoro di monitoraggio sullo stato di degrado di un ponte gestito dal concessionario del gruppo Benetton, il Pecetti sulla A 26, in Liguria. «Era la stima della perdita di precompressione della trave», spiega tecnicamente Costa nell’interrogatorio davanti al pm Walter Cotugno. Cioè, tanto più alta è la percentuale quanto più il ponte è malandato e richiede interventi. Il primo campanello d’allarme fu la telefonata dell’ingegnere Andrea Indovino dell’ufficio controlli strutturali di Spea, indagato per falso e sospeso dal lavoro, fatta due mesi dopo il disastro del Morandi. «Indovino mi chiedeva delucidazioni sulle percentuali e mi parlava del 18. Gli ho detto aspetta un momento perché ricordo una cosa diversa. Sono andato ad aprire il server aziendale e con mia grande sorpresa ho trovato una relazione in buona parte diversa da quella che io avevo redatto...». Indagato anche lui nell’ambito dell’inchiesta sui falsi report dei ponti nata da quella sul disastro del Morandi, Costa è il supertestimone della Procura di Genova. Il suo interrogatorio rappresenta cioè il pilastro sul quale l’accusa ha gettato le basi dell’indagine che in settembre ha portato ai primi provvedimenti cautelari (tre arresti domiciliari — uno revocato — e sei interdittive) contro tecnici e dirigenti di Autostrade e Spea, ai quali hanno fatto seguito le dimissioni di Giovanni Castellucci da timoniere di Atlantia, la holding che controlla Autostrade. Il tecnico parla a 360 gradi racconta delle pressioni dall’alto, delle riunioni con gli altri indagati per decidere il da farsi, di essersi pure ammalato per lo stress dell’indagine e di un paio di relazioni da lui firmate che lo hanno sorpreso. Una riguardava appunto il Pecetti, l’altra il viadotto Costa sull’autostrada A 10 tra Varazze e Celle Ligure. «La mia valutazione rappresentava lo scenario peggiore, mi aspettavo fosse stata presa in considerazione per i calcoli relativi alla sicurezza», spiega riferendosi al viadotto sulla A 26. «Di questa omissione mi lamentai con Ceneri (Maurizio Ceneri, ingegnere e coordinatore dei tecnici Spea, indagato, ndr) e gli contestai che ero l’unico a essere andato sul posto con il collega Landi e che, se non si fidavano delle mie osservazioni, potevano andarci loro... Gli ho detto che la mia ipotesi andava mantenuta e che la relazione modificata non doveva essere usata in alcun caso perché non considerava la condizione peggiore che io stesso avevo rilevato, scritto e condiviso e che poi era stata cambiata a mia insaputa e utilizzata contro la mia volontà». Il tutto succedeva il 24 ottobre dello scorso anno, con l’indagine sul Morandi in pieno corso. Due mesi dopo, in dicembre, l’altro caso. «Ricordo una telefonata da Vezil (Marco Vezil, dirigente di Spea responsabile delle verifiche sui trasporto eccezionali, ndr) che, rispetto a un mio documento sul viadotto Costa, si lamentava che avevano difficoltà a far riaprire la corsia precedentemente chiusa, con quel che avevo scritto... La mia relazione è del sabato pomeriggio. La telefonata di lunedì mattina... Ovviamente la necessità di riaprire il traffico non era né di Vezil né di Spea ma eventualmente di Autostrade». Negli ultimi interrogatori alcuni indagati di Spea hanno confermato in parte le dichiarazioni di Costa sulle modifiche dei report, parlando di pressioni subite da Autostrade. Il concessionario dice di riservarsi di prendere provvedimenti, nel caso in cui fossero accertati gli illeciti. Quanto alla sicurezza ricorda che sono state eseguite delle due diligence esterne e altre sono in corso e che i direttori di tronco sono disponibili a chiarire ai pm qualsiasi cosa. Dopo i lunghi silenzi, dalle parti di Autostrade si respira una nuova aria.

Tommaso Fregatti e Marco Grasso per “la Stampa” il 13 Novembre 2019. Almeno da sei anni la "pancia" del viadotto Polcevera - i cosiddetti cassoni, scatole di cemento cave costruite sotto al piano strada - era inaccessibile, cosa che impediva di valutare se i cavi fossero corrosi. Ma a creare inquietudine tra i massimi vertici di Spea Engineering, la società incaricata del monitoraggio (e controllata) da Autostrade per l'Italia, non è solo il buio totale provocato dall'assenza di controlli. Il timore dell' ex responsabile della sorveglianza Carlo Casini, è addirittura che il «cedimento del cassone dovuto al percolamento dell' acqua, che avrebbe corroso i cavi interni» possa essere stato la causa del crollo del Ponte Morandi: «Può essere successo che, a un certo punto, il cassone comprimeva e ad un certo punto è mollato!». Sono già passati mesi dal disastro che ha provocato la morte di 43 persone. Un' ispezione della Guardia di Finanza ha portato alla luce rifiuti e stalattiti, particolari che stridono all'interno di strutture che avrebbero dovuto essere ipercontrollate. È il 25 gennaio quando gli inquirenti intercettano una conversazione tra Carlo Casini, responsabile dell' ufficio sorveglianza Spea di Genova fra il 2009 e il 2015, e Marco Vezil, alto dirigente della società: «O che il cassone ha mollato, perché metti che le campane... - dice Casini - metti la sfiga che sulle campane ci percolava dell' acqua che entra in soletta, te l'hanno corroso, vum (rumore onomatopeico con cui Casini simula il crollo del ponte, ndr) ha mollato subito, mollando subito è venuto giù la...perché certo che se effettivamente lo strallo». L'ipotesi preoccupa Vezil, ben «consapevole» secondo chi indaga, che le mancate ispezioni, potenzialmente, mettono chi lavorava per Spea nei guai: «Però lì siamo deboli perché non andavano nel cassone». Nessuno controllava, ma nonostante ciò, le valutazioni sulla sicurezza venivano compilate ugualmente, come se le ispezioni fossero state eseguite. E questa ricostruzione - che per la Procura coinvolge anche Autostrade, che «di fatto controllava Spea» e tramite alcuni dirigenti «decideva le soluzioni da adottare» - costituisce il nucleo delle accuse di falso. Lo snodo fondamentale è nel 2013, quando una nuova norma stabilisce che per entrare nei cassoni occorrono nuove misure di sicurezza e corsi ad hoc per il personale. Con gli strumenti in dotazione, riassume un tecnico Spea, per effettuare quelle ispezioni ci sarebbe voluto «l' Uomo Ragno».

I dossier e le telefonate segrete: «Il ponte è insicuro, va chiuso» Autostrade: «Lavori eseguiti». Pubblicato venerdì, 13 settembre 2019 su Corriere.it da A. Pasqualetto e L. Salvia. Dalle intercettazioni dopo il crollo del ponte Morandi a Genova: «Il viadotto Pecetti è al limite della sua resistenza» Autostrade: «Il ministero era informato, opere. «Non è possibile una superficialità così spinta dopo il 14 agosto, ciò vuol dire che la gente coinvolta non ha capito veramente un c..., ma proprio eticamente». È il 19 ottobre 2018, due mesi dopo il disastro del ponte Morandi. Andrea Indovino, responsabile della sorveglianza di Spea, oggi indagato per falso ideologico e interdetto venerdì dal gip di Genova Angela Maria Nutini, parla in questi termini con una collega della stessa società, Serena Alemanni. Oggetto della conversazione telefonica è il viadotto Pecetti sulla A26, gestito da Autostrade per l’Italia, dove la notte tra il 21 e il 22 ottobre doveva transitare un trasporto eccezionale di 141 tonnellate. Indovino, che non sa di essere intercettato, si dice preoccupato perché dalle analisi eseguite, l’opera è «estremamente tirata». Segnala che la verifica di transitabilità non è soddisfatta. «Più andiamo oltre e più rosicchiamo i margini di sicurezza... soprattutto perché siamo tutti consapevoli che nessuno ha fatto la tac a quel viadotto... è un viadotto che ha delle problematiche... alcune sono manifeste...». Indovino parla di mancanza di «sensibilità» con una struttura che viene portata «al limite della sua resistenza... con un ponte che è appena venuto giù». Due giorni prima il manager aveva inoltrato una mail alla stessa collega, scrivendole che «il viadotto restituisce esiti appena superiori all’ammissibilità e quindi privi di significativi margini di sicurezza... riceviamo incongruenza nei documenti d’archivio». Ci sarebbe un’incongruenza fra progetto e costruzione. «Non avendo livelli di sicurezza soddisfacenti... risulterebbe una bocciatura del transito» aggiunge. La decisione è difficile, Indovino sente di dover bloccare il tir, anche il collega Ferretti (responsabile della direzione opere d’arte di Spea, finito ai domiciliari) gli consiglia di rimandare tutto al mittente, cioè Autostrade (Aspi), ma lui però tentenna perché «il mittente è pesante». Pesante e spregiudicato, secondo il gip di Genova, che ricorda come Gianni Marrone, il direttore dell’ottavo tronco di Aspi arrestato venerdì per il ponte Paolillo, eviti deliberatamente di consegnare all’ispettore del ministero dei Trasporti e alla polizia giudiziaria della documentazione su quella struttura. «La logica di un simile generalizzato comportamento sembra da ricondurre a uno spirito di corpo aziendale, probabilmente motivato dal tornaconto economico», scrive il giudice, ricordando una conversazione fra Paolo Berti e Michele Donferri, l’ex numero tre e l’ex direttore manutenzioni di Aspi indagati per il disastro del Morandi, nella quale il primo «manifesta il proprio disappunto per essere stato condannato ad Avellino, lamentandosi che avrebbe potuto dire la verità e così mettere nei guai altre persone. Donferri gli risponde che non ci avrebbe guadagnato nulla mentre così può “stringere accordi col capo”». Spirito di corpo che, tornando alla vicenda del camion da 141 tonnellate, avrebbe spinto Indovino, nonostante la preoccupazione, a temporeggiare «prima di dire no secco (al transito, ndr), perché poi alla fine ti chiedono nuovamente il perché, mi sembra corretto esplorare tutte le possibilità in modo razionale». Richiede, dunque, più informazioni sul ponte. E decide di scrivere una mail a Massimiliano Giacobbi (domiciliari) e Massimo Meliani di Spea, nella quale sottolinea «la situazione di non perfetta efficienza del manufatto...». Risultato? Spea firma per il transito, il tir passa nella notte tra il 21 e il 22 ottobre. E tutti tirano un sospiro di sollievo. «È transitato». «Ok va bene».

“QUI LA PRENDIAMO NEL CULO.” Marco Menduni per la Stampa il 14 settembre 2019. Tra il viadotto Pecetti, 132 metri su due campate, uno dei giganti dell' A26 che dal Piemonte scende giù al mare di Voltri, e l' area in cui sorgeva il ponte Morandi ci sono 15 chilometri di distanza. Venti minuti al massimo, in macchina. In quei 15 chilometri si dipana l' inchiesta arrivata, qualche settimana dopo l'anniversario della tragedia del 14 agosto, la messa cantata, la commemorazione delle 43 vittime, alla prima grande svolta giudiziaria. Non è il corpo principale dell' inchiesta per la sciagura di Genova. Ma è la prima risposta alle richieste di giustizia e delinea, in quello che la procura ricostruisce, un quadro inquietante della gestione della sicurezza. Finiscono ai domiciliari Massimiliano Giacobbi di Spea, la controllata di Autostrade per le manutenzioni e la sicurezza, e due pezzi grossi di Aspi della direzione VIII tronco, Gianni Marrone e Lucio Torricelli Ferretti. Poi in sei vengono sospesi dai pubblici servizi per 12 mesi: Maurizio Ceneri, Andrea Indovino, Luigi Vastola, Gaetano Di Mundo, Francesco D'antona e Angelo Salcuni. Altri sei rimangono indagati a piede libero. E fanno 15. Tutti nel mirino dei pm, con diverse sfumature, accomunati da un' accusa che i magistrati scandiscono in cento pagine fitte di ordinanza in maniera precisa. C' era un disegno per edulcorare i test e le verifiche, per far sì che le criticità e i potenziali pericoli venissero sottovalutati. Il giorno prima del Ferragosto dell' anno scorso il Morandi crolla, portando con sé il suo carico di morti e dolore. Cambia, questa sciagura, il modo di agire? Pare di no, perché uno degli indagati intercettato ha un sussulto di dignità e ammonisce il suo interlocutore: «Non è possibile una superficialità così spinta dopo il 14 di agosto, vuol dire che la gente coinvolta non ha capito veramente un culo». La vicenda, nelle carte della procura, si svolge parallela su un asse lunghissimo che congiunge la Liguria alla Puglia, con due ponti sotto osservazione. Riparte da qui, sotto al viadotto Pecetti. Il grande ponte che dal basso fa paura, sentimento rinforzato dalle fotografie scattate dagli abitanti della zona. Le pagine dei magistrati sono complesse, sia in punto di diritto che in considerazioni ingegneristiche. Ma il senso vero può esser riassunto così: i tecnici rilevano che si è rotto uno dei cinque cavi costituiti da trefoli intrecciati. La falsa ricostruzione Da quel momento scatta il tentativo, sempre nella ricostruzione dei pm, di negare la verità. Il cavo spezzato è uno dei tre principali. Però viene accreditata una ricostruzione alternativa e falsa: che in realtà sia uno dei due secondari, meno importante. Perché così il pericolo viene sminuito. Perché così non si deve vietare il transito ai mezzi più pesanti. Perché così transita anche quel trasporto eccezionale da 141 tonnellate, nella notte tra il 21 e il 22 ottobre dell' anno passato. Erano consapevoli, gli indagati, di quel che stavano facendo? Gli inquirenti dicono di sì: per evitare che le conversazioni telefoniche venissero intercettate, c' è anche chi ha usato il jammer, un dispositivo che le protegge. L' altro caso, scoperto nelle prime fasi dell' indagine del Morandi, è più lontano nello spazio. Il viadotto si chiama Paolillo, si trova sull' A16, in Puglia. Spiega la procura che è stato costruito in maniera differente rispetto al progetto, ma anche in questo caso si è cercato di occultare la verità. Eppure, proprio per le differenze accertate, le relazioni di calcolo e di contabilità non potevano garantire nulla sulla reale sicurezza. Non era più il viadotto progettato, quei dati non significavano più nulla. Qui emerge un altro elemento choc dell' inchiesta. «C'è una disinvoltura degli indagati a modificare le relazioni tecniche - scrive il gip - in spregio alle loro finalità di sicurezza». C'è chi, come il dirigente dell' VIII tronco di Bari Marrone, è già stato condannato in primo grado l' 11 gennaio alla pena di 5 anni e 6 mesi per i reati di omissione di vigilanza e alla manutenzione del viadotto Acqualonga, «ma ha perseverato durante il dibattimento nelle proprie condotte». Il riferimento è all'incidente del 28 luglio 2013 con 40 vittime: un pullman con i freni rotti, tradito dalla mancata resistenza del guard rail, precipita giù. La replica di Autostrade Autostrade, ovviamente, reagisce. I due viadotti, sostiene, sono assolutamente sicuri: «Gli interventi di manutenzione sono stati conclusi diversi mesi fa e la società ha inviato il 4 dicembre 2018 al ministero delle Infrastrutture e Trasporti un report contenente il dettaglio degli interventi manutentivi realizzati e delle verifiche effettuate sui viadotti della rete, tra cui il Pecetti e il Paolillo». Per il caso-Pecetti, sottolinea, aveva già «provveduto a cambiare la sede operativa dei due dipendenti interessati dai provvedimenti». In serata, poi, le determinazioni del Cda di Atlantia, la holding di cui Aspi fa parte: un audit da affidare a una «primaria società internazionale» per verificare la corretta applicazione delle procedure aziendali da parte delle società e delle persone coinvolte. Arriva anche la dichiarazione del presidente della Regione Giovanni Toti: «Quanto emerge sconcerta, in particolare chi amministra una città e una regione che hanno vissuto la tragica esperienza di ponte Morandi. Pretendiamo verità, processi brevi e pene esemplari per chi sarà giudicato responsabile. Genova, la Liguria e i familiari delle 43 vittime meritano verità e giustizia».

Marco Grasso e Tommaso Fregatti per la Stampa il 14 settembre 2019. A soli due mesi dai 43 morti del Morandi, c' è un altro ponte che agita i sonni degli addetti ai controlli di Spea: «Non è possibile una superficialità così spinta dopo il 14 agosto. Cioè, vuol dire che la gente coinvolta non ha capito veramente un cazzo ma proprio eticamente». Sono giorni convulsi quelli fra il 17 e il 20 ottobre del 2018. Andrea Indovino, ingegnere addetto ai monitoraggi dipendente di Spea (società controllata da Autostrade per l' Italia), non ci dorme la notte: «Qui la prendiamo nel c...». A preoccuparlo è il reale stato di salute del viadotto Pecetti, tratto genovese della A26, il cui ammaloramento è stato coperto da un report taroccato (un caso simile riguarda il viadotto Paolillo, in Puglia): dopo la rottura di un cavo, il tecnico Alessandro Costa aveva segnalato alla sua catena di comando un deterioramento della precompressione (dunque della tenuta) del 33%, percentuale sbianchettata dai suoi superiori (in particolare Maurizio Ceneri, superiore di Indovino) e corretta con un più tranquillizzante 18%. Sul tavolo di Indovino ora c'è la richiesta di far passare su quello stesso viadotto un transito eccezionale, un carico da 140 tonnellate diretto ad Ansaldo: «Hanno chiamato più volte Galatà (amministratore delegato di Spea), dicono che per Genova è strategico». Indovino non può opporsi, perché la richiesta arriva «da un mittente pesante» (cioè «Autostrade», specifica la Finanza): «Ci siamo spinti oltre - si sfoga - Più andiamo oltre e più rosicchiamo i margini di sicurezza. Ma come si fa a chiedere una verifica su un manufatto ammalorato, con un transito eccezionale che lo porta al limite della resistenza? Con un ponte che è appena venuto giù? E mi vieni dire di andare a fare un sopralluogo». Per il giudice Angela Nutini quello dei falsi report era un vero e proprio «sistema»: «La logica di un simile generalizzato comportamento sembra da ricondurre a uno spirito di corpo aziendale, probabilmente motivato dal tornaconto economico». A questo proposito il magistrato cita una conversazione tra due alti dirigenti di Autostrade, entrambi indagati per i morti del Ponte Morandi: Michele Donferri Mitelli, responsabile nazionale manutenzioni, e Paolo Berti, ex numero 4 di Aspi. Quest'ultimo confida al primo di «aver mentito» nel processo in cui è stato condannato per la strage di Avellino e «si rammarica» perché se avesse parlato avrebbe potuto «mettere altri nei guai». Il collega lo tranquillizza: «A te non cambiava un cazzo. Questa gente aspettala al varco. Pensa soltanto a stringere un accordo col capo, punto e basta!». Ma chi è il capo a cui si riferiscono? Sul passaggio arriva una replica puntuale di Autostrade per l' Italia, che senza girarci troppo intorno, rimarca come con Giovanni Castellucci, all' epoca amministratore delegato di Aspi, oggi alla guida della holding Atlantia (assolto nel processo di Avellino), non fosse possibile stringere alcun patto, «perché le contestazioni erano diverse». C' è di più. Nel pieno degli accertamenti su Spea, nell' inchiesta sul Ponte Morandi, le intercettazioni portano alla luce attività che vanno ben aldilà dell' ordinaria attività difensiva: «Lo zelo della società durante le indagini non si è limitato al supporto ai dipendenti indagati, ma si è tradotto anche in attività di bonifica dei computer, nell' installazione di telecamere finalizzate a impedire l' attivazione delle intercettazioni da parte degli inquirenti e nell' utilizzo di disturbatori delle intercettazioni, al fine di ostacolare quelle eventualmente già in corso».

Il disastro del Ponte Morandi: una lezione per l’Italia.  Genova,14 agosto 2018: lo speciale. Pubblicato lunedì, 12 agosto 2019 da Marco Imarisio su Corriere.it. Non è una festa, non deve esserlo e non lo sarà mai. Ci sono state troppe celebrazioni intorno al ponte Morandi. Quest’anno appena trascorso è stato fin da subito scandito da annunci, propositi ambiziosi, visite di ministri e primi ministri, come se la ricostruzione del viadotto dovesse assumere sembianze da marcia trionfale. Anche la sua recente demolizione, trasformata in evento mediatico, è stata un happening con catering e politici di governo a farsi selfie, mentre intorno a loro c’era anche tanta gente che piangeva, perché per i genovesi quella striscia d’asfalto sulle loro teste era un motivo d’orgoglio, non solo un elemento abituale del paesaggio. Dal 14 agosto 2018 a oggi, la comunicazione sul seguito di questa tragedia è stata fatta con il megafono, diffondendo fiducia e ottimismo a piene mani, facciamo sistema, siamo una squadra fortissima, tutto rinascerà più alto e bello che prima. C0me se ci fosse un non detto, una realtà da nascondere tramite la grancassa della ricostruzione. D’accordo, quello di non deprimersi è un buon proposito. Ma anche raccontarsi le cose come stanno dovrebbe essere sempre un buon punto di partenza per un nuovo inizio. Alle 11.36 del 14 agosto 2018, quando si è sbriciolato il cemento di quello che i genovesi chiamavano ponte di Brooklyn, non si è consumata solo la tragedia di una città, ma anche la sconfitta di un Paese. Al di là delle responsabilità penali, a quelle ci penserà la Procura, il crollo del Morandi rappresenta al peggio la nostra incapacità di affrontare i problemi con un senso di urgenza che sempre manca, oscurato dall’eterna propensione a tergiversare, a sollevare cavilli, a discutere dei massimi sistemi senza far niente, affidandosi sempre alla buona sorte, che Dio ce la mandi buona. Quel ponte nato male, malato fin dalla nascita, fatiscente e traballante, aveva quasi 51 anni, gran parte dei quali trascorsi nel decidere un da farsi, soluzioni alternative, opere di ammodernamento, sostituzione completa, che mai diventava concreto, mentre intanto l’incuria e il tempo facevano il loro lavoro, aggravando i problemi. C’era il rischio, e forse c’è ancora, che quel disastro facesse crollare anche la fiducia in un sistema Italia incaricato di vegliare sulla nostra sicurezza, di garantirla mentre facciamo gesti minimi, salire su un’auto per andare in vacanza o al lavoro, fischiettando la canzone dell’estate o chiacchierando con i compagni di viaggio in una piovosa vigilia di Ferragosto. Anche per questo la catastrofe non appartiene solo a una città meravigliosa, che ha già dimostrato, come sempre, di sapersi rialzare. Il ponte Morandi riguarda tutti noi, perché non è stata una disgrazia ma un disastro annunciato. La grancassa mediatica sulla demolizione e la futura ricostruzione, una diretta minuto per minuto, non è una invenzione di quest’anno. E sarebbe sbagliato considerarla dannosa, perché ha indubbie funzioni lenitive. Fu la stessa cosa con la Costa Concordia. Il rigalleggiamento della nave e il suo trasporto verso i cantieri navali di Genova avevano l’obiettivo di far dimenticare la cartolina della balena spiaggiata accanto al porto del Giglio, diventata metafora di un Paese depresso che stava affondando, con lo spread alle stelle e un governo d’emergenza che prometteva lacrime e sangue. Ma quel disastro fu opera di una persona sola, l’ex comandante Francesco Schettino diventato a sua volta emblema di ogni possibile difetto dell’indole italiana. Il ponte Morandi invece avrebbe dovuto interrogarci sulla nostra incapacità di fare sistema, di darci una mossa quando è ora di agire e prendere decisioni, senza restare impegolati in eterne e sterili discussioni. Esattamente quel che è mancato in questo lungo anno di racconti sulla rabbia e la rinascita, sui contratti, sui modellini del nuovo ponte e sull’esplosivo per demolire i monconi di quello vecchio, che tale era in ogni senso. In questo meccanismo di rimozione del senso di un disastro e delle sue colpe diffuse perdono sempre voce e consistenza le vittime. «Faccio shopping con il mio nipotino e con mia madre. La vita ci sorride. È estate. Dopo, visto il tempo, non andremo in spiaggia. Intanto il telefono di Roberto risulta staccato. Probabilmente si è scaricato. Continuo ogni 15 minuti a chiamare quello di sua moglie. Ogni tanto un tonfo al cuore: è occupato. Perché qualcun altro la sta cercando». Sta per uscire un libro piccolo e necessario, Vite spezzate, un titolo inevitabile, i cui proventi andranno tutti in beneficenza. Lo ha scritto Benedetta Alciato, compagna di Giorgio Robbiano, che su quel ponte ha perso un fratello, una cognata, e un nipotino, e il piccolo Samuele, che aveva 8 anni, morto abbracciando il suo pallone di Spiderman. È una lettura che fa male, perché racconta ognuna di quelle 43 vite spezzate, attraverso le parole dei loro cari, e racconta anche la loro angoscia, quel tempo sospeso che non finiva mai, l’attesa, la vana speranza. L’esercizio della memoria non è retorica, ma un dovere, almeno per un Paese che non abbia paura di guardarsi allo specchio. Bisognerebbe cominciare dalle vittime, e poi continuare con tutto quel che significa la tragedia del Morandi. Sarebbe il modo giusto per evitare che possa accadere ancora, la premessa per una vera svolta. L’enfasi sulla ricostruzione non deve far scordare un passato di ignavia e superficialità lungo cinquant’anni. Che non può essere cancellato da un atto dovuto, dalla toppa che stiamo mettendo a una disfatta epocale.

I campioni della fedeltà sono i cani eroi del ponte Morandi. Premiati i 22 «angeli del soccorso» di Genova E chi salvò il padrone con una premonizione. Nadia Muratore, Domenica 18/08/2019, su Il Giornale. Per la prima volta in 62 anni, il «Premio Internazionale Fedeltà del Cane» - la manifestazione che si svolge a San Rocco di Camogli, in provincia di Genova - si è concluso con un ex aequo. Willi - pinscher di due anni e mezzo - si è aggiudicato la coccarda del «Primus inter pares», ossia primo tra i primi, fra tutti i quattrozampe che si sono distinti con le loro azioni di coraggio e lealtà, nei confronti degli umani. Con lui, sono stati considerati i migliori tra i migliori, anche gli «Angeli del soccorso», cioè tutti i cani che hanno operato sulle macerie del Morandi, il ponte crollato poco più di un anno fa a Genova. Furono 43 le vittime, ma molte delle persone scampate alla tragedia, devono la loro vita proprio ai tanti cani del soccorso che, insieme ai loro conduttori, le hanno estratte da sotto i resti del ponte. Una cerimonia commovente che ha saputo mescolare nella giusta maniera, il ricordo di chi non ce l'ha fatta, il coraggio dei soccorritori a quattrozampe e la gioia di chi invece è scampato al crollo del Morandi. Grande protagonista, il simpatico Willi, che ha conquistato il pubblico con il suo scodinzolare felice accanto a Enrico Cardia, il suo papà umano che ha salvato dal crollo di un edificio a Cagliari. «Se sono ancora vivo, lo devo al mio Willi - ha spiegato commosso Cardia -. È solo grazie al suo istinto, se sono riuscito a fuggire dalla mia falegnameria qualche secondo prima che crollasse. Abbaiando e sbarrandomi la strada, mi ha avvertito del pericolo salvandomi la vita». Con Willi hanno ricevuto la coccarda degli eroi anche Aki di Simonetta Ambrosini di Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara e Yaska del torinese Alessandro Acotto che con il loro abbaiare hanno messo in fuga i ladri; Lea e Billy di Cosimo Buccoliero della provincia di Taranto che hanno trovato un anziano caduto in un bosco. E poi Biagio che, dopo aver vegliato per ore il suo compagno di giochi travolto da una vettura, ha atteso per una ventina di giorni il ritorno della sua amata padrona Nicoletta Lodde di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso. Scott, il golene retriever che con il conduttore di Savona Giovanni Bozzano ha salvato una coppia ed il loro cane da sotto le macerie del terremoto di Amatrice nel 2016 e poi il bellissimo pastore tedesco femmina Annie in forza alla Guardia di finanza di Genova che, in una inedita accoppiata tutta al femminile con il suo conduttore Arly Tarantino e il suo istruttore Corrado Di Pietro ha fatto arrestare cinque persone per detenzione e spaccio di stupefacenti. E infine la mascotte del IV Reggimento Carabinieri a Cavallo di Roma, con il suo istruttore Fabio Tassinari, simpatica protagonista di un siparietto inedito quando, nel 2015 diede il suo personale saluto al presidente Mattarella durante il suo insediamento. Rompendo tutti gli schemi, corse davanti a lui per esibirsi in una capriola, strappandogli un sorriso tra l'imbarazzo ed il divertito. Sono stati ventidue gli «Angeli del soccorso» intervenuti sulle macerie del ponte Morandi, premiati durante la manifestazione di Camogli, appartenenti ai corpi del Nucleo Cinofilo Regionale Liguria Vigili del Fuoco, Nucleo Cinofilo Regionale Toscana Vigili del Fuoco, Polizia di Stato, Squadra Cinofili di Genova, Unità cinofile SAGF (Soccorso Alpino della Guardia di Finanza) - Regione Piemonte. Tra loro, Zoe - golden retriever di appena due anni - al suo primo intervento con il responsabile tecnico del Nucleo cinofilo regionale Liguria vigili del fuoco e il cane da ricerca Night Spirit, un pastore australiano in forza alla Polizia di Stato, che ha ricevuto il premio di Camogli per la seconda volta e che, con la sua conduttrice Laura Bisio è stato il primo soccorritore a quattrozampe ad operare tra i detriti e la disperazione del Morandi.

QUANTO È COSTATO IL CROLLO DEL PONTE MORANDI? Maro Bardesono per “Libero Quotidiano” il 16 agosto 2019. Lacrime e sangue per i 43 morti, i nove feriti e i 533 sfollati di Genova, vittime del crollo del ponte Morandi avvenuto un anno fa. Ma lacrime e sangue anche per ciò che la distruzione del viadotto significa per l' economia e il tessuto sociale, non solo del capoluogo ligure, ma per l' intera regione e per il Paese. I dati emergono dal rapporto dell' osservatorio statistico dei Consulenti del Lavoro: «Gli effetti del crollo del Ponte Morandi su economia, occupazione e integrazione sociale» che è stato acquisito da Regione, Comune, Camera di Commercio e Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, come base sulla quale impostare il lavoro di ricostruzione e rilancio della città. Dati scritti in punta di penna e certamente inferiori ad una realtà, ancora in mutamento negativo. Dei 422 milioni di euro di danni segnalati dalle imprese (ma un censimento completo ancora non è stato effettuato, ci sono situazioni che sfuggono ed altre che peggiorano), a essere maggiormente colpito risulta il settore del commercio e dell' artigianato con 121 milioni di danni (28,7%), seguito dall' industria (118 milioni) e dai trasporti (95 milioni). Gli effetti del crollo si sono diffusi a macchia d' olio ben oltre l' epicentro del torrente Polcevera. Infatti nelle zone rossa e arancione della città, si concentrano il 37,6% dei danni economici (158 milioni di euro); mentre nel resto del territorio comunale il 41% (pari a 173 milioni), ai quali si aggiungono 11,7 milioni degli altri centri della provincia e 79 milioni del resto di Italia. Per ciò che riguarda il mercato immobiliare, i due portali Web Mutui.it e Facile.it registrano un calo per ciò che riguarda l' erogazione di mutui: «A Genova - spiega Ivano Cresto, responsabile Bu mutui di Facile.it - faceva capo l' 1,37% delle domande di finanziamento presentate in Italia. Un anno dopo, nel primo semestre del 2019, il valore rilevato tramite il nostro osservatorio è sceso allo 0,98%. Nell' ultimo periodo, però, stiamo assistendo ad una leggera inversione di tendenza e questo fa ben sperare».

INDENNIZZI. Di positivo c' è che «dallo scorso febbraio - dice Franco Ravera, presidente del comitato "Quelli del ponte Morandi" -, sono stati indennizzati tutti gli aventi diritto; ossia gli abitanti di via Porro dal numero 5 al 16, di via del Campasso 39 e 41. Ogni proprietario ha ricevuto 2.025,50 euro di indennizzo per ogni metro quadro di casa». Il Decreto Genova ha previsto gli indennizzi allargando agli sfollati del ponte Morandi il Pris (Programma regionale di intervento strategico), inizialmente previsto per gli espropriati dalla gronda. Un' ultima nota positiva giunge dal ramo assicurativo grazie a un protocollo tra Ania e le associazioni dei consumatori. Tra i benefici, la proroga dei termini per il pagamento dei premi o delle di tutte le polizze in essere.

LA FLESSIONE. Il crollo del viadotto sul Polcevera ha avuto pesanti ricadute anche sull' occupazione. Nel 2018 in provincia di Genova i datori di lavoro (artigiani, piccole, medie e grandi aziende) hanno effettuato 94.974 assunzioni, 1.902 in meno rispetto al 2017. Sebbene nei primi due trimestri del 2018 si sia registrato un forte aumento delle assunzioni, questa tendenza si è «bruscamente interrotta - si legge nel rapporto «Gli effetti del crollo del ponte Morandi su economia, occupazione e integrazione sociale» - nel terzo trimestre, portando ad una variazione negativa su base annua. La maggiore flessione si registra nel mese di agosto (-42,6%) e la dinamica negativa continua fino a dicembre». Il crollo del ponte ha anche provocato una forte contrazione della domanda di lavoro «pari al 18,9%, e ciò se si tiene conto dei soli mesi che vanno da settembre a dicembre, e del 22,5%, se si considera anche il mese di agosto». In termini assoluti, se si prende in considerazione il calo registrato tra agosto e dicembre, il 37% sarebbe dovuto all' impossibilità dei lavoratori che vivono fuori Genova, ad accedere a nuovi posti di lavoro e il restante 63%, alle difficoltà denunciate dagli stessi residenti nel capoluogo ligure. Il crollo del ponte, unito alla mancanza di infrastrutture, ha comportato disagi sulla viabilità genovese. In particolare, un allungamento di 120 chilometri per l' attraversamento di Genova e di 70 in senso inverso. «Questo - sottolineano dall' osservatorio statistico dei Consulenti del Lavoro - ha generato un aumento di costi (pari a 270mila euro) per circa 4 mila Tir che entrano ed escono ogni giorno dal porto genovese, mentre per le 31mila auto, il costo aggiuntivo è stato di 2 milioni di euro giornalieri».

Da La Stampa il 14 agosto 2019. La cerimonia di commemorazione delle 43 vittime del crollo del Ponte Morandi, il 14 agosto dello scorso anno è iniziata con la lettura dei loro nomi. Nel capannone della nuova Pila 9 del viadotto Polcevera il Comune di Genova ha organizzato la cerimonia per ricordare la tragedia e manifestare il cordoglio e la solidarietà della città ai parenti delle vittime. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è stato accolto dagli applausi e – al termine della commemorazione ha abbracciato i familiari delle vittime -, mentre la delegazione di Atlantia e Autostrade per l'Italia ha lasciato il luogo della commemorazione su richiesta di alcuni familiari. La delegazione, informata, per rispetto della volontà dei familiari, si è allontanata. A quel punto, il sindaco di Genova Marco Bucci ha sottolineato: «Tutte le manifestazioni devono essere rispettate e tutti devono essere presenti. È giusto ed è un gesto importante. È importante essere tolleranti». Autostrade aveva inviato una lettera nella quale ha scritto: «Siamo consapevoli e profondamente rammaricati per la gravità delle sofferenze e dei disagi causati all'intera comunità genovese dal crollo del Ponte Morandi».

Bucci: “Ponte ad aprile”. Il sindaco ha anche assicurato che «la crisi non ostacolerà la ricostruzione. Ho avuto nei giorni scorsi rassicurazioni dal governo che ci sarà, che avremo il loro supporto e che sarà continuo. I lavori per la ricostruzione procedono e sono convito che a fine aprile ci sarà il nuovo ponte».

Bagnasco: “C’è una ferma volontà di ripresa”.

Durante la messa, dall'arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco, ha detto che «se restiamo uniti, le nostre capacità si moltiplicheranno e faranno miracoli». Per poi ricordare «i disagi diffusi per muoversi da una parte all'altra, per gli abitanti della zona, per non pochi lavoratori che qui avevano le loro attività: tutti hanno vissuto il distacco da un ambiente familiare e caro, hanno visto messo in crisi il loro lavoro. Ma su tutto ha aleggiato la speranza, il credere in un futuro non lontano, e che oggi cominciamo a vedere. C'è una ferma volontà di ripresa». Sempre nell’omelia ha definito le vittime «angeli della città», per poi aggiungere che «Genova è qui. Genova non li dimenticherà mai».

Presidente della comunità islamica: “Genova ha bisogno di ponti non muri”. Dopo il cardinale ha preso la parola Zahoor Ahmad Zargar, il presidente della comunità islamica di Genova: «Il crollo del ponte ha diviso sì la città ma non ha diviso i nostri cuori – ha detto -. Seppur nella disgrazia questo è il momento dell'unione, non esiste morto cristiano o musulmano ma un nostro caro che ha perso la vita tragicamente attraversando quel ponte». E poi: «Mi auguro che la prossimo tappa sia quella di prenderci per mano per percorrere insieme il nuovo Ponte di Genova. Genova ha bisogno di ponti non di muri».

Conte: “Ponte simbolo di rinascita, sosterremo spese legali dei familiari”. Il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti ha individuato nella «pila che vediamo crescere il simbolo di quello che si può fare quando si lavora tutti insieme, il simbolo che il sogno di una comunità può diventare realtà». Anche se, ha detto ai familiari delle vittime: »Il dolore nei vostri cuori non si sanerà mai». Per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Genova oggi è simbolo della volontà di rinascita. La ricostruzione è cominciata. Il nuovo ponte dovrà essere percorribile nell'aprile nell'anno prossimo. Ringrazio tutti per il lavoro fatto insieme. Il ponte rappresenterà il simbolo della rinascita». Poi ha ricordato: «Un anno fa  ero qui attonito, e lanciai un monito: non lasceremo sola Genova. Quel monito è diventato impegno e si è concretizzato in un percorso che giorno dopo giorno ha spinto Genova sulla via della rinascita. Oggi il simbolo della tragedia non esiste più, al suo posto nascerà un ponte più sicuro. Il cantiere è attivo 7 giorni su 7 e secondo le previsioni il ponte, il cui progetto è stato donato alla città da Renzo Piano, sarà percorribile ad aprile 2020». I parenti delle vittime non saranno lasciati soli: «Abbiamo lavorato intensamente per mantenere gli impegni e assicurare le case agli sfollati – ha rivendicato -, ora stiamo lavorando per i familiari delle vittime istituendo un tavolo tecnico per erogare loro gli anticipi per affrontare le spese giudiziarie».

La portavoce dei familiari: “Come cittadini non possiamo accettare avvenimenti come quello”. «Come nazione non possiamo buttare a mare la nostra forza. Dobbiamo avere coraggio e necessità di ritrovarla. Vogliamo giustizia. Se manca giustizia, uno Stato democratico non ha senso». Queste le parole di Egle Possetti, rappresentante dei familiari delle vittime: «Abbiamo perso un pezzo del nostro cuore, che non ci potrà più essere restituito la loro è stata una morte assurda che non possiamo rassegnarci ad accettare. Stiamo sopravvivendo da un anno e vorremmo tornare a vivere ma è come una montagna da scalare. Non possiamo più pensare di abbracciarli e vedere il loro sorriso. Quanto accaduto è inaccettabile. Per la loro memoria dobbiamo accertare la verità». E «come cittadini non possiamo accettare che eventi di questo genere possano accadere. Non possiamo restare inermi, chiediamo un segnale concreto affinché i cittadini possano sentirsi tutelati».

Il minuto di silenzio. Presenti alla commemorazione anche i due vicepremier Matteo Salvini, per il quale «Genova è come Viareggio. Quelle stragi che non possono rimanere impunite, la rabbia dei familiari è anche la mia», e Luigi Di Maio, che ha ribadito parlando ai giornalisti che «il nostro dovere di fronte a tragedie come questa è di avviare le procedure per la revoca della concessione. Siamo qui a commemorare queste vittime perché qualcuno che doveva mantenere in piedi questo ponte non ha fatto il suo dovere». Molti familiari delle vittime non hanno preferito non esserci «perché si tratta di una passerella per i politici». Alle 11,36, momento esatto del crollo, c’è stato un minuto di raccoglimento in tutta Genova. A rompere il silenzio solo il suono delle campane delle chiese della città e il fischio delle sirene delle navi attraccate al porto. Con due messaggi sui loro siti web anche Genoa e Sampdoria si sono stretti alle famiglie delle vittime. A Genova anche Andrea Baldassini, sindaco di Oleggio, accanto ai familiari di Cristian Cecala, di sua moglie Dawna e della piccola figlioletta Crystal, le tre vittime del disastro, residenti nel comune del Novarese. I Cecala erano partiti da Oleggio diretti a Livorno, dove avrebbero dovuto imbarcarsi per l'Isola d'Elba: su quel traghetto non sono mai saliti. I loro corpi furono ritrovati solo quattro giorni dopo il crollo, dentro la Hyundai grigia frantumata da un enorme blocco di cemento.

DAGOREPORT il 14 agosto 2019. Cosa è successo davvero stamane a Genova, durante la cerimonia di commemorazione delle 43 vittime del Ponte Morandi? Le contestazioni nei confronti dei vertici di Autostrade per l’Italia erano genuine o c’è sotto qualcosa che a che fare la battaglia politica di questi giorni? I manager di Atlantia e Autostrade sapevano di addentrarsi in un campo minato, accettando l’invito del Commissario Bucci a partecipare alla funzione religiosa di commemorazione delle vittime del Ponte Morandi di Genova. Così, quando Castellucci e Cerchiai si sono visti venire incontro l’ancora premier Conte che riferiva loro la richiesta di alcuni parenti delle vittime di andarsene dalla cerimonia, hanno preferito non generare problemi e lasciare subito il capannone. “Abbiamo sentito il dovere morale di essere presenti alla funzione religiosa di commemorazione per condividere questo momento di dolore, ricordo e raccoglimento con chi ha sofferto e continua a soffrire” avrebbero dichiarato più tardi. Eppure a Genova, nei palazzi del potere locale a trazione leghista, chi conosce bene i fatti inizia a farsi qualche domanda: è risaputo infatti che Autostrade per l’Italia ha raggiunto un accordo con la quasi totalità dei parenti delle vittime per i risarcimenti. I quotidiani cittadini nei giorni scorsi hanno parlato di risarcimenti a favore di più del 90% delle famiglie delle vittime e hanno evidenziato che oltre 500 imprese ed esercizi commerciali hanno ricevuto (a più riprese) contributi da Aspi che ne hanno evitato il fallimento. Ecco perché, si ragiona nei palazzi genovesi, la richiesta di stamane è anomala. Secondo i bene informati sarebbe arrivata a Conte da due soli gruppi famigliari, da sempre ostili ad Autostrade, non solo per un comprensibile astio personale, ma anche a causa della loro vicinanza politica ai penta-stellati. La loro richiesta alla delegazione di Autostrade di uscire dal capannone della cerimonia, infatti, ha dato subito la stura alle dichiarazioni modello disco-rotto di Di Maio e Toninelli sulla revoca della concessione. Sono stati strumentalizzati? Facile pensare di sí.

Cos’ha causato il crollo del ponte Morandi? I dati e le ipotesi di accusa e difesa. Pubblicato domenica, 11 agosto 2019 da Andrea Pasqualetto su Corriere.it. I fili corrosi, il tirante della pila 9 che non regge, si stacca e il ponte che in tre secondi collassa. Oppure, ma con una probabilità inferiore, il cedimento della strada, tecnicamente un impalcato a cassone vecchio e affaticato da oltre mezzo secolo di vita e di carichi crescenti, traffico, cementi, ferro. «Il ponte Morandi è crollato perché non ce la faceva più a stare in piedi», ha sintetizzato l’immaginifico procuratore Francesco Cozzi snocciolando metafore: «È come se un’automobile giunta all’ultimo stadio non avesse fatto il tagliando generale». Cozzi ci gira intorno ma il centro è quello: mancate manutenzioni e controlli. Ed è la ragione per cui ha iscritto 71 persone e due società nel registro degli indagati. Ci sono dentro amministratori, manager e tecnici di Autostrade per l’Italia (Aspi) e Spea del gruppo Benetton che dovevano gestire e manutenere il ponte, ma ci sono anche dirigenti e funzionari del ministero delle Infrastrutture che avevano il compito di controllare il gestore, e pure di Anas, la società pubblica che gestiva il ponte prima che passasse in mani private. Così, dunque, l’accusa. «Non sono gli stralli la causa primaria del crollo, non è la corrosione, i difetti del ponte derivavano dalla costruzione e non erano tali da comprometterne in alcun modo la tenuta — replica con forza Autostrade per l’Italia — si rigetta, dunque, in toto ogni accusa generalizzata di mancanza di manutenzione». Ma se non c’è stato un cedimento strutturale, cosa può aver causato il crollo? «È stata una combinazione accidentale di eventi sfavorevoli», ipotizza Giuseppe Mancini, il coordinatore dei consulenti di Aspi, ingegnere strutturista, docente di tecnica delle costruzioni e di teoria e progetto di ponti al Politecnico di Torino. Mancini dice di averla un’idea su quel che è successo ma di non volerla rivelare. Si era parlato di una bobina d’acciaio caduta da un camion poi precipitato, del maltempo che la mattina del 14 agosto imperversava su Genova, del vento anomalo, dei fulmini. Se così fosse, naturalmente, le responsabilità del gestore e dei controllori verrebbero fortemente ridimensionate. Accusa e difesa, due posizioni opposte. C’è poi il giudice Angela Maria Nutini con i suoi periti che di recente hanno depositato un documento, questo naturalmente super partes, nell’ambito dell’incidente probatorio sullo stato di conservazione del ponte e le manutenzioni eseguite. L’attenzione si è focalizzata sul reperto 132, la parte terminale di uno dei quattro stralli della pila 9, quello a Sud verso Genova. Per l’accusa potrebbe essere la prova regina. «Il numero dei fili senza corrosione era praticamente trascurabile... L’ultimo significativo intervento di manutenzione risale a 25 anni fa», hanno concluso i periti. «Dal ‘94 non è mai emerso lo stato di corrosione del reperto 132 — ha risposto Aspi —. In ogni caso la presenza di trefoli corrosi tra il 50 e il 100% era ridotta è non può aver avuto alcun effetto sulla capacità di portata del ponte». Botta e risposta, tutto e il contrario di tutto. D’altra parte gli interessi in gioco sono enormi. Un gigantismo confermato dall’indagine della procura: due magistrati esperti impiegati a tempo pieno, Massimo Terrile e Walter Cotugno, con un gruppo di uomini della Guardia di Finanza guidato dai colonnelli Ivan Bixio e Giampaolo Lo Turco; oltre cento gli avvocati, 120 i periti, 75 i testimoni sentiti come persone informate sui fatti. Il tutto mentre venivano eseguiti una trentina di sequestri e perquisizioni che hanno portato all’acquisizione di una quantità immensa di materiale, confluito in due stanze della procura, una piena di carte e l’altra piena di fili e strumenti elettronici, con un cervellone informatico che cerca di far luce nella giungla di 6,3 terabyte di materiale informatico. Ci vorrà del tempo per arrivare a un risultato. «Intanto una cosa la posso dire — chiude il procuratore Cozzi —: essendo io di natura cauto se non proprio pauroso, se avessi saputo tutto quello che ho scoperto in questi dodici mesi, probabilmente per venire al lavoro avrei fatto l’Aurelia, non il Morandi». 

C.Gu. per “il Messaggero” il 14 agosto 2019. Il ponte Morandi non ce la faceva più a stare in piedi. «È morto, come una persona muore di morte naturale. Ora però bisogna appurare se poteva essere salvato, curato. Ed è quello che accerteremo con le indagini», afferma il capo della procura di Genova Francesco Cozzi. Nell'inchiesta coordinata dai pm Walter Cotugno e Massimo Terrile ci sono 74 nomi iscritti nel registro degli indagati, tra cui i vertici di Autostrade e di Spea, incaricata di monitorare le infrastrutture, funzionari del Mit e del provveditorato alle opere pubbliche. Le accuse, a vario titolo, sono omicidio colposo, crollo, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso e omicidio stradale colposo plurimo. Gli uomini della guardia di finanza coordinati dal colonnello Ivan Bixio hanno sequestrato una mole gigantesca di materiale: il contenuto dei server di Autostrade, i messaggi via mail e chat, tutta la documentazione storica del ponte Morandi, dalla progettazione all'intervento di ristrutturazione (mai partito) della pila 9 crollata, le consulenze esterne affidate a Cesi e Politecnico di Milano. Ciò che al momento la procura considera prove importanti sono il video ripreso dalla telecamera della ditta Ferrometal in cui, stando all'accusa, si vedrebbe il punto di rottura del viadotto, e il «reperto 132», l'antenna del lato sud del pilone 9 e i tiranti che avrebbero ceduto. Al momento sono in corso due incidenti probatori: il primo per valutare le condizioni della struttura prima del crollo, il secondo per identificare le cause del disastro. A inizio agosto è stata depositata una relazione tecnica dei tre periti nominati dal gip Angela Nutini: nelle 75 pagine si sono pronunciati sulla manutenzione e sulla conservazione del viadotto, riscontrando «difetti esecutivi» rispetto al progetto iniziale, oltre che degrado e corrosione di diverse parti dovuti alla «mancanza di interventi di manutenzione significativi», si legge nella perizia. Secondo gli esperti il 68% dei trefoli del gruppo primario, all'interno del tirante, e l'85% dei trefoli situati più all'esterno avevano una riduzione di sezione tra il 50% e il 100%. Al termine del secondo incidente probatorio, a dicembre, i periti dovranno pronunciarsi su un quesito ancora più complesso. Ovvero: in che proporzione tutti questi elementi hanno concorso al crollo? Secondo Autostrade alcune valutazioni del primo studio non sono approfondite sotto il profilo scientifico, la manutenzione è stata fatta con puntualità e i problemi di progettazione hanno avuto un ruolo determinante nella sciagura. «La relazione dei periti del gip non evidenzia situazioni di degrado che possano in alcun modo essere messe in relazione con una diminuzione della capacità portante del ponte», rileva la società. Non solo. «L'analisi delle parti crollate ancora presenti al momento dell'inizio dell'incidente probatorio e delle parti non crollate ha messo in evidenza alcuni difetti solo localizzati, peraltro compatibili con l'epoca di costruzione», scrivono i consulenti di parte. Tra le ipotesi che i periti della procura dovranno valutare ci sono anche le piste alternative: la bobina caduta da un camion, un fulmine che ha colpito l'antenna, un carroponte montato per i lavori di manutenzione. Mentre Autostrade punta l'attenzione verso «i tanti medici che hanno avuto in cura il paziente». Dai consulenti ai funzionari del ministero dei Trasporti, sulla cui scrivania c'era il progetto di ristrutturazione mai cominciato.

«Ho perso la famiglia sul ponte Morandi: oggi soccorro gli altri». Pubblicato martedì, 13 agosto 2019 da Corriere.it. «Dopo aver ricevuto tanto, ho voluto dare anch’io: oggi sono un volontario della Croce Rossa Italiana, per aiutare chi ha bisogno. Spero di diventare un buon soccorritore e di farlo nel migliore dei modi. In questa brutta vicenda ho incontrato tanti amici, tante persone che mi hanno voluto bene». Antonio Cecala ha perso mezza famiglia nel crollo del Ponte Morandi e oggi, dopo aver ricevuto l’assistenza in quei giorni drammatici da parte dei volontari della Croce Rossa, ha deciso lui stesso di diventare soccorritore e dedicare parte della sua vita all’aiuto degli altri nelle emergenze e non solo. «La Croce Rossa mi ha aiutato così tanto, psicologicamente e logisticamente, nei giorni successivi al crollo, che oggi voglio restituire qualcosa di positivo e lo faccio mettendomi a loro disposizione». Una tragedia che, dopo tanta sofferenza, è diventata opportunità. È lo stesso Antonio a raccontare la sua storia a Corriere Buone Notizie. Ha perso il fratello Cristian con la sua famiglia (la moglie e una bimba di 9 anni) quel 14 agosto dell’anno scorso. Ricorda ogni minimo dettaglio. «Quella mattina mio fratello parte da Novara, dove abitiamo, con la famiglia per le ferie. Doveva andare a Livorno per prendere il traghetto e non sapevo che strada avesse fatto. Alle 11.30 abbiamo sentito la notizia del crollo del ponte di Genova, ma non pensavo fosse il Morandi. Mi aveva impressionato l’accaduto, ma non pensavo che potesse riguardare mio fratello». Però quelle immagini continuavano a inquietarlo, e per scrupolo decise di chiamare al telefono il fratello: «Risultava libero ma nessuno rispondeva. Quello di mia cognata, invece, risultava spento». Comincia la preoccupazione. «Iniziamo a fare le telefonate alla Questura, ai vari ospedali, a fornire il numero della targa, ma non otteniamo nessuna risposta, non si sapeva nulla». Era davvero strano che il fratello non rispondesse al cellulare. E così pure la moglie. «Nel mio cuore speravo avessero abbandonato l’auto e fossero scappati via, in preda al panico». Le ore passavano inesorabili, nessuna notizia dal fratello: «Era ormai notte e mi consigliarono di partire l’indomani per Genova. Sono arrivato in città molto presto, sono passato da San Martino dove c’erano tutte le liste dei feriti e dei dispersi e dei morti. Lì non risultavano. Sono poi andato in Questura a formalizzare il tutto e sono rimasto lì, ad aspettare che mi dicessero qualcosa». E qui il primo contatto con i soccorritori della Croce Rossa. «Sin dalla prima notte la Croce Rossa ci ha ospitato in una villa vicino a San Martino. Il giorno dopo ancora nulla. Iniziamo a fare la spola tra San Martino e l’obitorio, perché le liste erano di qua e di là. Ma loro non risultavano, perché non erano ancora stati trovati. La sera la Croce Rossa ci ha ospitati di nuovo. L’indomani mattina i volontari ci hanno detto di non tornare a San Martino, perché ci faceva troppo male stare là. Ci consigliano di restare da loro, perché in caso di novità ci avrebbero avvisato. Abbiamo fatto così. Fino a mezzogiorno non era arrivata alcuna notizia. Io e mio cognato siamo andati al ponte perché ancora non c’eravamo stati. Ero furioso, avevo mille pensieri per la testa e nessuna risposta, eppure siamo stati accolti dai volontari della Croce Rossa con grande calore. Ho incontrato Cristina, una psicologa che ha raccolto il mio sfogo. Purtroppo i miei familiari non furono trovati neppure quel giorno, così tornammo a Novara». Arriva così sabato mattina e la notizia tragica: «Ci chiamano per dirci che era stata ritrovata la macchina con dentro i corpi di mio fratello, della moglie e della figlia. Nel pomeriggio ci siamo sottoposti al riconoscimento della salma di mio fratello, con a fianco sempre la Croce Rossa. E poi siamo dovuti tornare anche il lunedì, per riconoscere mia nipote e mia cognata. Anche lì ci ha accompagnato la Croce Rossa e ci hanno poi ospitato nel loro campo base al Ponte Morandi, abbiamo mangiato con loro. Ci sono stati accanto in tutto e per tutto in quei drammatici giorni». È passato un anno dal crollo del ponte e oggi Antonio fa il soccorritore della Croce Rossa, per restituire a questo squadra quello che ha ricevuto: «La Croce Rossa è stata fondamentale per me, sia a livello psicologico che pratico. Io non immaginavo che fosse un mondo così vasto. Si associa il simbolo della Croce Rossa al soccorso in ambulanza, ma non si può immaginare quante attività svolgano». La scelta è arrivata pochi mesi fa. Antonio lo ripete: «Dopo aver ricevuto tanto, ho voluto dare anch’io: oggi sono un volontario della Croce Rossa per aiutare per chi ha bisogno, come loro lo sono stati per me. Spero di diventare un buon soccorritore e di farlo nel migliore dei modi. In questa brutta vicenda ho incontrato tanti amici, tante persone che mi hanno voluto bene».

Demolito il Ponte Morandi: l’esplosione alle 9,37. Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 su Corriere.it. Un suono di sirena per dare il via alla demolizione di ciò che resta del Ponte Morandi di Genova. Alle 9.37 del mattino di venerdì 28 giugno l’esplosione delle pile 10 e 11 del viadotto, preceduta dal suono della sirena ripetuto tre volte: in sei secondi quello che restava dei piloni si è sbriciolato, sollevando una nube di polvere. L’abbattimento con una tonnellata di esplosivo di due pile del ponte crollato il 14 agosto scorso era previsto per le 9 di venerdì ma è slittato: si temeva che ci fosse un anziano barricato in casa. In realtà quando la Protezione Civile è entrata nell’appartamento non ha trovato nessuno. In una seconda abitazione sono stati trovati due extracomunitari che guardavano la tv e che hanno affermato di non sapere nulla dell’evacuazione. Una volta informati, sono usciti di loro spontanea volontà. Oltre 3500 le persone sfollate dall’area nelle ore precedenti la demolizione del Ponte, crollato il 14 agosto del 2018: 43 i morti, oltre 566 gli sfollati. Presenti alle operazioni i vicepremier Salvini e Di Maio e la ministra della Difesa Trenta, oltre alle autorità locali. L’esplosione è stata preceduta dall’avvio degli idranti sotto il viadotto.

Ponte Morandi, le polveri sono pericolose? E dopo la demolizione che succede? Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 su Corriere.it. Al termine di una lunga giornata filata senza sbavature, il sindaco e commissario per la ricostruzione, Marco Bucci, ha rassicurato tutti: «I risultati sono migliori di quelli che ci aspettavamo», ha spiegato. Il picco massimo di Pm 10 durato cinque minuti, tra le 9.42 e 9.46, è stato di cinquemila microgrammi per metri cubo a 90 metri dal ponte, molto al di sopra dei limiti. «Tuttavia — ha spiegato il primo cittadino — il dato è subito rientrato nella norma. Ed ora è addirittura migliore del solito, anche perché in quella zona non circolano veicoli da ore». In serata i 3.500 cittadini evacuati sono tornati alle loro case. Il primo a varcare la zona rossa è stato lo stesso sindaco.

Ciao vecchio Morandi, Genova saprà colmare il vuoto che ci lasci. Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 su Corriere.it. Il primo ricordo è di me bambina, sul sedile di dietro della vecchia Golf di mio padre. Era la metà degli anni Ottanta e stavamo tornando a Genova dopo le vacanze. E come tutte le volte, come tutti i genovesi, lo stavamo facendo passando sopra il ponte Morandi. Ma io mica lo sapevo che si chiamasse così, a quel tempo. Per me era solo quel ponte enorme che vedevi dai finestrini quando tornavi in città. Il «Ponte dell’Autostrada», come lo chiamavano tutti. Dopo decine di gallerie mal illuminate, ti sbucava in faccia enorme, e quel tu-tun che faceva la macchina appena lo imboccavi che se chiudo gli occhi mi pare ancora di sentirlo. Con la 500 e il foglio rosa a 40 all’ora; con la Fiesta a 110; con la Yaris a 130, pochi giorni prima che venisse giù. Ho cambiato auto, passeggeri, ho usato quelle degli altri, sono andata sempre più veloce, come tutti, sono cambiata io e sono cambiati gli altri. È cambiata Genova, con le sue case sempre più ammassate e i capannoni che hanno preso il posto delle fabbriche. Il ponte, sotto le nostre ruote, no. Ogni genovese ha la sua storia legata al Morandi. Ogni genovese si è suo malgrado abituato nell’ultimo anno a farne a meno, imparando a memoria i sensi unici della Val Polcevera. Ognuno di noi venerdì alle 9,37 ha trattenuto il fiato. Poi ha detto addio per sempre a una parte di sé e a quella audacia che nel 1967 portò quel ponte al centro d’Italia e del mondo. Quella audacia che sarebbe servita per abbatterlo prima che venisse giù da solo, ammazzando 43 persone. Quella audacia che ora Genova dovrà avere, e ha sempre avuto dopo i disastri degli ultimi anni, per uscire dal lutto, riempire quel vuoto e ricominciare.

Ecco come sarà il nuovo ponte L’idea di Piano: 43 vele di luce. Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 su Corriere.it. La non-idea progettuale è un nastro semplicissimo. Il lembo est della città è legato a quello ovest da una striscia d’asfalto che corre su tantissimi pilastri la cui forma — se guardati da nord o da sud — ricorda la prua delle navi. Niente stralli e campate corte a esclusione di quelle che passano sulla ferrovia e sul Polcevera, un po’ più lunghe. Rigore e sobrietà. O, per dirla ancora con lo stesso Renzo Piano, «un’idea di ponte che esprime anche un po’ della nostra parsimonia, del nostro atteggiamento». Non più un ponte da attraversare al buio ma costellato di altissimi steli che di notte lo illumineranno: lampioni dalla cui sommità si irradieranno luci a forma di vele. Ogni notte una regata nel buio della valle, per illuminare il ricordo di chi non c’è più. Perché quei lampioni saranno 43, uno per ciascuna delle vite schiacciate e perdute sotto le macerie del Morandi. Bruno, Melissa, Samuele, Stella, Gennaro, Mirko e tutti gli altri. Sarà impossibile passare sul ponte immaginato da Piano e non pensare almeno per un istante all’incrocio delle loro esistenze nel momento e nel posto sbagliato. Sarà impossibile a prescindere. Ma di notte, alla luce delle «loro» vele, lo sarà di più. «Da quando è successo io non penso ad altro» ha detto ieri l’architetto all’amico Toti. «Ho aspettato un po’ prima di chiamare te e Bucci perché ero scioccato. Io stesso quel ponte l’ho percorso mille volte...». Era in montagna, Renzo Piano. Ci ha pensato notte e giorno per quasi una settimana, poi ha chiamato sindaco e presidente della Regione: «Vorrei mettermi a disposizione della mia città per dare una mano, a titolo gratuito». Ieri l’incontro in Regione, con l’immagine di quella che lui chiama «idea di ponte» e che «sia chiaro, sarà un’opera corale perché non voglio sostituirmi né a ingegneri né ad architetti che saranno chiamati a lavorare sul contesto urbano». «Adesso bisogna che la città ritrovi il suo orgoglio e il suo riscatto», ha commentato alla fine di quella riunione. Ai microfoni di Sky ha parlato di «ponti che non possono e non devono cadere». Il crollo del Morandi «è stata una botta terribile», ha detto, «però chissà che la ricostruzione non diventi un momento di solidarietà». Quello del ponte, ha detto Piano, «è un tema che tocca tutti e tutte le corde: da quella tecnologica a quella poetica». E immaginando il cantiere del nuovo viadotto ha pensato a «momenti belli perché i cantieri sono momenti che uniscono, in cui le differenze si mettono un poco da parte e nasce l’orgoglio, sono momenti di partecipazione e di idee». L’inizio dei lavori? «Bisogna fare rapidamente ma non in fretta».

Genova ore 9.37: esplose le pile 10 e 11, il ponte Morandi non esiste più. Gli idranti in funzione, la sirena, il silenzio di migliaia di persone che osservano e poi le deflagrazioni e una nuvola bianca. Michela Bompiani e Marco Preve il 28 giugno 2019 su La Repubblica.  E' una delle giornate più calde degli ultimi anni ma alle 9.37 quando le pile simbolo di quello che fu il ponte Morandi collassano a terra, un brivido percorre la schiena di chi sta osservando questo strano spettacolo. Strano perché è l'addio a un ponte che ha “tradito” la comunità, ma è anche un simbolo che se ne va, quello dell'illusione di uno sviluppo che negli anni '60 si pensava inarrestabile e indistruttibile, proprio come il viadotto. L'esplosione è avvenuta come programmato. Dopo il ritardo provocato da un inquilino che non aveva voluto uscire dal suo appartamento invece delle 9 le operazioni sono slittate. Alle 9.28 sono entrati in funzione gli idranti che alla base delle pile 10 e 11 hanno bagnato il terreno per ridurre le dispersioni di polvere. Alle 9.32 la sirena ha iniziato a suonare avvolta dal silenzio delle migliaia di persone che in vari punti stavano assistendo alle ultime ore del Morandi. Alle 9.37 le esplosioni: immediata una grande nuvola bianca ha avvolto le pile che collassavano e i palazzi attorno. Poi lentamente la polvere si è depositata e quel panorama al quale i genovesi erano abituati dal 1967 era scomparso definitivamente. Subito dopo si è alzato in volo il drone per il primo sopralluogo, cui seguirà quello degli artificieri dell'esercito. Sono state abbattute le celebri pile che erano il tratto distintivo dei ponti costruiti negli anni '60 da Morandi, ma che, a causa degli stralli inglobati nel cemento, rappresentano anche il tallone d'Achille come sembrano dimostrare le indagini, secondo le quali proprio fra stralli e pile si sarebbe verificata la rottura che ha causato il crollo e la morte di 43 persone. Il sindaco Bucci subito dopo l'esplosione: "Tutto è andato secondo programma. Più tardi verranno eseguiti i sopralluoghi per le verifiche. Ringrazio tutti coloro che hanno collaborato. Con questo giorno Genova velocizza la sua ripresa". Matteo Salvini rifiuta di rispondere alle domande sulla Sea Watch: "Oggi è la giornata di Genova e del sindaco". Il ministro dell'interno e l'altro vicepremier Luigi Di Maio si sono ignorati durante tutta la fase della demolizione. All'alba il sindaco Marco Bucci era già nella sala controllo con i tecnici e i vigili del fuoco per predisporre gli ultimi dettagli e verificare con la struttura commissariale ogni fase della mattinata. Poco dopo le 6 sono iniziate le operazioni di sgombero degli ultimi residenti nella zona di via Fillak. Le operazioni, coordinate dalla Protezione civile, sono proseguite fino a che tutte le oltre 3.400 persone che vivono nella zona rossa non sono uscite dalle loro abitazioni. In cantiere intanto i fochini (gli addetti al brillamento), arrivati alle pile alle 5:30, hanno predisposto i materiali utili per le volate che hanno distrutto i due monconi. Ancora sotto i riflettori di tutto il mondo, per l’ultima volta, per sei secondi, è il ponte Morandi: fiato sospeso, oggi, per l’esplosione delle pile 10 e 11 del viadotto sul Polcevera. Per questo la struttura commissariale del sindaco Marco Bucci e la protezione civile nazionale, regionale e comunale hanno messo a punto la più grande evacuazione della storia di Genova - che coinvolge 3400 persone, mentre saranno operative la sala dalla protezione civile in Prefettura, quella regionale e il Centro operativo comunale, come nei casi di allerta meteo. Ad assistere al crollo definitivo, e all’unica demolizione con esplosione dell’ex Morandi, sono arrivati a Genova il vicepremier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, il vicepremier e ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, che ieri è tornato sulla questione della revoca della concessione ad Autostrade, rimettendola al centro dell’agenda e non ha riacceso la miccia con il gruppo Benetton: «I Benetton sono stati più veloci a rispondermi, minacciando azioni legali, che a chiedere scusa ai familiari delle vittime di Genova», ha detto. A Genova anche la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta. Sono ospitati in un’area di sicurezza, nei pressi dell’Ikea, messa a punto dalla struttura commissariale: a fare gli onori di casa, ovviamente, il commissario per la ricostruzione, e sindaco, Marco Bucci e il presidente della Regione, e commissario per l’emergenza, Giovanni Toti. Dopo l’implosione delle pile 10 e 11, è previsto il trasferimento nello stabilimento Fincantieri di Sestri per esaminare le travi arrivate tre giorni fa, a bordo di una chiatta, e che costituiranno una parte per l’impalcato del nuovo ponte di Genova. «È tutto pronto - ha detto ieri Bucci - tutti i detonatori sono stati posizionati. Non esiste il rischio zero, ma dal punto di vista tecnico il rischio per la popolazione può essere considerato irrisorio». «Una giornata importante per l’Italia intera - aggiunge Toti - pensiamo alle 43 vittime e alle famiglie, agli sfollati, ai feriti, ai sopravvissuti, alla voglia di giustizia per un evento assurdo che non doveva succedere». Due gli osservati speciali, subito dopo l’esplosione: il traffico, soprattutto dei mezzi pesanti, e le 9 centraline di Arpal e le 4 della rete dell’Ecoistituto Genova-Reggio Emilia che rileveranno i dati dell’aria. Sarà continuo il monitoraggio delle polveri sottili e delle fibre di amianto: nove pompe aspireranno su un filtro dieci litri d’aria al minuto e, ogni tre ore, saranno portati ai laboratori della Fiumara. Proprio i risultati delle rilevazioni faranno scattare il rientro delle persone nelle proprie abitazioni. Oggi Arpal schiererà 30 tecnici che cominceranno i monitoraggi prima dell’esplosione. Secondo il cronoprogramma della struttura commissariale, le persone potranno rientrare nelle loro case alle 22, ma in base ai risultati ciò potrebbe essere anticipato o posticipato. Per questo la Protezione civile regionale ha allestito, alla Fiera, 1200 brandine per ospitare, eventualmente, chi dovesse essere costretto a passare la notte lontano da casa. Il traffico è l’altro nodo su cui hanno lavorato la struttura commissariale e tutte le istituzioni. Autostrade ha predisposto, sulla base dell’ordinanza della prefetta, la chiusura del tratto di A7 compreso tra la barriera di Genova Oveste e lo svincolo per l’A12, dalle 7 alle 22. E ha organizzato un servizio di assistenza al traffico pesante, per incanalarlo e gestirlo, secondo corridoi che escludano Genova per il traffico a lunga percorrenza, oppure diluiscano gli accessi per quello in arrivo in porto. L’autorità di sistema portuale ha varato una serie di misure speciali per il bacino di Sampierdarena, con aperture prolungate per i varchi di San Benigno e di Ponente, che oggi apriranno alle 5 anzichè alle 6. Orario prolungato anche domani, con apertura straordinaria dalle 14 alle 18.

Demolizione Morandi, l'esplosivista: "Dovevo buttarlo giù nel 2003". L'ipotesi, poi abbandonata nell’ambito del progetto di costruzione della nuova Gronda autostradale. La Repubblica il 28 giugno 2019. Danilo Coppe, l'esplosivista titolare della Siag di Parma, aveva avuto incarico da Aspi nel 2003 di demolire il Morandi. Lo ha detto lo stesso Coppe questo pomeriggio durante la conferenza stampa rivelando che poi il progetto non era stato eseguito perché l'operazione si era rivelata troppo costosa e complessa. In quegli anni in effetti Autostrade aveva valutato l'ipotesi di abbattere il Morandi. SI trattava di una delle soluzioni all'interno dell'operazione Gronda. Si doveva infatti realizzare la bretella autostradale di ponente e fra le varie opzioni allo studio c'era sia quella di affiancare il Morandi alla Gronda che quello di abbattere il viadotto che all'epoca era già ritenuto sovraccarico e vetusto anche se nessuno aveva mai avanzato ipotesi di crollo o cedimenti. Negli anni la Gronda ha incontrato problemi e opposizioni e non è ancora stata realizzata nonostante fosse stata approvata.

Filippo Facci, il drammatico errore di Genova: perché il Ponte Morandi è stato demolito nel peggiore dei modi. Libero Quotidiano il 29 Giugno 2019. Assistere alla stessa scena (un ponte che crolla) ma nel 2018 disperarsi, e nel 2019 invece festeggiare. In tempi di grillismo abbiamo preso ad accontentarci: smaltita la sbornia di chi, nell' agosto 2018, prometteva ricostruzioni in otto mesi o punizioni mostruose per i colpevoli e magari una loro espulsione dalla Via Lattea, o perlomeno dalle liste dei concessionari. Intanto, undici mesi dopo, dopo aver fatto sfollare 3.400 persone per garantire le operazioni in sicurezza, nel giorno più caldo e apparentemente sfigato dell' anno, dinamite e plastico hanno fatto collassare la struttura del viadotto Morandi con espressioni addirittura d' emozione per i ministri dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, dell' Interno Matteo Salvini, della Difesa Elisabetta Trenta e anche di chi si è sbattuto davvero, come il sindaco e commissario Marco Bucci e il governatore Giovanni Toti. No, Danilo Toninelli non c' era. E se da un lato sembra clamoroso, a ben pensarci è stato meglio così: chiamiamola questione di sicurezza anche questa. Non era giorno per contestazioni, e poi Toninelli è il classico personaggio capace di calpestare un detonatore per sbaglio. Per il grillini: trattasi di battuta. Resta che undici mesi dopo siamo ancora lì a spostare macerie. Con tutto l' ottimismo di questa Terra, per molti genovesi, e non solo genovesi, essere ancora alla demolizione suona discretamente vergognoso. La demolizione di ieri sì, certo, era anche un fatto emotivo, un episodio che non poteva non far tornare alla memoria le 43 vittime, gli sfollati, una città che da allora è nel caos, ma anche i brandelli di ricordi che quel ponte rappresentava tutti i giorni per tanti genovesi (parliamo di sessantamila mezzi quotidiani) e periodicamente per chi, ogni tanto, ci passava anche solo per andare in vacanza. Non ci sono state sirene, prima: in un attimo il ponte è crollato come se fosse stato di farina. Una sirena è suonata dopo, mentre i getti d' acqua attenuavano gli effetti della polvere. Insomma, l' atmosfera da funerale c' era tutta.

INCERTEZZA SUI TEMPI - Resta anche da capire perché la preparazione di un funerale abbia necessitato di un intero anno, e, soprattutto, urge capire quando il ponte sarà ricostruito per davvero. Bucci e Toti parlano di primavera 2020, e gli altri copiano e ripetono. Qualcuno accusa i tempi biblici della magistratura per il dissequestro del ponte, e qualcosa di vero c' è. Altri - molti di più - ricordano che i ministri grillini non sapevano che cosa fosse una concessione autostradale e che persero molto tempo nel cercare di revocarla. Altri ancora che gli stessi ministri combatterono una perdente battaglia perché non volevano Bucci come commissario, e che il decreto licenziato dal governo a settembre 2018, per avviare la ricostruzione, conteneva anche norme su altri temi come il condono a Ischia: fu una polemica che impantanò tutto, soprattutto quando Toninelli (contestato perché «giocava col cellulare invece di ascoltare») esultò col pugno alzato. La promessa di ricostruire il ponte entro la fine del 2018, più volte rilanciata, risale a quei giorni, e spesso non venne abbandonata neanche davanti all' evidenza. Ci fu la questione dell' amianto: guai a rischiare di spararlo in giro con un' esplosione. Sta di fatto che la questione ambientale ha allungato parecchio il brodo anche perché l' hanno affidata a un apposito subcommissario, Luciano Grasso, un dirigente della Sanità ligure: da qui gli accertamenti dell' Arpal (agenzia regionale dell' ambiente) e l' azione instancabile ma lenta della magistratura che doveva gestire i sequestri del materiale da sottoporre a perizie continue, così da tempo ai tecnici di studiare per accertare le responsabilità. Il tutto senza perdere troppo tempo: utopia. Con, a Roma, la sponda istituzionale grillina: doppia utopia. «Bisogna cominciare a lavorare sul ponte per tirarlo giù prima di Natale» esortava il povero commissario Bucci ancora nel 2018: e l' hanno demolito ieri. Intanto, come una piaga d' Egitto, imperversava Toninelli. Il suo cattivo gusto resterà negli annali. Nel pieno del disastro, era partito per le vacanze e si era fatto fotografare sorridente con moglie e cappellino della Guardia Costiera: «Qualche giorno di mare con la famiglia con l' occhio sempre vigile su ciò che accade in Italia». Nel settembre successivo parlò di rendere il ponte «un luogo vivibile, un luogo di incontro in cui le persone si ritrovano, possono vivere, giocare, mangiare». Un ponte. Un viadotto autostradale sospeso a 45 metri dal suolo. Di seguito inventò che «la famiglia Benetton era ed è azionista di punta dei gruppi che controllano quotidiani come La Repubblica, L' Espresso, Il Messaggero. Ecco il motivo per il quale i media attaccano il Governo del Cambiamento».

Nota: i Benetton non sono mai stati azionisti di questi gruppi. Poi, a Porta a Porta, Toninelli rise accanto alla riproduzione del ponte Morandi e scatenò perciò la rabbia dei telespettatori. In risposta, postò una foto per sfoggiare un nuovo taglio di capelli: «Ho revocato la revoca della concessione al mio barbiere». Doveva essere una battuta. Non sarà una battuta, invece, che il 5 novembre, al Senato, si accorsero che per il decreto Genova mancavano le coperture finanziarie: anche perché al ponte crollato, nel decreto, erano stati riservati in realtà 16 articoli su 45. Non val la pena di soffermarsi su come andò a finire.

TRACCE DI FUTURO - I genovesi, oggi, vedono solo che un ponte di un chilometro e 182 metri non c' è definitivamente più. Ci sono tracce di futuro: travi calate a terra, gru altissime, mezzi, uomini e cantieri: Fincantieri, Italferr, Salini Impregilo. L' altezza dal suolo passerà da 50 a 25 o 30 metri. Dovevano inizialmente essere 43, un omaggio ai caduti. Corsie? Sempre due: assurdo. In compenso hanno già fatto sapere che sul nuovo ponte non si potrà correre a 80-90 all' ora come sul vecchio. Già rompono le palle.

«15 aprile 2020», data di fine lavori. Il commissario Bucci lo ripete da mesi. E poi a ruota lo ripetono tutti, senza saperne niente: dal presidente del consiglio Giuseppe Conte al ministro Toninelli, che ha aggiunto un monito: «Non sarà tollerato un minuto di ritardo». Come se smettere di tollerare spettasse a lui. Come se non fosse il ministro delle Infrastrutture e un ponte non fosse un' infrastruttura. Non manca chi dice che non aver lasciato ricostruire ad Autostrade sia stato un errore: in effetti avevano già tutte le carte del caso senza perdersi in fori pilota e neo esami ambientali che, oltre al tempo, hanno fatto spendere un sacco di soldi. In fondo era stato l' amministratore delegato Giovanni Castellucci a dire che potevano fare un ponte nuovo in otto mesi. Ma i vari Toninelli erano troppo incazzati. Ora non abbiamo il ponte: neanche l' ombra. Ma abbiamo Toninelli. Filippo Facci

·         La Preside arrestata.

La Preside arrestata. Maurizio Vezzaro per La Stampa il 16 aprile 2019. «Non c’è reato, non c’è nemmeno il dolo. Sono rimaste incredule anche le altre detenute quando gliel’ho raccontato». Anna Rita Zappulla, 62 anni, la preside di Ipsia e Colombo arrestata per aver usato l’auto didattica della scuola come se fosse propria (ci è andata in Francia e in Piemonte), ieri nei corridoi dell’ufficio del gip d’Imperia Massimiliano Rainieri era un fiume in piena. Ha raccontato anche di essersi sentita male al suo arrivo a Pontedecimo, di aver perso tanto sangue, di essere stata curata con le flebo e di aver avuto intenzione di fare lo sciopero della fame e della sete e di volere un processo «aristotelico». Tutto questo poco prima di entrare nell’ufficio del gip per l’interrogatorio di garanzia. Era affiancata dal suo legale, l’avvocato Andrea Rovere. C’era anche il pm Luca Scorza Azzarà, titolare dell’inchiesta (il primo provvedimento era stato preso dal procuratore aggiunto Grazia Pradella che era di turno e che comunque coordina le indagini in cui sono coinvolti dipendenti della pubblica amministrazione). Alla fine dell’interrogatorio, durato un’ora circa, la Zappulla è stata scarcerata. Deve essere ancora decisa la misura cautelare da adottare, che potrebbe andare dai domiciliari all’obbligo di firma o, come richiesto dallo stesso avvocato Rovere, «alla sospensione dal servizio: è sufficiente per evitare reiterazioni o inquinamento delle prove». La Zappulla ha ammesso di aver usato sì l’auto ma solo a «scopi istituzionali». Ha spiegato l’avvocato Rovere: «Anche i viaggi a Mentone avevano un fine analogo (al ritorno dalla Francia, sabato pomeriggio, la preside era stata bloccata e arrestata dai carabinieri, ndr): nell’ultimo era andata a discutere di questioni di lavoro con la segretaria scolastica che abita appunto a Mentone. Se poi al ritorno dai viaggi si fermava a fare la spesa, bè si può parlare di un uso promiscuo dell’auto ma non certo di un uso esclusivo». Rovere ha inoltre polemizzato con la decisione di mandare in carcere Anna Rita Zappulla: «Si poteva da subito optare per i domiciliari evitando quello che a mio avviso è stato un eccesso di spettacolarizzazione. Presumo che ci sia stato qualche problema di comunicazione tra uffici inquirenti, può succedere nei giorni di vigilia e festivi».

Estratto dell’articolo di Alice Spagnolo per riviera24 il 16 aprile 2019. «La preside era andata a Mentone per incontrare la segretaria e compilare moduli per accedere a finanziamento europeo: con il suo arresto, sono andati persi 400mila euro di fondi per la scuola». A dichiararlo, sottolineando che «non è colpa di nessuno» è l’avvocato Andrea Rovere, legale difensore di Anna Rita Zappulla, la preside arrestata sabato sera con l’accusa di peculato per aver usato impropriamente l’auto di proprietà della scuola. (...)

Caso Zappulla, il gip: «la preside non doveva andare in carcere». Il giudice Massimiliano Ranieri sottolinea «lo strepito mediatico»: «incomprensibile che sia finita in carcere». L’avvocato Rovere: «anche se si fosse trattato di peculato l’arresto sarebbe stato facoltativo», scrive Simona Musco il 18 Aprile 2019 su Il Dubbio. Non è chiaro il motivo per cui Anna Rita Zappulla, la preside arrestata per aver usato «come fosse propria» l’auto della scuola, sia stata portata in carcere. Dove è rimasta due giorni, anche dopo aver avuto un’emorragia a causa di alcuni problemi di salute e nonostante il pm abbia chiesto i domiciliari. E non è chiaro dal momento che «non vi è neppure un elemento concreto» che potrebbe giustificarlo. È un caso strano quello della preside dell’istituto tecnico professionale Marconi di Imperia, arrestata al confine con la Francia come una pericolosa latitante. Perché per il giudice che martedì ha scarcerato la donna non ci sono elementi per parlare di peculato, ma solo di peculato d’uso, per il quale «l’arresto in flagranza non è consentito». Anna Rita, invece, pedinata per settimane, spiata col satellite che ha registrato ogni suo spostamento, è stata bloccata al rientro da Mentone – dove era andata, dice, per sbrigare una pratica scolastica – e condotta in carcere con uno «strepito mediatico», appunta il gip, che renderebbe comunque improbabile qualsiasi reiterazione. «Anche se si fosse trattato di peculato, l’arresto sarebbe stato facoltativo», spiega al Dubbio il legale della donna, Andrea Rovere. Che parla di una «spettacolarizzazione fuori dal normale». Dopo essere stata arrestata, la preside ha trascorso parte della notte in pronto soccorso, per poi tornare in carcere, in attesa dell’interrogatorio di garanzia. «Come mai, dopo l’arresto, la stessa procura ha chiesto al gip gli arresti domiciliari? – si chiede Rovere – È molto strano». La donna, spiega Rovere, ha usato l’auto della scuola dopo aver distrutto in un incidente, avuto a febbraio scorso, la propria. «Ha usato così una Toyota regalata alla scuola per essere smontata e rimontata dagli studenti e sempre per motivi assolutamente istituzionali – sottolinea – Le è capitato di fermarsi a fare la spesa, ma pagava benzina e autostrada di tasca propria, senza mai chiedere un rimborso, anche quando la usava per motivi istituzionali, proprio per via dell’uso promiscuo che ne faceva. Non c’è stato alcun danno erariale». Non c’è stata nessuna richiesta ufficiale per l’utilizzo dell’auto, ma solo perché «avrebbe dovuto farla a se stessa, essendo la preside – aggiunge – ma lo ha comunicato comunque alla segreteria» . La donna, che ieri è tornata a scuola, «riuscendo a salvare quel finanziamento che, a causa dell’arresto, rischiava di andare perso», in caserma aveva provato a giustificarsi. «L’autorità di gestione Pon richiedeva che alcuni documenti fossero inseriti con una scadenza imminente», motivo per cui si sarebbe recata dalla sua segretaria, residente a Mentone. «Tutte le volte che l’auto viene monitorata all’estero – ha aggiunto – è per lo stesso motivo, a spese mie». E l’auto «non era nel mio esclusivo utilizzo, difatti qualora servisse ad altri colleghi per trasportare materiale o per eventuali corsi di formazione veniva utilizzata dagli stessi. Non ho mai negato l’utilizzo dell’auto quando veniva richiesto». Nessuno, però, «mi ha mai chiesto l’utilizzo della Toyota – ha concluso – Era in mio uso continuativo, ma gli altri la potevano utilizzare tranquillamente per le esigenze di servizio». Per il pm, che parla di «spregiudicatezza», Anna Rita Zappulla si sarebbe invece appropriata dell’auto, «parcheggiandola, anche in orari notturni, nel condominio della propria abitazione e distraendo quindi lo stesso veicolo dagli scopi istituzionali». E ciò giustificherebbe l’accusa di peculato, alla quale la procura è arrivata dopo la segnalazione di un collega, secondo cui le giustificazioni della donna sarebbero «una pantomima creata ad hoc» : nessuno oltre lei, ha protestato davanti al pm, avrebbe potuto utilizzare quell’auto, tanto che in almeno due occasioni i colleghi sarebbero stati costretti a spostarsi con i propri mezzi per missioni ufficiali. Per il gip Massimiliano Ranieri, però, «non risulta che vi sia stata una sottrazione alla destinazione pubblicistica originaria del mezzo che è rimasto a disposizione dell’ente per eventuali impieghi istituzionali». Nulla più che peculato d’uso, per il quale l’arresto è impossibile. Ma anche se si fosse trattato di peculato, aggiunge, «si verserebbe in ipotesi di arresto facoltativo», consentito solo in caso di fatti gravi, compiuti da soggetti pericolosi e con modalità particolari. «Condizioni che, nel caso in esame, mancano» precisa il gip, essendo Zappulla «un’ultrasessantenne plurilaureata e incensurata». E il pm «non le ha indicate, né ha chiarito le ragioni per cui l’indagata, per la quale ha richiesto gli arresti domiciliari, sia stata condotta in carcere».

“CON ME IN PRIGIONE ABBIAMO PERSO UNA PARTE DI FONDI EUROPEI”. Marco Preve per “la Repubblica” il 17 aprile 2019. «L' incontro con le detenute, donne di tante nazionalità con dieci anni di carcere davanti a loro, è stata un' esperienza di vita incredibile che mi ha arricchito. Ma naturalmente non la auguro a nessuno, specie dopo un' emorragia e il ricovero in ospedale tutto per un' automobile». Anna Rita Zappulla è la preside di Imperia arrestata sabato scorso perché accusata di utilizzare l' auto di una delle scuole che amministra, l' Ipsia. Ieri il gip, accogliendo la richiesta dell' avvocato difensore Andrea Rovere, ha scritto che non c' erano elementi per arrestare una donna di 62 anni, incensurata e non pericolosa. L' accusa è stata derubricata in peculato d' uso e seguirà il suo corso.

Professoressa, ci racconti l' arresto.

«I carabinieri, cortesi ma inflessibili, mi hanno portata in caserma e non mi hanno neppure concesso di parlare al mio compagno. Forse per lo stress ho avuto un' emorragia renale e ho perso del sangue. Mi hanno portata in ospedale, mi sono state fatte delle flebo e poi sono state trasferita al carcere di Pontedecimo a Genova.

Prima in infermeria e poi in cella con le detenute dove ho anche fatto lo sciopero della sete e della fame, preoccupando non poco gli agenti di guardia, anche loro molto professionali. Apprezzo il coraggio del giudice che non ha convalidato l' arresto, d' altra parte ho sempre avuto fiducia nello Stato, perché anche io servo lo Stato».

Però l' utilizzo dell' auto della scuola per fini privati è un illecito.

«Guardi, ho iniziato a servirmene perché la mia auto personale è rimasta mezza distrutta dopo un incidente. E soprattutto per ragioni di servizio, visto che amministro tre scuole con 17 plessi in vari Comuni. Tutto a mie spese. Poi è vero, l' ho utilizzata privatamente per ragioni di prima necessità ma era sempre a disposizione dei colleghi».

I colleghi non la amano, l' hanno denunciata loro.

«Su questo punto ci sono alcuni episodi pregressi. Intanto bisogna vedere se prima di me l' auto la usava qualcun altro. Poi ho sostenuto nei ricorsi, che hanno vinto, i famigliari di ragazzi disabili bocciati, e questo con alcuni docenti non mi ha reso popolare. Lo scorso anno mi denunciarono al Provveditore perché mi sarei fatta accompagnare a Londra per un viaggio di lavoro dal mio compagno.

Una falsità che il provveditore ha chiarito dopo aver convocato delle testimoni, insegnanti che parteciparono alla trasferta. Peraltro il mio compagno non può prendere l' aereo per questioni di cuore, figuriamoci. Avevo detto al Provveditore che avrei dovuto querelarlo e ora non è detto che non lo faccia».

E il viaggio a Mentone di sabato?

«Per definire con la segretaria del Colombo, che abita lì, delle pratiche per i fondi europei in scadenza questa settimana. Tra l' altro, con me in prigione una parte li abbiamo persi, domani tornerò a scuola per cercare di non veder sfumare anche quelli che ancora si possono ottenere».

·         Alluvione di Genova: «Vincenzi è colpevole».

Alluvione di Genova: «Vincenzi è colpevole». La cassazione chiede la riduzione della pena per l’ex sindaca, scrive Errico Novi il 13 Aprile 2019, su Il Dubbio. Condanna confermata ma pena da rideterminare. La quarta sezione penale della Cassazione ribadisce la tesi dei giudici di primo e secondo grado: l’ex sindaco di Genova Marta Vincenzi è colpevole di omicidio colposo plurimo e disastro colposo per la morte di quattro donne e due bambine nell’alluvione che travolse Genova il 4 novembre 2011. Cade però uno dei due capi d’imputazione per falso, sia per l’ex prima cittadina che per gli altri cinque imputati: l’ex assessore alla Protezione civile Francesco Scidone e quattro tecnici del Comune. Sarà una nuova Corte d’appello a stabilire se Vincenzi sconterà in carcere almeno parte della pena, che era stata definita in cinque anni. La tragedia ha uno strascico che sembra infinito. L’esondazione del rio Ferreggiano e alcune decisioni del Comune di Genova costano una condanna comunque pesante per due amministratori e quattro funzionari. Tra tutte, resterebbe determinante la decisione di non chiudere le scuole, circostanza che secondo le sentenze del Tribunale e del primo Appello causò indirettamente la morte di una delle sei vittime. Ma restano anche i tanti dubbi sulla sostenibilità di un quadro normativo che scarica addosso ai sindaci gran parte del peso dei disastri. Una cornice che mostra la sua fragilità a inizio anni Duemila, quando comincia a essere chiaro che la legge istitutiva della Protezione civile non basta. Servirebbe una riordino della disciplina anche sul piano penale, in modo da ripristinare lo spirito del modello organizzativo introdotto nel frattempo per le emergenze meteo, denominato “Augustus” e basato sul principio della collaborazione e della condivisione di responsabilità tra una pluralità di soggetti, non scaricata dunque solo sui sindaci. E invece la riforma non arriva, se non sotto la specie di una legge delega approvata solo un paio d’anni fa con il nuovo “codice della Protezione civile” ( legge 30 del 2017) ma mai tradotto in decreti attuativi. «Seppure il legislatore si fosse dato da fare, non sarebbe servito come scriminante per il caso di Vincenzi», spiega l’avvocato Stefano Savi, difensore dell’ex sindaca, «non si sarebbe trattato di una abrogatio criminis. Ma resta il fatto che le sentenze di primo e secondo grado avevano condannato Vincenzi nonostante avesse rispettato la procedura prevista all’epoca della tragedia». Eppure l’incertezza nella quale si sono mosse le condanne nei confronti della sindaca e degli altri imputati per il disastro del 2011 sembrano figlie di una sorta di nemesi. Consumata con il rovesciamento della “stagione dei sindaci”: dal potere conquistato al crepuscolo della Prima Repubblica da figure come Bassolino e Rutelli all’isolamento nelle responsabilità di fronte ai disastri. È così che si crea la situazione paradossale di cui hanno parlato ieri in udienza i difensori dell’ex prima cittadina di Genova, Franco Coppi e, appunto, Savi: «Una sostanziale impossibilità di determinare il contenuto della responsabilità degli amministratori». Il rischio è arrivare «alla responsabilità oggettiva, che non è ammessa dal nostro codice». Interpellato prima della lettura della sentenza, l’avvocato aveva notato che «con l’interpretazione data nelle sentenze precedenti, se uno fa il sindaco finisce per rispondere di tutto ciò che accade, per il solo fatto di rivestire quella carica. Ecco perché dalla Suprema corte ci aspettiamo che i confini della responsabilità pubblica vengano determinati con precisione, con certezza su quali sono gli obblighi e quali condotte costituiscano reato, come il nostro ordinamento prevede». Non sembra sia andata così. Secondo la tesi esposta ieri in udienza dal professor Coppi, «nessuno aveva avvertito la sindaca quella mattina: un sistema flessibile esige che funzioni tutto alla perfezione. Se si rompe anche il più piccolo ingranaggio il sistema va in malora e non c’è piano che regga: è purtroppo quello che accadde il 4 novembre 2011. Saltò la rotella minima dell’ingranaggio, quella più importante da cui sarebbe dovuta partire la segnalazione». Alla condizione kafkiana che l’ha tenuta inchiodata da 8 anni, Marta Vincenzi ha dedicato un saggio, ancora non pubblicato. «Con l’editore siamo rimasti d’accordo che sarebbe uscito dopo la conclusione del processo», ha spiegato ieri mattina al Dubbio, poco prima che cominciasse l’udienza. Un libro che spiega le distorsione, l’improvviso precipitare delle responsabilità in capo ai sindaci come lei, non certo la sua specifica vicenda processuale. Vincenzi, che è stata anche europarlamentare dei Ds, ha scritto un paio di romanzi, uno intitolato “L’eredità di Marianna”. Nulla che riguardi il disastro del 2011, solo una donna in cerca di verità. Come lei, che non ha mai smesso di interrogarsi sul senso del dolore provocato dalla tragedia di 8 anni fa. Ha sempre saputo solo una cosa: che non avrebbe potuto evitarla.

·         Esami del sangue gratis per amici e parenti.

Analisi facili ad amici e parenti, indagate 2.300 persone a Genova. Almeno 600 dipendenti dell'ospedale San Martino accusati di aver evitato il ticket, e di aver aiutato i familiari ad ottenere prestazioni gratis senza averne diritto, scrive il 28 febbraio 2019 La Repubblica. La procura di Genova ha indagato 2.300 persone nell'ambito dell'inchiesta sulle analisi di laboratorio fatte a amici e parenti senza pagare il ticket all'ospedale San Martino. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri del Nas, tra il 2015 e il 2016, almeno 600 dipendenti avrebbero evitato di pagare il ticket per le analisi di laboratorio e lo stesso hanno fatto in modo che avvenisse per persone a loro vicine. Le accuse, a vario titolo, sono falso, truffa ai danni dello Stato e accesso abusivo al sistema informatico. Il sistema scoperto dai Nas consisteva nel far risultare il paziente ricoverato. L'indagine è partita da alcuni esposti presentati in procura tre anni fa.

Esami del sangue gratis per amici e parenti, 2300 indagati all’ospedale San Martino, scrive il 28 febbraio 2019 Il Secolo XIX. È cresciuto vertiginosamente, rispetto a quanto anticipato questa mattina dal Secolo XIX, il numero delle persone indagate nell’inchiesta sulle analisi di laboratorio fatte gratis ad amici e parenti all’ospedale San Martino del capoluogo ligure: secondo le ultime informazioni, sarebbero ben 2300. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri del Nas, tra il 2015 e il 2016, almeno 600 dipendenti avrebbero evitato a conoscenti, amici, parenti, e anche a loro stessi, di pagare il ticket per le analisi di laboratorio: le accuse, a vario titolo, sono di falso, truffa ai danni dello Stato e accesso abusivo al sistema informatico. Il “sistema” scoperto dal Nas era semplice: per evitare code e ticket, si faceva risultare il paziente ricoverato; poi il dipendente accedeva al sistema dell’ospedale e immetteva i dati della persona; come rivelato dal Decimonono, fra quelli che avrebbero usufruito delle “agevolazioni” ci sarebbero anche alcune suore. L’indagine è partita da alcuni esposti presentati in Procura circa 3 anni fa: secondo quanto appurato, i pazienti avrebbero evitato anche di pagare importi minimi, visto che i carabinieri hanno contestato ticket non pagati per 6, 15 o 36 euro. Nel 2017, la corte dei Conti aveva condannato 37 dipendenti ed ex dipendenti del Laboratorio di analisi del San Martino a pagare un risarcimento di quasi 100mila euro: fra loro, anche il direttore del Laboratorio, Michele Mussap.

·         Salvate Certosa, il quartiere di Genova che sta sparendo.

Salvate Certosa, il quartiere di Genova che sta sparendo. Era una zona di passaggio. Ma da quel terribile 14 agosto in cui è crollato il Ponte Morandi è isolata e deserta: i negozi chiudono, le piccole aziende licenziano. «Da un giorno all'altro siamo rimasti tutti senza lavoro e nessuno sembra accorgersi di noi», scrive Elena Basso il 26 febbraio 2019 su L'Espresso. «Mia figlia ha 5 anni e non sapevo come spiegarle quello che era successo. Come potevo dirle che il Ponte Morandi, che aveva visto ogni giorno da quando è nata, è caduto? Che su quel ponte sono morte 43 persone? Così le ho detto che il ponte era vecchio e tanto stanco. E che per riposarsi ha deciso di scendere giù». A parlare è Diana, 31 anni, nata e cresciuta in una casa così vicina al ponte Morandi che «quando lo hanno costruito hanno dovuto tagliare un pezzo del cornicione». Diana è una delle 566 persone che dal 14 agosto scorso hanno dovuto lasciare la propria abitazione dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova. «È un’esperienza terribile ritrovarsi senza casa da un giorno all’altro – racconta – Per fortuna in questa tragedia abbiamo scoperto di essere un quartiere molto unito: per ridere diciamo che noi non siamo sulla stessa barca, siamo tutti sotto lo stesso ponte». La casa di Diana si trova a Certosa, uno dei quartieri periferici di Genova, uno dei più popolosi della Valpolcevera che conta oltre 12mila abitanti e che si sviluppa intorno al Ponte Morandi. «Abbiamo passato tutta la vita guardando il Ponte – spiega Diana - lo percorrevamo sempre in macchina, portavamo il cane a spasso lì sotto e ci riparavamo dal sole all’ombra del Ponte. Casa mia è così vicina che ho sempre parlato con gli operai che lavoravano lì sopra: come nei film quando dai grattacieli si parla con il lavavetri». Quello di Certosa è un quartiere storico, quasi rionale, in cui famiglie intere abitano da generazioni e dove ci si conosce tutti. La forza economica del quartiere però è sempre stata quella di essere una zona di passaggio obbligatoria per andare e venire da Genova, in cui chi tornava a casa dal lavoro si fermava per commissioni di ogni tipo. «A Certosa ci sono circa 350 attività commerciali» dice Fabio Carletti, vicepresidente del Municipio V «e per la maggior parte il fatturato si è sempre basato almeno al 50 per cento sul passaggio delle automobili». Mentre parla Fabio cammina per via Walter Fillak che è chiusa dal 14 agosto. Sono le 18.30, un orario di punta per il traffico. «Qui a quest’ora c’è sempre stato un passaggio di macchine continuo – spiega - E invece dal 14 agosto è sempre così come lo si vede ora: deserto». La viabilità a Certosa è stata interrotta dopo la caduta del ponte e questa zona è ora del tutto isolata dal resto della città. Se prima per attraversare Certosa occorrevano dieci minuti oggi ci si impiega anche un’ora e mezza: un enorme disagio per i residenti e per i commercianti. «Ci sono aziende che purtroppo hanno già chiuso e altrettante che rischiano di dover chiudere nei prossimi mesi - prosegue Fabio guardandosi attorno - Il ponte Morandi purtroppo è crollato, ma ora non possiamo far morire anche Certosa». Fra i molti che subiscono disagi ci sono anche i residenti delle zone limitrofe al cantiere che dovranno cambiare residenza per tutta la durata della demolizione e ricostruzione del ponte. Per loro nella Manovra Finanziaria 2019 non è previsto nessun risarcimento: un grave problema per un quartiere già in difficoltà da tempo. In via Walter Fillack 168, al limite della zona rossa, si scorge una piccola pompa di benzina, con le macerie del Ponte Morandi alle spalle e le transenne che delimitano il perimetro del distributore. È una mattina piovosa e le gocce d’acqua scorrono copiose sull’ombrello di Toni mentre chiude la porta di vetro del casottino che affianca la pompa. Toni Fontanino, 59 anni, indossa un’impermeabile scuro e ha lo sguardo affranto mentre osserva quello che per tanti anni è stato il suo luogo di lavoro. «Siamo due soci e dal ’90 gestiamo questo distributore di carburante Eni – spiega – Non abbiamo più aperto dal 14 agosto scorso. Abbiamo dovuto sospendere l’attività per un anno. Il mio socio ha trovato un lavoro temporaneo come corriere espresso, ma io ho 59 anni e non ho trovato nulla. Posso solo sperare in un contributo per riuscire a tirare avanti fino a quando non ricostruiranno il ponte». Autostrade per l’Italia negli scorsi mesi ha pagato somme di parziale risarcimento a fondo perduto alle attività commerciali della zona arancione che hanno subito una riduzione a causa della chiusura della viabilità. Purtroppo però la situazione per i commercianti non è riuscita a migliorare nemmeno con questo indennizzo. Come ci racconta Roberta Mariani che dal 1999 è socia e amministratrice unica della piscina comunale di Certosa: «Nei giorni immediatamente successivi alla caduta del ponte abbiamo ricevuto centinaia di richieste di sospensione degli abbonamenti. Abbiamo già registrato un calo del 10-12 per cento e non so quando la situazione potrà migliorare». Alla piscina comunale di Certosa si è registrato un calo soprattutto negli abbonamenti dei bambini: i genitori che dopo la scuola portavano i figli in piscina non possono più farlo se il tragitto da 10 minuti è diventato di un’ora e mezza. Il grave danno che stanno subendo i commercianti di Certosa si estende a tutti i tipi di attività, come ci spiega Marco Finelli, giovane titolare del Bar Giro dal 2011: «Abbiamo sempre lavorato molto con le colazioni, chi andava a lavorare a Sampierdarena passava da via Iori, dove si trova il nostro bar, si fermava per un cornetto e poi proseguiva verso il Ponte Morandi. Ora si passa dall’autostrada o da via 30 giugno, che è stata riaperta da poco e che sembrava dovesse migliorare la situazione. Per noi invece ha solo aumentato il disagio: da qui non passa più nessuno». Purtroppo fra le attività della zona che hanno subito un grave danno c’è anche chi ha già la certezza che non sarà più possibile rialzarsi. In molti hanno già chiuso i battenti e spedito la lettera di licenziamento ai propri dipendenti. È il caso della storica ditta Vergano, che da più di 60 anni vende materiale edile e che si trova nella zona arancione, al limite con quella rossa. Vergano ha 5 dipendenti: 2 segretarie e 3 magazzinieri, ma per loro la situazione è drasticamente cambiata dal 14 agosto. Ne parliamo con Fabrizio Giambarresi, 45 anni, magazziniere presso l’azienda.  «Dalla caduta del ponte non vendiamo più – dice Fabrizio - Continuiamo a tenere aperto, ma ben sapendo che al massimo riusciremo ad arrivare solo alla fine dell’anno. Già due dipendenti hanno ricevuto la lettera di licenziamento e noi tre saremo i prossimi. Io non voglio aiuti, chiedo solo di poter lavorare. Mi sento più sfollato degli sfollati: da un giorno all'altro siamo tutti senza lavoro e nessuno sembra accorgersi di noi». A essere in gravi difficoltà è anche il mercato di Certosa, nato nel dopoguerra e in cui lavorano più di 20 persone. “Abbiamo già dovuto salutare molti clienti che non torneranno più – spiega Federica Filanti, presidente del consorzio Mercato di Certosa - perché hanno dovuto cambiare casa oppure perché non riescono più a raggiungerci con l’auto. E non sembra che la situazione potrà migliorare presto”. A pochi minuti da Certosa, in via Luigi Maria Levati, si trova un’area dismessa che è diventata un museo a cielo aperto. Poggiate su questo grande spiazzo nel bel mezzo della zona industriale di Genova si trovano le macerie del ponte Morandi. Tutta l’area è stata circondata da grandi teli scuri per impedire che gli autisti si fermino a bordo strada a osservare, ma nonostante i teli i cumuli di macerie son ben visibili e le persone che si fermano sono moltissime. Le macerie sono divise in tre enormi cumuli. Il primo è un ammasso grigio composto dalle pietre e dal cemento del viadotto. Il secondo ha il colore della ruggine e si staglia altissimo contro il cielo azzurro, sono i fili che costituivano l’ossatura del ponte. E infine c’è il terzo cumulo: disposte ordinatamente, tutte numerate, ci sono le carcasse delle macchine che quel giorno si trovavano sul ponte e che sono franate a terra. Alcune vetture hanno solo i vetri frantumati, altre invece sono completamente accartocciate sulle proprie lamiere e le macchie di sangue sono visibili in molti punti. «Non ci dimentichiamo mai che 43 persone su quel ponte hanno perso la vita. Noi sfollati mugugniamo, ci lamentiamo, ma non dimentichiamoci che siamo vivi». Virgilio Tasso ha 68 anni e abitava in via Porro, proprio «sotto quel moncone di ponte che è caduto». Virgilio ha il viso abbronzato e dei grandi occhi azzurri, ha il fisico robusto di un uomo di mare. Si è trasferito nel ’71 a Certosa, scelto come quartiere insieme alla moglie per mettere su famiglia e crescere i figli. Ora anche lui fa parte degli sfollati in attesa di una nuova casa. «Ho 68 anni, tutti vissuti a Genova, ho sempre lavorato come portuale – racconta con voce spezzata – A questo punto della mia vita volevo solo rilassarmi e godermi la vecchiaia.» Mentre parla Virgilio si trova nel punto esatto di via Fillack in cui comincia la zona rossa, si appoggia alle transenne mentre intorno a lui i vigili del fuoco controllano che nessuno oltrepassi quel muro invisibile. “So che sembra stupido, ma mi si spezza il cuore a pensare che demoliranno le nostre case. L’altra notte ho scritto una canzone. Ho modificato le parole di una storica canzone genovese “Piccon dagghe ciannin” che racconta di quando negli anni ’50 un intero colle della città venne demolito. L’ho adattata alla caduta del ponte”. Virgilio si guarda intorno e comincia a cantare con voce profonda: “In ta cá duve mi o acatœ– La casa che mi comprai / che a l’è en via Porru – che è in via Porro / a stan caciandu zu con e rûspe / la stanno demolendo con le ruspe. Oua sun triste/Ora mi sento triste/ sun murte quarantatrei persune/ sono morte quarantatre persone/ pe nu mette a postu u ponte/ per non mettere apposto il ponte/ e chesta gente ki gnianca a cianzemu/ e queste persone noi le piangiamo. Oua mi digu/ Ma io dico/ chestu punte i l’an feitu vegnii zu/ questo ponte l’han fatto crollare/ e oua niatri semu sfulà/ e ora noi siamo sfollati/ e nu seimu duve anà, cianzemu e pensemu au tempu/ non sappiamo dove andare, piangiamo e pensiamo al tempo”. 

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)

·         Bologna nelle canzoni.

Bologna nelle canzoni: qual è il brano più bello? Il nostro sondaggio. Guccini, Dalla, Carboni, Bersani, Stato Sociale ma anche Sarti e Inoki Ness: scegliete la vostra canzone del cuore. La Repubblica il 22 agosto 2019. Qual è secondo voi la più bella canzone che riguarda Bologna? Una canzone dedicata alla città delle Due Torri oppure ambientata sotto i portici o comunque legata, anche solo per una strofa o una citazione, ai luoghi e alla gente. Secondo una recente classifica, Bologna - Città della musica Unesco  - è la quarta città italiana più evocata nelle canzoni, dopo Roma, Milano (il sondaggio di Repubblica) e Napoli. Tra questi 550 brani censiti ne abbiamo scelti dieci dei più noti, sicuramente omettendone qualcuno importante per svista o per scelta (per esempio, la Bologna degli orchestrali citata da Francesco De Gregori in "Viaggi e miraggi" o il metafisico riferimento al Roxy Bar di Vasco Rossi in "Vita spericolata" o ancora le scritte sui muri di Calcutta). Ci sono le canzoni che hanno Bologna nel titolo: "Bologna" del bolognese adottivo Francesco Guccini da Pavana sull'Appennino tosco-emiliano, "Dark Bologna" e "Bologna è una regola", rispettivamente dei bolognesissimi Lucio Dalla e Luca Carboni. "A Bologna" del riminese Samuele Bersani o "Bolo by night" del rapper romano Inoki Ness. Ma hanno tutte le carte per vincere la hit parade del cuore anche quelle canzoni che sono chiaramente ispirate alle atmosfere bolognesi: come, per esempio, "Piazza Grande", sempre di Lucio Dalla (nella quale le famose panchine su cui santi che pagano il suo pranzo non ce n'è, sono quelle di Piazza Cavour, dove abitava il cantautore da bambino, e non quelle mai esistite in Piazza Maggiore, come credono in molti), o "50 special" dei Lunapop di Cesare Cremonini (ma "quant'è bello andare in giro per i colli bolognesi"?). E come non inserire tra le candidature anche "Silvia lo sai" di Luca Carboni ("Che profumo Bologna di sera, le sere di maggio")? Pe rappresentare la tradizione dialettale, abbiamo scelto "Piazza Maggiore, 14 agosto" di Dino Sarti e, tra le nuove leve, il brano "Linea 30" che Lo Stato Sociale incise per ricordare la Strage del 2 agosto 1980 ben prima di conquistare il successo nazionale sanremese con "Una vita in vacanza".

Francesco Guccini - Bologna

Lucio Dalla - Piazza Grande

Luca Carboni - Bologna è una regola

Samuele Bersani - A Bologna

Lunapop - 50 Special

Inoki Ness - Bolo by Night

Dino Sarti - Piazza Maggiore 14 agosto

Lo Stato Sociale - Linea 30

Lucio Dalla - Dark Bologna

Luca Carboni - Silvia lo sai

·         Ecco, è Bologna. E’ l’Emilia Romagna.

Emilia Romagna o morte.  Il Pd: «Qui la gente cambia anche se sta bene». Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 su Corriere.it da Marco Imarisio. Viaggio nella regione rossa per antonomasia, i destini nazionali appesi alla sfida. La Lega: qui può cambiare la storia. Ormai vale tutto, anche l’orologio della piazza fermo da quasi tre anni. «Saremo noi a farlo ripartire» ha annunciato trionfante Matteo Salvini commentando la caduta della giunta di Imola, dove da due secoli il tempo viene dettato dalle lancette sulla torre del palazzo comunale. L’ex ministro degli Interni non ha perso l’occasione di trasformare in un fatto di portata nazionale le dimissioni annunciate di Manuela Sangiorgi. Forse fiutando l’aria, la sindaca a 5 stelle che aveva strappato il municipio ai discendenti del Pci dopo 73 anni di monocolori più o meno rossi ha motivato la sua resa dopo mesi di inerzia con l’insostenibilità dell’alleanza Pd-Cinque stelle. La circostanza che da mesi fosse circondata da uno staff leghista e risulti vicina all’attuale capogruppo leghista potrebbe avere avuto una qualche influenza. Ma cosa vuoi che importi. Sono dettagli locali, questi. In un tempo lontano, una frase sulla nazionalizzazione di questa regione avrebbe avuto ben altro significato. Ma proprio la distanza da quel passato contribuisce a creare una illusione ottica. La regione rossa per eccellenza è contendibile, da vent’anni almeno. Caddero Parma e Bologna nel 1999, sono cadute Imola e Ferrara e altri avamposti. Adesso che cresce a dismisura un sentimento da Emilia-Romagna o morte, quest’ultima intesa dell’attuale governo, in senso politico, tutto quell’armamentario storico, l’unico posto dove funzionava il socialismo reale e la terra degli anarchici libertari, sta diventando un peso. Perché aumenta il valore della posta in gioco. Perché mai prima d’ora questa terra, considerata «eccezione» anche da Palmiro Togliatti, che ai compagni bolognesi non faceva toccare palla, è stata il crocevia dei destini nazionali come lo sarà il 26 gennaio con le elezioni regionali. Emilia-Romagna, Italia. Per la prima volta. «Inutile tentare di ridurre tutto a una questione di buona amministrazione. Da qui alle elezioni sarà un crescendo. È una partita a campo aperto, svegliamoci e giochiamola fino in fondo». Nonostante una brutta influenza e gli antibiotici, Virginio Merola è in modalità battagliera. Con l’anzianità del secondo mandato, il sindaco di Bologna si è ritagliato un ruolo da coscienza critica del Pd. «Stefano Bonaccini è un amministratore eccezionale. Però non ci possiamo limitare all’elenco delle molte cose buone fatte in questi cinque anni. Imola ci insegna che la gente cambia cavallo anche se sta bene. Poi si accorge di avere sbagliato, come dimostrano i fatti di questi giorni, prodotto di una incredibile combinazione di insipienza e incapacità dei Cinque Stelle. Ma il rischio esiste. Dobbiamo scuoterci, tutti insieme. Non minimizziamo: è una sfida nazionale tra due visioni alternative della società. E a noi manca ancora un bel racconto da contrapporre a quello, falso, del centrodestra». La retorica del buon mediano tanto cara a Bonaccini rischia di non bastare di fronte alla marea montante di destra. L’attuale presidente gode di buoni sondaggi e di buoni numeri che mantengono l’Emilia-Romagna al passo con le regioni europee più avanzate. Ma la disfatta umbra del centrosinistra forse gli imporrà di cambiare schema, uscendo dal solco istituzionale per giocare più a tutto campo. «Il tentativo di Bonaccini di slegare la contesa elettorale dalla sopravvivenza del governo nazionale è una battaglia controvento». Marco Valbruzzi, docente di Scienze politiche a Bologna, sostiene che non si sfugge al clima da ultima spiaggia. «Tanto vale cambiare strategia, politicizzando la propria campagna. Magari evitando foto di gruppo come quella di Narni». La Lega ha il problema opposto. Le parole più ricorrenti della candidata Lucia Borgonzoni nelle sue apparizioni pubbliche sono «Matteo» e «Salvini». Ma tutto l’apparato leghista sembra sintonizzato sul 26 gennaio. Dalla fatal Imola, il segretario provinciale Marco Casalini dice che c’è tempo, per pensare a chi inaugurerà l’orologio restaurato. «Da oggi cominciamo a pubblicizzare la manifestazione nazionale del 14 novembre a Bologna. Siamo già in campagna, siamo pronti a tutto. Avviso ai miei naviganti: tutti mobilitati, contano solo le regionali». Alan Fabbri, leghista appassionato di saghe celtiche e di druidi, da pochi mesi primo sindaco non di sinistra a Ferrara, è convinto che sia la madre di tutte le battaglie. «Se vinciamo cambia la storia politica dell’Italia, facciamo uno scoop internazionale...». A maggio, ha perso in soli 16 seggi su 160. Quelli del centro storico. «Anche qui il Pd ha avallato una politica lontana dai ceti popolari. Ce la giochiamo fuori dalla Ztl, dove siamo più forti. Bonaccini rivendica l’aumento del Pil regionale. Sono solo numeri. Noi dobbiamo parlare proprio a chi si sveglia ogni mattina per produrre quel benessere. Si vince con loro». Mancano ancora tre mesi, e sembra già vigilia. Preparate i pop corn per l’Emilia-Romagna, verrebbe da dire. Ma anche questa frase evoca ricordi poco piacevoli a sinistra.

Petto di pollo scaduto da tre mesi in vendita ai detenuti di Bologna. Gli agenti hanno avvisato i reclusi, c’è stato un esposto alla procura e la ditta ha ritirato la merce. Damiano Aliprandi il 24 Agosto 2019 su Il Dubbio. Nel carcere bolognese della Dozza, i detenuti si sono ritrovati ad acquistare alimenti scaduti da mesi. Parliamo del cosiddetto sopravvitto, gli alimenti e beni di necessità da acquistare negli empori interni agli istituti. A denunciare l’incredibile situazione è Nicola D’Amore, il segretario del sindacato della polizia penitenziaria Sinappe. Sono già due gli episodi riscontrati. «Qualche giorno fa – spiega D’Amore – è stata trovata una partita di carne bianca scaduta da due mesi, così come, a novembre, è accaduto un episodio analogo con delle merendine». Il segretario del Sinappe, sottolinea come questi fatti gravissimi, «non fanno altro che alimentare il malcontento tra i detenuti della casa circondariale, già costretti a condividere celle sovraffollate e, in questi mesi estivi, di caldo insopportabile». D’altronde, a proposito del caldo, sempre lo stesso sindacato ha denunciato che, in mancanza di ventilatori a batteria, i detenuti utilizzano recipienti pieni di acqua per immergere i piedi o si bagnano la fronte con pezze umide. Una situazione che si ripercuote anche agli agenti penitenziari. Ma ritorniamo ai generi alimentari scaduti del sopravvitto. Ad accorgersi delle fettine di pollo scadute da maggio, è stato un detenuto quando le acquistate e si è rivolto agli agenti penitenziari incaricati al sopravvitto, i quali hanno subito informato i detenuti della Dozza a non acquistarle. La ditta appaltatrice, di conseguenza, ha ritirato la partita marcia. Subito è scattata la protesta che si è tradotta in un esposto alla procura e per conoscenza alla magistratura di sorveglianza, con oltre cento firme. Il Sinappe ricorda come il servizio di sopravvitto viene appaltato a ditte esterne ed è la direzione del carcere che dovrebbe vigilare. Il segretario Nicola D’Amore denuncia che ciò accade perché le ditte potrebbero puntare la risparmio, magari acquistando partite di alimenti vicini alla data di scadenza, pagandoli quindi di meno. Ma è solo un sospetto e sarà eventualmente la procura ha vederci chiaro. Resta però il dato oggettivo che è già il secondo episodio, il primo a novembre quando furono trovate le merendine scadute e venne informata Antigone perché in quel momento l’associazione stava effettuando una visita. Ma non è la prima volta che si verificano problemi simili. Sempre alla Dozza, fino a qualche tempo fa, c’era stato un problema circa la gestione del caseificio “Liberiamo i sapori”, inaugurato lo scorso anno. Tale attività è stata inaugurata grazie alla Legge Smuraglia che concede alle imprese, che investono nelle strutture penitenziarie, o che assumono detenuti, dei benefit fiscali. Il Sinappe ha spiegato che tale progetto per la realizzazione del suddetto caseificio è stato realizzato anche grazie al cospicuo investimento del Ministero della Giustizia. Ma nello specifico delle problematiche che caratterizzano il lavoro dei poliziotti, il Sinappe aveva denunciato che spessissimo il casaro ( persona non detenuta) lavora da solo, senza detenuti, e il personale di Polizia penitenziaria era costretto comunque a vigilare sulla attività lavorativa del medesimo. Secondo quanto ha rivelato il sindacato, l’impresa accede in Istituto, spesso, senza dare la preventiva comunicazione per email ( come sarebbe da prassi), che consentirebbe la giusta programmazione del servizio. A causa di ciò, il personale era costretto ogni volta a fermarsi oltre l’orario di lavoro, e sovente a coprire più posti di servizio. Ma non solo. Il personale di Polizia penitenziaria era chiamato a gestire e contenere gli effetti del malcontento crescente dei detenuti che lamentavano da mesi la mancata firma del contratto di lavoro, il mancato pagamento degli stipendi, l’effettuazione di numerose ore di straordinario. «Se tutto ciò fosse rispondente al vero – ha scritto il Sinappe in una lettera rivolta alla direzione del carcere -, ci verrebbe da chiederci come sia possibile che all’interno di una struttura detentiva, istituzione statale e presidio di legalità, possano tollerarsi simili gravissime inadempienze» . Ora l’azienda è fallita, e il Sinappe si augura che «si possa immediatamente voltare pagina rispetto a tale esperienza e avviare nuove attività lavorative per le persone detenute, tali da poter interessare un numero sempre maggiore di reclusi e rasserenare gli animi, a volte, fin troppo agitati, che si riscontrano, soprattutto, nelle sezioni detentive».

·         Scosse elettriche e lavaggi del cervello ai bambini per allontanarli dalle famiglie e fare soldi.

Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.

L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.

Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.

Affidati alla sinistra. Alesandro Bertirotti l'1 luglio 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… sporcizia. Certo, rimanere sconcertati di fronte a notizie come queste è il minimo. Anche il Cristo esprime parole durissime quando si riferisce a coloro che avrebbero osato “scandalizzare” i bambini. E dice, al tempo stesso, che per entrare nel Regno dei Cieli occorre farsi, appunto, come bambini. Questi sono i due concetti dai quali parto per il ragionamento che segue, perché penso siano non solo concetti cristiani ma appartenenti alla sensibilità che l’Occidente credeva di aver conquistata e mantenuta. Non siamo nuovi in Italia a notizie del genere, perché sono sicuro che molti di voi ricorderanno esattamente quello che è stato scoperto sul Forteto di Firenze. E potete trovare ancora materiale in rete, oltre a questo. Ma abbiamo di più, e cioè la presenza di una organizzazione a delinquere contro la famiglia tradizionale, la figura paterna per avvantaggiare famiglie alternative, ossia omosessuali et similia (anche bisessuali, tanto non fa male un po’ di creatività…), come si evince da questo articolo ulteriore. Coloro che conoscono la legge Cirinnà sulle unioni civili sanno perfettamente che penalizza qualsiasi unione eterosessuale a vantaggio di quelle omosessuali, perché ovviamente questo significa voti, per quella sinistra che appoggia da sempre la creatività evolutiva. È ovvio, mi riferisco alla creatività che ghettizza, attraverso le manifestazioni come il Gay Pride, i circoli con tessera Arci e altre amene iniziative ricreative. Quindi, possiamo sostenere che per la sinistra la famiglia tradizionale è qualche cosa da superare, desueto, démodé e quindi reazionario. Un padre che fa il padre, amando una madre che fa la madre, con la colpa di essere eterosessuali, sono sicuramente inadatti all’educazione dei figli. Ecco perché è utile organizzare il peggio possibile, per condurre questi bambini ad un vero e proprio lavaggio del cervello, con sevizie psicologiche e fisiche. Io sono convinto che non tutta la sinistra sia in queste condizioni, almeno la poca che ancora pensa, e che non sia piegata all’ideologia di qualche multinazionale. È anche vero che gli esponenti politici attuali non hanno rivolto nessuna attenzione a quanto sta uscendo fuori da questa scandalosa storia emiliana. E non si sono assolutamente recati in Emilia, magari con qualche dichiarazione di condanna, preferendo, giustamente secondo loro, imbarcarsi per difendere bambini, famiglie, padri e madri del tutto normali, ma poveri ed immigrati. È evidente, che esiste una normalità che a loro piace, e che magari proviene dal mare. Mentre la normalità di una Emilia che lavora duramente è assolutamente da evitare, visto che si inventano persino storie per sottrarre i bambini alle proprie famiglie, e attraverso un interessantissimo giro di denaro, affidarli a famiglie creative. In questo caso, il termine “creative” è sinonimo di delinquenti, almeno queste sono le accuse. Vedremo se ci sarà un rinvio a giudizio e dunque un giudizio. Intanto, “la politica progressista per il bene dell’umanità intera” (locuzione che esprime tutto l’amore possibile per la povera gente…) prende il sole in Sicilia e se ne frega dei criminali che alimenta in patria. Cosa dovremmo pensare di tutto ciò?

Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo. 

La guerra contro l'infanzia. Bambini vittime di violenza o indifferenza, abusati o considerati intralci alla vita degli adulti. E le culle si svuotano. Marcello Veneziani l'8 agosto 2019 su Panorama. Omofobia, xenofobia, islamofobia...E se l’emergenza dei nostri giorni fosse invece la puerofobia? Non sopportiamo più i bambini, li maltrattiamo, li usiamo e li abusiamo, calpestiamo i loro affetti primari, la loro natura e la loro indole infantile. Meglio i cani o i gatti che avere bambini tra i piedi. Siamo alla guerra civile contro l’infanzia. La triste storia di Bibbiano dei bambini sottratti con la forza e la menzogna alle loro famiglie è la punta di un iceberg inquietante ma anche l’emblema di una guerra ai bambini e alla famiglia naturale. Su altri piani sono quotidiani i casi di violenze e sevizie, anche mortali, inflitte ai bambini nella più tenera età. Genitori solitamente tossici si accaniscono coi loro figli con crudeltà inumane, insofferenti alla loro minime turbolenze. Nello stesso tempo emergono periodicamente siti pedofili, traffici di bambini e tentativi di adescarli su strada. Intanto perdura inattaccabile l’industria dell’aborto, la soppressione dei bambini indesiderati. E il racket delle adozioni, le battaglie contro la fertilità, la maternità e le famiglie naturali. Storie diverse, piani differenti, ma vanno tutte in una direzione: la guerra molecolare contro i bambini. È ormai a pieno regime l’Opera Nazionale contro la Maternità e l’Infanzia. Il bambino è considerato l’Intruso, l’Intralcio alla nostra vita e alla nostra libertà, o semplicemente un pacco postale da rispedire, un materiale da smaltire, come un rifiuto tossico, o un oggetto di consumo, di sfogo sessuale, di perversione o una vittima sacrificale su cui scaricare la vita, il lavoro e il mondo che non ci piace. Ma quando metti insieme la campagna assordante contro la famiglia naturale e tradizionale, il pregiudizio che si cresca meglio demolendo le figure genitoriali e ripudiando i padri e le madri naturali più il controllo invasivo della struttura pubblica sulle famiglie, il risultato è quello. Quel che resta della brutta storia di Bibbiano, oltre le responsabilità penali e civili dei protagonisti, è il rifiuto della famiglia. Non è più considerata il focolare ma il focolaio di tutte le infezioni sociali, dal sessismo al razzismo, dal familismo all’omofobia. Dunque sottrarre i figli alla famiglia naturale è progresso, è emancipazione. Meglio genitori adottivi, magari omosessuali o lgbt, meglio le strutture pubbliche, le costosissime case-famiglie, che l’alveo naturale in cui sono nati. A tutto questo si aggiunge il connotato di fondo, la denatalità, l’assenza di futuro delle nostre società imbevute di presente, l’egoismo dei genitori, eterni ragazzi che non vogliono cedere quote di vita e piacere all’egocentrismo sovrano dei bambini che competono coi capricci degli adulti ed esigono rinunce. L’unica forma di natalità compatibile è quella dell’utero in affitto; tutto meno che la procreazione secondo natura. Gli unici bambini su cui si esercita ancora una tenerezza umanitaria sono migranti; i bambini restanti in Africa nella miseria più nera, interessano assai meno. Lontani dal video, lontani dal cuore. Bambini plagiati e venduti nel nome dell’infanzia guidata da assistenti sociali e psicologi, bambini violentati nel nome del piacere sessuale, perfino bimbi malati eliminati nel nome dell’eugenetica o della dolce vita dei loro genitori. E bambini vietati nei luoghi della vacanza e del divertimento. Un posto fashion è per definizione proibito ai bambini, ai passeggini, alle famiglie tradizionali coi marmocchi. A malapena sono ammessi i vecchi, purché potenti, abbienti o travestiti da giovani. Ma i bimbi no, in assoluto, perché sono per definizione proletari, non sono elettori e tantomeno eletti, e non sono consumatori attivi della droga, del sesso, dei viaggi, dei consumi, ma solo vittime passive. I pochi superstiti del regno infantile sono trattati coi guanti bianchi, ipernutriti, benvestiti e tecnologicamente accessoriati, anche se poco educati alla vita reale e alle buone maniere; sono specie protetta, tecnologicamente avanzata, macchinette accessoriate, dotate di ogni comfort, eccetto i genitori e la comunità intorno. Certo, è meglio vivere in società avare di bambini e piene di fobie, come la nostra, che in società in cui i bambini muoiono di fame o sono mandati a morire in guerra. Meglio vivere in una società come la nostra, dove vedi bambini confinati nei recinti dell’idiozia, squallida o lussuosa che sia, piuttosto che in Paesi dove li usano come agnelli sacrificali, sgozzati o mandati a morire nel nome di Allah. Nei Paesi islamici ho visto il sangue e i dolore dei bambini portati al piccolo macello rituale, per l’infibulazione o più frequentemente la circoncisione; li ho visti avvolti in panni di sangue, tra le lacrime; e ho pensato al sereno rituale dei nostri battesimi cristiani, prime comunioni e cresime, dove il massimo era un po’ d’acqua in faccia alla creatura in fasce o il buffetto rituale per diventare soldati di Cristo. Ma per il catechismo dominante, il male principale da rimuovere è la nostra religione coi suoi simboli e riti. Per questa ragione ai nostri bambini si preferisce negare pure il presepe e i canti di Natale, visti come segni di xenofobia...Insomma su piani diversi siamo alla guerra all’infanzia. I bambini sono visti come i nemici dell’umanità perché ricacciano nel passato, ipotecano il presente e usurpano il futuro. E invece dovremmo riaprire le frontiere famigliari e accogliere i bambini, dar loro asilo. Mai parola fu più azzeccata per un popolo di piccoli profughi clandestini, costretto a lasciare la madrepatria e a vivere sotto mentite spoglie perché indesiderati. Di loro sarà il regno dei cieli; ma in terra da noi scarseggia chi è disposto ad accoglierli secondo natura e umanità.

La teoria partecipativa. Ossia: La legge del più forte.

L’Europa unita nel diritto? Con l’On. Cristiana Muscardini e Marinella Colombo si parlerà di Jugendamt e regolamenti europei. Jugendamt0.blogspot.com martedì 12 maggio 2015. Domani, giovedì, 16 aprile, presso l’Istituto Zaccheria di Milano, in via della Commenda 5, si svolgerà il convegno Europa unita nel diritto, realtà o utopia? La questione dello Jugendamt tedesco organizzato dall’associazioni Vivimi, al quale parteciperanno l’On. Cristiana Muscardini, la dott.ssa Marinella Colombo, l’Avv. Laura Cossar, l’Avv. Laura Irene Gonnelli, l’Avv. Laura Tusa Salvetti. Di Jugendamt in Italia se ne parla da pochissimo, spesso in maniera sommaria data la scarsità di conoscenza dell’istituzione, da quando, nel 2009, alla dott.ssa Marinella Colombo sono stati sottratti dalla Germania i due figli a lei affidati dal tribunale tedesco dopo la separazione dal marito tedesco. Della vicenda se ne occupò tra i primi l’On. Cristiana Muscardini, eurodeputata, che con interrogazioni e interventi in aula portò all’attenzione del Parlamento europeo la questione che non riguardava solo la dott.ssa Colombo ma centinaia di genitori non tedeschi che si erano visti sottrarre dallo Jugendamt, dopo la separazione dal coniuge tedesco, i figli. La cosiddetta “Amministrazione per la gioventù”, Jugendamt appunto, opera da oltre 20 anni in Germania e controlla i tribunali familiari di quel paese e, attraverso i regolamenti europei, anche i nostri e quelli dei restanti paesi dell’Unione. Nessuno ne sa nulla e soprattutto dicono di non saperne nulla i nostri giuristi e magistrati che dunque consegnano ingenuamente, o in modo volontariamente inconsapevole, i nostri bambini, cioè il nostro futuro e supportano le autorità tedesche nel processo di criminalizzazione dei genitori italiani che perdono i figli, la relazione con loro, ma anche ogni avere e la futura pensione. Giovedì sarà affrontato questo tema per permettere ai giovani avvocati di reperire gli strumenti per difendere efficacemente i loro clienti italiani e ai media di svelare una realtà provata, ma fino ad ora troppo ben dissimulata. L’ingresso è libero e aperto al pubblico.

Fonte: Il Patto Sociale.

Estratto dall'intervento di Cristiana Muscardini, europarlamentare per 5 legislature, veramente impegnata nel sostegno dei suoi concittadini, anche contro lo Jugendamt: "“Dobbiamo cominciare a dire, noi europeisti, che gli Italiani non devono sposare nessuno che sia di lingua tedesca? Dobbiamo cominciare a dire che non ci sia può fidare, all’interno dell’Unione europea, di un paese che è nostro alleato? Il bambino portato via dal padre marocchino non è diverso dal bambino portato via dalla mamma tedesca! Questo dovrebbero capire gli amici che a volte fanno discorsi sull’immigrazione.  Il discrimine è all’interno dell’Europa. Non possiamo pensare solo a discrimini con altre religioni o con altre cultura, il discrimine è all’interno della stessa cultura europea, della stessa religione e della stessa Unione politica ed economica. Come fai ad avere ragione del terrorismo se non sei capace di avere ragione del terrorismo psicologico di un paese che si fa forza del proprio potere economico per costringere il resto dell’Europa a cedere i propri figli nell’interesse della grande Germania? Questo quesito va posto alle autorità politiche e alla stampa (che tace) … Va formulata una richiesta al Santo Padre affinché si affronti questo tema per fare chiarezza … perché non è possibile che i Cristiani si facciano la guerra all’interno dell’Unione europea … “ La finalità del diritto di famiglia tedesco non è il “bene del bambino”, ma il “bene della comunità dei tedeschi attraverso il bambino”, quindi la possibilità di trattenere tutti i bambini in Germania.

Estratto dall’intervento del 16 aprile 2015 all’incontro “Europa unita nel diritto, realtà o utopia? La questione dello Jugendamt tedesco”. Ciò che per noi è illegale, è legale in Germania, cioè deutsch-legal. Intervento dell’avvocato Irene M. Gonnelli con il contributo del dott. A. Ferragni.

Un sentito grazie all’avv. Laura Tusa Salvetti che ha confermato i nostri timori, riportandoci le parole dei magistrati di Milano in relazione ai casi italo tedeschi: “Speravo in una smentita, almeno parziale da parte dei tribunali italiani, sull’essere pedissequi a questo tipo di scempio giudiziario che viene perpetrato ai danni di persona come la dott.ssa Colombo. Purtroppo mi è stato risposto, con un mezzo sorriso sulle labbra: “quello che noi stiamo cercando di comprendere e di approfondire è la cosiddetta teoria partecipativa”. Mi si è aperto un mondo. La teoria partecipativa è una modalità attraverso la quale i nostri tribunali, le nostre corti di merito e, in tendenza, la Corte di Cassazione, desiderano conformarsi, nel rispetto della normativa e dell’applicativa dei tribunali di famiglia di tutti i vari stati membri, ma che poi sostanzialmente devono ridursi ad una adesione pedissequa al diktat dello Stato membro più forte. Questa è la teoria partecipativa. Alla mia domanda “ma voi concretamente che cosa fate?” è stato risposto. “Cerchiamo di temperare le necessità contingenti e stiamo facendo dei corsi di tedesco”.

Adozioni, le famiglie scrivevano e nessuno rispondeva: la responsabile non ha guardato la posta ufficiale per 10 mesi. La pubblica amministrazione dovrebbe rispondere entro 60 giorni. La Commissione Adozioni non rispondeva da 316. Motivo? L'indirizzo di posta ufficiale era nelle sole mani della vicepresidente Silvia Della Monica che dal 10 agosto 2016, per 10 mesi, non si è curata di darne lettura fino a intasare la casella di posta. L'ex magistrato evita anche il passaggio di consegne, mettendo a rischio di decadenza gli atti che devono essere ratificati. E negli uffici Cai è partita la corsa contro il tempo. di Thomas Mackinson il 22 Giugno 2017 su Il Fatto Quotidiano. Adozioni, il lato oscuro dello Stato: cambio al vertice dopo tre anni di ombre, veleni e conflitti politico-giudiziari. Avevano anche lanciato l’hashtag #cairispondi. Le coppie adottive erano andate sotto Palazzo Chigi per farsi sentire, perché nessuno si degnava di rispondere alle loro mail. Ora che è saltato il tappo si scopre la banalità del male: semplicemente nessuno le leggeva, da mesi, tanto che molte sono andate perdute per sempre. Cai, Commissione Adozioni Internazionali, comunicazione secca sul sito ufficiale: “In data 20 giugno 2017 si è rilevato che la casella di posta elettronica istituzionale risultava piena con restituzione al mittente delle email in arrivo. E’ emerso che tale situazione si protraeva da tempo e precisamente dal agosto 2016; tale casella di posta poteva essere visionata esclusivamente dalla ex Vice Presidente dott.ssa Silvia Della Monica con password riservata. Si è provveduto pertanto a svuotare la relativa casella che ora è pienamente operativa”. Fuori dal gergo istituzionale e garbato significa che la vicepresidente uscente della Cai, che predicava trasparenza e legalità come un mantra, per quasi un anno si è ben guardata dallo scaricare la posta elettronica della Commissione di cui lei sola deteneva l’accesso. Figurarsi rispondere. Sembra una barzelletta e non lo è. Non solo perché la Pubblica amministrazione avrebbe l’obbligo di rispondere entro 60 giorni mentre qui la sola in condizioni di farlo, dalla poltrona più alta dell’autorità pubblica, non lo faceva da 316: dalla verifica è infatti risultato che molti messaggi in giacenza non erano stati neppure letti e che tutte le mail inviate dopo il 10 agosto 2016, quando la casella ha esaurito lo spazio, si sono materialmente perse. Poi ci si lamenta che le adozioni in Italia sono crollate del 50% in una manciata di anni. L’amara scoperta è stata fatta pochi giorni dopo l’insediamento della nuova vicepresidente della Cai, il giudice minorile Laura Laera, a seguito della presa di possesso dell’ufficio. Due dirigenti sono stati ora incaricati di leggere e controllare le mail in giacenza per fornire in ogni caso una riposta tempestiva laddove sarebbe stato necessario. Sui messaggi non recapitati però questo non sarà possibile. A parte un problema di comunicazioni, banale fin che si vuole ma pur sempre lesivo del diritto dei cittadini a una leale collaborazione da parte dell’amministrazione pubblica, sta emergendo un problema ben più sostanziale sempre determinato dalla condotta poco lineare dell’ex vicepresidente, già magistrato ed ex senatore Pd, nella bufera per le rivelazioni del Fatto sul suo coinvolgimento nella vicenda Airone, tra intercettazioni compromettenti e accuse dei pm di “volersi sottrarre”, di voler “sindacare l’orientamento delle indagini” e di aver “sparso una cortina fumogena” attorno alle vicende oggetto della loro inchiesta penale. Muovendo la superficie dell’acqua del pozzo è venuto a galla il tema dell’operatività e insieme quello della legittimità della Commissione adozioni. Della Monica non ha mai convocato la commissione nell’arco di tre anni di gestione sostanzialmente monocratica. Per avere efficacia di legge però molti degli atti disposti, firmati e sottoscritti dalla vicepresidente nel corso di tre anni di gestione sostanzialmente monocratica. Ebbene quegli atti, ai sensi del regolamento, per essere pienamente efficaci devono essere ratificati dall’organismo collegiale, pena la decadenza. Anche per questo Laera ha subito annunciato la volontà di convocare la Commissione prima dell’estate. C’è però un problema: il 15 giugno ha preso possesso dell’ufficio ma non c’è stato alcun passaggio di consegne utile anche a individuare – nella mole dei 150mila numeri di protocollo dell’ufficio – gli atti che rischiano di diventare carta straccia. Per il semplice fatto che Della Monica, avvisata da tempo e ricontattata quella stessa mattina dalla segreteria, non si è presentata all’appuntamento fissato da mesi (la nomina di Laera risale al 19 febbraio). Era tutto pronto con il capo dipartimento, il segretario generale, il capo dell’ufficio del personale; mancava giusto colei che per tre anni ha condotto in sostanziale autonomia la delicatissima macchina in consegna. Così a villa Ruffo è partita anche una revisione delle carte che si annuncia monumentale. E potrebbe riservare altre scoperte clamorose.

Come funziona il sistema degli affidi di minori. Giulia Giacobini su wired.it il 25 luglio 2019. Dato che si torna a parlarne a causa di Bibbiano: contrariamente all'adozione, l'affido è una misura temporanea e il minore mantiene contatti con la famiglia d'origine. Possono diventare affidatari coppie conviventi o sposate, ma anche single e anziani. Angeli e Demoni, l’indagine che la procura di Reggio Emilia ha aperto per far luce su un presunto sistema illecito riguardante l’affidamento di alcuni minori a Bibbiano, ha portato molte persone a interessarsi di un tema che solo raramente trova spazio sui giornali e nel dibattito politico: quello degli affidi, per l’appunto. L’affido è un istituto previsto e regolato in Italia dalla legge 184 del 1983 poi modificata dalla 149 del 2001. Contrariamente all’adozione, si tratta di una misura temporanea e non prevede un distacco totale tra il bambino e la famiglia originaria. La legge specifica che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo è affidato a una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Vengono quindi dati in affido i neonati, i bambini e i ragazzi, anche stranieri, che hanno meno di 18 anni e provengono da una situazione familiare cosiddetta  “difficile”. Si può optare per questa misura se, per esempio, il minore è vittima di abusi fisici o psicologici o se il genitore non può o non riesce a prendersene cura perché, per esempio, è tossicodipendente, detenuto o soffre di una malattia fisica o mentale. L’affido può avvenire con o senza il consenso dei genitori. Nel primo caso il provvedimento è disposto dal giudice tutelare, ovvero un magistrato che si occupa delle tutele, al termine di un iter che coinvolge i servizi sociali territoriali. Nel secondo caso, invece, interviene il Tribunale dei minorenni.

La famiglia affidataria. Il minore solitamente viene affidato ad un familiare o ad un parente (per esempio, un nonno o uno zio). Nel caso in cui ciò non sia possibile, si pesca dalla rete dei servizi sociali territoriali. L’affidatario può essere una singola persona o una coppia, sposata o convivente, con o senza figli. La legge non stabilisce vincoli di età né di reddito. L’importante è che la persona o la famiglia abbia uno spazio in casa per ospitare il minore e sia in grado di accudirlo, educarlo e mantenerlo. Naturalmente, non si diventa affidatari in maniera automatica: bisogna proporsi ai servizi sociali e sottoporsi a un serie di incontri e colloqui, durante i quali gli esperti valutano l’ambiente familiare e la propria capacità di prendersi cura di un minore. Se arriva l’ok, si viene inseriti in una lista e, al momento opportuno, si diventa affidatari.

Come funziona l’affido. La durata dell’affido varia di caso in caso. Può essere disposto per sei mesi, 18 mesi, per due anni ed essere eventualmente prorogato se il problema iniziale, per cui era stato disposto, non è stato ancora risolto. Durante questo periodo, il minore mantiene comunque i rapporti con la famiglia originale della quale tornerà a far parte non appena terminerà l’affido. Tuttavia, l’autorità giudiziaria può anche porre a carico della famiglia d’origine vincoli di non frequentazione, ovvero vietarle di vedere il minore. Come spiega La Legge per tutti, questo avviene quando i genitori del minore abbiano tenuto una condotta pregiudizievole per lo stesso tale da sfociare in provvedimenti di dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c. L’affido può anche terminare prima del previsto se la famiglia affidataria non si è rivelata adeguata per il compito e l’esperienza per il minore è risultata negativa o se, al contrario, questa misura è stata trasformata in adozione. In quest’ultimo caso, gli affidatari diventano genitori a tutti gli effetti. L’affido, infine, può anche essere professionale. In questo caso la famiglia affidataria firma un contratto di collaborazione con una cooperativa e partecipa a un progetto elaborato appositamente per il minore per il quale riceve anche un indennizzo. Negli altri casi, le famiglie affidatarie ricevono solo, su richiesta, un contributo economico pari alla somma decisa dal comune.

TUTTI I DATI SUGLI AFFIDI IN ITALIA. Valentina Maglione e Selene Pascasi per Il Sole 24 ore l'1 agosto 2019. Nascosto dietro l’inchiesta sui presunti affidi illeciti di Bibbiano c’è un mondo che coinvolge circa 26mila bambini e ragazzi con genitori in difficoltà: 14mila accolti da famiglie diverse da quella di origine e 12mila collocati nei servizi residenziali per minorenni. Un dato che rappresenta il 2,7 per mille del totale degli under 18 che vivono in Italia e a cui vanno aggiunti i minori stranieri che arrivano non accompagnati, perlopiù collocati in comunità. L’incidenza degli affidi varia da un’area all’altra, senza - per una volta - differenze nette tra Nord e Sud Italia: le regioni dove gli affidamenti sono più frequenti sono la Liguria (con il 5,8 per mille dei ragazzi e bambini coinvolti) e il Molise (dove l’affido riguarda il 3,9 mille dei minori). A scattare la fotografia più recente è l’indagine a campione realizzata dall’Istituto degli Innocenti di Firenze per il ministero del Lavoro. I dati risalgono al 2016 ma l’andamento degli affidi familiari e dei collocamenti nelle residenze per minori è rimasto stabile nei dieci anni precedenti: è probabile che non ci siano stati scostamenti eccessivi anche nel periodo successivo. È proprio dai numeri che è partita l’indagine della Procura di Reggio Emilia sui presunti affidi illeciti di Bibbiano: troppi abusi sui minori rispetto alla popolazione. Il sospetto è che i servizi sociali - con relazioni false e prove manomesse - abbiano allontanato alcuni minori dai genitori per consegnarli ad altre famiglie. In realtà l’affido - in base alla legge 184 del 1983, modificata dalla legge 149 del 2001 - è una soluzione estrema, a cui la giustizia minorile si vede costretta quando la vita e l’educazione di bambini e ragazzi sono a rischio nelle famiglie d’origine. Non bastano motivi economici per decidere l’affido: in caso di bisogno si deve intervenire con sostegni che consentano ai genitori disagiati di occuparsi comunque dei figli. Quali sono, allora, le ragioni per cui viene disposto l’affido? La legge 184/83 non fa un elenco. A fornire dei criteri è l’articolo 403 del Codice civile, che consente l’allontanamento dei minori dalla famiglia da parte della «pubblica autorità» quando sono in stato di abbandono morale o materiale, vivono «in locali insalubri o pericolosi» o sono allevati da persone incapaci di provvedere alla loro educazione.

La procedura. L’affido è deciso dai servizi sociali se c’è il consenso dei genitori (o di chi esercita la potestà o del tutore), ma deve essere il giudice tutelare a renderlo esecutivo. Se invece genitori o tutori non sono d’accordo, a decidere è il tribunale per i minorenni. Mentre nella procedura urgente dell’articolo 403 del Codice civile, i servizi sociali decidono da soli e poi avvisano il tribunale per i minorenni, ma a volte a distanza di mesi. Bambini e ragazzi possono essere affidati a una famiglia, formata da una coppia sposata, convivente o da una persona singola (ma sono preferite le coppie stabili con figli minori), o a una struttura. Nei casi più gravi si ricorre all’affido “professionale”, in cui i servizi sociali incaricano una cooperativa di selezionare una famiglia affidataria con cui stipulare un contratto e prevedendo un contributo: il genitore affidatario, individuato come “referente professionale” deve avere sufficiente tempo disponibile e seguire un percorso di formazione. L’affido è una misura “a tempo”, pensata per tamponare una difficoltà momentanea: salvo proroghe nell’interesse del minore, non può superare i 24 mesi, ma nella pratica il 60% degli affidi in famiglia dura più di due anni. E l’obiettivo del rientro nella famiglia d’origine è centrato solo nel 40% dei casi. Un impianto che, secondo Licia Ronzulli, senatrice di Forza Italia e presidente della commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, mostra criticità nell’applicazione: Ronzulli denuncia l’eccessiva discrezionalità dei servizi sociali e le prassi discordanti sul territorio. Per riformare l’affido, la senatrice ha presentato la scorsa settimana una proposta di legge (atto Senato 1389) che mira ad aumentare i controlli dei giudici e il contraddittorio con i genitori.

Bibbiano: l'inchiesta di Reggio Emilia sugli affidi dei bambini. Tutto quello che c'è da sapere sull'inchiesta legata agli affidi di minori in provincia di Reggio Emilia. Barbara Massaro il 19 agosto 2019 su Panorama. Le intercettazioni ambientali diffuse nei giorni scorsi dal TgR Emilia Romagna aggiungono nuovi tasselli al quadro del cosiddetto "Caso Bibbiano", ovvero l'inchiesta circa un presunto articolato traffico di affidi illegali di minori che sarebbero stati strappati con l'inganno alle loro famiglie d'origine a scopo di lucro.

Cosa riportano le intercettazioni ambientali. L'inchiesta, che al momento vede indagate 27 persone, coinvolge psicologi, politici locali, neuropsichiatri, medici e assistenti sociali (oltre che le famiglie d'origine e quelle affidatarie dei bambini). Il sistema sarebbe stato talmente collaudato e le persone coinvolte si sarebbero sentite talmente forti che in un'intercettazione ambientale tra una neuropsichiatra e una psicologa dell’Ausl di Reggio Emilia si sentono le due donne sbeffeggiare un maresciallo dei carabinieri che stava indagando su di loro e che aveva chiesto loro dei documenti circa gli affidi. Una delle due donne dice all'altra: "E comunque potevi anche dirgli guardi che lei è sposato, c’ha figli, cioè non si sa mai..." Si tratterebbe di una minaccia neppure troppo velata di poter agire anche sui figli del militare cercando di far sì che gli venissero tolti. Un'altra intercettazione mandata in onda dal telegiornale riporta la registrazione avvenuta nell'auto di una delle madri affidatarie di una minore. La donna avrebbe fatto scendere la bambina dalla macchina in pieno novembre e sotto la pioggia perché la bambina si sarebbe rifiutata di accusare i genitori naturali di averla molestata o maltrattata. "Vai da sola a piedi, scendi! Scendi! Non ti voglio più!" si sente nell'audio. La stessa donna poi aggiunge: "Anziché dire 'io sono così perché mi è successo questo!', piuttosto che dare la colpa a quelli che ti hanno fatto male, dai la colpa a quelli che ti vogliono bene!' Anziché dire “sono stati loro (i genitori naturali, ndr) a farmi male, (dici che) sono [Omissis] e [Omissis2] (nomi della coppia affidataria, ndr)” che mi sgridano… troppo comodo". Secondo gli inquirenti, però, a riempiere la bambina di "Urla e parolacce" non sarebbero stati i genitori naturali quanto piuttosto quelli affidatari. Un passo indietro. L'inchiesta è lunga, articolata e complessa, ma per capire tutti i punti passo per passo bisogna fare un passo indietro.

Estate 2018. I Carabinieri del comando provinciale di Reggio Emilia notano che da un po' di tempo a quella parte le denunce dei servizi sociali dei 7 comuni dell'Unione di Val D'Enza (Reggio Emilia) sono aumentate in maniera esponenziale. Si tratta di una serie di esposti per casi di abusi sessuali su minori, abusi che hanno avuto come diretta conseguenza quella di determinare l'allontanamento dalle famiglie d'origine di una settantina di bambini con conseguente affidamento dei minori ad altre famiglie.

"Angeli e Demoni". E' partita in questo modo l'inchiesta denominata "Angeli e Demoni" che ha portato alla luce un presunto sistema illecito di gestione dei minori in affido alla comunità terapeutica di Bibbiano, Reggio Emilia, La Cura, che si avvaleva, a sua volta, della consulta esterna della Onlus piemontese Hansel e Gretel il cui psicanalista è l'ultra accreditato Claudio Foti (68 anni), autore di libri, luminare nell'analisi di casi abusi su minori, colui che ha determinato l'apertura di una serie di atti processuali in ogni angolo del Paese a tutela di bambini che sarebbero stati abusati.

L'ordinanza di revoca dei domiciliari. Il Tribunale del Riesame, giorni fa, ha disposto per Foti la revoca degli arresti domiciliari. Un fatto che alcuni avevano visto come una perdita di forza della Procura. Invece l'ordinanza dei giudici appare ancor più dura e drammatica nelle sue accuse. Il giudice trova discutibili alcuni aspetti dell'operato e del Metodo Foti: «Appare di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della ‘Carta di Noto’». E pesanti dubbi vengono sollevati dal Riesame sulla preparazione di Foti per esercitare la professione. Su di lui, considerato un luminare in Val d’Enza - dove i servizi sociali inviavano i minori alla sua équipe nella sede della ‘Cura’ -, il giudice parla di «trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti, da parte di una persona che, tra l’altro - evidenzia - non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta».

Chi è Claudio Foti. Il cosiddetto metodo Foti parte dell'assunto che i "bambini non mentono mai" e che, scopo del terapeuta è "l’emersione del ricordo dell’abuso e la rielaborazione del trauma". Foti è colui che ha definito la Carta di Noto - un protocollo di psicologia forense redatto per la prima volta nel 1996 da esperti del settore - un  Vangelo Apocrifo solo per il fatto che si sottolinea come, al contrario di quanto sostiene Foti, un bambino sia molto influenzabile e il terapista ne deve tenere conto nella sua analisi per evitare, in primo luogo, di influenzare a sua volta lo stesso minore di cui dovrebbe occuparsi.

Cosa sostiene l'accusa. Secondo l'accusa assistenti sociali e terapeuti che giravano intorno al sistema Bibbiano avrebbero manipolato le testimonianze dei bambini allo scopo di toglierli alle famiglie d'origine e affidarli a nuclei di propria conoscenza lucrando illecitamente sui fondi pubblici destinati alla tutela dei minori. La tesi è che per farlo venivano manipolati disegni, documenti e le stesse testimonianze dei ragazzini che arrivavano a essere a tal punto condizionati mentalmente da credere di aver subito abusi che in realtà non si erano verificati (si era parlato anche di elettrochock, tesi presto smentita dagli stessi inquirenti). In questo modo la Procura dei minori di Bologna si trovava di fronte a fascicoli firmati da assistenti sociali e psicologi accreditati che dimostravano in maniera esplicita l'avvenuto abuso e quindi firmava l'affido in comunità e poi in famiglia.

Cosa è emerso dall'inchiesta e il ruolo di Carletti. Dopo un anno di inchiesta il 27 giugno scorso 29 persone sono state indagate e di queste 17 hanno ricevuto misure cautelari. Tra questi ci sono lo stesso Foti (prima ai domiciliari e poi rilasciato con l'obbligo di dimora) e la moglie Nadia Bologni, anch'essa psicoterapeuta, l'ex sindaco di Bibbiano il piddino Andrea Carletti, l'ex responsabile dei servizi sociali dell'Unione di Val D'Enza Federica Anghinolfi, e l’assistente sociale Francesco Monopoli. Nell'inchiesta sono indagati anche gli ex sindaci di Montecchio Emilia e Cavriago, Paolo Colli e Paolo Burani, in carica all’epoca dei fatti. Secondo gli inquirenti, infatti, affinché il sistema Bibbiano funzionasse così bene tutti sarebbero stati informati a vario titolo dell'illecito che si stava commettendo sulla pelle dei bambini e dei genitori. In particolare l'ex sindaco Carletti sarebbe stato accusato di aver "omesso di effettuare una procedura a evidenza pubblica per l'affidamento del servizio di psicoterapia che aveva un importo superiore a 40mila euro procurando intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al centro studi Hansel e Gretel". Carletti, secondo i pm, avrebbe inoltre agito "pienamente consapevole della totale illiceità del sistema sopra descritto e dell’assenza di qualunque forma di procedura ad evidenza pubblica". Non solo avrebbe invitato Foti e Bolognini, retribuiti, a convegni in cui lui stesso era relatore sostenendo l'attività di Hansel & Gretel. Nell'ordinanza del giudice delle indagini preliminari Luca Ramponisi legge che gli indagati sono accusati a vario titolo di frode processuale, depistaggio, maltrattamenti su minori, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, abuso d’ufficio, peculato d'uso e lesioni gravissime.

I filoni dell'inchiesta. I filoni dell'inchiesta sono, in realtà due: da una parte c’è l'affidamento illecito di incarichi di psicoterapia a privati con l'utilizzo di fondi pubblici quando le stesse Asl avrebbero potuto ricoprire simili compiti; dall’altra, invece, c’è la questione relativa ai bambini e ai metodi utilizzati per accertare gli abusi. Il sistema, secondo la procura funzionava così: si partiva da una segnalazione che presentasse elementi indicativi anche labili di una precoce erotizzazione del minore. Secondo la Procura le testimonianze dei minori venivano manipolate dai terapeuti che firmavano le relazioni. In seguito queste relazioni venivano inviate all’Autorità Giudiziaria Minorile e alla Procura della Repubblica del tribunale di Reggio Emilia. Vista l'evidenza dei casi la procura affidava i bambini alla comunità terapeutica La Cura. Una volta al centro i bambini sarebbero stati sottoposti a ulteriori sedute di psicoterapia che al Comune costavano 135 euro a seduta di fondi pubblici a fronte della media di 60-70 euro e nonostante il fatto che l’Asl potesse farsi carico gratuitamente del servizio. Il danno economico per l'Asl di Reggio Emilia e per l'Unione, secondo le indagini, sarebbe quantificabile in 200mila euro. I bambini, poi, venivano affidati a famiglie della zona il più delle volte di conoscenza degli stessi vertici dei Servizi Sociali.

Il caso Bedogno-Bassmaji. E' il caso, ad esempio, di una coppia gay unita civilmente dal 2018. Si tratta di Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji. Le due donne hanno ricevuto in affido una bambina sottratta alla famiglia d'origine col presunto metodo Bibbiano.

Una delle due donne, la Bassmaji, sarebbe stata l'ex fidanzata della responsabile dei servizi sociali di Val D'Enza Francesca Anghinolfi(tra gli indagati) che avrebbe facilitato l'affido alla coppia di amiche. Non solo: le famiglie affidatarie ricevono un contributo pubblico mensile che varia dai 600 ai 1300 euro a seconda dell'impegno che il minore va a dare al nuovo nucleo. Secondo quanto riporta Corriere della Sera, invece, le due donne avrebbero percepito un assegno pari a 6000 euro mensili. In tutto sarebbero una settantina i casi sospetti dove l'allontamento dalla famiglia d'origine sarebbe stato pilotato. I Carabinieri di Reggio Emilia si sono trovati, ad esempio, a compiere sopralluoghi in case definite nei fascicoli degli assistenti sociali "fatiscenti e con cibo avariato sui mobili" mentre in realtà si trattava di appartamenti assolutamente ordinati e normali. O, così si legge nei documenti, venivano virgolettate frasi del minore che poi si sono rivelate invece essere elaborazione degli assistenti sociali ora indagati. Nel fascicolo, ad esempio, si parla di una bambina che sarebbe stata abusata mentre sarebbe stato stato omesso che i suoi comportamenti "strani" potevano essere la conseguenza dell'epilessia della quale soffriva. Un altro caso riguarda l’affido di una bambina tolta alla famiglia di origine per presunte violenze sessuali. Tra i documenti presentati al Tribunale dei minori ci sarebbe stato un disegno realizzato dalla minore in cui la piccola si ritraeva accanto all’ex compagno della madre e le mani dell'uomo sembravano toccare le aree genitali della bambina. Il grafologo che ha analizzato il disegno non ha dubbi nel dire che quelle mani sono state disegnate in un secondo momento rendendo contraffatto il disegno della piccola. Il tutto per dipingere il nucleo d'origine come inadeguato, criminoso e pedofilo, inadatto alla crescita del minore e giustificare l'affidamento esterno.

Non solo Bibbiano. Il Presidente del Tribunale dei minori di Bologna Giuseppe Spadaro sta avviando una revisione imponente di tutti i casi nei quali negli ultimi 20 anni ha collaborato Foti non solo quelli della comunità La Cura. Il nome Hansel e Gretel, infatti, ricorre in altri casi di cronaca. Negli anni '90 c'era ancora la onlus Hansel & Gretel dietro al caso dei diavoli della bassa modenese con l'inchiesta giornalistica Veleno firmata da Pablo Trinca. Sedici bambini erano stati allontanati dalle loro famiglie per presunti abusi e riti satanici. E Foti allora aveva contestato la ricostruzione di Veleno visto che centro torinese era lo stesso da cui provenivano le psicologhe accusate di aver manipolato i bambini dei comuni della Bassa modenese. Non solo: Hansel e Gretel avrebbe anche firmato la perizia del 1996 nel biellese quando quattro adulti – padre, madre e due figli – si suicidarono in seguito alle accuse di terribili abusi sessuali su due bambini, figli e nipotini. A quanto pare il caso Bibbiano avrebbe aperto il vaso di Pandora su un modus operandi portato avanti da una parte malata di coloro che si dovrebbero occupare del bene dei bambini che, invece di mettere al primo posto l'interesse del minore ha lucrato per anni sul dolore delle famiglie sottraendo soldi pubblici all'erario e causando danni irreversibile a bambini strappati dalle braccia delle proprie madri. Il Presidente Spadaro si è dichiarato parte offesa al pari dei minori in quanto Procura e Tribunale dei minori sono stati frodati da parte di coloro che dovevano essere i garanti del diritto alla gioia e al benessere dei bambini. L'inchiesta è ancora aperta e la strada è lunga, ma già 4 bambini sono stati restituiti alle proprie famiglie. 

I bambini di Bibbiano ci riconducono al Novecento. Angelo Santoro su 24emilia.com il 10 Agosto 2019. Nulla di nuovo rispetto al secolo scorso e quelli che lo hanno preceduto. Le giovani puerpere non sposate, o facenti parte di famiglie povere in canna, venivano fatte partorire direttamente negli orfanotrofi e già i nascituri avevano trovato una nuova mamma e un nuovo papà che, dopo aver pagato una lauto compenso all’istituto religioso, se ne prendevano cura. Non c’era affidamento all’epoca ma, in quattro e quattr’otto, venivano completate quelle pratiche segretissime che davano direttamente in adozione i bambini. Certo, le cose oggi sono cambiate e per certi aspetti anche in peggio, perché non solo i buchi delle maglie del malcostume sociale consentono il perpetuarsi di questi abusi sulle categorie più deboli della società, ma tutto ciò avviene con una sfacciataggine sconcertante, dopo aver stravolto il concetto di famiglia. I vecchi e ricchi sporcaccioni si sono mischiati con gli amici degli amici che non sono neanche benestanti; tanto ci pensano alcuni assistenti sociali ad affidargli quei bambini sottratti alle famiglie con l’inganno, fornendo loro i contributi economici per mantenere gli stessi piccoli e tutta la famiglia (si fa per dire) allargata. Eppure l’informazione senza veli, nel tempo della digitalizzazione, dovrebbe smascherare ogni cosa. Invece per certi aspetti le complica, in quanto versioni diverse e fantasiose si mischiano attraverso i social con la realtà dei fatti. Tutto finisce in una frenetica danza infernale di parole finalizzate a strumentalizzare la vicenda a fini politici e propagandistici. Gli unici a rimetterci, come sempre, sono i bambini, le sole vittime innocenti del caso Bibbiano che in molti sembrano aver dimenticato, tanto sono presi a sfoderare i forconi contro coloro che si presume siano i responsabili. Lo scandalo di Bibbiano, dunque, diviene carburante per i giustizialisti d’ogni risma. Ma anche sul lato giustizialista le cose si complicano. Un tempo c’erano le guardie e i ladri, ciascuno con i propri specifici ruoli. Oggi non si capisce più nulla in questo otto volante digitale. Nel senso che le prime non riescono più ad esercitare con autorevolezza e assunzione di responsabilità il loro ruolo, perché se prendono delle iniziative di buon senso finiscono nei guai e rischiano anche lo stipendio, mentre i secondi, i ladri, oggi hanno tante di quelle sfumature di “furfante” che se non fai notizia diventando famoso ti cacciano fuori dalla galera in un baleno. Ecco, sulla faccenda di Bibbiano, su questa macchina ben oliata dell’orrore, dove ogni cosa era “quasi” legale, il narcisismo dentro un cocktail di potere d’altri tempi, ancora una volta, condanna i bambini che sembrano essere stati rimbalzati nel secolo scorso. Ma non nella comunicazione, però, che ne tiene saldamente la prima pagina sui giornali, bensì da quegli eminenti studiosi in ogni campo che si stanno preparando a vergare le loro conclusioni nella stesura di libri pronti ad essere presentati e venduti per Natale. E i bambini? Che fine faranno i bambini di Bibbiano? Ecco che, un po’ imbarazzati, tutti ci guardiamo in faccia smarriti perché, in effetti, il grande spettacolo li ha usati e dimenticati allo stesso tempo come fossero cose. Angelo Santoro (consigliere comunale centrodestra a Scandiano)

I genitori di Bibbiano avevano ragione. Ma non se ne parla!  Alessandro Gnocchi il 15 settembre 2019 su Nicolaporro.it. Buongiorno. Bibbiano ancora ancora Bibbiano. Ma non per fare un favore a Salvini come qualcuno crede. Ci interessa della vicenda perché rivela una certa mentalità. Il sindaco di Bibbiano, ad esempio, ha dichiarato tempo che in Italia c’è ancora troppa fiducia nella famiglia patriarcale (!).  Vi riassumo cosa è successo: un bambino viene sottratto alla famiglia naturale perché secondo i servizi sociali è stato costretto ad assistere ad atti sessuali tra la madre e il padre. Quest’ultimo, inoltre, avrebbe abusato del figlio. Questa seconda accusa è già caduta da tempo: adesso che è caduta anche l’altra e quindi il bambino potrà far ritorno alla sua famiglia naturale. Vi leggo un piccolo passo da un articolo: “nel caso del bambino sono stati indagati a vario titolo (falsità ideologica, violenza privata, frode processuale, falsa perizia) diverse figure confluite nell’indagine Angeli & demoni. Anghinolfi, Gibertini, Monopoli e la psicoterapeuta di Torino Nadia Bolognini, accusata anche di essersi travestita da lupo cattivo davanti al piccolo associandolo al padre.” Monopoli, poi, avrebbe tramato per convincere i giudici che tutto andava bene e che il bambino nella nuova famiglia stava finalmente rifiorendo. Insomma, alla fine salta fuori che il reato addirittura non esiste: l’accusa rivolta ai due genitori naturali è stata archiviata. Noi vi diamo la notizia come l’abbiamo letta sul Resto del Carlino e speriamo che questo in qualche modo possa essere utile. Molti dicono che le luci sulla vicenda di Bibbiano sono destinate a spegnersi perché al governo ci sono il Partito Democratico e i Cinque Stelle. Noi crediamo e speriamo che non sia così. Nell’incertezza tutte le volte che troveremo una notizia su Bibbiano come promesso ve ne daremo conto. Alessandro Gnocchi, 15 settembre 2019

Bibbiano, la notizia che i giornali nascondono. Alessandro Gnocchi, 15 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Relegata nello spazio dedicato di solito al prete di Paese che cade dalla bicicletta sui giornali di oggi (neanche tutti) trovate una notizia interessante sulla vicenda di Bibbiano e su Claudio Foti il guru della onlus Hansel e Gretel al centro di una indagine su affidi illeciti di minori. Trascrivo, senza commenti, le motivazioni del tribunale del riesame di Bologna che ha revocato gli arresti domiciliari di Foti ma imposto l’obbligo di residenza. Non commento perché non tocca certo ai giornalisti fare i processi. Ma informare sulle motivazioni del tribunale, questo sì, toccherebbe ai giornalisti. Foti agiva per una “commistione di motivi ideologici o professionali e soprattutto economici”. La sua tecnica “invasiva e suggestiva” era applicata alla “trattazione di questioni delicatissime” riguardanti bambini. Foti “non risulta in modo certo dotato delle competenze professionali e scientifiche necessarie”. La Hansel e Gretel svolgeva le sue attività in una struttura pubblica di Bibbiano “senza alcuna procedura”. A me sembra una notizia interessante ma molti giornali hanno deciso di seppellirla dopo mille pagine di politica in cui si sostiene tutto e il contrario di tutto.

Bibbiano: abbiamo pagato tutto noi. Alessandro Gnocchi, 17 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Buongiorno. Seconda puntata su Bibbiano (dopo la prima in cui racconto la notizia nascosta dai giornali). Continuiamo nella lettura delle motivazioni consegnate dal giudice del tribunale del riesame di Bologna che ha revocato i domiciliari allo psicoterapeuta Claudio Foti imponendo però l’obbligo di residenza. Questa volta ci aiuta un lungo articolo di Francesco Borgonovo su La Verità di oggi. Borgonovo riporta le parti delle motivazioni relative all’interesse economico (oltre che ideologico) alla base della incredibile vicenda degli affidi “facili” di minori abusati. Scrive il giudice: “Foti ha approfittato del suo ascendente per svolgere alcuni anni psicoterapia su un numero elevato di minori, al fine di perseguire un ingente profitto economico, con parallelo danno degli Enti pubblici”. Sentite come funzionava il sistema Bibbiano, a parere del giudice: “L’assegnazione del servizio di psicoterapia di minori abusati, individuati dai servizi sociali a soggetti privati quali Foti, Bolognini e Testa (i responsabili del centro Hansel e Gretel, ndr) è avvenuta di fatto senza alcuna regolare procedura pubblica, senza apposita gara o provvedimento motivato”. Continuiamo: “vi è stata una perdita economica per l’ente pubblico e uno sviamento dei beni pubblici dal loro uso tipico, rappresentati dalla sostanziale concessione a soggetti privati dei locali de La Cura, immobile destinato a uso pubblico e per cui l’amministrazione pagava un canone di locazione, senza ricevere alcun contributo dagli psicoterapeuti privati che da solo la utilizzavano e che percepivano alte remunerazioni per ogni seduta di psicoterapia ivi svolta, tra l’altro pagata interamente da soggetti pubblici”. Tradotto: Hansel e Gretel non pagava una lira di affitto agli enti pubblici per locali a proprio uso esclusivo; gli affidatari dei minori pagavano con soldi rimborsati con bonifico dai servizi sociali “senza che la reale destinazione del denaro fosse palesata”. Così era più difficile ficcare il naso. Foti aveva fondato una Srl per gestire “la psicoterapia su larga scala” per cui, secondo il giudice, conosceva le questioni tecniche relative ai pagamenti della pubblica amministrazione. Insomma: questo giro di soldi sulla pelle dei minori l’abbiamo pagato noi contribuenti.

Bibbiano, le intercettazioni horror. Alessandro Gnocchi, 19 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Buongiorno. Ancora Bibbiano? Ancora Bibbiano. Fino a quando leggeremo nuove notizie sui giornali, ve ne daremo conto. Non certo per coprire le magagne di Matteo Salvini come sostiene qualche complottista. E comunque i media si occupano già a tempo pieno del ministro dell’Interno. Le carte dell’inchiesta di Bibbiano il presunto sistema illecito di affidi dei minori nella val d’Enza escono alla spicciolata e confermano episodi da film dell’orrore. In questi giorni sono uscite due intercettazioni. La prima al Tg3. Parlano due indagate al telefono, una neuropsichiatra e una psicologa. Si sono fatti vivi i carabinieri ma le due donne non sembrano preoccupate. Anzi: «Comunque potevi anche dirgli ‘guardi che lei è sposato, c’ha figli, cioè non si sa mai…’». Segue una risata canzonatoria. Insomma, il suggerimento, non si sa quanto ironico, è di minacciare il carabiniere. Il TgR Emilia-Romagna ha mandato in onda un’altra intercettazione: negli audio si sente una madre affidataria che lascia una bimba sotto un temporale e la sgrida perché non parla degli abusi subìti, abusi che in realtà non sarebbero mai avvenuti. “Scendi, io non ti voglio più”, le grida la donna nell’intercettazione ambientale dei carabinieri.

Bibbiano, le prove manomesse. Alessandro Gnocchi, 22 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Buonasera. Bibbiano quarta parte. Ho promesso di riportare ogni notizia proveniente dai giornali o da altri media e intendo onorare l’impegno. Il Tg1 di oggi, mercoledì 21 agosto, ha trasmesso un servizio con due notizie. La prima: l’inchiesta sui presunti affidi illeciti si allarga, ci sono altri tre indagati. La seconda: una nuova intercettazione suggerisce (ripeto: suggerisce) un tentativo di nascondere o di inquinare le prove. Ascoltate con le vostre orecchie il servizio del Tg1. I carabinieri si sono presentati dagli assistenti sociali e hanno chiesto i fascicoli relativi a sei minori. Parte una telefonata mentre i carabinieri fotocopiano “tutto ma proprio tutto”. Un’assistente chiede consiglio all’altro. E l’altro le risponde di mostrare i fascicoli ma di non consegnare gli appunti. Cosa contengono gli appunti? Secondo gli inquirenti contengono le prove della avvenuta falsificazione dei fascicoli. Le prove che i bambini sono stati indotti a confessare di aver subito abusi mai avvenuti ma necessari per giustificare l’affido. Alcune precisazioni: le intercettazioni ci sono. Sarebbe assurdo da parte mia non riportarle, come qualcuno forse vorrebbe. Le intercettazioni non condannano nessuno. Saranno i giudici a stabilire come stanno le cose. Infine, questa storia è brutta a prescindere da qualsiasi considerazione politica. La sua diffusione non è strumentale ma doverosa.

Caso Bibbiano, verifiche sugli affidi anche in Veneto. In allarme i servizi sociali di molti Comuni. A Verona emergono ombre sulla gestione degli allontanamenti dei figli dalle proprie famiglie e il loro affidamento a realtà esterne. Da anni un'associazione si occupa della difesa dei minori. Angelo Pangrazio TGR Veneto il 19 agosto 2019.

Caso Bibbiano anche a Verona: "Usavano lo stesso metodo". Partono le indagini sul sistema degli affidi nel veronese. Un'operatrice: "Ci sono sempre delle soluzioni che tendono a mettere a lato il bambino, non c' è attenzione per le loro relazioni e la loro sofferenza". Costanza Tosi, Sabato 31/08/2019, su Il Giornale. Non solo Bibbiano. Bambini portati via dalle proprie famiglie con pretesti infondati, strappati dalle braccia delle proprie madri tra i pianti e le urla dei piccoli o ancora prelevati dai carabinieri in divisa mentre si trovano a scuola, sotto la vista dei propri compagni. Nei casi denunciati, dalla Procura di Reggio Emilia, nella recente inchiesta che ha scandagliato il losco sistema di affidi illecito e che prende il nome di “Angeli e Demoni”, questi fatti sono quasi una costante che descrive il modus operandi dei servizi sociali. Atteggiamenti sistematici che adesso, dopo che Bibbiano ha fatto accendere i riflettori sugli affidi dei minori, sembrano tornare familiari a molti tra coloro che se ne sono occupati, in tantissime città d’Italia. Nell’occhio del mirino ci sono spesso famiglie con problemi economici, situazioni familiari al limite, le cui debolezze finiscono per essere sfruttate come pretesto per definire i genitori incapaci di gestire i propri figli. Tanto che, denunciare le proprie difficoltà, in troppe occasioni ha fatto tramutare una richiesta di aiuto in una condanna dalla quale non si riesce a fuggire. A Bibbiano come a Verona. A raccontarlo, in un’intervista a La Verità è un’operatrice di Verona. “C’ è un target particolare - spiega - famiglie particolarmente disagiate, generalmente non radicate nel territorio, che hanno delle difficoltà dal punto di vista sociale, economico e culturale”. Non hanno il modo di difendersi, queste persone, e così rimangono progioniere nel labirinto delle ingiustizie. “Non sono in grado di difendere la propria condizione, a volte costrette a rinunciare agli avvocati perché costano troppo” racconta ancora la fonte, che poi scende nei dettagli: “generalmente è la madre la parte debole. Di solito viene in qualche modo giudicata dai servizi sociali. Faccio l' esempio di una situazione che abbiamo seguito. Abbiamo avuto una signora che era stata picchiata dal marito, il quale è finito poi in carcere. I servizi sociali hanno considerato la madre poco adeguata perché, secondo loro, aveva un rapporto simbiotico con la bambina di 8 anni. Secondo i servizi, se una madre si fa picchiare non è adeguata a crescere una figlia. Di fronte a vicende come queste mi chiedo da che parte stia il servizio sociale”. Una disattenzione inaccettabile, forse una superficialità che rischia di far male come una spada che ha il potere di trafiggere il cuore di intere famiglie. “Diciamo che c' è una attenzione scadente riguardo alle situazioni di difficoltà delle madri. E poi il bambino non viene messo al centro. Ci sono sempre delle soluzioni che tendono a mettere a lato il bambino, non c' è attenzione per le loro relazioni e la loro sofferenza”, spiega l’operatrice. Eppure la tutela del minore dovrebbe essere sempre al primo posto, in questo, come in tanti altri settori. Ma, troppo spesso non è così. “La sensazione è che ci sia scarsa sensibilità nei confronti delle condizioni famigliari disagiate, mettiamola così. Nel senso che è come se venissero giudicate la mancanza di lavoro, la casa inadeguata... Come se fossero un motivo sufficiente per portare via i bambini. Viene fatta una valutazione su dei criteri che non sono criteri educativi o relazionali”. Nelle tante storie che, noi de IlGiornaleit, abbiamo raccontato negli ultimi mesi, uno dei tanti punti interrogativi comuni a tutte le esperienze denunciate dai genitori è stato: perchè l’allontanamento e non un supporto per aiutare queste persone? C’erano forse interessi economici? Ancora una volta pare proprio che sia così. La professionista che racconta la propria esperienza spiega che “da un punto di vista economico si tende a optare per una soluzione costosissima come quella della comunità a fronte di situazioni dove potrebbe essere molto più semplice mandare un consulente alla famiglia, un educatore”. Sembra di assistere ad un film già visto. E ad aggiungere sospetti sulla mala gestione degli affidi da parte dei servizi sociali anche a Verona, qualche settimana fa era stata ancora un’altra testimone. L’ ex dirigente dell' Usl Scaligera, ora in pensione, ha lavorato per 25 anni nei servizi a Verona, assistendo in prima persona a “dieci casi di allontanamento dei bambini dai propri genitori privi di motivazioni corrette”. Una storia che si ripete. “Bambini prelevati a scuola, senza informare i genitori” e operatori che consentono che i piccoli vengano mandati, guardacaso, “sempre nelle stesse strutture”.Una denuncia che non è passata inosservata alle autorità veronesi, che dopo essere venute a conoscenza del caso, hanno fatto partire le indagini. Sul tema degli affidi familiari “c' è l' inchiesta della Procura (pur senza indagati e senza ipotesi di reato) e c' è quella, interna, da parte dell' Usl. E c' è anche una presa di posizione ufficiale dell' assessore regionale ai Servizi sociali, Manuela Lanzarin”. Riporta il Corriere del Veneto. Consegnato il “mandato alla Direzione regionale dei servizi sociali di verificare la situazione degli affidi nel proprio territorio”, mentre “l' Usl Scaligera è incaricata di approfondire e controllare eventuali situazioni controverse”. Ha spiegato l’assessore, che dichiara di aver “inviato le segnalazioni relative alla Procura della Repubblica”. Se c’è una cosa che però la Lazarin non ha gradito è l’anonimato: “È contrario alla deontologia professionale che una ex dirigente muova delle accuse così gravi restando nell' anonimato. Avrebbe dovuto denunciare i propri sospetti durante il suo incarico. Non posso accettare che venga gettato fango, in modo gratuito, su come vengono gestiti gli affidi in Veneto”. Forse sì, era necessario denunciare prima, e magari sarebbe servito ad evitare moltissimi casi amari. Ad ogni modo il coraggio di denunciare non spesso riesce a scavalcare la paura delle ritorsioni e, in ogni caso, “meglio tardi che mai”. Adesso, finalmente, si cercherà di portare a galla le magagne da troppo tempo nascoste sul fondo di un sistema che esige la massima trasparenza. Anche il Pd, ore, chiede chiarimenti alla regione e lo fa tramite la consigliera Anna Maria Bigon. Ma, ahimè, lo stile dei dem sembra essere lo stesso utilizzato a Bibbiano. “Il sistema veneto dei servizi sociali”, ha detto la Bigon, “ha formato, negli anni, una fondamentale e positiva rete di famiglie affidatarie. Queste ombre rischiano di minare la credibilità di quanti si prodigano per trovare una soluzione a carenze educative e a difficoltà familiari che possono compromettere il futuro di tanti bambini”. Insomma, così detto, sembra che non ci siano neanche i presupposti per indagare. É pur vero che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, ma i fatti di Bibbiano dovrebbero suggerire che elogiare prima di sapere fino in fondo come stanno le cose, non sempre porta a grandi risultati.

Affidi, da Bibbiano lo scandalo si allarga. A Genova altri casi analoghi e la Liguria si rivela la prima regione d'Italia per casi di minori "allontanati". Simone Di Meo il 12 settembre 2019 su Panorama. Quando Laura, con la mano che le trema, sottoscrive il verbale dell’udienza conclusiva, è convinta che il peggio sia passato. Non le avrebbero più tolto il bambino di nemmeno due anni, nato da una burrascosa relazione con un marito col quale condivideva ormai solo i problemi di tossicodipendenza. Hanno già «perso» due figlie, andate in affidamento, il terzo bimbo è stato dichiarato adottabile dal Tribunale dei minori di Genova. È certa che non le toglieranno pure il piccolo S. quando i giudici della Corte d’appello le chiedono la disponibilità a «entrare in comunità con il minore seguendo le disposizioni dei giudici». È l’occasione che attende da mesi per dimostrare di voler cambiar vita. E lei, 28enne, con la speranza di uscire dall’aula col bambino abbracciato al collo, ha preso la penna e, con una grafia minuta e incerta, ha messo la propria firma. Quel che poi è successo, purtroppo, è stato molto diverso da ciò che aveva immaginato. La stessa firma, dopo qualche giorno, Laura l’avrebbe apposta a una denuncia contro i cinque magistrati che hanno scelto di affidare il figlio ai servizi sociali del Comune di Genova. A tradimento, secondo la mamma. Perché la sentenza, sostiene, era già pronta, e la discussione finale sarebbe stata solo una finta. I giudici, secondo quanto riportato nell’esposto che Panorama ha avuto modo di visionare, non avrebbero voluto - per pigrizia - cambiarla. Assistita da un avvocato penalista, Laura ha depositato nei giorni scorsi in Procura, a Genova, una denuncia per falso ideologico e abuso d’ufficio. Il ragionamento della mamma è semplice: la sentenza riporta la stessa data dell’udienza collegiale. In poche ore di camera di consiglio, dice la donna nell’esposto, i giudici non possono aver discusso e compilato le 14 pagine del verdetto, letto e valutato le oltre 120 pagine della consulenza tecnica d’ufficio (richiamandola 26 volte nel provvedimento), le «relazioni dei servizi sociali» e quella del direttore del dipartimento di Salute mentale dell’Asl 1 che ha in cura la giovane madre. Il verdetto menziona poi «quattro diverse sentenze della Cassazione» e le posizioni delle parti provenienti da altri due fascicoli paralleli - il papà e i nonni paterni si erano costituiti contro la conferma del giudizio di primo grado, sostenuto invece dagli assistenti sociali - per un totale di altre centinaia di pagine da approfondire. Possibile che i giudici siano riusciti a valutare tutto questo materiale in così poco tempo, pur sapendo che da quelle scelte dipendeva la vita di un bambino di appena due anni? La risposta di Laura è no. «Sembra quasi che la sentenza, firmata e datata, sia stata scritta prima dell’udienza collegiale... e non sia frutto di una regolare e approfondita riunione in camera di consiglio» accusa la madre. Soprattutto perché non si fa mai riferimento alla proposta dei giudici di trasferirsi in comunità con il bambino, nonostante l’impegno - nero su bianco - della stessa Laura. Come mai? «La Corte era ovviamente libera di cambiare idea in camera di consiglio, ma a questo punto perché non fare alcuna menzione in sentenza di un passaggio così importante per la madre e per suo figlio? Forse perché la sentenza di rigetto dell’appello era già pronta? (…) Mio figlio viene quindi dato in adozione nonostante in aula, in sede di udienza, mi fosse stata data la possibilità di entrare in comunità con lui». La droga è l’ombra che si allunga anche sulla storia di Dalila, alla quale un drappello di 13 agenti di polizia ha sottratto il figlio all’uscita dall’allenamento di calcetto dietro la minaccia, sostiene lei, di un taser (la pistola elettrica). Davanti a tutti. Con un furgone blindato ad attendere un dodicenne trattato come un latitante. Da cinque mesi, il ragazzino si trova in una comunità in Piemonte, a 200 chilometri da casa. In attesa che il tribunale decida se affidarlo alla cugina della mamma, che si è detta disponibile ad accoglierlo nella sua famiglia, o ai nonni materni dove prima viveva. Il minore è già scappato una volta dalla struttura di accoglienza. Si è lanciato dal secondo piano rischiando di morire o di restare paralizzato. Ha preso un treno per tornare a Genova, ma è stato fermato dalla polizia ferroviaria che ha avvisato i genitori e le forze dell’ordine. Quando è stato interrogato, ha spiegato di essere evaso dalla comunità come gli aveva consigliato uno dei poliziotti che lo aveva preso in custodia. Dalila ha deciso di rivolgersi all’avvocato del foro di Genova, Lars Markus Hansen, per chiedere la revisione del processo. Tutto incentrato sulle valutazioni assai negative - «esagerava su tutto per aggravare la nostra situazione» sostiene lei - dello psicologo che ha in cura il bambino. Come nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia sui minori sottratti ai genitori a Bibbiano, pure in questa storia l’incubo inizia con un disegno. Il 12enne avrebbe fatto il suo ritratto sotto la pioggia, senza occhi e mani. Mancanze gravissime, secondo lo psicologo che per questo ha deciso di tenere il minore fuori dalla portata del papà, che però già se ne disinteressava, e della madre. Della cui dipendenza da stupefacenti il ragazzino viene informato proprio dal terapeuta, che gli racconta anche delle difficoltà di curarla in un Sert. Provocando di fatto una rottura tra madre e figlio. Perché? «La Liguria risulta essere la prima regione in assoluto per minori allontanati, più dello 0,5 per cento di affidi e/o internamenti in istituto sulla popolazione minorile, circa il doppio della media nazionale» spiega a Panorama l’avvocato Hansen, fondatore e dirigente del Comitato «Salviamoli da Erode». «Se questa percentuale nasconda o meno una precisa scelta ideologica, che privilegi soluzioni alternative rispetto al supporto della famiglia naturale, non è dato sapere. Ma il sospetto è plausibile». E aggiunge: «Riteniamo indispensabile un approfondimento nel merito e nella sostanza da parte delle autorità competenti e supporteremo le persone coinvolte per il riconoscimento e le conseguente repressione, quando se ne confermi la veridicità, di eventuali irregolarità da parte degli enti pubblici preposti, in relazione alla perdita o riduzione della potestà genitoriale». Per questo «il Comitato si è prefisso l’obiettivo di raccogliere e monitorare informazioni e testimonianze, denunziando i casi di abusi o maltrattamenti». Ma cosa si può fare se non si conosce chi ti accusa, e di cosa? È il dubbio che dilania Giovanni, un operaio di 58 anni che, dopo 35 anni di vita matrimoniale, non può più vedere liberamente il figlio, portatore di handicap. Un giorno, come accade al signor K. del Processo di Franz Kafka, due poliziotti e due assistenti sociali gli portano via il ragazzo da scuola. Senza un apparente perché. Quarantott’ore dopo, il Tribunale dei minorenni lo accusa di violenze fisiche e psicologiche sulla consorte e sul minore, nel frattempo trasferito in una struttura protetta di La Spezia. Nessuno ha convocato Giovanni, nessuno gli ha detto dell’avvio di un iter giudiziario, si è tutto messo in moto indipendentemente da lui. Giura alla polizia di non aver fatto nulla, decide di denunciare l’abuso in tv. Prende contatti con una redazione locale e quando preannuncia la sua intervista alle assistenti sociali, queste lo invitano alla cautela. «Stia attento ai passi che fa» è l’avvertimento. Lui capisce, e rinuncia. Ora cerca - attraverso un ricorso all’autorità giudiziaria - di conoscere le accuse che lo continuano a tenere lontano dal figlio. Ha il sospetto che la psicologa e l’assistente sociale responsabili della cura del minore abbiano tenuto un comportamento «professionalmente non corretto». Un piccolo ma significativo episodio, come racconta Giovanni: «Il primo incontro con mio figlio, dopo settimane, mi è stato fissato dagli assistenti sociali su un foglietto bianco, scritto a penna. Come quelli che si usano in salumeria». L’amore di un padre un tanto al chilo.

SARDEGNA COME BIBBIANO: 640 MINORI STRAPPATI ALLE FAMIGLIE. Chenews.it l'11 Settembre 2019. Il caso Bibbiano colpisce anche la Sardegna: 640 minori strappati alle famiglie. Il ruolo del Coordinamento Nazionale contro la sottrazione minori. Il caso Bibbiano, che ha scioccato l’Italia circa un anno fa, ha aperto il vaso di Pandora e ha portato alla luce una serie di episodi simili riscontrati in tutta Italia; tra gli ultimi fatti scoperti emerge la tragica situazione in Sardegna di 640 minori che sono stati strappati alle loro famiglie, alcune delle quali non vedono i figli da oltre due anni. Il caso Bibbiano si delinea sempre più come la sola punta dell’iceberg del traffico di affidi illegali di minori. I casi in cui bambini, anche di pochi anni, sarebbero stati sottratti ai genitori con l’inganno e con solo scopo di lucro si moltiplicano giorno dopo giorno e per scoprire ed analizzare i possibili casi sospetti è nato il Coordinamento Nazionale contro la sottrazione di minori alle famiglie e ai genitori in separazione. Barbara di Donato, referente regionale per la Sardegna, ha dichiarato in un’intervista sul sito Cagliari Casteddu che i minori sottratti nell’isola “sono circa 640, per le più svariate motivazioni”. La situazione è resa ancora più tragica dal fatto che alcuni genitori biologici, che di norma hanno diritto a vedere i figli ogni 15 giorni, hanno affermato di non vedere i propri figli da oltre due anni e mezzo. “Questo lo trovo drammatico perché fa perdere pure la speranza”, ha affermato la Di Donato. Il Coordinamento Nazionale si prefigge come scopo quello di far luce sulle eventuali anomalie negli interventi sociali, assistenziali e socio sanitari. Il Caso Bibbiano si sta espandendo a macchia d’olio e la Sardegna, con i suoi 640 minori sottratti alle famiglie è solo un altro triste esempio di affidi illegali. Gli atteggiamenti sistematici che contraddistinguono il modus operandi dei servizi sociali stanno aprendo gli occhi a quanti sono stati coinvolti in situazioni simili e hanno visto una richiesta di aiuto trasformarsi in una condanna a cui è difficile sfuggire. La referente del Coordinamento Nazionale per il Trentino Alto Adige Gabriella Maffioletti sta organizzando per il 14 settembre una manifestazione pacifica per sensibilizzare la comunità su questo tema ancora troppo sottovalutato.

Affidi, ora tutti si scandalizzano. Ma ci sono casi difficili ovunque. Mario Alberto Marchi, Giornalista, consulente di comunicazione, il 6 agosto 2019 su Il Fatto Quotidiano. Era sette mesi prima che esplodesse il caso di Bibbiano. Malgrado il legale che curava la vicenda fosse l’arcinoto avvocato Miraglia, malgrado egli si facesse in quattro bombardando redazioni e social di comunicati e denunce, a parte me in questo spazio su ilfattoquotidiano.it, nessuno si degnò di parlare della vicenda del piccolo Marco di Verona. Un bambino di tre anni che aveva cambiato casa quattro volte. Lasciato solo pochi mesi alla madre ex tossicodipendente – anche se con lei in una comunità – era stato affidato ai nonni materni. Poi tolto anche a loro, perché accusati di non voler fare l’improponibile scelta di voler bene al piccolo o alla figlia. Accolto da una coppia affidataria era quindi stato tolto anche a questa, perché aveva rapporti di conoscenza con la famiglia d’origine, in spregio alla legge che in realtà quei rapporti li suggerisce e perfino impone. Messo in casa famiglia, a ridosso delle feste di Natale, per essere reso adottabile. Vennero organizzati comitati. Sotto le finestre del Comune di Verona venne organizzata una fiaccolata per chiedere al sindaco della città scaligera e all’assessore ai servizi sociali, semplicemente di fare una verifica sull’operato dell’assistente sociale che aveva stilato tutte le relazioni. L’avvocato Miraglia continuò a denunciare e inviare comunicati. Chi scrive, continuò a farlo. Il risultato sono stati sette mesi di silenzio, con Marco in casa famiglia. Sette mesi, cioè un quinto della sua vita. Oggi, mentre tutta Italia è giustamente sconvolta per i fatti di Bibbiano, mentre una parte d’Italia è meno giustamente impegnata ad attribuire a tutti i costi una valenza politica quell’orrore, mentre un’altra parte ancora tace, dando quindi valore alle strumentalizzazioni, a Marco è stato revocato lo stato di adottabilità e quindi la permanenza in casa famiglia. Un risultato a metà – come lo stesso legale della famiglia ha sostenuto – perché il bambino è tornato non dai nonni, ma dalla coppia affidataria. A Marco qualcuno dovrà spiegare perché sette mesi prima quella condizione non andava più bene e adesso sì. Qualcuno dovrà anche spiegargli perché ora i genitori affidatari dovranno stare comunque attenti a non avere rapporti troppo stretti con i suoi nonni e perché la sua vita continui comunque ad essere appesa al filo dell’incertezza, anche se ha un madre che è ormai uscita dalla droga e si sta ricostruendo un vita, anche se ha dei nonni che lo avevano accudito con amore. A noi qualcuno dovrà invece spiegare altro. Perché mentre perfino dei cantanti lanciavano appelli affinché si “parlasse di Bibbiano”, Marco rischiava di essere uno dei tanti bambini che scompaiono nel sistema dell’ “infanzia di Stato”. Perché addirittura qualche sera fa nel centro di Verona, esponenti dell’amministrazione comunale abbiano pensato bene di manifestare “contro Bibbiano”, ma erano stati totalmente assenti sulla vicenda di Marco. Forse un’altra Bibbiano già c’è, se è vero che in Veneto viene allontanato dalle famiglie lo stesso numero di minori della famigerata Emilia Romagna. Circa duemila, come rilevato dall’interrogazione fatta in Regione dal Consigliere del Movimento 5 Stelle Manuel Brusco. Numero evidentemente fino ad ora sconosciuto al governatore leghista Luca Zaia, oppure solo ora giudicato degno di qualche verifica, visto che ha fatto eco al suo leader di partito Salvini nell’annunciare una commissione d’inchiesta, anche territoriale. Meglio tardi che mai? Certamente, ma rimane il fatto che fino ad ora si sono consumati nel silenzio più totale chissà quanti casi come quello di Marco e che – anzi – quando qualcosa era stato detto da chi oggi dichiara di volere chiarezza, era esattamente del senso opposto. Era il 29 maggio del 2018, quando l’assessore regionale dichiarava che “L’affido di un minore resta la via privilegiata per affiancare un ragazzino e la sua famiglia in situazioni di difficoltà” e annunciava lo stanziamento di sette milioni di euro per le case famiglia e le famiglie affidatarie. Il Veneto è l’unica regione di cui si conosca il dato attuale degli affidi, ma è appena un poco superiore a quello – noto a livello nazionale – del 2013. I minori fuori dalle famiglie erano quasi duemila anche nell’allora leghista Piemonte, oltre quattromila nella Lombardia amministrata dal centrodestra, con numeri alti in Campania e Sicilia, governate della sinistra. A dimostrazione che chi chiude gli occhi lo fa a prescindere dall’appartenenza politica, ma se poi aspetta l’occasione per scandalizzarsi a comando, lo fa in virtù dell’appartenenza al grande partito degli ipocriti.

«Decine di minori affidati senza motivo». Parla l'ex dirigente. Luca Fiorin su L’Arena 18.08.2019. Allontanamenti e affido di minori, un tema che fa ancora discutere. Ombre sulla gestione nel Veronese degli allontanamenti dei minori dalle proprie famiglie e il loro affidamento a realtà esterne. Le fa emergere, mentre fa ancora discutere il caso del piccolo Marco, il racconto di una persona che alle difficoltà di bambini e ragazzi ha dedicato la propria vita professionale. Una testimone diretta che fa riferimento a situazioni che per alcuni aspetti ricordano il cosiddetto “sistema Bibbiano”, come ormai si identificano le pratiche volte a dare in maniera illecita bambini in affido messe in atto in quel Comune emiliano, grazie alla complicità di istituzioni e professionisti. Da noi non si ha notizia di inchieste in corso, ma la persona che abbiamo intervistato si dice pronta a dire quanto sa anche all'autorità giudiziaria. A parlare di casi che definisce di «violenza istituzionale» è una ex dirigente dell’Ulss 9 Scaligera che ha da poco lasciato l'incarico che la vedeva impegnata nell'ambito dei servizi sociali in provincia. La professionista, che non vuole apparire con nome e cognome perché teme ritorsioni, spiega che non ce la faceva più a mantenere il silenzio su una serie di avvenimenti. «In 25 anni di lavoro ho visto personalmente almeno dieci allontanamenti di bambini dai propri genitori privi di motivazioni corrette e ho saputo di molti altri episodi, a decine, da colleghi», racconta la dottoressa. La quale spiega che a queste misure, che rientrano in procedimenti giudiziari, viene dato corso con veri e propri blitz. I minori vengono prelevati su ordine del giudice dalle forze dell'ordine quando sono a scuola, o comunque fuori casa, senza informare i genitori, i quali a volte nemmeno sanno dove vengono portati i loro figli. «L'allontanamento dovrebbe essere solo “extrema ratio“ a cui ricorrere quando ci sono situazioni di violenza e abbandono o quando i minori sono in pericolo o hanno genitori non in grado di garantire un'educazione», dice. «Molte volte però le istituzioni, compiendo abusi, applicano questa misura in maniera indiscriminata; avviene di solito quando ci sono genitori con limitate disponibilità economiche o che non possono contare su famiglie vicine». Stando a quanto afferma l’ex dirigente, queste situazioni sono dovute a una serie di concause. Da una parte, i servizi sociali, sia dei Comuni che dell’Ulss, invece di cercare di aiutare i genitori a superare i loro eventuali problemi, si trovano a dover fare attività di tutt'altro genere, perché devono rispondere alle continue richieste che fa loro il tribunale. Dall'altra, gli assistenti sociali danno pareri senza avere il tempo di approfondire le situazioni o cercano addirittura di non esprimersi, perché non sono sicuri di essere tutelati dai loro superiori. «Senza contare che sono considerati come requisiti per stabilire se i genitori abbiano o no la capacità di seguire i figli anche cose che invece non dovrebbero essere prese in considerazione», continua. «Ad esempio, vengono dati in maniera impropria giudizi sui modelli educativi, per cui succede che siano tolti i figli a genitori che sono solo più o meno rigidi nella propria educazione rispetto a quello che ritiene corretto chi valuta la famiglia, o perché i genitori sono per l'alimentazione vegana». Questo, però, sarebbe solo un lato della medaglia. «A dire quasi sempre la parola definitiva sono i consulenti tecnici d'ufficio (Ctu) del tribunale, che esprimono pareri di solito poi accolti integralmente dai giudici», dice l'ex-dirigente. I Ctu, per quanto riguarda i minori, sono spesso psicologi, in ogni caso liberi professionisti, che hanno fatto corsi specifici e sono iscritti a un albo. «A Verona sono pochi e, di fatto, fanno il bello e il cattivo tempo, indicando anche le realtà in cui vanno portati i minori allontanati», precisa la dottoressa. «Questi ultimi vengono accolti in strutture accreditate e, se va bene, i genitori possono vederli una o due volte alla settimana, magari solo con la presenza di educatori; se va bene, perché in alcuni casi essi nemmeno sanno dove sono», aggiunge. «Dovrebbero esserci progetti per mantenere e poi eventualmente riportare i minori nelle loro famiglie, ma nessuno li porta avanti». Ma perché tutto questo? «Per mancanza di tempo o di volontà di prendersi responsabilità, superficialità e persino incompetenza». Solo per questo? «Io non posso dire che ci sia dell'altro, non ne ho le prove, però è vero che ci sono consulenti che fanno ospitare sempre nelle stesse strutture i minori, che spesso vi restano anni, con costi a carico della collettività e superiori rispetto a quelli necessari per realizzare sostegni a casa». Non avrebbero quindi solo rilevanza giuridica e morale, ma anche economica, i fatti raccontati dal medico. «Sono situazioni che a Verona non accadono di rado», conclude, «e vorrei ricordare che solo riuscendo a far trasferire la competenza giuridica a tribunali di altre città alcuni genitori sono riusciti a far annullare gli allontanamenti».

Piccolo Marco, l'avvocato: «Dopo Bibbiano, caso veronese». Bertacco: «Diffama una città». Scontro durissimo dopo la sentenza della corte d'appello sul caso del "piccolo Marco". Verona Sera il 27 luglio 2019.  Sentenza Corte d'Appello, il piccolo Marco torna a casa. Sboarina: «Giusta conclusione». «Ma ci rendiamo conto che anche Verona, se non fosse stato per la forza dei parenti supportati dal movimento raccontato puntualmente dal giornale cittadino, potrebbe essere una Bibbiano due?». Sono le parole colme di indignazione che l'avvocato Francesco Miraglia ha rilasciato al quotidiano L'Arena, commentando il caso del "piccolo Marco" dopo la sentenza della corte d'appello di cui si è avuta notizia ieri. Uno sfogo nel corso del quale è inoltre emersa la volontà da parte dell'avvocato difensore della famiglia del bambino finito al centro di questo complesso caso di affido, di «chiedere il risarcimento dei danni all’assistente sociale e alla psicologa». «Marco torna in famiglia e di questo non possiamo che essere contenti. - aveva commentato l'avvocato Miraglia nell'immediato della sentenza - Abbiamo vinto su tutta la linea e questo sta a significare che non c’è soltanto il caso di Bibbiano, ma si profila anche un caso veronese di immotivato allontanamento di un bambino da far adottare a chissà chi. Sulla base della decisione assunta dalla Corte di Appello di Venezia, chiederemo ora la revoca del provvedimento di affidamento e che il piccolo venga assegnato ai nonni materni. Ci rivolgeremo, inoltre, alla Procura perché una situazione simile, un provvedimento assolutamente immotivato e ingiusto come quello assunto da questa assistente sociale, devono essere verificati e sanzionati nelle maniere opportune».

Nell'immediato non si è fatta attendere la replica da parte dell'assessore ai Servizi sociali del Comune di Verona, nonché senatore, Stefano Bertacco: «Paragonare il caso del piccolo Marco a quello di Bibbiano è schifosamente strumentale. Invito l’avvocato Miraglia ad andare lunedì stesso in Procura per dare avvio alle verifiche di cui parla. Ricordo a tutti che, nell’immediatezza dell’allontanamento, il Sindaco scrisse una lettera al Ministro della Giustizia Bonafede e io stesso presentai un’interrogazione parlamentare che attende ancora risposta (chiedo al Ministro Fontana di intervenire), per segnalare l’ingiustizia perpetrata nei confronti del piccolo Marco». «La verità, spero, sia accertata al più presto e difenderò in ogni sede la mia reputazione. Non ci sto ad essere diffamato. - incalza ancora l'assessore Bertacco - Chi mi conosce sa con quanta dedizione svolgo il mio incarico. Sono pronto a rispondere a qualunque cosa nelle sedi competenti. Il tema della tutela minorile è un problema serio e delicato, è evidente a tutti che deve essere profondamente riformato. Io ci sto provando in Parlamento, ed insieme ad altri miei colleghi, ho depositato un disegno di legge per l’abolizione del Tribunale dei minori e, conseguentemente, per l’istituzione del Tribunale della famiglia. Quindi, avvocato Miraglia, - attacca l'assessore ai Servizi Sociali del Comune di Verona - la invito a citare anche me in Tribunale, perché le sue parole sono pesanti ed io ora mi aspetto da lei coerenza e non solo annunci ad effetto. Sono mesi che dice di voler denunciare l’assistente sociale e i responsabili dei Servizi sociali del Comune di Verona e non l’ha ancora fatto, perché? Intanto rilascia interviste dicendo inesattezze sulla decisione della Corte, ma ognuno risponde prima di tutto alla propria coscienza e poi del suo operato. Aspetto con trepidazione la sua denuncia - conclude veemente l'assessore Stefano Bertacco - perché, oggi, lei ha ingiustamente diffamato un’intera città».

Bibbiano, altri tre indagati per gli affidi illeciti. Sarebbero accusati di abuso d’ufficio. L’inchiesta vede al centro la rete dei servizi sociali della Val d’Enza, accusati di aver redatto false relazioni. Il Dubbio il 21 agosto 2019. Tre nuovi indagati nell’inchiesta sul presunto giro di affidi illeciti di minori in Val d’Enza, denominata “Angeli e Demoni”. Tre persone, secondo quanto si apprende, sarebbero indagate con l’accusa di abuso d’ufficio dopo il caso delle consulenze affidate alla psicologa Nadia Bolognini, coinvolta nell’inchiesta sugli affidi e moglie dello psicoterapeuta Claudio Foti, successivamente al suo arresto, quando si trovava ai domiciliari. La vicenda era stata segnalata dal consigliere di Forza Italia in Provincia a Modena, Antonio Platis, e dal capogruppo di Fi nell’Unione dei Comuni dell’Area Nord modenese, Mauro Neri, attraverso esposti: secondo quanto riportato dagli esponenti forzisti, l’Unione Comuni Modenesi Area Nord avrebbe affidato a Bolognini l’incarico il 3 luglio, quando la psicologa era ai domiciliari da una settimana. Pronta la replica dell’avvocato Francesco Guazzi, legale della Bolognini: «Un incarico mentre la mia assistita è ai domiciliari? Non ne sapevo nulla e sicuramente è all’oscuro di tutto pure la dottoressa. L’unica persona con cui ha contatti sono io». Prossimamente è previsto un incontro tra le Procure di Reggio Emilia e Modena, che coordinano le indagini dei carabinieri. L’inchiesta “Angeli e Demoni”, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D’Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. La vicenda lo scorso 27 giugno aveva visto coinvolte sedici persone tra politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti di una nota onlus di Torino, raggiunti da misura cautelare per affidamenti illeciti di minori. Secondo gli investigatori, quello svelato dall’inchiesta “Angeli e Demoni” è "un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell’indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali". Tra i reati contestati frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Secondo gli accertamenti svolto dai carabinieri alcune vittime dei reati contestati dall’inchiesta, oggi adolescenti, "manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo". Le indagini sono iniziate alla fine dell’estate del 2018 dopo l’anomala escalation di denunce da parte dei servizi sociali coinvolti, per ipotesi di reati di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori.

Bibbiano, tre nuovi indagati per abuso d'ufficio. La vicenda era stata segnalata dai consiglieri di Forza Italia di Modena, Antonio Platis e Mauro Neri, attraverso degli esposti alla Corte dei conti e una segnalazione alle procure di Modena e Reggio Emilia. Costanza Tosi, Mercoledì 21/08/2019, su Il Giornale. Continuano le indagini per fare chiarezza sul “caso Bibbiano” e si allargano i presunti colpevoli. Si allunga la lista degli indagati nell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi illeciti nel reggiano. Altre tre persone sarebbero indagate di abuso d’ufficio perchè ritenute responsabili di aver affidato pazienti in cura alla psicologa Nadia Bolognini nonostante si trovasse agli arresti domiciliari. La vicenda era stata segnalata dai consiglieri di Forza Italia di Modena, Antonio Platis e Mauro Neri, attraverso degli esposti alla Corte dei conti e una segnalazione alle procure di Modena e Reggio Emilia. L’evento, che ha fatto scoppiare il caso e reso necessarie ulteriori indagini, è il caso di una minore di Mirandola. La ragazzina, prima in terapia presso il centro “La Cura”, dopo la pubblicazione dell’inchiesta della procura di Reggio Emilia che aveva compromesso il nome del centro di Bibbiano finito sotto accusa, venne mandata in uno studio privato, per continuare il suo percorso di psicoterapia con la dottoressa Bolognini. Ex moglie di Claudio Foti, che il 3 luglio, giorno in cui l'Unione Comuni Modenesi Area Nord affidò le affidò l’incarico, si trovava agli arresti domiciliari già da una settimana. Forza Italia, che ha fatto un accesso agli atti, ha parlato di un incarico “mascherato” e di una determina “retroattiva” che, scrive il consigliere Platis sulla sua pagine Facebook, “a norma di legge non si può mai fare e che costituisce un debito fuori bilancio”. L'amministrazione, ha scritto il partito, "impegna i fondi, 13.589 euro, dal 1 giugno 2019” e, così facendo, aumenta, in modo retroattivo, l'importo a una casa famiglia “da 110 a 127 euro al giorno per coprire i maggiori costi per le sedute della moglie di Foti (170 euro all'ora). Tecnicamente - continua - siamo davanti ad un debito fuori bilancio, perchè mai e poi mai una amministrazione pubblica può impegnare soldi per prestazioni effettuate nel passato". Nell’inchiesta, esplosa lo scorso 27 giugno, Nadia Bolognini è, tra gli indagati, una delle figure di maggior rilievo. Il suo nome, infatti, era già balzato alle cronache quando vennero riportate alcune sue intercettazioni pubblicate nell’ordinanza della Procura. Durante uno dei suoi incontri con i piccoli pazienti in cui, la Bolognini, cercava di cancellare dalla mente del minore i ricordi del proprio papà ad un certo punto arrivò persino a dire al piccolo: "E' come se dovessimo fare un funerale!”. E poi ancora: “Dobbiamo fare una cosa grossa.. Sai qual è? Gli psicologi la chiamano elaborazione del lutto (...) Dobbiamo vedere tuo padre nella realtà e sapere che quel papa' non esiste più”. Ma c’è di più. La psicologa chiedeva continuamente al bambino di ricordare i momenti in cui il padre “lo umiliava”, atteggiamento che, secondo il gip, si descrive nel tentativo di indurre falsi ricordi. Adesso, tra le due Procure emiliane che coordinano le indagini dei carabinieri, è previsto un incontro per decidere come proseguire con le nuove indagini.

La moglie di Foti e le sue sedute da 170 euro l'ora. Una ragazzina di Mirandola venne mandata in terapia presso lo studio privato della moglie di Foti per una cifra ancora maggiore rispetto a quelle concordate al centro "La Cura". Costanza Tosi, Mercoledì 21/08/2019 su Il Giornale. Più passano i giorni e più si aggiungono pezzi al gigantesco puzzle che descrive i presunti orrori del “caso Bibbiano”. Aumentano i dettagli sulla storia di Sara. La ragazzina che nel 2011 venne affidata ai servizi sociali dell’Unione Comuni modenesi area nord, e poi, nel 2013, trasferita e affidata ad una casa famiglia. A gestire la struttura, dal nome Madamadorè, situata nel Parmense, i coniugi Paolo Dioni e Romina Sani Brenelli. Ma chi sono i due responsabili? Romina Sani è una stretta conoscente di Claudio Foti, nonchè ex-allieva del suo master in “Gestione e sviluppo delle risorse emotive”. Come, lei stessa, scrive sul quotidiano online diretto dallo stesso terapeuta. Ma non basta. Il nome della Sani compare anche tra quelli dei dirigenti dell’Associazione “Rompere il silenzio. La voce dei bambini”, proprio accanto ai profili di Claudio Foti e Nadia Bolognini entrambe indagati nell' inchiesta “Angeli e Demoni”. Ma torniamo a Sara. Durante la permanenza all’interno della casa famiglia le condizioni della ragazza iniziano, a poco a poco, a peggiorare. Come riportato da La Verità, la piccola soffre di forti crisi, conseguenza, si legge in una delle relazioni, dei “traumi profondi che ha subito”. Motivo per cui, gli assistenti sociali, decidono di proporre, a Sara, un percorso di terapia presso il centro “La Cura” di Bibbiano. Lo stesso finito nelle carte della Procura di Reggio Emilia perchè identificato come il luogo in cui, gli psicologi della Hansel e Gretel, poi finiti sotto accusa, manovravano le menti dei bambini per indurli a confessare abusi e maltrattamenti inesistenti. Come emerge dalle pagine dell’ordinanza il costo delle sedute con i professionisti di Foti era molto elevato rispetto alla media. Di fatti, anche per Sara, furono accordati 135 euro per ogni incontro. Ma perchè la piccola venne mandata proprio a Bibbiano? Secondo il giudice che ha seguito le indagini preliminari è “verosimile che Romina Sani Brenelli frequentando Foti, Nadia Bolognini e Federica Anghinolfi, ne segua gli orientamenti e le idee in termini di “ricerca” dell’abuso sessuale anche davanti a qualsivoglia e seppur minimo sintomo specifico”. Dunque, sembrerebbe, che persino nel parmense ci fossero individui a capo di intere comunità, pronti a seguire la “pseudo-psicologia” del padre della onlus torinese. Il 3 luglio 2019, dopo solo una settimana dall’uscita dell’inchiesta, gli stessi servizi sociali dell’Unione dei comuni modenesi dell’area nord, attraverso una determina, decisero di “aggiornare il progetto relativo alla minore collocata presso la struttura Madamadorè”. Nella lettera, firmata dalla dirigente Romina Sani Brenelli, si richiede che Sara continui il suo percorso di terapia, per il quale la Comunità Madamadorè, “si rende disponibile ad intervenire come intermediaria rispetto al pagamento della psicoterapia privata per la minore in oggetto ai fini di garantire la continuità terapeutica”. La struttura “La Cura”, finita sotto gli occhi dei riflettori, non poteva più essere luogo idoneo dove far svolgere a Sara le sue sedute, dati i rapporti con gli indagati di “Angeli e Demoni”. E così, per la ragazza, si doveva trovare una soluzione alternativa. Detto fatto. L’amica di Foti suggerisce di mandare la paziente presso uno studio privato e di farla seguire - come scritto nella lettera - dalla “dottoressa Nadia Bolognini al costo di 510 euro totali per due interventi mensili di 90 minuti”. Dunque, non solo la moglie di Foti, mentre era agli arresti domiciliari, avrebbe accettato di lavorare con la ragazza nonostante il metodo da lei utilizzato fosse appena stato messo in discussione dalla Procura, ma lo avrebbe fatto ad un prezzo ancora più elevato. 170 euro l’ora. Vale a dire 35 euro in più rispetto alla tariffa del centro “La Cura”, già accusata, dal giudice per le indagini preliminari, di fissare tariffe ampliamente al di sopra della media. 

Da Mirandola venne mandata in cura a Bibbiano, ora invece può essere seguita dall'Asl. A Mirandola partono le indagini e l’Unione dei Comuni Area Nord cambia le carte in tavola e tenta di pararsi le spalle. Costanza Tosi, Mercoledì 04/09/2019 su Il Giornale. A Mirandola si corre ai ripari. Proprio ieri, i carabinieri si erano recati nel municipio della cittadina in provincia di Modena per venire in possesso di alcuni documenti utili ad andare a fondo sulla questione dei nuovi indagati per l’inchiesta “Angeli e Demoni”. Poco dopo, ecco che spuntano nuovi accordi. L’Unione dei Comuni Area Nord cambia le carte in tavola e tenta di pararsi le spalle. Invano. Qualche settimana fa, avevamo raccontato la storia della minore di Mirandola che, il 3 luglio, era stata affidata alle cure della terapeuta Nadia Bolognini mentre, l’indagata nel caso Bibbiano, si trovava, già da una settimana, agli arresti domiciliari. Dopo l’intervento della Procura di Modena, che ha deciso di provare a vederci chiaro, ecco che arriva una nuova determina che cancella tutti gli accordi, tra la terapeuta e gli affidatari della minore, presi esattamente due mesi fa. Così l’Ucman prova a salvarsi. “Sono state assunte – recita l’atto - decisioni circa la presa in carico sanitaria e psicoterapeutica dell'utente in tutela succitato, che coinvolgeranno direttamente il Servizio Sanitario Pubblico, che si è dichiarato temporaneamente disponibile, al fine di assicurare la prestazione sanitaria, ad attivare un intervento senza oneri di spesa a carico degli enti sottoscrittori del progetto, ovvero la Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza e l’Unione Comuni Modenesi Area Nord, con decorrenza dal prossimo 1°settembre 2019”. La ragazzina è stata affidata alle cure, gratuite, degli psicologi dell’Asl. La stessa ragazzina per la quale, nel 2017, la casa famiglia Madamadorè che la teneva in affido, aveva ritenuto indispensabili le cure a Bibbiano, presso il centro “La Cura”. Secondo i dirigenti della casa d’accoglienza dunque, la bambina aveva una situazione talmente grave da dover essere curata da specialisti privati, tramite sedute da 135 euro l’ora. Ora, si potrebbe pensare, che nel giro di due anni la situazione potesse essere cambiata. Ma, ancora una volta, i conti non tornano. Solo a luglio infatti, tramite una dichiarazione congiunta dei Servizi Sociali e dell’Asl, si richiedeva che la paziente potesse continuare ad essere seguita dalla stessa psicologa della "Hansel e Gretel" che l’aveva curata a Bibbiano, dichiarando che, vista la situazione, era necessario persino un rafforzamento del costo delle sedute, pari a 170 euro l’ora. Adesso, tutto d’un tratto, la situazione non è più così grave e la bambina può essere seguita da uno psicologo a costo zero. Perchè non farlo prima? Erano veramente necessari tutti quei soldi spesi in due anni per farla seguire dalla onlus di Foti? Sembrerebbe di no. Ma c’è di più. I Servizi Sociali e la dirigente della Madamadorè erano così preoccupati che la ragazza perdesse il suo supporto terapeutico, dopo lo scoppio del caso degli affidi di Bibbiano, che chiedevano di farla seguire nello studio privato della Bolognini a causa dello stop delle attività de “La Cura”. Adesso, da alcuni documenti, rintracciati dal consigliere di Forza Italia Antonio Platis, si scopre che, da quel giorno, la piccola non ha più partecipato a nessuna seduta. Fino al primo di settembre. Giorno in cui è stata affidata agli psicologi del Servizio Sanitario Pubblico. A questo punto, le ipotesi sono due e, entrambe, portano ad evidenze raccapriccianti. O la bambina, affidata alla Madamadorè nel 2013, non si trovava in una situazione così grave da doversi sottoporre per anni a sedute presso psicologi privati con costi elevatissimi costretta a spostarsi da Parma a Bibbiano. Nel caso, sarebbe da domandarsi perchè aggravare la situazione per rimpolpare le tasche della onlus di Torino. Oppure, se la piccola avesse veramente avuto bisogno di tale assistenza, come è potuto accadere che la lasciassero per mesi senza le proprie cure? Se così fosse verrebbe messa in dubbio, non solo la professionalità di chi avrebbe dovuto occuparsi di lei, ma persino l’umanità di chi dovrebbe lavorare per salvare i minori dalle difficoltà. “La cosa ancora più paradossale - ci riferisce, sconcertato, il consigliere Platis - è che, in tutto questo, la bambina rimane affidata alla stessa casa famiglia, nonostante la dirigente sia finita nel registro degli indagati”. Vengono revocate le terapie alla Bolognini, ma nessuno si preoccupa di revocare l’affido alla Madamadorè. Dopo aver scoperchiato l’ennesima beffa del sistema, Platis non ha dubbi, “o siamo davanti ad incompetenti o c’è della malafede”. Difficile non essere d’accordo.

Ecco il giro d'affari di Foti&Co. "150mila euro per 18 ragazzi". In una mail spuntano i compensi di Foti per gestire gli affidi: ecco quanto guadagnava l'associazione Hansel e Gretel per seguire 18 minorenni. Costanza Tosi, Lunedì 26/08/2019, su Il Giornale. Una ventina di bambini in terapia portava nelle casse della onlus Hansel e Gretel 150mila euro. Un guadagno sopra la media, se si considera che i costi delle singole visite con i terapeuti dell'associazione superavano, di gran lunga, il "prezzo di mercato" per la stessa terapia, pari a 60/70 euro l'ora. Numeri che confermerebbero, ancora una volta, che il presunto “business dei bambini” di basava su un’ideologia, ma non escludeva gli interessi economici. A scovare l’ennesimo documento che inchioderebbe la onlus torinese fondata dal terapeuta Claudio Foti, finito nel registro degli indagati per l’inchiesta "Angeli e Demoni", è un giornalista del Tg3 Emilia Romagna, venuto in possesso di una mail recapitata nell’aprile del 2018 a Foti da parte di Cinzia Salemi, segretaria dello stesso centro. Nel documento emergono diverse strategie di gestione del denaro “fai da te”. La Salemi elencava a Foti alcuni metodi per la buona gestione dei fondi derivanti dal sistema degli affidi. Al primo posto, un planning che prevedeva, per 18 bambini in terapia, quattro incontri mensili di un’ora ciascuno tutti fissati al costo di 135 euro l’ora. Esattamente come quelli organizzati al centro La Cura di Bibbiano. Soldi ai quali vanno aggiunti i guadagni derivanti dal lavoro di supervisione e dai vari corsi di formazione di cui si occupava il centro di Foti, oltre alle terapie per altri 4 bambini. Ed ecco che si arriva ad un totale di 144mila euro l’anno. Una cifra non proprio irrisoria, ma che, secondo la Salemi, poteva ancora essere gonfiata. Nel documento emergerebbe, infatti, un secondo suggerimento: aumentare il costo degli incontri da 135 a 180 euro l’ora. Soldi che, in parte, sarebbero andati al terapeuta che si occupava del minore (60 euro), e in parte sarebbero invece finiti nelle tasche della Sie. La società fondata da Foti. Con questo metodo, scrive la segretaria, “Sie avrebbe un margine di profitto di 3980 euro al mese”. Ma c’è ancora una terza alternativa: 160 euro l’ora. Una via di mezzo che avrebbe portato ad un incasso annuo di 166.400 euro. E se i numeri già di per sè sciolgono qualche altro nodo dell’orribile groviglio che descrive il sistema di affidi illecito nel reggiano, dalla mail emergerebbero anche altri indizi. Sembra difficile che Foti, destinatario dei calcoli matematici della Salemi, potesse non essere a conoscenza dei guadagni della Hansel e Gretel. Tesi sostenuta, invece, dal legale del terapeuta. Ma quale ruolo aveva Cinzia Salemi nell’azienda di Foti? Come spiega il tribunale del Riesame, era colei che teneva i legami con i servizi sociali di Bibbiano. Gli stessi che - come descritto nell'ordinanza della Procura - avrebbero passato i soldi, pubblici, alle associazioni e alle famiglie affidatarie a cui venivano dati i bambini tolti alle proprie famiglie per pagare le terapie dei piccoli presso La Cura. Ma torniamo alle carte. Nella mail la Salemi farebbe cenno ad un contributo da versare all’associazione Rompere il silenzio che, suggerisce la segretaria di Foti, sarebbe potuto arrivare tramite la cooperativa Si può fare. Oppure nel caso fossero aumentati i costi delle sedute, anche direttamente dalla Sie. Ed ecco che rispuntano sempre gli stessi nomi. Tra cui Romina Sani Brandelli. Ora indagata, la signora Sani è una ex allieva di Foti, oltre che dirigente della casa famiglia Madamadorè di Mirandola dove, la terapeuta, ospitava la ragazza che poi mandò in cura presso lo studio privato di Nadia Bolognini, nonostante questa fosse già agli arresti domiciliari, dando persino il benestare alla richiesta di aumento del costo delle sedute che, in quell'occasione, passarono da 135 euro l'ora a 180. Caso che poi, ha portato ad allargare il diametro delle indagini sull’inchiesta della Procura di Reggio Emilia. Ma questo, già era noto. Ciò che invece tocca sottolineare, è che la Sani era anche responsabile di “Si può fare”. E non è ancora tutto. Ecco che l’amica di Foti compare anche nel direttivo dell’associazione “Rompere il silenzio” assieme a Francesco Monopoli, assistente sociale dell’Unione Val D’enza e fidato collaboratore di Federica Anghinolfi. Dunque, se le ipotesi venissero confermate in aula di tribunale, i soldi delle terapie che non finivano nella società di Foti, andavano a ingrassare il portafogli dell’associazione di cui Foti faceva parte, assieme a dirigenti delle case famiglia, ex allievi e assistenti sociali. In effetti i conti della Salemi, viste le circostanze, sembrano meno utopici: dopotutto ad essere d’accordo sul costo delle terapie, oltre a Foti, dovevano essere proprio coloro che facevano parte della stessa associazione del terapeuta.

Bibbiano, non solo ideologia. Foti prolungava le terapie anche per ottenere più soldi pubblici. Il Tribunale di Bologna ha dichiarato che il terapeuta ha ricavato "un ingente profitto economico" grazie al sistema di Bibbiano. Costanza Tosi, Domenica 18/08/2019, su Il Giornale. Strappavano i bambini alle proprie famiglie con false accuse e finte relazioni per poi affidarli ad amici e conoscenti e inserirli in lunghi percorsi di psicoterapia con gli psicologi della Hansel e Gretel presso il centro La Cura. Era questo l’obiettivo dei "demoni" di Bibbiano, di cui la Procura di Reggio Emilia ha scoperchiato un presunto giro d’affari. Un metodo ben collaudato che sarebbe stato portato avanti non solo per ideologia, ma anche per soldi. Il “guru” Claudio Foti, padre della onlus torinese che si era appropriata degli spazi del centro pubblico La Cura, in cui venivano mandati in terapia i bambini affidati ai servizi sociali, senza partecipare a nessuna gara pubblica, con questo meccanismo faceva cassa. Lo scrive, nero su bianco, - come riportato da La Verità - il giudice del Tribunale del riesame di Bologna, nell’ordinanza contenente le motivazioni del provvedimento che impone a Foti, prima ai domiciliari, l’obbligo di dimora a Pinerolo. Secondo il Riesame, Foti, ha “approfittato del suo ascendente per svolgere, per alcuni anni, psicoterapia su un numero elevato di minori, al fine di perseguire un ingente profitto economico, con parallelo danno per gli enti pubblici”. Anni di psicoterapia a bambini e ragazzi che non ne avevano bisogno. All’ombra di un’ideologia questo è certo, ma anche lucrando sulla pelle di vittime innocenti. Come nel caso della ragazzina che Foti ha seguito, in terapia, fino a novembre del 2018, per riuscire a “far riaffiorare un passato abuso sessuale da parte del padre”. Secondo le carte, per ben tre anni, il terapeuta ha lavorato con la bambina incontrandola due volte a settimana e cercando di plagiare la minore al fine di farle raccontare abusi sessuali che, in realtà, non erano mai avvenuti. Le sedute con la paziente sono proseguite anche quando la giovane era ormai diventata maggiorenne, dopotutto, ogni incontro, erano soldi che finivano in tasca alla onlus del terapeuta. E il “luminare” non se li lasciava scappare facilmente. Che il terapeuta avesse l’obiettivo di accumulare denaro è “pacifico, poiché per ogni seduta il suo guadagno era di 135 euro, tariffa ben al di sopra e quasi doppia rispetto alla tariffa media di uno psicoterapeuta, pari a 70 euro” sostiene il giudice. Tutti soldi pubblici. Ebbene sì, il teatrino paradossale messo in piedi da psicologi e assistenti sociali avrebbe provocato anche un danno ingente alle casse dello Stato. Come spiega il Riesame, “vi è stata una perdita economica per l’ente pubblico e uno sviamento dei beni pubblici dal loro uso tipico, rappresentati dalla sostanziale concessione a soggetti privati dei locali de La Cura, immobile destinato a uso pubblico e per cui l’amministrazione pagava un canone di locazione, senza ricevere alcun contributo dagli psicoterapeuti privati che da soli la utilizzavano e che percepivano alte remunerazioni per ogni seduta di psicoterapia ivi svolta, tra l’altro interamente pagata da soggetti pubblici”. Di fatto, secondo quanto scrive il Tribunale, “è stato violato il principio di trasparenza e di buona amministrazione”, poichè “l’assegnazione del servizio di psicoterapia di minori abusati, individuati dai servizi sociali, a soggetti privati è avvenuta senza alcuna regolare procedura pubblica, senza apposita gara o provvedimento motivato”. Motivo per cui, adesso Claudio Foti, si ritrova indagato per abuso d’ufficio. Come si legge dalle carte della Procura di Reggio Emilia, il meccanismo era sempre lo stesso: “Gli affidatari venivano incaricati dai Servizi Sociali di accompagnare i bambini alle sedute private e di pagare le relative fatture a proprio nome”. Soldi che poi gli affidatari ricevevano mensilmente attraverso rimborsi sotto una finta causale di pagamento. In questo modo, si riuscivano anche a falsificare i bilanci dell’Unione dei Comuni coinvolti. Le sedute di psicoterapia, “venivano pagate dalla Asl con denaro destinato agli affidatari di minori bisognosi, senza che la reale destinazione del denaro fosse palesata”. Ma c’è di più. Nel momento in cui i servizi sociali della Val d’Enza assegnavano l’incarico delle sedute di psicoterapia all’interno del centro La Cura agli psicologi della Hansel e Gretel, in una delle delibere, specificavano che non vi sarebbero state spese aggiuntive provenienti dalla collaborazione con la onlus di Foti. Fatto smentito dalle carte. Tutto questo nonostante, come specificano i magistrati, l'Asl di Reggio Emilia avrebbe potuto offrire lo stesso servizio gratuitamente. Cosa che però non è successa e che ha provocato un danno alla Pubblica amministrazione di 200mila euro. Ma Claudio Foti non ne sapeva niente secondo il suo avvocato. Che continua a sostenere che l’assistito fosse ignaro di tutto ciò che riguardava denaro e pagamenti. Dal canto suo, il terapeuta agiva in buona fede, non curandosi della parte economica. Secondo i giudici però, e a fare attrito con le ragioni riportate dal legale dell’indagato è un fatto avvenuto nel lontano 2003, anno in cui Foti, “aveva formato una Srl per gestire la psicoterapia su larga scala, di cui lui era amministratore delegato, socio di maggioranza e diretto destinatario di ingenti somme elargite senza titolo dalla pubblica amministrazione per le prestazioni private camuffate da pubbliche a cui aveva preventivamente dichiarato che avrebbe rinunciato, ma aveva invece dato direttive alla segretaria per fissare le tariffe”. Ora come allora. Il meccanismo è esattamente lo stesso utilizzato per le sedute a La Cura. Insomma, pare che, il terapeuta torinese, con i soldi sapesse bene come muoversi e che i sotterfugi per fregare le casse dello Stato non fossero per lui cosa nuova. Per di più, secondo il giudice del Riesame, “la circostanza che vi fossero precedenti rapporti di conoscenza e collaborativi di Foti con Federica Anghinolfi, la dirigente amministrativa che aveva introdotto Hansel e Gretel nella realtà emiliana importandovi le persone che la rappresentavano, in primo luogo Foti, da Torino, induce a ritenere evidente che tra essi vi sia stato precedente accordo finalizzato a raggiungere il risultato concreto descritto”. Rapporti che il terapeuta della Hansel e Gretel avrebbe sfruttato, anche per ricavare denaro. Secondo il tribunale di Bologna dopo essere “riuscito a inserirsi nel territorio emiliano potendo contare sulla totale dedizione a lui e al suo gruppo da parte degli assistenti sociali e responsabili dell’Unione Comuni Val d’Enza” Foti avrebbe approfittato di “tale ascendente per svolgere per alcuni anni psicoterapia di un numero elevato di minori, protratta il più a lungo possibile, al fine di perseguire un ingente profitto economico con parallelo danno per gli enti pubblici”.

All’avvocato Scarpati si contesta una raffica di incarichi fiduciari. Niente bandi né rotazione Per anni è stato il legale dei minori abusati, dell’Unione Val d’Enza e perfino dell’Anghinolfi. Am. P. il 2 luglio 2019 su La Gazzetta di Reggio. Avvocato dei minori abusati, avvocato dell’Unione Val d’Enza parte civile nei processi e avvocato di fiducia di Federica Anghinolfi. Il che equivale a dire controllato e controllore. Al di là di quelli che saranno gli esiti penali, la posizione di Marco Scarpati, stimato esperto di abusi minorili e storica figura di riferimento in questo campo, all’interno della struttura “La Cura” presenta quantomeno un conflitto di interessi. Da sottolineare che l’avvocato Scarpati viene definito dall’accusa come un «concorrente extraneus al reato», non coinvolto direttamente nella gestione dei singoli casi. Tuttavia ai cinque indagati – Anghinolfi (in quanto dirigente del servizio), Carletti (assessore politiche sociali dell’Unione), Campani (responsabile dell’Ufficio Piano dell’Unione) e Canei (istruttore amministrativo del Servizio Sociale dell’Unione) e infine lo stesso Scarpati – si imputano «affidamenti intuitu personae», cioè incarichi fiduciari a raffica in virtù delle acclarate qualità del libero professionista, in barba a parecchie normative e in violazione alle linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac). Incarichi «in contrasto con la natura occasionale», che avrebbero procurato «intenzionalmente a Scarpati un ingiusto vantaggio patrimoniale»: liquidati «12.830 euro nel 2016, 18.593 euro nel 2017, 27.287 euro nel 2018 (per un totale di oltre 50mila euro)». Nulla di male, né cifre esorbitanti, senonché tali somme vengono erogate «simulando una formale procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dell’incarico di consulente giuridico del Servizio Sociale Val d’Enza, procedura in realtà intrisa di macroscopiche e gravissime irregolarità volte a favorire Scarpati», al quale sono stati affidati «sia l’incarico di consulente giuridico sia singoli incarichi di fiducia dei minori affidati al Servizio sociale». Condotte che avrebbero procurato a Scarpati «non solo l’ingiusto vantaggio patrimoniale pari a 20mila euro(rilevata la nullità del bando), bensì anche le ulteriori somme da quest’ultimo percepite con riferimento ai singoli incarichi di difesa dei minori». Non solo: Federica Anghinolfi, «in presenza di un interesse proprio», non si è astenuta dal nominarlo (il 20 giugno 2018) suo difensore di fiducia per un procedimento penale che la riguardava. Ad Andrea Carletti e Nadia Campani, in particolare, l’accusa muove l’addebito di essere «pienamente consapevoli della totale illeicità del sistema» e «della sistematica violazione della trasparenza e rotazione nelle nomine fiduciarie», sostenendo altresì «il legale anche attraverso l’invito a pubblici convegni tenutisi a Bibbiano», con Scarpati relatore. Mentre all’avvocato si addebita «la totale illeicità non solo della procedura amministrativa, ma anche della cumulabilità economica». — Am. P.

Il Riesame boccia Foti: "Non risulta dotato delle competenze professionali". È quanto emerge dall’ordinanza del tribunale di Bologna che ha disposto, nei confronti di Foti, l’obbligo di dimora a Pinerolo. Costanza Tosi, Mercoledì 14/08/2019, su Il Giornale. Il Riesame “boccia” Claudio Foti. Secondo il giudice, lo psicologo “non risulta dotato delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta”. È quanto emerge dall’ordinanza del tribunale di Bologna che ha disposto, nei confronti di Foti, l’obbligo di dimora a Pinerolo. Secondo il tribunale, il metodo utilizzato dal padre della onlus torinese, finita sotto accusa nell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi dei minori, “appare di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della ‘Carta di Noto’”. Pertanto, il Riesame - come riportato da Il Resto del Carlino - definisce il “metodo Foti”, tanto decantato dai vertici della Val D’enza, “una tecnica invasiva e suggestiva posta in essere nella psicoterapia dei minori”. Eppure, Claudio Foti era considerato un luminare della materia, nonostante, come suggeriva il curriculum vitae del professore che ilGiornale.it aveva consultato, non disponesse neppure di una laurea in psicologia. A confermalo è quanto emerso dall’interrogatorio di garanzia, dove Foti, “a fronte di domande incalzanti del pm sui titoli in base a cui esercita l’attività”, aveva ammesso di essere dottore in Lettere e di poter esercitare la sua attuale professione grazie ad “un riconoscimento ex articolo 85 per l’esercizio della psicoterapia”, aggiungendo di aver seguito anche svariati corsi specialistici e aver conseguito molti titoli, in ottemperanza delle leggi vigenti. “Il caso sembra rientrare nella regolamentazione della legge 56 del 1989, che ha regolarizzato le situazioni incerte fino a quell’epoca”, osservava il giudice. Ma ciò non è bastato a convincere il Riesame sulle competenze dell’indagato, che sottolinea la "trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti, da parte di una persona che, tra l’altro - evidenzia - non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta". Due, le ipotesi di reato formulate a carico di Claudio Foti, ricorso al Riesame per chiedere la revoca dei domiciliari. Il terapeuta è finito nel registro degli indagati, per i fatti di Bibbiamo, con l’accusa di abuso d’ufficio, in concorso con Federica Anghinolfi, Francesco Monopoli, Andrea Carletti, Nadia Campani, Barbara Canei, Nadia Bolognini e Sarah Testa. Secondo la Procura di Reggio Emilia, lo psicologo avrebbe tenuto sedute di psicoterapia all’interno del centro La Cura, a titolo oneroso, senza però essersi aggiudicato il ruolo partecipando all’obbligatoria gara pubblica. Ipotesi di reato per la quale il giudice individua i pericoli e di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Motivo per cui decide di sostituire i domiciliari, con l’obbligo di dimora. “Perchè - spiega - rappresenta una misura minore, ma assicura tuttavia la medesima finalità, cioè l’impossibilità di svolgere psicoterapia, e soprattutto mantenere e stringere contatti con personalità pubbliche, quali amministratori di enti territoriali, altri professionisti, assistenti sociali con la cui partecipazione potrebbe realizzare reati analoghi”. Considerando che “l’attività professionale, sia sui casi oggetto del presente procedimento sia su altre persone da lui seguite con psicoterapia, veniva svolta in Emilia e in altre città, senza che risulti lo svolgimento di attività dove abita, cioè a Pinerolo”. L’altra accusa alla quale Claudio Foti era chiamato a rispondere è quella di frode in processo penale e depistaggio, riguardante la vicenda avvenuta tra il 2016 e il 2017, di una ragazza che sarebbe stata plagiata e indotta a ricordare abusi sessuali subiti da parte del padre e di un giovane dante la sua infanzia. Caso per il quale c’è stato l’annullamento del Riesame, dato che, nel frattempo, la ragazzina avrebbe compiuto 18 anni e il procedimento giudiziario sui presunti abusi sessuali si è chiuso prima.

“Una tecnica invasiva e suggestiva posta in essere nella psicoterapia dei minori”. Il Resto del Carlino il 14 agosto 2019. In un’intervista al Corriere del 19 luglio 2019 aveva dichiarato: «Per me è caduta l’accusa più grave e infamante, relativa alla manipolazione della ragazza e alla terapia, così hanno scritto, “brutale e suggestiva” che io avrei eseguito. Ma per fortuna il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e la grazia del Signore mi ha consentito di ricordarmi che io quegli incontri li avevo registrati. Venti ore di filmati per 15 sedute mi hanno salvato». Adesso però che è nota l’ordinanza che ha revocato i domiciliari (ma imponendo l’obbligo di dimora) la posizione di Claudio Foti appare diversa da quanto dichiarato ai giornali a fine luglio. Bibbiano, il Riesame. “Ingerenza nella vita dei bambini” – il Resto del Carlino di Alessandra Codeluppi su Il Resto del Carlino il 14 agosto 2019 – “Una tecnica invasiva e suggestiva posta in essere nella psicoterapia dei minori”. Il Riesame la definisce così, attribuendola alla “scuola Foti“, come la definisce lo stesso giudice, cioè il gruppo di professionisti che faceva capo al centro ‘Hansel e Gretel’ di Moncalieri (To) e di cui tre esponenti sono indagati nell’inchiesta sugli affidi di Bibbiano: Claudio Foti, la moglie Nadia Bolognini e Sarah Testa. È uno dei passaggi dell’ordinanza con cui il tribunale bolognese motiva l’obbligo di dimora disposto per Foti a Pinerolo, mentre prima il 68enne si trovava ai domiciliari. Il giudice trova discutibili alcuni aspetti del metodo di Foti: «Appare di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della ‘Carta di Noto’». E pesanti dubbi vengono sollevati dal Riesame sulla preparazione di Foti per esercitare la professione. Su di lui, considerato un luminare in Val d’Enza – dove i servizi sociali inviavano i minori alla sua équipe nella sede della ‘Cura’ -, il giudice parla di «trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti, da parte di una persona che, tra l’altro – evidenzia – non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta». E si richiama quanto emerso dall’interrogatorio di garanzia, dove Foti aveva detto di avere la laurea in Lettere: «A fronte di domande incalzanti del pm sui titoli in base a cui esercita l’attività, ha addotto di avere "un riconoscimento ex articolo 85 per l’esercizio della psicoterapia", nonché di aver seguito molti corsi specialistici e aver conseguito molti titoli, in ottemperanza delle leggi vigenti. Il caso – osserva il giudice – sembra rientrare nella regolamentazione della legge 56 del 1989, che ha regolarizzato le situazioni incerte fino a quell’epoca». Il giudice accenna poi al «picco statistico di presunti abusi individuati sulla base di questa tecnica, non verosimile – rimarca – che ha dato luogo all’indagine». Due le ipotesi di reato che sono state formulate a carico di Foti, che era ricorso al Riesame contro i domiciliari. Una era la frode in processo penale e depistaggio, per la vicenda tra il 2016 e il 2017 di una ragazza che sarebbe stata da lui convinta a ricordare di aver subito abusi sessuali da parte del padre e di un giovane quand’era piccola: per questa parte c’è stato l’annullamento del Riesame perché nel frattempo la ragazzina sarebbe diventata maggiorenne e il procedimento giudiziario sui presunti abusi sessuali si è chiuso prima. L’altra riguarda l’abuso d’ufficio, in concorso con Federica Anghinolfi, Francesco Monopoli, Andrea Carletti, Nadia Campani, Barbara Canei, Nadia Bolognini e Sarah Testa, perché avrebbe esercitato la psicoterapia a Bibbiano ricavandone guadagno, ma senza che si passasse dalla necessaria gara pubblica per l’affidamento. Per quest’ultima ipotesi di reato, il giudice ravvisa i pericoli e di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. E motiva la decisione di sostituire i domiciliari, che erano a Pinerolo, con l’obbligo di dimora nella stessa località, «perché rappresenta una misura minore, ma assicura tuttavia la medesima finalità, cioè l’impossibilità di svolgere psicoterapia, e soprattutto mantenere e stringere contatti con personalità pubbliche, quali amministratori di enti territoriali, altri professionisti, assistenti sociali con la cui partecipazione potrebbe realizzare reati analoghi». Ciò alla luce del fatto che «l’attività professionale, sia sui casi oggetto del presente procedimento sia su altre persone da lui seguite con psicoterapia, veniva svolta in Emilia e in altre città, senza che risulti lo svolgimento di attività dove abita, cioè a Pinerolo». Fonte: Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino 14.8.19

L'infanzia difficile. Due scuole di pensiero duramente contrapposte. È guerra tra le associazioni che difendono i bimbi dagli abusi. Jenner Meletti il 27 febbraio 2002 su La Repubblica. La guerra prima sotterranea - o chiusa nelle aule dei tribunali - è scoppiata all´improvviso su una pagina di giornale. Un genitore di Ferrara viene assolto dall'accusa di violenza su un figlio adottivo e un consulente della difesa - il dottor Giovanni Battista Camerini, coordinatore del corso di perfezionamento sulle strategie di prevenzione degli abusi all´università di Modena - dichiara papale papale: "Le valutazioni sono state fatte solo per provare le accuse. Siamo a questo punto perché ci sono operatori che si rifanno alla metodologia Cismai: a tale categoria appartengono anche la psicologa dei servizi e la consulente del Pubblico ministero". Il dottor Camerini fa parte del Sinpia - Società italiana neuro psichiatria infantile e adolescenziale - e di Telefono azzurro, e queste associazioni si ispirano alla Carta di Noto. Dall'altra parte di quella che rischia di diventare una barricata c´è il Cismai, il Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l'abuso dell´infanzia. Soci Cismai, nella regione Emilia Romagna, oltre al distretto 2 di Mirandola, sono il dipartimento Servizio sociale di Cesena, il Servizio tutela infanzia e adolescenza di Imola, il Centro abusi e maltrattamenti e il Servizio tutela minori e legale di Ferrara, il Servizio area minori di Modena. "Io non vorrei - dice il dottor Camerini, stretto collaboratore di Ernesto Caffo - che si arrivasse a ragionare in termini di appartenenza, reinventando i guelfi e i ghibellini. Il Cismai è un punto di vista, non la verità scientifica che nasce solo da un confronto dialettico. Nessun problema se il Cismai fosse un´associazione che stimola il confronto. Il problema nasce quando certi tribunali nominano come consulenti soltanto chi aderisce alla dichiarazione di consenso del Cismai. Io penso che tutelare davvero i bambini significhi anche proteggerli dalle conseguenze che scaturiscono dai cosiddetti falsi positivi, vale a dire gli abusi inventati. Nel Cismai vedo invece una cultura dell'abuso tutta fondata sulla denuncia, con poca attenzione alle risorse che possono essere presenti nella famiglia. Si preferisce allontanare il minore, con il rischio di valutazioni superficiali e di decisioni affrettate". La "Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale dell'infanzia" è stata preparata dal Cismai nel 1999 ed è stata pesantemente attaccata nelle udienze dei processi per pedofilia. I punti importanti sono numerosi. "L´abuso è un fenomeno diffuso". "Il perpetratore quasi sempre nega, e spesso mancano evidenze fisiche e testimonianze esterne". "L´assenza di lesioni non può mai portare il medico ad escludere l'ipotesi di un abuso". "Quanto più un bambino è stato danneggiato dall´abuso, tanto più può essere compromessa la sua capacità di ricordare e raccontare". "Lo stesso professionista può effettuare sia la diagnosi che la cura". Anche nello Statuto del Cismai non mancano gli articoli che hanno suscitato polemiche. "I Soci sono obbligati - recita l´articolo 9 - a svolgere le attività preventivamente concordate, a mantenere un comportamento conforme alle finalità dell´associazione". Teresa Bertotti, presidente Cismai fino all´anno scorso, parla delle Commissioni dell´associazione come luoghi nei quali "si sviluppa una solidarietà e una comprensione reciproca", tutto questo "al riparo dalle critiche distruttive e dalle possibili aggressioni esterne". Gli avversari del Cismai diffondono una perizia effettuata dal professore e avvocato Guglielmo Gulotta per conto del Consiglio nazionale dell´Ordine degli psicologi, che giudica del tutto inadeguata la "Dichiarazione di consenso" del Cismai. Il documento - scrive - è composto da "una serie di enunciazioni che lasciano trasparire poche incertezze. Non viene neanche presa in esame l´ipotesi che il sospettato possa essere innocente, ma solo che "il perpetratore quasi sempre nega"". Il professore dice no a uno psicologo - poliziotto, e nega anche che chi fa la diagnosi possa poi seguire anche la cura, come previsto dal Cismai. "Oltre che inopportuno - scrive - è vietato dalla legge". Nel confronto fra le diverse "scuole" non mancano i colpi bassi. "Quelli della Carta di Noto - fanno sapere amici del Cismai - fanno i soldi come consulenti delle difesa dei pedofili". "Quelli del Cismai - fanno sapere dall´altra parte della barricata - fanno i soldi con le consulenze per i tribunali, procurate da altri soci". A volte le accuse sono scritte su carte ufficiali. "Legga questa requisitoria milanese. Tenga presente che il medico legale di cui si parla, Cristina Maggioni, è lo stesso che ha fatto 350 perizie in tutta Italia. E´ lo stesso medico che ha dichiarato abusati tutti i bambini del caso Mirandola". Pagine che fanno venire i brividi, quelle della requisitoria del Pubblico ministero Tiziana Siciliano. Una bambina dice parolacce, e la madre si rivolge al Cbm - la Casa del bambino maltrattato, casa madre del Cismai - per essere aiutata. Le parolacce potrebbero essere "sintomo di abuso". "O denunci tu o denunciamo noi, e ti portiamo via la bambina", questa la proposta fatta da un'operatrice del Cbm. Partono le indagini, la bambina viene allontanata dalla famiglia e il padre è arrestato. Sul perito, la dottoressa Maggioni, il magistrato dice: "Viene da chiedersi se sia una totale incompetente o se sia una persona in malafede. Crede evidentemente di essere in grado di sostenere con la sua semplice parola tutto quello che lei a ritenuto di valutare. Incompetente, negligente, superficiale: questo il giudizio dei periti del giudice su di lei. Queste sono perizie fatte da persone che dovrebbero cambiare mestiere". E lo stesso Pubblico ministero chiede e ottiene l´assoluzione del taxista. Altre carte vengono usate come sciabole. Un amico del Cismai replica consegnando fotocopia di un articolo apparso sulla rivista "Minori giustizia", a firma di Claudio Foti, psicoterapeuta, direttore scientifico del Centro Hansel e Gretel di Torino, pure questo associato ai Cismai. Nel mirino, stavolta, il Telefono azzurro fondato da Ernesto Caffo, uno dei leader della scuola di Noto. Qui si arriva all´insulto. "Il Telefono azzurro - si chiede lo psicoterapeuta - è un servizio sociale che i cittadini sentono necessario, come sostengono artisti, politici e uomini della strada, oppure - come pensano molti operatori dell'area del Child abuse - rappresenta il Cacao Meravigliao della tutela dell´infanzia, cioè una straordinaria operazione pubblicitaria che propone all´opinione pubblica un servizio sostanzialmente inesistente dal punto di vista della gestione concreta, efficace e continuativa dei casi di maltrattamento?". La vera fortuna del Telefono azzurro sono i giornalisti. "Il Telefono Azzurro fornisce informazioni e dati ai cronisti bisognosi di elementi sui cui produrre comunque servizi sulla violenza ai minori, e in cambio i giornalisti restituiscono notorietà e buona immagine al Telefono Azzurro". L´organizzazione "è un imbuto con il collo troppo stretto". "Da 8.000 tentativi di contatto al giorno - scrive Claudio Foti - si arriva ai 6-8 casi al giorno che si afferma di "prendere in carico", e a meno di un caso al giorno giudicato grave e - si sostiene - segnalato ai servizi socio - sanitari, alla scuola, alle forze dell´ordine, ai tribunali". Per finire, lo studioso cita il Consiglio direttivo dell´ Associazione italiana giudici per i minorenni, i quali invitano "quanti, come il principe azzurro del telefono per i bambini, intendono sputare sentenze sui metodi e sulle tecniche d´intervento rispetto ai quali nulla sanno", a preferire "la strada del dignitoso silenzio".

BIBBIANO, secondo me. Fabio Nestola su newspam.it l'11 agosto 2019. Ecco, secondo me. Come spesso accade mi trovo in controtendenza rispetto alla maggioranza dei pareri più autorevoli. Sulle vicende di Bibbiano si sono espressi parlamentari, segretari nazionali di partito e presidenti di sezioni regionali, amministratori locali, presidenti di tribunali, ordini professionali, Garanti regionali, giornalisti televisivi e di carta stampata. Minimizzare è la parola d’ordine che trasuda dalla maggior parte delle dichiarazioni ufficiali, e a seguire depistare, spostare altrove l’attenzione, nascondere il nocciolo del problema o addirittura negare che ci sia un problema. In sostanza, in troppi si sono affannati a concentrare l’attenzione sul dito e non sulla luna. Le truppe oscurantiste si sono mobilitate al grido di “in fondo non è successo niente, è solo una strumentalizzazione dei bambini per fini politici”. Un pluridirettore di TG ha liquidato la questione sentendosi a posto per aver dato la notizia dei primi indagati il 27 giugno, tacendo poi su tutto il resto. Dovere di cronaca rispettato, e visto che lui non intendeva seguire gli sviluppi dell’inchiesta, non avrebbe dovuto farlo nessun altro: chi si azzarda a parlare ancora di Bibbiano è un avvelenatore di pozzi.

Roba da stracciargli la tessera dell’Ordine. Come se la stampa mondiale avesse trattato la strage del DC9 di Ustica limitandosi alla notizia “è caduto un aereo”, calando poi un velo omertoso sugli sviluppi successivi. Era un avvelenatore di pozzi chi ha osato scrivere dei radar militari spenti, del Mig libico caduto sulla Sila, degli aerei francesi ed americani in volo, dell’ipotesi “sull’aereo c’è Gheddafi”, della teoria bomba a bordo, della teoria aereo abbattuto da un missile, della teoria cedimento strutturale, dei reperti recuperati e tutto il muro di gomma emerso negli anni successivi.  È sufficiente “è caduto un aereo”, tutto il resto ad un bravo giornalista non deve interessare.

E Montanelli si rivolta nella tomba. “Quelle su Bibbiano sono solo fake news” tuona qualcuno, dichiarandosi vittima di una macchinazione ai danni del proprio partito ed esprimendo solidarietà al Sindaco arrestato, mica alle famiglie devastate. Poi vengono mobilitate falangi di avvocati per agire penalmente nei confronti di chiunque insinui coinvolgimenti politici con toni non graditi al segretario nazionale. Emergono  posizioni molto critiche con la sinistra in generale e col PD in particolare, tralasciando quelli offensivi ecco un esempio tra i meno violenti, a firma Selvaggia Lucarelli sul Il Fatto Quotidiano: “La sinistra è molto più preoccupata del fatto che Bibbiano contamini il PD che del fatto che il metodo Foti abbia contaminato i tribunali di mezza Italia” e ancora “a destra si continua a parlare di “bambini che non si toccano”, a sinistra di “partito che non si tocca”. Selvaggia Lucarelli non risulta essere militante di Casapound, però nel web è stata additata come fassista ed ha sollevato un polverone di critiche per aver scritto ciò che è sotto gli occhi di tutti: c’è chi, anche strumentalmente, indossa i panni del difensore dei minori, e chi invece ha scelto di concentrarsi sulla difesa del proprio apparato. Personalmente non credo a coloro che oggi sventolano il vessillo di paladini dell’infanzia, per un motivo semplicissimo: è facile sbraitare oggi, ma quando avrebbero potuto e dovuto fare non hanno fatto ciò di cui c’era bisogno. Ed avevano tutte le informazioni necessarie.

Lontano dai riflettori la tutela dell’infanzia non è una priorità della politica, tutta senza esclusioni. Diventa argomento caldo solo in alcune fasi particolari, quando cioè i media garantiscono titoloni, interviste, servizi al TG, visibilità. E soprattutto quando serve a gettare fango sugli avversari, salvo poi scambiarsi grandi strette di mano al prossimo rimpasto di alleanze. Sono partite accuse di speculare sui bambini per accusare un partito, dimenticando o fingendo di dimenticare che in altre occasioni l’immagine di un bambino annegato è stata utilizzata per accusare la fazione opposta. E all’epoca identiche accuse di speculazione sui bambini erano partite a ruoli invertiti. Della serie: utilizzare i bambini a fini politici non si può, tranne che sia io a farlo. La Garante regionale dell’Infanzia sforna appelli a non fare di tutt’erba un fascio, gli assistenti sociali sono tutte brave persone e la categoria non può essere sfiduciata se ogni tanto qualcuno sbaglia. N.B. – lo ha detto la Garante, pagata per rilevare le violazioni dei diritti dell’infanzia, che invece si espone pubblicamente per tutelare una categoria professionale. Un presidente di tribunale è di parere diverso e lascia intendere che la responsabilità del sistema di malaffare sarebbe dei servizi sociali. Si dichiara infatti preoccupato per i suoi giudici ed annuncia che farà di tutto per stroncare la campagna d’odio costruita a causa di qualche assistente sociale infedele. Sport nazionale italiano, lo scarico di responsabilità. Quindi i giudici non c’entrano niente, come se i provvedimenti di allontanamento dei minori, lo stato di abbandono e la dichiarazione di adottabilità li firmassero assistenti sociali, psicologi ed assessori. Come minimo il tribunale ha legittimato una intera filiera disfunzionale fatta di condizionamento dei minori,  relazioni false, ricordi costruiti a tavolino e disegni contraffatti al solo scopo di “scoprire” abusi in realtà inesistenti. Come minimo i giudici hanno avallato una montagna di falsità, incentivando la reiterazione delle dinamiche illecite. Come minimo, ad altro tacere... Grazie alla superficialità di GOT e togati gli operatori infedeli hanno potuto agire indisturbati per anni, erano tranquilli perché sapevano che nessuno avrebbe verificato, in tribunale si fidavano ciecamente, abboccavano a qualsiasi falsità.

Ma oggi il tribunale si chiama fuori, provando addirittura a passare per vittima. Si è poi aggiunta una ulteriore forzatura a-giuridica: l’affidamento di parti dei compiti di valutazione a privati, con il risultato che a valutare una presunta fragilità familiare non è più il Tribunale per i Minorenni. Il Tribunale – non solo in Emilia – ha delegato a psicologi ed assistenti sociali il compito di raccolta delle prove, valutazione della famiglia, eventuali rilevanze giuridiche. Polizia giudiziaria e magistratura possono anche andare in naftalina, gli elementi sui quali basare il processo  li raccolgono gli “esperti” delegati dal tribunale, e sono sempre gli stessi “esperti” ad indicare soluzioni, misure da adottare, percorsi di sostegno.

Con tale prassi il processo ha smarrito il proprio ruolo, l’accertamento della verità. “Tra le righe si delega al Consulente il compito di cavare le castagne dal fuoco a chi deve giudicare, togliendo ai professionisti del processo il loro faticoso mestiere, che è quello di portare prove (il PM) , demolirle ponendo dei dubbi (l’avvocato) e infine decidere sulla base delle prove rimaste in piedi (il giudice) . Il consulente deve solo dirci se il bambino ha idea di cosa voglia dire testimoniare e se capisce la differenza fra vero e falso. E aiutare a porre domande che non contengano suggerimenti sulle risposte, ovvero che siano all’interno di uno schema corretto  Il resto è mestiere dei giuristi” (cit. Marco Scarpati).

Ecco un’altra strategia diffusa, quella di dichiararsi parte lesa. Gli Ordini professionali annunciano la costituzione di parte civile, il diritto cioè di ottenere dei risarcimenti dai propri iscritti qualora ne fosse accertata nel processo la responsabilità penale. Alla società civile poco importa se gli Ordini chiederanno indennizzi di 50 euro o 500.000, piuttosto sarebbe interessante sapere quali misure disciplinari intendano applicare nelle more dell’iter penale. Ci sono dei codici deontologici, vogliamo dargli un’occhiata? Le cronache dicono che la prima pentita dell’inchiesta Angeli e Demoni è stata reintegrata nel proprio incarico. È un premio per aver aiutato le indagini? Tale riconoscimento spetta, eventualmente, alla magistratura sotto forma di uno sconto di pena, o all’Ordine sotto forma di “vabbé, dai, chiudiamo un occhio però prometti di non farlo più”? . Anche il Garante Nazionale per l’Infanzia annuncia la costituzione di parte civile. Anche lei, manco a dirlo, recita il copione della parte lesa; tuttavia proprio il suo ruolo istituzionale le avrebbe imposto di rilevare il problema già da tempo e segnalarlo al Governo. Non lo ha fatto. La filiera disfunzionale ipotizzata dagli inquirenti viene confermata dalle confessioni dell’ultima ruota del carro, la giovane assistente sociale che ha ammesso di aver compilato relazioni false dietro pressione dei propri dirigenti. Doveva scrivere che i bambini andavano allontanati perché la casa in cui vivevano era inadeguata, anche se in quella casa non aveva mai messo piede. Tanto non sarebbe mai stata controllata dal dirigente del Servizio, che non sarebbe mai stato controllato dall’Assessore, che non sarebbe mai stato controllato dal Sindaco. Et voilà, la frittata è servita. Emerge dagli atti d’indagine una macchina organizzativa fondata sulla sistematica falsificazione delle valutazioni sulle famiglie, con lo scopo di allontanare i minori anche quando non ci fosse alcun criterio per farlo. Una filiera strutturata su paradigmi antidemocratici ed antisociali, contrari alla Convenzione di New York del 1989, alla Carta di Noto ed a qualsiasi principio nazionale ed internazionale di tutela del minore. Un laboratorio assistenziale spacciato per best practice. dove ci si arroga il diritto di scegliere arbitrariamente in quale contesto far crescere bambine e bambini tolti senza motivo ai propri genitori, fratelli, zii, cugini, nonni.

Esperimenti di architettura sociale FFM – Famiglia Forzatamente Modificata. Acronimo che utilizzo per identificare il minore sradicato dalla propria famiglia d’origine, e collocato in un contesto forzatamente modificato ad unilaterale discrezione di chi “rileva”, anche con prove false, criticità inesistenti. Il focus è essenzialmente sui diritti del minore, meglio sorvolare sui diritti delle famiglie alle quali vengono strappati i figli poiché si dovrebbe aprire un altro fronte sconfinato. Non c’è solo Bibbiano; per decenni le famiglie hanno denunciato il sistema che sfornava FFM, e a fianco delle famiglie singoli avvocati come anche associazioni forensi, associazioni di pedagogisti, associazioni di genitori ed anche diverse interrogazioni parlamentari. I contorni del problema “allontanamenti facili” hanno cominciato a delinearsi già nel secolo scorso, con le prime inchieste su maltrattamenti ed abusi nel Forteto del Profeta a Vicchio, poi i finti abusi sessuali di Sagliano, poi 16 finti casi di pedofilia e satanismo a Mirandola e Massa Finalese … l’elenco dei casi emersi è lungo, e di quello dei casi sommersi non si può intuire la fine .

Tutti sapevano tutto, anche a livello istituzionale. C’è da stupirsi che oggi la politica si stupisca. L’attuale Sottosegretario a Palazzo Chigi Vincenzo Spadafora sapeva tutto, ma ha snobbato l’allarme. Nel 2014 gli ho illustrato personalmente, in Senato, una relazione dettagliata sulle storture del sistema di allontanamento dei minori dalle famiglie d’origine e sui trattamenti a volte irrituali che subiscono.

Sapeva quindi che non esiste un database ufficiale dei minori collocati fuori famiglia, dei tempi di permanenza, delle strutture di accoglienza laiche e religiose, dei fondi erogati a tali strutture. Sapeva che non esistono criteri certi per l’allontanamento dei minori, sapeva che le criticità delle famiglie potevano essere mistificate.

Sapeva che esistono interessi economici che proliferano nella costruzione degli abusi.

Sapeva dell’enorme potere conferito dall’art. 403 CC e sull’utilizzo non sempre cristallino di tale potere.

Sapeva persino degli abusi e maltrattamenti subiti dai minori proprio nelle strutture che avrebbero dovuto proteggerli.

Oggi tutti si indignano per Bibbiano e la politica chiede trasparenza, riforme e commissioni d’inchiesta. Tuttavia le stesse richieste sono state fatte a Spadafora da oltre 5 anni, che invece di recepire le criticità non trovò di meglio che minimizzare: “non è il caso di fare allarmismi, il Sistema tutto sommato regge”.

Eppure all’epoca era, o fingeva di essere, il Garante Nazionale per i diritti dell’Infanzia. Torniamo all’oscuramento dei fatti di Bibbiano: un tentativo di cortina fumogena che però viene diradata dai fari antinebbia accesi – principalmente sul web – per mantenere alta l’attenzione. Esiste una sostanziale differenza tra la Val d’Enza e le migliaia di situazioni simili denunciate da anni in tutta Italia, ed è nella sua genesi. L’inchiesta Angeli e Demoni nasce dalla magistratura, non dalle proteste dei cittadini come nelle mille occasioni precedenti. Il Sostituto Procuratore del Tribunale di Reggio Emilia, Valentina Salvi, ha rilevato con sospetto la mole anomala di situazioni problematiche, o presunte tali, presenti sul territorio, dalle quali nasceva l’esigenza di allontanamenti in massa dei minori dalle famiglie d’origine. Ed ha deciso di vederci chiaro, verificando gli sforzi fatti dal Sistema per autoassegnarsi l’esclusiva della bontà, ramificata ben oltre l’Emilia. Il resto è cronaca: creando un problema creo anche il diritto di potermene occupare. E brulicano le FFM. Fabio Nestola

Bibbiano, ora parla l'ex giudice: "Così funziona il sistema affidi". I servizi sociali riuscivano a togliere i bambini alle famiglie grazie al Tribunale dei Minori. Costanza Tosi, Giovedì 01/08/2019 su Il Giornale. False relazioni, accuse infondate, pretesti inconcepibili per togliere i bambini alle proprie famiglie. Ne ha viste tante, troppe l’ex giudice Francesco Morcavallo che, da settembre 2009 a maggio del 2013, ha prestato servizio al Tribunale dei Minori di Bologna. Testimone diretto dell’operato dei "diavoli" della Val d’Enza, i servizi sociali finiti sotto accusa nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Fu proprio lui, assieme ad altri due colleghi, a denunciare le irregolarità del sistema degli affidi dei minori. “Abbiamo fatto degli esposti su anomalie enormi", ci dice al telefono l’ex giudice, che denuncia: “Sparivano fascicoli. Noi decidevamo di riassegnare i bambini alle famiglie naturali ma, le nostre decisioni venivano revocate da altri giudici. Noi mandavamo i bambini a casa e, dopo poco, venivano riportati via”. Un altro tassello inquietante si aggiunge al caso Bibbiano. Qualcosa, anche al tribunale dei minori, non funzionava e, a quanto pare, continua a non funzionare. Almeno secondo l’ex giudice Morcavallo. “Quando arrivano le segnalazioni dei servizi sociali non c’era e non c’è una verifica. Il giudice deve verificare due cose, che la relazione contenga dei fatti che giustifichino le valutazioni e che quei fatti siano veri. Il giudice deve accertare i fatti per capire se deve provvedere e come farlo.” Segnalazioni fatte da Morcavallo che, proprio per questo, è stato punito. “Ci sono stati dei veri e propri provvedimenti nei miei confronti poi, successivamente, annullati dalla cassazione. L’ex giudice è un fiume in piena. Dopo le anomalie ha deciso di lasciare il tribunale dei minori. Troppe cose non tornavano. “Non ce la facevo più. É doloroso trovarsi ad operare consapevole di essere al centro di un sistema del genere, senza riuscire a fare niente. É disumano. Ho dovuto dimettermi.” Morcavallo ha più volte lanciato grida d’aiuto. “Io e altri due colleghi abbiamo denunciato tutto al Csm, alla Procura Generale, alla Corte di Cassazione, a tutte le autorità di garanzia. Ma nulla. Nessuno si è mosso. Per fortuna ci ha pensato la procura di Reggio Emilia". Ma, per Morcavallo, che è tornato a fare l’avvocato e a difendere le famiglie “abusate”, “il problema è che in queste istituzioni operano gli stessi referenti politici dei gestori di questo sistema assurdo". Istituzioni, il cui compito sarebbe quello di vigilare. Verificare che i giudici controllino i fatti. E che, invece, secondo le parole di Morcavallo, i fatti se li facevano sfuggire o, nella peggiore delle ipotesi, li coprivano. "Ha sentito un magistrato, un presidente di un tribunale, un componente del Csm, chiedere scusa? Non dico dimettersi. Solo chiedere scusa. Non è stato fatto. Qualcuno è arrivato persino a dire “io sono la vittima”, che credo sia anche offensivo per le vere vittime di questo sistema".

Ecco come funzionava il sistema. “Facevano subito un provvedimento urgente che, come minimo, era di affido del bambino ai servizi sociali. Questo è come dire ai servizi sociali da questo momento tu, fai quello che vuoi. Sottoporre il bambino a terapie, fagli fare dei percorsi in cliniche diagnostiche, terapie psicofarmacologiche, molto spesso addirittura lo allontanavano - dice l’ex giudice - disponevano che venisse portato in una casa-famiglia.” Da lì iniziava l’inferno delle famiglie. Fatto di controlli, terapie, visite mediche e, a volte, anche di lunghi processi penali. Processi che spesso finivano per non risolvere la situazione. Tanto che, come testimoniano i genitori nelle storie che vi abbiamo raccontato, molte volte nonostante l’assoluzione del padre o della madre nella sala di tribunale, i bambini restavano affidati ai servizi sociali. Perché se le accuse degli psicologi nei confronti dei genitori venivano smentite quei bambini non tornavano a casa? Semplice. “Innanzitutto, la verifica del tribunale dei minori è autonoma da quella del tribunale penale ed è molto più lenta. Ma il punto è che subentrano degli altri fattori di valutazione che non dovrebbero subentrare.” Il procedimento riparte da zero, con ulteriori verifiche e periodi di osservazione. Ma, soprattutto, nuove relazioni che suggeriscono la decisione da prendere. “Il punto è che le relazioni vengono fatte dalle associazioni che seguono il bambino preso in causa, dalla casa-famiglia in cui vive… dagli stessi che hanno tutto l’interesse che la situazione rimanga invariata, che non vogliono che il bambino torni a casa. I soggetti sono gli stessi che sperano che gli affidamenti siano tanti e lunghi", afferma ancora l’ex giudice. Insomma, perfino dopo le sentenze dei tribunali gli assistenti sociali erano liberi di continuare la loro battaglia per portare avanti i propri interessi. E a conferirgli il potere erano proprio i giudici del tribunale dei minori. Così, d’altronde, dice la legge. "Il potere glielo danno i giudici - spiega Morcavallo - L’assistente sociale di per sé non ha uno strumento per fare questo certo tipo di cose. O, comunque, non ha uno strumento per farle in modo durevole. L’unica cosa che consente la legge, oggi, all’assistente sociale è la possibilità, in caso di emergenza, di prendere un bambino e allontanarlo dalla famiglia ma per il periodo dell’urgenza. Vale a dire massimo pochi giorni. Periodo che, per essere prolungato necessita di una decisione di un giudice. I terapeuti, gli psicologi, non hanno assolutamente gli strumenti giuridici per costringere la famiglia a soggiacere a quel trattamento". Ma i giudici sapevano o non sapevano cosa si nascondeva sotto le false relazioni lasciate passare senza la minima esitazione? Al momento non ci è dato saperlo. “In ogni caso è comunque grave. - Ci tiene a sottolineare l’ex giudice - A un giudice che dorme io non affiderei neanche una bambola, figuriamoci un bambino…". Ma per Morcavallo l’alibi della buona fede lascia il tempo che trova. "Mi domando solo se sia possibile che dormissero se sono dieci anni che gli viene detto che non devono fare in questo modo, che non devono prendere per buona la relazione, ma devono verificare i fatti". In Italia, ma soprattutto a Bologna dove, i casi di bambini strappati illegalmente alle proprie famiglie, ce ne sono stati tanti. Oggi come in passato.

"Io vittima come Bibbiano". E l'avvocato si sdraia davanti palazzo Chigi. L'avvocato Carlo Priolo stamattina ha protestato davanti a Palazzo Chigi per denunciare l'esistenza di un sistema di presunti affidi illeciti anche a Roma. Francesco Curridori, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. L'avvocato Carlo Priolo, insieme alla sua assistita, stamattina davanti a Palazzo Chigi è stato protagonista di una protesta con la quale ha cercato di denunciare l'esistenza di un sistema di presunti affidi illeciti anche a Roma. Una situazione che ricorda l'inchiesta 'Angeli e Demoni' di Bibbiano e su cui l'avvocato ha voluto puntare l'attenzione dei media gettandosi a terra di fronte agli agenti di polizia di guardia all'ingresso di Palazzo Chigi. Priolo è, infatti, il difensore di una madre a cui nove anni fa è stato sottratto il figlio che, ora, di anni ne ha 13. La donna è al centro di una vicenda giudiziaria che prosegue a suon di perizie degli assistenti sociali e sentenze. L'ultima è arrivata proprio oggi e ha dato ragione all'ex marito della donna che ha ottenuto l'affidamento esclusivo del loro figlio, mentre per l'assistita di Priolo sono stati disposti degli incontri protetti ogni 15 giorni. "È una "sentenza vergogna". Mi hanno tolto la potestà genitoriale, mi hanno diagnosticata come 'Simbiotica' ovvero troppo affettiva (Pas), mi hanno tolto mio figlio", afferma la donna. "Mi tolgono mio figlio per un eccesso di affetto", continua la donna che si sente vittima di "un caso simile a quello di Bibbiano". "Chiedo di parlare con il ministro della Giustizia Bonafede e con il presidente del consiglio Giuseppe Conte", ha concluso la madre disperata che da tempo denuncia l'esistenza di ""sequestri di Stato" in tutta Italia".

Sistema Italia. Violazione dei diritti umani e burocratizzazione del sistema.

Affidi illeciti all'altro genitore. Marcello Adriano Mazzola, Avvocato e scrittore, su Il Fatto Quotidiano il 30 gennaio 2013.

Diritto alla bigenitorialità, la Corte Europea condanna l’Italia. Era ora. Finalmente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo palesa ciò che si sa da molto tempo e si finge di non sapere. L’Italia è stata condannata – in un caso identico a quello noto di Cittadella di qualche mese fa, caso in realtà molto diffuso -, per non avere predisposto un sistema giuridico (e amministrativo) adeguato a tutelare il diritto inviolabile del genitore (nella specie e quasi sempre il padre “separato”) di esercitare il naturale rapporto familiare col figlio. Con la sentenza Corte Eur. Dir. Uomo, sez. II, 29 gennaio 2013 (Pres. Jočienė), Affaire Lombardo c/ Italia si osserva che dall’art. 8 della Convenzione, derivano obblighi positivi tesi a garantire il rispetto effettivo della vita privata o familiare. Questi obblighi possono giustificare l’adozione di misure per il rispetto della vita familiare nelle relazioni tra gli individui, e, in particolare, la creazione di un arsenale giuridico adeguato ed efficace per garantire i diritti legittimi delle persone interessate e il rispetto delle decisioni dei tribunali. Tali obblighi positivi non si limitano al controllo a che il bambino possa incontrare il suo genitore o avere contatti con lui ma includono l’insieme delle misure preparatorie che permettono di raggiungere questo risultato. In particolare per essere adeguate, “le misure deputate a riavvicinare il genitore con suo figlio devono essere attuate rapidamente, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui”. Non deve, dunque, trattarsi di misure stereotipate ed automatiche.

Il caso Lombardo c/ Italia, – come si può ricavare nel fatto della sentenza leggibile in francese – rende palpabile e avvertibile con dolore profondo, il dramma esistenziale di un uomo che per anni ha dovuto ricorrere all’infinito ai giudici, con un esborso economico notevole (evento che anch’esso può segnare il destino di un uomo) per ottenere l’esercizio (e dunque il riconoscimento del diritto inviolabile, poiché non può esservi il diritto se viene riconosciuto formalmente ma violato nella sostanza) del diritto alla bigenitorialità, nella specie paterna, dopo che il tribunale gli ha riconosciuto le modalità per esercitarlo. Il caso è identico a quello di Cittadella, connotato da una madre che dopo la separazione impedisce con ogni mezzo al padre di vedere il figlio, alienando la figura paterna, compiendo ben due crimini: uno contro il figlio indotto a crescere in modo innaturale, privo del riferimento fondamentale di uno dei due genitori; il secondo (spesso trascurato ove non ignorato) contro il padre violato nel suo diritto più sacro e forte, quello del rapporto padre-figlio. Un caso da manuale, poiché chi tratta il diritto di famiglia ben sa che rientra in una casistica assai diffusa. Casistica che vede spesso la madre “separata” artefice di tale condotta, in danno del padre. Come raccontano gli esperti, mentre una tale gravissima condotta vedeva sino all’inizio del secolo artefici i padri verso le donne, dalla seconda metà del ‘900 in poi pare che tale potere sia stato conquistato dalle donne. Chi tratta il diritto di famiglia (magistrati ed avvocati in primis, poi i consulenti e gli assistenti sociali) ha una responsabilità enorme poiché gestisce non diritti di crediti ma diritti inviolabili. E’ necessario dunque che sia dotato di straordinaria capacità, formazione, etica professionale, equilibrio ed onestà intellettuale. Non ultimo, intuito. Molte volte mi sono imbattuto in magistrati e avvocati incapaci di gestire il conflitto e con tale mediocrità o con insulsa piaggeria, decidere di formalizzare l’affido condiviso ma sostanzialmente realizzare un affidamento esclusivo (mascherato dall’ipocrisia del genitore collocatario, nel 90% dei casi la donna secondo i dati resi noti nei convegni, relegando il diritto di visita del padre e dei contatti col figlio al 15%). Può dirsi “condiviso” un diritto alla bigenitorialità funzionale al 15%, gravato dalla servitù di versare un assegno di mantenimento (spesso utilizzato dalla madre con disinvoltura) indiretto (quando la ratio delle legge è il mantenimento diretto), espropriato interamente dell’abitazione e ridotto (se dotato di reddito medio) alla povertà, infine privo di un sistema (come denuncia la Cedu ora) di tutela adeguato del diritto già così compresso? L’auspicio è che si esca ora da questo velo di grave ipocrisia che connota tale materia e si riequilibri il sistema che sta causando ogni anno migliaia di vittime bianche, atteso che non c’è nulla di più straordinario, intenso, sublime, indissolubile del rapporto tra un genitore ed il figlio.

Affidi illeciti a terzi. Forum di Avvenire. Bimbi tolti ai genitori: ma è crudeltà o tutela? Lucia Bellaspiga e Luciano Moia, domenica 21 luglio 2019 su Avvenire. Il caso degli affidi illeciti a Bibbiano riapre gli interrogativi sul sistema di protezione dei piccoli. Il dibattito di Avvenire con sette esperti nel campo della tutela dei minori. Bambini dati in affidamento con procedure sospette, procedimenti viziati da metodi di ascolto suggestivo per non dire capzioso, famiglie senza diritto alla difesa. E poi servizi sociali appaltati a cooperative esterne, libere di agire in modo arbitrario, quasi senza controlli, consulenze tecniche d’ufficio affidate a psicologi e pedagogisti che ignorano le linee guida degli ordini professionali, giudici onorari in sospetto di conflitto d’interesse per aver ricoperto incarichi nelle strutture d’accoglienza a cui loro stessi destinano i minori allontanati dalle famiglie. Cosa sta succedendo al nostro sistema di tutela dei minori? Il caso Reggio Emilia è isolato o ha rivelato prassi diffuse, una routine orientata al peggio che produce ingiustizie e sofferenze?

Per riflettere su vizi e virtù del nostro diritto minorile abbiamo chiesto aiuto agli addetti ai lavori, giudici, magistrati, avvocati, neuropsichiatri infantili. Giovedì scorso, per quasi tre ore, hanno discusso con noi Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano; Ciro Cascone, procuratore capo della Procura per i minorenni di Milano; Patrizia Micai, avvocato, Reggio Emilia; Rosanna Fanelli, avvocato, Bari-Roma, portavoce del Movimento 15 maggio; Luisa Francioli, avvocato, responsabile legale Cam (Centro affidi minori) di Milano; Maria Carla Barbarito, avvocato di Milano, curatore speciale minori; Stefano Benzoni,neuropsichiatra, Policlinico di Milano. A condurre il dibattito, dopo l’introduzione del direttore Marco Tarquinio, alcuni giornalisti di “Avvenire”.

MARIA CARLA GATTO, presidente Tribunale minorenni Milano: «I numeri ci dicono che non abbiamo bisogno di trovare bambini da mettere in famiglie, ma di famiglie affidatarie disponibili ad accogliere i bambini. L’ultimo dato disponibile dei bambini fuori casa è del 2014: in Italia 2,6 minori per mille residenti, uno dei dati più bassi in Europa. Dobbiamo capovolgere l’assioma. E quando i bambini non possono essere collocati in famiglia vanno inevitabilmente in comunità. Chi decide quando? Arriva la segnalazione dalla società civile ma, tra tutte le segnalazioni che arrivano alla Procura, meno della metà arrivano al Tribunale. Da qui partono i procedimenti e si mandano le segnalazioni alle parti, sulla base del giusto processo. Ci sono situazioni di emergenza, violenza, abusi, abbandoni, in cui l’urgenza impone di abbreviare i tempi. In ogni caso gli interventi sono sempre complessi e delicati, e hanno bisogno di competenza e di specializzazione. Ma non ci può essere specializzazione e competenza se non c’è formazione: questo problema riguarda tutti, autorità giudiziaria, servizi sociali, magistrati, avvocati. Altro problema è la delega a terzi dei servizi. «Non è certo garanzia né di specializzazione né di competenza. E questo è un profilo su cui dobbiamo confrontarci. Perché in situazioni complesse, come quelle evidenziate nelle famiglie fragili, che si inseriscono in una realtà complessa come la nostra società, tutto diventa difficilissimo, compresa l’educazione dei figli. Il tribunale per i minorenni cerca di 'fare la regia' di queste situazioni di fragilità, con l’obiettivo di ridurre quanto più possibile i casi di allontanamento». Le famiglie sono adeguatamente rappresentate? «Noi a Milano cerchiamo fin dal primo momento di impostare il procedimento sulla base del giusto processo, offrendo cioè alle famiglie ampie possibilità di contraddittorio. Certo, perché tutto funzioni al meglio è necessario che ogni tribunale abbia risorse e personale adeguato, ma quasi sempre non è così, gli organici sono assolutamente insufficienti. Quante volte non possiamo fare notifiche perché non abbiamo personale sufficiente! Segnalare queste carenze al ministero? L’abbiamo fatto decine e decine di volte. Non ci rispondono neppure». Eppure non dobbiamo mollare. «Dobbiamo lavorare tutti insieme, schierarci dalla parte delle famiglie e dei bambini, ricercare 'con' i genitori e non 'contro' i genitori, soluzioni accettabili e condivise da tutti. Il criterio di fondo dev’essere chiaro: sostenere le famiglie per quanto possibile all’interno delle famiglie stesse. Il mio successo di giudice minorile è quello di lasciare il bambino all’interno della propria famiglia, aiutandola a superare i momenti di difficoltà. Purtroppo, però, non sempre è possibile».

LE SUE PROPOSTE:

1) Garanzia di giusto processo nel procedimento minorile: l’assenza di norme chiare che regolamentino le varie fasi non dipende da noi ma dal legislatore.

2) Abolire il Tribunale per i minorenni e istituire invece il Tribunale della famiglia? No, non basterebbe. Vorrebbe dire perdere la specializzazione messa insieme in tanti anni. L’esternalizzazione dei servizi invece ha fatto decadere il livello: le gare si fanno sempre al ribasso.

3) Procedure più adeguate e tempi certi nella giustizia minorile sono la mia battaglia.

CIRO CASCONE, procuratore della Procura minorenni di Milano: «Se avessimo sufficienti famiglie affidatarie, le comunità non avrebbero motivo di esistere. I dati? Sono quelli del Garante Infanzia». Modificare l’articolo 403, che dà troppo potere ai servizi sociali nell’allontanare i bambini dalle famiglie? «La norma (articolo 403) è del 1941 e non è mai stata modificata, varie proposte di riforma non hanno mai trovato le convergenze necessarie e alla fine tutto è rimasto uguale. Anche l’Associazione italiana dei magistrati minorili (Aimmf) ha presentato una proposta articolata per superare questo problema, ma siamo ancora fermi. Certo, ci sono situazioni che impongono all’autorità pubblica di intervenire in tempi rapidi per risolvere situazioni di emergenza e gli interventi non si possono rimandare: la legge non prescrive in quei casi di segnalare l’intervento alla Procura dei minorenni, così in alcuni casi avviene – a Milano sempre – in altri no». Non sarebbe quindi urgente prevedere una procedura univoca, con tempi certi, valida per tutti i tribunali? «Certamente sì, ma per farlo occorre modificare la legge. Attenzione, però, stiamo parlando di pochi casi all’anno, a Milano (ovvero tutta la Lombardia ovest) circa cento l’anno. Nel 2018, su 7.100 segnalazioni, abbiamo aperto circa 2.500 procedimenti e le richieste di limitazione della responsabilità genitoriale sono state poco più di mille». L’ingerenza dei servizi nelle vite familiari non è esagerata? «Quando c’è il fondato sospetto, o addirittura dati di fatto, che dicono che in quella casa i bambini vivono in mezzo ai topi, l’ingerenza è necessaria». Ci sono però disfunzioni in questa procedura? «Sì, a cominciare dall’art. 1 della legge 184, al punto in cui si dice che se ci sono problemi familiari che non garantiscono il diritto del minore a vivere in famiglia, lo Stato deve intervenire con sostegni "nei limiti delle risorse disponibili". E le risorse non sono mai sufficienti. Ogni giorno facciamo un lungo elenco di richieste ai servizi e la risposta è sempre quella: 'Non ci sono le risorse'». Il fondato sospetto non porta a volte ad allontanamenti poco motivati? «Il 'fondato sospetto' mi deve spingere ad aprire l’inchiesta: di fronte alla relazione di un assistente sociale, il compito del procuratore è sempre quello di verificare i fatti, capire se è davvero capitato quello che mi sta descrivendo. E poi devo chiedermi: partendo dai dati che ho messo insieme, com’è possibile ricostruire una relazione? Perché questo rimane l’obiettivo di tutto il nostro sistema».

LE SUE PROPOSTE:

1) Più risorse per i servizi, per la famiglia e l’infanzia. Risorse anche per l’autorità giudiziaria e, in particolare, per l’informatizzazione dei dati.

2) La normativa oggi lacunosa deve prevedere meglio ciò che oggi, in alcuni tribunali, si fa per prassi costituzionalmente orientata.

3) Tribunale per i minorenni sì o no? Forse prima dobbiamo chiederci: possiamo arrivare a un Tribunale della famiglia e delle persone con la stessa elevata specializzazione che abbiamo nei Tribunali per i minorenni? Oggi il problema è che ci siano più giudici che hanno competenze quasi identiche sui minori.

PATRIZIA MICAI, avvocato a Reggio Emilia: «È grave che non esista una banca dati nazionale. Per raccogliere i dati sui minori fuori casa abbiamo tre fonti diverse, dunque la raccolta non è omogenea». Quanto al super potere degli assistenti sociali? «A me pare che il loro potere sia fuori controllo. Un potere di fronte al quale le famiglie non hanno quasi possibilità di intervento. O meglio, la possibilità ci sarebbe, la querela di parte contro l’operato dei servizi stessi, ma per questo la famiglia deve pagare un avvocato, con costi e tempi tutt’altro che certi. Ricordo che non c’è un contraddittorio paritetico fin dall’inizio e questo mina alla base il diritto di difesa da parte della famiglia. Non si può rispondere ogni volta con una querela per falso e così i provvedimenti, anche quelli urgenti, sono in teoria provvisori ma diventano invece lunghissimi, anni e anni. Se nel diritto penale il pm ha 48 ore per confermare il fermo, non si vede perché nel diritto minorile non si debba avere la stessa fretta: quando un errore riguardo a un bambino, la famiglia viene distrutta. Quindi possiamo dirlo: ci sono termini troppo discrezionali. Dobbiamo lavorare tutti insieme per modificarli». Per quanto riguarda il metodo di interrogatorio dei minori, è corretto parlare di protocolli troppo generici? «Occorre senza dubbio fare chiarezza. Esistono linee guida rigorose, c’è la Carta di Noto, ma purtroppo non si è obbligati a seguirla, tanto che si sono varie associazioni legate al Cismai che usano il metodo del 'disvelamento progressivo' e in alcune regioni queste posizioni culturali sono preponderanti». Sostenere le famiglie, anziché allontanare i minori: si fa davvero di tutto? «Benissimo parlare di recupero delle risorse familiari, quando è possibile. Ma dobbiamo essere tutti d’accordo nel perseguire questo intento positivo: giudici, avvocati, psicologici e assistenti sociali. Non sempre è così scontato». Com’è possibile che a genitori assolti nel penale siano comunque sottratti i figli? «L’inadeguatezza del sistema si traduce anche in queste situazioni di contraddittorietà. Spesso tra giudizio penale e civile ci sono sentenze inconciliabili, e allora per mia esperienza diventa difficile riuscire a capire le decisioni di un Tribunale per i minorenni, non solo rispetto alla sentenza, ma anche rispetto al merito. E quando c’è questa contraddittorietà si creano situazioni difficilmente gestibili. Nel caso delle adozioni, per esempio. Quando, dopo anni, si riconosce l’ingiustizia di una condanna inflitta a un genitore a cui erano stati tolti i figli, come facciamo a riprendere quei minori e a ributtarli nelle famiglie di origine? È talmente enorme questo dramma da richiedere una riflessione molto attenta. Come ci possono essere pronunciamenti così in contrasto? In uno Stato civile questo non può avvenire».

LE SUE PROPOSTE:

1) Giusto processo con contraddittorio paritetico per garantire il diritto alla difesa della famiglia. Oggi non c’è.

2) Soppressione del Tribunale per i minorenni e istituzione del Tribunale della famiglia con competenze specifiche anche degli avvocati.

3) Abolizione dell’articolo 403 del codice civile (allontanamento coatto dei figli dalla famiglia sulla base della valutazione dei servizi sociali).

ROSANNA FANELLI, avvocato, Bari-Roma, portavoce del Movimento 15 maggio (genitori separati): Mancano i dati, lo abbiamo detto. «Ma al di là dei numeri ci sono vite umane, non dimentichiamolo. E non dimentichiamo che l’Italia ha accumulato molte condanne dalla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) proprio perché le nostre istituzioni si intromettono nella vita familiare in maniera spropositata, violando l’articolo 8 della Convenzione internazionale per i diritti dell’uomo». Troppo potere agli assistenti sociali, dunque? «Certo, l’articolo 403 del Codice civile va sicuramente modificato. Io sono portavoce di un’associazione che raccoglie situazioni in cui l’indebita ingerenza dei servizi sociali nella vita delle famiglie è un dato assodato, non un’impressione. Non si tratta di errori giudiziari ma di orrori giudiziari, e le continue condanne della Cedu rappresentano un costo economico intollerabile per la collettività. Non possiamo trincerarci dietro il fatto che un ufficio funziona o non funziona: è il sistema nel suo complesso che non funziona». L’esternalizzazione dei servizi è uno dei gravi problemi? «Certo, la norma è assolutamente da cambiare. Non si può dare a un soggetto che non fa parte dell’amministrazione pubblica, il potere di decidere la vita delle persone. I maltrattamenti dei bambini ci sono sempre stati, ed ovviamente esistono provvedimenti giustificati e tempestivi, ma ci sono anche bambini che non godono di queste attenzioni, che dopo essere stati maltrattati in famiglia continuano ad essere maltrattati nelle comunità. E ai quali per di più vengono recisi tutti i rapporti familiari. Noi avvocati ascoltiamo il dramma di questi bambini e cerchiamo di dare loro risposte, ma non sempre è possibile. Conosciamo situazioni limite, casi giudiziari assurdi, come quelli di bambini tolti alle famiglie per conflittualità coniugale di genitori già separati, ma queste sono ingerenze illecite. Stiamo lasciando troppo spazio a operatori, assistenti sociali, "ctu" (consulenti tecnici d’ufficio) che non hanno la competenza necessaria». Le ingerenze quindi ci sono? «Quando un assistente sociale, o uno psicologo, stende una relazione e la manda a un giudice, quella diventa legge. E non c’è possibilità di cambiare le cose, se non a prezzo di sforzi terribili sul piano giudiziario e su quello economico. Conosciamo bene il ruolo di "perito peritorum" del magistrato, ma difficilmente un magistrato si prenderà la responsabilità di dissentire rispetto alla posizione del suo perito. E intanto passano anni e le posizioni si consolidano. Esistono casi noti e terribili».

LE SUE PROPOSTE:

1) Abolizione dell’articolo 403. E riappropriarsi dei ruoli e delle competenze delle varie professionalità.

2) Estendere e consolidare le garanzie: diritto alla difesa, contraddittorio paritetico nel rispetto del dettato costituzionale.

3) Estendere la qualità del lavoro giudiziario, con l’accertamento delle responsabilità, comprese le garanzie risarcitorie a favore delle famiglie in caso di giudizio errato.

LUISA FRANCIOLI, avvocato, responsabile legale Cam (Centro affidi minori) di Milano: ingerenza dei servizi sociali sulla famiglia? «Io l’ho vista solo quando è necessaria: nessuno desidera aprire un procedimento giudiziario per una volontà di ingerenza, si apre un caso quando c’è una situazione di pregiudizio. E gli allontanamenti in comunità sono sempre motivati, per le situazioni drammatiche, mentre in altre situazioni viene fatto solo dopo un’indagine». Troppo potere ai servizi sociali? «Non mi pare, sono senz’altro i primi che intervengono e sono quelli che hanno il dovere di riferire ai giudici, ma non è che i giudici si attengono semplicemente a quello che riferiscono i servizi sociali, ci sono anche le relazioni dei consulenti, dei periti, eccetera. Non è una posizione univoca. D’altra parte sulle difficoltà, sull’incompetenza e sulle carenze d’organico siamo tutti d’accordo». Quali allora le disfunzioni del sistema? «Anche il fatto che l’attività dei servizi sociali venga appaltata a cooperative esterne è un grosso problema. Sono invece in disaccordo sul fatto che le famiglie non siano adeguatamente rappresentate nel momento del contraddittorio».

LE SUE PROPOSTE:

1) Maggiori risorse, altrimenti tutto continuerà a funzionare male.

2) Maggiore professionalità da parte di tutte le categorie.

3) Individuazione di un procedimento che dia maggiori garanzie, uguali tra tutte le procure italiane.

MARIA CARLA BARBARITO, avvocato a Milano, curatore speciale minori: «Non ho mai visto una volontà esplicita da parte degli avvocati o degli assistenti sociali di creare problemi o di ingerenza. Mi sono invece resa conto che c’è una differenza abissale tra procura e procura, tra regione e regione. Io personalmente non ho mai visto le situazioni marginali e drammatiche che sono state descritte stasera (l’inchiesta "Angeli e Demoni" di Reggio Emilia o "I Diavoli della Bassa" del Modenese, ndr)». Eppure le falle del sistema sono emerse con drammaticità, in certi casi. «Sugli interventi necessari per rimediare alle falle, che certamente esistono, credo che qui siamo sulla strada giusta: dobbiamo fare fronte comune per arrivare a riconoscere in ogni caso il diritto di un contraddittorio paritetico e di difesa per le famiglie nel momento dell’allontanamento del bambino. Urgono poi tempi più rapidi per l’avvio del procedimento ed è necessario migliorare la competenza di tutti gli operatori, eliminando i conflitti di interesse. Poi certamente ci sono molti ambiti su cui non dobbiamo stancarci di lavorare, per esempio definire un maltrattamento è un fatto complicatissimo, che richiede mille cautele. Più aumenta la competenza, più si lavora in modo concorde, meglio è per tutti.

LE SUE PROPOSTE:

1) Una maggiore competenza di tutti nell’ascolto dei minori, con garanzie del contraddittorio e giusto processo.

2) Tempi certi e non eterni nei procedimenti.

3) Non credo che il Tribunale per i minorenni vada abolito. Occorrono invece molte più risorse.

STEFANO BENZONI, neuropsichiatra del Policlinico di Milano: «Non è un problema soltanto di giustizia, ma di società in generale e di politica. Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto un aumento esponenziale dei bambini che hanno problemi di carattere psichiatrico... e nello stesso tempo sono diminuite le risorse pubbliche per affrontare queste situazioni. Proprio mentre le famiglie sono sempre meno attrezzate per risolvere autonomamente i problemi. Se questa è la situazione generale, inevitabile che anche il sistema della giustizia minorile sia in sofferenza». Ma lo stato di necessità coinvolge tutti, dagli assistenti sociali ai consulenti tecnici d’ufficio. «Non dimentichiamo che al centro di ogni accertamento ci devono sempre essere gli interessi del bambino e della famiglia. In queste settimane abbiamo letto critiche feroci ai metodi seguiti dai Servizi sociali di Reggio Emilia. Quando c’è in gioco la tutela di un bambino o l’ipotesi di un maltrattamento, un abuso, c’è in gioco un bene superiore. Ma un’indagine psicosociale presenta una complessità cento volte maggiore rispetto a un’indagine medica, perché ciò che vogliamo accertare è molto più fluido rispetto a una diagnosi di malattia. Stiamo parlando di questioni che profondamente attengono all’idea di vita buona rispetto ai valori particolari di ogni singola famiglia. Questa idea non è dicotomica: bianco o nero. Quindi rispondere alla domanda, "cos’è un’indagine psicosociale accurata su un minore?" merita rigore e complessità, non risposte urlate e violente. Chi opera in questo sistema non deve avere conflitti di interesse, deve seguire le linee guida nazionali per quanto riguarda gli interventi su famiglie e bambini in situazioni di vulnerabilità. Linee guida che sono rigorose e precise. Uno dei criteri fondamentali è quello di mettere al sempre al centro gli interessi e i valori della famiglia, senza ingerenze indebite». Ma purtroppo non succede sempre così, non è vero? «No, purtroppo spesso prevalgono le cattive prassi, legate all’incompetenza, al degrado del sistema, ma anche alla scarsità di mezzi e alle routine negative. Dobbiamo saper rilevare le risorse delle famiglie, non solo i loro problemi, questa deve essere la finalità comune. Raccontare che l’obiettivo del sistema è quello di togliere i bambini alle famiglie diventa fuorviante». I protocolli non sono troppo generici e quindi a rischio di interpretazioni arbitrarie? «Per fortuna che i protocolli sono generici, perché devono fornire principi e orientamenti metodologici: abbiamo capito che l’iperspecializzazione porta ad aberrazioni nel giudizio clinico. Ciò non vuol dire che non serva una preparazione specialistica, ma il linguaggio tecnico deve servire a migliorare il contatto umano. Un lavoro di esplorazione di storia familiare costruita in termini partecipativi e collaborativi non si improvvisa, si costruisce se il professionista ha una specifica formazione all’ascolto attivo, se sa mettersi nei panni dell’altro. Nel campo dei maltrattamenti le sfumature sono infinite. Se mettiamo tra parentesi i fatti penali, una coppia di manager che trascura i figli, che non trova mai tempo di stare con loro, che li lascia davanti alla playstation con quattro tate diverse, è una coppia maltrattante anche se abita in un attico di 400 metri quadrati o no? Ecco perché il concetto di maltrattamento è fluido. Ed ecco perché un’indagine psicosociale seria deve mettere in luce le carenze di una famiglia ma anche le sue risorse, i suoi punti di forza. E questo riguarda soprattutto le famiglie con fragilità. Se non ho una cultura positiva delle risorse delle persone, avrò sempre uno sguardo negativo sulle cose».

LE SUE PROPOSTE:

1) Maggiori risorse umane ed economiche.

2) Un registro nazionale che ci dica quanti bambini sono in comunità, che esigenze e che punti di forza hanno.

3) Implementazione delle linee guida nazionali, che sono un vero patrimonio culturale del nostro sistema di accoglienza e tutela dei minori.

Il Sistema Italia. Tg2 post del 7 Agosto 2019. Bibbiano. Come funziona il Sistema degli Affidi nel resto d'Italia.

Maria Antonietta Spadorcia: Avv. Morcavallo come si risponde a questa domanda? E soprattutto perchè lei ha lasciato la Magistratura?

Avv. Francesco Morcavallo, del Foro di Milano, ma di origini calabresi, ex magistrato del Tribunale dei minori: Proprio per reagire al silenzio delle Istituzioni e delle Autorità di Garanzia su questo tipo di mancanze della Giustizia Minorile. Cioè, lo strumento con cui queste persone hanno operato, ora con le caratteristiche specifiche del caso di Bibbiano, è lo strumento dei provvedimenti del Giudice Minorile. Provvedimenti del Giudice Minorile emessi non riguardo a fatti, ma riguardo a segnalazioni, impressioni, valutazioni, che non sono state verificate. Possono essere valutazioni svolte in malafede, o valutazioni sbagliate,  o valutazioni generiche.

M.A.S: Qual è il caso in particolare che l'ha colpita ed ha preso questa decisione? Una decisione importante.

F.M.: Mah, il caso che fu emblematico, ma che fu soltanto la goccia che fece traboccare il vaso fu la vicenda della morte di uno di quei gemellini nella piazza Maggiore di Bologna. Rispetto alla quale si pretese di reagire subito, allontanando l'altro bambino dalla famiglia, mentre ancora non si sapeva nemmeno cosa cosa era successo. Io mi opposi e denuncia questa situazione assieme ad altri colleghi, o meglio, assieme ad altri solo due colleghi. Un magistrato, Guido Sanzani, e un giudice onorario di allora, Mauro Imparato, che oggi ha nuovamente parlato di quelle situazioni lì. E, invece, il Presidente di allora ed altri colleghi rimasero violentemente, reagirono violentemente arroccandosi sulla posizione che è quella di quel Tribunale Minorile, ma anche di altri Tribunali Minorili italiani. Cioè: si decide sulla base della valutazione degli assistenti sociali e psicologi senza verificarla, senza verificare i fatti. E questo porta alle violazioni dei Diritti Umani che sono state compiute e rilevate dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. 

Alessandra Forte, giornalista del TG2 Cronaca: A me quello che è rimasto veramente colpito è quello che diceva l'avvocato, comunque. Il fatto che si asaltata totalmente tutta la catena di controllo. Mi sembra assurdo, Poi lui ci sta raccontando che anni fa si è dimesso dalla Magistratura; ani fa ha fatto queste denunce. Quello che mi colpisce è il silenzio assoluto istituzionale a cui abbiamo assistito.

F.M.:E denunciandole in tutte le sedi istituzionali questo tipo di situazioni.

M.A.S: Morcavallo c'è un Sistema? Perchè dalle parole è rimasto colpito dalle parole di questa...(assistente sociale pentita del caso Bibbiano).

F.M.: Colpito nel senso che sono parole gravi, ma sono parole di situazioni note. Quello che questa assistente sociale dice è vero. Prevale una funzione di intervento. Di intervento al buio. Il provvedimento di affidamento dei bambini al servizio sociale in Italia, sono numeri del Garante dell'Infanzia, che finora si è mosso per dare solo numeri. Quindi non è tacciabile di averli esagerati, per il resto non ha tutelato nessuna posizione di Diritto di minorenni. Sono 500 mila. E affidamento al Servizio Sociale significa dare un mandato in bianco che consente ad un operatore o ad uno psicologo di prendere il bambino e portarlo a ricevere trattamenti diagnostici, terapeutici, psicofarmacologiche, di ogni tipo senza il consenso dei genitori. 

M.A.S: C'è un Sistema Bibbiano, lei ha parlato di Bologna, c'è un Sistema Bibbiano oppure c'è un Sistema che riguarda un po' tutto.

F.M.: Ci sono dei Servizi Sociali che funzionano molto bene. Come tutte le professioni ci sono:  professionisti bravi; professionisti non bravi; professionisti delinquenti. In tutte le professioni. Quindi senza generalizzazioni. Ma quel sistema che non chiamiamo Sistema Bibbiano, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, quindi l'Europa, lo chiama da anni: Il Sistema Italia. Con condanne continue nei confronti dello Stato italiano in relazione a questo profilo che è decisivo. Non si decide su comportamenti e su fatti provati, ma si decide su valutazioni. La valutazione in questo modo può essere una lotteria. Può provenire da un delinquente, come si ipotizza sia stato  fatto a Bibbiano. Due annotazioni brevissime: attenzione a dire che è solo una questione di moralità e di formazione di chi svolge delle consulenze. Intanto queste non erano consulenze. Sulle valutazioni si basavano i giudizi, come avviene in tutti i giudizi minorili in Italia in modo sbagliato. Il Problema poi non era di modalità. Non mi stupisce e non mi allarma solo e soltanto il fatto che un disegno sia stato falsificato. Quello che mi allarma e che sulla base di un disegno, anche non falsificato, un bambino possa andare in una comunità lontano dai genitori.

Bibbiano, ex giudice su affidi illeciti. “Assistente sociale è diventato sceriffo…”. Silvana Palazzo l'1.08.2019 su Il Sussidiario. Bibbiano, affidi illeciti: parla ex giudice. Francesco Morcavallo a La Vita in Diretta: “Assistente sociale è diventato sceriffo”. E Licia Ronzulli propone riforma. Lo scandalo dei presunti affidi illeciti, il cosiddetto caso Bibbiano, ha dimostrato che l’impianto dell’affido in Italia ha delle criticità nella sua applicazione. Lo sostiene ad esempio Licia Ronzulli, senatrice di Forza Italia e presidente della commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza. Secondo Ronzulli c’è eccessiva discrezionalità dei servizi sociali e prassi discordanti sul territorio. Quindi ha presentato una proposta di legge per riformare l’affido, con l’obiettivo di aumentare i controlli dei giudici e il contraddittorio con i genitori. Di questo ha parlato anche l’ex magistrato Francesco Morcavallo, ora avvocato, a La Vita in Diretta. Da anni denuncia le storture nel sistema degli affidi che non riguarderebbe solo Bibbiano e l’Emilia Romagna. «Non andavano le stesse cose che non vanno oggi. Oggi parliamo di sistema Bibbiano, ma si può parlare di un sistema italiano. Gli affidi vengono decisi senza accertare i fatti». Morcavallo parla con cognizione di causa, essendo stato dal 2009 al 2013 giudice del Tribunale dei minori di Bologna. «Dovevamo vedere se dietro queste generiche valutazioni c’erano fatti e se erano veri». Morcavallo ha poi aggiunto: «Se si dà uno strumento di autorità all’assistente sociale, allora diventa uno sceriffo. E chi doveva vigilare sull’operato non lo ha fatto». L’indagine della Procura di Reggio Emilia sui presunti affidi illeciti di Bibbiano è partita dai numeri: troppi abusi sui minori rispetto alla popolazione. Così è nato dunque il sospetto che i servizi sociali abbiano allontanato alcuni minori dai genitori per consegnarli ad altre famiglie. E ciò con relazioni false e prove manomesse. Eppure l’affido è una soluzione estrema, per la quale non bastano motivi economici. Cosa dice allora la procedura? L’affido è deciso dai servizi sociali se c’è il consenso dei genitori, o di chi esercita la potestà o del tutore, ma è il giudice tutelare a renderlo esecutivo. Se non c’è accordo, decide il tribunale per i minorenni. La procedura urgente invece prevede che i servizi sociali decidano da soli e avvisino poi il tribunale, ma a volte a distanza di mesi. In casi gravi si può ricorrere poi all’affido “professionale”, in cui una cooperativa viene incaricata di selezionare una famiglia affidataria con cui stipulare un contratto, prevedendo un contributo. Ma l’affido è una misura a “tempo”, pensata per tamponare una difficoltà momentanea, ma nella pratica dura più del previsto. E il rientro in famiglia è centrato solo nel 40 per cento dei casi.

Non solo Bibbiano, il giudice che ha lasciato la toga “contro questa disumanità”. Chiara Affronte il 24 Luglio 2019 su Il Salvagente. Il caso Bibbiano, nonostante le strumentalizzazioni politiche, è solo la punta di un iceberg su un sistema, quello degli allontanamenti e degli affidi, che evidentemente ha più di un punto debole. Ieri il Salvagente ha pubblicato la storia di Laura, una donna che si è vista trascinare in nove mesi di incubo, separata a forza dal figlio in maniera ingiusta. Non l’unica testimonianza delle falle di questo sistema. Lo dimostra la denuncia – anche questa raccolta dal nostro giornale più di un anno fa – di Francesco Morcavallo che è stato giudice al Tribunale dei minorenni. Fino a che non si è scontrato a Bologna contro la decisione di togliere la patria potestà ai genitori del piccolo Devid. E ora ha scelto di fare l’avvocato per non scendere a compromessi. Sono centinaia gli allontanamenti coatti di minori dalle loro famiglie che avvengono ogni anno e che finiscono sui tavoli degli avvocati o del Comitato dei cittadini per i diritti umani (Ccdu). Allontanamenti spesso ingiustificati, di bambini dati in affido o alle comunità, a guardare le pratiche, sebbene la legge dica chiaramente che si debba fare tutto il possibile affinché i minori restino con le loro famiglie, organizzando tutte le forme di sostegno necessarie. Gli ultimi dati disponibili prodotti dall’Istituto degli Innocenti per il ministero risalgono al 2010 e contano quasi 30mila bambini (i prossimi “Quaderni” di raccolta dei dati usciranno a luglio e si riferiranno al 2014), l’Istat parla per il 2014 di 20mila ragazzini accolti esternamente alla famiglia in strutture socio-residenziali. Ma per gli avvocati che se occupano sono molti di più. Così come per Francesco Morcavallo, che ha condotto e conduce una lotta durissima contro le modalità e le prassi con cui a suo avviso avvengono gli allontanamenti di minori: provvedimenti che ha potuto osservare sia da giudice del Tribunale per i minorenni fino a qualche anno fa, sia da legale, oggi, dopo la decisione di lasciare la toga di giudice, deluso e deciso a combattere la lotta da fuori, senza scendere a compromessi. A Bologna, nel 2011, si scontrò contro il provvedimento che prevedeva di togliere la patria potestà (nei confronti degli altri due figli) ai genitori del “piccolo Devid”, morto di freddo in Piazza Maggiore: un caso che ebbe molta eco sulla stampa e su cui fu dura la battaglia di Morcavallo e del collega Guido Stanzani, perché la decisione del Tribunale fu presa, secondo Morcavallo, senza un’accurata istruttoria sull’accaduto. Lui fu allontanato da Bologna ma poi la Cassazione gli diede ragione e tornò nel capoluogo emiliano: “Ma mi tolsero tutti i fascicoli che stavo seguendo. Ero soggetto a pressioni: me ne sono andato, e adesso cerco di aiutare questi bambini da fuori”.

Sono denunce molto pesanti quelle che fa. Può spiegarci cosa accade quando viene allontanato un bambino?

«La prassi diffusa è quella di allontanare i bambini solo sulla base di semplici segnalazioni anche senza precise motivazioni verificate, quando invece la legge prevede che i minori restino nelle proprie famiglie, provvedendo semmai ad un sostegno laddove necessario. Lo dice la legge ma si tratta anche di un diritto primario, motivo per cui il nostro paese è stato spesso condannato per aver leso questi diritti dalla Corte europea».

Il disagio economico prevede per legge l’allontanamento?

«No, mai».

Quali sono le motivazioni per cui si allontana?

«Ribadiamo innanzitutto che l’allontanamento dovrebbe essere una misura estrema, motivata da ragioni estremamente serie. Purtroppo 99 volte su 100 non esistono. O sono vaghissime, incomprensibili, assurde: anche “l’atteggiamento troppo amorevole” viene addotto spesso come motivazione, per fare un esempio. Ho letto di tutto: considerazioni da manuali di psicologia di 70 anni fa… Ciò che manca è una seria attività istruttoria. Troppo spesso – anzi, quasi sempre, purtroppo – accade che vengano letteralmente copiate e incollate le relazioni degli assistenti sociali: non vengono interrogati i genitori e non si procede ad un confronto tra le versioni dei fatti. E poi, anche quando si riesce a stabilirlo, non si rimedia. Non si applica la normativa prevista in merito, ad esempio le interazioni con la famiglia affidatarie non esistono. E nelle comunità si esercitano molto spesso pressioni – quando non anche minacce – ai bambini, soprattutto quando ci sono interessi in ballo».

Perché accade, secondo lei?

«Per ignoranza. O per acquiescenza dei giudici a un certo tipo di orientamento diffuso, talvolta anche per vicinanza tra i Tribunali dei minorenni e le strutture. L’allontanamento, in fondo, è uno strumento che deresponsabilizza».

Descrive un panorama molto preoccupante e anche poco noto all’opinione pubblica, almeno nella misura da lei descritta, dove sembra scomparire il concetto di “umanità”…

«Dentro ai Tribunali dei minorenni dovrebbero lavorare quei giudici a cui richiedere uno sforzo in più rispetto a ciò che viene chiesto ad altri. E invece avviene tutto il contrario».

Ciò che sta descrivendo è accaduto anche per il caso bolognese che riguardava Devid, vero?

«È accaduto per Devid e per molti altri casi. Solo che quel caso in particolare ha avuto una notevole risonanza mediatica. In quell’occasione mi opponevo al fatto che venissero prese delle decisioni senza un’istruttoria. Ho avuto molte pressioni e anche la sottrazione del fascicolo, cosa che non si può assolutamente fare. Comunque poi la Cassazione ha annullato il mio allontanamento. Tuttavia, quando sono tornato non si voleva che mi fossero affidati i casi su cui stavo lavorando. ‘Occupati di altro’, mi veniva detto. Ovviamente non potevo accettarlo e ho lasciato quel ruolo e oggi cerco, come altri avvocati, di aiutare le famiglie e i bambini, anche se non è l’unico campo in cui opero».

Cosa bisognerebbe fare, a suo avviso?

«Bisogna assolutamente tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica su questo tema, difendere le persone ponendo tutte quelle questioni che non vengono poste. Ma sarebbe necessaria una riforma politica che espliciti il nesso tra fatti e provvedimenti, adeguarsi alla Corte europea. Non si può accettare che le comunità e gli affidi suppliscano ad una mancanza di welfare».

Rif. Camera Rif. normativi. XVII Legislatura. Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza. Resoconto stenografico. Seduta n. 12 di Martedì 16 febbraio 2016.

INDAGINE CONOSCITIVA SUI MINORI FUORI FAMIGLIA. Audizione del presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, l'avvocatessa Maria Carsana, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, e dell'avvocato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna.

Blundo Rosetta Enza, Presidente.  

ALLEGATO: Documentazione presentata dall'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza ... 

Testo del resoconto stenografico. PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE ROSETTA ENZA BLUNDO. La seduta comincia alle 13.15. (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente). Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso. (Così rimane stabilito). Sostituzione di un componente della Commissione.

PRESIDENTE. Comunico che la Presidente della Camera, in data 15 febbraio 2016, ha chiamato a far parte della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza la deputata Valentina Vezzali, in sostituzione del deputato Antimo Cesaro, dimissionario. (La Commissione prende atto). Audizione del presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, l'avvocatessa Maria Carsana, e dell'avvocato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia, l'audizione del presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, l'avvocatessa Maria Carsana, e dell'avvocato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Do la parola all'avvocato Maria Carsana.

DONELLA MATTESINI. Intervengo, Presidente, sull'ordine dei lavori. Chiedo scusa anche a nome suo – e speravo che lo facesse – perché non si arriva, rispetto alla convocazione, con 40 minuti di ritardo, senza neanche scusarsi. Chiedo scusa ai nostri auditi anche del fatto che, dovendo votare, tra dieci minuti noi rappresentanti del Partito democratico dovremo assentarci. Vi chiedo scusa perché ritengo sia davvero molto serio e molto importante il contenuto dell'audizione, ma anche i lavori della Commissione permanente ai quali dobbiamo partecipare.

MARIA CARSANA, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza. Buongiorno. Ho visto che nelle precedenti audizioni sono stati sentiti dei rappresentanti di case famiglia e di autorità che si occupano dei problemi dei bambini che troviamo in istituto. Abbiamo visto anche che non ci sono numeri certi, il che è già un primo fatto gravissimo. Nell'analisi fatta dall'associazione che presiedo e che ho consegnato questa mattina, si parla di circa 30.000 bambini in istituto. Teniamo presente che, secondo il nostro studio, che è orientato a capire i motivi per cui questi bambini si trovano negli istituti, il 63 per cento di questi bambini, come motivo primario o secondario, ha un problema di indigenza economica, abitativa e lavorativa dei genitori. Io, come avvocato, mi sono occupata di tantissimi casi di bambini allontanati dalle Pag. 4loro famiglie e spesso ho dovuto notare che questi allontanamenti avvengono, a seguito della richiesta di aiuto di queste famiglie, da parte di chi è preposto ad aiutarle. Questo è un primo dato che mi fa riflettere perché, in qualche modo, onestamente io, prima di consigliare ad una famiglia di rivolgersi allo Stato per chiedere aiuto, ci penso due volte, se non tre. In più, abbiamo i fenomeni dell'allontanamento, ex articolo 403 del codice civile. Ho visto che in precedenti audizioni vi siete domandati quanti di questi provvedimenti d'urgenza vengano convalidati. Al riguardo, io vi posso dire, per quanto riguarda la mia esperienza, che non c'è una sola volta in cui non ci sia stata la convalida. Questo è un altro dato che ci dovrebbe far riflettere, anche perché questi provvedimenti sono emessi se c'è un sospetto di disagio o comunque di inidoneità delle famiglie ad accudire i propri figli. Io, come vi dicevo, mi sono occupata di tantissimi casi, ma il più eclatante a mio avviso è quello avvenuto recentemente dei sei bambini di una famiglia povera di Anzio messi in un istituto ecclesiastico gestito dalle suore. Il comune di Anzio versava 18.000 euro al mese per mantenerli in istituto. Sono riuscita a risolvere questo problema grazie ad una puntata di Presa diretta che si è occupata di questo caso; altrimenti probabilmente questi bambini stavano ancora in istituto. Prima di risolverlo, il comune di Anzio ha speso 700.000-800.000 euro per mantenere questi bambini in istituto. Mi domando se non sarebbe stato più facile dare un alloggio a questa famiglia o fornire un aiuto economico, ovviamente con una progettualità. L'aiuto economico non deve essere considerato un obolo che è fine a se stesso, perché poi i soldi finiscono e i problemi restano, ma ci dovrebbe essere appunto una progettualità che al momento onestamente, per quanto riguarda la mia esperienza, manca. C'è un altro problema che voglio sollevare. A proposito del caso di questi sei bambini, io andai a parlare ripetutamente con l'assessore ai servizi sociali del comune di Anzio per chiedere che venisse loro data una casa, perché la prima cosa che mancava a queste persone era un alloggio idoneo. L'assessore mi rispondeva: «Se lo chiede il tribunale, io darò questa casa». In quel periodo è stato approvato il decreto legislativo n. 154 del 2013, che ha regolamentato in parte la riforma che c'è stata nel 2012, con la legge 219, in materia di diritto di famiglia. Questo decreto legislativo ha aggiunto alla legge n. 184 del 1983, cioè quella sulle adozioni, l'articolo 79-bis che prevede espressamente che i tribunali debbano sollecitare i comuni di residenza dei minori in difficoltà economica per avere degli interventi. L'assessore mi disse: «Se il tribunale mi dice questo, io ho la possibilità di far saltare le liste d'attesa per le case popolari e quant'altro e dare una casa a questa famiglia». Io ho fatto ripetutamente, non soltanto in questo caso, ma anche in molti altri, la richiesta al Tribunale per i minorenni, in base all'articolo 79-bis della legge n. 184 del 1983, di dare questo input e di ordinare ai comuni di intervenire. Tuttavia, non ho mai ricevuto risposta, neanche una risposta di diniego. Sono stata sempre completamente ignorata, quindi io sono qui per rappresentare che cosa vuol dire per una famiglia il fatto che, come vi ho detto, nella maggior parte dei casi per motivi economici vengano tolti i bambini. Queste famiglie entrano in una sorta di inferno dantesco dove abbiamo operatori spesso oberati di lavoro, che si devono occupare dei minori, dell'anziano in difficoltà e del disabile e che spesso sono molto volenterosi e molto bravi. Tuttavia, capita anche il caso in cui l'assistente sociale che deve relazionare al tribunale non è competente o ha delle presunzioni o ha una visione del tutto personale sul concetto, assolutamente non codificato, di capacità genitoriale. In effetti, dovremmo anche interrogarci su che cos'è la capacità genitoriale perché non è scritto da nessuna parte e ognuno lo interpreta a modo proprio. Ci troviamo nella situazione in cui i Tribunali per i minorenni prendono per oro colato queste relazioni, per cui abbiamo Pag. 5 bambini che nel 42 per cento dei casi, secondo il nostro studio, restano collocati oltre 48 mesi in istituto e nel 22 per cento dei casi da 24 a 48 mesi. Parliamo del 64 per cento degli affidamenti in istituti e in case famiglia o in famiglie che si offrono di tenere questi bambini che si protraggono nel tempo, anche se noi sappiamo che, tranne in casi eccezionali, questa permanenza non deve superare i due anni. In merito, dobbiamo fare l'esame del perché non ci siano questi aiuti alle famiglie e del perché gli interventi da parte dei comuni, ormai ridotti all'osso economicamente, siano assistenziali e senza una progettualità dietro. Io vi devo ricordare sia il dissolvimento degli interventi finanziari della legge n. 216 del 1991, che interveniva nella prevenzione della devianza minorile e sulle sue cause, sia il dissolvimento degli interventi in termini di servizi, dopo la decisione della riduzione dei finanziamenti per la legge n. 285 del 1997 avvenuta in forma forse criticabile nel 2003, quando ancora non c'era tutta questa crisi che c'è ora. È stata fatta la scelta di spostare l'interesse sulla famiglia piuttosto che sul minore. Io prego e invoco questa Commissione di fare qualcosa per ridare fondi alla progettualità, al fine di assistere appunto questi minori nella situazione problematica che in questo momento è anche peggiorata con l'arrivo dei minori migranti non accompagnati. In ultimo, vista l'ora, vorrei – il mio intervento è stato molto breve perché ho saltato alcune parti – ricordare che le convenzioni internazionali e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea citano espressamente l'obbligo di considerare il minore non come oggetto di tutela, ma come soggetto di diritto. Grazie.

PRESIDENTE. Grazie a lei che è stata abbastanza sintetica, ma, nello stesso tempo, incisiva. Io non ho voluto prolungarmi, per non togliere tempo, nel discorso di scuse che farò alla fine.

DONATELLA ALBANO. Sull'ordine dei lavori, Presidente, siccome ci dobbiamo assentare e riteniamo che l'audizione dell'avvocato Morcavallo sia molto interessante, le chiedo se fosse possibile proporre un'altra audizione, in modo che possiamo presenziare e fare le domande direttamente.

PRESIDENTE. Mi sembrava che i colleghi avessero detto di rimanere almeno fino alla conclusione dell'audizione prevista.

DONATELLA ALBANO. L'audizione era prevista alle 12.45. Io ho fatto il «giro dell'oca» per essere puntuale, pensando di audire l'avvocato Morcavallo e la dottoressa Carsana. Io ho un'altra Commissione alle 13.30, per cui non è una questione di tempo, ma di rispetto.

PRESIDENTE. Al Senato, comunque, votiamo alle 16.30.

DONATELLA ALBANO. Io ho altre Commissioni. Si vota anche in Commissione, con presenza del numero legale. Le chiediamo di riferire questa richiesta al Presidente.

PRESIDENTE. Mi dispiace. Riferirò la vostra richiesta. Do la parola all'avvocato Morcavallo.

FRANCESCO MORCAVALLO, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Cercherò di essere sintetico e schematico, anche perché non ho potuto preparare un compendio scritto, che, se sarà necessario, mi riserverò di comunicare in altro modo. Intendo, peraltro, essere piuttosto schematico perché anche io ho avuto modo di esaminare le precedenti audizioni e ho notato che sono emersi contenuti specifici piuttosto omogenei, per quanto riguarda gli aspetti di sostanziale criticità del sistema di protezione del minore mediante l'allontanamento dalla famiglia. Nell'apparente dicotomia – forse dovuta anche a particolari appartenenze che poi coincidono con un coinvolgimento nella gestione degli istituti privati che svolgono l'assistenza ai minori mediante ricovero – mi pare che ci sia un aspetto di sostanziale Pag. 6omogeneità, cioè non è possibile svolgere una generalizzazione secondo cui la critica al sistema di protezione, di cui fa parte l'allontanamento dei minori dalla famiglia, sia una critica all'intervento di allontanamento in assoluto. Nessuno nega che ci siano delle situazioni – peraltro, le statistiche ci dicono essere di assoluto margine – in cui può essere necessario un intervento così radicale. Nessuno vuole escludere che un bambino o un ragazzo in pericolo possa fruire di un pronto intervento, anche cautelativo. Il problema, però, è di evitare che il rimedio diventi più dannoso del male, cioè che, per garantire protezione a queste situazioni di margine, si crei un sistema monstrum che sostanzialmente fa poi dell'allontanamento del bambino o del ragazzo dalla famiglia l'intervento normale e più frequente. Le statistiche, per quanto in qualche modo disomogenee – forse lo sono necessariamente, non essendovi, come è noto e come è stato ricordato, dei registri specifici o degli elenchi specifici dei minori allontanati – dimostrano che l'intervento di allontanamento sia il più frequente nell'ambito del sistema di protezione, sia amministrativo sia giurisdizionale del minore. Tale intervento non è solo il più frequente, ma è anche quello che più frequentemente manifesta una divergenza rispetto alla finalità normativa. Per essere schematici, mi sto riferendo, nell'ambito di tre questioni – an, quomodo e quantum – che individuo sul macrotema di cui ci occupiamo, cioè l'allontanamento inteso in termini temporali, al primo di questi aspetti (an), cioè se disporre o meno l'allontanamento. I riferimenti normativi e il sistema normativo che riguarda questo aspetto, cioè se occorra dar luogo all'allontanamento del minore dalla famiglia, sono ormai noti, se non altro perché, a più riprese e anche in epoca recentissima, è stato ribadito non solo dalla giurisprudenza interna ma anche dalla giurisprudenza sovranazionale, cioè quella la Corte europea dei diritti dell'uomo, con pronunce anche severe, quanto al contenuto e alla materia, cioè pronunce di condanna che hanno riguardato addirittura procedimenti di adottabilità definiti con sentenze passate in giudicato. Siamo al limite dell'errore irrimediabile o forse oltre il limite, visto che ancora nell'ordinamento italiano non vi è un sistema per adeguare gli effetti dell'ordinamento interno, a fronte di un giudicato già formato, alla statuizione di condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo. In merito, sono chiari i riferimenti sistematici, nel senso che l'allontanamento, secondo la giurisprudenza sovranazionale cui è conforme in modo assoluto la normativa e anche la giurisprudenza costituzionale di legittimità interna, occorre che sia, com'è scontato, l’extrema ratio, non una soluzione immediata, e che venga applicato soltanto allorché si manifesti l'immediata impossibilità di soluzioni alternative, prima di tipo assistenziale (articoli 30 e 31 della Costituzione e articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo), poi eventualmente di tipo autoritativo, e comunque non riguardanti l'allontanamento. Una volta rimasti inattuabili questi rimedi, solo se è constatata la permanenza di un pericolo grave, concreto e provato di permanenza del bambino o del ragazzo nell'ambito della propria famiglia, è consentito ricorrere all'allontanamento. Questa graduazione di criteri in ambito giurisdizionale, come in ambito amministrativo, comporta anche una graduazione dei momenti di accertamento, cioè su cosa succede, su quali rimedi si possono porre in essere, su quali rimedi diventano inattuabili e se permane il pericolo. Tuttavia, questa graduazione di accertamenti – sono d'accordo con quanto si diceva poc'anzi – sostanzialmente non viene compiuta mai. L'esperienza ci dice – credo che non sia prospettabile in alcun modo una smentita – che l'allontanamento viene disposto inaudita altera parte, quindi come primo provvedimento del procedimento giurisdizionale, se non addirittura in via preprocessuale ai sensi dell'obsoleto, salva l'auspicata riforma, articolo 403 del codice civile. Si può trattare anche di un rimedio che, se non attuato immediatamente, in alcuni casi, anche se statisticamente più rari, viene Pag. 7attuato in corso di giudizio, ma senza una motivazione specifica sulla impossibilità di dare séguito in modo efficace agli interventi svolti precedentemente. Io direi che ciò accade perché – non c'è neanche bisogno di studi – nel 100 per cento dei casi questa motivazione si rinviene in valutazioni assolutamente generiche e addirittura in certi casi di incidenti sulle opinioni personali degli interessati. Sono reduce da una difficile udienza in un procedimento di adottabilità dinanzi al Tribunale per i minorenni di Cagliari. Tale procedimento di adottabilità si è aperto con la seguente ipotesi di quello che potremmo definire uno stato di abbandono: i genitori della bambina collocata in comunità, nel chiedere che gli interventi fossero svolti previo rientro della bambina in casa, mostrano di non condividere gli interventi dell'assistenza sociale, del tribunale e della casa famiglia, per cui manifestano un'opinione divergente rispetto al progetto assistenziale, di guisa che non è prevedibile un recupero delle attitudini familiari in tempi idonei a evitare addirittura lo stato di adottabilità, quindi la dichiarazione dello stato di abbandono della bambina. Questa bambina, tra parentesi, come regalo di Natale ha chiesto di poter tornare a casa dopo un anno e mezzo di comunità e praticamente tutti i giorni si butta per terra chiedendo di incontrare i genitori. Nel provvedimento di apertura dello stato di adottabilità, in limine processus, cioè con il primo provvedimento che è quello di apertura, sono stati interrotti i rapporti tra la bambina e i genitori. Mi chiedo se sia il caso di indugiare sul corto circuito logico che è contenuto in questo tipo di motivazione, cioè quando viene disposto un intervento autoritativo con la collocazione della bambina in comunità e si rivela possibile – non entro nel dettaglio del procedimento – la prosecuzione di un intervento, eventualmente anche mediante assistenza e controllo nella casa famigliare. Il più delle volte i genitori o i famigliari del minore si rendono anche disponibili a questo tipo di intervento. Vi ripeto, se ce ne fosse bisogno, che concordo con quanto è stato detto, cioè che quello nella famiglia è molto meno costoso di un intervento di permanenza residenziale in una casa famiglia. Inoltre, tale intervento è più virtuoso perché garantisce il diritto primario del minore a crescere nell'ambito della propria famiglia. Il corto circuito logico sta in questo: venuta meno, se ve n'è stata mai qualcuna, la ragione originaria di allontanamento del minore, ne è stata trovata un'altra. I familiari hanno osato contrapporre un proprio dissenso rispetto all'intervento autoritativo, come se l'intervento autoritativo dovesse incidere non solo sullo status iuris familiare, ma addirittura sulla mentalità, sulle opinioni stesse e sul carattere delle persone, cioè come se dovesse indurre addirittura un ravvedimento interiore tale da portare le persone da un paradigma di supposta anormalità a uno di normalità, nel senso di adesione all'intervento autoritativo quale che sia, anche se è stato accertato che era sbagliato. In questo caso è certo che un allontanamento di un anno e mezzo, potendo essere surrogato da un intervento di assistenza domiciliare, è sbagliato perché l'allontanamento, per principio ordinamentale consolidato, deve essere l’extrema ratio, come dicevamo all'inizio. Vorrei collegarmi al secondo aspetto del problema, ripromettendomi di essere addirittura più sintetico. Mi riferisco al quomodo, cioè a come si svolge questo periodo di allontanamento e come si svolgono gli accertamenti per vedere come va questo periodo di allontanamento, cioè come incide sul benessere del minore, che è l'aspetto prioritario, e sulle dinamiche famigliari. Certo, è sottinteso che questo secondo passaggio, cioè lo svolgimento di attività idonee a recuperare una situazione familiare e che escludano il pericolo che ha determinato l'allontanamento, ossia – se esiste – il pericolo di permanenza in famiglia, dovrebbe essere attuato specificamente nell'ambito delle situazioni di pericolo vero. Nelle situazioni che non sono di pericolo vero, l'allontanamento non ci dovrebbe essere. Lo dico non per il fatto che fa guadagnare denaro alla struttura privata, Pag. 8 che è un altro argomento, forse secondario e collaterale, ma perché l'allontanamento è dannoso. L'allontanamento per un bambino o per un ragazzo è un danno e si può praticare solo quando il danno sia considerato minore del pericolo che si dovrebbe affrontare. Questo è un passaggio logico che l'ordinamento e la giurisprudenza interna e sovranazionale danno assolutamente per assodato. Tuttavia, la giurisprudenza di merito, cioè i Tribunali per i minorenni e le Sezioni minorili delle Corti d'appello, misteriosamente non lo fanno. Su questo voglio aggiungere un'altra cosa, aprendo e chiudendo una piccola parentesi. Questi casi marginali di pericolo impeditivo della permanenza del bambino nella famiglia ci sono, anche se sono statisticamente marginali perché sto parlando dei casi di pericolo comprovato, non di indicatori di pericolo genericamente intesi nelle linee-guida di alcune associazioni o comitati di associazioni che poi sono, guarda caso, gestori di istituti di ricovero di minori. Sto parlando di pericoli comprovati perché il processo, anche minorile, si basa su fatti e prove. Inoltre, non è altrimenti configurabile una vicenda processuale, se non in questo modo. Questi casi di pericolo vero vengono offuscati dal mare magnum di allontanamenti indebiti, perché svolgere interventi su decine di migliaia di casi in cui quello specifico intervento è indebito ed è conseguentemente inefficiente dal punto di vista dell'assistenza alla famiglia, comporta altresì una dispersione di risorse che, invece, potrebbero essere canalizzate su quei pochi ma importantissimi casi di pericolo vero e comprovato. Certo, tali casi sono pochi, ma esistono. Inoltre, anche se ce ne fosse uno solo, dovrebbe essere garantito un rimedio assistenziale o autoritativo rispetto ai casi di pericolo comprovato, ma con una canalizzazione di risorse assolutamente impedita dalla generalizzazione del rimedio dell'allontanamento a ipotesi – sono la stragrande maggioranza – che con l'allontanamento non c'entrano nulla, cioè che non costituiscono un presupposto normativo idoneo all'allontanamento; tanto più, dove la motivazione, riguardi – vi ripeto – una valutazione personologica o generica sull'idoneità ad essere genitori. Tale concetto non solo, come giustamente diceva l'avvocato Carsana poc'anzi e come è stato detto da molti in questa sede, è difficilmente individuabile, ma è anche concettualmente e linguisticamente vuoto perché la congruità, o l'idoneità, presuppone un termine di paragone: congruità a qualche cosa, in base ad un parametro. Tuttavia, non c'è un parametro di idoneità genitoriale. Chiunque, a fronte di un'accusa generica di inidoneità a essere il migliore dei genitori o un buon genitore, non avrebbe modo di difendersi perché il processo è fatto in modo che ci si possa difendere solo dai fatti. Le norme del codice civile di riferimento, cioè gli articoli 130 e 333 del codice civile stesso, sono carenti su questo punto. Inoltre, è evidente che tali norme facciano riferimento a fatti, cioè a condotte violative dei doveri parentali. Tuttavia, è così indeterminata la proposizione normativa che, nella giurisprudenza di merito (Tribunale dei minori e Sezione per i minorenni dalla Corte d'appello), si è ricondotta questa fattispecie, cioè delle condotte di violazione dei doveri parentali, ad una generica sintomatologia di inidoneità ad essere genitori normali, anche se non si sa cosa voglia dire essere un genitore normale perché non esiste un parametro normativo o scientifico che lo definisca. Come si svolge l'allontanamento, giustificato o ingiustificato? Me lo chiedo perché è un nuovo aspetto del problema. La previsione normativa specifica è contenuta nella legge sull'affido e sull'adozione, cioè la legge n. 184 del 1983, e nelle successive modificazioni e integrazioni, in particolare agli articoli 2, 4 e 5, per cui l'allontanamento si dovrebbe svolgere mediante l'organizzazione di ogni intervento idoneo a rendere questo periodo di permanenza del minore lontano dalla famiglia il più breve possibile. Tali interventi dovrebbero essere congrui al fine di determinare il pronto rientro del bambino in famiglia. Per quanto riguarda l'attuazione pratica, nella stragrande maggioranza dei casi Pag. 9la frequentazione tra i genitori e un bambino, anche in tenera età, è ridotta, quando tutto va bene, a un'ora a settimana. Certo, per un bambino di un anno o di due anni, vedere i genitori o i nonni o i fratelli per un'ora a settimana significa perdere la cognizione stessa del proprio ambito familiare, ma è dannoso anche per i bambini di altre età.

MARIA CARSANA, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza. Con casi anche di autolesionismo grave.

FRANCESCO MORCAVALLO, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Anche per gli adolescenti è estremamente dannoso perché si perdono dei riferimenti. Forse non nella stessa quantità della collega Carsana, ma penso di aver analizzato, prima come giudice delegato o come giudice relatore, oggi come avvocato, qualche decina di migliaia di casi. In nessuno di essi ho potuto constatare che, a fronte dell'allontanamento, vi fosse un solo beneficio o anche solo la predisposizione di quello che lei chiamava «progetto di riavvicinamento», cioè di quegli interventi che la legge impone e che il dettato normativo impone per sollecitare il pronto rientro del bambino in famiglia. A questo si sovrappone quello che definirei un ulteriore dramma, oltre che una disfunzione, e che non riguarda una disapplicazione normativa, ma un difetto di controlli. Vi ripeto che in tutti i casi esaminati non c'è stata una sola ipotesi in cui io abbia constatato che l'istituto – li chiamo ancora così – venisse fatto oggetto di quei controlli che sono oggetto del potere e della funzione di soggetti ben determinati dell'ordinamento. Si tratta, prima di tutto, delle amministrazioni locali, cioè degli assessori alle politiche sociali o comunque si chiamino e siano qualificati, inoltre dei procuratori minorili, anche se io non ho mai visto un procuratore minorile che facesse accesso ad una comunità, infine dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza che peraltro – mi pare di aver capito – ritiene di non avere questo tipo di potere, anche se, nell'ultima relazione al Parlamento, dice di averlo esercitato. C'è anche qui un corto circuito logico: o si ha il potere o non lo si ha, per cui, se non lo si ha, non lo si esercita e, se lo si esercita, lo si ha. Di questi controlli forse ci sarebbe bisogno, non solo a fronte delle ipotesi patologiche più gravi cui la collega ha fatto riferimento, ma anche a fronte di aspetti che riguardano anche la sensibilità soprattutto di un minorenne nella vita quotidiana. È di questi giorni la vicenda relativa a una cosiddetta «casa famiglia» – in realtà, è un agglomerato di case famiglia – a Rocca di Papa, in violazione del disposto normativo sulla separazione delle case famiglia per il superamento appunto degli istituti. Si tratta di un vero e proprio istituto, quindi forse non sbaglio se continuo a utilizzare questo termine. Le immagini di questo istituto sono state oggetto di riprese televisive. Sono rimasto sconcertato, quando ho visto le sbarre alle finestre e alle porte. Questo non vale solo per l'agglomerato di Rocca di Papa, perché a Roma ne abbiamo anche altri; basta andare sulla via della Pineta Sacchetti per avere un'idea. Questi agglomerati sembrano strutture carcerarie e me ne chiedo il perché.

MARIA CARSANA, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza. Si tratta di ex istituti mascherati da casa famiglia.

FRANCESCO MORCAVALLO, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Si tratta di tutti gli ex istituti cui, invece di un nome solo, si danno quattro nomi, cioè invece di chiamarsi «istituto delle suore» eccetera si chiamano con quattro nomi, come «Casa L'armonia» o «Casa Letizia» eccetera, anche se si tratta di un'unica struttura. Io non ho mai visto controllare e sorvegliare le modalità di organizzazione di un istituto, nemmeno da parte delle istituzioni amministrative o delle istituzioni private che li finanziano. Pag. 10 Tuttavia, in questi meccanismi di finanziamento si creano delle disfunzioni. La collega faceva riferimento a dei termini di durata, non solo previsti dalla legge, ma anche di durata prevedibile da indicare nel provvedimento, come da qualche tempo avrebbe prescritto la Corte europea dei diritti dell'uomo, ma, evidentemente, con statuizione rimasta costantemente inattuata, anche in questo caso. Addirittura, per ricevere finanziamenti privati, alcune strutture, tra cui quella cui facevo riferimento, indicano alla fondazione privata finanziatrice la durata prevedibile, esprimendola in anni (un anno, due anni o un anno e sei mesi), anche se non si sa sulla base di quale criterio, e sostituendosi al giudice. Succede che, quando l'accertamento sulla opportunità o meno e sulla necessità o meno che la collocazione in istituto debba proseguire, si basa su quanto riferiscono i gestori o gli operatori di quella struttura. Tuttavia, si potrà essere sicuri che i gestori e gli operatori di quella struttura riferiscano secondo il criterio del diritto soggettivo nell'interesse del minorenne o vi può essere il dubbio che, nella ponderazione, in qualche modo, possa assumere rilievo, se non addirittura prevalenza, il dato del gestore? Certo, il principio di trasparenza vorrebbe, se si cerca la prospettiva di una modifica normativa, che sull’an – l'esempio è quello della riforma dell'articolo 403 – venga individuata la fattispecie di riferimento, pericolo comprovato alla salute e alla vita del minore derivante dalla permanenza nella famiglia. Sul quomodo e sull'accertamento del quantum temporis, cioè della durata dell'allontanamento, trasparenza vorrebbe che venga previsto che la prova dei dati di fatto su cui si deve basare l'apprezzamento circa la valutazione e la durata della collocazione fuori dalla famiglia venga formata nel contraddittorio processuale e non possa essere limitata soltanto a quanto riferito dai gestori dell'istituto; altrimenti si crea una commistione di ruoli in cui gli operatori diventano anche giudicanti, invece bisogna separare le funzioni. L'importante funzione di ospitare e di accogliere un bambino non può coincidere con la funzione di dire se quel bambino deve essere ospitato e accolto, perché invece lo deve dire qualcun altro; altrimenti si creano dinamiche di sovrapposizione logica che poi confinano con il conflitto di interesse, anche a prescindere dal coinvolgimento di giudici onorari nella gestione di case famiglia che pure è abbastanza diffuso, come avete avuto modo di constatare. Questa possibile prospettiva di riforma di tipo processuale porterebbe a superare un dato ormai obsoleto, cioè la collocazione del processo minorile, anche in quei casi delicatissimi che portano all'allontanamento dalla famiglia o addirittura alla dichiarazione dello stato di adottabilità e soprattutto in quelli de potestate, nell'alveo della volontaria giurisdizione. Ancora adesso, dimenticando e pretermettendo un secolo e mezzo di riflessione processuale civilistica, la volontaria giurisdizione viene intesa come una sorta di arbitrium iudicis, in cui il giudice fa quello che vuole e l'occhio del giudice è l'assistente sociale o l'operatore della casa famiglia. Sostanzialmente, non c'è possibilità di difesa in giudizio e la volontaria giurisdizione diventa sinonimo di arbitrium iudicis, cioè di decisione del giudice sulla base di un dato impressionistico costruito sul riferito altrui. Questi mi sembrano, anche al di là dei dati statistici, dei punti di criticità assolutamente rimediabili. Riguardo l’an, la riforma è all'esame del legislatore e c'è un'indicazione determinata della fattispecie normativa, mentre per il quomodo basterebbe poco, cioè basterebbe introdurre una norma di una riga sulla formazione della prova e dare, sul piano amministrativo, attuazione ai poteri di sorveglianza e controllo sulle strutture e attuazione alle norme che tendono a impedire che queste strutture divengano o continuino ad essere, perché non hanno mai smesso, degli istituti. Certo, è una questione di politica amministrativa quella di distribuire le risorse in modo diverso, cioè nell'assistenza alla famiglia o con il finanziamento di lontani surrogati della famiglia. Tuttavia, è una questione politico-amministrativa che sarebbe Pag. 11 consequenziale a queste riforme normative perché, se fosse chiaro e se fosse ineludibile un dettato stringente, tale da rendere necessariamente marginale, come lo è nella realtà sociale, il rimedio dell'allontanamento, sarebbe consequenziale indirizzare le risorse e gli sforzi anche di organizzazione verso la famiglia.

PRESIDENTE. La ringrazio perché è molto interessante quello che lei è venuto a riferirci. È importante che noi raccogliamo questi allarmi. In realtà, ci ha dichiarato delle cose davvero gravi, come il fatto di non tener conto delle condizioni dei genitori che possono, giustamente, contestare, anche se dal punto di vista di un autoritarismo eccessivo, una scelta che tra l'altro elude le tutele della Costituzione e, come ci ha detto, le sollecitazioni dell'Europa. Vi porgo le scuse anche a nome della Presidente che, purtroppo, ha avuto un problema di salute e non ha potuto essere presente. Raccolgo la sollecitazione della collega di chiedere la sua disponibilità per una successiva audizione al fine di dar la possibilità ai colleghi di interagire con le domande. La Commissione sta portando avanti questa indagine conoscitiva che serve appunto a raccogliere le vostre sollecitazioni che, in parte, sono anche denunce. Stanno arrivando anche delle proposte fattive per migliorare, visto che è nell'interesse di tutti – della Commissione e di voi auditi – portare avanti al meglio la tutela dei minori. In effetti, come dicevamo prima, è pericoloso considerare che la capacità genitoriale sia un criterio così discrezionale e poco oggettivo da lasciare eccessivi margini all'allontanamento. Sull'articolo 403, personalmente ho presentato un disegno di legge che è incardinato nella Commissione Giustizia al Senato. Purtroppo, adesso dobbiamo interrompere perché abbiamo le votazioni alla Camera, quindi dobbiamo consentire ai colleghi di poter andare a votare. Grazie ancora. Dichiaro conclusa l'audizione. La seduta termina alle 13.50. 

Affidi, l'ex giudice: "Cacciato perché mi opposi". Scontro al tribunale dei minori di Bologna. Imparato criticò gli allontanamenti. Ilrestodelcarlino.it il 28 luglio 2019. «Nel periodo 2009-2013 due giudici togati e il sottoscritto, allora giudice onorario, si adoperarono strenuamente per contrastare e denunciare le storture giudiziarie del Tribunale per i Minorenni di Bologna. Allontanamenti ingiustificati di minori in primis ma anche altri procedimenti o interventi ablativi della potestà genitoriale. Non solo subimmo procedimenti disciplinari ingiustificati poi cassati, ma veri e propri atti lesivi delle proprie funzioni. Fatti come quelli di Bibbiano non sono che un anello di procedimenti delittuosi e perversi». Una lunga lettera scritta dal ferrarese Mauro Imparato, psicologo, neuropsicologo ed ex giudice onorario del tribunale dei minori, solleva il velo su una guerra fratricida tra le mura del tribunale minorile di Bologna che, seppur antecedente e non collegata all’inchiesta Angeli e Demoni, le fa in un certo qual modo da sfondo. L’oggetto del contendere è proprio quello degli affidi. Il tribunale dei minori, in quegli anni, era diviso in due. Da una parte i giudici togati Francesco Morcavallo e Guido Stanzani e l’onorario Imparato. Dall’altra, tutti i restanti colleghi, guidati dall’allora presidente del tribunale Maurizio Millo. I tre erano fautori di una linea morbida e non appiattita sui servizi sociali. Sostenevano insomma che bisognasse agire più rapidamente nella restituzione dei figli alla famiglia oppure non allontanarli affatto. Al contrario, la maggioranza dei magistrati, spiega Millo contattato dal Carlino, era «più prudente nell’accertare la situazione delle famiglie e la loro capacità di recupero». Lo scontro è deflagrato con la morte per ipotermia di un neonato in piazza Maggiore a Bologna e la guerra tra toghe è finita davanti al Csm, tirato in ballo a suon di esposti. L’organo di autogoverno dei giudici, valutata la situazione, ha allontanato Morcavallo e Stanzani. Il primo con un provvedimento cautelare il secondo con un trasferimento volontario. Morcavallo, però, ha fatto ricorso in Cassazione e la suprema corte non solo ha annullato il trasferimento ma ha anche ‘bacchettato’ il Csm per non aver tenuto conto delle sue argomentazioni. Morcavallo aveva infatti denunciato gravi abusi quali «affidamenti di bambini scarsamente motivati, provvedimenti provvisori prorogati all’infinito e l’appiattimento del tribunale sulle relazioni dei servizi sociali». Accuse che scivolano addosso a Millo, sicuro della correttezza del proprio operato. «Il Csm e l’Ispettorato – ha chiarito – non hanno trovato alcun elemento per dire che non svolgevamo il nostro compito in maniera corretta».

Tribunale Minori Bologna, tre giudici "fatti fuori" perché contro il "sistema"! Imola Oggi sabato, 27 luglio 2019. Illegittime ed illecite camere di consiglio, calunnie, minacce, mendaci addebiti disciplinari. Estromissioni e allontanamenti per tre giudici che erano contro il ‘sistema’ del Tribunale dei Minori di Bologna.   Pubblichiamo le denunce di uno dei tre giudici, con esposti scritti, indirizzate a Presidente del Tribunale dei Minori, al Consiglio Superiore della Magistratura, al Consiglio Giudiziario, alla Corte d’Appello, al Ministro, alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione, e persino alla Commissione Bicamerale per i diritti dell’infanzia, nonché direttamente in udienza avanti al CSM e avanti al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione: rimaste nei cassetti se non cestinate.

Mi chiamo Mauro Imparato e sono psicologo, neuropsicologo e psicoterapeuta. Sono stato Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna ininterrottamente dal 2004 al 2013 (tre mandati consecutivi). Durante il mio secondo e terzo mandato (2008-2010 e 2011-2013) ho avuto modo di affiancare, collaborandovi strettamente, il dottor Guido Stanzani e il dottor Francesco Morcavallo, entrambi giudici togati. Al massimo delle mie possibilità li ho appoggiati nel loro strenuo impegno volto a contrastare le “malpratiche” del Tribunale, in particolare gli “allontanamenti facili” e altri interventi de potestate privi di effettiva e comprovata giustificazione (un reale pregiudizio per il minore). Mi sono quindi trovato a contestare e contraddire subdoli e delittuosi ripetuti tentativi dei colleghi (Presidente, giudici togati, giudici onorari) di allontanare i predetti, dottor Stanzani e dottor Morcavallo, con infamanti calunnie e mendaci addebiti disciplinari. In diverse occasioni, tra il gennaio 2011 e la fine del mio incarico (2013) ho denunciato, con esposti scritti indirizzati a Presidente del TM, Consiglio Superiore della Magistratura, Consiglio Giudiziario, Corte d’Appello, Ministro, Procura Generale presso la Corte di Cassazione, e persino Commissione Bicamerale per i diritti dell’infanzia, nonché direttamente in udienza avanti al CSM e avanti al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione:

– le illegittime ed illecite camere di consiglio civili, con presenza multipla di componenti onorari e fissazione del collegio non ad inizio discussione del singolo caso, ma con scelta dei giudici da inserire a collegio in base alle adesioni al parere del giudice togato relatore (sempre a favore dell’allontanamento del minore dalla famiglia naturale, ovvero del suo collocamento extrafamigliare);

– le calunnie proferite per iscritto, al Presidente del Tribunale, da parte di almeno due giudici togati e almeno due giudici onorari, nei confronti del dottor Guido Stanzani, addebiti del tutto falsi (aver modificato decisioni di camera di consiglio durante la stesura dei decreti) e dalla mia testimonianza confutabili, nonché le pressioni o intimidazioni, da parte dei due giudici togati ai giudici onorari (sottoscritto compreso), affinché mendacemente le sostenessimo; (i reati che si sarebbero calunniosamente attribuiti al dottor Stanzani sarebbero occorsi in camere di consiglio cui io stesso avevo partecipato e, come appurai, con coinvolgimento di un giudice onorario che non vi era incluso); contraddissi queste calunnie anche in udienza avanti al CSM nella tarda primavera 2011;

– la mendacità delle attribuzioni di comportamenti disciplinarmente sanzionabili mosse al dottor Francesco Morcavallo e al dottor Guido Stanzani e la mia deliberata estromissione dall’ispezione ministeriale sollecitata e ottenuta dall’allora Presidente;

– la sospensione della rotazione dei giudici togati e onorari, sino ad allora da sempre vigente, nella composizione delle camere di consiglio civili settimanali, volta a impedire al dottor Stanzani, al dottor Morcavallo e al sottoscritto di condividere un qualsiasi collegio. Ciò per impedire che vi fosse mai alcun collegio in grado di opporsi, per maggioranza, ad allontanamenti ingiustificati di minori dalle loro famiglie o rigettare ricorsi inconsistenti della Procura della Repubblica per i Minorenni.

Nonostante le mie testimonianze e denunce agli organismi giudiziari competenti:

– il dottor Guido Stanzani, fu indotto a non ricorrere contro l’ingiusto provvedimento disciplinare del CSM, che lo allontanava dal TM, sotto avvisaglia di nuove calunnie (questa volta non neutralizzabili da “dissidenti” all’impostura quale si era rivelato il sottoscritto), limitandosi a richiedere il trasferimento a precedente sede giudiziaria e incarico;

– il dottor Morcavallo, nonostante la Cassazione avesse disposto l’annullamento del procedimento di allontanamento del CSM, dovette attendere oltre un anno per il reintegro al TM di Bologna;

– il dottor Morcavallo, non appena reintegrato al TM di Bologna, tornò a subire pesante ostracismo e violazioni del suo ufficio;

– al dottor Morcavallo e allo scrivente fu nuovamente impedita qualsiasi rotativa partecipazione condivisa a camere di consiglio sia civili che penali (e.g. tribunale del riesame).

Successivamente alle mie prime denunce e al mio rifiuto di calunniare il dottor Stanzani e il dottor Morcavallo, fui lentamente esautorato da qualsiasi attività istruttoria, per anni svolta in gran mole, e da qualsiasi delega di udienza (fatti salvi unicamente le udienze per ricorsi congiunti ai sensi dell’art 317bis), e fui “invitato” alle dimissioni dal Presidente e da un altro giudice togato. Dopo il mio ultimo esposto (dicembre 2012) a CSM, PG di Cassazione, Consiglio Giudiziario, Corte d’Appello, Ministro di Giustizia, commissione bicamerale per i diritti dell’infanzia, Presidente facente funzioni del TM:

– finii per svolgere due sole camere di consiglio al mese (gennaio e febbraio 2013, dopo l’ultima mia denuncia agli organismi competenti del dicembre 2012), a fronte delle 10/15 udienze settimanali (oltre a collegi civili e di dibattimento penale, GUP, riesame …) svolte per anni sin dal 2004; due sole camere di consiglio civili in cui tutte le deleghe istruttorie erano conferite unicamente all’altro giudice onorario presente (benché di inferiore anzianità di servizio) e in cui lo scrivente era sempre, inevitabilmente, in minoranza 1:3 nei casi contrastati;

– rassegnai le mie dimissioni – che mai ricevettero accettazione o rifiuto dal CSM – denunciandonuovamente tutti i fatti del periodo 2011-2013 già denunciati, inclusa la mia ormai totale e ingiustificata estromissione dalle attività di udienza;

– il mio mandato fu fatto silenziosamente scadere senza che venissi più convocato (per ben 10 mesi) né mi fosse comunicata risposta per le mie dimissioni di denuncia e protesta da alcun ufficio o organismo competente (Corte d’Appello, CSM, TM, Consiglio Giudiziario, Ministero di Giustizia).

Nel periodo 2009-2013, dunque, due giudici togati – dottor Guido Stanzani e dottor Francesco Morcavallo – e il sottoscritto, allora giudice onorario, si adoperarono strenuamente per contrastare e denunciare le storture giudiziarie del Tribunale per i Minorenni di Bologna – allontanamenti ingiustificati di minori in primis, ma anche altri procedimenti o interventi ablativi della potestà genitoriale (oggi responsabilità genitoriale) –, ma subirono calunnie, procedimenti disciplinari ingiustificati (poi cassati), atti delittuosi lesivi delle proprie funzioni, la propria autonomia giurisdizionale, il proprio ruolo o incarico, la propria persona.

I soli tre giudici che si opposero a questo sistema furono “fatti fuori” e le loro denunce sistematicamente ignorate anche da organismi giudiziari superiori. Fatti come quelli di Bibbiano non sono che un anello di procedimenti delittuosi e perversi a danno della giustizia e dei minori. Mauro Imparato

Imolaoggi scrive al Fatto per dire che non pubblica bufale. NeXt quotidiano il 21 Luglio 2019. Il Fatto Quotidiano oggi torna sul convegno su Bibbiano alla Camera perché ha ricevuto una lettera dagli organizzatori in cui ci si lamenta che Imolaoggi venga tacciato di pubblicare bufale: Fornendo il resoconto, frammentario e fuorviante di un convegno svoltosi alla Camera dei deputati, sulle violazione dei diritti dei bambini e delle loro famiglie riemerse, da ultimo, nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia, Il Fatto Quotidiano ha preso posizione il 19 luglio 2019,alla pagina 19,con firme di Sarah Buono e Maria Cristina Fraddosio, affermando che una vicenda riguardante “una decina di bambini” verrebbe amplificata per sostenere tesi riferibili a partiti politici o a posizioni ideologiche o addirittura discriminatorie. Inoltre, il sito di informazione Imola Oggi, cui va il merito dell’organizzazione dell’evento, viene tacciato di pubblicare bufale. I sottoscritti, moderatore e relatori nel convegno, esprimono dissenso e rivendicano la propria posizione di tecnici, i quali, in modo riconosciuto nei rispettivi settori di appartenenza, esercitano le proprie professioni al più elevato livello, secondo la più limpida attendibilità, mai posta in dubbio da chicchessia, e soprattutto in modo scevro da alcun condizionamento o pregiudizio politico, ideologico O religioso. Si vogliono qui prendere le distanze da chiunque intenda insabbiare o sminuire una vicenda di ingiustizia diffusa, di cui sono vittime bambini e famiglie per lo più deboli e povere e di cui sono responsabili enti solo nominalmente non lucrativi e magistrati impreparati o disonesti. Il sistema emerso a Bibbiano non solo rispecchia una diffusa e quotidiana violazione dei diritti umani che riguarda centinaia di migliaia di bambini in Italia, come più volte rilevato e censurato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; ma risulterebbe raccapricciante anche se riguardasse un bambino solo e qualunque fosse il colore dell’eventuale tessera di partito dei suoi familiari o di coloro che avessero il coraggio di difenderlo. Ridurre questo inquietante contesto ad argomento di polemica politica o ideologica significa favorire la l’ormai noto e documentato sistema che produce guadagno sulla pelle dei bambini e a favore di cooperative ed enti religiosi.

Come hanno fatto notare sul Fatto Quotidiano Sarah Buono e Maria Cristina Fraddosio nel panel dei relatori compaiono i nomi di esperti vicini al CCDU, il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani. Formalmente è una semplice Onlus ma in realtà è la versione italiana della Citizens Commission on Human Rights (CCHR), un’associazione che è emanazione di Scientology, la setta fondata da Ron Hubbard nota per alcuni casi di abuso sugli adepti. Che quelli della CCDU siano di Scientology è pacifico, lo ha ammesso anni fa anche il vicepresidente della Onlus durante uno dei convegni contro il sistema degli affidi. Questa è la risposta delle autrici dell’articolo alla lettera:

Non intendiamo sminuire né insabbiare nulla, neanche le nostre perplessità di fronte alle generalizzazioni che abbiamo ascoltato durante il convegno a partire da un’inchiesta su fatti avvenuti in una parte del territorio della provincia di Reggio Emilia. Di quell’inchiesta il Fatto Quotidiano ha dato ampiamente conto. Imola Oggi si presenta come una testata giornalistica e non lo è, più volte ha pubblicato notizie che si sono rivelate inesatte, il suo sedicente direttore non è iscritto all’Albo dei giornalisti: sorprende che sia stato invitato a moderare un dibattito alla Camera dei deputati e che, addirittura, i giornalisti dovessero accreditarsi per Montecitorio scrivendo a Imolaoggi.it. 

Affidamenti illeciti. Nei piccoli Comuni "servizi sociali e appalti senza controlli". Lucia Moia domenica 14 luglio 2019 su Avvenire. Dopo l’inchiesta di Reggio Emilia emergono situazioni ad alto rischio nel nostro sistema di protezione dei figli in difficoltà L’avvocato Franceschini: gli abusi continuano. «Sempre che i fatti siano confermati…». A venti giorni dagli arresti per l’inchiesta affidi illeciti di Reggio Emilia, tutti si trincerano dietro la frase di rito. Ma intanto quei fatti sono capitati. Decine di bambini non sono già stati allontanati dalle loro famiglie? Non hanno già subìto interrogatori condotti con metodi che – a leggere i particolari dell’ordinanza – risultano invasivi e capziosi? Alcuni di loro non hanno già manifestato con sindromi da dipendenza e altro disturbi psicologi il disagio profondo per quegli episodi? Certo, l’altro ieri il Tribunale dei minori di Bologna, ha reso nota l’intenzione di rivedere i procedimenti relativi a 5 dei minori coinvolti. E si tratta di una scelta comunque positiva. Ma, nel frattempo quanta sofferenza... Nel 2013 l’associazione 'Finalmente Liberi' presieduta dall’avvocato Cristina Franceschini, una lunga esperienza proprio accanto alle famiglie ferite dalla separazione e ai minori in difficoltà, aveva raccolto in un dossier tutti gli intoppi del diritto minorile. Era risultato che, su oltre mille giudici onorari – psicologi, neuropsichiatri, pedagogisti che affiancano il magistrato 'togato' nel collegio giudicante – circa 200 sembravano a rischio conflitto di interesse, perché impegnati a vario titolo nelle comunità destinate ad ospitare quegli stessi bambini oggetto delle sentenze emesse 'anche' da quei giudici. Oggi la situazione è probabilmente diversa perché nel frattempo sono arrivati due provvedimenti del Csm che vieta in maniera esplicita agli 'onorari' di avere incarichi di qualsiasi tipo, anche a titolo gratuito, con le comunità d’accoglienza dei minori. Situazione ristabilita? «Credo che qualche abuso persista – osserva l’avvocato Franceschini – perché se il Csm è stato costretto ad intervenire due volte significa che il problema era grave. Stiamo completando un nuovo dossier anche su questo tema e lo renderemo noto al più presto». Dove la situazione appare del tutto fluida – negativamente fluida – è invece sul fronte del rapporto tra amministrazioni locali, cooperative che assolvono le funzioni di competenza degli assistenti sociali e tribunali. La storia parte dalla legge 328 del 2000 – legge quadro di riforma dei Servizi socio assistenziali – che ha dato ai Comuni al di sotto dei cinquemila abitanti la possibilità di offrire servizi sociali consorziandosi in cooperative. Ora, visto che in Italia i piccoli Comuni rappresentano quasi l’80 per cento del totale, servizi delicati e importanti, come quelli riguardanti appunto i minori fuori famiglia, risultano di fatto privatizzati in troppe zone. Ma ciò accade ormai per prassi anche nelle grandi città visto che il personale amministrativo è insufficiente. Il loro operato si svolge quasi senza controlli, nonostante venga utilizzato denaro pubblico, perché raramente nei piccoli Comuni ci sono risorse e competenze specialistiche per verificare decisioni professionali comunque complesse e delicate. «Queste realtà possono per esempio gestire i cosiddetti "spazi neutri" – riprende la presidente di "Finalmente liberi" – dove i genitori separati incontrano i figli allontanati da casa sotto la tutela di una psicologa o di una terapeuta, oppure il servizio di assistenza domiciliare qualora venga disposta prima dell’allontanamento o dopo il rientro in famiglia del bimbo. Questi incontri, che dovrebbero servire anche per accertare le capacità genitoriali, hanno un costo. Il Comune o il genitore paga da 50 a 100 euro ogni incontro. Se quindi un ente o il genitore ha disponibilità economiche, ci possono essere uno e due incontri settimanali, altrimenti tutto viene diradato anche ad una sola ora al mese, alla faccia del presunto obiettivo di recupero della genitorialità ». Sulla base di questi incontri, i professionisti che operano nelle cooperative – di cui certamente la maggior parte offre servizi trasparenti e di grande competenza – preparano poi le relazioni per il giudice minorile. Ma, considerando che la cooperativa guadagna anche grazie alla frequenza e alla durata dei colloqui, chi può accertare che non vengano dilatati oltre il necessario? «Non molto tempo fa alcuni miei assistiti mi avevano riferito di aver sentito personalmente la responsabile di una di queste realtà – rivela l’avvocato Franceschini – accordarsi con un funzionario comunale: 'Dobbiamo continuare ancora un anno altrimenti mi manca la copertura'. Capito? Quella cooperativa aveva un contratto annuale e aveva la necessità di prolungare il percorso con i genitori, benché non più necessario, per continuare a incassare le quote». Non sarebbe stato più opportuno con quei soldi aiutare quella e altre famiglie? Certamente sì. Ma chi può sindacare sulla relazione di una cooperativa privata che viene sottoscritta dall’assistente sociale e finisce per diventare l’atto di un pubblico ufficiale? Certo, le famiglie con competenze e, soprattutto disponibilità economiche, potrebbero nominare un consulente tecnico di parte (che costa in media oltre mille euro), ma ben difficilmente uno psicologo scelto dalla famiglia può influire sulle scelte del giudice prima della convocazione dell’udienza. E non di rado passano mesi. Troppi mesi. «A meno che l’avvocato scelto dalla famiglia – conclude Cristina Franceschini – non si attivi in tempi rapidissimi, non prenda contatto subito con i servizi sociali, non si presenti al giudice per esporre il suo punto di vista. Certo, nella procedura ordinaria il pm ha 48 ore di tempo per l’obbligo di convalida di un fermo. Nel diritto minorile non ci sono limiti. E ogni giudice agisce a discrezione». C’è da stupirsi se in sistema così traballante possano accadere episodi come quelli emersi dall’inchiesta di Reggio Emilia? «Sempre che i fatti siano confermati…». Conosciamo il ritornello.

Affidi Illeciti, l’Avv. Polacco: i tribunali per i minorenni vanno soppressi. Avv. Edoardo Polacco su Meridiana notizie 5 agosto 2019. I gravissimi fatti di Bibbiano sui minori strappati alle famiglie , sugli affidi dei minori gestiti più dalle Associazioni ed Educatori di vario genere che dai Giudici ci porta ad un approfondimento dell’organizzazione e della validità dei Tribunale per i Minorenni. Lo scandalo di Bibbiano , secondo i maggiori mezzi di informazione che seguono le vicende giudiziarie , ha come fulcro alcune associazioni/onlus, alcuni professionisti tra assistenti sociali e psicologi e , per adesso, un Sindaco che avrebbe concesso i servizi sociali ad associazioni , affermano attualmente i giudici, senza appalto pubblico .Specificatamente , una delle assistenti sociali , agli arresti domiciliari ed indagata per falso ideologico, frode processuale, violenza privata e tentata estorsione, ha confessato dinanzi i PM che si occupano dell’inchiesta, di essere stata obbligata a falsificare i verbali per l’affido dei minori , dai suoi superiori .Ma fino ad oggi nessun ha ancora verificato o affondato il bisturi su chi realmente supervisiona tutte queste condotte su chi definitivamente decide e decreta la sottrazione del minore da una famiglia affidandolo ad una associazione/onlus : Il Tribunale per i Minori. Si, perché in tutte le operazioni sociali ed amministrative chi decreta, chi appone la propria firma definitiva è un Giudice o meglio un collegio giudicante del Tribunale per i Minori .Ed allora è mai pensabile che in tutti questi anni il Tribunale per i Minori di Bologna non abbia mai svolto una indagine su quello che accadeva sul suo territorio, è mai pensabile che nonostante le decine e decine di esposti presentati da numerose famiglie contro i metodi dei servizi sociali, il Tribunale non abbia mai aperto un’inchiesta ma abbia avvalorato le relazioni sociali? Appare sconcertante la notizia secondo cui la Procura della Repubblica di Reggio Emilia aveva informato il Tribunale per i Minori di Bologna della falsità di alcune relazioni sociali e quindi dei relativi Decreti di affidamento di alcuni minori ma, come afferma la stessa Procura, il Tribunale per i minorenni di Bologna non tenne mai conto di questa informazione giudiziaria. A questo punto è bene verificare come svolge il proprio lavoro il Tribunale per i Minorenni e come sono composti e da chi i Collegi giudicanti. Orbene, pochi sanno che il Collegio giudicante del Tribunale per i Minorenni è composto da due Giudici Togati e da due Giudici Onorari, Giudici Onorari con pieni poteri che vengono nominati ( senza concorso), attraverso un Bando pubblico ai sensi della L. 24/2010 a cui possono partecipare, cosi come prevedono le delibere del CSM , “ i cittadini benemeriti dell’assistenza sociale e cultori di biologia, psichiatria, antropologia, pedagogia e psicologia “. Quindi non si prevede neanche una laurea ma esclusivamente una “benemerenza” o un titolo di studio specialistico senza laurea. Ecco la prima immensa stortura. Un Giudice, seppur onorario ma sempre Giudice, neanche laureato, assunto senza nessun concorso se non con un bando per titoli, senza prove selettive, che dovrà giudicare, l’affido , l’ adozione ed altri fatti importantissimi per famiglie e minori .Ovviamente quale è la categoria professionale che ottiene più posti in assoluto tra i Giudici Onorari Minorili : gli assistenti sociali .Ma poi chi ha mai controllato o controlla se questi Giudici Onorari, già assistenti sociali rappresentino o abbiano rapporti di lavoro o rapporti economici con le Onlus/Associazioni/Cooperative che poi beneficiano di finanziamenti pubblici o che gestiscono gli affidi i adozioni o altro? Nessuno. Non esiste praticamente nessun controllo ed allora ci troviamo in un “palude giudiziaria” senza precedenti in cui i compiti di mischiano con gli interessi in cui non si sa più chi controlla e chi è controllato , ma in cui gli unici a rimetterci sono degli indifesi minori e le loro povere famiglie. I Tribunali per i Minorenni vanno soppressi con una legge ed i loro compiti affidati ai Tribunali Civili con sezioni specifiche per i minori. A cura dell’Avv. Edoardo Polacco

Quasi 200 giudici hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori. L'Inkiesta il 3 agosto 2015. Sono poco più di un migliaio e si trovano all’interno dei 29 tribunali minorili di tutta Italia così come nelle Corti d’Appello minorili. Sono i giudici onorari minorili, e di fatto hanno il pallino in mano quando si tratta di affidamenti in casa-famiglia oppure a centri per la protezione dei minori. Una figura prevista dall’ordinamento ma che continua a risultare anomala nonostante il peso determinante nelle decisioni nell’ambito dei procedimenti che riguardano i minori e gli affidamenti: nel settore infatti il giudizio di un giudice onorario minorile è pari a quello di un magistrato di carriera. Quando si decide nelle corti infatti giudicano due togati e due onorari, mentre in Corte d’Appello sono tre i togati e due gli onorari.

A definire il ruolo del giudice onorario minorile ci pensa una del 1934 e una riforma del 1956, ripresa nelle circolari del Consiglio Superiore della Magistratura: l’aspirante giudice oltre che ad avere la cittadinanza italiana e una condotta incensurabile, «deve, inoltre, essere “cittadino benemerito dell’assistenza sociale” e “cultore di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia e psicologia”». Il tema non fa rumore, ma tra queste circa mille persone che ricoprono incarichi lungo tutto lo stivale, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Il centro di alcune distorsioni del sistema rimane proprio all’interno delle circolari del Csm che ogni tre anni mette a bando posti per giudici onorari: all’articolo 7 della circolare si definiscono le incompatibilità, e si scrive espressamente che “Non sussistono per i giudici onorari minorili le incompatibilità derivanti dallo svolgimento di attività private, libere o impiegatizie, sempre che non si ritenga, con motivato apprezzamento da effettuarsi caso per caso, che esse possano incidere sull’indipendenza del magistrato onorario, o ingenerare timori di imparzialità”. Al comma 6 dello stesso articolo addirittura si prevede una causa certa di incompatibilità: all'atto dell'incarico il giudice onorario minorile deve impegnarsi a non assumere, per tutta la durata dell'incarico, cariche rappresentative di strutture comunitarie, e in caso già rivesta tali cariche deve rinunziarvi prima di assumere le funzioni. Insomma, a meno che non ci siano pareri motivati che possano incidere su indipendenza e imparzialità del giudizio, solo un atto motivato, che spesso non arriva, può mettere ostacoli sulla nomina del giudice onorario. Sulle maglie larghe dell’articolo 7 è depositata anche una interrogazione parlamentare dallo scorso 17 febbraio del senatore Luigi Manconi al Ministero della giustizia, che al momento rimane senza risposta, mentre ai primi di maggio l'onorevole Francesca Businarolo del Movimento 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per l'istituzione di una apposita commissione d'inchiesta. Tuttavia tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. Questi sono i dati contenuti in un dossier che l’associazione Finalmente Liberi Onlus presenterà nei prossimi mesi al Consiglio Superiore della Magistratura per mettere mano al problema. In particolare segnalano dall’associazione, che i duecento nomi che fanno parte della lista e ogni giorno decidono su affidamenti a casa famiglia e centri per la protezione dei minori, dipendono dalle strutture stesse.

Tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. A vario titolo c’è chi ha contribuito a fondarle, chi ne è azionista e chi fa parte dei Consigli di Amministrazione. Dunque il tema è centrato: a giudicare dove debbano andare i minori e soprattutto se debbano raggiungere strutture al di fuori della famiglia sono gli stessi che hanno interessi nelle strutture stesse. L’incompatibilità, che dovrebbe essere già valutata come condizione precedente al conflitto di interessi, in questo caso sembra evidente, ma difficilmente vengono effettuati gli approfondimenti “caso per caso” richiesti dalle circolari del Csm. «Stiamo cercando un appoggio istituzionale forte - spiega a Linkiesta l’avvocato Cristina Franceschini di Finalmente Liberi Onlus - per poter sottoporre al Consiglio Superiore della Magistratura la lista dei giudici onorari minorili incompatibili. Presentarlo come semplice associazione rischia di far finire il tutto dentro un cassetto, avendo invece una sponda dalle istituzioni o dalla politica potrebbe far finire il tema in agenda al Csm meglio e più velocemente». Nel dossier, al momento ancora in via di definizione ma prossimo alla chiusura, «troviamo anche giudici che lavorano ai servizi sociali in comune e che hanno interessi in casa famiglia», fanno sapere da Finalmente Liberi Onlsu, «ma anche chi intesta automobili di lusso alle stesse strutture». Così tra una Jaguar e una sentenza capita anche che un centro d’affido ricevesse rette da 400 euro al giorno, per un totale di 150 mila euro l'anno in tre anni per un solo minore. Un business non indifferente se si conta che i minori portati via alle famiglie, stimati dalle ultime indagini del Ministero per il Lavoro e per le Politiche Sociali, sono circa 30mila. Sicuramente non è un ambito in cui ragionare in termini meramente economici e non tutte le case famiglia ragionano in termini di profitto, tuttavia, anche alla luce della recente sentenza su quanto accaduto in oltre trent’anni al Forteto di Firenze, una riflessione in più va fatta. In particolare sulla trasparenza con cui si gestiscono gli istituti e su chi e come decide di dirottare i minori all’interno delle strutture.

Un altro caso è quello dell’ex giudice onorario minorile Fabio Tofi, psicologo e direttore della casa famiglia “Il monello Mare” di Santa Marinella, a Roma. Violenze, abusi sessuali, aggressioni fisiche e verbali, percosse, minacce, somministrazioni di cibo scaduto, di sedativi e tranquillanti senza alcuna prescrizione medica: queste sono le accuse che la procura di Roma ha mosso allo stesso Tofi e altri quattro collaboratori che sono poi sfociate nell’arresto dello scorso 13 maggio.  Tofi dal 1997 al 2009 (periodo in cui la struttura era già funzionante) è stato giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Roma e psicologo presso i Servizi Sociale del Comune di Marinella dal 1993 al 1996. Non sono però solo le nomine e la compatibilità degli incarichi a destare più di un interrogativo nel mondo degli affidamenti, ma sono anche le procedure che a detta di più di un esperto andrebbero riviste. «Sarebbe sufficiente constatare come le perizie psicologiche fatte ai genitori prima di togliere il minore e durante l’allontanamento non vengano replicate anche agli operatori delle strutture. I controlli - dice ancora Franceschini - nei confronti di questi dovrebbero essere stringenti e con cadenza regolare, e invece non lo sono». Franceschini (Finalmente Liberi Onlus): «All’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia». Così come l’ascolto del minore nel corso dei procedimenti spesso avviene in modo poco chiaro: i minori dopo i 12 anni devono essere ascoltati dal giudice, nella maggioranza dei casi però questo ascolto avviene in una stanza in cui oltre al minore e al giudice è presente anche un emissario della comunità. «Evidentemente in queste condizioni non è possibile lasciare libertà d’espressione al minore, e molte volte gli avvocati sono invitati a rimanere fuori dall’aula. Non di rado infatti arrivano sul nostro tavolo verbali confezionati». Per questo motivo in tanti denunciano al raggiungimento del diciottesimo anno di età una volta fuori dalle strutture, come accaduto nella vicenda del Forteto. Tuttavia, spiega Franceschini, all’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia. Dopo l’estate il dossier sui giudici onorari minorili arriverà comunque sul tavolo di più di un politico e del Garante per l’Infanzia, il cui mandato è al momento in scadenza. L’occasione per aprire uno squarcio su un tema taciuto e sconosciuto ai più inizia a vedersi, per non sentire più in un tribunale, «io sono il giudice, io dirigo la comunità, e decido io a chi va il minore».

"Bibbiano, così Foti e Monopoli chiedevano a Carletti contatto con un giudice". Giuseppe Leonelli per Redazione La Pressa 08 Agosto 2019.  Ecco il ruolo della Buccoliero, direttore della Fondazione emiliano-romagna per le vittime dei reati. E il gruppo torinese Abele, fondato da don Ciotti, ha una casa editrice che ha pubblicato anche un libro di Claudio Foti di Hansel e Gretel. Sui rapporti tra la direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati e gli indagati dell'inchiesta Angeli e Demoni, era intervenuto pubblicamente nei giorni scorsi il capogruppo Lega in Regione Stefano Bargi chiedendo la sospensione della magistrato dal ruolo di direttore. Sul caso è intervenuto anche ufficialmente il presidente della Fondazione stessa Carlo Lucarelli. Si tratta in particolare di Elena Buccoliero (non indagata), giudice onorario presso il Tribunale dei Minorenni, nel cui curriculum stesso sono citati i rapporti con Hansel e Gretel e anche col gruppo Abele. Va sottolineato infatti come il gruppo Abele, fondato a Torino da don Ciotti, abbia una casa editrice che nel 2012 pubblicò anche un libro di Claudio Foti di Hansel e Gretel di Torino. Oggi, nella 12esima puntata della lettura dell'ordinanza del Gip che La Pressa propone, ci soffermiamo sui rapporti appunto tra gli indagati e alcuni magistrati. Citando, come sempre, in modo pedissequo e senza commenti le carte. Claudio Foti e  Francesco Monopoli pensano in particolare al sindaco di Bibbiano Andrea Carletti per avere un contatto con un giudice minorile di Bologna “al quale richiedere aiuto e sostegno quantomeno a livello culturale e di immagine, ma non può escludersi nemmeno ad altro livello”. In una intercettazione del 21 dicembre 2018 in particolare 'Foti chiede a Monopoli di dargli un titolo per il quale possa fare intervenire questo giudice al convegno di febbraio e Monopoli dice che potrebbe intervenire sul tema 'Il Tribunale per i minorenni ed il penale' oppure “quando l'imputato viene assolto e il bambino continua a dire che è successo, cosa succede e quali sono i tempi di cura”. Foti dice che se hai dei giudici che si occupano di questo vuol dire che c'è una prospettiva... che la verità non è morta... che c'è una conclusione psicologica molto forte'. E ancora riguardo a Carletti: "Si manifesta in concreto che il Carletti abbia la possibilità di intrattenere contatti all'esterno per ottenere collaborazione nel proprio interesse al fine di dare copertura alle attività illecite e la capacità di influenza e i contatti a diversi livelli politico-amministrativi quantomeno a livello provinciale, nei settori di competenza (ad esempio l'Asl), ma anche l'autorità giudiziaria minorile". Ma Carletti non era l'unico ad avere contatti con un giudice. Scrive il Gip: 'Contatti simili con almeno un giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni possono, d'altro canto, vantare anche l'Anghinolfi e Monopoli: si tratta della dottoressa Buccoliero, tra l'altro direttore della Fondazione emiliano-romagna per le vittime dei reati. La stessa manifesta una sicura amicizia e pieno sostegno (anche nelle camere di Consiglio continuamente rinnovando la stima per la Anghinolfi e il suo operato). A questo punto l'ordinanza del Gip prosegue con la lunga trascrizione dell'ottobre 2018 tra la Anghinolfi e la stessa Buccoliero, ricordiamo non indagata. "La Anghinolfi ringrazia Elena Buccoliero per il suo intervento al convegno. Si danno del tu e con tono confidenziale". "La Anghinolfi le riferisce dei tre rinvii a giudizio ed altre indagini... La Anghinolfi riferisce che il Pm sta entrando in un ambito metodologico su cui non ha competenza. Elena riferisce di non capire poichè loro, cioè i servizi, stavano applicando un decreto del Tribunale. La Anghinfoli parla degli avvisi ricevuti dai vari operatori uno per calunnia, uno per violenza privata, uno per abuso di ufficio". E ancora: "La Anghinolfi che quanto sta avvenendo è frutto della incompetenza di magistrati in buona fede che non si intendono della materia minorile. La Buccoliero risponde "Tu sei buona, io lo sono un po' meno, nel senso che se tu devi valutare l'operato di un servizio e c'è un decreto che ti dice di fare quelle cose non ti puoi inventare un abuso d'ufficio"". Anche Monopoli, in base a quanto scrive il Gip “risulta essere in buoni rapporti col magistrato Buccoliero”. E viene riportata una telefonata nella quale Monopoli parla di "Un decreto di allontanamento mamma con bambino abbastanza tosto. Monopoli dice che loro hanno fatto una missiva inoltrata al Tribunale dove avevano scritto che al momento non avevano strutture libere e quindi ne ritardavano l'esecuzione". Poi chiede alla Buccoliero se "tale missiva è sufficiente" aggiungendo il nome del Giudice minorile del caso. “Occorrerebbe chiamare la cancelleria del giudice (e fa il nome) lunedì” - è la risposta della Buccoliero. Giuseppe Leonelli

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 13 ottobre 2015 - Ricorso n. 52557/14 - S.H. c. Italia. Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione eseguita dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico, e rivista con Rita Carnevali, assistente linguistico. Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court's database HUDOC

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO QUARTA SEZIONE CAUSA S.H. c. ITALIA (Ricorso n. 52557/14)

SENTENZA STRASBURGO 13 ottobre 2015

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa S.H. c. Italia, La Corte europea dei diritti dell’uomo (quarta sezione), riunita in una camera composta da:

Päivi Hirvelä, presidente, Guido Raimondi, Ledi Bianku, Nona Tsotsoria, Paul Mahoney, Faris Vehabović, Yonko Grozev, giudici, e da Fatoş Aracı, cancelliere aggiunto di sezione. Dopo avere deliberato in camera di consiglio il 22 settembre 2015, Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 52557/14) proposto contro la Repubblica italiana con cui una cittadina italiana, la sig.ra S.H. («la ricorrente»), ha adito la Corte l’11 luglio 2014 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).

2. La ricorrente è stata rappresentata dall’avv. M. Morcavallo del foro di Roma. Il Governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.

3. La ricorrente lamenta in particolare una violazione del suo diritto al rispetto della vita famigliare, sancito dall’articolo 8 della Convenzione.

4. Il 23 ottobre 2014 il motivo di ricorso relativo alla violazione dell’articolo 8 della Convenzione è stato comunicato al Governo e il ricorso è stato dichiarato irricevibile per il resto, conformemente all’articolo 54 § 3 del Regolamento della Corte.

IN FATTO. I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

5. La ricorrente è nata nel 1984 ed è residente a Sacile.

6. I fatti di causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.

7. La ricorrente è madre di tre bambini: R., P. e J., nati rispettivamente nel 2005, 2006 e 2008.

8. All’epoca dei fatti la ricorrente viveva con il padre dei bambini, soffriva di depressione e seguiva una terapia farmacologica.

9. Nell’agosto 2009 i servizi sociali informarono il tribunale per i minorenni di Roma (di seguito «il tribunale») che i minori erano stati più volte ricoverati per avere ingerito accidentalmente dei farmaci e fu avviato un procedimento d’urgenza dinanzi al tribunale. Con un provvedimento emesso l’11 agosto 2009 il tribunale ordinò l’allontanamento dei minori dalla famiglia disponendo che fossero collocati in un istituto, e incaricò i servizi sociali di elaborare un progetto in favore dei minori stessi.

10.  Il 20 ottobre 2009 la ricorrente e il padre dei minori furono sentiti dal tribunale. Essi ammisero che, a causa dello stato di salute della ricorrente e degli effetti secondari dei farmaci che assumeva per curare la depressione, essi avevano delle difficoltà ad occuparsi dei figli. Tuttavia, affermarono che potevano occuparsi in maniera adeguata dei bambini con l’aiuto dei servizi sociali e del nonno. La ricorrente indicò che seguiva una terapia e che gli effetti secondari inizialmente indotti dai farmaci non si erano più manifestati. I due genitori chiesero di prevedere un progetto di sostegno elaborato dai servizi sociali allo scopo di permettere il ritorno dei minori in famiglia.

11.  Il 3 dicembre 2009 la psichiatra depositò il proprio rapporto relativo alla ricorrente. Da quest’ultimo risultava che essa seguiva una terapia farmacologica, che era disposta a seguire una psicoterapia e ad accettare l’aiuto dei servizi sociali, e che aveva un legame affettivo molto forte con i figli. Alla stessa data, il Gruppo di lavoro integrato sulle adozioni («G.I.L.») depositò il proprio rapporto indicando che, nonostante le difficoltà famigliari, i genitori avevano reagito positivamente, avevano partecipato agli incontri organizzati ed erano disposti ad accettare il sostegno dei servizi sociali. Di conseguenza, il G.I.L. proponeva il ritorno dei minori presso i genitori e la realizzazione di un progetto di sostegno famigliare.

12.; Con un provvedimento emesso il 19 gennaio 2010 il tribunale, tenuto conto dei rapporti dei periti e del fatto che il nonno paterno era disposto ad aiutare il figlio e la ricorrente ad occuparsi dei bambini, ordinò che questi ultimi tornassero presso i genitori. Il 24 marzo 2010, tuttavia, il progetto di riavvicinamento genitori-figli fu interrotto e i minori furono allontanati nuovamente dalla famiglia in quanto la ricorrente era stata ricoverata in seguito all’aggravarsi della sua malattia, il padre aveva lasciato l’abitazione famigliare e il nonno era malato. Il tribunale stabilì allora un diritto di visita per i due genitori, fissato nel modo seguente: per la ricorrente un’ora ogni quindici giorni; per il padre dei minori due ore a settimana.

13. Nel marzo 2010 la procura chiese che fosse avviata una procedura di dichiarazione dello stato di adottabilità dei minori.

14. Il 10 giugno 2010 i genitori furono sentiti dal tribunale. La ricorrente affermò che si stava curando, sottolineò che il padre dei minori era disposto ad occuparsene e che, di conseguenza, questi ultimi non si trovavano in stato di abbandono. Il padre assicurava che, anche se lavorava, poteva occuparsi efficacemente dei minori, con l’aiuto di suo padre, e che aveva assunto una collaboratrice domestica che poteva aiutarlo.

15. Nell’ottobre 2010 il tribunale dispose una perizia per valutare la capacità della ricorrente e del padre dei minori di esercitare il ruolo di genitori. Il 13 gennaio 2011 il perito depositò un rapporto dal quale risultava:

che il padre non presentava alcuna patologia psichiatrica, che aveva una personalità fragile ma era in grado di assumersi le proprie responsabilità;

che la ricorrente era affetta da un «disturbo della personalità borderline che interferiva, in misura limitata, con la sua capacità di assumersi delle responsabilità legate al suo ruolo di madre»;

che i bambini erano iperattivi, e che una parte importante di questa sintomatologia poteva essere l’espressione delle difficoltà famigliari.

Nelle sue conclusioni, il perito osservò che i due genitori erano disposti ad accettare gli interventi necessari al fine di migliorare il loro rapporto con i figli e formulò le seguenti proposte: mantenere l’affidamento dei bambini all’istituto, predisporre un percorso di riavvicinamento tra i genitori e i figli e intensificare gli incontri. Fu proposta anche una nuova valutazione della situazione della famiglia dopo sei mesi.

16. Con una sentenza emessa il 1° marzo 2011, tuttavia, il tribunale dichiarò i minori adottabili e gli incontri tra i genitori e i minori furono interrotti. Nelle motivazioni, il tribunale considerò che nel caso di specie non fosse necessaria una nuova valutazione della situazione famigliare. Esso sottolineò le difficoltà dei genitori a esercitare il loro ruolo genitoriale, difficoltà che erano state indicate dal perito, e fece riferimento alle dichiarazioni della direttrice dell’istituto, secondo la quale la ricorrente soffriva di «gravi disturbi mentali», il padre «non era capace di dimostrare il suo affetto e si limitava a interagire con gli assistenti sociali in modo polemico» e i genitori «non erano in grado di dare ai figli le attenzioni e le terapie di cui avevano bisogno ». Tenuto conto di questi elementi, il tribunale dichiarò i minori adottabili.

17.  La ricorrente e il padre dei minori interposero appello avverso tale sentenza e chiesero la sospensione dell’esecuzione della stessa. Essi affermavano:

che il tribunale aveva erroneamente dichiarato l’adottabilità in assenza di una «situazione di abbandono», condizione necessaria ai sensi della legge n. 184 del 1983 per poter dichiarare l’adottabilità;

che la dichiarazione di adottabilità doveva costituire soltanto una extrema ratio e che, nella fattispecie, essa non era necessaria in quanto le loro difficoltà famigliari, legate soprattutto alla malattia della ricorrente, erano di natura transitoria e avrebbero potuto essere superate con il sostegno degli assistenti sociali.

Gli stessi sottolinearono infine che il tribunale non aveva tenuto conto della perizia depositata nel gennaio 2011 che ordinava la realizzazione di un percorso di sostegno e il riavvicinamento dei minori ai loro genitori.

18. Nel luglio 2011 il tribunale ordinò che ciascuno dei figli fosse dato in affidamento a una famiglia diversa.

19. Con una sentenza resa il 7 febbraio 2012 la corte d’appello di Roma rigettò l’appello della ricorrente e confermò l’adottabilità.

La corte d’appello osservò che le autorità competenti avevano compiuto gli sforzi necessari per garantire un sostegno ai genitori e preparare il ritorno dei bambini presso la loro famiglia. Tuttavia, il progetto non era andato a buon fine, il che dimostrava l’incapacità dei genitori di esercitare il loro ruolo genitoriale e l’assenza di carattere transitorio della situazione. Basandosi sulle conclusioni dei servizi sociali, la corte d’appello sottolineò che il fallimento del progetto aveva avuto conseguenze negative per i minori e che l’adottabilità mirava a tutelare il loro interesse ad essere accolti in una famiglia capace di prendersi cura di loro in maniera adeguata, cosa che la loro famiglia di origine non era in grado di fare a causa dello stato di salute della madre e delle difficoltà del padre. La corte d’appello osservò che vi erano stati sviluppi positivi della situazione, come la presa di coscienza della madre dei suoi problemi di salute e la sua volontà di seguire un percorso terapeutico, nonché gli sforzi del padre per trovare delle risorse per occuparsi dei figli o la disponibilità del nonno ad aiutare il figlio. Tuttavia, secondo la corte d’appello, questi elementi non erano sufficienti ai fini della valutazione della capacità dei due genitori di esercitare il loro ruolo genitoriale. Tenuto conto di questi elementi e allo scopo di salvaguardare l’interesse dei minori, la corte d’appello concludeva perciò confermando l’adottabilità.

20. La ricorrente e il padre dei bambini presentarono ricorso per cassazione. Con una sentenza depositata il 22 gennaio 2014, la Corte di cassazione respinse il ricorso della ricorrente, considerando:

che la corte d’appello avesse correttamente valutato l’esistenza di una situazione di abbandono morale dei minori e l’irreversibilità della incapacità dei genitori di esercitare il loro ruolo, tenuto conto del fallimento del primo progetto di sostegno messo in atto dai servizi sociali;

che la dichiarazione di adottabilità avesse debitamente tenuto conto dell’interesse dei minori a essere accolti in una famiglia capace di occuparsene efficacemente.

21. Nel febbraio 2014 la ricorrente chiese al tribunale per i minorenni di Roma la revoca della dichiarazione di adottabilità (sulla base dell’articolo 21 della legge n. 184 del 1983). A sostegno della sua domanda, la ricorrente produsse diversi documenti medici che attestavano che il suo stato di salute nel frattempo era migliorato, allo scopo di dimostrare che le condizioni previste dall’articolo 8 della legge n. 184 del 1983 per poter dichiarare l’adottabilità erano ormai venute meno. Con una sentenza resa in data 14 maggio 2014 il tribunale per i minorenni di Roma rigettò la domanda della ricorrente.

22. L’esito della procedura di adozione dei minori non è ancora noto.

II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

23. Il diritto interno pertinente è descritto nelle cause Akinnibosun c. Italia, (n. 9056/14, § 45, 16 luglio 2015) e Zhou c. Italia, (n. 33773/11, §§ 24-26, 21 gennaio 2014).

IN DIRITTO. I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE

24. La ricorrente contesta alle autorità interne di avere dichiarato l’adottabilità dei suoi figli mentre, nella fattispecie, non esisteva alcuna situazione di abbandono, bensì soltanto delle difficoltà famigliari transitorie, legate alla sua patologia depressiva e all’interruzione della sua convivenza con il padre dei minori, difficoltà che avrebbero potuto essere superate attuando un percorso di sostegno con l’aiuto dei servizi sociali. Essa sottolinea che le autorità interne hanno tagliato ogni legame con i suoi figli mentre la perizia aveva stabilito che nel caso di specie potevano essere adottate altre misure volte a salvaguardare il legame famigliare. Pertanto, essa ritiene che le autorità interne si siano sottratte al loro obbligo positivo di fare ogni sforzo necessario per salvaguardare il legame genitori-figli, inerente all’articolo 8 della Convenzione, che recita: «1.; Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.»

25. Il Governo contesta questa tesi.

A.  Sulla ricevibilità

26.; La Corte, constata che il ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre peraltro in altri motivi di irricevibilità. È dunque opportuno dichiararlo ricevibile.

B. Sul merito

1. Tesi delle parti a) La ricorrente

27. La ricorrente sottolinea anzitutto che le condizioni previste dalla legge per dichiarare l’adottabilità dei suoi figli non erano soddisfatte nel caso di specie, e a tale proposito osserva che i giudici nazionali hanno basato la dichiarazione di adottabilità soprattutto sulla sua malattia e sull’interruzione della convivenza tra i due genitori. Considerando che queste difficoltà famigliari erano di natura temporanea, la ricorrente ritiene che, preferendo tagliare il legame di filiazione materna piuttosto che adottare le misure necessarie per sostenerla ed aiutarla, i giudici nazionali siano venuti meno agli obblighi positivi derivanti dalla Convenzione.

28. La ricorrente fa osservare che se inizialmente fu attuato un percorso di sostegno, esso è stato nondimeno interrotto a causa dell’aggravarsi del suo stato di salute. Essa sottolinea che tale aggravamento era soltanto di natura temporanea, e pertanto non poteva giustificare la cessazione definitiva di qualsiasi tentativo di salvaguardare il legame famigliare.

29. La ricorrente rammenta che era consapevole delle difficoltà causate dalla sua malattia e sottolinea che aveva seguito un percorso terapeutico e chiesto varie volte ai servizi sociali e alle autorità competenti un sostegno e un accompagnamento per soddisfare al meglio le necessità dei bambini. Essa considera che la situazione di difficoltà di un genitore non può bastare, di per sé, a giustificare la rottura del legame genitore-figlio ma impone allo Stato di adottare le misure necessarie per fornire un’assistenza effettiva e preservare il legame famigliare. A questo riguardo la ricorrente fa riferimento alla giurisprudenza Zhou c. Italia, sopra citata.

30. La ricorrente non contesta che le autorità nazionali godano di un ampio margine di apprezzamento per determinare le misure da adottare al fine di tutelare l’interesse superiore dei bambini. Tuttavia, essa fa osservare che l’allontanamento dei minori dalla madre ha avuto effetti negativi sul loro equilibrio psicofisico e si riferisce a questo proposito ai rapporti dei periti (si veda il paragrafo 15 supra).

31. La ricorrente richiama l’attenzione sul fatto che la decisione di dichiarare i minori adottabili è stata presa senza tenere conto dei rapporti dei periti, secondo i quali il legame genitore-figli doveva essere preservato. La stessa rammenta a questo riguardo che, in un primo momento, i periti avevano auspicato che i bambini tornassero dai loro genitori. In seguito, quando il suo stato di salute si era aggravato e la convivenza tra i due genitori era stata interrotta, il perito nominato dal tribunale aveva proposto l’affidamento famigliare temporaneo dei minori e la realizzazione di un percorso di sostegno. I giudici nazionali, tuttavia, hanno contravvenuto a queste indicazioni, hanno dichiarato i minori adottabili e li hanno dati in affidamento ciascuno a una famiglia diversa.

b) Il Governo

32. Il Governo afferma che le autorità italiane competenti hanno agito nell’intento di proteggere l’interesse superiore dei minori e hanno adottato tutte le misure necessarie per salvaguardare il legame famigliare. La dichiarazione di adottabilità è stata pronunciata nell’ambito di una procedura equa, dopo un esame approfondito della situazione psicologica e fisica dei genitori e dei figli.

33. Il Governo rammenta che i minori vivevano in una situazione di precarietà e di pericolo, il che aveva giustificato l’intervento dei servizi sociali e la loro collocazione in un istituto.

34. La dichiarazione di adottabilità, intervenuta dopo vari tentativi di riunire i minori e i loro genitori, si basava sulle indicazioni dei periti ed era giustificata dall’esigenza di salvaguardare l’interesse superiore dei minori. Il Governo rammenta al riguardo il contenuto dei rapporti peritali che evidenziano i limiti della capacità della ricorrente di esercitare il ruolo di genitore nonché i disturbi comportamentali dei minori legati alla situazione famigliare difficile (si veda il paragrafo 15 supra).

35. Il Governo ritiene che la proposta dei periti di effettuare una nuova valutazione della situazione famigliare prima di dichiarare i minori adottabili non poteva essere accolta dai giudici nazionali. L’analisi attenta degli elementi di fatto e di diritto operata dai giudici nazionali aveva evidenziato l’esistenza di gravi motivi che giustificano la dichiarazione di adottabilità e non lasciava dubbi circa l’impossibilità di un cambiamento positivo della situazione famigliare. La volontà dei genitori di occuparsi dei figli e di accettare un sostegno da parte dei servizi sociali non era sufficiente per superare le difficoltà oggettive della presente causa e ad assicurare ai minori un buono sviluppo psicofisico.

36. Il Governo richiama l’attenzione sul fatto che la ricorrente aveva dichiarato dinanzi ai giudici nazionali di non essere in grado di occuparsi dei figli e aveva chiesto di essere aiutata o che i minori fossero affidati al padre. Tenuto conto di queste difficoltà, riconosciute dalla stessa ricorrente, e del fatto che il percorso di sostegno non era andato a buon fine, i giudici nazionali hanno adottato l’unica decisione che potesse tutelare l’interesse dei minori. Il Governo rammenta a questo riguardo la giurisprudenza della Corte, secondo la quale deve essere garantito un giusto equilibrio tra gli interessi dei figli e dei genitori. Tuttavia, l’interesse superiore del figlio può prevalere su quello dei genitori (Johansen c. Norvegia, 7 agosto 1996, § 78, Recueil des arrêts et décisions 1996 III).

37. Il Governo afferma che l’ingerenza nel diritto della ricorrente al rispetto della sua vita famigliare era prevista dalla legge e perseguiva lo scopo di proteggere i minori. Esso considera infine che i motivi indicati dai giudici nazionali per fondare le loro decisioni sono pertinenti e sufficienti, e che le autorità nazionali non hanno oltrepassato il margine di apprezzamento di cui al paragrafo 2 dell’articolo 8 della Convenzione.

2. Valutazione della Corte

a) Principi generali

38. La Corte constata in via preliminare che non viene messo in discussione che la dichiarazione di adottabilità dei minori costituisca una ingerenza nell’esercizio del diritto della ricorrente al rispetto della sua vita famigliare. Essa rammenta che una tale ingerenza è compatibile con l’articolo 8 solo se soddisfa le condizioni cumulative di essere prevista dalla legge, di perseguire uno scopo legittimo e di essere necessaria in una società democratica. La nozione di necessità implica che l’ingerenza si basi su un bisogno sociale imperioso e che sia in particolare proporzionata al legittimo scopo perseguito (si vedano Gnahoré c. Francia, n. 40031/98, § 50, CEDU 2000 IX, Couillard Maugery c. Francia, n. 64796/01, § 237, 1° luglio 2004 e Pontes c. Portogallo, n. 19554/09, § 74, 10 aprile 2012).

39.; La Corte rammenta che, al di là della protezione contro le ingerenze arbitrarie, l’articolo 8 pone a carico dello Stato degli obblighi positivi inerenti al rispetto effettivo della vita famigliare. In tal modo, laddove è accertata l’esistenza di un legame famigliare, lo Stato deve in linea di principio agire in modo tale da permettere a tale legame di svilupparsi (si veda Olsson c. Svezia (n. 2), 27 novembre 1992, § 90, serie A n. 250; Neulinger e Shuruk c. Svizzera [GC], n. 41615/07, § 140, CEDU 2010; Pontes c. Portogallo, sopra citata, § 75). Il confine tra gli obblighi positivi e negativi derivanti dall’articolo 8 non si presta a una definizione precisa, ma i principi applicabili sono comunque comparabili. In particolare, in entrambi i casi, si deve avere riguardo al giusto equilibrio da garantire tra i vari interessi coesistenti, tenendo conto tuttavia che l’interesse superiore del minore deve costituire la considerazione determinante che, a seconda della sua natura e gravità, può prevalere su quello del genitore (Sahin c. Germania [GC], n. 30943/96, § 66, CEDU 2003-VIII; Kearns c. Francia, n. 35991/04, § 79, 10 gennaio 2008; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 60). In particolare, l’articolo 8 non può autorizzare un genitore a veder adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del figlio (si vedano Johansen c. Norvegia, sopra citata, § 78, e Gnahoré, sopra citata, § 59). In tal modo, in materia di adozione, la Corte ha già ammesso che possa essere nell’interesse del minore favorire l’instaurarsi di legami affettivi stabili con i suoi genitori affidatari (Johansen, sopra citata, § 80, e Kearns, sopra citata, § 80).

40. La Corte rammenta anche che, nel caso degli obblighi negativi come nel caso degli obblighi positivi, lo Stato gode di un certo margine di apprezzamento (si veda W. c. Regno Unito, 8 luglio 1987, § 60, serie A n. 121), che varia a seconda della natura delle questioni oggetto di controversia e della gravità degli interessi in gioco. In particolare, la Corte esige che le misure che conducono alla rottura dei legami tra un minore e la sua famiglia siano applicate solo in circostanze eccezionali, ossia solo nei casi in cui i genitori si siano dimostrati particolarmente indegni (Clemeno e altri c. Italia, n. 19537/03, § 60, 21 ottobre 2008), o quando siano giustificate da un’esigenza primaria che riguarda l’interesse superiore del minore (si vedano Johansen, sopra citata, § 84; P., C. e S. c. Regno Unito, n. 56547/00, § 118, CEDU 2002 VI). Tuttavia, un tale approccio può essere scartato a causa della natura della relazione genitore-figlio quando il legame è molto limitato (Söderbäck c. Svezia, 28 ottobre 1998, §§ 30-34, Recueil 1998 VII).

41. Spetta a ciascuno Stato contraente dotarsi di strumenti giuridici adeguati e sufficienti per assicurare il rispetto degli obblighi positivi ad esso imposti ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, e alla Corte cercare di stabilire se, nell’applicazione e nell’interpretazione delle disposizioni di legge applicabili, le autorità nazionali abbiano rispettato le garanzie dell’articolo 8, tenendo conto in particolare dell’interesse superiore del minore (si vedano, mutatis mutandis, Neulinger e Shuruk c. Svizzera [GC], n. 41615/07, § 141, CEDU 2010, K.A.B. c. Spagna, n. 59819/08, § 115, 10 aprile 2012, X c. Lettonia [GC], n. 27853/09, § 102, CEDU 2013).

42. A tale riguardo, e per quanto attiene all’obbligo per lo Stato di decretare misure positive, la Corte afferma costantemente che l’articolo 8 implica il diritto per un genitore di ottenere misure idonee a riunirlo al figlio e l’obbligo per le autorità nazionali di adottarle (si vedano, ad esempio, Eriksson c. Svezia, 22 giugno 1989, § 71, serie A n. 156, e Margareta e Roger Andersson c. Svezia, 25 febbraio 1992, § 91, serie A n. 226-A; P.F. c. Polonia, n. 2210/12, § 55, 16 settembre 2014). In questo tipo di cause, l’adeguatezza di una misura si valuta a seconda della rapidità della sua attuazione, in quanto lo scorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili sui rapporti tra il minore e il genitore che non vive con lui (Maumousseau e Washington c. Francia, n. 39388/05, § 83, 6 dicembre 2007; Zhou c. Italia, sopra citata, § 48; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 63).

b) Applicazione di questi principi

43. La Corte considera che la questione decisiva nella fattispecie consista pertanto nel determinare se, prima di sopprimere il legame di filiazione materna, le autorità nazionali abbiano adottato tutte le misure necessarie e appropriate che si potevano ragionevolmente esigere dalle stesse affinché i minori potessero condurre una vita famigliare normale all’interno della propria famiglia.

44. La Corte osserva che le autorità italiane hanno preso in carico la ricorrente e i figli a partire da agosto 2009, quando i servizi sociali informarono il tribunale che i minori erano stati ricoverati a causa dell’ingestione accidentale di medicine. I minori furono allontanati dalla famiglia e collocati in un istituto.

45. La Corte osserva che inizialmente fu attuato un primo progetto di sostegno alla famiglia e che, nel gennaio 2010, i minori tornarono presso i genitori. La decisione del tribunale si basava sull’attestazione, da parte dei periti, di una reazione positiva dei genitori al percorso di sostegno famigliare elaborato dai servizi sociali e sull’esistenza di un legame affettivo molto forte tra la ricorrente e i minori.

46. Nel marzo 2010 il padre dei minori lasciò il domicilio famigliare e la ricorrente fu ricoverata a causa dell’aggravamento del suo stato di salute. Alla luce degli sviluppi intervenuti, i minori furono perciò nuovamente allontanati dalla famiglia e collocati in un istituto, e fu avviata una procedura di adottabilità.

47.  La Corte osserva che il perito nominato dal tribunale aveva previsto un percorso di riavvicinamento genitori-figli, con una intensificazione degli incontri e un riesame della situazione dopo sei mesi. La soluzione proposta si basava sull’esistenza di legami affettivi forti tra genitori e figli, nonché sulla valutazione complessivamente positiva della capacità dei genitori di esercitare il loro ruolo e sulla loro disponibilità a collaborare con i servizi sociali. La Corte osserva che la perizia in questione fu depositata in cancelleria il 13 gennaio 2011 e che solo due mesi dopo, ossia il 1° marzo 2011, il tribunale, contrariamente alle indicazioni del perito, ha dichiarato i minori adottabili e ordinato l’interruzione degli incontri. La decisione di interrompere immediatamente e definitivamente il legame materno è stata presa molto rapidamente, senza un’analisi attenta dell’incidenza della misura di adozione sulle persone interessate e nonostante le disposizioni di legge secondo le quali la dichiarazione di adottabilità deve rimanere l’extrema ratio. Pertanto il tribunale, rifiutando di prendere in considerazione altre soluzioni meno radicali praticabili nel caso di specie, come il progetto di sostegno famigliare previsto dalla perizia, ha scartato definitivamente qualsiasi possibilità, per il progetto, di andare a buon fine e per la ricorrente di riallacciare i legami con i figli.

48. La Corte rammenta che, per un genitore e suo figlio, stare insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita famigliare (Couillard Maugery c. Francia, sopra citata, § 237) e che delle misure che portano a una rottura dei legami tra un minore e la sua famiglia possono essere applicate solo in circostanze eccezionali. La Corte sottolinea anche che l’articolo 8 della Convenzione impone allo Stato di adottare le misure idonee a preservare, per quanto possibile, il legame madre-figlio (Zhou c. Italia, sopra citata, § 59).

49. La Corte osserva che, in cause così delicate e complesse, il margine di apprezzamento lasciato alle autorità nazionali competenti varia a seconda della natura delle questioni sollevate e della gravità degli interessi in gioco. Se le autorità godono di un’ampia libertà per valutare la necessità di prendere in carico un minore, in particolare in caso di urgenza, la Corte deve comunque avere acquisito la convinzione che, nella causa in questione, esistevano circostanze tali da giustificare il fatto di allontanare il minore. Spetta allo Stato convenuto accertare che le autorità abbiano valutato accuratamente l’incidenza che avrebbe avuto sui genitori e sul minore la misura di adozione, e abbiano preso in esame soluzioni diverse dalla presa in carico del minore prima di dare esecuzione a una tale misura (K. e T. c. Finlandia [GC], n. 25702/94, § 166, CEDU 2001 VII; Kutzner, c. Germania, n. 46544/99, § 67, CEDU 2002 I).

50. A differenza di altre cause che la Corte ha avuto occasione di esaminare, i figli della ricorrente nella presente causa non erano stati esposti a una situazione di violenza o di maltrattamento fisico o psichico (si vedano, a contrario, Y.C. c. Regno Unito, n. 4547/10, 13 marzo 2012, Dewinne c. Belgio (dec.), n. 56024/00, 10 marzo 2005; Zakharova c. Francia (dec.), n. 57306/00, 13 dicembre 2005), né ad abusi sessuali (si veda, a contrario, Covezzi e Morselli c. Italia, n. 52763/99, § 104, 9 maggio 2003). La Corte rammenta che ha concluso per l’esistenza di una violazione dell’articolo 8 nella causa Kutzner c. Germania, (§ 68, sopra citata) nella quale i tribunali avevano revocato la potestà genitoriale ai ricorrenti dopo avere constatato in questi ultimi un deficit intellettivo e avevano collocato i due figli in famiglie affidatarie distinte (§ 77, sentenza sopra citata). La Corte ha osservato che, se i motivi invocati dalle autorità e dai giudici nazionali erano pertinenti, gli stessi motivi non erano sufficienti per giustificare questa grave ingerenza nella vita famigliare dei ricorrenti (§ 81, sentenza sopra citata). Essa ha anche constatato la violazione dell’articolo 8 in una causa (Saviny c. Ucraina, n. 39948/06, 18 dicembre 2008) in cui l’affidamento dei figli dei ricorrenti era stato motivato dalla incapacità di questi ultimi di garantire loro condizioni di vita adeguate (la mancanza di risorse economiche e di qualità personali degli interessati mettevano in pericolo la vita, la salute e l’educazione morale dei figli). Lo stesso è avvenuto nella causa Zhou c. Italia (§§ 59-61, sopra citata), nella quale la Corte ha considerato che le autorità non si fossero sufficientemente impegnate per mantenere il legame madre-figlia e si fossero limitate a constatare che sussistevano delle difficoltà che invece avrebbero potuto essere superate per mezzo di una assistenza sociale mirata. La Corte ha invece concluso che non vi è stata violazione dell’articolo 8 nella causa Aune c. Norvegia (n. 52502/07, 28 ottobre 2010), osservando che l’adozione del minore non aveva di fatto impedito alla ricorrente di continuare ad intrattenere una relazione personale con il minore e non aveva avuto la conseguenza di allontanarlo dalle sue radici. Anche nella causa, sopra citata, Couillard Maugery c. Francia, in cui l’affidamento dei minori era stato disposto in ragione di uno squilibrio psichico dei genitori, la Corte ha concluso che non vi è stata violazione dell’articolo 8, tenuto conto della mancanza di collaborazione da parte della madre con i servizi sociali, del rifiuto di vederla da parte dei figli e soprattutto del fatto che il legame materno non era stato interrotto in maniera definitiva, in quanto l’affidamento, nel caso di specie, costituiva soltanto una misura temporanea.

51. Nella presente causa, la procedura di dichiarazione di adottabilità dei minori è stata avviata in seguito all’aggravarsi della malattia della ricorrente, che aveva condotto al ricovero di quest’ultima, e del degrado della situazione famigliare, a seguito della separazione della coppia dei genitori.

52. La Corte non dubita della necessità, nella situazione della presente causa, di un intervento delle autorità competenti allo scopo di tutelare l’interesse dei minori. Essa dubita tuttavia dell’adeguatezza dell’intervento scelto e ritiene che le autorità nazionali non abbiano fatto abbastanza per salvaguardare il legame madre-figli, e osserva che, in effetti, erano praticabili altre soluzioni, come quelle suggerite dal perito, e in particolare la realizzazione di un’assistenza sociale mirata di natura tale da permettere di superare le difficoltà legate allo stato di salute della ricorrente, preservando il legame famigliare assicurando comunque la protezione dell’interesse supremo dei minori.

53. La Corte guarda con attenzione il fatto che la ricorrente varie volte aveva chiesto l’intervento dei servizi sociali per essere aiutata a occuparsi dei figli nel migliore dei modi. A suo parere non può essere accolto l’argomento del Governo secondo il quale le richieste della ricorrente mostrerebbero la sua incapacità di esercitare il ruolo di genitore e giustificherebbero la decisione del tribunale di dichiarare i minori adottabili. La Corte ritiene che una reazione delle autorità alle richieste di aiuto della ricorrente avrebbe potuto salvaguardare sia l’interesse dei minori che il  legame materno. Per di più, una soluzione di questo tipo sarebbe stata conforme alle raccomandazioni del rapporto peritale e alle disposizioni della legge secondo le quali la rottura definitiva del legame famigliare deve rimanere l’extrema ratio.

54. La Corte ribadisce che il ruolo di protezione sociale svolto dalle autorità è precisamente quello di aiutare le persone in difficoltà, di guidarle nelle loro azioni e di consigliarle, tra l’altro, sui mezzi per superare i loro problemi (Saviny c. Ucraina, n. 39948/06, § 57, 18 dicembre 2008; R.M.S. c. Spagna n. 28775/12, § 86, 18 giugno 2013). Nel caso di persone vulnerabili, le autorità devono dare prova di una attenzione particolare e devono assicurare loro una maggiore tutela (B. c. Romania (n. 2), n. 1285/03, §§ 86 e 114, 19 febbraio 2013; Todorova c. Italia, n. 33932/06, § 75, 13 gennaio 2009; R.M.S. c. Spagna, n. 28775/12, § 86, 18 giugno 2013; Zhou, sopra citata, §§ 58-59; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 82).

55; La Corte osserva che la sentenza della corte d’appello di Roma aveva riconosciuto una evoluzione positiva dello stato di salute della ricorrente e della situazione famigliare complessivamente considerata. In particolare, la corte d’appello aveva tenuto presente il fatto che la ricorrente seguiva un percorso terapeutico, che il padre dei minori si era mobilitato per trovare risorse per occuparsi di loro e che il nonno paterno era disposto ad aiutarlo (paragrafo 19 supra). Questi miglioramenti, tuttavia, non sono stati considerati sufficienti ai fini della valutazione della capacità dei genitori di esercitare il loro ruolo, e la corte d’appello confermò la dichiarazione di adottabilità, basandosi in particolare sull’esigenza di salvaguardare l’interesse dei minori ad essere accolti in una famiglia capace di prendersi cura di loro in maniera adeguata.

56. La Corte rammenta che il fatto che un minore possa essere accolto in un contesto più favorevole alla sua educazione non può di per sé giustificare che egli venga sottratto alle cure dei suoi genitori biologici; una tale ingerenza nel diritto dei genitori, sulla base dell’articolo 8 della Convenzione, di godere di una vita famigliare con il loro figlio deve altresì rivelarsi «necessaria» a causa di altre circostanze (K. e T. c. Finlandia [GC], sopra citata, § 173; Pontes c. Portogallo, sopra citata, § 95; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 75). La Corte osserva che, nel caso di specie, pur essendo disponibili soluzioni meno radicali, i giudici nazionali hanno dichiarato i minori adottabili senza tenere conto delle raccomandazioni contenute nella perizia, provocando in tal modo l’allontanamento definitivo e irreversibile della madre. Inoltre, i tre minori sono stati dati in affidamento a tre famiglie diverse, cosicché non vi è stata solo una scissione della famiglia ma anche una rottura del legame tra fratelli e sorelle (Pontes c. Portogallo, § 98, sopra citata).

57. Secondo la Corte la necessità, che era fondamentale, di preservare, per quanto possibile, il legame tra la ricorrente – che si trovava peraltro in situazione di vulnerabilità – e i figli non è stato preso debitamente in considerazione (Zhou, § 58, sopra citata). Le autorità giudiziarie si sono limitate a prendere in considerazione le difficoltà della famiglia, che avrebbero potuto essere superate per mezzo di un’assistenza sociale mirata, come indicato peraltro nella perizia. Se è vero che un primo percorso di sostegno era stato realizzato nel 2009 ed era fallito a causa dell’aggravarsi della malattia della ricorrente e della cessazione della convivenza con il marito, queste circostanze non erano sufficienti per giustificare la soppressione di ogni possibilità per la ricorrente di riallacciare i legami con i figli.

58. Alla luce di queste considerazioni e nonostante lo Stato convenuto goda di un margine di apprezzamento in materia, la Corte conclude che le autorità italiane, prevedendo come unica soluzione la rottura del legame famigliare, benché nella fattispecie fossero praticabili altre soluzioni al fine di salvaguardare sia l’interesse dei minori che il legame famigliare, non si sono adoperate in maniera adeguata e sufficiente per fare rispettare il diritto della ricorrente di vivere con i figli, e di conseguenza hanno violato il diritto di quest’ultima al rispetto della vita famigliare, sancito dall’articolo 8 della Convenzione. Pertanto, vi è stata violazione di tale disposizione.

II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

59. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione, «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A. Danno

60. La ricorrente chiede somma di 300.000 euro (EUR) per il danno morale che avrebbe subito a causa della violazione dell’articolo 8.

61. Il Governo si oppone a questa richiesta.

62. Tenuto conto delle circostanze della presente causa e della constatazione secondo la quale le autorità italiane non si sono adoperate in maniera adeguata e sufficiente per far rispettare il diritto della ricorrente a vivere con i figli, in violazione dell’articolo 8, la Corte ritiene che l’interessata abbia subito un danno morale che non può essere riparato con la semplice constatazione di violazione della Convenzione. Essa ritiene tuttavia che la somma richiesta sia eccessiva. Considerati tutti gli elementi di cui dispone e deliberando in via equitativa, come prevede l’articolo 41 della Convenzione, essa ritiene opportuno fissare la somma da accordare all’interessata in riparazione del suddetto danno morale nella misura di 32.000 EUR.

B. Spese

63. La ricorrente non chiede alcuna somma per le spese. La Corte ritiene dunque che non sia opportuno accordare somme a questo titolo alla ricorrente.

C. Interessi moratori

64. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

Dichiara il ricorso ricevibile per quanto riguarda il motivo di ricorso relativo all’articolo 8 della Convenzione;

Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione;

Dichiara, che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza diverrà definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, la somma di 32.000 EUR (trentaduemila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale;

che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;

Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 13 ottobre 2015, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte.

Fatoş Aracı Cancelliere aggiunto

Päivi Hirvelä Presidente

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 21 novembre 2006 - Ricorso n. 10427/02 - Roda e Bonfatti c/Italia

CAUSA RODA E BONFATTI c. ITALIA (Ricorso n. 10427/02)

SENTENZA STRASBURGO 21 novembre 2006

La presente sentenza diventerà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Potrà subire delle modifiche nella forma.

Nella causa Roda e Bonfatti c. Italia, La Corte europea dei Diritti dell'Uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da: J.-P. COSTA, presidente, A.B. BAKA, I. CABRAL BARRETO, A. MULARONI, nominata a titolo dell'Italia, E. FURA-SANDSTRÖM, D. JOCIENE, D. POPOVIC, giudici, e da S. NAISMITH, cancelliere aggiunto di sezione, Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 7 novembre 2006, Pronuncia la seguente sentenza, adottata in quest'ultima data:

PROCEDURA. All'origine della causa vi è un ricorso (n. 10427/02) presentato contro la Repubblica italiana e con cui due cittadini di tale Stato, la Sig.ra Daniela Roda e il Sig. Matteo Bonfatti ("i primi due ricorrenti"), che agiscono anche in nome di S.B., loro figlia e sorella, hanno adito la Corte rispettivamente il 21 e il 23 gennaio 2002, ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali ("la Convenzione"). I ricorrenti sono rappresentati dall'avv. D. Paltrinieri del foro di Mirandola (Modena). Il governo italiano ("il Governo") è rappresentato dal suo agente, I.M. Braguglia, e dal suo co-agente, F. Crisafulli. Il 13 dicembre 2004 la seconda sezione ha deciso di informare il Governo del ricorso. Avvalendosi delle disposizioni dell'articolo 29 § 3, essa ha deciso che sarebbero state esaminate nel contempo l'ammissibilità e la fondatezza della causa.

IN FATTO. Le circostanze della presente causa. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1962, 1979 e 1988. Sono residenti a Finale Emilia, Massa Finalese e Mirandola. La presa in carico di S.B. Il 23 ottobre 1998 M., cugina di S.B., confermò dinanzi al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Bologna ("il tribunale per i minorenni), le dichiarazioni fatte ai servizi sociali nell'ambito del programma psicoterapeutico cui era sottoposta dalla primavera dello stesso anno. Essa affermò di avere subito - come il fratello e altri bambini, tra i quali S.B. -, degli abusi sessuali in un'abitazione privata e durante riti satanici in un cimitero, da parte dei suoi genitori e di altri adulti, tra cui la sorella della prima ricorrente e il marito, nonché M.B., marito della sig.ra Roda e padre dei suoi figli. Il 27 ottobre 1998, tenuto conto della "necessità di procedere ad esami approfonditi" sulla minore, la procura chiese al tribunale per i minorenni, ai sensi dell'articolo 330 del codice civile ("CC"):

di ordinare l'allontanamento di S.B. dai genitori, il padre "presunto colpevole di abuso" e la madre "come minimo gravemente complice";

di ottenere le informazioni necessarie sui genitori;

di ordinare che i bambini, per il tramite dell'azienda sanitaria locale ("AUSL") di Mirandola, fossero affidati ad una struttura di accoglienza "protetta", e di far procedere quanto prima alle visite medico-legali e agli esami psicologici allo scopo di verificare se la minore aveva subito abusi sessuali. Il procuratore pregò infine il tribunale di dichiarare gli atti del fascicolo coperti da segreto a causa dei procedimenti penali pendenti.

Deliberando sulla base dell'articolo 336 CC, il 6 novembre 1998 il tribunale per i minorenni dispose, tra l'altro, la sospensione della potestà dei genitori nei confronti della prima ricorrente e del marito, e nominò la AUSL di Mirandola tutore di S.B., incaricando l'ente di affidare la minore ad una struttura "protetta" e di avviare un'indagine psicologica. Esso autorizzò inoltre la AUSL a ricorrere alla forza pubblica per procedere all'allontanamento della bambina.

Il tribunale considerò attendibili le dichiarazioni di M., poiché la minore aveva iniziato a farle una volta allontanata dalla famiglia e posta in un luogo "protetto"; i risultati delle visite medico-legali avevano confermato gli abusi sessuali, e le sue dichiarazioni coincidevano con quelle di altri bambini. L'allontanamento di S.B. diventava dunque urgente, dato che il padre, alla luce di dette dichiarazioni, sembrava direttamente implicato nei fatti, e la madre per lo meno incapace di offrire la protezione necessaria alla figlia. Il tribunale per i minorenni rilevò anche che, oltre al padre di S.B., altri membri della famiglia della sig.ra Roda erano implicati: la sorella e il marito, nonché il padre di quest'ultimo.

La decisione fu eseguita il mattino del 12 novembre 1998. I ricorrenti affermano che l'allontanamento ebbe luogo alle 6 del mattino. S.B. e la madre furono accompagnate al commissariato di polizia, dove S.B. fu affidata ai servizi sociali e la sig.ra Roda ricevette la notifica della decisione del tribunale per i minorenni. Lo stesso giorno, il tribunale dichiarò gli atti del fascicolo coperti dal segreto.

Il 21 dicembre 1998 furono effettuate due perizie medico-legali in presenza del perito nominato da M.B. Depositate il 13 febbraio 1999, le relazioni concludevano, per quanto riguarda la visita ginecologica, per "l'esistenza di lesioni legate a rapporti sessuali completi, numerosi e reiterati"; per quanto riguarda l'altra visita, per "una forte corrispondenza con l'ipotesi di atti di abusi sessuali che hanno interessato la regione anale".

Il 3 marzo 1999 il perito nominato da M.B. depositò la sua relazione nella quale criticava sotto alcuni aspetti le due relazioni, ma considerava "molto probabile che vi fossero stati abusi sessuali".

I servizi sociali depositarono due rapporti l'8 e il 9 marzo 1999: nel primo, veniva affermato in particolare che, nel corso degli incontri quasi settimanali con S.B., quest'ultima appariva molto chiusa e si rifiutava di eseguire i test e i disegni proposti. Essa parlava spesso della sua famiglia e dei violenti litigi nel corso dei quali il padre percuoteva la madre. Quanto ai risultati delle visite medico-legali, essa aveva dichiarato all'inizio che il medico si era sbagliato, poi che suo padre era l'autore delle violenze, e poi aveva ritrattato. Il secondo rapporto riferiva la presa in carico di S.B. e l'affidamento della stessa a una struttura di accoglienza. S.B. si era inserita velocemente nel nuovo ambiente; tuttavia, dopo le visite medico-legali, aveva iniziato a manifestare dell'aggressività. Sua madre aveva telefonato regolarmente per avere sue notizie. Essa considerava l'allontanamento della figlia come un grave errore, poiché le dichiarazioni di M. erano secondo lei "il frutto della fantasia di una bambina infelice, con dei genitori incapaci (&)". Pur ammettendo che M.B. non era stato un buon padre, essa non lo credeva capace di "fare del male alla figlia".

Il 31 marzo 1999 il tribunale per i minorenni revocò la misura del segreto. Il rinvio a giudizio dinanzi al tribunale penale di Modena delle diciassette persone imputate degli abusi sessuali denunciati da M. risale a questa stessa data.

Il 2 aprile 1999 la prima ricorrente chiese al tribunale per i minorenni, in via principale, di affidarle la custodia della figlia o, in subordine, il ritorno della bambina a casa sua o, in caso contrario, la possibilità di incontrarla.

All'udienza del 7 aprile 1999 i genitori di S.B. smentirono categoricamente le affermazioni dei servizi sociali; la sig.ra Roda ribadì la sua convinzione secondo la quale le perizie medico-legali erano errate. Il 14 aprile la prima ricorrente chiese di nuovo di poter incontrare la figlia.

Il 14 maggio 1999, ritenendo che i genitori di S.B. non avrebbero potuto fornire a quest'ultima la protezione necessaria in una situazione così grave, in attesa dell'esito dell'inchiesta penale in corso, il tribunale per i minorenni considerò impraticabile il ritorno della bambina presso la madre. Esso ordinò una perizia per "verificare la personalità dei genitori e il rapporto tra questi ultimi e la bambina" e di valutare anche l'opportunità di un ritorno di S.B. in famiglia.

Il 25 maggio 1999 la procura espresse un parere sfavorevole alla possibilità di incontri tra padre e figlia, ma favorevole a quelli tra S.B. e la madre, a condizione che avessero luogo in un luogo protetto e in presenza di assistenti sociali. La procura dichiarò tuttavia di opporsi all'affidamento della bambina alla madre, che non era in grado di fornirle la sua "protezione".

Il perito prestò giuramento il 24 giugno 1999.

Il 28 gennaio 2000 il tribunale per i minorenni ricevette un'altra relazione di controllo della situazione redatta dai servizi sociali. Gli assistenti sociali avevano incontrato gli interessati varie volte: una volta la sig.ra Roda insieme al figlio, dodici volte la sig.ra Roda, sette volte il figlio e quattro volte M.B. (dopo la sua scarcerazione). La conclusione della relazione era la seguente: "Risulta con ogni evidenza da questa prima parte della valutazione della situazione che, pur avendo vissuto anni di conflitti tra loro, con accuse gravi e reciproche riguardo al loro comportamento in famiglia, i genitori concordano nel ritenere ingiustificate le decisioni delle giurisdizioni investite della causa in quanto gli elementi di fatto non basterebbero ad affermare che S.B. ha subito un qualsiasi maltrattamento, ad eccezione di una forte sofferenza derivante dalla situazione famigliare, situazione a cui i genitori hanno del resto già posto rimedio separandosi. Su questo punto, i genitori ricevono il sostegno di Matteo."

Il 31 gennaio 2000 il perito ottenne, "in ragione della complessità e del carattere dell'inchiesta", una proroga di quarantacinque giorni per compiere la perizia.

Il 30 marzo 2000 la prima ricorrente reiterò dinanzi al tribunale per i minorenni la propria domanda volta a ottenere la ripresa dei contatti con la figlia, poiché quest'ultima aveva dichiarato il 22 febbraio 2000 dinanzi al tribunale penale di Modena di voler rientrare a casa.

Il 12 aprile 2000 il giudice delegato dal tribunale per i minorenni accordò al perito una nuova proroga di novanta giorni per permettergli di esaminare la videoregistrazione dell'audizione di S.B. del 22 febbraio nonché il nuovo rapporto dei servizi sociali.

Il 7 giugno 2000 il perito consegnò al tribunale per i minorenni le proprie considerazioni relative all'audizione di S.B.: "Credo che S.B. sia stata obbligata a crescere in fretta in un ambiente violento e caratterizzato da una mancanza di affetto, in cui i ruoli dei genitori si sono rapidamente irrigiditi con, da una parte, (il ruolo) di persecutore (il padre) e, dall'altra, (quello) di vittima (la madre). Questa situazione ha facilmente potuto portare una bambina matura e sensibile a diventare protettrice di una madre debole, che ha un bisogno estremo di tenerezza e di riconoscimento narcisistico, come mi è sembrata la sig.ra Roda fino ad oggi. (&) Credo pertanto che, allo scopo di valutare meglio (&) la qualità dei rapporti affettivi attuali tra (madre e figlia), potrebbe rivelarsi molto utile programmare degli incontri tra le interessate (anche in mia presenza), organizzare una serie di incontri con esse, da sole o insieme".

Il 10 luglio 2000 i servizi sociali fecero pervenire al tribunale per i minorenni il loro rapporto sulla situazione psicologica di S.B. Secondo tale rapporto, la bambina si era dimostrata più spontanea e aperta solo poco prima dell'estate del 1999. Essa aveva iniziato a raccontare alla psicologa che la seguiva che suo padre l'aveva maltrattata, "che lo temeva molto, che egli le aveva davvero fatto male là dove il ginecologo l'aveva visitata (cosa che aveva in seguito ritrattato affermando di non ricordarsi di averlo detto)". S.B. non voleva rientrare a casa almeno finché "tutto non fosse sistemato", ma non spiegava mai per quale motivo poiché non voleva che "sua madre andasse in prigione". Dopo l'audizione del 22 febbraio 2000, S.B. aveva affermato di avere paura di ritornare a casa della madre. La bambina aveva raccontato di aver pianto di rabbia alla notizia della condanna del padre e delle altre persone a causa di ciò che aveva subito da parte loro; essa diceva di "odiare" tutti gli uomini poiché aveva imparato ad avere paura di suo padre. All'esito dell'incontro con la cugina M., S.B. aveva detto alla psicologa che temeva che M. non l'amasse più perché non riusciva a raccontare ciò che era successo loro quando vivevano a Massa Finalese, e che aveva molta paura.

Il 19 luglio 2000 il perito depositò la sua relazione. Egli riferiva di avere esaminato i documenti pertinenti, incontrato e discusso con gli assistenti sociali competenti, e incontrato varie volte M.B e la sig.ra Roda, assistita da un perito privato. Giudicando questo materiale sufficiente per portare a termine il suo lavoro, egli non aveva ritenuto necessario parlare con S.B., evitando in questo modo "una nuova e gratuita situazione traumatizzante". Le considerazioni fatte dai servizi sociali nel loro rapporto del 10 luglio 2000 l'avevano convinto dell'inutilità di organizzare degli incontri tra la madre e la figlia. Il perito concludeva che nessuno dei due genitori aveva. "le attitudini sufficienti e le competenze necessarie per esercitare adeguatamente le funzioni di genitore (&). Pur avendo due personalità diverse, essi dimostra(va)no entrambi di essere troppo presi dai loro bisogni per potere riconoscere e occuparsi validamente di quelli, estremamente dolorosi e delicati, della figlia".

Il tribunale per i minorenni accordò poi venti giorni al perito della prima ricorrente per presentare le sue osservazioni sulla relazione peritale del 19 luglio 2000.

Il 4 ottobre 2000 la sig.ra Roda depositò le osservazioni del suo perito e chiese di essere sentita dal tribunale o dal giudice delegato e di poter ottenere la custodia della figlia o la ripresa dei contatti con la fissazione di un calendario di incontri. Il perito criticava apertamente le conclusioni del perito d'ufficio e la sua decisione di non incontrare S.B., sostenendo, tra l'altro, che la situazione psicologica della bambina era il risultato della separazione.

In un rapporto del 16 ottobre 2000, i servizi sociali affermavano che la situazione di S.B. non aveva subito importanti cambiamenti: la bambina era ben integrata nella sua scuola e i suoi risultati scolastici erano soddisfacenti; essa si dimostrava più attiva di quanto fosse di solito. La madre aveva telefonato regolarmente (ogni due o tre settimane) per avere "notizie riguardanti le condizioni psichiche e fisiche della figlia e aveva portato dei vestiti, dei regali e degli articoli scolastici". A parte l'invio di piccoli regali attraverso la madre, "gli zii e la cugina paterni" non avevano mai contattato i servizi sociali per avere informazioni o per parlare di S.B.

Il 17 e il 18 ottobre 2000 il tribunale per i minorenni sentì i responsabili del centro a cui era stata affidata S.B.; secondo gli stessi, la bambina temeva sempre di "aprirsi", "ha(aveva) bisogno di carezze e di contatto fisico ma non riesce(iva) a dimostrare affetto".

Il 20 novembre 2000 il tribunale per i minorenni sentì la sig.ra Roda, che chiese di poter rivedere la figlia "con l'assistenza di persone idonee ad aiutarla" e affermò di non ricevere fotografie o lettere da parte sua. Essa dichiarò, tra l'altro, che se S.B. "avesse subito delle cose, glielo avrebbe detto, ma che non le era stato permesso di parlare alla figlia". Alla prima ricorrente fu accordato un termine di quindici giorni per il deposito di una memoria e di un attestato che dimostrasse che essa seguiva una psicoterapia. Nella sua memoria del 5 dicembre 2000, la prima ricorrente ribadì la propria convinzione che la situazione di chiusura quasi totale della figlia derivasse solo dall'allontanamento che perdurava da due anni.

Anche M.B era stato sentito dal tribunale per i minorenni il 27 novembre 2000. In una memoria dell'11 dicembre 2000, il suo avvocato suggeriva di affidare la custodia di S.B. alla madre o almeno al fratello.

Il 17 gennaio 2001 il secondo ricorrente chiese la ripresa dei contatti con la sorella e la possibilità di ottenerne la custodia.

Con sentenza in data 29 gennaio 2001 il tribunale per i minorenni decise che la custodia di S.B. avrebbe continuato ad essere affidata alla AUSL di Mirandola affinché tale ente "la ponga in un ambiente protetto, preferibilmente di tipo famigliare", "organizzi, dopo aver previamente preparato la madre e la figlia, la ripresa dei rapporti tra le stesse, che dovranno aver luogo, fintanto che ciò sia necessario, in un ambiente protetto e in presenza degli (assistenti sociali)".

Nella sua decisione il tribunale per i minorenni, alla luce degli elementi raccolti sia nel corso dell'inchiesta dallo stesso condotta che nell'ambito del procedimento penale contro il padre di S.B. e altre sedici persone, valutò "che si (poteva) considerare dimostrato che S.B. ha(aveva) effettivamente subito dei gravi abusi". "(&) la condanna del padre (sebbene la sentenza non (fosse) ancora definitiva), ma soprattutto le caratteristiche della personalità di quest'ultimo, evidenziate in particolare dal perito d'ufficio, nonché il vissuto di paura e di incomunicabilità nutrito nei confronti dello stesso da S.B., porta(va)no a ritenere che M.B. non sia(fosse) decisamente in grado di esercitare adeguatamente il ruolo di padre (&)". Ciò giustificò la decadenza dalla potestà dei genitori disposta nei confronti del padre e il mantenimento dell'interruzione dei rapporti tra quest'ultimo e la figlia. Per quanto riguarda il rapporto madre-figlia, il tribunale si pronunciò in questi termini: "Il vissuto di S.B. verso la madre è più complesso, così come la personalità di quest'ultima. Pur rilevando che l'azione penale non ha dimostrato che la sig.ra Roda fosse implicata negli abusi, S.B. ha tuttavia un vissuto molto ambivalente nei suoi confronti; essa ha dichiarato di voler tornare a vivere con lei, ma ha poi chiesto che ciò avvenga il più tardi possibile; ha manifestato dei sentimenti confusi e, come ha sottolineato il perito d'ufficio, in ogni caso non ha manifestato un affetto profondo (&). Se S.B. non si è mai confidata con la madre a proposito degli abusi, nemmeno dopo la separazione dei genitori (&), ciò è dovuto al fatto che non si è sentita protetta. L'allontanamento della bambina e l'interruzione dei rapporti con la madre risultano dunque giustificati poiché la madre non era e non poteva sembrare vicina all'esperienza della bambina e pronta a tutto per proteggerla. Queste considerazioni portano a ritenere che la madre non è ancora in grado di aiutare S.B. a elaborare le sue esperienze e le sue sofferenze. La situazione personale della bambina è troppo complessa e il percorso di analisi della madre sul suo ruolo di genitore è in fase troppo embrionale". Il tribunale per i minorenni non pronunciò la decadenza dalla potestà dei genitori nei confronti della prima ricorrente. La giurisdizione non fissò un limite temporale per l'affidamento di S.B. a causa della necessità di seguire "l'evoluzione della situazione complessa" della bambina.

Infine, il tribunale per i minorenni rigettò la domanda volta a ottenere la ripresa dei rapporti tra il secondo ricorrente e la sorella, "(poiché) Matteo ha sempre condiviso con i genitori l'atteggiamento di negazione di qualsiasi possibile sofferenza di S.B. diversa da quella legata al difficile rapporto tra i genitori. Del resto, egli vive con il padre, e pertanto una ripresa dei contatti della bambina con il fratello, anche (sotto la vigilanza dei servizi sociali), potrebbe essere per S.B. ambigua e generare confusione. D'altra parte, Matteo non si è più rivolto ai servizi sociali allo scopo di avere notizie della sorella. I servizi sociali potranno peraltro convocare Matteo e determinare se sussistono le condizioni che permettano di elaborare, se egli lo desidera, un programma di controllo destinato a fargli comprendere le esigenze e il difficile vissuto della sorella. Se egli è pronto a farlo, i servizi sociali potranno allora valutare, tenuto conto delle esigenze della minore, l'opportunità di organizzare tali incontri."

L'8 marzo 2001 la prima ricorrente impugnò la sentenza dinanzi alla corte d'appello di Bologna affermando, tra l'altro, che vi era stata violazione dell'articolo 8 della Convenzione a causa dell'allontanamento dalla figlia e che ogni bambino ha il diritto di essere educato nell'ambito della sua famiglia (articolo 1 della legge n. 184/1983 sull'adozione e l'affidamento dei minori).

Il 6 giugno 2001 i servizi sociali depositarono una relazione di controllo della situazione di S.B. Da tale relazione risultava in particolare che il secondo ricorrente aveva chiesto informazioni dopo l'ultima decisione del tribunale per i minorenni e che la madre telefonava ogni quindici giorni e aveva consegnato regali e lettere per la figlia. I servizi sociali segnalavano anche "la loro impotenza a sostenere psicologicamente la minore poiché quest'ultima aveva un rifiuto totale per il mondo esterno."

Il 7 giugno 2001 la corte d'appello rigettò la domanda della prima ricorrente, ritenendo corretta l'analisi della situazione fatta e le conclusioni che il tribunale per i minorenni ne aveva tratto. Tuttavia, tenuto conto della gravità della situazione della bambina, la corte ritenne che fosse necessario "cercare, prima che sia troppo tardi, di percorrere anche la via del riavvicinamento tra madre e figlia (&) non è(era) più possibile lasciare crescere la bambina in uno stato disperato di abbandono e di isolamento. È(era) necessario che i servizi sociali si attivino immediatamente per eseguire in maniera equilibrata le decisioni del tribunale per i minorenni".

Il 18 settembre 2001 la prima ricorrente informò il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni che i servizi sociali non avevano ancora proceduto all'organizzazione degli incontri con la figlia.

Il 5 novembre 2001 i servizi sociali, ritenendo necessario incontrare la prima ricorrente e la sua psicologa prima di eseguire le decisioni giudiziarie pertinenti, ebbero un colloquio con la psicologa della sig.ra Roda.

In una relazione di controllo del 10 gennaio 2002, i servizi sociali affermarono che la situazione di S.B. non aveva subito alcun cambiamento. Essa era stata informata che l'11 luglio 2001 la corte d'appello di Bologna aveva assolto il padre ma condannato le altre persone, riconoscendo che aveva subito violenze sessuali. S.B. aveva allora dichiarato di voler essere data in affidamento a una famiglia di accoglienza. Allo scopo di preparare gli incontri, i servizi sociali avevano ricevuto la prima ricorrente e la sua psicologa. I padre e il fratello di S.B. non avevano più ricontattato i servizi.

L'11 febbraio 2002 la sig.ra Roda chiese al procuratore di autorizzare la videoregistrazione del futuro incontro con la figlia e la presenza del perito che la assisteva dall'inizio della causa. Informati della domanda il 18 febbraio, i servizi sociali si dichiararono perplessi e affermarono che S.B. aveva espresso il proprio rifiuto per quanto riguarda la registrazione e la presenza di altre persone durante l'incontro. Il 9 marzo 2002 il procuratore autorizzò la registrazione ma considerò inopportuna la presenza del perito della sig.ra Roda.

Il 12 marzo 2002, il giorno prima dell'incontro, i servizi sociali informarono la prima ricorrente che sarebbe stato impossibile procedere alla registrazione. Il 13 marzo, la sig.ra Roda comunicò la notizia al procuratore indicando che si rifiutava di partecipare, e poi il 18 e il 22 marzo 2002, essa gli fece pervenire i dati di alcuni centri presso i quali l'incontro poteva essere registrato.

Il 27 marzo 2002 il giudice tutelare, accogliendo la domanda presentata il giorno precedente dalla prima ricorrente, ordinò ai servizi sociali di procedere all'incontro e di registrarlo; egli autorizzò la prima ricorrente a ottenere una copia della registrazione.

Il primo incontro ebbe luogo il 28 marzo 2002, e fu seguito da altri incontri il 28 maggio, il 10 luglio, il 23 settembre e il 18 novembre 2002, e il 14 gennaio, il 29 aprile, il 17 giugno, il 26 luglio, il 7 ottobre e il 25 novembre 2003.

Il 23 aprile 2002, accogliendo la domanda della prima ricorrente, il giudice tutelare ordinò alla AUSL di depositare rapidamente la videocassetta dell'incontro del 28 marzo. Nel luglio 2002, lo stesso giudice fissò un termine di tre giorni per il deposito delle registrazioni degli incontri. Il 31 luglio la sig.ra Roda si rivolse a detto giudice allo scopo di ottenere la fissazione degli incontri in date più ravvicinate, la consegna di un telefono cellulare alla figlia, il mantenimento degli incontri a Modena, nonché la possibilità di restare sola con la figlia per una buona parte degli incontri.

L'11 settembre 2002 il giudice tutelare prese atto che la AUSL avrebbe mantenuto gli incontri a Modena e autorizzava la corrispondenza tra madre e figlia, e rigettò per il resto le domande della sig.ra Roda.

L'11 dicembre 2002 la AUSL comunicò a quest'ultima il calendario degli incontri con scadenze bimestrali, poi il 17 dicembre 2002 informò l'avvocato della sig.ra Roda che S.B. era stata data in affidamento ad una famiglia da circa una settimana.

Il 18 dicembre 2002 la AUSL depositò una relazione di controllo relativa agli incontri registrati e un'altra sull'aiuto psicologico fornito a S.B. e alla madre. Secondo il primo documento, "La scena che ci troviamo di fronte è quella di una ragazza chiusa nella sua verità, verità che risulta da espressioni fisiche e non da parole, una ragazza che sembra subire silenziosamente gli incontri con la madre, il che rappresenta un (comportamento) duro ma forse protettivo nei confronti di una madre ancorata nella sua idea di una grande ingiustizia commessa verso sua figlia e verso la sua famiglia". I servizi sociali ritenevano che l'utilizzo del cellulare non fosse di natura tale da agevolare la comunicazione, tenuto conto delle difficoltà relazionali osservate, e raccomandavano il proseguimento degli incontri "protetti" e il supporto psicologico di preparazione agli incontri.

Il rapporto sull'assistenza psicologica indicava che S.B. "ha(aveva) sempre espresso disappunto e disinteresse verso la madre, (che) si è(era) lamentata che la madre le pone(va) con insistenza molte domande, e (che) essa l'ha(aveva) a volte criticata per il suo comportamento in questi momenti". Da detto rapporto risulta anche che S.B. seguiva dei corsi di equitazione e che aiutava la sua istruttrice nell'ambito di sedute di ippoterapia destinate a bambini handicappati. Quanto alla sig.ra Roda, la psicologa incaricata di seguirla, che non faceva parte dei servizi sociali, osservava che l'interessata aveva mantenuto un atteggiamento difensivo praticamente nel corso di tutti e cinque gli incontri (dal 7 gennaio al 2 febbraio 2001), "un atteggiamento caratterizzato dalla convinzione formale che la figlia non ha subito abusi, pur evidenziando la contraddizione tra le perizie d'ufficio e quelle del suo perito, sottolineando in tal modo l'esistenza di un'altra verità. (La sig.ra Roda) ha affermato nuovamente che la causa principale del malessere di S.B. è l'impossibilità per lei di sostenerla, poiché è convinta che con lei la figlia avrebbe senza dubbio parlato di ciò che era successo (&)". Il 19 dicembre 2002 il giudice tutelare autorizzò S.B. a utilizzare il cellulare per chiamare la madre in presenza di un assistente sociale, subordinò al consenso di S.B. (da esprimere davanti alla madre) la registrazione dei futuri incontri e invitò la AUSL a tenere costantemente informata la sig.ra Roda sull'affidamento in famiglia di S.B., e a rispettare le date degli incontri senza rinviarle. Secondo le informazioni fornite dalla ricorrente, i servizi sociali hanno continuato a rinviare gli incontri già previsti e, in particolare, quello fissato per il 10 giugno 2003 si tenne solo il 17 giugno, e quello previsto per il 25 novembre 2003 fu annullato lo stesso giorno in mancanza delle chiavi che permettono di accedere al locale di videoregistrazione.

Il procedimento penale contro il padre di S.B. e altri 16 imputati. Con sentenza in data 5 giugno 2000 M.B. e la sorella e il cognato della prima ricorrente furono condannati dal tribunale di Modena, insieme ad altre persone, per abusi sessuali su minori. Nella sentenza dell'11 luglio 2001, depositata in cancelleria l'8 ottobre 2001, la corte d'appello di Bologna affermò l'attendibilità generale delle dichiarazioni fatte da tutti i bambini relativamente agli abusi subiti in ambiente domestico. Essa ritenne che le deposizioni dei minori, che confermavano le dichiarazioni di M., dovevano essere considerate attendibili e indipendenti da qualsiasi pressione o influenza da parte dei servizi sociali, dei magistrati coinvolti nella causa o delle famiglie d'accoglienza. Sulla base di tali considerazioni e delle prove raccolte, la corte d'appello confermò in particolare la condanna dei genitori di M., la madre della quale è la sorella della prima ricorrente, rispetto agli abusi commessi nel loro domicilio su M., suo fratello e altri quattro bambini. La corte d'appello assolse le stesse persone per quanto riguarda gli abusi presumibilmente commessi in un cimitero in quanto i fatti non erano dimostrati. Su questo punto la corte d'appello affermò che le dichiarazioni riguardanti i riti satanici traevano origine dalle deposizioni alterate di D.G., uno dei bambini implicati, che aveva evocato una tale situazione nel 1997 in seguito ad una ricostruzione artificiale delle esperienze di abusi realmente subiti. Tali dichiarazioni erano state poi riprese, grazie anche al contesto provinciale e alla mediatizzazione della causa, generando così negli altri bambini suggestioni e falsi ricordi collettivi e portandoli ad amplificare le violenze effettivamente subite. La corte d'appello non condivise dunque le conclusioni dei periti relativamente alla credibilità dei bambini al riguardo. Anche M.B. fu assolto in quanto le dichiarazioni di M. che lo riguardavano non avevano trovato alcun riscontro valido.

Il 19 novembre 2001 la procura di Bologna presentò ricorso per cassazione. Con sentenza in data 26 novembre 2002 la Corte di cassazione confermò la sentenza della corte d'appello di Bologna per tutti gli imputati ad eccezione di uno solo di essi.

Il procedimento relativo alla reintegrazione della potestà dei genitori avviato dal padre di S.B. In data non precisata M.B. chiese al tribunale per i minorenni la revoca della decisione del 29 gennaio 2001 con cui gli era stata tolta la potestà dei genitori su S.B. Con decisione provvisoria in data 13 marzo 2002 il tribunale per i minorenni ordinò che fosse compiuta una perizia allo scopo di stabilire se il richiedente fosse in grado di iniziare un percorso di comprensione e di riflessione sul vissuto e sui bisogni della figlia. Il tribunale osservava che la corte d'appello penale non aveva ritenuto sufficientemente dimostrato che gli abusi erano stati commessi anche dal padre di S.B., che la decisione del 29 giugno 2001 non si basava sulla responsabilità penale di M.B. ma sul pesante vissuto della bambina nei suoi confronti, sulla personalità di M.B. e sul suo comportamento di fronte alla sofferenza della figlia.

Il 12 giugno 2002 il tribunale rigettò la domanda di ricusazione del perito presentata da M.B. La prima ricorrente depositò una memoria chiedendo l'affidamento di S.B., e l'organizzazione di incontri con lei e con il secondo ricorrente.

Nella sua decisione del 7 luglio 2004, il tribunale per i minorenni osservò che dalla relazione peritale, depositata il 21 gennaio 2003, risultava chiaramente che M.B. "non era ancora capace di comprendere le esperienze profonde della figlia, né quelle (della sua vita attuale) di adolescente, né quelle del suo difficile passato di bambina oggetto di abusi sessuali". Stando così le cose, la reintegrazione della potestà dei genitori e l'organizzazione di incontri erano impossibili. Le domande di M.B. avrebbero potuto essere prese nuovamente in considerazione se l'interessato avesse dimostrato di essere riuscito a iniziare il percorso psicoterapeutico e psicopedagogico indicato dal perito. Quanto alle richieste della prima ricorrente, tenuto conto dei risultati incoraggianti dell'affidamento di S.B. in una famiglia di accoglienza, il tribunale decise di confermarlo per un periodo non inferiore a due anni, poiché S.B. non era ancora "in grado di affrontare un ritorno in famiglia, presso la madre, in quanto i sentimenti relativi al suo passato erano ancora troppo carichi di dolore inesprimibile". Considerati gli innegabili progressi compiuti dalla prima ricorrente nel suo lavoro di riavvicinamento alla figlia, il tribunale optò per il proseguimento degli incontri con cadenza mensile e invitò i servizi sociali a prevedere anche degli incontri in occasione di alcune festività (compleanni, Natale, ecc.) e a valutare la possibilità di organizzare degli incontri con il secondo ricorrente. La prima ricorrente interpose appello il 2 settembre 2004.

In data non precisata, ritenendo che l'interesse di S.B. fosse in conflitto con la domanda della madre, la AUSL chiese al giudice tutelare di nominare un curatore speciale ai fini del procedimento di appello.

Il 4 novembre 2004 il giudice adito rigettò la domanda a causa della sua incompetenza ratione materiae, come la sig.ra Roda aveva rilevato nella sua memoria.

Il 9 novembre 2004 il tribunale di Modena nominò, su richiesta della AUSL, un curatore speciale a S.B. nella persona del direttore della AUSL. Il 22 novembre 2004 la prima ricorrente si oppose alla nomina.

Il 26 novembre 2004 la corte d'appello confermò la decisione del 7 luglio 2004 per quanto riguarda la presa in carico di S.B. da parte della AUSL e invitò i servizi sociali di Mirandola a realizzare per un periodo di prova il ritorno di S.B. presso la madre solo di giorno. Lo stesso giorno, la AUSL informò la prima ricorrente che l'incontro con S.B. già fissato per il 21 dicembre 2004 era stato anticipato al giorno prima a causa dell'indisponibilità del locale attrezzato per la videoregistrazione.

Il 16 e il 18 dicembre la prima ricorrente chiese ai servizi sociali di applicare la decisione della corte d'appello, e successivamente, il 22 dicembre, essa si rivolse al giudice tutelare chiedendo in particolare che la figlia fosse accompagnata dai servizi sociali per passare a casa sua il giorno di Natale o un altro giorno prima del 31 dicembre 2004.

Il giudice fissò per il 30 dicembre 2004 l'udienza di comparizione di S.B. e della madre e ordinò ai servizi sociali di fissare un incontro tra le due al fine di discutere e di valutare insieme il programma di ritorno.

Il 28 dicembre 2004 la prima ricorrente chiese al giudice tutelare di fare in modo che gli incontri non fossero così vicini tra loro e che l'incontro previsto per il giorno dopo si svolgesse senza S.B., poiché desiderava conoscere "le vere intenzioni della AUSL circa il ritorno a casa della figlia". Il giudice rigettò la domanda lo stesso giorno.

S.B. non partecipò all'udienza del 30 dicembre 2004 e il giudice fissò per il 16 febbraio 2005 la nuova data dell'audizione della minore.

Nella sua decisione del 28 febbraio 2005 il giudice tutelare approvò il calendario degli incontri proposto dalla AUSL fino al 30 settembre 2005, affermò nuovamente che tali incontri erano destinati a valutare la possibilità del ritorno di S.B. a casa della madre solo di giorno e fissò per il 15 maggio 2005 la data del deposito della relazione di controllo da parte dei servizi sociali.

In precedenza, il 26 gennaio 2005, i servizi sociali avevano segnalato alla procura presso il giudice tutelare le difficoltà incontrate nell'applicazione della decisione della corte d'appello.

Il 18 febbraio 2005 la procura presso il tribunale per i minorenni chiese al tribunale di "sospendere l'esecuzione della decisione della corte d'appello di Bologna del 26 novembre 2004 in attesa di un cambiamento di atteggiamento della minore". S.B. aveva infatti dichiarato di non volere ritornare a casa della madre, e che preferiva continuare a incontrarla una volta ogni due o tre mesi.

Il 14 marzo 2005 il tribunale per i minorenni accolse la domanda della procura, incaricò i servizi sociali di proseguire gli incontri mensili in luogo "protetto" per tre mesi e convocò la sig.ra Roda all'udienza del 27 maggio 2005.

Secondo le informazioni fornite dalle parti nel maggio e nell'agosto 2006, il secondo ricorrente ha incontrato i servizi sociali più volte. Il 13 marzo 2006 egli ha anche chiesto al tribunale per i minorenni l'affidamento della sorella, l'organizzazione di incontri con quest'ultima, da solo o con la madre, nonché l'autorizzazione a telefonare alla sorella. Il 15 maggio 2006 il tribunale per i minorenni rigettò tali domande e incaricò i servizi sociali di valutare se la ripresa dei contatti di S.B. con il secondo ricorrente fosse nell'interesse della minore.

La sig.ra Roda continua a vedere la figlia in presenza di assistenti sociali. Essa ha presentato almeno tre domande volte a ottenere il deposito della videoregistrazione degli incontri.

Il diritto interno pertinente. Ai sensi dell'articolo 330 CC: "Il giudice può pronunciare la decadenza dalla potestà quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio. In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l'allontanamento del figlio dalla residenza famigliare." La legge n. 149 del 28 marzo 2001 ha modificato alcune disposizioni del libro I, titolo VIII, del codice civile e della legge n. 184/1983.

L'articolo 333 del codice civile, come modificato dall'articolo 37 c. 2 della legge n. 149/2001, dispone quanto segue: "Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall'articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l'allontanamento di lui dalla residenza famigliare ovvero l'allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore. Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento".

L'articolo 336 CC, come modificato dall'articolo 37 c. 3 della stessa legge, prevede che: "I provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su ricorso dell'altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato. Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il pubblico ministero. Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questi deve essere sentito. In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d'ufficio, provvedimenti temporanei nell'interesse del figlio. Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore, anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla legge."

Ai sensi dell'articolo 4 c. 4 della legge n. 149/2001, nei provvedimenti di affidamento famigliare deve essere indicato il periodo di presumibile durata dell'affidamento, che non può superare i due anni. Il tribunale per i minorenni può tuttavia decidere di prorogare il periodo se la sospensione dell'affidamento reca pregiudizio al minore. I provvedimenti adottati dai tribunali per i minorenni, ai sensi degli articoli 330 e 333 CC, rientrano nella volontaria giurisdizione. Essi non hanno un carattere definitivo e possono pertanto essere revocati in ogni momento. Inoltre, contro tali provvedimenti non è possibile interporre appello, ma le parti in causa possono presentare un reclamo dinanzi alla corte d'appello.

IN DIRITTO.

I - SULL'ECCEZIONE PRELIMINARE DEL GOVERNO. Il Governo sostiene che, nelle cause concernenti l'allontanamento di un minore dalla sua famiglia d'origine, i genitori di quest'ultimo non possono presentare un ricorso in suo nome, poiché gli interessi degli uni e degli altri sono in questi casi distinti, se non addirittura contraddittori. Se tutte le persone interessate hanno lo stesso diritto al rispetto della loro vita privata e famigliare, tale diritto si concretizzerebbe per i genitori nell'interesse a riprendere con sé il minore, mentre per quest'ultimo l'interesse potrebbe benissimo consistere nel mantenimento della situazione di allontanamento dalla sua famiglia. In un simile contesto, non si può accettare l'idea che una sola di queste due posizioni venga portata all'attenzione di un organo giudiziario e che venga impedito all'altra posizione di esprimersi. S.B. ha ultimamente formulato in maniera molto chiara il suo parere sul modo in cui essa concepisce i propri rapporti con la madre e con il fratello. Orbene, sarebbe inaccettabile che la Corte prenda una decisione che, direttamente o indirettamente, possa ledere i diritti di S.B., senza avere sentito la sua opinione. Il Governo ritiene che sarebbe ragionevole invitare la famiglia di accoglienza di S.B. a intervenire, o che la Corte dovrebbe nominare una persona incaricata di rappresentare S.B. dinanzi ad essa. In conclusione, il ricorso presentato in nome di S.B. dalla madre e dal fratello, che difendono il loro interesse e non quello della ragazza, sarebbe , per questa parte, inammissibile. Quanto al secondo ricorrente, il Governo sostiene che egli non si è mai costituito parte nel procedimento dinanzi al tribunale per i minorenni di Bologna. L'affermazione contenuta nel riepilogo dei fatti del ricorso (paragrafo 34 supra) secondo la quale tale tribunale, nella sua decisione del 29 gennaio 2001, ha rigettato "in queste circostanze la domanda del secondo ricorrente volta ad ottenere la ripresa dei rapporti di quest'ultimo con la sorella", non sarebbe esatta. Tale domanda in realtà fu presentata dal padre di S.B., che non aveva tuttavia alcun locus standi per presentare domande in nome del figlio. Il secondo ricorrente, da parte sua, non presentò alcuna domanda sul merito della causa e si limitò a sollecitare il deposito della decisione. Di conseguenza vi sarebbe, nella fattispecie, un mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Facendo riferimento alla sentenza Nielsen c. Danimarca del 28 novembre 1988, serie A n. 144, i primi due ricorrenti affermano che la loro qualità di madre e fratello biologici conferiscono loro il diritto di presentare il ricorso in nome di S.B. allo scopo di proteggerla. Il secondo ricorrente contesta poi l'eccezione di mancato esaurimento sollevata nei suoi confronti facendo notare che egli si è ben costituito parte al procedimento il 24 gennaio 2001, e che ha chiesto di riprendere i contatti con la sorella. Nella decisione di rigetto, il tribunale non rilevò del resto alcun motivo di inammissibilità legato allo scadere dei termini o alla capacità processuale. Infine, nonostante la sua disponibilità, i servizi sociali non lo avrebbero mai convocato per "l'inizio degli incontri". La Corte ricorda che, in linea di principio, una persona che non ha, a livello interno, il diritto di rappresentare un'altra persona può comunque, in alcune circostanze, agire dinanzi alla Corte in nome di quest'altra persona (v., mutatis mutandis, le sentenze Nielsen c. Danimarca, già cit., pp. 21-22, §§ 56-57, e Scozzari e Giunta c. Italia (GC), n. 39221/98 e n. 41963/98, § 138, CEDU 2000-VIII). Dei minori possono adire la Corte anche, e a maggior ragione, se sono rappresentati da una madre e da un fratello in conflitto con le autorità, di cui essi criticano le decisioni e la condotta alla luce dei diritti sanciti dalla Convenzione. Secondo la Corte in caso di conflitto, riguardante gli interessi di un minore, tra il genitore biologico e la persona investita dalle autorità della tutela dei minori, vi è il rischio che alcuni interessi del minore non vengano mai portati all'attenzione della Corte e che il minore venga privato di una tutela effettiva dei diritti che gli derivano dalla Convenzione. Di conseguenza, le qualità di madre e fratello biologici di S.B. sono sufficienti per conferire agli stessi il potere di agire dinanzi alla Corte allo scopo di tutelare gli interessi di S.B. La Corte osserva inoltre che nei confronti della sig.ra Roda non è mai stata pronunciata la decadenza dalla potestà dei genitori. Per quanto riguarda la seconda parte dell'eccezione del Governo, la Corte rileva che il fascicolo del ricorso contiene l'atto di costituzione in giudizio del secondo ricorrente, datato 7 gennaio 2001 e depositato presso la cancelleria del tribunale per i minorenni di Bologna il 24 gennaio 2001. Tale documento reca sulla prima pagina il mandato firmato dal ricorrente in favore dello stesso rappresentante legale del padre. Inoltre, anche se, nella sua decisione del 29 gennaio 2001 (paragrafo 34 supra), il tribunale per i minorenni diede ai servizi sociali la possibilità di convocare il secondo ricorrente e di decidere, all'occorrenza, di elaborare con lui un programma di controllo destinato a fargli "capire le esigenze e il difficile vissuto della sorella" e che poteva portare all'organizzazione di incontri con S.B., i servizi sociali non diedero alcun seguito a ciò fino al 2006. Nella stessa decisione, il tribunale per i minorenni aveva inoltre motivato il rigetto della domanda del secondo ricorrente sottolineando, da una parte, che quest'ultimo aveva sempre condiviso con i genitori l'atteggiamento di negazione di ogni possibile sofferenza di S.B. diversa da quella legata al rapporto difficile tra i genitori e, dall'altra, che egli viveva con il padre, "e pertanto una ripresa dei contatti della bambina con il fratello (&) potrebbe essere per S.B. ambigua e generare confusione." In considerazione di quanto sopra esposto, l'eccezione del Governo non può essere accolta.

II - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 6 § 1 E 13 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. I ricorrenti si lamentano per l'impossibilità di avere accesso al fascicolo della procedura di presa in carico di S.B., e per l'assenza nel diritto interno di un ricorso effettivo per ottenere una decisione definitiva fino al gennaio 2001. La Corte ricorda che, ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione, essa può essere adita solo dopo che siano state esaurite le vie di ricorso interne e entro un termine di sei mesi dalla data della decisione interna definitiva. Quando la violazione presunta consiste in una situazione continua, il termine di sei mesi inizia a decorrere solo dal momento in cui questa situazione continua viene a cessare (v., mutatis mutandis, Hornsby c. Grecia, sentenza del 19 marzo 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-II, p. 508, § 35 e Marinakos c. Grecia, (dec.) n. 49282/99, 29 marzo 2000). Nella fattispecie, i ricorrenti hanno presentato questi due motivi di ricorso nel modulo ufficiale di ricorso pervenuto in cancelleria il 22 gennaio 2003, mentre la situazione di cui essi si lamentano si era conclusa, da una parte, con la revoca, in data 31 marzo 1999, della misura che dichiarava gli atti del fascicolo coperti dal segreto e, dall'altra, con la decisione del tribunale per i minorenni di Bologna del 29 gennaio 2001, che confermava in particolare l'affidamento di S.B. e ordinava la ripresa dei contatti tra la bambina e la madre (paragrafi 12 e 32 supra). Di conseguenza questa parte del ricorso è tardiva ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione, e deve dunque essere rigettata conformemente all'articolo 35 § 4 della Convenzione.

III - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 4 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. I ricorrenti affermano che S.B. segue un programma di ippoterapia in un centro equestre, e che la stessa è anche obbligata a lavorare tutti i pomeriggi, assistendo la sua istruttrice nell'ambito di un altro programma di ippoterapia destinato a persone handicappate. Si tratterebbe di una attività il cui scopo reale e celato sarebbe quello di ottenere manodopera gratuita. Essi sostengono che da ciò deriva una violazione dell'articolo 4 della Convenzione, da solo o combinato con l'articolo 3. La Corte ritiene necessario esaminare questo motivo di ricorso solo sotto il profilo della prima disposizione. Essa deve determinare se la situazione denunciata dai ricorrenti rientra nell'articolo 4 e, in particolare, se essa può essere definita lavoro "forzato o obbligatorio". Ciò evoca l'idea di una costrizione, fisica o morale. Si deve trattare di un lavoro "richiesto (&) sotto la minaccia di una pena qualsiasi" e, inoltre, contrario alla volontà dell'interessato, per il quale quest'ultimo "non si è offerto spontaneamente" (v. la sentenza Siliadin c. Francia, n. 73316/01, § 117, CEDU 2005-&). La Corte osserva che, nella fattispecie, nulla permette di affermare che siano state esercitate costrizioni fisiche o morali su S.B., né che l'aiuto prestato all'istruttrice possa passare per un lavoro imposto contro la volontà dell'interessata. Di conseguenza, questo motivo è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

IV - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 10 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. Nelle loro prime lettere alla Corte del 21 e 23 gennaio 2002, i ricorrenti sostenevano che vi era stata violazione dell'articolo 10 della Convenzione in quanto le autorità pubbliche non avrebbero preso in considerazione la volontà, espressa da S.B. durante la sua audizione da parte del giudice penale, di tornare a casa con la madre. Pertanto, sarebbe stata violata la libertà di espressione di S.B. I ricorrenti non hanno ripreso questo motivo di ricorso nel modulo di ricorso pervenuto alla cancelleria via fax il 15 gennaio 2003, e poi per posta il 22 gennaio 2003. Questa circostanza dispensa la Corte dall'esaminare questo motivo di ricorso.

V - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 3 E 8 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. Nelle loro lettere del 21 e 23 gennaio 2002, i ricorrenti si lamentavano anche per una violazione degli articoli 3 e 8 della Convenzione a causa dell'allontanamento di S.B. dalla famiglia e dell'assenza di contatti con la bambina per quasi quattro anni, e ciò senza "alcuna necessità giuridicamente fondata". Il 22 gennaio 2003 i ricorrenti hanno sollevato nuovi motivi di ricorso. Invocando l'articolo 3 della Convenzione, essi si lamentavano che la presa in carico e il mantenimento dell'affidamento ai servizi sociali senza alcuna previsione sul ritorno in famiglia esponevano la vita di S.B. a un grave pericolo. Sulla base della stessa disposizione, il secondo ricorrente si lamentava per il fatto che le azioni da lui intraprese al fine di avere contatti con la sorella non erano state minimamente prese in considerazione. Secondo i ricorrenti, i servizi sociali non agirebbero in favore del ritorno di S.B. presso la sua famiglia. La Corte ritiene che sia opportuno esaminare questi motivi unicamente sotto il profilo dell'articolo 8 della Convenzione. Essa constata che questa parte del ricorso non è manifestamente infondata ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione e non si scontra con nessun'altra causa di inammissibilità. È pertanto opportuno dichiararla ammissibile.

Sul merito. Ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione, "1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita (&) familiare (&). 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria (&) alla protezione dei diritti e delle libertà altrui."

Sull'esistenza dell'ingerenza. Secondo il Governo, vi è stata certamente ingerenza delle autorità nella vita famigliare della sig.ra Roda e di S.B. Invece, vista la situazione concreta della famiglia, non vi è stata ingerenza nella vita privata e famigliare del secondo ricorrente, che non abitava più con la sorella. La Corte ricorda che la nozione di vita famigliare "comprende per lo meno i rapporti tra parenti, che possono svolgere un ruolo importante nell'ambito della stessa", ad esempio tra nonni e nipoti (Marckx c. Belgio, sentenza del 13 giugno 1974, serie A n. 31, § 45, e Bronda c. Italia, n. 22430/93, sentenza del 9 giugno 1998, Raccolta 1998-IV, § 51). In una causa riguardante il rifiuto di accordare l'accesso del ricorrente al nipote mentre questo era in affidamento presso una famiglia di accoglienza, la Commissione europea dei Diritti dell'Uomo si era posta il problema di stabilire se questo tipo di rapporti potessero essere inclusi nella nozione di "vita famigliare" ai sensi dell'articolo 8 (Boyle c. Regno Unito, n. 16580/90, rapporto della Commissione del 9 febbraio 1993). La Commissione sottolineò anzitutto che la convivenza non era una condizione sine qua non del mantenimento dei legami famigliari e, considerati i frequenti contatti tra il ricorrente e il nipote, nonché il fatto che il minore aveva passato molte volte il fine settimana presso lo zio, essa concluse che il legame fondamentale esistente tra i due rientrava nel campo di applicazione della nozione di "vita famigliare".

Nella fattispecie, la Corte osserva che dal fascicolo risulta che il secondo ricorrente ha vissuto in famiglia con la sorella fino alla separazione dei suoi genitori, quando egli ha deciso di seguire il padre. È vero che, almeno a partire dalla presa in carico di S.B., non vi è stato alcun contatto tra i due, ma questa circostanza non deriva solo dal suo comportamento; gli indugi dei servizi sociali vi hanno notevolmente contribuito. Pertanto, la Corte ritiene che il legame tra il secondo ricorrente e la sorella rientri nella nozione di vita famigliare e che vi sia stata ingerenza nella vita famigliare del primo. La Corte ricorda che qualsiasi ingerenza nella vita famigliare comporta una violazione dell'articolo 8 della Convenzione, a meno che essa non sia "prevista dalla legge", non persegua uno o più degli scopi legittimi di cui al paragrafo 2 di tale articolo, e non possa risultare "necessaria in una società democratica".

Sulla giustificazione dell'ingerenza. Secondo il Governo, l'ingerenza in questione era manifestamente prevista dalla legge. Il tribunale per i minorenni ha scrupolosamente rispettato le disposizioni di legge vigenti adottando misure provvisorie urgenti per la tutela della minore, conformemente all'articolo 336 c. 3 del codice civile. Poi il tribunale ha operato per chiarire i diversi aspetti della situazione, estremamente delicata e complessa, limitando per quanto possibile la portata dell'ingerenza. Per fare questo, ha riservato un trattamento diverso a ciascuno dei genitori di S.B. "in funzione delle differenze non solo nel grado di responsabilità per quanto riguarda gli abusi, ma anche e soprattutto in funzione di una valutazione attenta e differenziata delle rispettive attitudini all'esercizio dei doveri dei genitori e delle possibilità che offrivano l'uno e l'altro (&) di poter assolvere un giorno positivamente tali compiti."

I ricorrenti non contestano il fatto che l'intervento delle autorità nazionali fosse conforme al diritto nazionale. La Corte osserva che l'ingerenza in questione era prevista dalla legge e perseguiva uno scopo legittimo, ossia la tutela dell'interesse del minore ("la tutela dei diritti e delle libertà altrui"). Resta da stabilire se tale ingerenza potesse essere considerata una misura "necessaria in una società democratica". Secondo il Governo, la necessità di adottare delle misure urgenti per la tutela di S.B. e lo scopo legittimo perseguito da tali misure sono fuori discussione. I fatti eccezionalmente gravi emersi dall'inchiesta penale basterebbero a spiegare la presa in carico della minore. Il Governo sottolinea che il compito del tribunale per i minorenni non consiste nell'infliggere a dei genitori una sanzione rispetto a dei comportamenti riprovevoli, ma nell'"intervenire nelle situazioni famigliari patologiche allo scopo, da una parte, di assicurare per quanto possibile il benessere fisico e psicologico dei minori, il loro sviluppo armonioso e sereno, la loro educazione corretta, e dall'altra di aiutare gli adulti della famiglia, nella misura in cui questi ultimi sono disposti a collaborare (&), a risolvere i loro problemi (allo scopo di) permettere loro di esercitare i loro diritti di genitori in maniera positiva (&)". Anche un genitore condannato per abusi o che ha mantenuto un comportamento semplicemente negligente potrebbe dimostrare di avere una capacità di riflessione così grande e delle risorse morali e psicologiche tali da poter recuperare un ruolo di genitore positivo. Al contrario, un genitore riconosciuto innocente all'esito di un procedimento penale non è necessariamente idoneo a occuparsi dei figli e potrebbe dimostrarsi a tal punto restio a qualsiasi sostegno psicologico e pedagogico che le speranze di recupero del ruolo di genitore potrebbero essere vane o richiederebbero un lavoro paziente dall'esito incerto. Le autorità nazionali intervengono su due fronti per tutelare l'interesse del bambino. Da una parte, esse affidano quest'ultimo a un ambiente idoneo a proseguire la sua educazione e a offrirgli la protezione e le cure materiali, psicologiche e affettive di cui ha bisogno, per il tempo necessario per permettergli di elaborare positivamente il suo vissuto di sofferenza. D'altra parte, esse svolgono un lavoro di preparazione sia nei confronti del minore che degli adulti della sua famiglia, per ristabilire le relazioni che risultano ancora potenzialmente positive. Difficile e delicato, questo lavoro sarebbe difficilmente realizzabile in maniera precipitosa, tale da comprometterne il risultato finale. Il Governo fa notare che, nella fattispecie, tenuto conto degli elementi in suo possesso - ossia il risultato dell'istruzione penale, la perizia d'ufficio e l'osservazione quotidiana della personalità di S.B. da parte dei servizi sociali -, il tribunale per i minorenni ha ritenuto che la ragazza avesse bisogno di un periodo di allontanamento dalla madre e dal resto della sua famiglia, durante il quale doveva essere affidata ad una famiglia di accoglienza. Inoltre, vengono tenuti degli incontri regolarmente, in ambiente protetto, per permettere alla figlia di ricostruire una relazione positiva con la madre, considerata dal tribunale come "potenzialmente capace di recuperare il proprio ruolo grazie ad un lavoro psicopedagogico appropriato". Inoltre, gli incontri non protetti al domicilio della prima ricorrente, previsti dalla corte d'appello ma impraticabili per il momento, in particolare a causa del rifiuto di S.B., non sarebbero per questo esclusi. Quanto al secondo ricorrente, sarebbe inevitabile, secondo il Governo, che in occasione di incontri con la sorella egli possa, anche involontariamente, trasmettere messaggi ispirati dal padre, il che produrrebbe immancabilmente un effetto destabilizzante per S.B. Per questo motivo il tribunale ha interrotto i contatti tra il secondo ricorrente e la sorella, pur non escludendone in alcun modo la ripresa in futuro. Infine, le autorità giudiziarie avrebbero condotto i vari procedimenti in maniera rapida ed efficace, avendo cura di sentire anche l'opinione di S.B. Inoltre, i servizi sociali avrebbero svolto e continuerebbero a svolgere un lavoro notevole assicurando un controllo costante dell'evoluzione della situazione. In definitiva, le decisioni adottate dalle autorità italiane rientrerebbero nell'ambito del secondo paragrafo dell'articolo 8 e sarebbero conformi ai principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte in materia. I ricorrenti contestano gli argomenti del Governo. L'assenza di contatti tra essi e S.B. per un lungo periodo e lo svolgimento degli incontri tra i due ricorrenti non avrebbero prodotto altro effetto che quello di rendere difficile qualsiasi tentativo di ricostruzione di relazioni serene. Le autorità italiane non avrebbero dovuto allontanare S.B. dalla madre e dal fratello, che erano in grado di proteggerla e di sostenerla in attesa dell'esito delle indagini. La prima ricorrente afferma di avere sempre collaborato con i servizi sociali e disapprova l'assenza di un vero progetto terapeutico destinato a riavvicinarla alla figlia. Secondo lei, S.B. avrebbe dovuto essere affidata a lei, in particolare, dopo l'insuccesso dell'affidamento al centro di accoglienza, ma le autorità hanno deciso diversamente affidando la bambina a una famiglia. Infine, si sarebbero verificati importanti ritardi nell'esame della causa da parte dei giudici nazionali colpevoli, ad esempio, di avere permesso che il perito d'ufficio depositasse la propria relazione un anno dopo aver accettato il mandato, di non aver saputo controllare più efficacemente i servizi sociali che avrebbero spesso omesso di rendere conto dell'evolversi della situazione di S.B. La Corte ricorda che, se mira essenzialmente a proteggere l'individuo da ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, l'articolo 8 della Convenzione genera nondimeno degli obblighi positivi inerenti un "rispetto" effettivo della vita famigliare. In questo contesto, la Corte ha dichiarato molte volte che l'articolo 8 implica il diritto di un genitore a misure idonee a riunirlo al figlio e l'obbligo per le autorità nazionali di adottare tali misure (v., ad esempio, Ignaccolo Zenide c. Romania, n. 31679/96, § 94, CEDU 2000-I, e Nuutinen c. Finlandia, n. 32842/96, § 127, CEDU 2000-VIII). Tuttavia, questo obbligo non è assoluto. La natura e la portata dello stesso dipendono dalle circostanze di ogni singolo caso, ma la comprensione e la cooperazione di tutte le persone interessate ne costituiscono sempre un fattore importante. Se le autorità nazionali devono adoperarsi al fine di agevolare una simile collaborazione, un obbligo per le stesse di ricorrere alla coercizione in materia non può che essere limitato: esse devono tenere conto degli interessi e dei diritti e libertà di tali persone, e in particolare degli interessi superiori del minore e dei diritti riconosciuti a quest'ultimo dall'articolo 8 della Convenzione. Nel caso in cui dei contatti con i genitori rischiano di minacciare tali interessi o di pregiudicare tali diritti, le autorità nazionali hanno il compito di garantire un giusto equilibrio tra essi (Ignaccolo-Zenide, già cit., § 94). La linea di demarcazione tra gli obblighi positivi e negativi dello Stato a titolo dell'articolo 8 non si presta ad una definizione precisa; i principi applicabili sono tuttavia equiparabili. In particolare, in entrambi i casi, bisogna avere riguardo al giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti; allo stesso modo, in entrambe le ipotesi, lo Stato gode di un certo margine di valutazione (v., ad esempio, le sentenze W. c. Regno Unito dell'8 luglio 1987, serie A n. 121, p. 27, § 60, B. c. Regno Unito dell'8 luglio 1987, serie A n. 121, p. 72, § 61, R. c. Regno Unito dell'8 luglio 1987, serie A n. 121, p. 117, § 65, Gnahoré c. Francia, n. 40031/98, § 52, CEDU 2000 IX, e Couillard Maugery c. Francia, n. 64796/01, § 239, 1° luglio 2004). La Corte osserva che la questione decisiva, nella fattispecie,è quella di stabilire se le autorità nazionali hanno adottato tutti i provvedimenti che ci si poteva ragionevolmente attendere dalle stesse. Per quanto riguarda l'allontanamento di S.B. e la sua presa in carico - che i ricorrenti giudicano infondati -, la Corte osserva che il tribunale per i minorenni ha giustificato la sua decisione del 6 novembre 1998 (paragrafo 7 supra) facendo riferimento ai forti sospetti che la bambina avesse subito degli abusi sessuali da parte di membri della famiglia dei ricorrenti e ai dubbi sulla capacità di protezione della prima ricorrente. Considerando attendibili le dichiarazioni di M., il tribunale sospese la potestà di entrambi i genitori, poiché il padre sembrava direttamente implicato nei fatti denunciati e la madre incapace di offrire alla figlia la protezione necessaria. Il ricorso ad una procedura di urgenza per allontanare S.B. rientra perfettamente tra le iniziative che le autorità nazionali hanno il diritto di intraprendere nei casi di sevizie sessuali che rappresentano incontestabilmente un tipo odioso di misfatti che indeboliscono le vittime. I bambini e altre persone vulnerabili hanno diritto alla tutela dello Stato, sotto forma di una prevenzione efficace che li metta al riparo da forme così gravi di ingerenza in aspetti fondamentali della loro vita privata (v. le sentenze Stubbings e altri c. Regno Unito del 24 settembre 1996, Raccolta 1996-IV, § 64, mutatis mutandis, Z. e altri c. Regno Unito (GC), n. 29392/95, § 73, A. c. Regno Unito del 23 settembre 1998, Raccolta 1998 VI, § 22, e Covezzi e Morselli c. Italia, n. 52763/99, § 103, 9 maggio 2003). In queste condizioni, la Corte è del parere che la presa in carico e l'allontanamento di S.B. possono essere considerate misure proporzionate e "necessarie in una società democratica" per la tutela della salute e dei diritti della minore. Il contesto delittuoso veramente complesso che vedeva tra i protagonisti dei membri dell'ambiente famigliare vicino ai minori vittime di abusi poteva ragionevolmente portare le autorità nazionali a considerare che il mantenimento di S.B. a casa della madre poteva nuocere alla bambina. Pertanto, la Corte ritiene che non vi sia stata violazione dell'articolo 8 su questo punto. Quanto all'assenza di contatti tra i primi due ricorrenti e S.B. e all'organizzazione degli incontri, la Corte ricorda anzitutto che qualsiasi presa in carico deve, in linea di principio, essere considerata una misura temporanea, da sospendere non appena le circostanze lo permettono, e che qualsiasi atto di esecuzione deve concordare con un fine ultimo: riunire il genitore e il figlio (v., tra le altre, le sentenze Olsson c. Svezia (n. 1) del 24 marzo 1988, serie A n. 130, § 81, e Covezzi e Morselli c. Italia già cit., § 118). Una interruzione prolungata dei contatti tra genitori e figli o degli incontri troppo distanziati nel tempo rischierebbero di compromettere qualsiasi possibilità seria di aiutare gli interessati a superare le difficoltà sopravvenute nella vita famigliare (v., mutatis mutandis, la sentenza Scozzari e Giunta c. Italia (GC) già cit., § 177). Pertanto, anche se la misura di allontanamento era giustificata, la Corte ha il compito di esaminare se le ulteriori restrizioni fossero conformi all'articolo 8, in applicazione del quale dovevano essere tutelati gli interessi dei ricorrenti. Se le autorità hanno l'obbligo di operare per agevolare il ricongiungimento della famiglia e i contatti tra i suoi membri, qualsiasi ricorso alla coercizione in materia è ovviamente limitato dalla preoccupazione per l'interesse superiore del figlio. Quando dei contatti con i genitori sembrano minacciare questo interesse, sono le autorità nazionali a dover trovare un giusto equilibrio tra gli interessi dei minori e quelli dei genitori (v., tra le altre, la sentenza K. e T. c. Finlandia (GC), n. 25702/94, § 194, CEDU 2001 VII). La Corte osserva che, nel novembre 1998, il tribunale per i minorenni ordinò l'interruzione dei rapporti tra la sig.ra Roda e la figlia considerando la prima per lo meno incapace di offrire una protezione sufficiente alla bambina. La necessità di mettere quest'ultima al riparo affidandola ad un ambiente protetto si imponeva in maniera evidente. Il 19 maggio 1999, tenuto conto poi del risultato delle due perizie d'ufficio - che avevano concluso per "l'esistenza di lesioni legate a rapporti sessuali completi, numerosi e reiterati" e "una forte corrispondenza con l'ipotesi di atti di abusi sessuali" -, e alla luce delle prime relazioni di controllo depositate dai servizi sociali, il tribunale per i minorenni ritenne necessario non modificare la situazione di affidamento di S.B. I suoi genitori non erano in grado di fornirle la protezione di cui aveva bisogno e il ritorno presso la madre non era possibile in quel momento. La Corte osserva che le relazioni di controllo dei servizi sociali - depositate all'esito di molteplici incontri con i quattro membri della famiglia Bonfatti-Roda -, nonché le due relazioni del perito nominato il 19 maggio 1999, evidenziarono una grave sofferenza da parte della bambina, che i genitori attribuivano alla situazione famigliare e alla decisione presa nel 1998 di allontanare la bambina. La Corte osserva che le due proroghe del termine fissato il 19 maggio 1999 accordate dal tribunale al perito (che depositò le sue prime conclusioni su S.B. il 7 giugno 2000 e la sua relazione finale il 19 luglio 2000) hanno causato un ritardo notevole nella procedura (più di un anno e un mese a decorrere dal 24 giugno 1999, data in cui il perito aveva prestato giuramento). Pur riconoscendo che, per la sua delicatezza, questo tipo di inchiesta deve essere condotto in modo rigoroso e senza fretta, la Corte ritiene che fosse necessaria una maggiore diligenza. Al contrario, la Corte non considera irragionevole la decisione del 29 gennaio 2001, con la quale il tribunale per i minorenni confermò l'affidamento della minore ad un ambiente protetto preferibilmente di tipo famigliare, pronunciò la decadenza del padre dalla potestà dei genitori, considerati in particolare la personalità di quest'ultimo e il vissuto di paura della figlia nei suoi confronti (paragrafo 32 supra), e considerò prematura la ripresa dei contatti tra i ricorrenti, poiché la prima ricorrente non sembrava ancora in grado di venire in aiuto alla figlia e il secondo ricorrente poteva generare dei sentimenti di confusione in S.B. (paragrafi 33 e 34 supra). La Corte osserva ancora che il 7 giugno 2001, essendo stata informata dai servizi sociali della loro impotenza a sostenere psicologicamente la minore, che rifiutava completamente il mondo esteriore, la corte d'appello di Bologna esortò i servizi ad attivarsi immediatamente allo scopo di far uscire la bambina dalla sua situazione di abbandono e di isolamento e di cercare di avvicinarla alla madre. Tuttavia, il primo incontro tra la madre e la figlia ebbe luogo solo il 28 marzo 2002. Era certamente necessario un lavoro di preparazione adeguato da parte dei servizi sociali, ma tale esigenza non spiega perché siano trascorsi cinque mesi prima che essi incontrassero la psicologa della sig.ra Roda, e poi gli interventi della procura e del giudice tutelare che, su richiesta della prima ricorrente, ordinarono ai servizi sociali di procedere al primo incontro e di registrarlo. In seguito, gli incontri ebbero luogo a intervalli quasi regolari. Il giudice tutelare, tuttavia, dovette essere sollecitato più volte dalla sig.ra Roda per ottenere il deposito rapido della videoregistrazione degli incontri, il diritto di intrattenere una corrispondenza con S.B., la consegna a quest'ultima di un cellulare e una informazione costante sull'affidamento famigliare della bambina (paragrafi 41-46 supra). Quanto al secondo ricorrente, la Corte osserva che, nonostante la possibilità lasciata ai servizi sociali dal tribunale per i minorenni di valutare l'opportunità di organizzare degli incontri con la sorella dopo un periodo di preparazione adeguata e accettata dall'interessato, non furono intraprese iniziative in tal senso, cosicché il tribunale, il 7 luglio 2004, (paragrafo 63 supra) reiterò il suo invito ai servizi sociali. Secondo le ultime informazioni fornite dall'avvocato dei ricorrenti, il secondo ricorrente avrebbe partecipato a dei colloqui con i servizi sociali. Nella sua decisione del 7 luglio 2004, alla luce dei risultati incoraggianti dell'affidamento famigliare, il tribunale prorogò di almeno due anni tale affidamento, e optò per il proseguimento degli incontri in luogo protetto anche in occasione di alcune festività. Tale decisione fu confermata in appello il 26 novembre 2004. La Corte constata che, se tutti questi interventi delle autorità giudiziarie sono stati adottati dopo una matura riflessione e sulla base delle indagini condotte dai periti e dai servizi sociali, non si può trascurare il fatto che il tempo trascorso a partire dalla ripresa dei contatti tra la madre e la figlia non ha agevolato il riavvicinamento tra i ricorrenti. In effetti, S.B. ha manifestato la sua volontà di non piegarsi alle decisioni giudiziarie che prevedevano un contatto più frequente e meno rigido con la madre. Informata dai servizi sociali, la procura chiese nel febbraio 2005 la sospensione dell'esecuzione della decisione della corte d'appello di Bologna del 26 novembre 2004 in attesa di un cambiamento di atteggiamento della minore. Il tribunale accolse la domanda e, nel marzo 2005, ristabilì il principio più severo di incontri mensili in luogo protetto. Questa situazione non si è evoluta positivamente. In queste condizioni, e alla luce di quanto precede, anche tenendo conto delle reticenze manifestate da S.B., è opportuno concludere che le misure adottate per trovare un giusto equilibrio tra gli interessi della figlia e i diritti dei primi due ricorrenti ai sensi dell'articolo 8 non sono state completamente sufficienti. Pertanto, vi è stata violazione di questa disposizione a causa del protrarsi dell'interruzione dei rapporti e dell'organizzazione lacunosa degli incontri tra i primi due ricorrenti e S.B.

VI - SULL'APPLICAZIONE DELL'ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE. Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione, "Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa."

Danno. I ricorrenti chiedono, per il danno materiale: 2.910,68 euro (EUR) corrispondenti al costo della psicoterapia seguita dalla sig.ra Roda, 60 EUR relativi alle spese per gli incontri del secondo ricorrente con i servizi sociali e 200 EUR per l'acquisto di un telefono cellulare. Quanto al danno morale, i primi due ricorrenti chiedono che venga loro accordata la somma di 100.000 EUR ciascuno e la somma di 200.000 EUR per S.B. Secondo il Governo, le somme richieste per il danno materiale non hanno alcun rapporto con le presunte violazioni, ma sono legate a una situazione oggettiva che non è di per sé contraria alla Convenzione. In effetti, le eventuali violazioni che la Corte potrebbe constatare riguardano aspetti particolari della situazione controversa, ma non mettono in discussione la decisione iniziale di allontanamento della minore o la necessità di preparare in maniera adeguata il suo reinserimento nella famiglia di origine, che non può essere negato. In particolare, la psicoterapia seguita dalla sig.ra Roda, opportuna per aiutarla a recuperare il suo ruolo di genitore e superare le difficoltà che le impediscono di avere un rapporto costruttivo con la figlia, non costituirebbe né una violazione della Convenzione né una conseguenza diretta di una tale violazione. Lo stesso varrebbe per gli incontri del secondo ricorrente con gli assistenti sociali. Quanto all'acquisto di un telefono cellulare per S.B., non si comprende bene il legame con la situazione controversa. Il Governo si affida al giudizio della Corte affinché essa determini equamente il danno morale, precisando che le somme richieste sono eccessive e prive di qualsiasi giustificazione. In particolare, la somma chiesta dal secondo ricorrente non ha alcun rapporto con la vera sofferenza che egli può aver provato. Quanto alla somma richiesta in nome di S.B., si dovrebbe tenere conto del fatto che quest'ultima continua a manifestare il proprio benessere nella situazione attuale di affidamento in famiglia. Sarebbe dunque sorprendente che la Corte le accordasse una somma per compensare una presunta sofferenza che essa evidentemente non prova. In conclusione, il Governo ritiene che una eventuale constatazione di violazione costituirebbe un'equa soddisfazione sufficiente per tutti i ricorrenti e che, in ogni modo, le somme richieste dovrebbero essere contenute entro limiti più ragionevoli. La Corte non percepisce alcun legame di causalità tra la violazione constatata e il danno materiale addotto e rigetta tale domanda. In compenso, deliberando equamente, essa ritiene opportuno accordare a ogni ricorrente la somma di 3.000 EUR per il danno morale.

Spese. La prima ricorrente chiede 8.700 EUR per l'assistenza della sua psicologa durante gli incontri, 18.035 EUR per le spese sostenute dinanzi alle giurisdizioni interne e 21.930 EUR per quelle sostenute dinanzi alla Corte. Il secondo ricorrente chiede 10.965 EUR per le spese sostenute dinanzi alla Corte. Il Governo afferma che le spese sostenute nell'ambito dei procedimenti interni non sono dovute, in assenza di qualsiasi rapporto con le presunte violazioni. Secondo lo stesso, tali spese erano necessarie per le esigenze della "difesa" dinanzi alle autorità giudiziarie. Quanto alle spese relative al procedimento ai sensi della Convenzione, esse sarebbero eccessive rispetto alla "natura e alla relativa semplicità della causa, nonché alla consistenza dell'attività di difesa effettivamente svolta e realmente necessaria". Il Governo si affida al giudizio della Corte affinché tali spese siano liquidate in misura ragionevole e conforme alla sua pratica. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui sono stabilite la realtà, la necessità e la ragionevolezza dell'importo delle stesse. Nella fattispecie, e tenuto conto degli elementi in suo possesso e dei criteri sopra menzionati, la Corte considera ragionevole la somma di 6.000 EUR per le spese e la accorda ai primi due ricorrenti congiuntamente.

Interessi moratori. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL'UNANIMITÀ,

Dichiara il ricorso ammissibile per quanto riguarda il motivo relativo all'articolo 8 della Convenzione e inammissibile per il resto;

Dichiara che non vi è stata violazione dell'articolo 8 per quanto riguarda la presa in carico e l'allontanamento di S.B.;

Dichiara che vi è stata violazione dell'articolo 8 per quanto riguarda l'assenza di contatti tra i primi due ricorrenti e S.B. e l'organizzazione lacunosa degli incontri;

Dichiara che lo Stato convenuto deve versare, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione,

3.000 EUR (tremila euro) a ciascun ricorrente per il danno morale,

6.000 EUR (seimila euro) ai primi due ricorrenti congiuntamente per le spese,

più l'importo eventualmente dovuto a titolo di imposta;

che a decorrere dallo scadere del termine suddetto e fino al versamento, tali somme dovranno essere maggiorate di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali;

Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto. Fatto in francese, e poi comunicato per iscritto il 21 novembre 2006 in applicazione dell'articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

S. NAISMITH Cancelliere aggiunto

J.-P. COSTA Presidente

Affidi: Pm avvisò su relazioni false. A novembre tentò di fermare provvedimento contro un genitore. Ansa il 27 luglio 2019. La Procura di Reggio Emilia avvertì il Tribunale dei minori di Bologna che le relazioni che avrebbero portato alla revoca dell'affidamento ai propri genitori di un bambino coinvolto nell'inchiesta 'Angeli e Demoni' sugli affidi in Val d'Enza non erano corrette. Nonostante questo il bambino fu mandato in comunità, dove è rimasto fino agli arresti delle settimane scorse. Il caso risale a novembre quando la Pm di Reggio Emilia, Valentina Salvi, scrive al giudice minorile, Mirko Stifano. Una comunicazione, a quanto si apprende, preceduta da telefonate e classificata come urgente per impedire quel provvedimento basato su relazioni false. La Procura Reggiana, infatti, dimostrò, allegando gli atti, che quanto indicato dai servizi sociali non era vero e la situazione del padre non aveva condotte penalmente rilevanti tali da giustificare un provvedimento come l'affido del bambino in comunità. Che però fu eseguito comunque.

Bibbiano, il giudice minorile ignorò l'allarme del magistrato. Valentina Errante Domenica 28 Luglio 2019 su Il Messaggero. La procura di Reggio Emilia aveva avvertito il Tribunale dei minori di Bologna che alcune relazioni sui bambini sottratti alle famiglie della Val d’Enzapo tessero presentare anomalie. In particolare l’alert del pm riguardava un bambino coinvolto nell’inchiesta “Angeli e Demoni” che venne affidato ugualmente a in comunità, dove è rimasto fino agli arresti dei 18 indagati dello scorso giugno delle settimane scorse. Vanno avanti le indagini sul caso di Bibbiano, dove quattro dei sei piccoli coinvolti nelle false perizie, e sottratti alle famiglie sulla base di abusi e maltrattamenti mai subiti, sono tornati dai genitori naturali. Lo scorso novembre la pm di Reggio Emilia, Valentina Salvi, che aveva avviato le verifiche sulla base di un numero spropositato di affidi nella Val D’Enza, scrive al giudice minorile, Mirko Stifano. Una comunicazione preceduta anche da telefonate e classificata come urgente per impedire quel provvedimento basato su relazioni false. La Procura reggiana, infatti, dimostrava, allegando gli atti, che quanto indicato dai servizi sociali non era vero e la situazione del padre, al quale stava per essere sottratto il bambino, non aveva condotte penalmente rilevanti, comunque tali da giustificare un provvedimento come l’affido del figlio a una comunità. Il Tribunale, però, non avrebbe tenuto conto di quelle preoccupanti segnalazioni, tanto che il piccolo, poi, era comunque stato allontanato dai genitori. Dalle intercettazioni emerge anche che Federica Arginolfi, dirigente del servizio sociale della Val d’Enza, agli arresti domiciliari, avrebbe valutato per alcune coppie di associazioni lgbt di una città del Sud Italia un affido a tempo indeterminato, a fronte della manifestazione, da parte degli aspiranti genitori omosessuali, di potersi affezionare ai piccoli. La donna li rassicurava sostenendo che il perdurare di una valutazione negativa sui genitori, ritenuti inadeguati dalle relazioni degli stessi servizi sociali, avrebbe di fatto reso l’affido a tempo indeterminato, come una sorta di adozione. 

AFFIDI FANTASMA. Dagli atti emergono anche casi di affidi fantasma. Come emerge dalla testimonianza di una donna, cuoca in una struttura per ragazzi. «Non ho fatto nessuna accoglienza, non conosco le loro storie, né i loro genitori. Li conosco solo per il fatto che a pranzo cucino per loro come per tutti gli altri». Agli atti, invece, risultava affidataria di una bambina: «Mi fu consegnato un foglio dove Federica diceva che mi dava in “affido sostegno” tale bambino». Secondo la signora, la Arginolfi, senza spiegarle il motivo, le avrebbe chiesto di diventare il tramite delle spese per la psicoterapia. Un modo, secondo gli inquirenti per creare false retribuzioni. 

Intanto pochi giorni fa è stato rinviato l’incontro tra uno dei minori coinvolti nell’inchiesta e allontanato sulla base di relazioni dei servizi sociali.

Affidi illeciti: “Il Tribunale minorile di Bologna sapeva”. Maria Cristina Fraddosio su Il Fatto Quotidiano 28 luglio 2019. Il Tribunale dei Minori di Bologna sapeva che uno degli affidi autorizzati dai servizi sociali dell’Unione Val d’Enza, finito nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, per cui sono indagate 29 persone, era illecito. La Procura di Reggio Emilia aveva comunicato che le relazioni che avrebbero allontanato il minore dai genitori contenevano dei falsi. A novembre scorso il sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi si era rivolta al giudice minorile Mirko Stifano. Lo aveva prima chiamato, annunciandogli l’urgenza di interrompere l’iter di allontanamento, e poi gli aveva inviato gli atti, dimostrando che quanto riportato dai servizi sociali non era vero. Il Minore doveva essere portato via a causa delle condotte penali di suo padre riscontrate dal servizio sociale. Condotte che, come avrebbe riferito la pm Salvi a Stifano, non risultavano tali da procedere. Ma la sua richiesta è caduta nel vuoto. Il bambino è finito ugualmente nel centro “La Cura” di Bibbiano, dov’è rimasto fino all’ordinanza del giudice Luca Ramponi, che ha disposto gli arresti domiciliari per sei persone, tra cui il fondatore del Centro Hansel & Gretel Claudio Foti (la misura per lui poi è stata attenuata). Il minore in questione è uno dei dieci finiti nel giro degli affidi illeciti. Potrebbe trattarsi del ragazzino di origine straniera la cui abitazione veniva descritta dai servizi sociali come “spoglia” e “priva di giochi”. Dettagli poi contraddetti da un sopralluogo dei Carabinieri. Secondo l’accusa, Federica Alfieri, psicologa Asl, e Annalisa Scalabrini, assistente sociale, riportavano nella relazione, poi trasmessa dalla dirigente del servizio sociale, Federica Anghinolfi (personaggio chiave nell’inchiesta), al Tribunale dei Minori, il falso. “Lasciavano intendere uno stato di denutrizione del bambino”, poi smentito dal pediatra. Descrivevano il minore come “depresso”, a causa di suo padre soggetto dedito al consumo di alcolici e violento. “Pare che il padre abbia un atteggiamento molto aggressivo e che sia stato coinvolto in diverse risse”, avrebbero dichiarato. Alla figura paterna avrebbero imputato anche una cattiva gestione del denaro, “basando tale assunto esclusivamente sul dato del mancato pagamento di alcune rette scolastiche”. Notizia poi dimostratasi falsa. Per l’accusa, è vero che il padre era stato fermato 2 volte per guida in stato di ebbrezza, ma 10 anni prima e con un livello modesto di positività al test. Infatti, i giudici considerano un’esagerazione ritenere che fosse dipendente da alcool. Per questo minore, i servizi sociali avevano richiesto il collocamento in luogo protetto assieme alla madre. Il decreto di allontanamento del Tribunale dei minori di Bologna veniva eseguito dai servizi sociali dell’Unione Val d’Enza il 22 novembre 2018. Presumibilmente, qualche giorno prima la pm Salvi aveva cercato di impedirne l’attuazione, rivolgendosi direttamente al giudice minorile. Ma viene allontanato ugualmente e portato presso “La Cura” di Bibbiano. La madre lo segue e l’assistente sociale, Francesco Monopoli, avrebbe commentato così la sua presenza: “Gli dirà guai a te se parli”. Influenzato dalla madre, il minore avrebbe negato gli abusi (mai avvenuti). Non si esclude invece, che abbia assistito ad aggressioni del padre nei confronti della madre.

La Sardegna colpita dal "metodo Foti". Si riapre il caso della bidella suicida. Sardiniapost.it il 27 luglio 2019. Due anni, un percorso diventato un calvario insostenibile per una ex bidella di Sestu che, dopo 42 anni di lavoro, si trova coinvolta in una vicenda giudiziaria con un’accusa terribile: reato di violenza sessuale. A riportare alla luce la storia di Agnese Usai, 62 anni, collegandola ai fatti di Bibbiano, è Selvaggia Lucarelli sulle pagine del Fatto Quotidiano in cui viene descritto un percorso pieno di dubbi che ha portato a un epilogo tragico per la bidella che, nel 2018, si è tolta la vita lasciando un biglietto con scritto “sono innocente”. Tutto inizia nel 2016 quando la donna scopre di essere indagata dalla Procura di Cagliari per il reato di violenza sessuale. È dal giorno che un filo rosso lega la Sardegna a Claudio Foti e ai suoi seguaci. I fatti risalgono al 2014 quando Agnese lavora in una scuola materna frequentata da una bimba di 4 anni: i genitori della piccola hanno notato negli ultimi tempi dei comportamenti strani. La piccola non vuole fare il bagnetto e ogni tanto fa brutti sogni o bagna il letto. Una sera la piccola – riporta il quotidiano – ammette che non vuole lavarsi perché ha paura dei mostri e racconta che la signora Agnese, in bagno, le accarezza la patatina e le lecca la faccia. È a questo punto che i genitori si rivolgono a una psicologa della Asl di Cagliari che ha spesso partecipato a incontri del Cismai (associazione di cui fanno parte psicologi e assistenti sociali di Massa Finalese a Bibbiano) e di Hansel & Gretel ed è esperta nella terapia Emdr, quella della macchinetta dei ricordi. Appuntamenti in cui c’erano, il alcune occasioni, Claudio Foti e Nadia Bolognini (coinvolti nella vicenda Angeli e Demoni). La psicologa, dopo aver ascoltato il racconto dei genitori conferma che i sintomi sono riconducibili a un possibile abuso. La bimba, nel frattempo inizia a frequentare una nuova scuola, mentre tra il 2015 e 2016 vengono interrogati il preside e alcune maestre. Nessuno ha avuto segnalazioni sul comportamento della bidella, una maestra si limita a dire che la bambina non ha mai manifestato segnali di disagio e un’altra sostiene che “Agnese era la collaboratrice ideale e qualche bambino era anche dispiaciuto del suo allontanamento”. Nel frattempo per Agnese il tempo passa senza perquisizioni, non vengono messe telecamere nell’asilo e il suo telefono verrà intercettato solo dopo il 2016 ma senza alcun esito. Eppure la bambina racconterà che la bidella la riprendeva in bagno con il cellulare, ma quello di Agnese è un modello vecchio che non fa video e non naviga in rete. Dopo due anni e mezzo, nel 2017 per l’incidente probatorio, viene chiamata dalla psicologa cagliaritana una consulente di parte Cleopatria D’Ambrosio, che fa parte del direttivo dell’associazione "Rompere il silenzio" di Claudio Foti. Anche per lei i segni dell’abuso sono presenti, nonostante la per la consulente del giudice la piccola è parsa senza particolari segni post traumatici. Passano il tempo e dopo due anni di percorso con le psicologhe, un giorno il fratellino della piccola racconterà che la sorellina “ha provato a infilarmi un dito nel culetto”. Crescendo, i ricordi della minore si fanno più nitidi, tanto che chiama in causa anche un’altra maestra che “c’era sempre quando Agnese mi faceva del male, sbirciava dall’oblò mentre mi toccava la patatina”. Un’accusa gravissima sulla quale, però, nessuno ha indagato. Infine quando il giudice ha chiesto alla bimba di descrivere Agnese la risposta è stata ha i capelli gialli e lunghi sino alle spalle, ma la bidella aveva i capelli cortissimi e bianchi. Tanti i dubbi e le dichiarazioni contraddittorie attorno a questa vicenda, anche perché la bimba non è mai stata portata da un ginecologo per una visita. Per la bidella si profilava un processo, troppo per lei che il 6 maggio del 2018 ha deciso di togliersi la vita, perché non sopportava più le accuse.

Inchiesta Angeli e demoni, pista sarda: avvocato Concas smontò le tesi di Foti. Sardiniapost.it il 17 luglio 2019. L’inchiesta "Angeli e Demoni" che ha scoperchiato un vaso di Pandora sugli affidamenti illeciti dei minori ha rami molto lunghi, che arrivano fino alla Sardegna. Il filo che collega alcuni eventi è nelle mani di Claudio Foti, psicoterapeuta e direttore scientifico della onlus ‘Hansel e Gretel’ di Moncalieri, agli arresti domiciliari perché coinvolto nell’inchiesta. Foti, come ricorda il settimanale Panorama, fu perito di parte in un processo del 2001 ai danni di un orologiaio cagliaritano, accusato di aver abusato sessualmente dei figli, abusi ai quali avrebbero partecipato anche la nuova compagna dell’uomo e un amico. Accuse crollate in tutti e tre i gradi di giudizio, sino alla Cassazione, ma con un intermezzo in cui Foti fu chiamato per una perizia sulle presunte vittime. A difendere l’imputato fu il decano dei penalisti sardi, l’avvocato Luigi Concas, che non è sorpreso del coinvolgimento del consulente di Moncalieri nella vicenda: “Aveva la tendenza ad assumere il ruolo di accusatore, quasi da Pubblico ministero travestito da consulente”. Il comportamento di Foti era chiaro: “Aveva un orientamento preciso e quello condizionava tutte le sue scelte. Secondo me non era ambizione ma proprio una convinzione sbagliata”. A evidenziare come la linea da seguire fosse solo una c’è un fatto, anche marginale, che riguarda un disegno chiesto da Foti a una delle presunte vittime. “Era un disegno che sarebbe servito ai consulenti del Pubblico ministero”, racconta Concas. Il disegno fu interpretato come un organo genitale maschile con una serie di punte, ma l’intuizione di Concas permise di capire che il bambino aveva disegnato Goku, un personaggio dei cartoni animati in voga in quel periodo. “Lui dava dei fatti un’interpretazione particolare. Ricordo che ci furono molte polemiche e tante affermazioni gli furono contestate”. Un’onta pesante che superò indenne tutti e tre i gradi di giudizio, sino alla Cassazione. E in Sardegna c’è anche un’altra vittima delle forzature, un professore che ora vive a Oristano e che, nonostante la piena assoluzione dalle accuse, ha perso il dono più grande di poter riabbracciare le figlie. Questi sono due casi ‘sardi’ ma simili ad altri che in tutta Italia si sono verificati e che sono stati condizionati da forzature nelle perizie. Foti fa parte di un sistema che ha coinvolto operatori e politici nella zona di Reggio Emilia: l’inchiesta "Angeli e Demoni", infatti, ha svelato un sistema perverso, in cui i bambini venivano ingiustamente sottratti alle proprie famiglie con motivazioni gravi ma figlie di forzature.

Agnese, la bidella suicida di Sestu e il filo rosso con Bibbiano. Youtg.net il 27 luglio 2019. Compaiono anche nomi di psicologi collegati al caso Bibbiano nell'inchiesta per presunti abusi si una bimba di 4 anni che aveva portato al suicidio di Agnese Usai, bidella appena andata in pensione, che si era tolta la vita a maggio del 2018, sotto il peso di accuse pesantissime. "Sono innocente", aveva scritto su un biglietto. Qualche mese prima aveva ricevuto un avviso di conclusione dell'inchiesta per pedofilia condotta dalla Procura di Cagliari nei suoi confronti. Un'indagine scaturita da accuse partite da una bimba che aveva raccontato di essere stata toccata da lei, nelle parti intime, nel bagno della scuola materna nella quale lavorava. Aveva detto tante altre cose, la bimba, nel corso del tempo. Alcune vicende raccontate contraddicevano altre dichiarazioni. Ma il fascicolo del pm si è riempito. Tra i protagonisti spuntano "nomi di psicologhe legate a Claudio Foti arrestato per il caso Bibbiano, al centro Hansel e Gretel e a orrori passati come il caso Sorelli di Brescia". Come? A ricostruire la vicenda, e a tracciare una linea rossa tra Sestu e Bibbiano, è Selvaggia Lucarelli: due pagine su Il fato Quotidiano che partono da lontano. Fino al tragico epilogo. 

Questo il testo dell'articolo uscito oggi su Il Fatto Quotidiano del 27 luglio 2019a firma di Selvaggia Lucarelli (ripreso dal post della pagina Facebook della stessa giornalista). Quando mi sono avvicinata a questa recente storia tragica e incredibile che racconto oggi sul Fatto non sapevo che ancora una volta avrei trovato dei nomi di psicologhe legate a Claudio Foti arrestato per il caso Bibbiano, al centro Hansel e Gretel e a orrori passati come il caso Sorelli di Brescia. E invece leggete in quale morsa orribile di accuse campate in aria è finita Agnese, questa povera bidella sarda che alla fine un anno fa si è tolta la vita in un bagnetto, con un braciere, per la vergogna e la spietate certezze di certe psicologhe. (per non parlare delle indagini).

I carabinieri le bussano a casa, a Sestu, la vigilia di Natale del 2016. Agnese Usai ha 62 anni e quello è il suo primo Natale da pensionata dopo 42 anni di lavoro nelle scuole come bidella. Lei, che da giovane era stata bellissima, non si è mai sposata. Come tante donne della sua famiglia ha scelto di dedicare la sua vita al lavoro e quel lavoro nelle scuole è stato la sua vita. Mai una macchia, mai un problema. Sì, qualche discussione con i colleghi perché Agnese certe volte è un po’ scorbutica, ma è amata e rispettata. “Che ho fatto?”, domanda ai carabinieri che le chiedono di firmare. “Ah, se non lo sa lei…”, le rispondono con un velato sarcasmo. Agnese scopre di essere ufficialmente indagata dalla procura di Cagliari per il reato di violenza sessuale. Da questo momento, quel tratto di penna che unisce in tutta Italia tante storie di accuse false, assurde o zoppicanti di minori e che riconducono con un’impressionante frequenza a Claudio Foti e ai seguaci del suo metodo, arriva anche lì, in Sardegna, e disegna un nuovo intreccio, oltre che il destino di Agnese. Un destino breve, perché la bidella si toglierà la vita due anni dopo gridando la sua innocenza. La storia inizia nel 2014. Agnese lavora da un paio di mesi in una scuola materna frequentata da una bambina di 4 anni che chiameremo Stella. Una bambina di cui lei neppure si ricorda, quando scopre la denuncia. I genitori della piccola, entrambi non giovanissimi e profondamente religiosi, vicini all’ambiente neocatecumenale, da qualche tempo hanno notato che Stella ha dei comportamenti strani. Non vuole fare il bagno, corre nuda per la casa, ogni tanto fa brutti sogni o bagna il letto. “Fa salti troppo alti per la sua statura” e “Si arrampica sui mobili”, racconterà poi la mamma ai carabinieri. Quelle cose che nessun genitore ha mai visto fare ai propri figli, insomma. Stella cerca anche di baciare altri bambini o le mani dei genitori. Vuole lavarsi spesso la patatina, dice che la sua patatina ha bisogno di bere. Il 10 novembre la mamma la va a prendere a scuola e la trova bagnata di pipì. Le dice che deve fare la pipì in bagno, che trattenendo lo stimolo si può ammalare. La sera, ancora agitata, la madre torna sul discorso e la bambina ammette che non va in bagno perché ha paura dei mostri. “I mostri del cartoncino di signora Agnese”, spiega. Interrogata con insistenza, afferma anche che la signora Agnese in bagno le accarezza la patatina e le lecca la faccia. Dunque la bambina si farebbe la pipì addosso per non vedere più Agnese che in effetti qualche volta accompagna i bambini in bagno e li aiuta a pulirsi. Quello che fanno i bidelli, insomma. Quell’Agnese che in effetti potrebbe averle “accarezzato la patatina”, ma magari per asciugarle la pipì. Che magari l’ha sgridata in modo un po’ brusco perchè forse Stella ha sporcato il bagno. Quell’Agnese che le lecca la faccia. Una perversione bizzarra per una bidella con 42 anni di attività senza mai un’ombra. I due genitori, allarmati, si fanno suggerire dagli amici della parrocchia una psicologa a cui rivolgersi. La psicologa è Elisabetta Illario della Asl di Cagliari, il cui curriculum racconta un profondo e continuativo legame sia nella formazione professionale che in qualità di relatore ad incontri del Cismai e di Hansel e Gretel. Il Cismai (la cui metodologia non è riconosciuta dalla comunità scientifica) è l’associazione di cui fanno parte psicologi e assistenti sociali che sono stati al centro dei casi più contestati, da Rignano Flaminio a Massa Finalese fino ad arrivare a Bibbiano. E al Cismai è stata iscritta per un lungo periodo anche l’associazione Hansel e Gretel. La Illario è anche esperta in terapia Emdr e il suo nome è su varie locandine di incontri con Claudio Foti, Nadia Bolognini (Angeli e demoni), Federica Anghinolfi (Angeli e Demoni), Andrea Coffari (avvocato di Foti), Pietro Forno (pm del caso Lucanto), Cleopatra D’Ambrosio (caso Sorelli, Brescia) e così via. La psicologa Illario ascolta il racconto dei genitori e afferma che i sintomi sono compatibili con un possibile abuso. Senza neanche vedere la bambina. Fa una segnalazione alla Procura. Stella non va più a scuola. Nei giorni successivi, diranno poi i genitori, a casa la bimba comincia a sfregarsi la patatina contro i mobili o a toccarsi per poi smettere improvvisamente. Tutto questo accade sempre e solo in loro presenza. Nessuno, né a scuola né altrove, la vedrà mai fare cose simili. L’indagine parte da qui, da fatti che sarebbero accaduti nell’ottobre del 2014. Fino a luglio 2015 la Procura non si muove. Intanto però la psicologa Illario “accompagna” i due genitori e la bimba nel percorso, vedendo Stella senza registrare gli incontri. La bambina, secondo genitori e psicologa, aggiungerà alcuni particolari, tra questi uno piuttosto inquietante: Stella ha raccontato alla maestra Tania le molestie di Agnese, la maestra Tania le ha detto: “La spedisco nel sistema solare” ma poi non ha fatto niente. Questa maestra non sarà mai interrogata sulla grave questione. Stella comunque sembra riprendersi presto, dopo un mese dalla rivelazione inizia già a frequentare una nuova scuola. Tra il 2015 e il 2016 vengono interrogati (con l’obbligo di segretezza) il preside e alcune maestre. Il preside afferma che non ha mai ricevuto alcuna segnalazione sulla bidella Usai da genitori e personale. Viene interrogata la maestra Carla, che si limita a dire che Stella non ha mai manifestato segnali di disagio. L’altra maestra dice che Stella si era fatta un paio di volte la pipì addosso e che “Agnese era la collaboratrice ideale, qualche bambino si era dimostrato anche dispiaciuto del suo allontanamento”. Agnese intanto è ignara di tutto. Non subisce perquisizioni. Non vengono messe telecamere nell’asilo. Nulla. (verrà a lungo intercettato il suo telefono solo dopo il 2016, senza alcun esito) La bambina, in seguito, affermerà che Agnese in bagno la riprendeva col cellulare e le faceva fare dei balletti, ma Agnese ha un cellulare vecchio che non fa video e non ha la linea per navigare. Il bagno è 1 metro e 50 di larghezza, difficile anche muoversi. L’incidente probatorio inizia nel 2017, due anni e mezzo dopo i fatti oggetto di denuncia riguardanti una bambina che ai tempi aveva 4 anni, dunque in piena età evolutiva. E qui subentra un personaggio interessante. La psicologa consulente di parte della famiglia di Stella, nel momento in cui inizia l’incidente probatorio, è Cleopatra D’Ambrosio, già citata perchè relatrice a vari incontri con la psicologa Illario, colei che ha raccolto la denuncia dei genitori di Stella, e che è nel direttivo di “Rompere il silenzio”, associazione del fondatore di Hansel e Gretel Claudio Foti. Ma c’è di più. Cleopatra D’Ambrosio entrò in contatto con alcuni genitori del famoso caso Sorelli a Brescia, organizzando incontri per aiutare le mamme dell’asilo. Nel 2003 un prete, sei maestre e un bidello furono accusati di pedofilia ai danni di 23 bambini. La D’Ambrosio ai tempi fornì (a pagamento) libricini tipo “fumetti” ai genitori con indicazioni su come interrogare i bambini. Durante il processo spuntarono fuori questi libretti, l’avvocato della difesa chiese al consulente del pm Marco Lagazzi: “E’ corretto dire che consegnare questi libretti in mano ai genitori è come chiedere a un genitore “ti consegno un bisturi, fai tu l’operazione di appendicite?”. Il consulente rispose: “Questo non è un bisturi, è una sega elettrica”. Lo stesso consulente chiese quei libretti al giudice “per mostrare ai miei studenti all’Università cosa non si deve fare nell’ascolto del minore”. Il nome della D’Ambrosio nei verbali di quel processo compare 600 volte. Prete, maestre e bidello furono tutti assolti. Le accuse dei bambini erano false. Ma non finisce qui. La D’Ambrosio è anche quella che afferma: “E’ comprovato scientificamente. Un trauma non elaborato può essere trasmesso nel DNA fino a quattordici generazioni”. In pratica un bambino potrebbe soffrire per un abuso subito da un suo trisavolo, a sentir lei. Dopo il disastro dell’asilo Sorelli, la D’Ambrosio arriva anche qui. Nella materna di Sestu. Viene chiamata addirittura da Brescia, visto il curriculum. Durante l’incontro della consulente del giudice Patrizia Cuccu con Stella per una perizia, la D’Ambrosio fa entrare nella stanza da cui lei (e solo lei, come si era stabilito) poteva assistere, anche i genitori di Stella. La bambina entra in quella stanza, trova i genitori, c’è un’accesa discussione tra il perito del giudice e la D’Ambrosio. Quest’ultima afferma “Sono stata io a farli entrare, non capisco perché non debbano essere autorizzati a guardare dal vetro” e nella confusione il papà di Stella urla: “Hanno stuprato mia figlia!”. Cosa che Stella potrebbe aver udito. L’esito della perizia è che ci sono segnali di “invischiamento", che la bambina presenta disagio e non particolari sintomi post-traumatici ma che la sua famiglia potrebbe aver diminuito la severità delle conseguenze dell’abuso. E comunque, i segnali dell’abuso sono stati rivelati dalla bambina alla psicologa Illario e ai genitori. Insomma, la psicologa crede alla psicologa. La D’Ambrosio, nella sua consulenza, evidenzia che Stella ha un contenimento del trauma perché la psicologa Illario ha saputo ascoltare e guidare lei e i genitori. Che il trauma comunque perdura anni (non erano secoli?), che se alla consulente del giudice Stella è parsa senza particolari segni post-traumatici è perché ci vuole l’ascolto empatico da parte degli adulti. E quindi, nella consulenza, cita i suoi riferimenti nel campo dell’ascolto dei minori: Claudio Foti, Pietro Forno (pm titolare dell’inchiesta nel caso Lucanto, quella finita con la condanna in primo grado di un padre innocente ricostruita nella fiction con la Ferilli), il Cismai. Molte chiacchiere. Manca solo una cosa: uno straccio di prova. I genitori non hanno mai portato Stella dal ginecologo per appurare se ci sia stata deflorazione, e questo nonostante nell’agosto del 2016, quando ormai la bambina usufruisce dell’ascolto empatico della psicologa Illario da due anni, il fratellino Sandro corra dalla mamma dicendo: Stella ha provato a infilarmi un dito nel culetto! La bambina verrà interrogata sulle ragioni di tale gesto e dirà che l’ha fatto perché le andava e poi perchè si annoiava cambiando versione più volte finché col linguaggio tipico di una bambina, affermerà: “Ero gelosa di Sandro perché a lui la maestra Agnese non aveva fatto male, avevo una grande tristezza e rabbia dentro, pensavo andassero via toccando il culetto a lui ma invece sono aumentate”. Insomma, nel 2016, dopo due anni dalla denuncia, a ridosso dell’inizio dell’incidente probatorio, le accuse diventano più gravi, la memoria della bambina anziché più flebile si fa più nitida: la bidella Agnese non la accarezzava più. Le infilava le dita nella patatina e nel culetto. Il giudice ascolta la bambina nel marzo del 2017 e l’audizione aggiunge nuovi pezzi all’assurdo puzzle di accuse. Stella dice che Agnese la toccava e la leccava ma che lei non doveva leccare Agnese come invece precedentemente affermato. Non si ricorda più che in bagno c’erano i mostri “nel cartoncino di Agnese”. Poi - e questa è l’assurdità più grossa - aggiunge: “Maestra Carla c’era sempre quando Agnese mi faceva del male. La maestra di religione, proprio quella che insegna a amare Dio, dovrebbe essere licenziata! Sbirciava dall’oblò mentre mi toccava la patatina!”. Quindi la bambina accusa una maestra di partecipare all’abuso descrivendo porte con oblò che in quella scuola, badate bene, non esistono. Un’accusa gravissima, eppure nessuno indaga su quella maestra o la convoca per appurare se sia la verità. Infine il giudice chiede alla bimba di descrivere Agnese. Stella risponde che ha i capelli gialli e lunghi fino alle spalle. E’ clamorosamente falso. Agnese aveva i capelli cortissimi e bianchi. Non solo. In un’udienza il difensore della Usai, Walter Pani, fa notare come nel 2014, l’anno in cui la bambina denuncia il fatto (e manifesta i disagi elencati dai genitori), il fratellino subisca un’importante operazione a la famiglia debba trasferirsi per un po’ a Roma. Lo stesso anno muore il nonno di Stella. Inoltre Stella è nata prematura e i primi tre anni di vita non ha potuto frequentare il nido e altri bambini. La mamma quando lei ha due anni e mezzo deve subire una lunga ospedalizzazione. Insomma, i genitori sono certi che nel 2014 Stella sia cambiata per una bidella cattiva, anziché per una situazione familiare complessa. Senza una prova, nonostante le tante dichiarazioni false o contraddittorie di una bambina che all’epoca dei fatti aveva 4 anni e viene interrogata due anni e mezzo dopo, senza una visita ginecologica, ma con perizie e consulenze che suggeriscono l’abuso in base a sintomi che nessuno oltre la famiglia e le psicologhe ha mai notato, il pm Gilberto Ganassi non archivia e il 2 maggio 2018 la Usai si vede notificare la chiusura delle indagini. Capisce che si va verso un processo. Efisio, il fratello di Agnese, mi racconta che lui e suo fratello avevano sempre cercato di proteggerla dall’iter giudiziario: “Ci occupavano noi delle questioni legali per tenerla fuori, eravamo sicuri che avrebbero archiviato, ci sembrava tutto così sciatto, campato in aria. Purtroppo quella notifica è arrivata nelle sue mani e lei non ha più sopportato le accuse”. Il 6 maggio del 2018, quattro giorni dopo, Agnese si chiude in un piccolo bagno che dà su un cortile dove c’è la sua casa. Prova a far arrivare il fumo della marmitta di uno scooter tramite un tubo nel bagno ma non ci riesce. Allora usa un braciere, lo accende, lascia che l’aria si consumi e muore. Scrive “Sono innocente” in alcuni biglietti che ha in tasca. La troveranno suo fratello e suo nipote, distesa per terra. Uccisa dal fumo. Quello denso, irrespirabile, del sospetto. “In un biglietto aveva chiesto che ai suoi funerali non ci fosse nessuno a parte la famiglia. Invece era pieno di gente, tutti sapevano che era innocente”, mi dice il fratello Efisio, con un filo di voce.

"STO VIVENDO UN INFERNO". Anticipiamo ampi stralci della storia di copertina del nuovo numero di Panorama, da oggi in edicola. Stefania racconta che gli assistenti sociali di Reggio Emilia sono entrati in casa sua con l’inganno, portando via sua figlia. A cento giorni di distanza, ancora non ha notizie della sua bambina. Articolo di Terry Marocco pubblicato da “la Verità” il 31 luglio 2019. Alle otto e mezzo del mattino Stefania sente bussare forte alla porta di casa. Una strada tranquilla vicino al centro di Reggio Emilia. Casette a schiera ordinate con un pezzo di giardino sul retro. Vive lì da tempo con la madre, il compagno Marco e la loro bambina di due anni. E i cani, un chihuahua e uno schnauzer nano. Quella mattina, è il 3 aprile di quest'anno, è sola a casa. Si avvicina alla porta. Un uomo e una donna le dicono che sono dell' Enpa, l'Ente nazionale per la protezione degli animali, e sono lì per una segnalazione, i cani abbaiavano. Dopo un furto Marco ha installato le telecamere all' esterno e lei vede che sta arrivando ancora altra gente. Le tolgono la corrente. È spaventata, chiama la madre, che si precipita a casa e riaccende la luce, così le telecamere tornano in funzione. Ma ora ci sono anche dei poliziotti.

Entrano in casa. Stefania lascia la bambina nel suo lettino al piano superiore e cerca di capire cosa vogliono. Le chiedono i libretti dei cani. Mentre li cerca in salotto, qualcuno sale velocemente le scale. Non riesce a vederli, si sono messi in modo da coprirle la visuale, ma dopo poco sente la bambina piangere. Quando corre a vedere cosa succede, sua figlia è tra le braccia di uno sconosciuto che la sta portando via, tenendola come un sacco. «Aveva gli occhi sbarrati, gridava mamma. Ho corso per riprenderla con tutte le mie forze. L' avevo quasi raggiunta. Loro sono stati più veloci, l' hanno sbattuta dentro una macchina e sono partiti. Sono rimasta lì a gridare e a piangere». Stefania e Marco, da quando gli assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia hanno portato via la bimba, non hanno più avuto sue notizie. «Dal rapimento sono passati più di cento giorni e io non so come sta, se mangia, riesce a dormire, se ha paura. Dove l' hanno portata, se è in una comunità o affidata a un' altra famiglia. Non abbiamo notizie. Il dolore è immenso. Sto attraversando l' inferno», racconta la mamma seduta al tavolo del salotto. []Stefania ha 34 anni, è geometra, poi due anni di Scienze dell' educazione. []Marco ha 50 anni, è un istruttore subacqueo, ha sempre lavorato, è un uomo pacato, silenzioso. Era il vicino di casa, stessa villetta, la porta accanto. Un amore nato cinque anni fa. Lei è bella anche con il viso sfatto dalle lacrime, i capelli troppo tinti di biondo e i molti tatuaggi. Sul braccio ha scritto «Gesù è con me». «La fede mi fa andare avanti». []Per capire la storia di Stefania bisogna tornare indietro di oltre dieci anni. «Reggio Emilia è una città che rovina i giovani. Quando i miei si separarono avevo vent' anni. Iniziai a fumare l' eroina. [] Mi diede una dipendenza immediata e dopo poco capii che dovevo rivolgermi al Sert e smettere». Per lei invece inizia un calvario fatto di metadone, astinenze, fino all' incontro con l' uomo sbagliato. [] Nasce una bambina, che vive con lei fino a due anni e sette mesi, poi quando è costretta a tornare in comunità per smettere il Subutex (un farmaco per il trattamento delle dipendenze da oppiacei, ndr), interviene la zia. Ha conoscenze tra le assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia. La nipote, secondo lei, non può prendersi cura della figlia, è una tossica e soffre di disturbi psicologici. E così la bambina viene collocata presso la zia. Stefania ha sempre avuto un pessimo rapporto con la sorella della madre. «Allora ero giovane, senza soldi per un avvocato, ho dovuto soggiacere a questa situazione».

L' inizio del dramma. Ma capisce che non vuole continuare così. Conosce Marco e con il suo aiuto esce dalla droga. Non tocca più niente e dopo due anni insieme decidono di avere un figlio. Nel 2016 rimane incinta. Durante la gravidanza non riesce a dormire, così va al Pronto soccorso per chiedere aiuto. L'ospedale allerta sia il reparto di psichiatria che gli assistenti sociali. Ed è da qui che ha inizio il suo calvario. Al Polo Est la conoscono e intervengono a gamba tesa chiedendo all' ospedale di chiamarli quando Stefania sarà ricoverata per il parto. «Appena partorito mi fanno i test tossicologici, sia io che la bambina risultiamo negative. Non basta ancora. Mi trattengono e mi obbligano a ricevere a casa le educatrici per tre mesi []». Stefania collabora, tutto sembra andare bene. La bambina è bellissima, allegra, sana, solare. «Anche se non lo dicevo a nessuno, sapevo che era iniziato un altro incubo e che, come per la mia prima figlia, avrei avuto gli assistenti sociali addosso». []Ma Stefania è cambiata e davanti alla richiesta di andare in comunità con la piccola si rifiuta categoricamente. «Non mi drogavo più da anni». Spiega l'avvocato Francesco Miraglia, che con il collega Giulio Amandola si occupa del caso: «È un sistema che vige in tutta Italia, lo denunciai anni fa. C' è un mercato sulla pelle dei bambini. Nel 2010 le cifre erano sconvolgenti: un giro d' affari annuo di un miliardo e 700 milioni. Oggi è ancora aumentato». [] Il 22 ottobre 2018 il Tribunale dei minori di Bologna emette un decreto provvisorio che, come dice l' avvocato Amandola, sarebbe basato su falsità assolute: «La tossicodipendenza della signora, superata da anni, i litigi della coppia, cose che accadono in ogni convivenza. E l' assurdità più grande: dire che vivono in uno scantinato». E con quel decreto la sua bambina le è stata portata via. Stefania lotta come una leonessa, denuncia, produce ogni sorta di prova [].La settimana scorsa c' è stata l' udienza. Molte sarebbero le discrepanze e così i giudici hanno chiesto l' intervento di un consulente tecnico d' ufficio. Il 20 agosto si tornerà in tribunale. Ancora troppe notti da affrontare.

«Ho diritto a essere una mamma [...]».

Bibbiano. "Così mi hanno portato via mia figlia". Marco e Stefania raccontano la storia della loro figlia, portata via da casa 5 mesi fa da Polizia ed assistenti sociali, e di una vita da allora nell'inferno. Terry Marocco il 6 agosto 2019 su Panorama. Alle otto e mezzo del mattino Stefania sente bussare forte alla porta di casa. Una strada tranquilla vicino al centro di Reggio Emilia. Casette a schiera ordinate con un pezzo di giardino sul retro. Vive lì da tempo con la madre, il compagno Marco e la loro bambina di due anni. E i cani, un chihuahua e uno schnauzer nano. Quella mattina, è il 3 aprile di quest’anno, è sola a casa. Si avvicina alla porta. Un uomo e una donna le dicono che sono dell’Enpa, l’Ente nazionale per la protezione degli animali, e sono lì per una segnalazione, i cani abbaiavano. Dopo un furto Marco ha installato le telecamere all’esterno e lei vede che sta arrivando ancora altra gente. Le tolgono la corrente. È spaventata, chiama la madre, che si precipita a casa e riaccende la luce, così le telecamere tornano in funzione. Ma ora ci sono anche dei poliziotti. Entrano in casa. Stefania lascia la bambina nel suo lettino al piano superiore e cerca di capire cosa vogliono. Le chiedono i libretti dei cani. Mentre li cerca in salotto, qualcuno sale velocemente le scale. Non riesce a vederli, si sono messi in modo da coprirle la visuale, ma dopo poco sente la bambina piangere. Quando corre a vedere cosa succede, sua figlia è tra le braccia di uno sconosciuto che la sta portando via, tenendola come un sacco. «Aveva gli occhi sbarrati, gridava mamma. Ho corso per riprenderla con tutte le mie forze. L’avevo quasi raggiunta. Loro sono stati più veloci, l’hanno sbattuta dentro una macchina e sono partiti. Sono rimasta lì a gridare e a piangere». Stefania e Marco, da quando gli assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia hanno portato via la bimba, non hanno più avuto sue notizie. «Dal rapimento sono passati più di cento giorni e io non so come sta, se mangia, riesce a dormire, se ha paura. Dove l’hanno portata, se è in una comunità o affidata a un’altra famiglia. Non abbiamo notizie. Il dolore è immenso. Sto attraversando l’inferno», racconta la mamma seduta al tavolo del salotto. La casa è pulita, arredata con semplicità, le vetrinette con i bicchieri, foto di famiglia e un gigantesco elefante di pezza abbandonato sul divano. Accanto al tavolo c’è il seggiolone con tre bavaglioli e i giochini appoggiati sul piano. «Abbiamo ritirato molti dei suoi peluche, non riuscivamo più a guardarli». Al piano superiore, nella camera dove dormivano tutti e tre, Stefania apre i cassetti dell’armadio blu. Prende in mano i piccoli golfini, lavati e stirati con cura. «L’hanno portata via in pigiama senza neanche vestirla». Accanto c’è la camera della nonna e poi la stanza dei giochi: un gufo, la lavagnetta con i colori e una mini Vespa rosa. «È un regalo di compleanno. Il 29 marzo aveva compiuto due anni. Non l’ha mai usata». Si scende nel salotto che dà su un giardinetto, scivolo, altalene, il girello. Sembrano irreali, come in una foto di Luigi Ghirri, appoggiati sull’erba ad aspettare il ritorno della bambina. «Avevamo fatto una gita lungo il torrente Crostolo, lei trovò un coniglietto e lo teneva qui a casa. È morto la settimana dopo che è stata portata via». Stefania ha 34 anni, è geometra, poi due anni di Scienze dell’educazione. «Ero troppo timida, non ce la facevo a continuare». Marco ha 50 anni, è un istruttore subacqueo, ha sempre lavorato, è un uomo pacato, silenzioso. Era il vicino di casa, stessa villetta, la porta accanto. Un amore nato cinque anni fa. Lei è bella anche con il viso sfatto dalle lacrime, i capelli troppo tinti di biondo e i molti tatuaggi. Sul braccio ha scritto «Gesù è con me». «La fede mi fa andare avanti». Vicino al letto si è costruita un piccolo altare con Santa Rita e Sant’Antonio, candele e disegni di angeli. Sul comodino i Decreti di Saint Germain. «Quando cala la notte mi ritrovo qui da sola. Marco spesso resta al piano di sotto. Io guardo il lettino vuoto, ai piedi del nostro. Il cuscinetto a forma di mucca da cui non si separava mai. Dormiva solo con quello. E penso che ho perso l’amore più grande della mia vita. Ho vissuto solo per crescerla, per stare con lei ogni attimo. Era un rapporto totalizzante, incondizionato. E ora non c’è più. Di giorno mi alzo e combatto, ma nel buio sale una tristezza profonda, il dolore mi attanaglia dentro. Resto sveglia, in silenzio. Medito, prego». Per capire la storia di Stefania bisogna tornare indietro di oltre dieci anni. «Reggio Emilia è una città che rovina i giovani. Quando i miei si separarono avevo vent’anni. Iniziai a fumare l’eroina. Non sapevo neanche bene cosa fosse, quella stagnola scaldata riempiva il vuoto che avevo nel cuore. Mi diede una dipendenza immediata e dopo poco capii che dovevo rivolgermi al Sert e smettere». Per lei invece inizia un calvario fatto di metadone, astinenze, fino all’incontro con l’uomo sbagliato. «Lo conobbi in una clinica a Parma, dove ero andata per disintossicarmi, allora lo chiamai amore, non era così. Ci sposammo appena usciti, rimasi incinta, ma all’inizio della gravidanza lo lasciai». Nasce una bambina, che vive con lei fino a due anni e sette mesi, poi quando è costretta a tornare in comunità per smettere il Subutex (un farmaco per il trattamento delle dipendenze da oppiacei, ndr), interviene la zia. Ha conoscenze tra le assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia. La nipote, secondo lei, non può prendersi cura della figlia, è una tossica e soffre di disturbi psicologici. E così la bambina viene collocata presso la zia. Stefania ha sempre avuto un pessimo rapporto con la sorella della madre. «Allora ero giovane, senza soldi per un avvocato, ho dovuto soggiacere a questa situazione». Ma capisce che non vuole continuare così. Conosce Marco e con il suo aiuto esce dalla droga. Non tocca più niente e dopo due anni insieme decidono di avere un figlio. Nel 2016 rimane incinta. Durante la gravidanza non riesce a dormire, così va al Pronto soccorso per chiedere aiuto. L’ospedale allerta sia il reparto di psichiatria che gli assistenti sociali. Ed è da qui che ha inizio il suo calvario. Al Polo Est la conoscono e intervengono a gamba tesa chiedendo all’ospedale di chiamarli quando Stefania sarà ricoverata per il parto. «Appena partorito mi fanno i test tossicologici, sia io che la bambina risultiamo negative. Non basta ancora. Mi trattengono e mi obbligano a ricevere a casa le educatrici per tre mesi. Ripensandoci oggi è come se cercassero dei bambini “predestinati” a essere tolti alle madri». Stefania collabora, tutto sembra andare bene. La bambina è bellissima, allegra, sana, solare. «Anche se non lo dicevo a nessuno, sapevo che era iniziato un altro incubo e che, come per la mia prima figlia, avrei avuto gli assistenti sociali addosso». Ma Stefania è cambiata e davanti alla richiesta di andare in comunità con la piccola si rifiuta categoricamente. «Non mi drogavo più da anni, c’è un padre, una casa dignitosa, perché non avrei dovuto crescerla lì? Loro insistono. Una mamma con un bambino collocati in una comunità significano molti soldi pubblici per la struttura che li riceve». Spiega l’avvocato Francesco Miraglia, che con il collega Giulio Amandola si occupa del caso: «È un sistema che vige in tutta Italia, lo denunciai anni fa. C’è un mercato sulla pelle dei bambini. Nel 2010 le cifre erano sconvolgenti: un giro d’affari annuo di un miliardo e 700 milioni. Oggi è ancora aumentato». Stefania parla e piange, sfoglia le foto e i video sul cellulare: «Cerchiamo di rimuovere i ricordi felici. Per tirare avanti». Il 22 ottobre 2018 il Tribunale dei minori di Bologna emette un decreto provvisorio che, come dice l’avvocato Amandola, sarebbe basato su falsità assolute: «La tossicodipendenza della signora, superata da anni, i litigi della coppia, cose che accadono in ogni convivenza. E l’assurdità più grande: dire che vivono in uno scantinato». E con quel decreto la sua bambina le è stata portata via. Stefania lotta come una leonessa, denuncia, produce ogni sorta di prova: «A volte era lei, così piccola, a darmi forza, mi vedeva piangere e veniva a prendermi la mano, me la stringeva come se capisse il mio terrore di perderla. È più matura della sua età. Ora spero solo che sia entrata in un suo mondo irreale, che non si renda conto di cosa le hanno fatto». La settimana scorsa c’è stata l’udienza. Molte sarebbero le discrepanze e così i giudici hanno chiesto l’intervento di un consulente tecnico d’ufficio. Il 20 agosto si tornerà in tribunale. Ancora troppe notti da affrontare. «Resisto al mio dolore. Mi aggrappo ai sogni. Stiamo per traslocare in una casa grande nel verde. Lì vorrei crescere le mie figlie. Ho diritto a essere una mamma. Non ho fatto male a nessuno». 

Bibbiano, parla una mamma. C'è ancora la terribile inchiesta sugli affidi a Bibbiano al centro del numero di Panorama in edicola dal 31 luglio, con un'intervista esclusiva e drammatica. Panorama 30 luglio 2019. Panorama ha incontrato una delle mamme a cui è stata sottratta la figlia a Bibbiano; una di quelle storie presenti nell'inchiesta "Angeli & Demoni" che ha portato alla luce un sistema che avrebbe favorito affidi ed adozioni di bambini che sarebbero stati tolti in maniera illegale ai legittimi genitori.

Caso Bibbiano-Affidi. Così mi hanno rubato mia figlia. Stefania è una di quelle mamma a cui i servizi sociali di Reggio Emilia hanno portato via con l’inganno la bimba. Da oltre 100 giorni questa mamma non ha più notizie di sua figlia. E adesso aspetta giustizia.

Affidi Facili. Dopo i fatti di Bibbiano, Panorama ha fatto un giro fra i tantissimi annunci di associazioni che, attraverso Facebook e i social network, cercano famiglia affidatarie per minori in difficoltà. Scoprendo, in una faccenda così delicata e complessa, una superficialità e una leggerezza davvero sconcertanti.

Bibbiano, alla onlus dell'amica di Claudio Foti una pioggia di soldi pubblici. Da Veleno a Bibbiano, a muovere le fila del giro di affari illecito a Reggio Emilia sono sempre gli stessi individui. E la storia di Sara ne è la prova. Costanza Tosi, Venerdì 02/08/2019, su Il Giornale.  Sara nasce a Mirandola e - come racconta LaVerità - nel 2011 viene affidata ai servizi sociali dell’Unione Comuni modenesi area nord. Dopo un percorso di due anni sotto il controllo degli psicologi, la bambina, nel 2013, viene affidata ad una comunità. A prendere la decisione, con tanto di firma sull’atto dirigenziale, è Monica Benati, responsabile, al tempo, dei servizi sociali della zona. La signora Benati non è una nuova recluta del sistema degli affidi. Il suo nome infatti comparve già tra quelli dei protagonisti del llibro "Veleno" sui Diavoli della Bassa di Pablo Trincia. Monica Benati lavorava assieme a Valeria Donati, psicologa che manovrava le menti i minori in terapia fino a fargli raccontare di abusi subiti, che poi si rivelarono mai avvenuti. Eppure, la donna, ha continuato a lavorare e a ricoprire il suo ruolo, fino al 2016. A muovere le fila del giro di affari illecito a Reggio Emilia sarebbero sempre gli stessi individui. E la storia della piccola Sara ne è la prova. La comunità in cui Sara viene accolta si chiama Madamadorè e a gestirla vi è una signora di nome Romina Sani Brenelli assieme a suo marito. Ma chi sono i due responsabili? Romina Sani è una stretta conoscente di Claudio Foti. La signora sarebbe stata allieva del suo master in “Gestione e sviluppo delle risorse emotive”. Come lei stessa scrive sul quotidiano online diretto da Foti. Ma c’è di più. Il nome della Sani compare anche tra quelli dei dirigenti dell’Associazione “Rompere il silenzio. La voce dei bambini”, proprio accanto a quelli di Claudio Foti e Nadia Bolognini entrambe indagati nell' inchiesta “Angeli e Demoni”. E così, sebbene nello scandalo emerso con l’inchiesta dei Diavoli della Bassa i servizi sociali di Modena avessero già collaborato con la Onlus dello psichiatra Claudio Foti, a distanza di anni i rapporti continuano ad essere presenti. Tanto che decidono di affidare una bambina ad una comunità gestita da un’allieva dello stesso Foti. Ma i legami con i “diavoli” di Veleno non finiscono qui. Perché l'Unione dei Comuni modenesi area nord, a partire dal 2008, entra persino a far parte del Cismai (sempre coinvolto nel caso dei Diavoli della Bassa modenese), e rimane tra i soci fino al 2018. Ad ogni modo per Sara, a settembre del 2016, arriva un altro provvedimento. Stando al racconto de LaVerità, la responsabile del centro Romina Sani invia una lettera ai servizi sociali. Nella missiva asserisce che la piccola debba essere seguita “costantemente da un centro specializzato” a seguito di una forte crisi. E poi aggiunge: “Come già proposto e discusso col servizio sociale, ci rendiamo disponibili a compartecipare nella realizzazione di un progetto di psicoterapia, in collaborazione con il Centro Hansel e Gretel di Torino, col quale da anni collaboriamo”. Dunque, nessuno scandalo negli anni prima era riuscito a bloccare la forte collaborazione tra gli enti e, di fatto, Sara viene mandata a Bibbiano, al centro «La Cura» gestito da Hansel e Gretel, e finito tra le pagine dell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia perché definito il palcoscenico dei lavaggi del cervello ai bambini strappati dalle famiglie. Ma come poteva non essere così? L’Unione dei Comuni modenesi del progetto “La Cura”era persino partner al convegno “Rinascere dal trauma”, del 2018. A parlare c’erano Nadia Bolognini, Claudio Foti, l’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (tutti finiti nel registro degli indagati), il presidente del Cismai Gloria Soavi e, di nuovo, Romina Sani, dirigente della comunità alla quale era stata affidata Sara. Da quel giorno per la piccola inizia l’inferno. La bimba, dopo una serie di incontri con la psicologa Nadia Bolognini, a distanza di sei anni dall’affido ai servizi sociali, inizia a raccontare di atrocità che mai aveva svelato. “Abusi sessuali seriali da parte dei genitori” di cui lei e i suoi fratelli sarebbero stati vittime. Ma cosa era successo in quei colloqui? Sara viene trattata con le stimolazioni del metodo Emdr e, secondo la Procura di Reggio Emilia, la terapia potrebbe aver creato, nella mente della bambina, falsi ricordi. Tutto d’un tratto la piccola è assalita da forti crisi e i racconti che fuoriescono, uno dietro l’altro, sono storie dell’orrore con particolari agghiaccianti. Così, tutto d’un tratto. Tutto, dopo il trasferimento a Bibbiano. Quando, psicologi e psichiatri della Ausl che avevano seguito la bambina dal 2011 al 2018 non avevano mai accennato a violenze sessuali. Una storia che da lontano arriva fino ai giorni nostri e condanna Sara, ormai ragazza, a una vita a fianco di coloro che, per anni, hanno manipolato le menti dei più piccoli e lucrato sulle famiglie fragili. Il 3 luglio 2019, nonostante fosse da tempo scoppiato lo scandalo di Bibbiano, all'ombra delle protestaste dei genitori in piazza e tra il clamore dei media, i servizi sociali modenesi affidano, per l’ennesima volta, Sara alla comunità Madamadorè. Affidamento per il quale l’associazione ha incassato 269.354 euro dall'Unione dei Comuni modenesi.

Riceviamo e pubblichiamo: Il Consiglio direttivo del Cismai, Coordinamento italiano Servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia, riservandosi di difendere nelle sedi opportune la propria onorabilità, ribadisce la completa estraneità ai fatti riportati e precisa ancora una volta di non aver alcun procedimento in corso e tantomeno di essere mai stato oggetto di indagini della magistratura. Il consiglio direttivo del CISMAI.

Vuoi un bambino in affido? Vai su facebook. Sono tantissimi gli annunci di associazioni che cercano famiglia per i loro bambini attraverso i social con una superficialità preoccupante. Maurizio Tortorella il 9 agosto 2019 su Panorama. Gli annunci occhieggiano dalle pagine di Facebook. All’inizio commuovono. Poi sconcertano, lasciano esterrefatti. Alla fine indignano. «Dario, che ha cinque anni, cerca una famiglia affidataria che lo accolga…». «Cerchiamo una famiglia che accolga nella propria casa Gioele, un ragazzino di 12 anni e mezzo, desideroso di imparare e fare esperienze nuove…». «Francesca e Michael vivono da due anni in comunità (…) cercasi famiglia nell’area metropolitana di Milano, o comuni limitrofi, disponibile ad accoglierli….». Nei giorni dello scandalo di Bibbiano, il comune emiliano dove la magistratura sospetta un osceno mercato di bambini strappati illecitamente alle loro famiglie, si deve proprio leggerli due, tre, quattro volte questi messaggi in bottiglia lanciati nel mare di Internet, per convincersi che sono veri. Ma è così. E su Facebook sono tanti, più di quanti sia possibile immaginare. A pubblicarli, con insistenza, assiduità e frequenza, sono associazioni del volontariato e organizzazioni contro l’abbandono minorile. Tutte hanno qualche collegamento con i servizi sociali e gli stessi Tribunali dei minori che gestiscono la delicata materia dell’affido familiare. Perché altrimenti non si capirebbe come possano essere in possesso di casi dettagliati, con nomi, età e caratteristiche dei bambini da collocare. Il contatto con le istituzioni è certificato, a volte, dal fatto che gli annunci terminano con l’invito a rivolgersi alle cancellerie dei tribunali. Non è certo un male che ci siano associazioni che fanno di tutto per trovare una famiglia ai bambini sottratti dai servizi sociali ai loro nuclei familiari. Anzi, è uno sforzo meritorio. L’affido familiare, infatti, è preferibile al trasferimento del minore in una struttura d’accoglienza: si suppone che il calore di una famiglia, per quanto temporanea, sia da preferire a un’esperienza generalmente più fredda e traumatica come l’inserimento in una comunità. Lo stesso Andrea Carletti, il sindaco di Bibbiano che il 27 giugno è finito agli arresti domiciliari perché accusato di abuso d’ufficio e di falso ideologico nell’inchiesta «Angeli e Demoni», tre anni fa vantava il fatto che il suo comune puntasse proprio sugli affidi: «Abbiamo cercato di ricorrere meno alle comunità, che pure sono fondamentali ma dove per seguire un bambino servono 50 mila euro l’anno. Gli affidi costano molto meno». È vero: un bimbo piazzato in casa famiglia costa agli enti locali da 70 a 400 euro al giorno, mentre le famiglie affidatarie ottengono rimborsi da 400 a 700 euro mensili per minore. Le associazioni, quindi, svolgono un compito utile anche per prevenire il business improprio delle case famiglia. Quello che sconcerta, però, è il metodo, e soprattutto il mezzo. È possibile che i 29 Tribunali minorili e i servizi sociali degli 8 mila comuni italiani si debbano ridurre a usare Facebook, per trovare qualcuno cui affidare i bimbi sottratti alle famiglie d’origine, piccoli che si presume siano stati maltrattati o in difficoltà, o giovanissimi immigrati senza padre né madre? La magistratura minorile, soprattutto, non ha un bacino di soggetti a disposizione, già verificati e controllati, cui rivolgersi? Non ci sono albi, elenchi? E come vengono valutati i soggetti che si propongono per un affido familiare? Dato che alcuni annunci su Facebook parlano di un «affido urgente», il sospetto è che in certi casi le pratiche siano accelerate. In quei casi i controlli sono forse semplificati? È così? Se è così, è un sistema sgangherato, che non può che fare danni e creare abusi. Cristina Franceschini, l’avvocato veronese che cinque anni fa ha fondato la onlus «Finalmente liberi» contro l’eccessiva facilità degli allontanamenti dei minori dalle rispettive famiglie, è giustamente scandalizzata: «Facebook è un sistema improprio, sbagliato. Ho scoperto forum dove c’è chi si propone come affidatario “per qualche settimana”; dove coppie senza figli cercano bambini “per farci compagnia”. L’affido familiare non è questo: è una cosa seria, difficile, impegnativa. Bisogna sacrificarsi per bambini traumatizzati, con problemi gravi». Quel che turba, in effetti, è proprio la superficialità del mezzo. Certi annunci per l’affido ricordano quelli utilizzati per trovare una casa a randagi e cucciolate. Avete presente, no? «Mi sono appena nati otto gattini, carini e tutti sani come pesci. Chi li vuole?». E infatti anche le bacheche sugli affidi animali sono su Facebook, soltanto un po’ più in là. La logica è parallela, il paradigma è simile, si sovrappone. È un confronto che fa male al cuore, ma viene spontaneo. E non va scordato che Facebook è il bosco informatico infestato da lupi cattivi, pedofili e maniaci. Non si può usare un social network con tanta superficialità. Eppure le schede dei bambini sono lì, a centinaia. E commuovono, e sconcertano. «Help, mi volete in affido?» grida Miriam, cinque anni, sulla pagina Facebook del gruppo Cerco famiglia, dove viene descritta così: «Benvoluta sia dalle insegnanti che dagli altri bambini grazie al suo atteggiamento timido e dolce». Sulla pagina Facebook di Cicogne, cavoli e telefoni, una comunità che si propone di «fare conoscere l’affido familiare in modo semplice, parlando di vissuti, di emozioni e di momenti di vita vera», gli annunci sono tanti. «Francesca e Michael vivono da due anni in comunità con la madre», si legge in un post. In poche righe sono elencate le caratteristiche dei due bimbi, poi arriva l’appello: «Cercasi una famiglia nell’area metropolitana di Milano, o comuni limitrofi, disponibile ad accoglierli offrendo loro affetto, stabilità e serenità (…). Per saperne di più, contatta…». Seguono telefoni ed email del Servizio affido familiare di Azienda comuni insieme, il consorzio di alcuni municipi lombardi. A leggere, qua e là, viene da pensare a che cosa debba passare per la mente di un padre o di una madre che riconoscono un post che parla del proprio figlio. O che riconosca sé stesso nella descrizione di «genitore fragile» o «inadeguato». Un altro appello, del 15 luglio: «Dario è un bambino dolce e in cerca di riferimenti affettivi costanti e calorosi (…). Per Dario stiamo cercando una famiglia con figli che lo accolga a tempo pieno, accompagnandolo e stimolandolo nel suo percorso di crescita». Seguono numeri ed email del Servizio per l’affido familiare del Legnanese. L’uso di Facebook, va detto, non è nuovo. Sul Forum dell’Aibi, l’Associazione amici dei bambini, ci sono annunci antichi. Questo è del 2012: «Il Tribunale dei minori di Milano cerca una coppia che possa accogliere Anna, una tredicenne originaria dell’Europa dell’Est, in Italia da tre anni e orfana di entrambi i genitori (…). Anna desidera fortemente una famiglia che l’accolga, che la ami e che la sappia aiutare a superare il dolore della perdita dei suoi familiari. Chi fosse interessato è pregato di inviare un fax alla Cancelleria adozioni del Tdm di Milano, all’attenzione della dott.ssa…». «C’è un altro problema» suggerisce l’avvocato Franceschini: «Analizzando i forum, spesso si avverte l’idea o il suggerimento che l’affido possa essere la via “veloce” per arrivare a un’adozione strisciante, senza i giusti controlli delle adozioni vere. La stessa Commissione parlamentare per l’infanzia due anni fa disse che troppi affidi erano senza fine». Così si creano sistemi malati, conclude l’avvocato, con bambini che potrebbero e dovrebbero tornare a casa loro, invece finiscono per sempre altrove. È un’anomalia grave. Un altro scandalo italiano. 

L'incubo di una madre: "E se ci fosse un metodo Bibbiano?" La madre chiede aiuto agli assistenti sociali, dopo che il padre ha abbandonato in strada sua figlia, ma la bambina viene affidata ai servizi sociali e poi spedita in una casa famiglia. Costanza Tosi, Domenica 11/08/2019 su Il Giornale. “Volevo salvare mia figlia e invece me l’hanno portata via”. Sara è ancora incredula quando, al telefono, ci racconta di cosa le è successo da quando decise di chiedere aiuto ai servizi sociali, dopo che sua figlia era stata abbandonata in strada dal padre. “Io cercavo aiuto e invece sono finita in una trappola infernale”. La storia di Sara inizia circa nove anni fa. Quando lei, madre di Giulia (nome di fantasia ndr), decide di divorziare da suo marito, con il quale viveva a Roma. Inizialmente, tutto procede bene e i due genitori riescono a gestire la bambina con serenità, mantenendo dei buoni rapporti. “Il mio ex marito mi chiamava spesso anche per chiedermi dei consigli, eravamo veramente diventati amici e confidenti”, racconta Sara. Fino a quando il padre conosce un’altra donna, che diventa la sua compagna. “Da quel giorno ha iniziato a non curarsi più della bambina, non la vedeva quasi mai, l’ha completamente abbandonata”. Tanto che, una sera, il papà arriva persino ad abbandonare in strada la piccola di appena appena 8 anni. “Io lo scoprii solo il giorno seguente, quando andai a prendere mi figlia a scuola e lei, in lacrime, iniziò a raccontarmi cosa le era successo”, racconta la mamma. Sara è preoccupata e vedere sua figlia stare male la spinge a chiedere aiuto. “Decisi di andare dai carabinieri e quando spiegai cosa era successo mi dissero che dovevo denunciare tutto ai servizi sociali.” Da quel giorno per Sara inizia la battaglia. Una lotta estenuante, fatta di pianti e sofferenze, di avvocati e tribunali per riuscire a rivedere sua figlia. I servizi sociali si presentano un paio di volte a casa del padre e, dopo dei brevissimi incontri, richiedono un provvedimento d’urgenza. La bambina viene affidata a loro. Immediatamente. Una decisione basata su motivazioni risultate poi false. Secondo la relazione della CTU (consulenza tecnica d’ufficio): “Il padre non è persona all’altezza del compito di prendere in carico da solo la figlia”. Mentre per la madre nel decreto si evidenzia “una sospetta Sindrome di Munchhausen per procura”. Secondo i servizi sociali la mamma soffriva di una sindrome che la spingeva a fingere di stare male per attirare l’attenzione su di sé. Sospetto che viene subito smentito, quando Sara decide di sottoporsi a tutte le analisi del caso per eliminare i sospetti. “Io sono affetta da Fibromialgia. Ho dolori in tutto il corpo e ho fatto la CTU sotto morfina. Ma gli assistenti sociali lo sapevano…”, racconta Sara. Dopo gli accertamenti Giulia viene trasferita dalla madre che, nonostante avesse dato prova di non soffrire di nessuna patologia psicologica, non ottiene l’affido della sua bambina, ancora a carico dei servizi sociali di Roma. Intanto la piccola vive con la mamma e le due vanno d’amore e d’accordo. Poi, la madre decide di cercare di riavvicinare Giulia anche al suo papà. “La forzo a riallacciare rapporti con il padre dal momento che lui chiude la sua relazione, anche indotto dalla CTU, che gli fa capire che avevano individuato in questa donna, un deterrente per vedere la figlia", spiega mamma Sara. Loro cominciano a rivedersi. La bambina adesso ha 12 anni. Passano un po’ di mesi e inizia ad avere atteggiamenti aggressivi con la mamma. “Io inizialmente cercavo di comprenderla, nella mia testa era tutto normale. Davo la colpa all’adolescenza”, racconta Sara. Fino a quando la situazione non inizia a peggiorare. Giulia smette di prendersi cura di se stessa. Non si lava più, non esce, non vuole neanche andare a scuola e inizia a rinchiudersi per ore nella sua stanza, dove arriva persino a tagliarsi e farsi del male da sola. “Un giorno vidi che aveva dei tagli sui polsi - racconta mamma Sara - ero distrutta dal dolore”. La madre segnala la situazione agli assistenti sociali, facendo presente le problematiche. Ma da loro nessuna risposta. Né, tantomeno, un accenno di collaborazione tanto che la psicologa che segue Giulia arriverà persino chiedere di cessare la sedute “vista la scarsa interazione e collaborazione da parte dei servizi in questa situazione”. La situazione sembra essere irrecuperabile e la madre non sa più a chi chiedere aiuto. “Non sapevo che altro fare. Avevo mandato continue segnalazioni ai servizi sociali, ma nessuno riusciva a fare niente. Mai una risposta. Il padre non collaborava e da quando la bambina aveva riiniziato a vederlo, con me non c’era più dialogo.” Fino a quando, un giorno, Giulia cade nell’ennesima crisi, dove dice di non voler più vedere né la madre né il padre. Ma quando si rende conto che la cosa non è possibile, decide di andare a vivere con il papà. Perché, come ammetterà lui stesso agli psicologi, a casa non c’è mai. “Non ci sono mai; non posso occuparmene; non credo alle regole; sono un mollaccione e Giulia sa che da me può ottenere tutto quello che vuole”, aveva dichiarato il papà alla psicologa, come si legge nell'esposto di Sara contro i servizi sociali. Dopo la decisione di Giulia, il padre va a prenderla a casa e da lì, per un anno, non la farà più vedere alla madre, negandole persino gran parte delle telefonate con continue scuse. “Mi diceva che mia figlia non voleva parlare con me al telefono, oppure che l’aveva chiamata ma era impegnata. In realtà una sera sentii dall’altra parte della cornetta mi figlia gridare contro il padre: “sei tu che non vuoi che io le parli”. Lui voleva che lei rompesse tutti i rapporti con me,” ci spiega la madre.

Sara vuole vedere sua figlia e continua a denunciare tutto ai servizi sociali. Ancora una volta, nessuno prende provvedimenti, nonostante l’autolesionismo della 13enne si ripresenti più volte e Giulia rischi di essere bocciata per le assenze a scuola. Ma, dal padre, nessuno va a verificare la situazione. Sara, non si arrende. “Decisi di fare un nuovo esposto al giudice che convocò gli assistenti sociali per comunicare che sarebbero dovuti intervenire.” Ma questo non succederà. Dunque, giudice ed Assistenti Sociali vengono informati del cambio di collocazione, eppure violano lo stesso precedente decreto che ordinava la madre come collocataria e il padre come persona non “all’altezza del compito di prendere in carico la figlia da solo”. Fino a quando Giulia, ormai 14enne, viene portata in una casa famiglia. I servizi sociali intervengono per il collocamento presso una struttura dichiarando che la richiesta è partita proprio dalla minore. Ma Sara fa fatica crederci: “Mia figlia non sapeva neanche che cosa fosse una casa famiglia…”. Sara non vede sua figlia da ottobre. “L’ho sentita solo due volte per SMS. Tecnicamente io potrei vederla, anche da decreto sono previsti incontri che gli assistenti sociali dovrebbero organizzare. A livello pratico, servizi sociali e casa famiglia, dicono che è mia figlia che non vuole vedermi. Ma nessuno mi ha mai detto il perchè, nè mi ha fornito maggiori spiegazioni”. Eppure gli ultimi incontri tra Giulia e la madre, quando ancora viveva dal padre, erano andati bene. “Era contenta, affettuosa, andava tutto bene inizialmente- racconta la mamma - secondo la psicoterapeuta pare che ci sia un delirio ossessivo poiché mia figlia sosteneva di vedermi ovunque: sotto scuola, casa famiglia.... Ogni giorno. Ma io non c'ero. Idem con i messaggi: a fronte di uno che ne spedivo lei ne vedeva dieci. Io non so cosa le sia stato fatto.” Ogni giorno che passa, per Sara, è un giorno in più lontano da sua figlia. La madre è preoccupata e ha paura che qualcuno voglia far adottare la sua bambina ormai adolescente, invece di cercare di a farla tornare da lei. A maggio di quest’anno è stato redatto un documento che modifica, completamente, le modalità di affidamento nel Lazio, permettendo sia l’affidamento che l’adottabilità di ragazzi anche maggiorenni. Un documento che è stato reso possibile grazie alla collaborazione tra Cismai e Movimento delle Famiglie Affidatarie, lo stesso movimento affidatario che fa capo e ha sede legale nella casa famiglia in cui vive Giulia e che ha, tra le sue partnership, il municipio degli assistenti sociali che si sono occupati del suo caso. Ma non basta. Tre membri dell’associazione delle famiglie affidatarie hanno partecipato ad aventi e convegni sulla tutela dei minori, presieduti dal Cismai e da Claudio Foti, psicoterapeuta a capo della Onlus Hansel e Gretel ora agli arresti domiciliari per l’inchiesta “Angeli e Demoni” sullo scandalo degli affidi. Sara ripete ancora che continuerà a lottare ma, prima di finire la nostra telefonata, non riesce a trattenere quella è che è la sua paura più grande: “E se anche qui ci fosse un “metodo Bibbiano”? ”.

Bibbiano, violenza di Stato su quelle famiglie. Ecco perché Panorama ha deciso di dedicare la copertina ed una grande inchiesta allo scandalo degli affidi. Maurizio Belpietro il 5 agosto 2019 su Panorama. Era il 27 giugno quando, su mandato della Procura di Reggio Emilia, i carabinieri hanno bussato alla porta del sindaco di Bibbiano e a quelle di alcuni assistenti sociali della Val d’Enza, notificando un mandato di custodia cautelare. In principio sembrava la solita storia di abusi d’ufficio, con annessa qualche ruberia. Roba ordinaria insomma, a cui neppure le amministrazioni della placida Emilia potevano sottrarsi. Invece, più ci si addentrava nelle motivazioni che avevano indotto i magistrati a intervenire e ad arrestare amministratori e operatori sociali e più si capiva che questa faccenda era diversa da tutte le altre. Niente tangenti, niente opere pubbliche realizzate con cemento scadente, niente clientelismo in cambio di voti. E allora a Panorama ci siamo chiesti: ma che cos’è questa storia che ha per protagonisti bambini e assistenti sociali? E sin dall’inizio, in redazione, ci siamo resi conto di essere davanti a qualche cosa di orribile: figli sottratti con l’inganno ai legittimi genitori, disegni falsificati per sostenere abusi mai esistiti, relazioni aggravate da fatti inventati, pressioni sui minori affinché dichiarassero ciò che non era accaduto, blitz militari per rapire i bambini. In pratica, l’orrore perpetrato da funzionari dello Stato contro degli innocenti. Già questo era sufficiente per indurci ad approfondire, dedicando all’inchiesta una copertina del vostro settimanale. Così, mentre la maggior parte dei giornali abbandonava al suo destino di cronaca nera l’inchiesta, abbiamo cominciato a scavare, scoprendo che lo scandalo di Bibbiano era la punta dell’iceberg, perché quei dieci bambini sottratti senza motivo ai genitori potevano essere molti di più. A Bologna, dove ha sede il Tribunale dei minori che ha competenza su Reggio Emilia, i magistrati sono al lavoro per riesaminare 70 casi, tutti di figli allontanati con strani pretesti. Alcuni bambini sono già stati restituiti ai propri genitori, altri probabilmente lo saranno. Nel frattempo, però, si è scoperto che il guru di quella scuola di psicoterapia che ha formato molti degli educatori coinvolti nello scandalo di Bibbiano, non soltanto è indagato dai pm di Reggio Emilia, ma è anche stato iscritto nel registro della Procura per maltrattamenti su moglie e figli. C’è di più. Il suo nome, in qualche modo, ricorre in moltissime inchieste di abusi sui minori che nell’arco degli ultimi vent’anni hanno fatto discutere e diviso l’Italia. Da Mirandola a Rignano, da Biella a Milano fino a Salerno: arresti, accuse, famiglie distrutte. Ma quasi sempre, dopo, è arrivata l’assoluzione dei tribunali. Dietro questo orrore però ci sono mamme e papà che si sono visti portare via i figli senza sapere perché. E ci sono anche bambini prelevati all’insaputa dei nonni o dei genitori, spesso con escamotage e con inaudita durezza. Un video, che pubblichiamo sul sito di Panorama, mostra un’operazione di polizia: 11 persone per distrarre una mamma e portarsi via una bambina di due anni. Alle famiglie private senza ragione di quei minorenni non era consentito neppure un contatto mensile, né era possibile recapitareun regalo o una lettera. Una violenza di Stato, per di più abusiva, di cui in questo numero vi diamo conto. Una delle mamme alla quale è stata sequestrata la figlia non solo ha deciso di raccontare ciò che le è accaduto, ma ha deciso di metterci la faccia per denunciare l’abuso. Stefania è una donna fragile, che nella vita ha anche commesso errori, ma quella bambina l’ha fatta diventare forte e l’ha indotta a rinunciare alla droga. Tuttavia, essersi disintossicata, aver messo su una famiglia normale, tenere in ordine la casa e la cameretta della figlia non è bastato, perché un giorno, come ha raccontato alla nostra Terry Marocco, alcuni operatori presentatisi come funzionari dell’Enpa, l’ente per la protezione degli animali, con una bugia si sono introdotti nel suo appartamento e le hanno portato via la bimba.

Un sequestro. Anzi, un agguato. La storia di Stefania - che ancora attende chela figlia le venga restituita - fa piangere. Ma il suo è solo uno dei tanti casi. Il giorno in cui avremo composto le molte drammatiche testimonianze di mamme e papà a cui è stato ingiustamente tolto un figlio, avremo il quadro di uno scandalo che forse da decenni sta avvelenando la vita di decine di famiglie. Uno scandalo che, per quanto ci riguarda, di sicuro non dimenticheremo. 

Caso Bibbiano, la testimonianza shock di Stefania: "Così mi hanno portato via la mia bambina". “Io non so neanche dove sia. Non so se sta bene. Non so se piange, se mi cerca. Sono disperata". Costanza Tosi, Domenica 04/08/2019 su Il Giornale. “Hanno rapito mia figlia”. Inizia così la conversazione con Stefania che, al telefono con la voce rotta dal dolore, ci racconta di come i servizi sociali di Reggio Emilia le hanno strappato via la sua bambina di appena due anni. ”Una mattina - dice - mentre ero sola in casa, sento dei rumori venire dal giardino. Dopo poco qualcuno inizia a bussare forte alla porta”. Era il 3 aprile. Stefania va a controllare chi è. Sono un uomo e una donna. Si presentano e le dicono di essere dell’Enpa, l’Ente Nazionale Protezione Animali, e affermano di essere intervenuti dopo una segnalazione del vicino di casa: “I cani abbaiano troppo”. Ma Stefania non si fida. Come erano arrivati in giardino i due? E perché volevano entrare con la forza in casa sua alle 10 del mattino? “Ero perplessa - continua - e ho chiesto spiegazioni, ma loro mi continuavano a dire che dovevo aprire”. Marco, il compagno di Stefania, aveva installato alcune telecamera nel giardino dopo aver subito un furto. È proprio dalle immagini di quei monitor che la madre comincia a sospettare che ci sia qualcosa di strano, quando si accorge che stanno arrivando anche altre persone. Poi il buio. “Tutto d’un tratto mi accorgo che le telecamere si erano spente - spiega in lacrime Stefania - mi avevano staccato la corrente. Ero terrorizzata.” Stefania decide di chiamare sua madre, che subito raggiunge la figlia a casa e riattiva immediatamente la luce. Da quel momento le telecamere riprendono a registrare. Nel frattempo, però, erano arrivati anche i poliziotti: “Era surreale, non capivo cosa stesse succedendo”. Così Stefania si ritrova cinque persone dentro casa. “Mi chiedono i libretti dei miei cani. E io inizio a cercare per darglieli", spiega la mamma. Ma mentre Stefania cerca di soddisfare le richieste della polizia qualcuno inizia a salire le scale della sua casa. Al piano di sopra dormiva la bambina. Passano pochi minuti e Stefania sente piangere la piccola. Un pianto di terrore. La mamma si precipita a vedere cosa è successo: “Mia figlia era tra le braccia di un uomo che la teneva come un pacco. A testa in giù. E intanto correva per le scale.” La mamma allora inizia a rincorrere l’uomo e cerca di strappargli via la piccola. “Ho iniziato a correre più forte che potevo. Nessuno può capire cosa scatti nella mente di una madre in una situazione simile. Non capivo più niente - continua la mamma -. L’avevo quasi raggiunta, ma loro sono stati più veloci. L’hanno caricata sulla macchina e se ne sono andati”. L’auto dei servizi sociali si allontana dalla casa mentre Stefania, in lacrime, guarda sua figlia sparire tra i palazzi. Da quel giorno i due genitori non hanno più visto la loro bambina. “Io non so neanche dove sia - grida al telefono la madre -. Non so se sta bene. Non so se piange, se mi cerca. Sono disperata. Tutto questo mi sta uccidendo.”

Ma facciamo un passo indietro. Tutto inizia molti anni fa, quando Stefania all’età di vent’anni cade nel tunnel della droga. “I miei - ci confessa - si erano da poco separati. Stavo vivendo una situazione difficile. Ho iniziato a fumare eroina. In realtà non sapevo neanche cosa stessi facendo.” Ma la donna capisce subito che quella strada le avrebbe rovinato la vita, e così inizia a curarsi: “Dopo poco decisi di smettere e mi rivolsi al Sert”. Ed è proprio lì, tra medicinali e crisi di astinenza, che la donna conosce un uomo. I due si incontrano a Parma, nella clinica in cui lei si stava disintossicando. Usciti dalla struttura i due si sposano e, dal matrimonio, nasce una bambina. Dopo due anni e mezzo la mamma decide di tornare in una clinica. Questa volta per liberarsi dalla dipendenza di Subutex, un farmaco molto invasivo che le avevano dato per curare la dipendenza dagli oppiacei. “Mentre ero in clinica - aggiunge - la bambina stava con mia madre, che per starle dietro aveva chiesto aiuto a mia zia.” Ed è da lì che iniziano i problemi. La zia sostiene che la nipote non sia in grado di gestire la figlia. E, tramite alcune conoscenze, decide di far intervenire gli assistenti sociali. Con un provvedimento d’urgenza la bambina viene affidata ai servizi sociali e collocata presso la zia. Ma, al tempo, Stefania, lontana da casa, decide di subire questa situazione: “Ero troppo giovane e non avevo le risorse economiche per difendermi nelle sedi opportune. Ho sbagliato, ho lasciato correre.” Per lei da quel giorno inizia un’altra vita. Conosce Marco e, dopo poco, esce definitivamente dalla droga. Nel 2016 Stefania rimane incinta della sua seconda figlia. Una gravidanza felice, questa volta, accanto all’uomo che l’ha aiutata ad uscire da ogni tipo di dipendenza. Una mattina la madre, che da giorni non riusciva a dormire, decide di andare al pronto soccorso. E lì, per la mamma, inizia l’inferno. La struttura ospedaliera avverte il reparto di psichiatria e si rivolge agli assistenti sociali. Gli stessi che già avevano agito contro di lei dopo le segnalazioni della zia con la prima figlia e che, questa volta, chiedono esplicitamente di essere richiamati quando la madre verrà ricoverata per il parto. E così è stato. “Dopo il parto mi hanno chiesto di sottopormi alle analisi tossicologiche. Io non capivo perché. Erano già tre anni che ero pulita. Non c’era nessun motivo per controllarmi ancora", racconta. Ma Stefania decide di collaborare, ha paura che il gioco-forza non giovi alla situazione. Le analisi sono negative, sia per lei che per la bambina: “Ero contenta, pensavo che a quel punto mi lasciassero stare. Credevo che finalmente mi sarei goduta la mia bambina”. Racconta la mamma. Ma non fu così. Le analisi non bastarono. I servizi sociali obbligarono la madre ai controlli domiciliari: “Le assistenti venivano da me ogni giorno. Mattina e pomeriggio.” Nonostante le continue pressioni, le visite giornaliere e il dispiacere di essere considerata una madre inaffidabile dopo tutti gli sforzi e gli obiettivi raggiunti per rimettere in piedi la sua vita, la mamma non si oppone e fa tutto quello che le viene chiesto. Fino a quando non le annunciano che dovrebbe andare in una casa famiglia insieme a sua figlia: “Mi rifiutai. Non potevo accettare una cosa del genere. Non c’erano motivazioni valide per allontanarci da casa. Sono anni che sto bene. Vivevamo felici, tutta la famiglia insieme, nella nostra casa. Mi stavano togliendo tutto, senza spiegarmi perchè. Dovevo lottare per la mia felicità.” Una battaglia estenuante. A ottobre del 2018 il Tribunale dei minori di Bologna emette un decreto provvisorio. Le motivazioni, a suo dire, sono false: “Dichiaravano che vivevo in uno scantinato, cosa assolutamente non vera. Ribadivano la mia tossico dipendenza, ormai superata da anni.” Con quel decreto la piccola sarebbe stata strappata dalle braccia dei suoi genitori. Non ci sta ad essere stata raggirata. E Stefania, oggi, rivuole sua figlia.

Bibbiano, gli tolsero il figlio ma non ci furono abusi. Il gip archivia il caso della coppia accusata di abusi sessuali nei confronti del figlio. Costanza Tosi, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. Corruzione di minorenne e abuso sessuale. I genitori di Paolo (nome di fantasia), furono accusati di questi due reati nell’ormai lontano 2015. Reati che, oggi si scopre, non hanno mai commesso. Ma che sono costati alla famiglia l’allontanamento del proprio bambino e un calvario durato anni. Era il 30 aprile di quattro anni fa quando, dopo una segnalazione dei servizi sociali, il Tribunale dei Minori di Bologna decise che il bambino doveva essere allontanato dai suoi genitori. Il piccolo viene affidato e preso in carico dai servizi sociali, poi, nell’inverno del 2016, collocato in una nuova famiglia. Passano circa altri due anni. I genitori non stanno più con il piccolo Paolo, le accuse nei loro confronti li constringono a vivere nella speranza che, un giorno, venga fatta giustizia. Una giustizia che, per il momento, rimane soltanto la loro verità. La indagini proseguono, ma la parola fine è ancora lontana. Loro non la vedono. Riabbracciare il proprio bambino diventa una speranza sempre più inverosimile. Fino a quando, l’ 8 marzo del 2018, il pm Stefania Pigozzi scova, nelle carte processuali, alcune stranezze, al punto da chiedere che venga archiviato il procedimento a carico dei due genitori. Da quel giorno passerà ancora un anno e mezzo prima che succeda qualcosa. Per fare chiarezza sul caso, vengono chiamati a relazionare l' assistente sociale Francesco Monopoli e la sua responsabile, Federica Anghinolfi, entrambe ora indagati nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti della Val d’Enza. I due scrivono in un documento presentato il 14 maggio del 2018 di aver scoperto, durante i colloqui con Paolo, di abusi sessuali che il piccolo avrebbe subito da parte del padre, come riporta Il Resto del Carlino. Ora la situazione prende un’altra piega. Forse le cose stanno iniziando ad andare nel verso giusto. Gli assistenti sociali che seguivano Paolo vengono accusati di falsità ideologica, violenza privata, falsa perizia e frode processuale. Secondo quanto riportato nell’ordinanza della Procura di Reggio Emilia, Nadia Bolognini, psicoterapeuta di Paolo e ex moglie di Claudio Foti, finita agli arresti domicialiri per i fatti di “Angeli e Demoni”, durante un’incontro con il piccolo si travestì persino da lupo cattivo. Un “circo” che sarebbe servito a plagiare la mente del minore attraverso l’associazione della figura spaventosa con il padre del bimbo. Secondo la magistratura, Monopoli avrebbe persino cercato di facilitare l’affido del piccolo presentando relazioni distorte rispetto alla verità dei fatti a un giudice onorario. Dove avrebbe omesso il fatto che ci fosse stata una richiesta di archiviazione del procedimento a carico del papà di Paolo. A giochi fatti, parlando con un altro giudice, Monopoli avrebbe anche confermato la buona riuscita dell’intervento sulla famiglia. Dichiarando che l’allontanamento dai propri genitori naturali era stato un tocca sana per il bimbo. Ora, il gip Luca Ramponi ha disposto l’archiviazione della vicenda. Una decisione che fa intravedere la luce in fondo al tunnel in cui, per tutti questi anni, sono stati costretti a vivere i genitori di Paolo. Vittime di un sistema perverso che li ha intrappolati con finte relazioni a false accuse. La strada per riabbracciare il proprio figlio sembra, da oggi, essere più in discesa. Paolo forse potrà tornare a casa, il tribunale ha già predisposto una consulenza tecnica per valutarlo, e chiudere per sempre un capitolo della sua vita che gli è costato anni di sofferenze incancellabili.

La testimonianza shock di Valentina: "Così Foti mi convinse degli abusi di mio padre". "Al termine del percorso mi convinsi, non ho idea di come, che l' autore delle violenze di cui mi si era parlato era mio padre”. Costanza Tosi, Domenica 15/09/2019, su Il Giornale. Aveva confessato, Valentina. Era stata lei che, durante le sedute con il metodo Foti, aveva ammesso di aver subito abusi da suo padre quando era molto piccola. Ma, le accuse rivolte al proprio papà, le ha poi smentite davanti ai magistrati che dopo lo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni" indagavano su Bibbiano. Adesso la ragazza ha compiuto i suoi diciotto anni, ma fino all’anno scorso era una delle minori seguite dagli psicologi e dai servizi sociali della Val d’Enza. Anche con lei, lavaggi del cervello, violenze psicologiche per far confessare violenze che, non sarebbero mai avvenute. Secondo le carte, che riportano anche le intercettazioni degli indagati, pare che il terapeuta piemontese abbia “alterato lo stato psicologico ed emotivo della minore (...) sottoponendola come cavia alla psicoterapia effettuata in occasione del corso di formazione per operatori dell' azienda sanitaria di Reggio Emilia”. Su di lei fu utilizzata la “macchinetta dei ricordi”, come veniva chiamata dagli psicologi che spiegavano ai piccoli come, attraverso il sistema Emdr, avrebbero cancellato dalla testa le tracce dei brutti ricordi. Dalle carte della Procura di Reggio Emilia emergono le intercettazioni di un incontro, del 27 ottobre del 2018, al Centro di Igene Mentale. Si trattava di una lezione tenuta da Foti e rivolta ad alcuni terapeuti. A dimostrazione pratica delle sue teorie una seduta osservabile da un vetro. Protagonista la piccola Valentina. Proprio in quell’occasione il terapeuta piemontese, avrebbe posto alla ragazzina una serie di domande con lo scopo di far emergere abusi sessuali subiti in famiglia. Per ripescare dai ricordi della piccola i fatti dell’infanzia Foti utilizzava la tecnica dell’Edmr: “Con tali modalità - si legge nell' ordinanza - l’ indagato convinceva la minore dell' avvenuta commissione dei citati abusi ai suoi danni durante l' infanzia, una circostanza fino a quel momento non presente nei suoi ricordi, e che l' abusante fosse suo padre”. Un’opera di convincimento per estrapolare dalla testa della bambina fatti a cui lei non avrebbe mai accennato. Tutto questo anche con l’ausilio di un macchinario, certamente suggestionante per Valentina che, in quel momento, si trovava rinchiusa in una stanza a vetri per essere utilizzata come cavia per le dimostrazioni ai seguaci di Foti. Tre mesi dopo la seduta - come riporta Il Resto del Carlino - Valentina viene interrogata e racconta di quel giorno. “Foti - spiega la ragazza al pm - mi sottopose personalmente anche alla terapia che lui mi disse chiamarsi Emdr. Mi chiedeva di guardare il suo dito muoversi a destra e a sinistra, invitandomi a ritornare con la mente indietro nel tempo”. Mentre eseguiva queste manovre, il terapeuta faceva “domande su quello che la mia mente immaginava, e al termine del percorso mi convinsi, non ho idea di come, che l' autore delle violenze di cui mi si era parlato era mio padre”. Le intercettazioni della seduta, riportate dalla Procura, raccontano anche di quelle domande che in realtà con l’idea di quesito avevano poco a che fare. Si trattava più di frasi incalzanti, suggerimenti, convinzioni da inculcare nella mente dell’interlocutore. “Tu vieni al mondo e come tutte le bambine provi ad avere fiducia nel mondo dei grandi - dice Foti alla minore - ma sei tradita...Già l' impatto con tuo padre ti rende incerta, Perché un po' ci credevi... Come ogni bambina credevi a tuo padre, e vivi e impatti con l' esperienza pesante e vio lenta, che ti fa perdere fiducia... Non credi in tuo padre... ci credevi.., non ci credi”. La piccola tace. Quasi per tutto il tempo. Aggiungendo solo un secco “no” dopo alcune frasi dello psicologo. Ma l’uomo insiste, incalza, sempre con lo stesso ritmo. Parla dei ricordi di Valentina e intando descrive il suo papà. Il medoto esistenziale che il padre aveva trasmesso alla piccola, secondo il terapeuta, era “rovinoso e servile”. La bambina non parla, ma con le pupille, immobile su un sedia, segue il dito dell’uomo che continua con i racconti. Una danza ipnotica da film degli orrori. Dopo la famiglia, ecco che Foti arriva ad affrontare l’argomento “sesso”: “Io penso che nella tua esperienza di vita hai avuto paura dei fidanzati...e le cose sono andate sul modello della relazione violenta con il maschile, pericolosa…” dice alla paziente. Poi, torna a parlare del padre: “tuo padre ti aveva proposto sesso e violenza, da quel che sappiamo. Tua madre non ti ha assolutamente proposto sesso e violenza, ma comunque ti propone anche lei un modello di vita…” Il dialogo prosegue. La musica è sempre la stessa. L’obiettivo ben chiaro: si doveva tagliare ogni tipo di legame tra Valentina e la sua famiglia d’origine. La bambina doveva staccarsi totalmente dai suoi genitori. Anche la madre della minore, durante l’interrogatorio, ha ammesso di aver notato “la consequenzialità tra la psicoterapia praticata da Foti e l' emersione delle rivelazioni su presunti abusi o fatti similari, e anche la sua animosità nei confronti del padre”. Come riporta Il Resto del Carlino. “Prima della psicoterapia - racconta - Valentina non mi aveva mai riferito di alcuna problematica rispetto al padre. Dopo la psicoterapia con Foti, non so con quale modalità, si era convinta di avere subito abusi sessuali quando era molto piccola, e che la sua memoria aveva rimosso quel ricordo che era venuto fuori grazie alla terapia”. Un percorso che, secondo quanto racconta la mamma, avrebbe cambiato la vita di sua figlia che, dopo la “macchinetta dei ricordi”, è diventata un’altra persona. “Convintasi che il padre l'aveva abusata, poco dopo la psicoterapia (...) ha iniziato a fare uso di stupefacenti, è diventata aggressiva e violenta nei miei confronti, e ha iniziato a odiare il padre” spiega la madre. Schiava di una convinzione che le era stata inculcata attraverso lavaggi del cervello e racconti inventati, la piccola aveva cambiato personalità. Durante l' interrogatorio con il pubblico ministero, Valentina, conferma con certezza che il papà non l’ha mai abusata. Nei racconti davanti al pm, la ragazzina, racconta con estrema lucidità, che gli assistenti sociali di Bibbiano la consigliavano su come affrontare le audizioni davanti ai giudici minorili: “Partivano sempre dal presupposto che io, da piccola, avevo subito una violenza sessuale (...) e tentavano in ogni modo di farmi raccontare tali episodi, che io assolutamente non ricordavo”. Bambini plagiati, famiglie distrutte, un oceano di sofferenze incancellabili. Se le accuse della Procura di Reggio Emilia venissero confermate in aula di tribunale, il caso Bibbiano sarebbe prima di tutto questo: un sistema degli orrori che ha cambiato la vita a decine di persone.

"Non dovete temere la divisa". I demoni provarono a sviare le indagini. "Non fatevi intimorire dalla divisa". Ecco come gli assistenti sociali di Bibbiano cercavano di sviare le indagini. Costanza Tosi, Domenica 28/07/2019 su Il Giornale. A Bibbiano ad essere plagiati dagli assistenti sociali non erano soltanto i bambini. A finire nelle grinfie dei “demoni” di Reggio Emilia anche i genitori affidatari, manovrati dagli assistenti sociali. Si sentivano il fiato sul collo, braccati dagli investigatori e, i “demoni” avevano bisogno di sviare le indagini. Lo facevano attraverso pressanti e ripetute telefonate ai genitori affidatari. “Non fatevi intimorire dalla divisa”, dicevano. Una divisa che indagava, che cercava di vederci chiaro. È quanto emerge dalle carte della Procura di Reggio Emilia, che ha smascherato il presunto giro d’affari illecito che si nascondeva dietro il sistema degli affidi dei minori della Val d’Enza.

Il depistaggio. La madre affidataria di due bambini, seguiti dai servizi sociali, viene chiamata dai carabinieri e convocata per un colloquio con la richiesta di portare le fatture e tutta la documentazione necessaria a certificare i pagamenti per le sedute di psicoterapia a cui erano tenuti ad andare i due minori. Una telefonata che coglie di sorpresa la donna e la insospettisce. Lei e il marito, in effetti, erano stati i primi a chiedere spiegazioni sul metodo di pagamento degli incontri con gli psicologi. I due si domandavano come mai i soldi destinati a pagare gli psicologi dovessero passare da loro. Il denaro, infatti, veniva prima caricato sul conto corrente della famiglia affidataria che, poi, lo versava agli psicologi della Onlus “Hansel e Gretel”, finita al centro dell’inchiesta. Un giro contorto, che ha insospettito la coppia. Più volte, infatti, i due genitori affidatari hanno provato a chiedere spiegazioni ma nulla. Nessuno era in grado di dare risposte chiare.

Le intercettazioni. “Non capisco nemmeno il passaggio.. Perchè devi dare a me questi soldi e poi io te li devo dare…” chiede al telefono il papà affidatario a Francesco Monopoli, uno degli assistenti sociali finito nel registro degli indagati: “Questioni amministrative” risponde e taglia corto. I dubbi erano tanti e le domande degli investigatori pressanti. Dopo la telefonata ricevuta dai carabinieri, la madre affidataria decide di chiamare nuovamente l’assistente sociale Francesco Monopoli per informarlo dei fatti. Era lui che seguiva il loro caso. L’assistente sociale le confida che “i carabinieri stanno facendo delle verifiche su tutti gli affidi, e che lui non ne sa niente.” Ma la pressione si faceva sentire. Il cerchio stava per stringersi attorno ai “demoni” di Reggio Emilia e loro lo sapevano. Francesco Monopoli esorta la donna ad andare all’incontro con i carabinieri assieme al marito. La madre risponde di no, spiegando che i carabinieri avevano chiamato solo lei e quindi sarebbe andata da sola ma l’assistente sociale ribatte con un forte “no!”. A quel punto la donna accetta di andare all’incontro con il marito, a cui passa la cornetta del telefono per proseguire la conversazione. Ed è proprio con il marito che l’assistente sociale inizia l’opera di persuasione e convincimento. “Non lasciarla andare da sola”, insiste. Ma la telefonata continua e l’assistente sociale comincia a dare al padre consigli dettagliati su come comportarsi di fronte alle autorità. “Se gli fanno domande particolari rispetto a valutazioni…non rispondete - ordina l’assistente sociale - sopratutto se vi fanno domande non adeguate vi devono spiegare…voi chiedete perchè vi stanno chiamando…qual è l’oggetto”. Ripete più volte gli stessi concetti durante la conversazione Monopoli, quasi a far sembrare di essere preoccupato dalla notizia. Tanto che, ad un certo punto, sottolinea: “Menomale che me lo avete detto va…diciamo così… - e poi aggiunge - ma non vi fate intimorire dalla divisa voglio dire…” Insomma, l’assistente sociale sperava che la famiglia facesse muro persino ai carabinieri. Niente doveva uscire da quell’incontro. Bocche cucite. Pure con le forze dell’ordine. Le intercettazioni che ilGiornale.it ha potuto visionare parlano chiaro. Eppure, in questa vicenda, dei dubbi restano. Perchè tanta preoccupazione per le risposte alle domande degli investigatori se Francesco Monopoli non aveva niente da nascondere? In realtà, secondo le carte, gli indagati “erano ben consapevoli delle irregolarità della situazione (se non della sua completa illegittimità)” e, tra le pagine dell’ordinanza, il procuratore sottolinea che ciò si evince anche “dal tentativo di Monopoli, in corso d’indagine, di orientare le dichiarazioni degli affidatari.” Secondo la Procura tutti sapevano cosa stavano facendo e, a quanto pare, erano consapevoli pure di essere finiti nell’occhio del mirino. Ma niente fermava i protagonisti del losco giro d’affari. D’accordo, fino alla fine, nel nascondere la sabbia sotto il tappeto. Anche a costo di plagiare, con l’inganno, persone che avrebbero voluto solo fare del bene, come i genitori affidatari. Ignari di tutto. Anche loro vittime dell’orribile “sistema” di Bibbiano.

Affidi illeciti, assistente sociale rivela: "Feci report falsi". La donna ha ammesso di aver alterato alcune relazioni sotto pressione. Aveva ottenuto il trasferimento ad altre mansioni per questo motivo. La Repubblica il 28 luglio 2019. Si arricchisce di nuovi capitoli - che ondeggiano tra presente e passato - la vicenda di Bibbiano e dei presunti affidi illeciti in Val d'Enza. All'indomani del via libera del Consiglio Regionale ad una Commissione di inchiesta sul sistema di tutela dei minori in Emilia-Romagna e della scoperta dell'avvertimento - risultato inascoltato - della Procura di Reggio Emilia al Tribunale dei Minori di Bologna su relazioni non corrette, dall'indagine "Angeli e Demoni" spuntano le parole di una assistente sociale che ha rivelato di avere falsificato rapporti su alcune situazioni familiari così da indirizzare lo stesso Tribunale dei Minori ad affidare i bambini, considerati vittime di abusi, a figure terze. Il fatto - riportato dalla stampa locale di Reggio Emilia - vede al centro una assistente sociale che, alla luce del suo racconto, potrà tornare a svolgere le proprie mansioni dopo la decisione del giudice investito del caso di revocare la misura della sospensione di sei mesi dal lavoro che le era stata comminata. Revoca verso cui aveva espresso parere negativo il Pm titolare dell'indagine. La donna, viene riportato, ha collaborato ammettendo i propri addebiti e sostenendo di avere falsificato alcuni report a causa delle pressioni subite dai superiori. Una situazione che, nel tempo, avrebbe generato malessere tanto da chiedere e ottenere un trasferimento - avvenuto nel settembre 2018 - in un altro settore dei servizi sociali. In alcune relazioni l'assistente sociale aveva espresso dichiarazioni non veritiere; in un caso aveva descritto l'abitazione in cui vivevano due bimbi come fatiscente, e collegato l'atteggiamento di chiusura dei bimbi alla difficile situazione familiare e non al fatto che non sapessero comprendere e parlare italiano. Rapporti che non avevano convinto gli inquirenti tanto da integrare le accuse di falso ideologico e frode processuale.

«Pensavano solo a togliere i bambini alle famiglie»: parla la pentita di Bibbiano. Il Secolo d'Italia martedì 30 luglio 2019. Un clima da «caccia alle streghe» e una criminalizzazione delle famiglie in modo che fossero tolti loro i figli. È il «sistema Bibbiano» così come emerge – anche – dalle parole della “pentita” Cinzia Magrelli, assistente sociale indagata nell’ambito dell’inchiesta Angeli e Demoni, sebbene con una posizione ritenuta meno grave: per lei le autorità hanno concesso la revoca delle misure cautelari e la possibilità di tornare al lavoro. «È vero, ho modificato le relazioni ma l’ho fatto a causa delle pressioni che subivo dai miei superiori. Mi sono adagiata per del tempo, ma poi non ce la facevo più. Per questo ho chiesto il trasferimento», ha spiegato la donna.

La guerra alle famiglie. Magnarelli, in un colloquio con La Verità, ha spiegato che «laddove certe problematiche si sarebbero potute risolvere con il supporto alle famiglie, si prediligeva comunque la valorizzazione degli elementi che potevano portare a una richiesta di trasferimento del bambino a sede diversa da quella famigliare». Ricostruzione resa anche davanti al Gip Luca Ramponi e che conferma quanto già ampiamente appreso dall’opinione pubblica su questa storia drammatica di “ladri di bambini”: per soldi, per convinzioni ideologiche, per fare favori ad amici o ex amanti i bambini venivano portato via dalle loro famiglie, facendo leva su relazioni false o falsate che poi venivano accettate da tutta la filiera di controllo e gestione di un servizio così delicato.

Il “metodo Bibbiano”. «Il clima era quello un po’ della caccia alle streghe», ha detto ancora Magnarelli, spiegando che «nelle relazioni che sarebbero state mandate alla magistratura c’era sempre una predilezione per una visione del bambino scollegata dalla famiglia. Non veniva ritenuto equo e adatto il supporto all’interno della famiglia». Magnarelli ha poi ricostruito come si arrivava a queste relazioni, che lei stessa ha ammesso di aver «modificato»: «Io non avevo la possibilità di decidere. Avevo solo la possibilità di relazionare all’interno di una équipe che prevedeva la presenza del dirigente dei servizi sociali e poi il parere dello psicologo. Alla fine veniva fatta una relazione che comprendeva tutti i pareri e veniva mandata al Tribunale dei minori». «Il Tribunale di Bologna – ha aggiunto l’assistente sociale – decideva in base a queste relazioni. Aveva la possibilità di approfondire e sentire le parti, di valorizzare alcuni elementi anziché altri. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi». «Tutte le volte che veniva presentata la possibilità di un aiuto all’interno della famiglia, veniva cassata. Questo – ha concluso – era il metodo di intervento».

Pentita di Bibbiano confessa: "Ecco come toglievamo i bimbi". L'assistente sociale Cinzia Magnarelli ha ammesso di aver falsificato alcuni report sotto le pressioni dei superiori, in modo da indirizzare gli affidi. Pina Francone Martedì 30/07/2019, su Il Giornale. Confezionavano relazioni false per togliere i bambini alle famiglie e darli in affido, il tutto sotto le pressioni pesanti e continue dei superiori. Il "sistema Bibbiano" funzionava così. E a spiegarlo agli inquirenti ci ha pensato proprio una delle assistenti sociali indagate nell’ambito dell'inchiesta Angeli e Demoni, accusata di falso ideologico, frode processuale, violenza privata e tentata estorsione. Cinzia Magnarelli ha parlato al gip Luca Ramponi e grazie alla sua confessione ha ottenuto la revoca della misura cautelare e potrà tornare a lavorare a Montecchio Emilia. "È vero, ho modificato quelle relazioni ma l'ho fatto a causa delle pressioni che subivo dai miei superiori. Mi sono adagiata per del tempo ma poi non ce la facevo più: per questo ho chiesto il trasferimento", le parole della donna, così come riportate da La Verità. Un racconto utilissimo per le indagini, quanto agghiacciante per il modus operandi di Federica Anghinolfi e colleghi. E quando la Magnarelli ne capì l'andazzo, chiese il trasferimento, ottenendolo nel settembre 2018: "Il clima era quello un po' della caccia alle streghe…". Cinzia Magnarelli spiega al quotidiano: "Io ho sempre pensato di muovermi nella massima tutela per i minori […] Il motivo per cui ho deciso di fare richiesta di trasferimento dal servizio che stavo svolgendo a un altro servizio, sempre nella pubblica amministrazione, è che mi ero resa conto che il servizio sociale utilizzava come criterio principe il controllo invece dell'aiuto". E spiega: "Laddove certe problematiche si sarebbero potute risolvere con il supporto alle famiglie, si prediligeva comunque la valorizzazione degli elementi che potevano portare a una richiesta di trasferimento del bambino a sede diversa da quella familiare. Nel corso del tempo ho metabolizzato il funzionamento del sistema. Il lavoro che facevo all' interno dell'equipe veniva criticato dai miei superiori. Nelle relazioni che sarebbero poi state mandate alla magistratura c'era sempre una predilezione per una visione dell'educazione del bambino scollegata dalla famiglia. Non veniva ritenuto equo e adatto il supporto all’interno della famiglia...". Insomma, i suoi superiori spingevano oltremodo per togliere quei piccoli ai propri genitori e darli così in affido, grazie a relazioni taroccate che venivano mandate al Tribunale dei Minori, che giudicava così i casi avendo in mano documenti falsificati e che spingevano i giudici a scegliere la strada dell'affido. Ecco spiegato come funzionava il crudele "sistema Bibbiano".

E adesso la pentita di Bibbiano torna a fare l'assistente sociale. Torna a lavoro l'assistente sociale Cinzia Magnarelli ha confessato di aver falsificato alcune relazioni sotto le pressioni dei propri capi, così da pilotare gli affidi. Pina Francone, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. L'assistente sociale Cinzia Magnarelli ha confessato di aver falsificato alcune relazioni sotto le pressioni dei propri capi, così da pilotare gli affidi. Insomma, report bugiardi per togliere i bambini alle famiglie e darli in affido: ecco spiegato, in breve, il crudele "sistema Bibbiano" scoperto dall'inchiesta Angeli e Demoni. Lo ha spiegato agli inquirenti una delle assistenti sociali indagate, accusata di falso ideologico, frode processuale, violenza privata e tentata estorsione. La Magnarelli, interrogata dal gip Luca Ramponi ha confessato le malefatte, ammettendo le proprie colpe e dichiarando di aver scritto il falso su ordine dei superiori. Ecco, grazie al suo racconto ha ottenuto la revoca della misura cautelare e potrà tornare a lavorare a Montecchio Emilia, dove era arrivata nel settembre 2018 dopo aver chiesto il trasferimento da Bibbiano, non riuscendo più a tollerare i meccanismi di Federica Anghinolfi e colleghi, dopo aver eseguito gli ordini ed essere stata una pedina fondamentale negli ingranaggi del "sistema Bibbiano". Così si è spiegata a LaVerità: "Io ho sempre pensato di muovermi nella massima tutela per i minori […] Il motivo per cui ho deciso di fare richiesta di trasferimento dal servizio che stavo svolgendo a un altro servizio, sempre nella pubblica amministrazione, è che mi ero resa conto che il servizio sociale utilizzava come criterio principe il controllo invece dell'aiuto". E in tutto questo, invece, il sindaco Pd di Bibbiano continua a rimanere agli arresti domiciliari. Al primo cittadino dem Andrea Carletti, infatti, che non è accusato di reati commessi contro i bambini, ma è indagato – in quanto delegato dei servizi sociali dell’Unione dei Comuni della Val d' Enza – per abuso d'ufficio e falso ideologico (per cui solitamente non è previsto il carcere preventivo), è stata negata la revoca della misura cautelare. 

Bibbiano, dalle carte nuovi indizi, emergono i tentativi degli indagati di sviare le indagini. Federica Anghinolfi aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019, su Il Giornale. Le ha tentate tutte Federica Anghinolfi che, si scopre, per boicottare le indagini avrebbe contattato persino il Garante Regionale per l’Infanzia. Dalle carte della Procura di Reggio Emilia sull’inchiesta “Angeli e Demoni”, che hanno denunciato il losco giro di affari a danno dei bambini nascosto sotto il sistema di affidi della Val d’Enza, emergono nuovi particolari. Ad essere accusata è di nuovo lei, la dirigente dei servizi sociali, messa sotto scacco da alcune intercettazioni dei carabinieri. Secondo le carte, prima dell’esecuzione delle misure cautelari, nel bel mezzo delle indagini, quando i carabinieri stavano passando al setaccio carte e fascicoli, la dirigente dei servizi sociali della Val D’Enza avrebbe tentato di bloccare le ricerche. Ma in che modo? Pare che Federica Anghinolfi abbia richiesto un intervento del Garante per l’infanzia. Una domanda d’aiuto celata, giustificata dal fatto che, secondo l’Anghinolfi, l’attività investigativa stava intralciando i già avviati, procedimenti sui minori. Procedimenti che si sono poi rivelati, secondo quanto descrive la Procura, parte integrante di un sistema che lucrava sulla pelle dei bambini. E di cui proprio lei, era la prima protagonista. Tanto che il 27 giugno scorso è stata eseguita, nei confronti della dirigente, un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. In realtà la “regista” del sistema degli orrori aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. A confermalo alcune telefonate intercettate dai carabinieri. Come quella avvenuta tra Federica Anghinolfi e Cinzia Prudente una delle donne affidatarie, nonchè amica della dirigente, a cui era stata data una bambina. A chiamare è l’Anghinolfi a cui l’amica risponde allarmata: “Mi stai chiamando con il tuo?” Poi prosegue esortandola a chiamare “da fisso a fisso”. “L’Anghinolfi capisce subito la situazione”, si legge nelle carte, e conferma, mettendo giù la cornetta. Insomma, tutto fa pensare che le due sapessero di essere intercettate e, sopratutto, che avessero qualcosa da nascondere. Qualcosa, che non doveva finire nelle mani della Procura. Ma c’è di più. Come riportato dall’ordinanza: “è appurato tramite le intercettazioni telefoniche che, una volta appreso della esistenza delle indagini, maturò all’interno del gruppo degli indagati il “progetto” di regolarizzare la situazione originariamente illegittima”. Insomma, a nascondere la sabbia sotto il tappeto erano tutti d’accordo. Tanto che fu fissato un incontro con i vertici del dipartimento dell’ASL Reggio Emilia. Incontro durante il quale, emerse che tre degli indagati (tra cui Federica Anghinolfi e il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti) comunicarono che non volevano più gestire, in proprio, la terapia dei minori attraverso la struttura “La Cura” e chiedevano all’Asl “una sorta di condivisione della spesa in modo formale”. In soldoni, quello che gli indagati proponevano all’azienda era di dare una veste formale a quella che, fino a quel momento, era stata l’attività di psicoterapia infantile portata avanti, in maniera illecita, dalla onlus Hansel e Gretel. A capo della quale vi era Claudio Foti, anche lui finito nel registro degli indagati della Procura. Una copertura che, di fatto, non avrebbe cambiato le cose, ma solo risolto gli impicci con la legge. Sì, perchè nella proposta ai dirigenti dell’ASL, era richiesta anche la possibilità di mantenere all’interno della struttura gli stessi psicologi che prestavano servizio a "La Cura". Dopo tutto, per tenere in piedi l'affare servivano loro. I "demoni" che plagiavano le piccole vittime.

Perché (e chi sono) difendono il sindaco di Bibbiano. Il Pd, l'Anpi, Repubblica. Tutti stanno con Andrea Carletti finito nell'indagine sui finti abusi e gli affidamenti facili di bambini. Maurizio Tortorella il 29 luglio 2019 su Panorama. Ci mancava solo l’Anpi. Alla fine anche i partigiani si sono uniti al grande coro democratico: hanno offerto «piena solidarietà ad Andrea Carletti in questo momento difficile» e hanno voluto ricordarne «l’impegno nell’affermare e diffondere i valori della legalità» e quelli dell’antifascismo militante. Prima del 27 giugno, quando è piombato nell’inchiesta «Angeli e demoni» della Procura di Reggio Emilia finendo agli arresti domiciliari, Carletti non era un politico di primissimo piano. Nel Pd emiliano aveva fatto una bella carriera da amministratore locale, ma le cronache nazionali quasi lo ignoravano. Oggi, invece, il sindaco di Bibbiano è il recordman italiano della solidarietà. Il suo partito, il Pd, lo celebra quale «capace amministratore, apprezzato dai suoi cittadini», e garantisce che «risponderà con serenità dei rilievi amministrativi che gli vengono mossi». Contro Carletti, del resto, lo stesso segretario del Pd Nicola Zingaretti non ha alzato un dito, attendendo fosse il sindaco ad autosospendersi. Poi Zinga, come lo chiamano i suoi, ha convocato un team di avvocati «per avviare azioni legali, fossero anche 100 al giorno», contro ogni attacco diffamatorio a Carletti e al Pd. A sorpresa, un uomo pacato come l’ex parlamentare reggiano del Pd Pierluigi Castagnetti s’è messo addirittura a contestare gli arresti domiciliari: «Carletti è perbene» ha protestato «e non merita il provvedimento restrittivo per un’ipotesi, che spero sarà rapidamente smentita, di abuso d’ufficio. Rischi di reiterazione o di alterazione prove, io, non ne vedo proprio». Quello di cui gli inquirenti accusano il sindaco e altri 26 tra amministratori locali, assistenti sociali e psicologi, in realtà, è avere foraggiato e protetto un sistema basato sull’indebita sottrazione dei bambini alle famiglie. Irretite dagli psicoterapeuti del centro torinese Hansel e Gretel, scelti senza gara dai servizi sociali di Bibbiano e retribuiti con tariffe doppie del normale (135 euro l’ora contro una media di mercato sui 60-70 euro), le piccole vittime accusavano i genitori di abusi inesistenti e così venivano affidate ad altre coppie o a strutture private. Tra gli inquirenti si sospetta sia emersa la classica punta dell’iceberg di un più ampio sistema, che va ben oltre Bibbiano e l’Unione dei Comuni della Val d’Enza, i cui servizi sociali erano tutti collegati. Certo: la presunzione d’innocenza è più che un precetto costituzionale, è una regola di civiltà giuridica. Tra i suoi sostenitori, Carletti gode però di una presunzione superiore, anomala per intensità. Repubblica ha scritto che il sindaco ha soltanto «concesso degli immobili» ad altri indagati: nessun reato, insomma. Lo stesso giornale sostiene che lo scandalo di Bibbiano (cancellato dalla maggior parte dei mass media) serva solo a distogliere l’opinione pubblica dalla storia dei rubli di Vladimir Putin, che pure inguaia la Lega con un’intensità mille volte superiore. I mille sostenitori del sindaco sminuiscono, minimizzano, negano. E non è solo su Repubblica che i reati scompaiono: il Pd parla di «rilievi amministrativi», Castagnetti ammette (a fatica) l’ipotesi di abuso d’ufficio. In realtà, sia pure con ipotesi ferme al vaglio di un giudice per le indagini preliminari, e quindi lontane dal crisma di un vero processo, Carletti è accusato di abuso d’ufficio, ma anche di falso ideologico: assieme, i due reati prevedono da due a dieci anni di reclusione. Anche il ritratto Carletti, per com’è tratteggiato dall’inchiesta, non è propriamente quello di un amministratore esemplare: il giudice sostiene che il sindaco si sia «reso responsabile di episodi che costituiscono un espressivo indice del suo modo di comportarsi» e che sia «evidente la copertura politica continuativa e sistematica» offerta agli altri indagati. L’ordinanza che l’ha posto agli arresti domiciliari sottolinea «l’essenzialità del contributo» di Carletti e perfino «la sua alta capacità criminale», perché «ha ripetutamente consentito le spese in esecuzione degli abusi d’ufficio (a favore degli psicoterapeuti di Hansel e Gretel, ndr) con erogazione di contributi indebiti». Tra il 2014 e il 2018, Bibbiano ha pagato oltre 182 mila euro per sedute di psicoterapia, che secondo il giudice potevano essere «effettuate gratuitamente» da parte del Servizio sanitario locale. Si legge che Carletti «lungi a limitarsi a una mera omissione di controllo sull’attività dell’amministrazione (…) si adoperava per consentire la prosecuzione dell’attività (degli psicologi di Hansel e Gretel, ndr), ottenendo un ritorno d’immagine e un incremento dei fondi a disposizione». L’accusa di falso nasce dall’avere imputato alla voce «trasferimenti per contributi affidi» le somme che tra 2016 e 2018 venivano versate in realtà agli psicologi di Hansel e Gretel, inducendo in inganno l’Unione dei Comuni della Val d’Enza, che autorizzava la spesa. Ma c’è di peggio: secondo l’accusa, il sindaco e alcuni dirigenti comunali, con una psicologa, a un certo punto avrebbero scoperto l’indagine su di loro e tentato di sistemare la situazione: «Preso atto degli accertamenti della polizia giudiziaria», si legge, «in un incontro in data 12 dicembre 2018» il sindaco, i dirigenti e la psicologa avrebbero «spacchettato» le cifre «abbassandole fraudolentemente al di sotto della soglia» dei 40 mila euro che per legge avrebbe imposto la gara. È forse per questo se il giudice il 7 luglio ha rigettato la richiesta di Carletti, che invocava la revoca degli arresti domiciliari: rischio di inquinamento delle prove. E ora chi lo dice all’Anpi? 

Il linciaggio social contro Giorgia Meloni arriva a prendere di petto persino la figlia. Gloria Sabatini lunedì 29 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. Si chiama Franco Cappelletti. È antifascista, ha una faccia con barbetta trasandata quanto basta per far capire che lui la rivoluzione la pratica, mica a chiacchiere. È lui, con un tweet semplicemente ributtante all’indirizzo diGiorgia Meloni, l’ultimo campione dell’esercito di odiatori seriali online, di quei leoni da tastiera che insultano “il nemico cattivo”, denigrano, istigano alla vendetta, mettono in mezzo parenti e affini. E, come nel suo caso, persino figli e nipoti di pochi anni.

“Rimpiangerà di non essere stata a Bibbiano”. Che cosa scrive questo coraggioso “signore”? «Da adulta la figlia della Meloni rimpiangerà di non essere stata a Bibbiano». Incommentabile. Capito? Si augura alla piccola di aver un destino peggiore dei minori vittime dell’orrore scoperchiato dall’inchiesta Angeli e demoni. Con queste due righe si è superato qualsiasi limite. Di decenza, di civiltà, di umanità nel nome di un’idiozia diffusa che genera un pericoloso tam tam di emutatori conigli. «Ecco dove siamo arrivati. È schifo» è il lapidario, e a dir poco signorile, post di risposta sulla pagina Facebook della leader di Fratelli d’Italia che non può fare a meno di riproporre sul suo profilo l’inqualificabile maledizione. Dopo le pessime esibizioni di odio, volgari e sessiste, comparse sui social nelle scorse settimane contro Giorgia Meloni, il 27 luglio alle ore 23 con il tweet di Cappelletti si è toccato il fondo del fondo.

Un mare di testimonianze d’affetto per la leader di Fdi. Ovvio che il tipo, che non ha cancellato nulla e anzi ha rilanciato il vaticinio con un vaffa, sia stato sommerso da uno tsunami di reazioni e qualche meritatissima offesa. Oltre settemila in due ore i commenti sulla pagina della Meloni. Si va da più sobri: “Giorgia, querelalo, e fagli del male” o “i figli non si toccano”, a quelli più diretti. Sono tante in queste ore le testimonianze di affetto e vicinanza a Giorgia da parte dei colleghi di Fratelli d’Italia ma anche di altre forze politiche. «Ginevra è e sarà sempre fiera di essere figlia di Giorgia Meloni, così come saranno sempre fiere di lei la sua mamma, sua sorella e le sue adorate nipoti. Noi, la sua comunità, possiamo dire con orgoglio che di donne come Giorgia non ce ne sono tante nel mondo e che questa, per nostra fortuna, è capitata a noi e non a loro!». Occhio per occhio, dente per dente? No. Sarebbe un regalo agli “odiatori” di mestiere. L’ex ministro della Gioventù guarda avanti, è abituata ad attacchi di ogni tipo, talvolta anche fisici. Ha ben altro da fare. Stavolta, però, avrà ripreso il suo lavoro, con un po’ di amarezza in più.

Affidi illeciti, la Procura di Modena riapre l'inchiesta Veleno: c'è un legame con Bibbiano? Gli interrogatori furono svolti da alcuni psicologi di "Hansel e Gretel" di Torino coinvolti ora nel caso "Angeli e Demoni". La Repubblica il 28 luglio 2019. La Procura di Modena ha aperto un fascicolo per riesaminare le vicende dei presunti pedofili della Bassa di 22 anni fa. Il riferimento è all’inchiesta Veleno che aveva portato all’allontanamento di 16 bambini dalle loro famiglie. Molti dei genitori non hanno più rivisto i loro figli. La decisione di riaprire i fascicoli è arrivata dopo che sono stati presentati tre esposti. Il pubblico ministero Giuseppe Amara dovrà valutare se ci sono nuovi elementi che chiariscano i tanti punti oscuri della vicenda. Un caso che torna di attualità e che in qualche modo si lega all’inchiesta Angeli e Demoni perché dal centro Hansel e Gretel di Torino provenivano le psicologhe che interrogarono anche i bambini di Veleno. Il fascicolo conoscitivo è stato aperto su iniziativa del Procuratore capo Paolo Giovagnoli. Non ci sono indagati e al momento non sono previsti né interrogatori né convocazioni, ma solo un'analisi della documentazione. "Siamo in una fase iniziale - dichiara Giovagnoli alla "Gazzetta di Modena" -. Abbiamo aperto un fascicolo conoscitivo per cercare di ricostruire le vicende di allora. E' un fascicolo ancora ad ampio raggio. Trattandosi di fatti di più di vent'anni fa, può darsi pure che eventuali reati siano prescritti". "C'era un esposto dell'ex senatore Carlo Giovanardi già da tempo - dichiara inoltre il procuratore capo modenese - poi ne sono arrivati altri e noi stiamo cercando di capire cosa sia successo all'epoca dei fatti". Intanto il tema degli affidi di minori, come scrive la "Gazzetta di Reggio", è arrivato anche in centro a Modena. In 400 hanno sfilato vestiti di bianco con le fiaccole in mano fra le vie della città per tenere alta l’attenzione sul caso di Bibbiano. Fra i manifestanti che venivano da tutta Italia anche famiglie modenesi che hanno raccontato le loro esperienze. "La Procura di Reggio Emilia avrebbe appena sventato un secondo caso Veleno", aveva affermato nelle scorse settimane il giornalista Paolo Trincia, riferendosi alla sua inchiesta giornalistica dal titolo “Veleno”, realizzata proprio nella Bassa emiliana, che ha ricostruito le vicende di un gruppo di bambini allontanati per sempre dai genitori per presunti abusi e riti satanici che, secondo l'accusa, erano opera di una presunta banda di pedofili, i cosiddetti “Diavoli della bassa modenese”, ma di cui in realtà non sono mai state trovate prove reali. Il link "si chiama Centro Studi Hansel e Gretel di Torino, di cui è stato arrestato il responsabile, Claudio Foti. Proprio le psicologhe provenienti da quel centro avevano interrogato i bambini di Veleno... Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast" ha ricordato Trincia riferendosi a una onlus torinese che aveva ricevuto l'incarico dai servizi sociali della Val D'Enza. "So che gli investigatori hanno utilizzato la nostra inchiesta come chiave investigativa per studiare il fenomeno visto che tratta la tessa tematica anche se poi hanno seguito poi le loro intuizioni".

GIU’ LE MANI DAI BAMBINI. Fabio Poletti per “la Stampa” il 24 luglio 2019. Una nonna sgomita dietro le transenne e se lo bacia. Un papà gli racconta la sua odissea: «Erano anni che sapevamo di questa cosa...». Matteo Salvini, maglietta bianca con scritta Italia sulle spalle, plana a Bibbiano, profonda Emilia, un tempo allevamenti di maiali, oggi solo «angeli e demoni» dal nome dell' inchiesta che ha fatto luce su un giro di affidi illeciti, bambini strappati ai genitori con false prove e affidati ad altri genitori. «Sono qui prima di tutto come papà. E poi come ministro per dire che lo Stato qui c' è», Matteo Salvini parla senza microfono dallo scalone del Municipio dove hanno messo un paio di scarpine bianche da bambino. Il sindaco Andrea Carletti del Pd è finito agli arresti domiciliari per gli atti controfirmati. Il ministro dell' Interno non nomina lui né il suo partito. «Chi ha sbagliato deve pagare doppio. Ai primi di agosto nascerà una commissione d' inchiesta sulle case famiglia. Ho visto lucrare sulla pelle degli anziani e degli immigrati. Non avrò pace fino a che non sarà a casa anche l' ultimo dei bambini». Quattro di loro sono stati riaffidati ai genitori a fine giugno. Questa mamma coi capelli lunghi, la maglietta bianca, i jeans chiari e i sandali rivedrà sua figlia giovedì, dopo più di un anno e mezzo: «È passato così tanto tempo che ho il cuore in gola. Forse la situazione si sta finalmente sbloccando. Spero che questo primo incontro sia solo l' inizio. La rivoglio a casa. Vivo solo per questo. Ma chi ci ha strappato i nostri figli dalle braccia deve pagare». Nel mirino ci sono assistenti sociali, psicologi, un paio di avvocati. Che ci sia il sindaco del Pd di Bibbiano, coinvolto anche se marginalmente, fa da catalizzatore. Alla fiaccolata di sabato sera dietro lo striscione «Giù le mani dai bambini» c' erano mille persone. Cattolici integralisti pure da Roma, Forza Nuova, CasaPound, Lealtà e Azione, I Sentinelli ma giurano pochi bibbianesi. Il segretario del Pd Stefano Marazzi ha parole per tutti: «Siamo di fronte a uno sciacallaggio politico senza precedenti. Dei bambini non interessa niente. Il nostro sindaco che ha firmato solo atti tecnici è stato demolito. Ma la verità verrà a galla». Valterio Ferrari di una lista civica di opposizione con dentro qualche esponente dei 5 Stelle si dice molto di sinistra ed è pronto a firmare una mozione di sostegno al sindaco con tutta la maggioranza: «La situazione qui è andata fuori controllo. Ci mancano solo le cavallette.

Ma non potremmo chiudere i porti, a Bibbiano?». La battuta è efficace. Ma il paese è tutt'altro che unito. Davanti a Matteo Salvini c' è chi srotola un lenzuolo con disegnati dei mattoni. Come dire che il muro di omertà si è sgretolato. Più di una mamma giura di averla scampata bella. Come questa signora con gli occhiali e i capelli lunghi: «Ho dovuto denunciarli per evitare che portassero via mio figlio». Ma tanti son qui solo perché è Matteo Salvini e non vedono l' ora di farsi un selfie con lui. Da Roma la vicesegretaria del Pd Paola De Micheli usa parole d' acciaio: «Da Salvini solo una passerella.Meglio che ci parli di Moscopoli». Luigi Di Maio si schiera con l' alleato di governo: «Veramente vergognoso il silenzio del Pd. Sarò presto a Bibbiano con il ministro della Giustizia Stefano Bonafede». Matteo Salvini vola alto alla fine del suo comizio: «Non meritate di essere conosciuti nel mondo come la comunità degli orchi e dei ladri dei bambini». Ma basta spostarsi a Barco, al centro Polifunzionale Pietro Del Rio dove sono finiti in manette le assistenti sociali per sentire un' altra voce. Quella del barista lì a fianco: «Cosa penso del sindaco? Lo difende solo chi lo ha votato».

Leonardo Grilli per “la Stampa” il 24 luglio 2019. Un lavoro sotto traccia. In silenzio, in punta di piedi. È quello dei giudici del tribunale dei Minori di Bologna che stanno esaminando in modo più approfondito decine di casi (almeno 70) e segnalazioni seguiti negli ultimi due anni dai servizi sociali reggiani finiti sotto inchiesta. E mentre i magistrati bolognesi, guidati dal presidente Giuseppe Spadaro, controllano fascicoli e cartelle, emerge come già da tempo il tribunale minorile avesse intercettato delle irregolarità nel lavoro svolto dai professionisti ora sotto indagine. Massimo riserbo Al punto che per quattro bambini sui sei inseriti nell' inchiesta Angeli e Demoni c' è già stato un lieto fine: i loro casi sono stati riesaminati dai giudici di Bologna e, viste le irregolarità emerse, è stato deciso il ricongiungimento con le famiglie di appartenenza. Su chi siano questi bambini ovviamente, a loro tutela, vige il massimo riserbo ma tanto le segnalazioni, quanto i ricongiungimenti, sono avvenuti prima del 27 giugno, giorno in cui è stata resa pubblica l' inchiesta e sono scattati gli arresti. Un retroscena che conferma quanto da sempre sostenuto dallo stesso Spadaro, ovvero che in tutta questa vicenda il tribunale minorile di Bologna sia «parte lesa» e che da tempo vi fosse più che qualche dubbio sull' operato dei servizi della Val d' Enza. Non a caso proprio le perplessità dei magistrati bolognesi hanno dato un input importante alle indagini reggiane condotte da procura e carabinieri. Così, se da un lato i minori hanno potuto riabbracciare i propri genitori, dall' altro gli inquirenti, forti anche degli elementi forniti loro da Bologna, hanno continuato a indagare fino a formulare l' ipotesi che all' interno dei servizi della Val d' Enza si fosse creata una sorta di organizzazione che, nel manipolare le testimonianze di bambini, sottraeva i piccoli a famiglie in difficoltà per assegnarli dietro pagamento (si sospetta un giro d' affari di migliaia di euro) ad amici o conoscenti ritenuti ufficialmente più idonei. Frode processuale, depistaggio, abuso d' ufficio, maltrattamenti su minori, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d' uso e lesioni gravissime sono i reati formulati a vario titolo dalla procura. Gli accertamenti Mentre l' iter processuale prosegue, Spadaro sta continuando a rivalutare, con i suoi colleghi del tribunale e della procura minorile e d' intesa con gli inquirenti di Reggio, i procedimenti al centro dell' indagine, arrivando a inviare in alcuni casi i propri giudici per verificare direttamente le condizioni dei minori coinvolti. Gli accertamenti riguardano non solo gli episodi finiti nell' inchiesta ma tutti quelli seguiti dai servizi della Val d' Enza negli ultimi due anni, segno che l' ufficio giudiziario vuole fare chiarezza su tutte le segnalazioni. Proprio per questo motivo tutti i casi sono stati affidati a un differente servizio sociale, conferendo anche incarico a consulenti e periti per far luce su ogni situazione e riesaminare le precedenti risultanze dei servizi sociali sotto inchiesta. Sentiti gli insegnanti I giudici sono stati anche nelle comunità ospitanti e hanno incontrato insegnanti nelle scuole e dagli accertamenti preliminari sono emerse omissioni e anomalie all' interno delle relazioni dei servizi. Tra l' altro, in una procedura di dichiarazione di abbandono, e quindi con sentenza di adottabilità - dove i genitori biologici si erano resi effettivamente autori di condotte estremamente pregiudizievoli nei confronti dei figli - il servizio non avrebbe comunicato al tribunale che erano state individuate coppie e già lì collocati i minori. Tutto questo nonostante l' ordine esplicito di trovare famiglie affidatarie «di concerto con i giudici». Un' attività, quindi, che avrebbe indotto in errore tanto la Procura quanto lo stesso tribunale per i minori, che ora vuole vederci chiaro.

BIBBIANO, VE LA FAREMO PAGARE. Enrico Lorenzo per “la Stampa” il 26 luglio 2019. «Muori tu e la tua famiglia», «fate bene ad avere paura state attenti in giro». È incessante il flusso di minacce che sta investendo gli amministratori e i dipendenti pubblici dei comuni della Val d' Enza dopo l' esplosione dell' inchiesta "Angeli e Demoni" sui presunti affidi illeciti di minori. Ecco perché il municipio di Bibbiano, la sede locale del Partito Democratico e quella dei servizi sociali della Val d' Enza che si trova nella frazione di Barco, sono diventati da qualche giorno «sorvegliati speciali» e vigilati «notte e giorno» da pattuglie della polizia e dei carabinieri. Le misure sono in vigore da prima della visita di martedì scorso del ministro dell' Interno Matteo Salvini, incontrato poi dai sindaci che hanno lamentato lo stato di insicurezza degli uffici pubblici.

Gli uffici chiusi a chiave. Una situazione diretta conseguenza del clima di rancore che si è addensato intorno agli amministratori dopo l' inchiesta sui bimbi tolti alle famiglie dai servizi sociali. Il bersaglio prediletto delle minacce è Bibbiano. Il sindaco Andrea Carletti è ancora ai domiciliari, arrestato nell' inchiesta per abuso d' ufficio. In queste ore il vice sindaco sta valutando il trasferimento della sede di alcuni uffici per motivi di sicurezza degli operatori e per garantire il regolare svolgimento dei servizi di welfare. In municipio sono arrivate lettere al vetriolo, altre con dentro escrementi, due delle quali giunte da Bologna e due addirittura dalla Sicilia.

L' odio sui social network. Senza scordare le decine di mail e le centinaia di commenti scritti sui social network. Pochi giorni fa si sono però presentati anche i rappresentanti della cosiddetta "Banda degli Idraulici" che, casco in testa, sono entrati negli uffici comunali di Bibbiano per consegnare un pacchetto agli impiegati. Conteneva materiale organico. Alcuni dipendenti sono talmente esasperati da chiudersi a chiave negli uffici durante l' orario di lavoro. Intanto stanno raccogliendo tutte le minacce (lettere, telefonate, post) giunte in questi giorni, consegnate poi ai carabinieri di Bibbiano. «Tutti i dipendenti, quindi, non solo chi lavora nei servizi sociali, subiscono minacce quotidiane» di ogni genere, anche di persona, avvertono ora i sindacati che hanno chiesto di mettere in campo «tutti gli strumenti utili a garantire agli operatori dei servizi e al restante personale amministrativo dell' Unione la sicurezza necessaria per poter adempiere al meglio ai propri compiti». Ieri è saltato all'ultimo momento l' incontro tra una bimba e i genitori, che non si vedevano da due anni. Troppa la pressione mediatica sulla vicenda: il tutore ha preferito posticipare l'abbraccio tanto agognato dalla bimba, che scrisse una lettera accorata al padre, mai consegnata dagli assistenti sociali.

L' appuntamento rimandato. I tre dovevano trovarsi nella stessa stanza dopo anni passati senza potersi toccare né vedere. Il quadro familiare doveva ricomporsi con l' accordo del giudice che sta vagliando la causa di separazione dei due genitori. Una svolta anche sulla base dell' inchiesta, che ha messo il caso della ragazzina ora dodicenne al centro delle complesse indagini. Secondo gli assistenti sociali era stata vittima di abusi sessuali ma per la Procura di Reggio Emilia quei report che giustificavano l' affido erano in realtà falsi, accusa che ha aperto uno squarcio sul sistema di tutela della Val d' Enza.

Tutela dei minori. «Mai più bimbi strappati alle loro famiglie». Simona Musco il 26 luglio 2019 su Il Dubbio. Tutela dei minori. Al centro del protocollo la proposta del Cnf di puntare sull’avvocato “dei bimbi”. Il Viminale rilancia l’invettiva contro i rom «i tribunali vadano lì a fare controlli». «Perché i Tribunali dei minori non vanno nei campi rom per tutelare quelle migliaia di bambini ai quali non è permesso frequentare la scuola regolarmente, preferendo purtroppo in moltissimi casi introdurli alla delinquenza?» La domanda del ministro dell’Interno Matteo Salvini arriva al termine della conferenza stampa congiunta con il ministro per la Disabilità e la famiglia Alessandra Locatelli, con la quale ha firmato un protocollo d’intesa per azioni congiunte sulla tutela dei minori, intesi come soggetti di diritto. Azioni finalizzate anche e soprattutto alla revisione del sistema degli affidi, per ridurli al minimo possibile. Anche se i rom, come già evidenziato durante la sua visita a Bibbiano, da dove è partita l’indagine che ha dato il via alle task force dei due ministeri e di quello della Giustizia, per il capo del Viminale sono un caso a parte.

Sistema degli affidi in crisi. Il patto tra i due ministeri parte dalle segnalazioni già arrivate al Dipartimento per le politiche della famiglia da parte di privati e dal terzo settore su presunte criticità del sistema degli affidi, oltre che dal caso Bibbiano, attorno al quale il Parlamento ha deciso di istituire una Commissione d’inchiesta. «Il mio impegno è quello di tutelare per prime le famiglie, i minori, i più fragili – ha affermato Locatelli – Nel tentativo di fare questo ho fatto delle audizioni e ascoltato persone che hanno voce in capitolo sui temi che riguardano la tutela dei minori».

L’avvocato del minore. Dall’ordine degli assistenti sociali a quello degli psicologi, dalla polizia ai carabinieri, passando per Cnf, tavolo affidi e Garante per l’Infanzia, gli incontri hanno portato sulla scrivania del ministro diverse proposte, che verranno riversate in un documento da consegnare al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con un’ipotesi di riforma del sistema. E lo spunto centrale, ha spiegato Locatelli, è quello che riguarda la figura dell’avvocato del minore, suggerita dal presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, e accolta anche da Salvini. «L’avvocato del minore è stato il fulcro dell’incontro con il Cnf e con altre realtà che ci hanno ricordato quanto un bambino non sia solo oggetto di tutela ma anche oggetto di diritti, che possono essere tutelati da una terza persona – ha spiegato Locatelli – che potrebbe essere una figura come quella dell’avvocato del minore, che si affianca a quella, che già esiste, del curatore e che possa veramente fare le parti del bambino e non le parti di chi litiga. È qualcosa che va approfondito, integrato e discusso, ma è un ottimo spunto di riflessione per tutti, per mettere al centro il bambino». Il protocollo è un punto di partenza per altri progetti mirati per la formazione, ma anche per un tavolo operativo che si occuperà di esaminare caso per caso. E il numero degli affidi in Italia, ha affermato Salvini, «è impressionante» : partendo da una distinzione tra le vere case famiglia e quegli istituti «che invece fanno business e tengono sotto sequestro migliaia di minori e grazie a loro fatturano milioni di euro», i minori ospiti in comunità sono «50mila».

I dubbi di Salvini. «Io penso che portare via un bimbo a mamma e papà sia l’ultima delle ultime scelte da fare in caso di violenze evidenti e in caso di mancanze economiche che non permettono una vita tranquilla ha sottolineato – Non penso che ci siano 50mila casi del genere». I casi di Bibbiano sono la dimostrazione «che in quel sistema qualcosa non funzionava, perché a denuncia archiviata non è corrisposto il ritorno a casa del bambino strappato alla famiglia», ha aggiunto. Il caso di cronaca è, dunque, lo spunto «per rivedere l’intero sistema del diritto di famiglia», magari introducendo «il reato di alienazione parentale», così come in altri Paesi europei. «Utilizzare i bambini come mezzo di ricatto per la risoluzione di conflitti che riguardano gli adulti è una cosa indegna di un paese civile», ha sottolineato. Una «fattispecie oggettiva», dunque, come la povertà, «che è una di quelle fattispecie che hanno permesso di portare via i bimbi alle loro famiglie – ha sottolineato – Ma se questa fattispecie riguarda una persona che lavora con il posto fisso, in ospedale, da 20 anni ( facendo riferimento al caso di una donna incontrata a Bibbiano, ndr) allora mi domando che concetto di povertà ci dovrebbe essere nei campi rom. Anche qua tutto sta nell’uomo o nella donna che applica la norma, nella scienza e coscienza degli assistenti sociali e nei giudici dei minori che decidono che fare o non fare».

Revisione della legge. La proposta di Salvini è quella di una revisione anche della legge sull’affido condiviso, così come di tutto il diritto di famiglia. Idee che partono dal protocollo, punto di partenza per un «rafforzamento della cooperazione tra i soggetti istituzionali», per definire e adottare strategie operative relative all’attività delle comunità residenziali che accolgono i minori e al sistema degli affidi familiari, ma anche per promuovere la raccolta dati e il monitoraggio sul sistema, con a corredo campagne di sensibilizzazione e informazione. Una collaborazione che dovrebbe istituzionalizzare un metodo che consenta a tutti coloro che sono in contatto con i minori di captare i primi segnali di abusi e violenze e attivare subito idonee misure di protezione. L’accordo prevede, entro due mesi dalla firma, l’istituzione di un tavolo di lavoro, con il compito di definire strategie e modalità operative.

Caso Bibbiano, la responsabile dei servizi prometteva affidi senza scadenza. Federica Anghinolfi, agli arresti domiciliari, intercettata mentre parlava con associazioni Lgbt. E spuntano anche falsi provvedimenti. Zingaretti: "Duri coi responsabili e con gli sciacalli". La Repubblica il 26 luglio 2019. Prospettava la possibilità di dare in affido minorenni senza scadenza. E' quanto emerge da un'intercettazione agli atti dell'inchiesta Angeli e Demoni, seguita dalla Procura e dai carabinieri di Reggio Emilia: la dirigente del servizio sociale della Val d'Enza, Federica Anghinolfi, agli arresti domiciliari, ne avrebbe parlato con coppie che fanno parte di associazioni lgbt di una città del Sud Italia. Le coppie le domandavano degli affidi temporanei, dicendosi preoccupate del fatto di potersi affezionare ai bambini e poi di perderli, se questi avessero fatto ritorno a casa. Anghinolfi li rassicurava dicendo che se i genitori continuavano a essere ritenuti inadeguati dalle relazioni dei servizi sociali, i figli potevano anche non tornare mai nelle famiglie di origine, rimanendo "sine die" con gli affidatari. Di fatto, come un'adozione. Anghinolfi è figura chiave nell'inchiesta dove si contestano anche lavaggi del cervello ai minori, abusi inventati e relazioni dei servizi sociali falsate che hanno avuto l'effetto di togliere i bambini alle famiglie di origine.

Affidi fantasma. Non solo. Emerge anche il caso di affidi fantasma, cioè bambini sulla carta affidati a una donna, che in realtà non li ha mai accolti a casa. La circostanza emerge dalle carte dell'inchiesta: ne dà notizia il Resto del Carlino. E' la donna nominata affidataria a raccontare che l'affido a suo nome fatto da Federica Anghinolfi, era falso. "Non ho fatto nessuna accoglienza, non conosco le loro storie, né i loro genitori - la sua testimonianza - Li conosco solo per il fatto che a pranzo cucino per loro come per tutti gli altri", in una struttura di aggregazione giovanile dove lavorava come cuoca. "Mi fu consegnato un foglio dove Federica diceva che mi dava in 'affido sostegno' tale bambino" e "mi chiese di diventare un tramite per il pagamento delle spese di psicoterapia, senza precisarmi il perché". Secondo il gip con il documento falso è stata predisposta la pezza d'appoggio per far ottenere alla donna una sorta di retribuzione, inserendo la voce nel bilancio dell'Unione come "rimborso spese affido".

Clima di pressioni e minacce a Bibbiano. Ieri intanto, come riferisce Gazzetta di Reggio, è saltato, anche per la troppa pressione attorno alla vicenda l'incontro tra i genitori naturali e uno dei minori coinvolti nell'inchiesta e allontanato sulla base di relazioni dei servizi sociali che secondo la Procura non sono veritieri. Inoltre, non si attenua il clima di minacce e intimidazioni nei confronti dei dipendenti pubblici dell'Unione della Val d'Enza, segnalato dai sindacati. Per questo il prefetto di Reggio Emilia ha disposto un rafforzamento della vigilanza al municipio di Bibbiano, alla sede dei servizi sociali e a quella locale del Pd. Intanto quattro dei sei bambini coinvolti nell'inchiesta sono tornati a casa. Lo ha stabilito il Tribunale dei minori di Bologna che sta controllando tutti i casi al centro dell'indagine e degli ultimi due anni. Questi quattro ricongiungimenti sono avvenuti prima del 27 giugno, giorno in cui sono scattati gli arresti e le misure cautelari per 18 persone: il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, la dirigente Anghinolfi, assistenti sociali e tre psicoterapeuti della Onlus Hansel e Gretel tra cui Claudio Foti. 

Miur sospende accreditamento con la Onlus Hansel e Gretel. Dopo i fatti di Bibbiano, a quanto si apprende, il 17 luglio il Miur ha sospeso dalla piattaforma Sofia per la formazione degli insegnanti l'associazione Hansel e Gretel. Lo stesso è avvenuto per quanto riguarda l'utilizzo della Carta del docente, strumento usato dagli insegnanti per comprare anche alcuni corsi di formazione.

Zingaretti: "Duri coi responsabili e gli sciacalli". Oggi Nicola Zingaretti, segretario del Pd, con una lettera alla Gazzetta di Reggio, è intervenuto sul caso degli affidi illeciti di Bibbiano: "Vigilerò perché si faccia la massima chiarezza e sia punito senza pietà ogni tipo di responsabilità. E vigileremo perché si assicuri tutta la protezione di cui hanno bisogno ai minori che stanno affrontando una prova difficilissima". Zingaretti, però, mette in guardia anche dalle strumentalizzazioni. "Abbiamo denunciato e denunceremo - prosegue - chiunque in maniera scellerata e irresponsabile sta strumentalizzando questa vicenda per raccattare voti e fare sulla pelle di bambini, campagne di denigrazione di avversari politici. Tipico di chi non ha argomenti e di tanti sciacalli che popolano oggi il palcoscenico della brutta politica. Una preghiera e un appello: stop a questa insensata spirale di odio e ogni genere di speculazione, nel rispetto dei bambini, delle famiglie, delle comunità scosse da questa vicenda". Il Pd, dice Zingaretti, seguirà l'indagine della magistratura "e si costituirà parte civile nell'eventuale processo. Siamo e saremo in prima linea per chiedere che nelle indagini vengano garantite massima velocità e chiarezza. Parallelamente ci batteremo in parlamento per migliorare il regime degli affidi, aumentando controlli e trasparenza. Nessuno scherzi con la vita dei bambini".

Bibbiano, nuovi dettagli choc: spuntano gli affidi "fantasma". Dalle carte emerge che una donna, per poter lavorare, doveva fingersi affidataria di un minore. Costanza Tosi, Venerdì 26/07/2019, su Il Giornale. Era stata nominata affidataria di due bambini, ma la donna, quei piccoli, non li ha mai accuditi. Maria (nome di fantasia, ndr) sarebbe l'ennesima vittima dei servizi sociali della Val D’Enza. Gli stessi che, secondo la Procura di Reggio Emilia, avevano messo in piedi un presunto giro di affari illecito denunciato nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Ma andiamo con ordine. Tutto è iniziato quando i servizi sociali approfittarono dei problemi economici della donna che, trovandosi in difficoltà, cadde nella trappola dei “demoni”, come racconta Il Resto del Carlino. Maria si era rivolta ai servizi sociali della Val d’Enza, indirizzata dal centro per l’impiego. “Feci un tirocinio di segreteria, percependo 550 euro mensili per i primi sette mesi”. Fu proprio in quell’occasione che la signora incontrò Federica Anghinolfi - dirigente dei servizi sociali, ora agli arresti domiciliari - alla quale chiese aiuto. “Le domandai di poter lavorare, e lei mi propose come cuoca in una struttura pomeridiana di aggregazione giovanile in Val d’Enza per tre volte alla settimana in cambio di 360 euro al mese. Mi disse che era necessario formalizzare la mia attività attraverso un documento”. Un semplice contratto. Che si rivelò, poi, una vera e propria truffa. Per lavorare in cucina, Maria doveva prendersi carico dell’affido di due minori. O, almeno, così era scritto sulla carta. “Mi fu consegnato un foglio dove Federica indicava che mi dava un bambino in affido sostegno”. Ma, di fatto, la donna quel bambino non lo ha mai accolto in casa sua. Una storia che si è ripetuta anche l’anno successivo. Un contratto, un bambino. Era questo l’accordo. “In realtà, né nel 2017, né nel 2018 diedi ai due minori alcuna accoglienza. Li conosco solo perché a pranzo cucino per loro e per tutti gli altri ragazzi. Non conosco le loro storie e neppure chi siano i genitori”. Ma quale era il ruolo di Maria? A cosa servivano le dichiarazioni di questi affidi fantasma? A spiegarlo è proprio lei, che racconta, riferendosi a Federica Anghinolfi: “Mi chiese di diventare un tramite per il pagamento delle spese di psicoterapia, senza precisarmi il perché”. Funzionava così: “Da quel momento i servizi sociali, a cui il centro ‘Hansel e Gretel’ trasmette le fatture a me intestate per la psicoterapia del minorenne, mi anticipano ogni mese la somma sul mio conto. Poi io, come da indicazioni di Federica, faccio un bonifico alla ‘Hansel e Gretel’”. Insomma, la cuoca doveva pagare le visite di psicoterapia dei bambini che non teneva in affido. Come conferma anche la madre del piccolo: “Mio figlio è sempre rimasto a casa, sotto la supervisione dei servizi sociali. Sono sbalordita, ero all’oscuro di tutto. Non conosco questa signora e mio figlio non le è mai stato affidato”. Un tranello pensato nei dettagli e tutto, per far uscire i soldi da dare alla cuoca dai fondi dell’Unione dei Comuni. Come sostengono le carte: “Attraverso il documento falso è stata predisposta la pezza d’appoggio per dare alla cuoca una sorta di retribuzione in assenza di assunzione formale, facendo inserire la voce di spesa nel bilancio dell’Unione dei Comuni come “rimborso affidò per il bambino”.

La bambina del «caso pilota»: strappata con una telefonata, ora riabbraccia nonni e papà. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Alessandro Fulloni, inviato a Bibbiano, su Corriere.it. Questa storia, che adesso ha il lieto fine, del ritorno a casa (il mese scorso) di una bimba di circa dieci anni era cominciata così, con una brusca telefonata. «Non venga più a prendere sua nipote a scuola, non ce n’è bisogno: la bambina è stata trasferita in un altro istituto e ora penseremo noi a tutto. Non vivrà più con lei». Clic. Conversazione finita. Da una parte una voce che proveniva dai servizi sociali della Val d’Enza. Dall’altra la sbigottita nonna di una bambina che aveva in affido: questo perché suo figlio era diventato papà assai giovane, a 17 anni. Mentre la sua compagna partorì a 14. Considerati immaturi dai servizi per crescere un figlio, è il «caso pilota» — per usare l’espressione del gip Luca Ramponi — dell’intera inchiesta condotta dalla procura di Reggio Emilia sui falsi affidi. Questo perché un disegno fatto dalla bimba (c’è lei accanto al nuovo compagno della mamma) secondo l’accusa fu modificato da una psicoterapeuta della Ausl. Due lunghe braccia della bimba andarono innaturalmente a toccare in modo ambiguo l’adulto. Un’aggiunta fatta per dimostrare abusi (inesistenti) da parte di lui. Sulle carte giudiziarie c’è scritto che i genitori-ragazzini della bimba si lasciarono dopo tre anni dalla nascita di lei. Per questo i servizi sociali la affidarono alla nonna. «Poi però ci hanno ripensato: strappandola anche all’anziana», racconta Natascia Cersosimo, 44 anni, consigliera 5 Stelle a Cavriago e capogruppo del Movimento all’Unione Val d’Enza, l’associazione di otto Comuni reggiani il cui dipartimento al sociale è stato azzerato. Natascia conosce bene la nonna della piccola, sono amiche da tanto tempo e soprattutto conosce bene la vicenda dei falsi affidi tanto da aver chiesto, un anno fa, spiegazioni per quei numeri che le suonavano strani: «Troppe denunce per violenze familiari. E soprattutto troppi affidi: oltre 1.000 nel 2016 in Val d’Enza, che conta 50 mila abitanti. Rivaleggiavano con Bologna che ha 400 mila residenti. Mi risposero che era perché il servizio funzionava». Non così deve averla pensata la nonna della piccola. Subito dopo la brutale telefonata dei servizi la donna corse dai carabinieri per denunciare ciò che le parve «una mostruosità incomprensibile». Le carte raccontano che alla piccola — prima ospite in una casa protetta, poi in affido a una coppia — venne chiesto più volte dalle psicoterapeute (con le opportune cautele nell’uso delle parole) di eventuali violenze. La bimba ha sempre negato e nemmeno la visita ginecologica alla quale venne sottoposta dimostrò alcunché. La svolta nella storia è arrivata con il via dell’inchiesta. Coordinandosi con la Procura, il Tribunale dei minori di Bologna ha ricontrollato tutti gli atti del fascicolo. Compreso il disegno, falsificato pure secondo una perizia voluta dall’accusa. Dopo il decreto firmato dai giudici minorili, la piccola è tornata a casa, dai nonni (presso i quali vive anche il padre). «L’ho vista diverse volte», racconta la consigliera Cersosimo, «mi è sembrata una bambina felice».

Verso la promozione il presidente del Tribunale per i minori di Bologna, scrive Francesco Borgonovo su La Verità il 20 luglio 2019. Giuseppe Spadaro guida il Tribunale dei Minori competente sui casi di Bibbiano e per questo ispezionata dal ministero. Per lui un ci sarebbe l’incarico di procuratore capo a Roma. Famose le sue sentenze pro adozioni arcobaleno. La lobby gay, che controlla settori della magistratura e della politica, premia il proprio benefattore.

Contro gli abusi sugli abusi. L’indagine a Reggio Emilia sulla presunta sottrazione di minori sulla base di finti abusi è un’occasione per vaccinare l’Italia da chi trasforma i processi in caccia alle streghe. Ermes Antonucci su Il Foglio il 9 Luglio 2019.  Un sano approccio garantista e il ricordo dei tanti processi mediatici poi finiti nel nulla dovrebbero indurre a esaminare con molta prudenza il caso di Reggio Emilia sulla presunta sottrazione di minori dalle proprie famiglie sulla base di finti abusi. Angela Lucanto, Bassa modenese, Rignano Flaminio, Reggio Emilia. C’è un filo che collega alcuni casi di abusi che non lo erano L’inchiesta “Angeli e Demoni”, coordinata dalla pm Valentina Salvi, ha portato all’adozione di misure cautelari per 18 persone...

Come ti plasmo il giudice antiabusi. Indagine sul Cismai, che insegna la sua ideologia inquisitoria perfino al Csm. Ermes Antonucci su Il Foglio il 24 Luglio 2019. Il Consiglio superiore della magistratura e la Scuola superiore della magistratura hanno promosso per anni corsi di formazione per i magistrati italiani incentrati sulle idee (non riconosciute dalla comunità scientifica) del Cismai, l’associazione al centro di decine di processi per presunti abusi su minori poi conclusi con clamorose assoluzioni e ora coinvolta nel caso di Bibbiano. In un precedente articolo, pubblicato lo scorso 9 luglio, abbiamo sottolineato come siano stati proprio gli assistenti sociali e gli psicologi affiliati al Cismai (Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia) a svolgere le perizie su cui si sono basati numerosi processi per accuse di abusi su minori poi smentite (Angela Lucanto, i “Diavoli della Basse modenese”, Rignano Flaminio), e come ora questi stessi professionisti siano al centro dell’inchiesta di Reggio Emilia sul presunto giro di affidi illeciti di minori nei comuni della Val d’Enza. Al centro dell’indagine vi è la onlus Hansel e Gretel, diretta dallo psicoterapeuta Claudio Foti, da sempre tra i principali sostenitori del Cismai e ora indagato. La stessa onlus, come abbiamo rivelato, è stata iscritta per anni al Cismai. Lo stesso Cismai, inoltre, risulta essere tra i soggetti che hanno collaborato all’organizzazione di un convegno tenutosi il 10 e 11 ottobre 2018 a Bibbiano dedicato ai primi due anni di esperienza del centro La Cura, ora al centro dell’indagine della procura di Reggio Emilia, in cui operavano gli operatori della onlus Hansel e Gretel. Al convegno intervenne con una relazione anche Gloria Soavi, presidente del Cismai. Nelle ultime settimane anche altri giornali ha ricostruito la serie di casi giudiziari controversi che hanno coinvolto gli affiliati al Cismai. Il Fatto quotidiano ha ricordato la tremenda vicenda di Sagliano Micca (Biella) del 1996, in cui un’intera famiglia, incolpata ingiustamente di abusi sessuali, si suicidò nel garage della propria abitazione. Panorama ha rintracciato casi simili di famiglie distrutte sulla base di accuse infamanti di abusi, poi smentite dai giudici, anche a Salerno, Pisa, Arezzo e Cagliari. A prescindere dai recenti fatti di Bibbiano, su cui si esprimerà la magistratura, abbiamo fatto notare come il vero problema sia costituito dal metodo utilizzato dal Cismai, e quindi da centinaia di professionisti sparsi per il paese, per l’ascolto dei minori, che spinge a rintracciare abusi sessuali anche quando non ci sono. Una metodologia (enunciata nella “Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale” del Cismai) elaborata da una commissione interna alla stessa associazione e respinta dalla comunità scientifica, che invece si riconosce in alcuni testi ben più rigorosi e frutto di in un intenso lavoro del mondo scientifico e accademico, come la Carta di Noto e le linee guida della Consensus Conference. Tuttavia, la metodologia del Cismai (tutta incentrata sulla convinzione che l’abuso sessuale sui minori sia un “fenomeno diffuso” e “in grande prevalenza sommerso”, che gli adulti non vadano ascoltati perché “quasi sempre negano” e che l’abuso debba essere rintracciato anche in assenza di rivelazioni del minore, grazie a un approccio “empatico” da parte degli operatori) ha fatto proseliti, tanto da permettere a Foti e ai vertici del Cismai di tenere negli ultimi anni convegni e corsi di formazione per psicologi, assistenti sociali ed educatori. Ma non è tutto. Il Foglio, infatti, è in grado di rivelare che sia Gloria Soavi, presidente del Cismai, sia Claudio Foti hanno avuto la possibilità di formare anche magistrati. La prima risulta essere stata tra i relatori di un corso di formazione di tre giorni (15-17 gennaio 2018) dedicato alla “pratica del processo minorile e civile”, organizzato a Scandicci dalla Scuola superiore della magistratura, alla quale dal 2006 è attribuita la formazione iniziale e permanente delle toghe, ma questo potrebbe non essere stato l’unico coinvolgimento di Soavi nei corsi della Scuola. Dall’altra parte, Claudio Foti è stato relatore di incontri di studio promossi dal Consiglio superiore della magistratura per ben sette anni (1990, 2001, 2003 e dal 2006 al 2009). Alcuni di questi corsi sono stati riservati a magistrati in tirocinio, cioè a magistrati che stavano svolgendo il loro percorso di formazione dopo il superamento del concorso, prima di essere destinati a svolgere le funzioni di requirenti e giudici dei minori.

Sappiamo anche che gli incontri di studio tenuti da Foti e promossi dal Csm sono stati incentrati proprio sulle teorie su cui si fonda la metodologia del Cismai.

Tra i materiali allegati agli incontri di studio tenuti da Foti il 4 ottobre 2007 e il 17 giugno 2008 a Roma, e promossi dal Csm, vi è ad esempio un articolo pubblicato dallo stesso Foti sulla rivista Minorigiustizia e dedicato al tema del “negazionismo dell’abuso sui bambini”, paragonato addirittura al negazionismo dei genocidi: “Non esiste storia di un genocidio senza una schiera di negazionisti o revisionisti tesi a dimostrare che a ben vedere genocidio non c’è stato”. Secondo Foti, infatti, “è necessario, anche se mentalmente impegnativo, prendere atto di due penose verità: a) l’abuso sessuale sui minori è un fenomeno che ha dimensione endemiche nella nostra cultura; b) nonostante le sue dimensioni massicce, il fenomeno è destinato per molti aspetti a restare sommerso ed impensabile”. Esattamente le premesse enunciate nelle linee guida del Cismai. Foti cita anche una pubblicazione di Marinella Malacrea e Silvia Lorenzini (Malacrea è neuropsichiatra infantile e socio fondatore del Cismai), per criticare la corrente scientifica che promuove l’adozione di criteri rigorosi nell’ascolto dei minori, e che per questo contribuirebbe ad aumentare il rischio di falsi negativi, cioè di situazioni in cui l’abuso sarebbe avvenuto ma non viene rilevato: “La corrente scientifica che avvalora una giusta prudenza in vista del rischio di creare falsi positivi rischia di trasformarsi in cortocircuito che spinge a ‘diffidare’ comunque, senza possederne analiticamente le ragioni. E quindi, in definitiva, si arriva ad incrementare il numero di falsi negativi, pur nello sforzo in buona fede di evitare i falsi positivi”. Foti si spinge addirittura ad affermare che “i dati relativi alle false accuse non possono basarsi sulle archiviazioni e sulle assoluzioni giudiziarie”, perché “non si può considerare il responso giudiziario come un fondamento di verità clinica e sociale, confondendo la verità giudiziaria con quella scientifica e dimenticando che la prima necessariamente deve tenere conto, giustamente ed inevitabilmente, del parametro delle prove ed inoltre risulta spesso condizionata vuoi da modalità d’indagine e processuali che tengono assai poco in considerazione le comunicazioni dei bambini, vuoi dalla scarsa preparazione psicologica dei giudici”. Insomma, se una denuncia per abusi su minori viene smentita in sede giudiziaria, significa che probabilmente la giustizia ha sbagliato. In un altro passaggio, Foti cita una pubblicazione di Paola Di Blasio e Roberta Vitali (anche Di Blasio, docente di Psicologia all’Università Cattolica di Milano, è associata al Cismai), per sostenere che “non si è mai riusciti a dimostrare in chiave sperimentale la possibilità di instillare un falso ricordo se non riguardante un episodio in qualche modo plausibile, familiare per il soggetto su cui s’intende effettuare l’esperimento. Non è dunque assolutamente legittimo affermare che le domande induttive o suggestive abbiano di per sé il potere di costruire un falso ricordo di un episodio implicante un contatto corporeo e violento in assenza di psicopatologia diagnosticabile o di intenzionalità suggestiva di colui o colei che pone le domande”. Foti scrive anche che “ogni rivelazione di abuso, anche se confusa e frammentaria, merita approfondimento”, rievocando in maniera quasi identica una delle raccomandazioni presenti nelle linee guida del Cismai (“la rivelazione va sempre raccolta e approfondita, anche se si presenta frammentaria, confusa, bizzarra”). Nel materiale allegato a un altro incontro di studio tenuto il 3 dicembre 2008 a Roma, sempre promosso dal Csm, Foti cita alcune statistiche elaborate sempre da Marinella Malacrea (socio fondatore del Cismai) per dimostrare che gli abusi sessuali sui minori sono largamente diffusi nella nostra società. Afferma pure che un problema nel contrasto agli abusi è rappresentato dagli “avvocati e psicologi specializzati nella difesa di indagati e di imputati di reati sessuali sui minori”, che “tendono a sviluppare tesi funzionali alla difesa dei loro assistiti, cercando di dimostrare essenzialmente che l’abuso sessuale è spesso presunto erroneamente, che alto è il rischio di falsi positivi e che comunque non esistono procedure psicologiche o giudiziarie per accertare con sufficiente certezza un abuso eventualmente sussistente”. E conclude, infine, affermando di nuovo che “non si può introdurre nella mente di un bambino un falso ricordo che non sia in qualche modo plausibile, già presente nei suoi script interni”. E’ sufficiente leggere i contenuti dei testi allegati a questi corsi di formazione per comprendere i rischi di una loro applicazione da parte dei magistrati, inquirenti o giudici, nel momento della valutazione delle denunce di abusi sessuali su minori. Non sappiamo quanti e quali magistrati abbiano partecipato alle giornate studio tenute da Soavi e Foti, né se le linee guida del Cismai illustrate nei corsi siano state poi effettivamente applicate dai magistrati. Ci sono però alcune coincidenze interessanti. L’unica sede distaccata da Roma in cui Foti ha svolto un corso di formazione promosso dal Csm (il 29 febbraio 2008) è Salerno, dove le idee del Cismai si sono molto diffuse tra gli operatori. Proprio a Salerno negli ultimi anni sono emerse diverse vicende di denunce di abusi su minori che, dopo aver distrutto intere famiglie, si sono rivelate infondate. Queste denunce sono state raccolte proprio da assistenti sociali, psicologi e neuropsichiatri affiliati al Cismai, e poi portate avanti da magistrati. Rosaria Capacchione su Fanpage ha notato che una delle psicologhe della onlus Hansel e Gretel, Alessandra Pagliuca, dopo essere stata tra le tre psicologhe che alla fine degli anni Novanta collaborarono all’inchiesta sui “diavoli della Bassa modenese” (tra queste vi era anche Cristina Roccia, ex moglie di Foti), recentemente ha raccolto le denunce dell’esistenza di presunte sette sataniche in provincia di Salerno. Nel 2007 le denunce hanno portato a un’inchiesta che poi non ha prodotto alcun risultato. Antonio Rossitto su Panorama ha raccontato la vicenda, avvenuta sempre a Salerno, di un professore accusato di aver abusato delle figlie. Il caso andava verso l’archiviazione ma fu riaperto dopo il parere di Claudio Foti. Dopo un lungo processo durato nove anni, il 13 novembre 2015 l’uomo è stato assolto dal tribunale di Salerno, che ha criticato il metodo utilizzato da Foti, definendolo “un approccio contestato dal mondo scientifico”. A questa serie di orrori giudiziari in terra salernitana siamo in grado di aggiungere almeno altri tre casi. Tutti i casi coinvolgono la neuropsichiatra infantile Maria Rita Russo, dirigente all’Asl di Salerno del servizio Not contro il maltrattamento dei minori, che, oltre ad aver condiviso con Foti la partecipazione a numerosi convegni e seminari sull’“ascolto delle emozioni” dei bambini, è stata tra i promotori (insieme anche ad Alessandra Pagliuca e alla onlus Hansel e Gretel di Foti) di un’associazione denominata “Movimento per l’infanzia”, presieduta dall’avvocato Girolamo Andrea Coffari, oggi legale di Claudio Foti.

Il primo caso riguarda un tenente colonnello dei carabinieri, accusato nel 2009 dall’ex moglie di aver abusato sessualmente del figlio di appena due anni e mezzo. A raccogliere la denuncia dell’ex moglie e ad ascoltare il minore fu proprio Maria Rita Russo, alla presenza della stessa madre del bambino, che partecipò attivamente ai colloqui. In seguito ai colloqui Russo rintracciò tracce di abusi sessuali nei confronti del minore e segnalò il caso alla procura. Il padre (difeso dall’avvocato Cataldo Intrieri) venne rinviato a giudizio ma, dopo un calvario lungo cinque anni, venne assolto in rito abbreviato dal gup di Salerno. Nelle motivazioni della sentenza, il giudice sottolinea la “fragilità dell’intero impianto accusatorio, sia per l’inconsistenza dei pochi elementi d’accusa effettivamente documentati, insufficienti perfino a delineare un’effettiva notizia di reato, sia per l’incredibile approssimazione con cui, a giudizio dei periti, sono state eseguite le indagini tecniche di parte, in larga misura caratterizzate dalla clamorosa e grossolana violazione dei più elementari criteri previsti dai protocolli nazionali ed internazionali comunemente accettati, in tema di ascolto del minore”. Il giudice, infatti, nota come le modalità di svolgimento delle interviste al bambino “abbiano completamente disatteso le regole basilari individuate dalla comunità scientifica e riportate, per limitarsi ai documenti più significativi, nelle Linee Guida sull’ascolto del minore testimone, redatte all’esito della Consensus Conference del 2010, e nella cosiddetta Carta di Noto”. In particolare, afferma il giudice, “non si è minimamente tenuto conto dell’età del bambino”, che all’epoca dei colloqui non aveva compiuto tre anni e “non disponeva della capacità testimoniale”, non sono stati considerati i possibili condizionamenti derivanti dalle prime audizioni, che non erano state videoregistrate, né il fatto che a gestire le conversazioni fosse stata in larga misura proprio la madre del bambino. Inoltre, aggiunge il giudice, “le domande sono state poste con modalità guidate, incalzanti, confusive, suggestive” e “sono state più volte reiterate, talora con esplicite raccomandazioni a non dire bugie, in modo da innescare quel meccanismo di ‘compiacenza’ che solitamente si produce quando il bambino, ancora in tenera età, viene messo in condizioni di rendersi conto di aver fornito una risposta non gradita e finisce quindi per assecondare i desideri dell’interlocutore, specie quando questi sia una figura di riferimento affettivo, con inevitabile compromissione dell’attendibilità del narrato”. Per questi fatti Maria Rita Russo è stata rinviata a giudizio con l’accusa di false dichiarazioni al pm.

Il secondo caso riguarda due genitori accusati di aver costretto i loro figli ad avere rapporti sessuali con la sorella e a subire stupri di gruppo da conoscenti. Le accuse, raccolte sempre da Russo, hanno condotto a una condanna in primo grado per tutti gli imputati con pene tra i 10 e i 13 anni di reclusione. Lo scorso 12 luglio, però, il verdetto è stato ribaltato dalla Corte d’appello di Salerno, che ha assolto gli imputati dalle accuse di abusi sessuali e stupro di gruppo, dopo una nuova perizia che affermava come fossero state “violate le regole raccomandate in materia di ascolto dei minori”. Ad assistere uno degli imputati è stato l’avvocato Gerardo Di Filippo, che ora sta seguendo altri casi simili, da cui emergerebbero anche preoccupanti commistioni tra magistrati (e in particolare giudici onorari) e le case famiglia dove vengono spediti i minori. Il fratello di Maria Rita Russo, peraltro, è Michelangelo Russo, ex giudice della Corte d’appello di Salerno, che su un giornale locale ha definito “negazionisti” i giudici e i periti di Salerno che hanno riconosciuto l’infondatezza di molte accuse di abusi su minori.

Il terzo caso riguarda presunti abusi compiuti sui bambini di un asilo di Coperchia da parte di bidelli e personale amministrativo. Anche qui, nel corso del processo al tribunale di Salerno, è emersa l’assenza di alcun riscontro oggettivo sugli abusi.

Insomma, dopo la Bassa modenese e Reggio Emilia, anche Salerno pare una polveriera pronta a esplodere. Ma la principale domanda da porsi è:perché il Csm e la Scuola superiore della magistratura hanno aperto le porte a una metodologia non riconosciuta dalla comunità scientifica, permettendo ai magistrati di formarsi su questo approccio?

Caso Bibbiano: così si fabbrica il "mostro" dei bambini in affido. Denunce, pressioni, imbeccate. Ecco le carte esclusive delle inchieste che mettono sotto accusa il metodo del prof. Foti. Antonio Rossitto il 25 luglio 2019 su Panorama. «Gentile dottore, trasmettiamo quanto di nostra conoscenza circa un’ipotesi di reato sulla bambina G. Il presunto reato sarebbe stato commesso dal padre». Comincia così una delle denunce inviate ai magistrati dai fabbricanti di mostri. A corredo, c’è l’usuale e allarmante relazione, che dettaglia le violenze più turpi. Mittente: il Centro studi Hansel e Gretel di Moncalieri, diventato negli anni la Santa inquisizione di supposti molestatori e pedofili. Ma le inchieste scaturite da queste segnalazioni spesso non sono servite a smascherare padri incestuosi o insegnanti perversi. Si sono trasformate piuttosto in virulente gogne giudiziarie, concluse con assoluzioni e proscioglimenti. Famiglie sgominate da un sistema adulterato. Quello che ora è finito sotto accusa a Reggio Emilia. Gli orrori di Bibbiano: figli tolti ai genitori senza apparenti motivi, pressioni psicologiche sui bambini, interessi economici latenti. Agli arresti domiciliari sono finiti proprio il fondatore di Hansel e Gretel, Claudio Foti, e la moglie, Nadia Bolognini, terapeuta della onlus specializzata in psicologia infantile. «Gentile dottore» è l’incipit della missiva che, vent’anni fa, avvia anche l’inchiesta su Sergio. L’uomo viene denunciato dall’ex compagna per aver molestato la figlia di otto anni. La madre della bambina, preoccupata per un arrossamento ai genitali, si rivolge quindi a Foti. Un consulto che diventa un’istruttoria. Il dottore le suggerisce di partecipare allo «psicodramma», seduta collettiva con mamme e ipotetiche vittime. Una specie di teatrino per far emergere i racconti degli abusi. Gioco pericoloso e suggestivo. Ma il fine giustifica i mezzi. Sempre. Bisogna scovare gli orchi. Pazienza se la furia colpevolista travolge qualche innocente. Dopo gli incontri con il fondatore di Hansel e Gretel, la donna rafforza la sua convinzione: violenza c’è stata. Intanto, la figlia comincia a essere seguita dall’ex moglie di Foti, Cristina Roccia: la psicoterapeuta che, nello stesso periodo, viene coinvolta nelle indagini sui «Diavoli della bassa», un altro caso di falsi abusi a Mirandola. Roccia vede la giovane quattro volte in un solo mese. Poi, assieme a Foti, firma una preoccupata relazione che manda alla procura di Torino. Diagnosi netta: «Quadro più che compatibile con una situazione di rapporti incestuosi tra padre e figlia». Certo, qualcosa non torna. La bambina nega i fatti, ma è un evidente segno «del conflitto tra ricordare e dimenticare». E anche gli incubi notturni sono «segnali tipici dei minori traumatizzati». Perfino i dissapori con la madre «sono compatibili con l’abuso sessuale». Inequivocabile. La procura, dunque, proceda. Uno schema che si ripete negli anni, da un caso all’altro. Spingendo gli investigatori a strepitosi fraintendimenti. Foti, del resto, ha sempre avuto grande ascendente sui magistrati. È stato giudice onorario del Tribunale dei minori di Torino, dove però imperversa anche come riverito accusatore. Lo dimostra una lettera rinvenuta da Panorama tra i corposi faldoni riesumati. Il fondatore di Hansel e Gretel scrive a un pm torinese, suggerendo accorgimenti procedurali. E non si esime da formulare «osservazioni critiche» su una decisione del tribunale: «Con i servizi sociali» lamenta «eravamo rimasti intesi su un provvedimento ben diverso». Una palese e rivelatoria ingerenza. Imbeccate, denunce, insistenze. Così Sergio, difeso da Elena Negri, finisce a processo. Viene assolto. Sentenza confermata in appello nel 2001. I giudici scrivono: «Le accuse di G. sono venute fuori dopo enormi sforzi e pressioni». Aggiunge: «Il centro Hansel e Gretel è stato il luogo in cui ha compiuto tanti incontri, ovviamente sempre mirati in un’unica direzione». Quella dell’abuso. A ogni costo. Sospetti tramutati in incrollabili certezze. L’avvocato Negri lo chiama «il pacchetto preconfezionato». Negli anni, s’è trovata a difendere almeno una decina di uomini, trascinati nell’inferno e poi assolti. «Lo schema si ripete» sostiene il legale. «Separazione burrascosa. La madre sospetta che l’ex marito molesti la figlia. La porta quindi dagli “abusologi”. Che, dopo visite orientate e domande preconcette, compilano una relazione di fuoco da inviare in procura. E i magistrati, nel dubbio, aprono l’inchiesta». Un frutto avvelenato. Lo stesso copione di un altro caso capitato a Torino. Un padre, Luciano, accusato d’indicibili sconcezze, avvenute durante una vacanza in montagna. Tutto campato per aria. «L’esame del colloquio registrato con la psicologa del centro Hansel e Gretel evidenzia modi d’ascolto della bambina non corretti, condizionanti e suggestivi» scrive lo psichiatra Mario Ancona, consulente della difesa. A maggio 2005 Luciano è assolto: non c’è «nessun indicatore di violenza sessuale». Nella sentenza, il collegio stigmatizza anche i metodi della specialista: «Ha sottoposto a un vero e proprio fuoco d’assedio» la minore. Definita, al contrario di quanto assicurato dagli esperti, «vivace, estroversa, priva di complessi e dotata di senso dell’umorismo». Vent’anni di condizionamenti e segnalazioni. Nel 2012 è ancora Hansel e Gretel a marchiare con una lettera scarlatta la fronte di Veneria, educatrice di una comunità per minori di Asti con cui il centro collaborava. Stavolta i protagonisti sono Foti e l’attuale moglie, Bolognini. Coinvolti nell’indagine «Angeli e demoni» a Reggio Emilia, sono adesso ai domiciliari per falso ideologico, frode processuale e depistaggio. Sei anni fa, furono anche loro ad accusare Veneria d’aver abusato di un’adolescente problematica: ospite della struttura di Asti e paziente della Bolognini. È proprio alla terapeuta che la turbolenta ragazza riferisce d’aver subito violenze e molestie dall’educatrice, con cui aveva rapporti conflittuali. Una ripicca? Nemmeno per sogno. Hansel e Gretel è granitica: diagnosi chiara. Affiora, pure stavolta, grazie dallo «psicodramma» inscenato da Foti. Che fa emergere, tra mimo e recitazione, la supposta scena madre del sopruso: l’educatrice entra nella stanza della ragazza, tentando un approccio sessuale. E di fronte al rifiuto, le blocca con forza i polsi. Brutalità interrotta dall’ingresso di una collega. Che però, di fronte ai pm, negherà l’episodio. Intanto, dopo la denuncia, Veneria viene licenziata dalla comunità. La sua abilitazione è a rischio. Per mantenersi fa le pulizie. Cinque anni negli inferi. Fin quando la donna, difesa dall’avvocato Aldo Mirate, viene assolta: il fatto non sussiste. Al perito nominato dal gip, la ragazza non ha confermato nessuna delle violenze denunciate da Hansel e Gretel. Non esiste «il minimo riscontro probatorio». Già. Come nel caso di un altro, sensazionale, abbaglio. Stavolta il teatro degli orrori è una scuola media di Luserna San Giovanni, vicino Torino. «La scuola dei satanisti» la ribattezzano i giornali dell’epoca. Selvaggi accoppiamenti tra professori e ragazzi. Bidelli che costringono gli alunni a bere strani intrugli. Messe nere in un santuario. Persino un prete, che obbliga quattro studentelli a uccidere un neonato e a bere il suo sangue. Nel copione c’è di tutto. Una sceneggiatura ideata da un fantasioso adolescente, pure lui paziente della Bolognini, con la complicità di una madre condizionabile. Che, a sua volta, si affiderà a Foti. Insomma: anche in questo caso, Hansel e Gretel diventano guida e supporto dell’inchiesta. Ad aprile 2005 finisce così in carcere un incolpevole insegnante di ginnastica: Gianfranco Cantù. Accusato dal ragazzino di abusi sessuali negli spogliatoi. Il professore nega disperato. Viene liberato solo tre mesi più tardi. Intanto il minore, dopo i colloqui con gli psicoterapeuti, arricchisce il suo racconto con episodi inverosimili: messe nere, ammazzamenti, orge. Versioni in parte poi confermate da due compagni di classe: isteria collettiva. Nascono, ancora una volta, gli orchi. «La scuola dei satanisti», appunto. La procura di Pinerolo indaga altri sei insegnanti, sospettati d’essere una setta di pedofili seguaci di Satana. La gogna dura due anni. Fino a quando, il 30 aprile 2007, il pm Vito Destito chiede l’archiviazione per Cantù, difeso dall’avvocato Francesco Gambino. «Gli altri minori coinvolti nei racconti hanno negato», scrive il magistrato. È inverosimile, poi, che fatti talmente eclatanti e turpi siano successi durante l’orario scolastico. Nessuno ha notato nulla. E non ci sono segni di abusi sessuali. Tantomeno riscontri. Niente di niente. Eppure «gli psicoterapeuti di Hansel e Gretel hanno ritenuto attendibile la narrazione» dello studente. Un dubbio poi insinuato ad altri compagni dai loro genitori: «Suggestionando inevitabilmente e, si spera, involontariamente i due ragazzi» considera il pm. Insomma, la cosiddetta «credenza assertiva». Un contagio, fomentato dai terapeuti. A marzo 2008 il tribunale di Pinerolo archivia l’indagine. I sette insegnanti non sono dei satanisti assetati di bambini. Ma solo le ennesime vittime dei fabbricanti di mostri. 

Bibbiano, dalle carte nuovi indizi, emergono i tentativi degli indagati di sviare le indagini. Federica Anghinolfi aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019 su Il Giornale. Le ha tentate tutte Federica Anghinolfi che, si scopre, per boicottare le indagini avrebbe contattato persino il Garante Regionale per l’Infanzia. Dalle carte della Procura di Reggio Emilia sull’inchiesta “Angeli e Demoni”, che hanno denunciato il losco giro di affari a danno dei bambini nascosto sotto il sistema di affidi della Val d’Enza, emergono nuovi particolari. Ad essere accusata è di nuovo lei, la dirigente dei servizi sociali, messa sotto scacco da alcune intercettazioni dei carabinieri. Secondo le carte, prima dell’esecuzione delle misure cautelari, nel bel mezzo delle indagini, quando i carabinieri stavano passando al setaccio carte e fascicoli, la dirigente dei servizi sociali della Val D’Enza avrebbe tentato di bloccare le ricerche. Ma in che modo? Pare che Federica Anghinolfi abbia richiesto un intervento del Garante per l’infanzia. Una domanda d’aiuto celata, giustificata dal fatto che, secondo l’Anghinolfi, l’attività investigativa stava intralciando i già avviati, procedimenti sui minori. Procedimenti che si sono poi rivelati, secondo quanto descrive la Procura, parte integrante di un sistema che lucrava sulla pelle dei bambini. E di cui proprio lei, era la prima protagonista. Tanto che il 27 giugno scorso è stata eseguita, nei confronti della dirigente, un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. In realtà la “regista” del sistema degli orrori aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. A confermalo alcune telefonate intercettate dai carabinieri. Come quella avvenuta tra Federica Anghinolfi e Cinzia Prudente una delle donne affidatarie, nonchè amica della dirigente, a cui era stata data una bambina. A chiamare è l’Anghinolfi a cui l’amica risponde allarmata: “Mi stai chiamando con il tuo?” Poi prosegue esortandola a chiamare “da fisso a fisso”. “L’Anghinolfi capisce subito la situazione”, si legge nelle carte, e conferma, mettendo giù la cornetta. Insomma, tutto fa pensare che le due sapessero di essere intercettate e, sopratutto, che avessero qualcosa da nascondere. Qualcosa, che non doveva finire nelle mani della Procura. Ma c’è di più. Come riportato dall’ordinanza: “è appurato tramite le intercettazionitelefoniche che, una volta appreso della esistenza delle indagini, maturò all’interno del gruppo degli indagati il “progetto” di regolarizzare la situazione originariamente illegittima”. Insomma, a nascondere la sabbia sotto il tappeto erano tutti d’accordo. Tanto che fu fissato un incontro con i vertici del dipartimento dell’ASL Reggio Emilia. Incontro durante il quale, emerse che tre degli indagati (tra cui Federica Anghinolfi e il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti) comunicarono che non volevano più gestire, in proprio, la terapia dei minori attraverso la struttura “La Cura” e chiedevano all’Asl “una sorta di condivisione della spesa in modo formale”. In soldoni, quello che gli indagati proponevano all’azienda era di dare una veste formale a quella che, fino a quel momento, era stata l’attività di psicoterapia infantile portata avanti, in maniera illecita, dalla onlus Hansel e Gretel. A capo della quale vi era Claudio Foti, anche lui finito nel registro degli indagati della Procura. Una copertura che, di fatto, non avrebbe cambiato le cose, ma solo risolto gli impicci con la legge. Sì, perchè nella proposta ai dirigenti dell’ASL, era richiesta anche la possibilità di mantenere all’interno della struttura gli stessi psicologi che prestavano servizio a "La Cura". Dopo tutto, per tenere in piedi l'affare servivano loro. I "demoni" che plagiavano le piccole vittime.

INCREDIBILE MA VERO: CLAUDIO FOTI, IL "GURU" DI BIBBIANO, NON HA NEANCHE LA LAUREA IN PSICOLOGIA! Antonio Amorosi per Affari Italiani il 24 luglio 2019. Claudio Foti, il “guru” indagato per gli affidi da incubo dei bambini di Bibbiano, non ha nemmeno la laurea in Psicologia, tanto meno in Psichiatria. E’ laureato in Lettere all’Università di Torino nel 1978, dopo otto anni di studio. Nessuna laurea nelle materie della psiche. Dietro al caso Bibbiano vi è anche questo singolare tratto del profilo professionale di uno dei principali attori in causa. Il dato clamoroso risulta dai diversi curricula di Foti pubblicati in rete da istituzioni, e precisamente dall’Azienda sanitaria Ulss 9 Scaligera di Verona e dall’ospedale infantile Burlo di Trieste.

Dopo “Lettere” Foti ha all’attivo solo delle “Maratone e gruppi di psicodramma” e un “tirocinio in qualità di psicologo”, presso il “servizio di Neuropsichiatria infantile dell'Ospedale Maggiore della Carità di Novara”. Come fa a fare un tirocinio in ospedale, in neuropsichiatria infantile un soggetto che ha solo la laurea in Lettere? E’ uno “psicodrammista”, c’è scritto nel curriculum. In seguito ha fatto tantissimi corsi ma questi non possono essere equiparabili ad una Laurea. Voi affidereste vostro figlio di 5 anni o una persona con difficoltà psichiche a uno psicodrammista con la Laurea in Lettere? Senza neanche una laurea in Psicologia o Psichiatrica? E che c’entra Dante Alighieri e Montale con la Neuropsichiatria infantile? E come mai tutti questi enti pubblici lo accreditato ad occuparsi della psiche dei più deboli? Perché sia possibile ce lo spiegano vari Ordini regionali degli Psicologi contattati e soprattutto quello del Piemonte, al quale Foti risulta iscritto dal 1989. “E’ iscritto come articolo 32”, ci dicono al telefono. “E’ ufficiale? Ce lo può confermare?”, chiediamo. “Si, è un articolo 32, Legge n. 56 del 1989”. Cosa sia questo articolo di legge lo raccontano, sul loro sito, gli psicologi del gruppo “SRM Psicologia” che dagli anni ‘80 si occupano di promozione e tutela delle scienze psicologiche: “Molti psicologi, soprattutto tra quelli iscritti all'Albo con art. 32 o con Art. 34, hanno lauree diverse, come una laurea in sociologia, biologia, filosofia, scienze politiche, giurisprudenza ecc., e ci sono alcuni che non hanno laurea ma soltanto un diploma. Questo è stato l'effetto di una sanatoria. La legge che regola la professione di psicologo esiste soltanto dal 1989. Infatti prima dell'istituzione dell'Ordine Professionale la psicologia e la psicoterapia erano attività non regolamentate. Molti psicologi art. 32 o art. 34 infatti prima di essere dei veri psicologi, erano soltanto degli psicoterapeuti spesso autodefinitisi tali. Poi grazie alla sanatoria sono diventati psicologi.” Grazie alla sanatoria del 1989, governo Dc a guida Ciriaco De Mita con alla sanità Carlo Donat-Cattin, i tanti psicoterapeuti che si autodefinivano tali hanno potuto iscriversi all’Ordine degli psicologi, se per un certo numero di anni precedenti erano stati riconosciuti come tali dagli enti pubblici. Il governo regolarizzò così un quadro caotico in cui chiunque esercitava la professione di psicologo. Claudio Foti, che si definisce “direttore scientifico del Centro Studi “Hansel e Gretel”, nel 1982 diventa “giudice onorario” per il Tribunale dei minori di Torino. Nell’89 è già docente all’Istituto di Psicoterapia psicoanalitica – Torino” e nel 1992 insegna educazione sessuale ai bambini delle scuole medie. Poi una carriera folgorante, forte nella sua collaborazione con gli enti pubblici. Nel curriculum c’è anche scritto che Foti ha sostenuto numerosi corsi, scritto saggi, è formatore e addirittura docente delle stesse materie di ramo psicologico in qualche università. Inizialmente agli arresti domiciliari per la vicenda di Bibbiano, ora ha l’obbligo di dimora nel Comune di Pinerolo (Torino) dove abita. Il Tribunale del Riesame ha ritenuto che gli indizi raccolti contro di lui dagli inquirenti di Reggio Emilia non fossero così “gravi”. Sul caso Bibbiano, Foti, 68 anni, si è dichiarato innocente ed ha ripetuto a vari giornali: “Non sono un mostro. Su di me solo fango, io quei bimbi li ho salvati”. Mostro o non mostro di certo la sua formazione professionale è discutibile perché non ha una laurea scientifica e specialistica in Psicologia o Psichiatria, tanto più occupandosi di vicende così delicate come quelle dei minori abusati e delle loro famiglie.  Per quanto iscritto all’Albo è sorprendente che questa mancanza non abbia fatto la differenza per nessuna istituzione. Abbiamo contattato l’avvocato di Foti, Girolamo Andrea Coffati per avere spiegazioni: “Lo conosco da 20 anni ed era già laureato. Non conosco il suo…. Bisogna chiederlo a lui. Immagino che se lui svolge la professione di psicoterapeuta lo faccia all’interno della legge” Certo. Ma ha una laurea in Psicologia o Psichiatria? “Sono onesto non ho idea. Bisogna chiederlo a lui. Chiamo Foti e la ricontatto se mi autorizza a darle il suo cellulare”. Stiamo aspettando la chiamata.

Il "guru" Claudio Foti, psichiatra senza laurea. Nel curriculum vitae segnalato da un lettore a IlGiornale, appare solo una laurea in lettere. Costanza Tosi, Mercoledì 24/07/2019, su Il Giornale. Un luminare della materia diceva qualcuno. Peccato che, il “guru” Claudio Foti, fondatore della Onlus al centro dell’inchiesta sui diavoli di Bibbiano, “Hansel e Gretel”, finito sul registro degli indagati della Procura di Reggio Emilia sugli affidi illeciti, e ora accusato di maltrattamenti in famiglia, pare non abbia nemmeno la laurea in psicologia. A svelare l’anomalia il suo curriculum vitae che abbiamo letto con attenzione. Il guru Claudio Foti è accusato dalla Procura di Reggio Emilia di aver alterato, al fine di sviare le indagini, “lo stato psicologico di una minore”. Una bambina usata, si legge nelle carte, come “una sorta di cavia nell’ambito della psicoterapia specialistica”. Peccato, però, che la psicologia non l’abbia di fatto mai studiata. Almeno così sembra. Tra le sue esperienze, riportate nel curriculum caricato sul web dall’Azienda Sanitaria Ussl di Verona e dall’ospedale infantile Burlo di Trieste, risulta solamente una laurea in lettere, presa in otto anni, all’Università di Torino nel 1978. Della laura in psicologia nessuna traccia. Neanche nell’albo degli psicologi che abbiamo consultato. Sempre nel curriculum del “guru” si legge: “maratone e gruppi di psicodramma”, un “tirocinio in qualità di psicologo” in un ospedale di Novara e, qualche anno dopo, una scuola di psicoterapia non identificata. Quindici pagine di curriculum, piene di seminari, corsi e ruoli d’insegnamento, ma nessuna laurea nelle materie della psiche. Né, tantomeno, in medicina, di cui psichiatria è una specializzazione. Ma come ha fatto i dottor Foti a svolgere tirocini all’interno di strutture ospedaliere senza una laurea in psicologia? Come poteva tenere lezioni di psicoterapia senza aver mai passato degli esami che certificassero la sua preparazione? Il dubbio rimane. Si sarà dimenticato di inserirlo nel curriculum? Intanto indaghiamo. Eppure, nell’albo degli psicologi del Piemonte il suo nome c’è. Foti è iscritto. Grazie all’articolo 32. Ma cosa vuol dire? “Molti psicologi, soprattutto iscritti all’albo con l’articolo 32 o 34 in realtà hanno lauree differenti”, come si legge sul sito di “SRM Psicologia”, “Questo è stato l’effetto di una sanatoria. La legge che regola la professione di psicologo esiste solo dal 1989. Prima dell’istituzione dell’ordine Professionale la psicologia e la psicoterapia erano attività non regolamentate.” Dunque, molte persone che adesso sono iscritte grazie a questi due articoli, prima, probabilmente, non erano psicologi, e magicamente lo sono diventati grazie proprio a questa sanatoria. Ne avrà approfittato pure lui, il “guru” della psichiatria?

Scandalo affidi. L'inutile "Squadra Speciale" del Ministro Bonafede. Il guardasigilli lancia una proposta di pura facciata. Per risolvere il problema serve una riforma certa, a partire dall'abolizione del Tribunale dei Minori. Daniela Missaglia il 23 luglio 2019 su Panorama. Il Ministro della Giustizia Bonafede, per i gravi fatti sugli affidi di Bibbiano, ha pensato di inviare una ‘task force’, nemmeno ci trovassimo di fronte al sequestro di una nave mercantile. Squadra speciale Alfa, azione! Di cosa si tratti non si sa esattamente, anche se c’è da augurarsi che le idee chiare le abbia almeno lui. Personalmente, penso che creare una “Squadra speciale di giustizia per la protezione dei bambini” sull’onda dell'inchiesta di Bibbiano, non sia altro che un escamotage mediatico  che difficilmente farà sentire “il fiato sul collo ad ogni operatore” per evitare che fatti simili accadano ancora. Nulla contro il Ministro, sia chiaro, ma suscita sempre un sentimento di compatimento l’ardore di chi cerchi di svuotare il mare con un secchiello o si periti di contare le stelle del firmamento sdraiandosi supino sul prato di casa. Chissà se l’On. Bonafede abbia letto l’intervista su Panorama del 27 giugno 2019 al Dott. Francesco Morcavallo, ex Giudice togato del Tribunale per i Minorenni di Bologna che, schifato da un “business osceno” (ipse dixit) legato al sistema degli affidi, ha fornito - dall’interno - l’inquietante spaccato di ingerenze, conflitti d’interesse, subalternità ad indirizzi contrari agli interessi dei minori, che anima l’apparato della giustizia minorile, ripugnandolo al punto da indurlo a lasciare la magistratura. E siccome navigo anch’io, pur in altra veste,  in quei mari agitati da intrighi dove lo tzunami della malagiustizia raggiunge i suoi apici, la tentazione di allontanarmi è sempre più forte. Si perché non è che Bibbiano nasce come un mostro raro, visto che parliamo dell’esatta ripetizione di quello che è successo nella Bassa modenese circa vent’anni fa dove tanti poveri cittadini vennero accusati di essere pedofili satanisti con relativo allontanamento coatto dei loro bambini e, prima ancora, a comunità per minori disagiati del Mugello finita al centro di processi per maltrattamenti e abusi sessuali che hanno coinvolto il suo fondatore e ‘profeta’, Rodolfo Fiesoli. Chissà se il nostro Ministro della Giustizia conosca nel dettaglio il meccanismo per cui i centri cui vengono affidati i bambini sottratti alle famiglie sono, in via diretta o indiretta, partecipati o diretti dagli stessi esponenti di quel tolkeniano mondo di mezzo fatto di assistenti sociali, tutori e psicologi che - spesso e volentieri - assumono le vesti di giudici onorari presso i Tribunali per i minorenni, finendo così per orientare la decisione stessa di affido etero-familiare, indirizzando il minore verso quei centri. Con buona pace di frasi mai verbalizzate o, peggio ancora, mai proferite dai bambini oggetto dei procedimenti. O di documenti che non arrivano mai sulla scrivania giusta. Per non parlare dell’enorme giro di interessi che questo sistema alimenta (si parla di un miliardo a mezzo di euro). Il Ministro Bonafede ha annunciato che nella ‘task force’ parteciperà anche il Commissario Straordinario del Forteto, di fatto creando un parallelismo che avvilisce più che rinfrancare, perché due commissioni d’inchiesta regionale ed una parlamentare hanno solo aiutato a leggere i drammi di una vicenda iniziata a fine anni settanta, senza però risolvere alcunché, come la Bassa modenese prima e Bibbiano poi hanno dimostrato.

Ciò che era, è. Ma l’Italia è il Paese delle commissioni permanenti, come quelle su Ustica anche se, a distanza di quarant’anni, ancora non sappiamo chi sia responsabile dell’abbattimento del DC9 Itavia e con chi debbano prendersela i parenti delle vittime. Paolo Coelho scriveva che quando si rimanda il raccolto i frutti marciscono, ma quando si rimandano i problemi, essi non cessano di crescere. E difatti è stato sempre così in questa nazione dove ci si è fintamente affannati di cercare soluzioni attraverso palliativi come le task force che, spesso e volentieri, hanno solo illustrato il problema, senza rimuoverlo. Se si pensa di intervenire con un mero maquillage di facciata i bambini continueranno ad essere vittime di un sistema fallato nelle fondamenta e l’Italia a violare le convenzioni internazionali e la Costituzione stessa. Va trovata la forza di fare ciò che, da troppo tempo, taluni operatori di diritto propongono, l’abolizione dei Tribunali per i minorenni, nati con una funzione che si è via via perduta, pur continuando ad operare sotto organico ed attraverso toppe - quelle dei giudici onorari - che sono peggio del buco. Il risultato è aver creato una voragine dove i fascicoli stanziano per tempo immemore e, con il gioco dei provvedimenti provvisori non impugnabili, le decisioni assunte tracciano un destino perverso insuscettibile di controllo. A complicare ulteriormente i foschi scenari che coinvolgono le famiglie italiane arriva la notizia che il Consiglio dei Ministri ha appena varato il progetto di legge delega che, se approvato dal Parlamento, nell’arco di due anni dovrebbe riformare il processo civile, oltre a quello penale, con l’intento di velocizzare le procedure ed arrivare a sentenza in tempi più rapidi rispetto a quelli attuali. Peccato che la riforma non sembrerebbe estendersi ai procedimenti legati alle crisi familiari ed ai minori, creando così figli e figliastri, un doppio binario che menoma proprio quell’ambito del diritto che imporrebbe celerità ed urgenti decisioni. La verità è che non servono task force,  come non servono proposte di legge presentate all’indomani dei fatti incresciosi, per rammendare un vestito che ormai deve essere buttato via perché lacerato al punto da non poter nemmeno essere indossato. Così proprio non va, caro Ministro, Bibbiano è la punta di un iceberg purulento che va mostrato e distrutto con soluzioni decisamente più energiche di una task force. E’ ora di fare sul serio, lavorando  ad una riforma strutturale della giustizia civile che restituisca fiducia ai cittadini. Perché la fiducia è il fondamento della vita sociale ed oggi sta svanendo con la stessa velocità con cui un epidemia spazza via vite umane. Caro Ministro Bonafede, temo che la sua task force dovrebbe avere la consistenza di un esercito per intervenire sui ventinove Tribunali per i minorenni sparsi per l’Italia e dunque, ciò che mi auguro è che si intervenga in tempi rapidi su una radicale riforma del sistema giudiziario che passi anche attraverso alla creazione di sezioni specializzate in ogni Tribunale, ridando alla magistratura quel lustro che si merita essendo considerata, per certi versi, la migliore al mondo.

Scandalo affidi: il business sulla pelle dei bambini. La vicenda di Reggio Emilia ricorda quella di Mirandola di diversi anni fa e racconta un mostro, anzi un sistema che ha colpito famiglie normali, come le nostre. Maurizio Belpietro l'8 luglio 2019 su Panorama. Un paio di numeri fa mi sono occupato di una vecchia storia accaduta a Mirandola, in provincia di Modena. All’improvviso, tra la fine del 1997 e l’inizio del 1998, un gruppo di famiglie, quasi tutte cattoliche, venne accusato di praticare riti satanici e di molestare i figli, abusandone sessualmente. Molti furono arrestati e i bambini vennero tolti ai genitori per essere dati in affido. Il prete del paese finì sul banco degli imputati e, prima di essere assolto, morì di crepacuore. Anche gli altri accusati furono assolti, ma solo dopo molti anni, quando ormai le famiglie messe sotto inchiesta si erano sfasciate e i figli erano grandi senza esserlo diventati accanto ai loro legittimi papà e mamme. All’epoca, di questa storia si occupò solo un quotidiano, quello che dirigevo, il Giornale, mentre tutti gli altri declassarono la vicenda a pura cronaca, per giunta delle più squallide, da liquidarsi in breve. Il Giornale, invece, fin da subito cercò di dare voce alle vittime, perché le accuse rivolte contro di loro erano del tutto inverosimili. Purtroppo il nostro impegno non bastò a cambiare il corso delle cose. Ci vollero anni e una infinità di udienze perché la verità venisse a galla e solo mesi fa qualcuno, sui giornali, ha cominciato a chiedersi come sia potuto accadere. Bene, anzi male: dalla settimana scorsa abbiamo la risposta alla domanda.

A Reggio Emilia, cioè a poca distanza da Mirandola, è successo di nuovo. Assistenti sociali e psicologi hanno riprovato ad accusare di abusi sui minori una serie di famiglie, allontanando i figli dai legittimi genitori per darli in affido ad altre coppie. Questa volta però a finire in carcere non sono stati i papà e le mamme, colpevoli solo di essere persone semplici e indifese davanti alla macchina della giustizia e di quel grande business che è l’assistenza ai minori. Dietro le sbarre sono finiti gli psicologi, le «esperte di infanzia» abusata, i professionisti dell’affido. La Procura, invece di credere alle loro accuse nei confronti dei genitori, ha creduto a mamme e papà, scoprendo un sistema infernale. Altro che riti satanici nella Bassa modenese. I riti erano quelli messi in atto per indurre dei bambini ad accusare genitori innocenti. Le assistenti sociali si incaricavano di suggerire ai piccoli che cosa dire negli interrogatori, inventando abusi che non c’erano. I più riottosi tra i bambini venivano «aiutati» con una «macchina dei ricordi», ossia con uno strumento che con elettrodi applicati alle mani generava scosse elettriche. Era un vero e proprio lavaggio del cervello quello che veniva fatto e, nel caso non bastasse, si «aggiustavano» i disegni, modificando quelli dei bambini con l’inserimento di riferimenti ad atti sessuali, così da provare le violenze. Le famiglie oggetto delle attenzioni ovviamente non erano scelte a caso, ma si puntava su quelle più semplici, povera gente insomma, perché non potesse permettersi troppi avvocati.

La storia di Reggio Emilia ha una diretta connessione con quella di Mirandola, perché dietro ci sono lo stesso psicoterapeuta e la stessa struttura di vent’anni fa. «Hansel e Gretel», un centro di Moncalieri specializzato in abusi sui minori, e Claudio Foti, un professionista «esperto» nel far emergere i ricordi dei bambini, in particolare quelli in famiglia. Foti, oltre a guidare la onlus torinese, per 12 anni è stato giudice onorario del Tribunale dei minori. Ma per i magistrati di Reggio che ne hanno disposto l’arresto, lui e la sua compagna suggerivano ai piccoli che cosa dire e che cosa ricordare, costruendo violenze mai esistite. Lo facevano per soldi, secondo l’accusa, facendosi pagare per servizi di cui non c’era bisogno. Ma forse lo facevano anche per motivi ideologici. Negli atti giudiziari vengono a galla problemi personali di una delle assistenti sociali, «una rabbia repressa sfociata poi negli atteggiamenti sui minori», ma anche le tendenze sessuali di un’altra esperta: omosessuale che guarda caso affidò i bambini strappati ai genitori a una coppia omosessuale. No, quella scoperta a Reggio Emilia non è una storia da liquidare come un caso di cronaca nera, una brutta faccenda che casualmente ha colpito i bambini. È qualche cosa di più: un sistema. Portato avanti per anni con la complicità di amministratori pubblici, dirigenti dell’Asl, funzionari nell’Emilia felix. Un sistema che ha distrutto numerose famiglie. Famiglie normali. Come la vostra.

Scandalo affidi: bambini rubati. Panorama ha ricostruito, dopo il caso di Reggio Emilia, i casi giudiziari che hanno coinvolto Claudio Foti e la sua onlus, Hansel e Gretel. Antonio Rossitto il 15 luglio 2019 su Panorama. Sono bastati qualche ghirigoro, un divorzio turbolento e una sequela di fantasie. L’hanno accusato d’aver abusato delle figlie, di quattro e sette anni. Giochi erotici di gruppo, filmini scabrosi, travestimenti da Biancaneve. Il 13 novembre 2015, dopo un processo lungo nove anni, il professore di matematica è stato assolto: non ha commesso il fatto. Ora ha 49 anni. Vive a Oristano, dove insegna alle superiori. «Il caso andava verso l’archiviazione» racconta. «È stato riaperto dopo il parere dello psicoterapeuta Claudio Foti». Un nome oggi alla ribalta. «Periti, pm, giudici: tutti pendevano dalle sue labbra». Già. Ma come si sopravvive a infamia e abbandono? «Cerco di non pensarci». Il professore comincia a singhiozzare: «Le mie figlie non vogliono più vedermi. Pasqua, Natale, compleanni: nemmeno mi rispondono. Una delle due ha la maturità quest’anno: io trepido, spero, sogno di ripassare accanto a lei. M’invento ogni cosa, pure gli abbracci». Si scusa per le lacrime. «Per loro sono uno zimbello. Adesso, però, magari capiranno: quello che è successo a Bibbiano è successo anche a loro». Bibbiano era un anonimo e placido paese nella Valle D’Enza. Oggi è l’inferno scoperchiato dall’inchiesta «Angeli e demoni». Quella sui fabbricanti di mostri: medici, psicologi e assistenti sociali. La procura di Reggio Emilia ha rivelato un presunto e gigantesco inganno: 16 arresti e 27 indagati. Tra cui il sindaco Pd della cittadina, Andrea Carletti: onta che s’è riversata pure sui democratici. Un corredo di orrori. Dietro cui si celerebbe il business di consulti privati e affidamenti. Quasi 200 bambini sarebbero stati manipolati con metodi da Santa Inquisizione. Per rivelare inesistenti abusi, essere allontanati dalle famiglie e venire assegnati ad altre coppie. Anche lesbiche. Ai domiciliari è finito pure lo psicoterapeuta che ha marchiato la vita di quel professore di Oristano. Claudio Foti, 68 anni, è il fondatore, a Moncalieri (To), del Centro studi Hansel e Gretel, onlus specializzata in psicologia infantile. Un assertore dell’inscalfibile assunto: i minori non mentono mai. Ogni sospetto è l’anticamera della pedofilia. Ex giudice onorario del Tribunale dei minori a Torino, Foti è acclamato consulente di decine di uffici giudiziari. Le sue perizie hanno istruito decine di processi. Molestie, sette, incesti. Racconti fagocitati da colloqui e terapie con i bambini. E ora avvocati di mezza Italia meditano vendetta, sperando di riaprire fascicoli ormai sepolti. Un sistema. Che l’inchiesta, coordinata dal reparto operativo dei carabinieri di Reggio Emilia, potrebbe cominciare a scardinare. Il Tribunale dei minori di Bologna ha deciso di rivalutare cinque adozioni dettagliate nell’ordinanza di custodia cautelare. La procura di Modena, invece, potrebbe riaprire il caso dei «diavoli della Bassa», andato in scena tra 1997 e 1998 a Mirandola. Quando un gruppo di famiglie viene accusato di abusare dei figli e di altre nefandezze: riti satanici, orge cimiteriali, corpi arsi vivi e cadaveri nel fiume. Sedici bambini vengono allontanati da casa per sempre. Una storia che ora si ricollega allo scandalo reggiano: vent’anni fa furono proprio le psicologhe di Hansel e Gretel a interrogare quei bambini di Mirandola. Tra cui l’ex moglie di Foti, Cristina Roccia. Mentre l’attuale coniuge, Nadia Bolognini, pure lei psicoterapeuta, è oggi tra gli arrestati dell’inchiesta di Reggio Emilia. E la procura di Torino avrebbe aperto un’indagine su una dubbia perizia firmata dalla dottoressa. È però Foti il fulcro ideologico da cui tutto discende. Bisogna seguire le sue orme per capire come, all’ombra di clamorosi abbagli giudiziari, è fiorita la fabbrica dei mostri. «Fanatismo persecutorio» sostiene l’ordinanza. «Gli indagati erano pregiudizialmente convinti che i minori fossero vittime di abusi». Vulgata che ha segnato clamorosi processi, sgominato famiglie, lasciato indelebili onte. Metodo dettagliato anche nella sentenza che, nel 2015, assolve il professor di Oristano, difeso dall’avvocato Simona Sica. Il Tribunale di Salerno, nella sentenza, enuncia la teoria di Foti: «Le emozioni delle bambine diventano elemento di validazioni della credibilità». E affonda: «Un approccio contestato dal mondo scientifico perché esistono molte ipotesi alternative che giustificano le stesse emozioni». Uguale conclusione a cui era arrivato il consulente di parte, Corrado Lo Priore. Il tribunale, poi, entra nel dettaglio del caso: le supposte violenze del professore sulle figlie. Il parere vergato da Foti, perito di parte civile e teste del pm, è inficiato: «Inutilizzabile». Più radicale il giudizio sul professionista che ha in cura la madre accusatrice e le due bambine. Ovvero: Mauro Reppucci, già discepolo di Foti, oggi seguace del discusso metodo Hamer per la cura del cancro e marito di Alessandra Pagliuca. Anche lei psicologa. Anche lei tra gli inquisitori dell’inchiesta sui «diavoli della Bassa». Altri corsi e ricorsi. «Fin dal primo momento» scrivono i giudici di Salerno «l’intento del dottor Reppucci è stato quello di cercare una verifica dei presunti abusi sessuali sulle minori». La sentenza aggiunge: «Per questo, coadiuvato dalla madre e dalla zia, ha sottoposto le bambine a un esame sempre più stringente, con una tecnica scorretta: il ricorso continuo a domande, blandizie e prospettazioni di mali futuri». Così, alla fine, il professore è assolto. Procura e parte civile accettano il verdetto. Nessun appello. Ora è un uomo libero. Ma la sua vita è ormai in frantumi. Gli stessi protagonisti ricompaiono in un’altra inchiesta, ancora a Salerno. Esplode a dicembre del 2007. Con un canovaccio da film horror, che riecheggia quello modenese. Orge sataniche. Minori violati che violentano coetanei. Una catena di sevizie, organizzate da incappucciati e satanisti. Vengono identificate le presunte vittime: tre fratellini. E l’ipotetico carnefice: il padre. Partono le indagini e la centrifughe terapeutiche. Stavolta la madre dei bambini, che sostiene anche di essere stata malmenata dal marito, si fa seguire dalla dottoressa Pagliuca. Foti invece guida il collegio di esperti del pm. Un ipotizzato conflitto d’interesse denunciato pure dal perito della difesa, Camillo De Lucia: «Appare davvero originale che la scelta del sostituto procuratore sia caduta su professionisti appartenenti al centro Hansel e Gretel, lo stesso dove la dottoressa Pagliuca ha riferito di essersi formata». Ma la strenua offensiva colpevolista non convince comunque i giudici. A luglio 2017 il padre viene assolto. Pagliuca, annota la sentenza, ha suggestionato uno dei ragazzini «su fatti non narrati spontaneamente». Mentre, riguardo Foti, i giudici segnalano «numerosi fenomeni di induzione diretta e suggestione. Insomma: «I bambini non hanno mai fatto dichiarazioni spontanee». Il fuoco di fila dei fabbricanti di mostri viene dispiegato pure a Pisa. Un’indagine nata nel 2006, dalla denuncia di una donna all’ex marito: avrebbe abusato della loro figlia. Foti, stavolta, è il perito del gip. La moglie dello psicoterapeuta di Moncalieri, Nadia Bolognini, comincerà invece a seguire la minore. Il primo ad andare in scena, dopo la richiesta d’incidente probatorio, è il fondatore di Hansel e Gretel. La ragazzina, di appena sei anni, può testimoniare al processo? Certamente. Per Foti non ci sono dubbi: «Esistono indicatori rilevanti e diffusi dell’esperienza incestuosa subita, che può essere ipotizzata come coinvolgente e sconvolgente». E il rapporto conflittuale tra i genitori? La madre potrebbe aver suggestionato la figlia? Macché: è un’evenienza «ampiamente falsificata». La bambina è credibile. Liviana Vizza, legale dell’indagato, in una memoria difensiva, attacca: il metodo dello psicoterapeuta, scrive, rappresenta una violazione di quanto la letteratura internazionale consiglia. Il legale dettaglia: «Ha tenuto una modalità d’interrogatorio fortemente orientante: domande chiuse, suggestive e incalzanti». L’uomo viene dunque rinviato a giudizio. E a ottobre 2012 arriva la sentenza. Il tribunale di Pisa lo assolve per non aver commesso il fatto. Il caso è definitivamente chiuso, anche questa volta. La procura, che aveva chiesto 10 anni, decide di non fare appello. Come la parte civile. Per il resto, i genitori hanno divorziato. La piccola, diventata ragazza, è stata affidata a entrambi. Ma di suo padre non vuole sentir parlare: crede ancora di essere una vittima. Così, assieme al suo legale, l’uomo adesso vuole andare a fondo. «L’indagine di Reggio Emilia ha confermato quella che fino a ieri era una mia supposizione» spiega Vizza. Ossia? «La manipolazione sistematica e continua dei bambini da parte di Hansel e Gretel. Anche per ottenere in cambio incarichi privati. Addirittura, in uno dei colloqui Foti dice alla bambina: “Queste cose, che tu voglia o no, le devi dire al giudice”». Così l’avvocato attende sulla riva del fiume l’eventuale rinvio a giudizio. «A quel punto, scatterà una denuncia per manipolazione di minore». Foti e Bolognini. Marito e moglie. Compagni di tante battaglie. Il fondatore e la psicoterapeuta di Hansel e Gretel. La procura emiliana li accusa di falso ideologico, frode processuale e depistaggio. I loro inganni avrebbero contribuito a causare danni psichici a cinque ragazzini. È lei, per esempio, a usare «l’inquietante macchinetta dei ricordi»: elettrodi collegati a mani e piedi dei piccoli. Serve, secondo la dottoressa, a ripescare i ricordi degli abusi. È lui, invece, a scegliere una bambina in cura come cavia, da esibire in un corso di formazione. E poi c’è il sospetto lucro. Le terapie private: «Un ingiusto profitto di 135 euro l’ora per minore, a fronte dei 70 euro medi di mercato, nonostante l’Asl locale potesse usare gratuitamente i propri professionisti». La procura reggiana tratteggia un ritratto poco lusinghiero di Foti: «Soggetto con ruolo di guida» e «un alto tasso potenziale di criminalità». Emerge, annotano i magistrati, «una personalità violenta e impositiva». Anche con i familiari: moglie, ex congiunta e figli minori. La procura indugia pure sulla consorte: Bolognini. «Il marito le rilevava una latente omosessualità, motivo di tensione da parte della donna». E poi la psicoterapeuta «risulta aver subito maltrattamenti dal padre quando era piccola». Come accaduto a Foti, aggiunge l’ordinanza. Così la dottoressa avrebbe riversato le sue angosce in una «rabbia repressa, sfociata negli atteggiamenti con i minori». Eppure il curriculum di Hansel e Gretel è denso e prestigioso. Seminari, corsi di formazione, master universitari. Alle lezioni del fondatore accorrevano tutti: psicologi, docenti, magistrati e assistenti sociali. Un blasone che ha attratto tribunali e procure, pronti a chiedere servigi per i casi spinosi. Chi meglio di lui poteva avallare e argomentare ogni turpe ipotesi? Foti è stato chiamato persino per una delle più clamorose cantonate giudiziarie degli ultimi anni: gli ipotizzati abusi nell’asilo «Olga Rovere» di Rignano Flaminio. Ventuno bambini, fomentati dai genitori, raccontano di aver subito ogni crudeltà. Cinque persone finiscono a processo, due sono difese da Roberto Borgogno. Vengono assolte per la prima volta nel 2012. Dopo anni d’indicibili accuse. Durante i quali la procura di Tivoli s’era rivolta anche a Foti. Tre consulenze, vergate con due colleghi. La prima è del 17 luglio 2007. Arguisce: «Siamo giunti alla conclusione che le famiglie e i bambini non manifestano un disagio dovuto a fantasticherie o a costruzioni immaginarie, frutto di suggestioni o psicosi collettive. La loro sofferenza, estesa e profonda, è del tutto compatibile con l’ipotesi che abbiano impattato con una vicenda traumatica gravissima: abusi sessuali di gruppo in ambito scolastico». Alcuni anni più tardi, dopo altre vite frantumate, due sentenze diranno l’esatto contrario. Un contagio psichico. Lo stesso che sarebbe avvenuto in una scuola materna dell’aretino. A fine 2011 viene arrestato un bidello. È accusato d’aver molestato 12 bambini, costretti ad atroci porcherie nei bagni della scuola: toccamenti, giochi erotici, fellatio. Una storia, anche in questo caso, nata dalle inquietudini dei genitori. Scorgono nei figli comportamenti inconsueti. Che successivi pareri psicologici reputano «compatibili con l’abuso». Partono le indagini. I carabinieri piazzano telecamere nella materna: nessun riscontro. A febbraio 2015 il bidello, difeso dall’avvocato Raffaello Falagiani, è rinviato a giudizio. In aula sfilano genitori, maestri ed esperti. Come Foti, consulente tecnico dell’accusa. O meglio, capo del collegio peritale del pubblico ministero. Che conclude: «Altissima compatibilità con l’ipotesi di un evento traumatico di natura sessuale, avvenuto in un certo contesto temporale e associata a una certa figura». II 14 aprile 2016 viene sentito in tribunale. Lo psicoterapeuta, anche stavolta, propala incrollabili certezze. Una bambina si fa la pipì addosso nel tragitto da casa alla fermata del bus? «Indicatore significativo di maltrattamento intrascolastico» spiega Foti. Un’altra si sveglia di notte urlando? «È inseguita dall’evento traumatico». Un altro disegna denti. O non riesce a evacuare. Oppure ha paura di andare in bagno. Tutte conseguenze di atti sconvolgenti. Il copione però si ripete. Il 30 novembre 2016 il tribunale di Arezzo assolve il bidello: il fatto non sussiste. I periti nominati dal giudice fanno cadere il castello eretto dai professionisti dell’abuso: «Le capacità testimoniali specifiche dei bambini risultano compromesse in modo considerevole, con la conseguenza che nessuno di loro può essere ritenuto attendibile». E poi: «I disagi che hanno manifestato, insonnia notturna, unghie rosicchiate e opposizione alla scuola, non possono essere qualificati come indicativi di uno stress di natura sessuale». Incesti terribili. Sempre e ovunque. I fabbricanti di mostri non tentennano. Nemmeno a Cagliari, nel caso dell’orologiaio accusato di abusi sessuali sui tre figli. Nefandezze a cui avrebbero partecipato anche la nuova compagna dell’uomo, veterinaria, e un amico. Tutti assolti, nel 2001, in primo grado. Nel processo d’appello, Foti è nominato consulente tecnico d’ufficio. Ma i tre sono nuovamente scagionati. Fino alla Cassazione. Il decano dei penalisti cagliaritani, Luigi Concas, che ha difeso l’orologiaio nei tre gradi di giudizio, ricorda: «Un giorno prendo uno dei disegni fatti dal ragazzino. Per l’accusa era un pene con dei denti. Lo mostro allora a mio nipote. Gli chiedo: “Cosa ti sembra?”. E lui, immediatamente: “Goku!”. Un personaggio dei Dragon ball. Torno in aula con quel foglio in mano. E durante l’esame del perito, a bruciapelo gli domando: “Lei sa chi è Goku?”». Vecchie storie. C’è anche quella del fotografo milanese, arrestato nel 2003 per aver abusato, durante una vacanza in Puglia, di un amichetto del figlio conosciuto in spiaggia. Tra le prove raccolte, ci sono anche alcune foto di bambini. Talmente scabrose da essere pubblicate persino sul sito internet del fotografo. Reportage da pubblicare sulle riviste, insomma. Eppure l’uomo finisce a processo dopo l’incidente probatorio del ragazzino. Svolto da Foti. E condotto, scrive il consulente della difesa, lo psicoterapeuta Giovanni Camerini, con modalità «metodologicamente scorrette»: «Ha somministrato al piccolo N. più di 50 domande suggestive e inducenti» nota nella sua relazione. Conclusione: il fotografo è assolto, sia in primo grado sia in appello. Ombre del passato che riemergono. Come quelle che si allungano sul caso di Sagliano Micca, paesino vicino a Biella. Scoppia più di vent’anni fa. Due cuginetti, loro malgrado, diventano gli accusatori di mamma e papà, nonna e nonno. Accusati di aver abusato dei due bambini. Una tesi avallata da una perizia vergata del centro Hansel e Gretel. Foti e l’ex moglie, Cristina Roccia, in 150 pagine ripercorrono supposti abusi e violenze di gruppo. Comincia il processo. Ma il peso è insostenibile. Il giorno prima dell’audizione dei ragazzini, i quattro accusati scendono nel garage. Si chiudono nella loro Uno verde: i genitori siedono davanti, i nonni dietro. Poi accendono il motore. E aspettano. Fino a quando il gas di scarico non gli riempie i polmoni. Li ritrovano avvelenati e senza vita. Sul parabrezza dell’utilitaria c’è il loro biglietto d’addio: «Moriamo per colpa della giustizia». 

Francesco Borgonovo per “la Verità” l’11 luglio 2019. L'inchiesta «Angeli e demoni» condotta dalla Procura di Reggio Emilia ha scoperchiato un pozzo senza fondo. Una sentina da cui ogni settimana emergono vicende inquietanti di minori levati alle famiglie e dati in affidamento. Una di queste è la storia di F, una bambina di Reggio Emilia che, assieme alla sorella, è stata separata dalla madre. E che, dopo varie vicissitudini, pare essere finita in affidamento proprio alla psicologa che l' ha tolta ai genitori naturali. Questa psicologa si chiama Valeria Donati e per capire chi sia dobbiamo fare un passo indietro e ritornare alla fine degli anni Novanta: il periodo in cui, nel Modenese, è esploso il caso dei «diavoli della Bassa». Stiamo parlando della brutta storia raccontata da Pablo Trincia nel libro Veleno (Einaudi). Parliamo, dunque, di famiglie ingiustamente incolpate di abusi sui figli e pratiche sataniche. Genitori a cui sono stati tolti i bambini. Persone che, per via delle errate valutazioni di psicologi, assistenti sociali e giudici, hanno perso i loro piccini e si sono ritrovate con la vita distrutta. La grande protagonista del caso Veleno era la psicologa Valeria Donati. Arrivò al Cenacolo francescano di Reggio Emilia alla fine del 1994. Aveva 26 anni, era ancora una tirocinante e da qualche mese collaborava con l' Ausl locale. Era fresca di studi, dunque, e aveva frequentato corsi di formazione al Centro per il bambino maltrattato di Milano. Fu lei a far parlare i bimbi che raccontarono di oscuri rituali e pratiche innominabili. Scrive Pablo Trincia: «La Valeria, come la chiamavano ormai i bambini, era il passe-partout che sapeva come aprire la porta di ognuno di loro ed entrare in punto di piedi negli angoli bui del loro inconscio». Era lei che faceva emergere i brutti ricordi sepolti. Piccolo problema: quei ricordi si sono rivelati per lo più fantasie. Spiega ancora Trincia che, «mentre lavorava come psicologa a contratto per l' Ausl di Mirandola, Valeria Donati era anche diventata responsabile di una struttura indipendente a Reggio Emilia [...]: il Centro aiuto al bambino. Nel 2002 l' azienda sanitaria regionale aveva deciso di "affidare la cura e la terapia dei minori coinvolti a questo centro (il Cab), più attrezzato e specializzato sui temi dell' abuso"». In buona sostanza, la stessa persona che aveva scoperto il caso Veleno, «seguito i minori, raccolto per prima le loro dichiarazioni, scelto le famiglie a cui affidarli, informato la procura e il tribunale dei minori, fatto da testimone chiave nei processi e dato sempre parere negativo sulla possibilità di un contatto con i genitori naturali - persino quando questi erano stati assolti - ora si ritrovava anche a trarre un potenziale beneficio lavorativo ed economico da una vicenda nella quale aveva giocato un ruolo determinante». Stando ai dati forniti da Trincia, il centro della Donati otteneva tra i 1.032 e i 1.400 euro al mese per ogni bambino seguito, e nell' arco di 10 anni avrebbe ricevuto la bellezza di 2.209.400 euro di soldi pubblici. Il Cenacolo francescano di Reggio Emilia e il Centro aiuto al bambino sono parte integrante pure della storia di F, che andiamo a raccontare. Tutto inizia nel 2006. Al pronto soccorso di Guastalla, in provincia di Reggio Emilia, si presenta una donna marocchina con due bambine. La più grande ha 8 anni, la più piccola - la nostra F - ne ha soltanto 5, e sono entrambe nate da un precedente matrimonio della signora con un suo connazionale. La donna marocchina, quando arriva all' ospedale, è infatti sposata a un uomo italiano, che maltratta lei e, a quanto pare, anche le bimbe. A Guastalla madre e figlie vengono visitate. Come spiega l' avvocato Francesco Miraglia, che da poco si è fatto carico del caso della donna, «i medici riscontrano nella più grande dei segni sul collo, alla piccina delle ecchimosi alla fronte e a un ginocchio». Non solo: «Trattandosi di bambine maltrattate», racconta Miraglia, «i medici sono scrupolosi e controllano anche altro: la cartella clinica riporta per entrambe "genitali intatti". Una dicitura importantissima, alla luce dell' incubo in cui cadrà successivamente questa donna». Quindi le bimbe sono state picchiate, ma fortunatamente non sembrano aver subito abusi sessuali. In ogni caso, entrambe le piccole vengono subito prese in carico dai servizi sociali. La più grande viene affidata a una famiglia. F, la più piccola, finisce al Cenacolo francescano. Cioè la struttura con cui collabora Valeria Donati. La madre delle bimbe, nel frattempo, si allontana dal marito violento, e nei mesi successivi gli assistenti sociali le organizzano incontri con le figlie. Come si apprende dai documenti ufficiali, a partire dal giugno 2007 la donna partecipa a tre «incontri vigilati» a cadenza mensile con le bambine, sotto la supervisione di una assistente sociale. Vengono fatti anche controlli sulla situazione della donna. Risulta che abbia un impiego stabile come commerciante che le frutta tra i 1.500 e i 2.000 euro al mese. La sua abitazione appare ordinata e pulita (così scrivono i servizi). I nonni materni sembrano presenti e disponibili. Tutto appare in ordine, insomma. La madre, dunque, vorrebbe riavere con sé le bambine. Ma qui cominciano i guai. Gli assistenti sociali scrivono che le piccole non vogliono più rivederla. Gli operatori dei servizi, per altro, sostengono che la donna sia troppo invadente, che cerchi di baciare e abbracciare le bimbe anche se loro rimangono un po' rigide, che non sia abbastanza attenta alle loro richieste. E sapete chi controfirma la relazione dell' assistente sociale destinata al Tribunale dei minori di Bologna? L'allora responsabile dei servizi sociali del Polo 3 di Reggio Emilia: Federica Anghinolfi. Ovvero una delle principali protagoniste dell' inchiesta «Angeli e demoni». Risultato: non solo le piccole non tornano a casa, né dalla madre né dai nonni, ma non vengono neppure organizzati altri incontri. A quel punto, la donna marocchina sembra avere un cedimento. Diventa insistente, si presenta agli uffici pubblici per protestare, s' infuria con gli assistenti sociali, diventa aggressiva. E, ovviamente, ciò non giova alla sua causa. Nel 2009, poi, succede qualcosa che cambia tutto: la donna viene accusata di aver abusato delle figlie e di averle fatte prostituire. «Dal 2006 al 2009», dice l' avvocato Miraglia, «nessuno parla di abusi sessuali. Si parla solo di incapacità della mamma. Quando la signora inizia queste pressioni per le figlie, però, salta fuori la storia degli abusi. L' assistente sociale del Comune di Reggio Emilia e Valeria Donati asseriscono davanti all' autorità giudiziaria che le bambine avrebbero riferito che la mamma le costringeva a prostituirsi». L' avvocato Miraglia è incredulo: «Dopo quattro anni? Se lo sono ricordato dopo quattro anni? Ma se alla visita del 2006 era risultato che non avessero lesioni riconducibili ad abusi di natura sessuale!». Già, in effetti le bimbe furono visitate al pronto soccorso nel 2006, e i medici scrissero che gli organi genitali erano intatti. Da allora, non avevano più vissuto con la mamma. Come può essere che, nel 2009, risultassero vittime di molestie? In realtà, la prima a fare accenno a possibili abusi è proprio la donna marocchina. Sostiene, a un certo punto, che F sia stata molestata al Cenacolo francescano. Ed è questa affermazione, secondo Miraglia, a scatenare le accuse dei servizi sociali nei suoi confronti. Nel 2010, racconta l' avvocato, «un medico legale, a posteriori e solo attraverso dei ragionamenti logici, sosteneva che probabilmente le bambine erano state oggetto di abusi sessuali». Una terapeuta sostenne poi che le bimbe apparivano attendibili. La psicologa in questione, secondo Miraglia, era legata al Cismai, ovvero il Coordinamento italiano servizi maltrattamento all' infanzia. La stessa associazione a cui faceva riferimento il Centro per il bambino maltrattato di Milano presso cui si era formata Valeria Donati. La stessa associazione attorno a cui ha gravitato il centro Hansel e Gretel di Claudio Foti. Comunque sia, la mamma marocchina viene condannata a 6 anni e 8 mesi. Direte: può essere discutibile finché si vuole, ma una sentenza è una sentenza. Vero. Infatti non è questo il punto. L'aspetto più stupefacente della storia lo affrontiamo ora. Dice l' avvocato Miraglia che entrambe le bimbe sono state date in adozione. La più piccola, F, ormai cresciuta, «viene adottata dalla psicologa Donati che, dopo aver "accusato" la madre, ha pure gestito il caso. La maggiore», prosegue il legale, «sarebbe stata adottata, invece, da una coppia che abita a pochi metri di distanza dalla residenza della psicologa». Secondo la madre delle due ragazzine, quest' ultima famiglia avrebbe addirittura un legame di parentela con la Donati. Come è possibile? La Donati risulta single, e i single in Italia possono avere bambini in affido e in adozione solo in casi molto specifici. Non solo: non è un po' strano che una psicologa che ha seguito il caso di queste bimbe tolte alla madre ne prenda poi una con sé? La scorsa settimana, gli inviati di Chi l' ha visto? sono stati a casa della Donati, nel Modenese, e le hanno chiesto lumi. Lei ha rifiutato di rispondere, dicendo che non vuole parlare dei suoi affari privati. Il fatto, però, è che queste non sono esattamente vicende private. Tutta questa brutta storia, ancora una volta, mostra che il sistema italiano di gestione dei minori è pieno di luoghi oscuri e di stranezze che sarebbe ora di chiarire una volta per tutte. Per il bene dei genitori, ma pure dei bimbi.

Brunella Giovara per “la Repubblica” il 7 luglio 2019. Angeli e demoni si agitano insieme da queste parti, tra Bibbiano e gli altri sei Comuni della Unione dei Comuni della Val d' Enza, che condividono alcuni servizi e ora una storia scandalosa, se tutto verrà confermato a processo. Un gruppo di psicoterapeuti, operatori sociali, la dirigente dei servizi sociali, sotto inchiesta per aver manipolato alcuni bambini, inducendoli a confessare di aver subito violenze e abusi non veri, distorto i loro racconti, falsificato relazioni, favorito coppie affidatarie, e messo su una macchina infernale (l' inchiesta della procura di Reggio ha il titolo "Angeli e demoni") per far soldi, o per salvare i bambini, o entrambe le cose. Gli inquirenti hanno accertato che alcuni degli indagati hanno subito violenze durante l' infanzia, maltrattamenti e abusi, e ritengono che questo abbia influenzato la loro professione, come se avessero una missione da compiere. Angeli vendicatori, più che terapeuti. L' inchiesta ha travolto il sindaco pd di Bibbiano, Andrea Carletti, accusato di abuso d' ufficio e falso in atto pubblico: è estraneo alla parte minori ma è subito finito nel tritacarne dei social come "orco". Molti politici hanno attaccato il sistema degli affidi, Salvini ha promesso una commissione d' inchiesta, Meloni si è precipitata a Reggio Emilia. Il duro lavoro di migliaia di terapeuti e assistenti sociali perbene viene messo in dubbio, denigrato. Per capire, a questo punto dell' inchiesta, già peraltro arrivata al vaglio di un primo giudice che ha accolto le tesi dell' accusa e disposto le misure cautelari, conviene chiarire almeno alcuni passaggi. Al centro di tutto, Claudio Foti, fondatore del centro Hansel e Gretel di Moncalieri, autore di molte pubblicazioni, «un angelo dei bambini che adesso deve tornare al suo posto: il paradiso», dice il suo difensore Girolamo Andrea Coffari. «Uno studioso che lavora da trent' anni, ora umiliato da una misura cautelare. Ma la sua è una posizione marginale ». Foti è uno studioso discusso, al pari della "scuola" di esperti da lui formati, che fin da suo inizio lavorò moltissimo in Piemonte, poi basta. Il motivo lo spiega Anna Maria Baldelli, procuratore capo presso il tribunale per i minori di Torino: «Ha avuto il pregio di sensibilizzare sul tema abusi e maltrattamenti». Ma trattasi di materia delicata, ripete il magistrato, «servono cautela e prudenza». Equilibrio, chiunque lavori nel settore sa quanto sia difficile. E «ci sono quelli che negano l' esistenza degli abusi, e quelli che li vedono ovunque. Sono entrambe categorie pericolose. Foti si avvicina alla seconda, credo in buona fede». E perciò «da almeno 15 anni , si è ritenuto che ci fossero altre persone a cui fare riferimento. Noi abbiamo avuto la percezione di una mente non libera. Convinto di quello che diceva, ma non libero». Quindi, niente più perizie dai giudici e consulenze dai pm. Ha però continuato a lavorare come consulente di parte, nelle cause di separazione, nei casi di figli contesi.

I falsi ricordi. Un anno fa la procura di Reggio inizia a indagare su "un aumento esponenziale anomalo delle segnalazioni di abusi sessuali su minori provenienti dal Servizio sociale dell' Unione dei Comuni della Val d' Enza, con corrispondente emanazione di provvedimenti di allontanamento", scrive il gip. Si autorizzano le intercettazioni delle sedute con i minori, che sono sempre inviati in una struttura pubblica, "La Cura" a Bibbiano, gestita da una onlus sovvenzionata dall' ente locale. Qui vengono sottoposti a terapie da parte di professionisti privati della Hansel e Gretel, come Nadia Bolognini, moglie di Foti, accomunati dalla stessa metodologia: l' emersione del ricordo dell' abuso e la rielaborazione del trauma, e non ci sarebbe niente di male, ma secondo i magistrati questo doveva avvenire a tutti i costi, anche attraverso la costruzione di "falsi ricordi", ottenuti grazie a «significative induzioni, suggestioni, contaminazioni ». Ci sono anche false relazioni: una casa descritta come fatiscente, non adatta ad accogliere un minore (ma ai carabinieri risulta il contrario), e la contraffazione di disegni. A una figura maschile vengono aggiunte le mani che si allungano minacciose sulla bambina, il grafologo incaricato della perizia non ha dubbi sul falso. Dunque i giudici del tribunale per i minori di Bologna sono stati tratti in inganno, infatti il presidente Giuseppe Spadaro ha già detto «siamo parte offesa, in quanto depistati e frodati, assieme ai minori». Ha ordinato la rivisitazione di tutti i processi in cui erano presenti gli indagati. E chi negli anni si è visto sottrarre un figlio, con la controparte assistita da Foti e dai suoi, oggi può pensare di aver subito una frode e chiedere legittimamente la revisione.

Le sedute. Più interrogatori che sedute terapeutiche, con il bambino che fa resistenza a dire quanto si vorrebbe, o che gioca svagato, ma non dice niente di interessante, o magari alla fine lo dice. Certo, il profano, il non tecnico, non sa quali siano i metodi legittimi per arrivare a un racconto genuino del trauma. Appare evidente il pressing emotivo, ma solo un terapeuta potrebbe giudicare la correttezza degli indagati, infatti tre esperti (Rossi, Francia, Scali) lo hanno già fatto per il pm, e anche sulla base delle loro relazioni l' ufficio ha chiesto gli arresti. Foti definisce la Carta di Noto, il protocollo che dà le linee guida per l' esame del minore, un "Vangelo apocrifo". Uno dei suoi l' ha definita una cosa «scritta da quattro pedofili». Chi non la pensa come loro, viene accusato di essere "negazionista" degli abusi.

La "macchinetta magica". Una sciocchezza, emersa assieme agli arresti, ripresa (non da Repubblica), rilanciata dal ministro leghista Fontana, esplosa sui social, poi smentita dal procuratore di Reggio, Marco Mescolini. Vero è che talvolta usavano il dispositivo Neurotek, che emette vibrazioni utili durante le sedute di terapia EMDR. Isabel Fernandez è presidente dell' Associazione EMDR Italia (7 mila associati): «È una terapia efficace, nata per curare il disturbo da stress post traumatico dei veterani del Vietnam, ora usata con chi sopravvive a un terremoto, con quelli del ponte Morandi Si basa su movimenti oculari destra- sinistra, gli stessi della fase Rem del sonno. Il ricordo perde la sua carica emotiva negativa, si attenua ». Ma di certo «non fa affiorare ricordi di situazioni traumatiche che non sono avvenute. Se non c' erano abusi o maltrattamenti accertati, non c' era niente da trattare. Non si può cioè far ricordare ai pazienti cose che non hanno vissuto». E poi, la "macchinetta magica", così veniva presentata ai bambini, «viene usata solo quando il paziente non riesce a seguire il movimento suggerito dal terapeuta, guarda a destra, guarda a sinistra, o con gli ipovedenti», spiega Fernandez. Può essere dannoso? «No, ma è inutile», se non ci sono ricordi traumatici. E allora perché la usavano, definendola magica?

Il panico. Colpisce infine il panico che emerge dalle intercettazioni, quando i carabinieri cominciano a chiedere informazioni e documenti. Federica Anghinolfi, dirigente del servizio assistenti sociali (e paziente di Foti) ha la paranoia di essere intercettata. Di colpo tutti cercano di rimediare alle irregolarità, di mettere ordine nelle fatture, studiano soluzioni, anche per i regali dei genitori allontanati dai figli, che non venivano mai consegnati. Talvolta i terapeuti decidono che il minore non deve avere più contatti con la famiglia, né lettere né regali, ma qui pare che fosse la prassi. A gennaio Anghinolfi chiede che vengano consegnati, dice di essere stufa degli operatori, «non hanno l' autorità di negare la genitorialità », ma ormai la situazione è fuori controllo, Anzi no, l' assistente sociale Francesco Monopoli sa cosa fare: «Via gli appunti, come sempre! Via gli appunti», dice a una collega.

Io accusato di omofobia per togliermi il figlio e darlo a una coppia gay”. "Mi dissero che io ero omofobo. E che dovevo cominciare ad abituarmi alle relazioni di genere". Costanza Tosi, Lunedì 01/07/2019 su Il Giornale. Da un lato bambini traumatizzati, plagiati dagli psicologi e strappati dall'affetto dei loro cari. Dall'altro i loro genitori che non si danno pace. Tutte vittime di una rete di donne e uomini disposti a tutto, come si legge nelle carte dell'inchiesta "Angeli e demoni". Ma non solo. Incontriamo un uomo - che ci chiede di restare anonimo e che chiameremo Michele - che inizia a parlarci. La sua odissea inizia nel 2017, quando gli vengono strappati i figli per darli in adozione a una coppia gay. Tutto inizia con una denuncia per maltrattamenti (adesso archiviata dal tribunale di Reggio Emilia) fatta dalla sua ex moglie. I servizi sociali della Val D'Enza cominciano a monitorare la famiglia, come ci racconta lo stesso uomo: "Venivano a controllare in continuazione. Mi contestavano che la casa non fosse idonea a far vivere i miei figli. Mi hanno detto che la camera dei bambini era troppo pulita, quasi che loro non avessero mai dormito in quella stanza. I giocattoli erano riposti nell'armadio e anche questo a loro non tornava. Cercavano sempre delle scuse, a volte banali". Ispezioni assidue e incontri continui. Gli assistenti stilavano lunghe relazioni, spesso fantasiose, secondo Michele. Relazioni che però non corrispondevano alla realtà dei fatti in qunato falsificavano gli eventi. Tra le righe delle relazioni infatti ci sarebbero racconti di fatti che però non sarebbero mai avvenuti. Mese dopo mese, anzi, i servizi sociali aggiungevano ulteriori dettagli per creare la figura del "papà cattivo", un pretesto - per gli inquirenti - per togliere i bambini al genitore e affidarli alla madre che, dopo essere andata via di casa, viveva con la sua nuova compagna. Michele doveva quindi diventare l’orco cattivo, il padre violento sia con i figli che con la moglie. “Un giorno - racconta Michele a ilGiornale.it - mentre mi stava per salutare, mio figlio ha iniziato a piangere perché non voleva andare con la madre. Io non riuscivo a capire, ma siamo riusciti a calmarlo e tutto si è sistemato. Poi è andato via con lei". Ma non solo. Poco dopo Michele scopre dei dettagli agghiaccianti, nelle relazioni dei servizi sociali: "Scopro che Beatrice Benati, che aveva redatto la relazione, nel raccontare i fatti scriveva: 'I bambini si riferivano al padre, insultandolo'. Lì ho capito che c’era qualcosa di strano. Perché avrebbero dovuto scrivere una cosa per un'altra? A che scopo? Ancora oggi me lo chiedo". Il 15 giugno del 2018 Michele viene convocato dagli assistenti sociali. Incontra Federica Anghinolfi e Beatrice Benati (oggi agli arresti domiciliari) che gli comunicano che non potrà più vedere i suoi figli se non “in forma protetta una volta ogni 21 giorni.” La motivazione? "Lei è omofobo!", gli spiega la Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali, e attivista Lgbt. "Io ero sconvolto, non volevo crederci - spiega Michele- Chiesi spiegazioni e mi dissero che io ero omofobo. E che dovevo cominciare ad abituarmi alle relazioni di genere". Adesso, dopo un anno, Michele pensa solo ai suoi figli, soprattutto al più piccolo. A causa delle pressioni psicologiche e dei traumi subiti durante il percorso di allontanamento dal padre ora il bambino soffre di problemi psichici. "Sta soffrendo molto, questa situazione lo sta distruggendo e io ho le mani legate. Ha degli atteggiamenti preoccupanti, me lo hanno detto anche le insegnati di scuola - sospira Michele, che fa fatica a parlare e ha la voce rotta dal dispiacere - Dice spesso che non sa che farsene della sua vita, che vuole morire". Sono questi i pensieri di un bambino allontanato dalla propria famiglia. Pensieri che nessuno dovrebbe mai fare. Soprattutto un bambino.

Quei legami tra la consigliera Pd e i “demoni” indagati a Bibbiano. Il Partito Democratico di Bibbiano. Una presenza costante, si spera disattenta, in tutti gli eventi che hanno coinvolto il sistema degli orrori. Costanza Tosi, Venerdì 19/07/2019, su Il Giornale. Le indagini sugli scandali a Bibbiano proseguono. I punti si uniscono, dando vita a un tremendo intreccio che ha acceso i riflettori sull’assurdo meccanismo degli affidi in Italia. Dettagli che confermerebbero e coinvolgerebbero anche alcuni membri del Partito democratico di Bibbiano. Una presenza costante, si spera disattenta, in tutti gli eventi che hanno coinvolto il sistema degli affidi. Eventi nei quali, spesso, spunta un nome: Roberta Mori. Si tratta della presidente dem della Commissione Parità della Regione Emilia Romagna. È a lei che Federica l’Anghinolfi e il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (entrambi indagati e ora ai domiciliari), nel 2015, presentarono il Modello Val d’Enza. Modello che, al tempo, la Mori sponsorizzava con fierezza. Il sindaco PD e la prima responsabile degli affidi illeciti non erano i soli ad essere collegati a Roberta Mori. La consigliera pare conoscesse bene anche un altro degli indagati: Fadia Bassmaji, finita ai domiciliari assieme alla compagna. Entrambe erano amiche della Anghinolfi, vicine alla dem Mori, accusate di maltrattamenti verso la bambina che avevano preso in affido. La prova del rapporto di “amicizia” sta in tutti quei commenti pubblicati sulla pagina Facebook delle due compagne. Roberta Mori era solita seguire le due donne che, spesso, pubblicavano post con bandiere lgbt e cuori arcobaleno. Un modo per rimanere aggiornata. È lei la prima relatrice della proposta di legge regionale contro l’omotransnegatività. È lei una delle prime candidate, alle scorse elezioni europee, pro-LGBT, suggerita perfino dal sito Votoarcobaleno dell’Arcigay come candidato gayfriendly. Un candidato da sostenere e portare avanti. Ma non è tutto. Nel maggio 2016, la Mori partecipa, come relatrice, al convegno “Quando la notte abita il giorno: l’ascolto del minore vittima di abuso sessuale e maltrattamento. Sospetto, rivelazione, assistenza, giustizia.” Evento nel quale, circa la metà dei nomi che ritroviamo tra i relatori, sono gli stessi finiti nel registro degli indagati per l’inchiesta “Angeli e Demoni”. A parlare di maltrattamenti sui minori all’incontro c’erano, ancora una volta, Federica Anghinolfi e il sindaco democratico Andrea Carletti. Ma anche il luminare Claudio Foti, assieme al collega Monopoli e molti altri. Proprio il quell’occasione la Mori affermava, con soddisfazione, che per lei quello era più di un semplice incontro: “Un esempio concreto di quello che è praticare la prevenzione e il contrasto alla violenza“. E non mancava di citare l’audizione del 2015, sostenendo di voler essere, come regione, “partner e sponda rispetto ad un’esperienza che noi riteniamo esemplare per tutta l’Emilia Romagna“. La consigliera dem elogiava il sistema della Val d’Enza. Lo stesso sistema finito nel mirino della procura di Reggio Emilia. Non sappiamo se la Mori fosse a conoscenza del perverso meccanismo che muoveva le fila degli affidi, ma un fatto è certo: la Mori conosceva bene tutti coloro che, quel meccanismo, lo mettevano in atto. Ai danni dei più piccoli e delle loro famiglie. Tanto che a settembre del 2016, sempre la dem Mori partecipa, in compagnia di due sindaci del Pd (ora indagati), all’inaugurazione del centro “La Cura”. Stesso centro nel quale si svolgevano gli incontri tra le piccole vittime e gli psicologi della Hansel&Gretel. Tra i presenti all’inaugurazione anche Federica Anghinolfi. E sul proprio sito web la Mori metteva in evidenza l’evento, descrivendo “La Cura” come uno “spazio integrato a servizio di bambini e bambine vittime di abusi” nati dall’esperienza “agita su casi concreti e dai molteplici bisogni che ne sono scaturiti;” e, sottolinea, “bisogni che sono stati oggetto di una specifica audizione in Commissione assembleare Parità e Diritti delle Persone.” Un luogo dove i bambini avrebbero dovuto trovare pace. Insomma, la dem Roberta Mori, era sempre presente agli incontri organizzati dal giro della Val d’Enza. Sia che riguardassero famiglie e minori, sia che si parlasse di temi arcobaleno. Una presenza distratta, quella della consigliera, che ha per anni osservato da vicino il sistema degli affidi illeciti portato avanti dai servizi sociali della Val d’Enza, senza mai accorgersi di cosa stava succedendo, senza vedere cosa stessero facendo a quelle piccole vittime cadute nella rete degli orrori. Sebbene la Mori non risulti coinvolta nel giro d’affari di Bibbiano, è indubbio che fu lei a sostenere e appoggiare l'operato di una dei principali indagati dell'inchiesta “Angeli e Demoni”. E c’è chi non ci sta. A fine luglio la legge sulla omotransenagtività tornerà in aula e il capogruppo di Forza Italia, Andrea Galli, chiede alla presidente Pd Mori di lasciare l'incarico di relatrice. “Per la Mori, quello di Bibbiano, era addirittura un modello da esportare e in Commissione annunciò anche l’intenzione di promuovere in Val D’Enza un incontro pubblico della commissione, per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema - spiega Galli -nel 2016 ribadì anche il concetto affermando proprio in un convegno a Bibbiano che quella esperienza era esemplare per tutta la Regione e si spinse ripetutamente a ringraziare pubblicamente la Anghinolfi per la sua dedizione. Ancora fu proprio la Mori a proporre di creare sul territorio un Centro specialistico sul trattamento dei minori vittime di violenza insieme all’Ausl di Reggio Emilia”. Continua Galli. “Oggi la Mori per opportunità politica e correttezza dovrebbe fare un passo indietro, non può essere lei a presentare come relatrice il disegno di legge sulla omotransegatività sostenuto dal mondo Lgbt al quale la Anghinolfi faceva apertamente riferimento. Si astenga, almeno per prudenza, almeno per poter attendere dalla giustizia una verità sugli orribili fatti che stanno emergendo a Bibbiano”. Presterà ascolto al consiglio del collega?

"Angeli e Demoni", si allarga l'inchiesta: indagati altri due sindaci dem. Il Pd emiliano elogiava l'esperienza della Val d'Enza tanto da promuovere in quei luoghi "un incontro pubblico della commissione, per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema". Bignami: "Il Pd c'è dentro fino al collo". Costanza Tosi, Martedì 02/07/2019 su Il Giornale. Il Partito democratico finisce nell'occhio del ciclone nell’inchiesta sul business degli affidamenti dei minori. Non solo Andrea Carletti nel registro della pm si aggiungono altri due uomini del Pd. Paolo Colli e Paolo Burani, ex sindaci di due comuni nel reggiano, Montecchio e Cavriago. Anche loro adesso sono indagati per abuso d'ufficio. Proprio come lui, il primo cittadino di Bibbiano - Carletti, appunto - finito agli arresti domiciliari che, come scritto nell'ordinanza del tribunale di Reggio Emilia, era "pienamente consapevole della totale illiceità del sistema (…) disponeva lo stabile insediamento di tre terapeuti privati della Onlus Hansel e Gretel all'interno dei locali della struttura pubblica della Cura". Il tutto in "costante raccordo" - si legge sempre - con Federica Anghinolfi, la donna paladina delle coppie gay che dava in affido i bambini anche a donne omosessuali a lei legate. A collegare i due nomi c'è anche una certa familiarità con il mondo della sinistra. Se il sindaco era politicamente legato al Pd, anche la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d'Enza non sembra essere sconosciuta a quell'ambiente, vista la sua partecipazione - per esempio - alla festa dell'Unità di Bologna del 2016. "Il Pd c'è dentro fino al collo", dice senza esitazioni Galeazzo Bignami, di Forza Italia, parlando di quello che considera uno "scandalo in salsa rossa". Eppure, dopo i 18 arresti disposti dal Gip, a sentire le dichiarazioni degli esponenti del Partito democratico sembra quasi che il sindaco sia una sorta di pecora nera nel sistema del welfare della Regione. "Ciò che sta emergendo dall'operazione dei carabinieri ha contorni che, se confermati, sarebbero di una gravità inaudita", ha detto l'assessore rosso alla Sanità dell'Emilia-Romagna, Sergio Venturi. "In quel caso è chiaro che la Regione si troverebbe ad essere parte lesa". Sulla stessa linea anche il segretario regionale del Pd Paolo Calvano e il capogruppo democratico in Regione Stefano Caliandro che, in una nota congiunta, hanno dichiarato: "Se quei fatti fossero confermati, la Regione sarebbe parte lesa e in quanto tale in sede giudiziaria va presa in considerazione anche la costituzione di parte civile". Il Partito democratico sembra quindi lavarsene le mani. Si dissocia dal sindaco e lo disconosce. Spulciando tra i resoconti della Regione Emilia, però, spunta un incontro che fa discutere. Era il 2015 quando in commissione parità venivano ascoltati Federica Anghinolfi e il primo cittadino Carletti. "Ero consigliere regionale quattro anni fa, vennero e ci portarono quel sindaco e la responsabile del progetto come esempio in Regione di un sistema virtuoso di tutela dei bambini", racconta l'onorevole Bignami al Giornale.it. In tale occasione Federica Anghinolfi parlò proprio di "creare sul territorio un centro specialistico sul trattamento dei minori vittime di violenza insieme all'Asl di Reggio Emilia". La consigliera Yuri Torri, di Sel, invitava addirittura l'ente a "intervenire per mettere a sistema l’esperienza sviluppata in Val D'Enza in questo anno e a formalizzare dei protocolli". E fu proprio in quell'occasione che emerse anche che il numero di abusi su minori segnalati sul territorio era troppo alto. Ma in Commissione, Luigi Fadiga, Garante per l’infanzia e l' adolescenza dell' Emilia Romagna, a tal proposito spiegò che "l' errore più grave sarebbe etichettare l'area, perché il fenomeno non è certo circoscritto, nel reggiano semmai c'è stato il coraggio di denunciare e intervenire". E non tardò l’appoggio dell’Anghinolfi che aggiunse: “È stata molto importante”, disse, “la volontà di proseguire l'ascolto delle giovani vittime anche dopo aver raccolto un numero apparentemente sufficiente di informazioni”. Insomma, solo pochi anni fa, la sinistra emiliana elogiava i metodi della Val d'Enza tanto da promuovere in quei luoghi "un incontro pubblico della commissione per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema", come si legge negli atti. Oggi, invece, si dichiara "parte lesa" e fa finta di non sapere. "Federica Anghinolfi partecipava continuamente a incontri con la sinistra - fa notare però Bignami - E quello è l'esempio che il Pd ci portava". Un modello che si è rivelato un incubo. Un modello che non va certamente seguito ma condannato. “Siete stati voi, il caro Partito democratico, a rendere potente questa gente sfuggendo al vostro controllo, nella migliore delle ipotesi…” aggiunge Bignami in un video sulla sua pagina Facebook. Un controllo a cui, i responsabili degli orrori compiuti ai danni dei bambini, sono sfuggiti proprio sotto i loro occhi. Sotto gli occhi disattenti degli uomini del Pd. Come è possibile che nessuno nell’amministrazione locale del Partito democratico sia riuscito a scovare le falle di questo sistema? Sarebbe stato sufficiente non farsi sfuggire i numeri. Numeri, peraltro, riportati nei bilanci dell’Unione. Sarebbe bastato controllare quanti erano i bambini che, negli ultimi anni, erano stati dati in affido dai servizi sociali e, magari verificare anche gli importi degli assegni erogati dai centri di assistenza per minori. Come ha fatto Natascia Cersosimo, consigliere comunale del Movimento 5 stelle nell'Unione Comuni Val d'Enza. Fu lei a chiedere, a seguito di una proposta di aumentare di 200mila euro i fondi a favore delle strutture di accoglienza per minori, i documenti che giustificassero tale richiesta. Dai documenti era tutto chiaro. Chiaro e allarmante. Dal 2015 al 2018 il numero degli affidi era aumentato in maniera sorprendente. Come scrive Paolo Pergolizzi su Reggiosera.it, “i bambini dati in affidamento erano zero nel 2015, 104 nel 2016, 110 nel 2017 e 92 nei primi sei mesi del 2018”. Quindi dal 2015 al 2016 cento bambini sono stati dati in affido e, negli anni a seguire, il numero era in costante crescita. Ma c’è di più. Tutti i numeri erano in aumento. “Le prese in carico per violenza sono state 136 nel 2015, poi 183 nel 2016, fino alle 235 del 2017 e le 178 del primo semestre 2018. In sostanza, se si fosse arrivati fino a fine anno, si potrebbe dire che nel 2018 sarebbero state praticamente triplicate rispetto a tre anni prima”, scive sempre Reggiosera.it. Di conseguenza a crescere erano anche i soldi pubblici destinati all’assistenza dei minori. Più affidi, più soldi. “Si passa dai 245.000 euro del 2015, ai 305.000 euro del 2016, fino ai 327.000 euro del 2017 e, infine, a una proiezione di spesa di 342.000 euro nel 2018. Stessa cosa per quanto riguarda le spese necessarie per gli incontri con gli psicologi: dai 6.000 euro del 2015 ai 31.000 del 2017, fino ai circa 27.000 del primo semestre 2018”. Ma se le cifre destavano sospetto, gli amministratori locali della zona interessata si giustificavano e mettevano le mani avanti. Nel documento ufficiale sulla gestione dei servizi avevano scritto infatti: “I dati di grave maltrattamento ed abuso della Val d'Enza, superiori alla media regionale, non sono ascrivibili ad un fenomeno locale specifico, ma sono in linea con i dati mondiali dell'Oms e di importanti organizzazioni internazionali come Save the Children e Terre des Hommes. Tali dati dimostrano l'essenzialità di un lavoro di rete efficace e qualificato, in linea con le ottime - ma ampiamente disattese - linee guida regionali sul tema”. Un confronto, che a dirla tutta, non regge proprio. O, per meglio dire, aggrava la situazione. Infatti, con questa dichiarazione, si sostiene che i dati sugli abusi fossero in linea con quelli forniti da Ong internazionali operanti in territori di guerra o in Paesi in via di sviluppo. Non proprio una condizione ideale per un comune italiano.

 “Sbarre alle finestre e ore d’aria. La vita di due figlie strappate alla madre”. Quando le era concesso di andare a trovare le figlie, la madre non poteva scattare foto. Le portavano in una cantina di una chiesa perché, racconta: “Io non dovevo assolutamente sapere dove stavano. Era un segreto”. Costanza Tosi, Mercoledì 17/07/2019, su Il Giornale. Calci, pugni, schiaffi. Per anni, Sara ha dovuto subire le violenze e le angherie da parte del proprio compagno. Ha deciso di denunciarlo ma, gli assistenti sociali, invece di aiutarla e sostenerla, le hanno tolto le sue due bambine di 8 e 13 anni. Sara ha preso coraggio e ha deciso di contattarci per raccontare la sua disavventura. Di dirci come gli assistenti sociali le hanno strappato dalle braccia le sue figlie dopo aver denunciato il compagno. È passato poco tempo dalla denuncia e le due bambine sono state portare a Cesena, in una comunità che, dai racconti delle piccole, sembra essere la “casa degli orrori”. Così ci ha raccontato la madre che, dopo la denuncia ai carabinieri di Reggio Emilia, si è vista sotto esame da parte degli assistenti sociali. Secondo il tribunale avrebbero dovuto fare dei controlli per verificare la situazione familiare in cui vivevano le due bambine, Giada e Sole. Ma le cose non andarono proprio così. Qualche giorno dopo gli assistenti sociali di Reggio Emilia, a pochi chilometri da Bibbiano, ormai noto per l’inchiesta “Angeli e Demoni”, si presentarono a scuola dalle piccole, insieme ai carabinieri in divisa e, come si fa con i peggiori criminali, le presero davanti ai compagni increduli. Trascinate fuori dalla classe tra urla di paura e lacrime. Da quel giorno Sara non ha più vissuto con le sue piccole. Le sono state portate via. Le due sorelline furono affidate ad una coppia e, costrette dai servizi sociali, a vivere con loro, lontano dalla propria mamma. Una decisione che fa pensare che i controlli di cui parlava il tribunale di Reggio Emilia non fossero andati a buon fine. Peccato che, di quelle visite d’osservzione, non sia mai stata scritta nessuna relazione. “Vennero a casa, a controllare che fosse tutto a posto. Non dissero niente. La casa era pulita e in ordine. Infatti non mi fecero nessuna contestazione”. Racconta Sara. A giustificare la decisione di portarle via le sue bambine non una parola, nessuna spiegazione. La mamma non era idonea a crescere le proprie figlie. Lei, che pur di proteggerle aveva fatto di tutto per liberarsi del compagno violento. I giorni passavano e Giada e Sole continuavano ad incontrare la mamma di tanto in tanto, in costante contatto con la coppia che le aveva accolte e sotto la supervisione continua degli psicologi. Fino a quando, un giorno, gli assistenti sociali decisero che le bambine dovevano essere inserite all’interno di una casa famiglia di Cesena. “Non sono state prese in considerazione strutture più che idonee e libere a Reggio Emilia, né tantomeno a Bologna. Perché proprio a Cesena?” Non se lo spiega mamma Sara che, quando ha provato a chiedere informazioni ai servizi sociali, le è stato risposto: “Le fa per caso fatica andare a trovare le bambine a Cesena? Quella è la struttura migliore per loro”. Magari migliore per i servizi sociali, ma non per le due bambine che, dopo sei mesi sono scappate. “Mi hanno chiamata un giorno che dovevano essere al mare con la coppia affidataria (a loro erano concesse alcune gite fuori porta con le piccole), mi hanno chiesto di venirle a prendere, piangevano e dicevano che in quel carcere non ci volevano più tornare”. Ci racconta Sara, che ricorda alla perfezione quei momenti. Appena tornata a casa, la più grande delle due, ha iniziato a dire alla madre il perché di quella fuga. “Mia figlia mi diceva che lì dentro i bambini vengono maltrattati - spiega la mamma in lacrime mentre ci parla al telefono - addirittura mi ha raccontato di un bimbo di 8 mesi che viene legato al seggiolone per ore con la faccia rivolta verso il frigorifero mentre piange, piange in continuazione. Mia figlia mi ha raccontato anche che ad un bambino di appena sei anni gli davano delle pasticche per farlo addormentare ogni volta che piange o che non vuole mangiare. A mia figlia è rimasto impresso nella mente quel bambino perché poi dormiva per ore e ore. Giada dice che ha gli occhi persi. Sono psicofarmaci. Li imbottiscono di psicofarmaci”. Inferriate alle finestre e ore d’aria come fossero in carcere. Ai bambini è concesso di uscire poche ore al giorno e dopo il pranzo, dalle 13 alle 16, devono stare rinchiusi nelle proprie stanze. È questo quello che racconta la piccola Giada alla mamma. “Una volta sono andata a trovare le mie figlie e ho visto che la grande aveva dei lividi sulla pancia, mi disse che gliel’aveva fatti un ragazzino mentre giocavano. Ma nessuno aveva visto niente, erano soli.” Racconta Sara. Ma lei, di quei lividi, non ha mai potuto raccogliere le prove. Quando, due volte al mese, le era concesso di andare a trovare le figlie, non poteva assolutamente scattare foto. Le portavano in una cantina di una chiesa perché -spiega ancora la mamma- “io non dovevo assolutamente sapere dove stavano. Era un segreto”. Le era proibito anche di abbracciarle troppe volte, di dimostrarsi affettuosa e di scherzare con loro. Secondo gli psicologi questo avrebbe influito negativamente sull’umore delle bambine. Oggi Giada e Sole, dopo essere scappate dalla casa famiglia, sono tornate a vivere nella propria casa, ma non dimenticano ció che dicono di aver visto con i propri occhi, per otto lunghi mesi. Ricordi che, piano piano, cercano di raccontare ai carabinieri e al legale della madre, tenendo un diario che da giorni svela scene da brividi. Fiumi di parole che un giorno, si spera, serviranno a mettere la parola fine. I racconti sono tutti da provare, ma noi ve ne rendiamo conto. Di storie simili, in redazione, ne arrivano ogni giorno. Racconti drammatici e, molto spesso, denunciati alle forze dell’ordine.

Quelle risate tra gli psicologi: così i demoni si prendono i bambini. Pazzo per gli assistenti sociali, ma capace di intendere per gli psichiatri dell'Asl. Una scusa per portargli via i bambini. Nuove ombre sul sistema degli affidi dei bambini. Costanza Tosi, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. Per i servizi sociali Stefano era pazzo, incapace di intendere e di volere. E così gli assistenti sociali di Castelnovo Monti, gli hanno strappato i suoi tre figli. Per sempre. Una diagnosi che poi è risultata priva di ogni fondamenta perché Stefano pazzo non lo è mai stato. Ma ormai non si poteva più tornare indietro. Era troppo tardi per risparmiare a Stefano anni di lotte e sofferenze. Nel 2015, Stefano si separa dalla propria moglie. Come in molti casi i litigi non mancano e il conflitto si inasprisce tanto che la donna minaccia di portargli via i bambini. Viene chiamato un consulente tecnico d’ufficio il quale, dopo aver valutato la questione, decide di ricorrere agli assistenti sociali. Da questo momento, per Stefano, ha inizio il calvario. Gli assistenti sociali chiamano a colloquio il padre e, dopo i controlli, arriva la prima relazione (ascolta le intercettazioni). Stefano viene dichiarato “inadeguato per crescere i bambini” e mandato in cura presso un centro di salute mentale. Viene fatto passare per pazzo come lui stesso ci racconta: “Mi hanno tolto i bambini, non me li facevano più vedere se non in brevi e sporadici incontri protetti”. Costretto a fare gli accertamenti, dopo che i brevi colloqui con gli assistenti sociali avevano messo in dubbio la sua stabilità mentale, Stefano legge con sollievo la prima diagnosi positiva, che gli avrebbe permesso di riabbracciare i propri figli, emessa da un neuropsichiatra della Asl di Castelnovo Monti, piccolo paese dell’Emilia Romagna. Era lì che viveva Stefano insieme alla sua famiglia. A soli 42 chilometri da Bibbiano, la città degli “Angeli e dei Demoni”, come definita dalle carte dell’inchiesta che ha scosso l’Italia. L’incubo per Stefano non svanisce, anzi. Viene convocato nuovamente il ctu (consulente tecnico d’ufficio) presso il tribunale di Reggio Emilia e, nonostante le visite andate a buon fine, la sentenza è l’ennesimo colpo al cuore: viene infatti dichiarato inadatto a svolgere il ruolo di padre perché, secondo i medici di parte, aveva gravi problemi mentali. Una sentenza che non toglie a Stefano la forza di lottare per avere giustizia. Il papà chiede un colloquio con i servizi sociali, durante il quale decide di portare con sè un telefono per registrare la conversazione. Una conversazione che lui stesso ha reso pubblica e che è a dir poco surreale. “Volevo avere le prove di come avrebbero giustificato la loro posizione. Io ho portato loro il referto medico che certificava la mia ottima salute mentale. Era una cosa su cui nessuno avrebbe potuto controbattere. Erano spalle al muro”, ci racconta Stefano. Andato via, il padre, dimentica nella sala il proprio zaino dentro il quale c’era il registratore. Lo recupera dopo 40 minuti e scopre delle registrazioni choc. “In quelle registrazioni c’erano discorsi agghiaccianti.” Ci dice Francesco Miraglia, avvocato specializzato in diritto dei minori, legale dell’uomo. “Dicevano: “Questo è uno stronzo (riferendosi allo psichiatra che aveva fatto la prima diagnosi), come facciamo a sostenere che questo è pazzo adesso?”. E poi, ancora, lunghe risate tra le quali gli psicologi cercavano di capire il modo migliore di agire per riprendere in mano la situazione. Per non dargliela vinta. Poco dopo l’incontro, però, arriva la decisione del tribunale: bisogna ripetere la ctu. E il giudice, questa volta, cambia la sentenza. Il padre è improvvisamente diventato capace di intendere e di volere. Nessuna mancanza psichica. Nessun bisogno di cure mentali. Stefano ha estratto alcuni brani dalla registrazione, e ha deciso di denunciare il suo caso pubblicandoli sulla propria pagina Facebook. Ma invece di ricevere delle scuse, la vittima delle falsità e dei complotti di alcuni assistenti sociali, viene perfino querelato. Denunciato per diffamazione. Sia dagli operatori che dal sindaco di Castelnovo Monti che, dalla storia raccontataci da Stefano, non c’entrerebbe nulla nel caso. “Episodio assurdo e gravissimo” ha commentato il legale. “Questi costruiscono diagnosi false con le quali tolgono i bambini alle persone! Ma come lavorano? Mancano buon senso e competenza professionale. E in questo modo quante vite si sono rovinate? Bisogna fare chiarezza.” Questa che vi raccontiamo è l’ennesima storia di violenze e soprusi, che getta ancora più ombre sul sistema degli affidi in Italia.  "Adesso non possiamo più dire che è pazzo..."

Strappata ai genitori ancora prima di venire al mondo. Ancora prima di nascere il destino di Chiara era già scritto: a decidere della sua vita erano stati i servizi sociali di Bologna. Costanza Tosi, Martedì 16/07/2019 su Il Giornale. Strappata ai genitori ancora prima di venire al mondo. Chiara (nome di fantasia ndr) oggi ha appena 2 anni. I suoi genitori, lei non li ha mai visti. L’ospedale in cui è nata infatti era già in contatto con gli assistenti sociali e, in sole due settimane, la bambina è stata tolta alla mamma e al papà e resa adottabile. Ancora prima di nascere, il destino di Chiara, era già scritto. A decidere della sua vita erano stati i servizi sociali di Bologna, città ad un’ora di strada da Bibbiano, palcoscenico degli scandali emersi nell’inchiesta Angeli e Demoni, con una lettera inviata all’ospedale dove la madre della piccola avrebbe dovuto partorire da lì a poco. Nella mail, recapitata da un’assistente sociale del servizio ospedaliero agli operatori della struttura, ben venti giorni prima della nascita di Chiara, si segnalava, senza scrupoli, la “grave situazione sociale” della madre. Motivo per il quale, come si legge nel testo della mail, “nel caso in cui la signora dovesse partorire è necessario trasferire il neonato in neonatologia al fine di verificare le capacità genitoriali della signora e del compagno”. Per gli psicologi dunque era necessario valutare se la madre di Chiara fosse idonea a svolgere il suo ruolo di genitore senza, però, darle la possibilità di stare con la bambina. Dovevano capire l’affidabilità della mamma, la sua lucidità mentale. Una lucidità compromessa visto che avevano deciso di toglierle la figlia ancora prima che riuscisse a vedere il suo primo sorriso. Una storia che aggiunge un altro tassello al complicato giro di affidi dei minori in Italia. Una storia che, ancora una volta, fa pensare che i “demoni di Bibbiano” siano solo la punta dell’iceberg. Ma perché la madre di Chiara fu segnalata dagli assistenti sociali?

La sua storia. Vittoria segue le orme del padre e diventa medico. La sua è una famiglia piuttosto benestante. Ma, negli anni, Vittoria, soffre di problemi psichiatrici molto seri e inizia a farsi seguire da uno dottore. Ed è proprio per questo che finisce sotto l’osservazione degli assistenti sociali. Conosce un uomo sui social network, come ormai capita a molti, è di origine turca, arrivato in Italia con documenti regolari con i quali ha ottenuto il permesso di soggiorno. I due decidono di sposarsi e un giorno Vittoria rimane incinta. Chiara nasce il 25 luglio del 2017, ma già il 4 dello stesso mese all’ospedale era arrivata la fatidica lettera che segnava le sorti della piccola. Il 2 agosto il pm di Bologna presenta un ricorso. In cui, ancora una volta, viene richiesto di verificare la capacità genitoriale di Vittoria e del marito e controllare le condizioni della bambina. Il 4 agosto, due giorni dopo la richiesta del pm, i servizi sociali prelevano la bambina. In sole 48 ore senza considerare le tempistiche necessarie a fare valutazioni di questo tipo e a comprendere se fosse necessario prendere decisioni così drastiche, i servizi sociali strappano la neonata dalle braccia dei suoi genitori. Tuttavia, gli psicologi si affidano all' articolo 403 del Codice civile, che dice: “Quando il minore si trova in una condizione di grave pericolo per la propria integrità fisica e psichica la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”. Dunque, l’articolo consente ai servizi sociali di allontanare i figli ai genitori senza dover prima passare per l’approvazione di un giudice. Una misura che però, per essere applicata, dovrebbe riferirsi a casi eccezionali, situazioni estreme. Ma nel caso di Chiara, il motivo che abbia portato alla decisione degli assistenti sociali rimane un quesito irrisolto. Un mistero. “Il pm, infatti, spiega l’avvocato Francesco Miraglia, legale della madre, aveva già fatto ricorso chiedendo di fare verifiche”. Verifiche che non sono mai state fatte. “Non si comprendono allora le ragioni di urgenza che avrebbero determinato l’applicazione del 403. Che, con tutta evidenza, è stata illegittima” aggiunge l’avvocato. Ad ogni modo la bambina è stata prelevata e affidata a una casa-famiglia. ll 10 agosto del 2017, il Tribunale di Bologna apre il procedimento di adottabilità di Chiara. Data che, secondo quanto dichiarato dal giudice, si tratterebbe di un “errore materiale”. Ma l’avvocato Miraglia non crede a questa posizione. Le cose per il legale erano già state scritte: “Sono certo che avessero già deciso tutto prima ancora che la bambina nascesse. Ci sono anche le mail inviate dai servizi sociali all' ospedale. Per di più, tra l’applicazione dell'articolo 403 e il provvedimento del Tribunale passa meno di una settimana: non c'erano proprio i tempi tecnici. Questo significa che tutto era già pronto prima”. Un decreto del Tribunale di Bologna del 21 giugno 2018 spiega che Chiara non può tornare a vivere con i suoi genitori. Secondo gli psicologi “il padre è una risorsa affettiva sufficientemente valida ma con elementi di fragilità individuati in un deficitario processo di integrazione nel tessuto socio ambientale e di una ridotta consapevolezza del problematico assetto mentale della moglie”.

La vita di Vittoria. Secondo lo psichiatra mamma Vittoria oggi sta molto meglio. È costantemente seguita e, consapevole della sua situazione, segue le cure indicate dai medici che la definiscono in gergo tecnico “compensata”. Ha ripreso a lavorare, scrive articoli scientifici per riviste importanti e conosciute. In più i due hanno una propria casa, e i genitori materni sono costantemente presenti e disponibili ad aiutare la famiglia. Il padre, accusato dal tribunale di essere poco integrato e di non conoscere bene la lingua, vive in Italia ormai da due anni e non ha problemi con l’italiano. Insomma, pare che la sua unica colpa sia vivere in un paese che non è il suo. Senza aver mai subito nessuna violenza, senza che mai i suoi genitori l’avessero maltrattata, abbandonata, molestata, Chiara è stata strappata dalla sua famiglia, e non potrà mai vivere con i genitori che l’hanno messa al mondo. Il Tribunale scrive che “secondo le linee guida per la valutazione clinica e l’attivazione del recupero della genitorialità nel percorso psicosociale di tutela dei minori del Cismai”, Vittoria e suo marito non sono idonei a fare i genitori.

Ora viene da domandarsi: ma come è possibile valutare l’operato di due genitori senza che questi abbiano vissuto con la propria figlia neanche un giorno della loro vita? Come è possibile sapere le condizioni in cui avrebbe vissuto la piccola ancor prima che venisse al mondo? Ancora una volta ci troviamo d’avanti ad un sistema che lascia spazio a troppe domande. Domande che i genitori, vittime innocenti delle scelte di psicologi, giudici e assistenti sociali, si pongono ogni giorno e a cui nessuno riesce a dare risposte. Ancora oggi tutta la famiglia di Chiara è pronta ad accogliere la bimba. Ci sono parenti, tra cui i nonni, che potrebbero tenerla in affido, ma neanche a loro è consentito stare con lei. Come i genitori, possono vederla solo un’ora al mese. ”Siamo sicuri che la Corte d’Appello di Bologna saprà valutare i fatti e alla piccola restituirà i suoi genitori e la sua famiglia”, dice l’avvocato Miraglia. Nella speranza che un giorno Chiara possa davvero conoscere la sua vera casa.

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 2 luglio 2019. La piccola Katia adesso è più al sicuro. La sua storia è forse la più straziante fra tutte quelle - orribili - che compongono l' inchiesta «Angeli e demoni» riguardante gli abusi su minori a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia. Una storia che, probabilmente, le lascerà addosso segni indelebili. Questa bambina è stata tolta ai genitori nel 2016 e affidata successivamente a una coppia di donne, Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji, che si sono unite civilmente nel giugno del 2018. Le «due mamme» avrebbero dovuto prendersi cura della piccina e invece, a quanto risulta dalle carte dell' inchiesta, la vessavano e maltrattavano. Un trattamento che, come ha scritto la Gazzetta di Reggio, «ha portato il giudice Luca Ramponi a togliere subito l' affidamento alla coppia, prescrivendo il divieto di avvicinamento a più un chilometro dalla bimba oltre al divieto di comunicare con lei». Questa vicenda contribuisce a fare luce sull' aspetto ideologico del sistema bibbianese, legato al mondo Lgbt. Leggendo quanto è accaduto alla povera Katia, non si può non pensare a ciò che scriveva un sacerdote modenese, don Ettore Rovatti. Egli ebbe a che fare con un caso per certi versi simile a quello reggiano, avvenuto anni fa nel Modenese e raccontato da Pablo Trincia nel libro-inchiesta Veleno (Einaudi). Di fronte agli assistenti sociali che ingiustamente toglievano i figli a famiglie magari difficili ma non colpevoli di abusi, don Ettore disse: «C' è una mentalità dietro a tutto questo armamentario giuridico. Cioè, la famiglia ha torto sempre. Lo Stato ha sempre ragione. Questa gente vuole distruggere la famiglia, così come il comunismo voleva distruggere la proprietà privata». Ecco, queste parole ci risuonano in testa mentre cerchiamo di ricostruire la storia di Katia. La bimba, dicevamo, è stata tolta ai genitori naturali e affidata a una coppia di lesbiche. Le quali poi, assieme alla psicologa Nadia Bolognini, avrebbero tentato di inculcare «nella minore la convinzione di essere stata abbandonata e maltrattata presso la famiglia di origine». L' avrebbero insomma indotta a credere di essere stata abusata e molestata dai genitori naturali. A quanto pare, però, era tutto falso. Come scrive il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, «tra tutti i bimbi monitorati dalle indagini e dati in affido dai servizi sociali della Val d' Enza, Katia è apparsa quella con meno problematiche e totalmente estranea [...] a situazioni di abuso sessuale».

A maltrattarla realmente, pare, erano invece le «due mamme». La piccina viene affidata a loro grazie a una delle protagoniste principali dell' inchiesta, ovvero Federica Anghinolfi, 57 anni, dirigente del Servizio di assistenza sociale dell' Unione Comuni Val d' Enza. Secondo il giudice, sarebbero «la sua stessa condizione e le sue profonde convinzioni a renderla portata a sostenere con erinnica perseveranza la causa dell' abuso da dimostrarsi a ogni costo». Già: la Anghinolfi è a tutti gli effetti un' attivista Lgbt. Nel 2014, la nostra fu intervistata dal Corriere della Sera per magnificare l' affido arcobaleno. In quell' occasione spiegò: «Non è per forza il genere che definisce la figura paterna, ma il ruolo: è il genitore "normativo", quello che dà le regole. Mentre la figura materna è calda, "accuditiva"». In un' altra intervista, risalente al 2016, sosteneva che «in questo Paese è ancora troppo forte l' idea della famiglia patriarcale padrona dei figli». Di affido gay la Anghinolfi ha parlato nel maggio 2018 durante un convegno intitolato «Affidarsi. Uno sguardo accogliente verso l' affido Lgbt», organizzato dall' Arcigay mantovana e sponsorizzato da Comune e Provincia di Mantova (sul caso, la Lega nord ha presentato un' interrogazione al Comune lombardo). Sapete chi altro partecipò all' incontro mantovano? La signora Fadia Bassmaji, presentata come «promotrice progetto Affidarsi e affidataria». La Bassmaji e la Anghinolfi vengono definite dal giudice «persone assai attive nella difesa dei diritti Lgbt». Ma non condividevano solo la militanza ideologica. Nelle carte dell' inchiesta si legge che Fadia e Federica «risultavano avere avuto in passato tra loro una relazione sentimentale». Riepilogando: la Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali, dà in affidamento una bimba alla Bassmaji, sua ex compagna che si è unita civilmente a un' altra donna, Daniela Bedogni. Non solo: «La sorella della Bedogni», spiega il giudice, «è risultata anche lei una "intima amica" della Anghinolfi». Ed è proprio attorno alla figura della Bedogni che emergono i particolari più inquietanti. Costei, sostiene ancora il Gip reggiano, «si dimostra instabile e del tutto convinta del proprio ruolo essenziale [...] di natura "salvifica" a favore della minore», cioè della piccola Katia. In alcune intercettazioni ambientali, la Bedogni si esprime con «urla deliranti in cui manifestava il proprio odio contro Dio con ininterrotte bestemmie di ogni tipo alternate d' improvviso a canti eucaristici». In altre occasioni dà luogo a «interi colloqui con persone immaginarie», a «deliri improvvisi in cui [...] immagina situazioni inesistenti» e poi, ancora, «sproloqui di ogni tipo, sempre intervallati da bestemmie e canti eucaristici». Il giudice dettaglia: «In totale evidenza di squilibrio mentale, mentre si trova da sola in auto, urla ininterrotte bestemmie, instaura veri e propri discorsi con soggetti immaginari di cui imita le voci». È a costei che è stata affidata Katia. E infatti i problemi non hanno tardato a manifestarsi. In un' occasione, per esempio, la bimba viene letteralmente «sbattuta fuori dall' auto» della Bedogni «sotto la pioggia battente», mentre la madre affidataria le grida: «Porca puttana vai da sola a piedi... Porca puttana scendi! Scendi! Non ti voglio più! Io non ti voglio più scendi! Scendi!». È per via di episodi di questo tipo che Katia è stata tolta alle «due mamme». Ma lei non è la sola bimba affidata a una coppia lesbica grazie alla Anghinolfi. Un' altra ragazzina viene affidata a Cinzia Prudente, amica di vecchia data dell' assistente sociale. Anche con la Prudente la Anghinolfi ha avuto una storia sentimentale. Di più: le due donne, nel 2011, hanno acquistato una casa insieme, di cui pagano ancora il mutuo metà per una, anche se nell' abitazione vive la Prudente assieme a sua moglie Paola. Secondo il giudice, sapendo che la Prudente era in difficoltà economiche, la Anghinolfi le avrebbe fatto ottenere un assegno da 200 euro mensili per il mantenimento della ragazzina in affido, anche se il suo unico impegno consisteva «nel passare un paio d' ore con la ragazza circa un paio di volte al mese per prendere un caffè insieme e fare una chiacchierata». Vantaggi economici avrebbero ottenuto anche la Bedogni e compagna, che percepivano un «contributo forfettario mensile doppio» rispetto alla cifra (620 euro) corrisposta agli altri affidatari. Qui, però, la sensazione è che più dei soldi, più di tutto, conti l' ideologia: la fissazione di voler dare in affido i bambini a coppie arcobaleno. Anche se poi li maltrattavano.

"Io, vittima delle rete dell'orrore. Così volevano strapparmi i bimbi". “Dopo poco tempo dalla mia richiesta di aiuto, senza che ci fossero accertamenti di nessun tipo, mi è arrivata a casa una lettera dei servizi sociali in cui era scritto che i bambini sarebbero stati affidati a loro. Volevano togliermeli. Senza ragione.” Costanza Tosi, Lunedì 08/07/2019 su Il Giornale. Si allargano i sospetti sui "demoni" di Reggio Emilia. Politici, medici, assistenti sociali e psicologi. Sono tutti coinvolti nell'inchiesta che ha scosso l’Italia. Alcuni di loro sono stati accusati di aver scritto documenti falsi per strappare i bambini dalle proprie famiglie e affidarli ad amici e conoscenti. Dietro compenso o, addirittura, dietro movente ideologico. Ma di colpevoli, in questa orribile storia, potrebbero essercene altri. Il numero delle vittime sembra infatti crescere giorno dopo giorno. Più si parla del caso è più storie vengono fuori. Storie simili a quelle che già abbiamo raccontato. Una madre, che chiameremo Giulia, perché ci ha chiesto di rimanere nell’anonimato, ci ha raccontato la sua storia. Una brutta storia. "Quando ho letto i giornali e ho visto quello che era successo sono rimasta allibita. Non potevo crederci. Le stesse persone coinvolte in questa brutta storia sono le stesse che hanno provato a portare via i miei due bambini. Per fortuna non ci sono riusciti. Ho pianto molto, ho detto ad amici che volevano portarmi via i figli a tutti i costi, ma nessuno mi credeva. Oggi, sapere che sono stati arrestati e scoperti mi fa tirare un sospiro di sollievo". Si sfoga così la madre, nella lunga chiacchierata al telefono. Un anno e mezzo fa Giulia, che vive a Bibbiano con i suoi due figli di 13 e 7 anni, ha deciso di contattare i servizi sociali. “Ero preoccupata per la situazione a casa, mio marito aveva iniziato a bere e ciò lo portava ad essere violento. Spesso con me, ma talvolta anche con i bambini. Avevo paura e mi sono rivolta a loro”, ha iniziato a raccontare la madre. Chiedeva aiuto e, invece, ha rischiato di finire nel triste e lungo elenco delle vittime. Non poteva mai immaginare che, quelle persone, di cui lei si fidava, potessero portarle via i figli. Un grido di aiuto, una speranza, la speranza di poter migliorare le cose, quella di Giulia. Che, però, si è trasformata in un incubo. “Dopo poco tempo dalla mia richiesta di aiuto, senza che ci fossero accertamenti di nessun tipo, mi è arrivata a casa una lettera dei servizi sociali in cui era scritto che i bambini sarebbero stati affidati a loro. Volevano togliermeli. Senza ragione. Nessuno era mai venuto a casa mia". Così è iniziato il lungo calvario di Giulia, sotto la costante osservazione dei servizi sociali dell’Unione Val D'Enza tra visite degli psicologi e incontri continui. Ma nessuna spiegazione del perché volessero strapparle i bambini. “Ogni volta cercavano di incolpare me. Perchè proprio me? Io non c’entravo nulla. Io ero vittima di mio marito, eppure su di lui non hanno detto niente. Anzi, a volte, sembrava che lo giustificassero. Più volte mi sono fatta delle domande e sono entrata in crisi". Racconta Giulia, con la voce rotta dal dolore, solo al ricordo. Impaurita, ma sollevata dopo l’operazione dei carabinieri. “Un giorno sono andata ad un incontro con la neuropsichiatra e quando le ho raccontato quale era il problema mi ha detto, quasi deridendomi: 'Signora ma lei non se lo beve un goccino ogni tanto?'. Avevo i brividi. Non riuscivo a capire”. I bambini di Giulia, tenuti sotto costante osservazione, erano costretti a passare intere giornate con i servizi sociali. Tra i responsabili e incaricati di stare con i piccoli c'erano Beatrice Benati, Marietta Veltri e Maria Vittoria Masdea. Educatrici dei servizi sociali finite nella bufera giudiziaria, indagate dalla procura di Reggio Emilia. "Mi dicevano che ero io che non sapevo gestire la situazione. Che i bambini avevano dei problemi. E tutto per colpa mia. Che mi dovevo imporre per farli andare da loro anche quando i miei figli non volevano". Ma perché incolpare proprio lei? Perchè non approfondire la situazione per allontanare dal padre, alcolizzato e violento, la madre con i suoi figli? Giulia non riusciva a dare una risposta a queste domande. Forse perché ai vertici dei servizi sociali non interessava affidare quei bambini alla madre. Quello che consentiva di portare a termine il proprio “gioco d’affari” era strappare via i bambini dalla famiglia naturale e affidarli ad altri. Questo era il modus operandi dell’associazione. Solo così sarebbero riusciti a mettere nelle tasche di amici e conoscenti denaro destinato al mantenimento. Da quello che dicono le carte era questa la loro tattica. Solo in questo modo avrebbero potuto sottoporre i bambini alle continue sedute degli psicologi della Onlus coinvolta nel giro di affari illecito, il Centro studi Hansel e Gretel. Il tutto, con la complicità dei genitori affidatari disposti, in cambio di soldi, a portare i piccoli nella “sala delle torture”. Ma con Giulia qualcosa è andato storto. “I miei figli mi raccontavano che li facevano solo disegnare, che non si divertivano e non ci volevano andare. Non me la sono sentita di continuare. Era tutto troppo strano”. Ancora per Giulia la battaglia non è terminata e, per chiudere definitivamente i rapporti con i servizi sociali, si è dovuta rivolgere ad un avvocato. Lei resta ancora sotto osservazione dagli psicologi.

Angeli e demoni, l’incubo di un padre: “Mi hanno strappato mia figlia a quattro anni”. Un padre a ilGiornale.it: “Quando ce l’hanno strappata via mia figlia aveva quattro anni. Adesso ne ha dodici ed è ancora costretta a vivere dentro quelle mura. Lontana da noi”. Costanza Tosi, Martedì 09/07/2019, su Il Giornale. C’è il sospetto che ci possano essere nuovi casi oltre a quelli già raccontati dall’inchiesta “Angeli e Demoni”. Nuovi medici coinvolti, nuovi psicologi corrotti, nuovi politici complici. Mentre dalle carte della procura di Reggio Emilia continuano a emergere particolari inquietanti, che descrivono il sistema illecito di affidi ad opera dei servizi sociali dell’Unione Val D’Enza, spuntano fuori altre storie, molto simili a quelli che già abbiamo raccontato. Sospetti e dubbi che hanno spinto altre famiglie a cui erano stati strappati i figli a scriverci. Famiglie, molto spesso solo padri e madri, che chiedono giustizia. Come Luigi (nome di fantasia ndr). La sua storia ha inizio dieci anni fa, quando decise di divorziare dalla moglie con cui, tre anni prima, aveva avuto la sua prima figlia. Come succede in molte famiglie, i genitori dopo la separazione andarono a vivere in due case differenti. “Da lì la mia ex moglie iniziò a non farmi più vedere la bambina. - Racconta Luigi - La teneva solo con sé e ogni volta che provavo ad andare a prenderla per passare del tempo assieme a lei, non me la faceva trovare. Porta chiusa, serrande sbarrate. Alcune volte ho passato ore ad aspettare che mi aprisse il cancello di casa. Ma niente da fare”. A quel punto Luigi decise di rivolgersi ai servizi sociali del suo paese, Montecavolo. Piccolo centro del reggiano, a pochi chilometri da Bibbiano, città finita nell’occhio del ciclone dopo l’arresto del sindaco dem accusato di abuso d’ufficio nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Una richiesta d’aiuto disperata, quella di Luigi, che sperava di riuscire a rivedere presto la sua bambina, di soli tre anni, dopo mesi di sofferenze e porte chiuse in faccia. Ma non è stato così. Luigi, la sua piccola, non l’ha più rivista. Ha lottato inutilmente per nove lunghi anni. ”Dopo la mia segnalazione i vigili sono riusciti a trovare la mia ex moglie mentre usciva di casa con mia figlia. L’hanno fermata, gliel’hanno portata via e da lì è stata data in affidamento ad una casa famiglia.” Ma anche questa volta, come nelle recenti storie che IlGiornale.it ha raccontato, l’allontanamento della piccola dai propri familiari avviene senza nessuna verifica. Da un giorno all’altro la bambina viene affidata ad un centro privato. Senza prima fare chiarezza su quali siano le problematiche di quella famiglia. Senza controllare come i genitori facciano a vivere la propria figlia. E, sopratutto, senza dare spiegazioni al padre, prima vittima di questa storia. Proprio lui che aveva agito nella speranza di rivedere la sua bambina si è visto portarsela via. ”Mia moglie è stata sottoposta a TSO per ben due anni.” Continua Luigi, che prova con fatica a ripercorrere la storia. I ricordi fanno troppo male. “Era continuamente sotto controllo. La trattavano come una persona con gravi problemi psichici. Senza prima aver fatto niente per riuscire a comprendere la situazione.” Ma la madre accettò di sottoporsi alle visite. Dopo due anni, e una miriade di controlli risultati negativi, la bambina è tornata a casa con la mamma. Sempre seguita dagli assistenti sociali. E sempre lontana dal proprio papà. Senza alcun motivo apparente. Ma non era finita. Gli operatori continuavano a tenere tutto sotto controllo, a fare continui sopralluoghi e, la prima relazione che scrissero dopo che la bambina era tornata a casa, fu l’ennesima congiura. Nelle carte i servizi sociali contestarono che la mamma non portava la figlia a scuola e neanche dal pediatra. “Mia moglie lavora in ospedale, era lì che faceva fare le visite alla bambina quando ce n’era bisogno. E loro lo sapevano benissimo.” Ma non c’è stato niente da fare. Grazie a quel documento pieno di futili pretesti e false accuse, a dire del padre, la bambina è stata riportata nella casa famiglia. E da lì non è più uscita. E pensare che fu proprio il padre a chiedere aiuto. “Quando ce l’hanno strappata via mia figlia aveva 4 anni. Adesso ne ha dodici ed è ancora costretta a vivere dentro quelle mura. Lontana da noi”, racconta Luigi trattenendo le lacrime dal dolore. “Abbiamo fatto di tutto per provare a tirarla fuori da lì. Nel 2014 io e la mia ex moglie ci siamo anche riavvicinati, andavamo a trovarla assieme, quelle poche volte che ci veniva concesso, per far capire agli assistenti sociali e anche a lei, che andava tutto bene. Loro ci dissero di non farlo più, che questo avrebbe creato ancora più problemi alla bimba. E che dovevamo assolutamente evitare.” Sparire. Tutti tentativi inutili quelli dei due genitori. Gli assistenti sociali non si sono spostati dalla loro decisione: la piccola doveva stare lontana dalla propria famiglia. E Luigi, ancora oggi, non si dà pace. “Posso vederla soltanto due ore ogni 20 giorni e alla mia ex moglie è consentito andarla a trovare un’ora al mese.” Ci spiega Luigi. “Qualche volta veniva affidata a mio fratello, padre di tre bambini. La portava al mare, la teneva nel fine settimana. Un giorno mi mandò alcune foto di mia figlia in spiaggia, non lo avesse mai fatto. Quando gli assistenti sociali lo hanno scoperto sono andati su tutte le furie. L’hanno tolta anche a lui. Non può più tenerla.” Oggi Luigi si è rivolto ad un legale e prega ogni giorno perché sia fatta giustizia. Nessun procedimento è stato aperto, ma adesso, dopo l’inchiesta “Angeli e Demoni” che ha portata o alla luce un presunto giro di affari sulla pelle dei bambini, Luigi vuol vederci chiaro. Troppe cose non tornano. “E se hanno lucrato anche sulla pelle di mia figlia?”, dice. Una storia, quella di Luigi, che poco si allontana da quelle delle vittime che abbiamo raccontato. Un quadro confuso che fa trapelare quell’ostinazione, a quanto pare ingiustificata, nel voler strappare una bambina ai propri genitori. Un susseguirsi di eventi che lasciano spazio a troppe domande.

Reggio Emilia, lavaggi del cervello e scosse elettriche sui minori da dare in affido. Diciotto persone arrestate, anche un sindaco pd. Tutti accusati di aver alterato relazioni e ricordi dei bambini per toglierli ai genitori di origine e affidarli ad altre famiglie. Alessandro Fulloni 27 giugno 2019 su Il Corriere della Sera. Certificazioni false per strappare i bimbi a famiglie in difficoltà e affidarli ad altre con requisiti più idonei. Ma non solo. Man mano che i dettagli aumentano e vengono resi noti, questa indagine dei carabinieri condotta dai carabinieri di Reggio Emilia — e che prende il nome, eloquente, di «angeli e demoni» — appare sempre più sconvolgente. Si parla, in sintesi, di piccoli tolti illecitamente ai genitori per darli (dopo un giro di soldi) ad altri. Ma per costruire le condizioni necessarie a questo passaggio, ogni mezzo era lecito: comprese false relazioni, terapeuti travestiti da personaggi «cattivi» delle fiabe in rappresentazione dei genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Un vero e proprio «lavaggio del cervello», insomma. Diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano (Reggio Emilia) Andrea Carletti rieletto poche settimane fa al secondo mandato, politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti e psicologi e psicoterapeuti di una Onlus di Torino sono stati raggiunti da misure cautelari varie, che vanno dai domiciliari (come nel caso dello stesso primo cittadino) al divieto temporaneo di esercitare la professione. Una disposizione, questa, indirizzata a dirigenti amministrativi e operatori sociosanitari. L’inchiesta vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D’Enza, accusati di aver redatto le false relazioni per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. Uno sconvolgente «business» attorno all’infanzia che andava avanti da svariati anni e che coinvolgerebbe decine e e decine di minori.

«Impulsi elettrici sui bambini». Nella medesima inchiesta, coordinata dalla pm Valentina Salvi ci sono anche decine di indagati. Quello ricostruito dagli investigatori è un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Tra i reati contestati ci sono frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Tra i metodi contestati, ore e ore di intensi «lavaggi del cervello» durante le sedute di psicoterapia, bambini suggestionati anche con l’uso di impulsi elettrici, spacciati ai piccoli come «macchinetta dei ricordi», un sistema che in realtà avrebbe «alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari».

«Difficili situazioni sociali». La finalità del gruppo di persone sotto inchiesta, secondo la procura, era sottrarre figli a famiglie in difficili situazioni sociali, e affidarli, dietro pagamento, ad altri genitori. Per ottenere questo scopo sarebbero stati usati metodi per manipolare la memoria e i racconti delle vittime e falsificare i documenti. Appunto: ecco il perché dei falsi dossier composti da disegni dei bambini falsificati con l’aggiunta di dettagli a carattere sessuale, abitazioni descritte falsamente come fatiscenti, stati emotivi dei piccoli relazionati in modo ingannevole, travestimenti dei terapeuti da personaggi «cattivi» delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, denigrazione della figura paterna e materna.

«Ricordi pilotati». Tutto ciò serviva a «pilotare» i ricordi e i racconti dei bambini in vista dei colloqui con i giudici incaricati di decidere sul loro affido. Un particolare sconvolgente: dopo l’allontanamento dalle famiglie d’origine i minori sarebbero stati addirittura vittime di stupro all’interno delle famiglie affidatarie e delle comunità. Non bastasse, c’è anche questo: i Servizi Sociali per lunghi anni hanno omesso di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati.

Le misure interdittive. Oltre al sindaco, altre cinque persone sono state sottoposte alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Tra queste la responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza, una coordinatrice del medesimo servizio, un’assistente sociale e due psicoterapeuti di una Onlus. Ulteriori otto misure cautelari di natura interdittiva, costituite dal divieto temporaneo di esercitare attività professionali sono state eseguite a carico di dirigenti comunali, operatori socio-sanitari, educatori. Infine altre due misure coercitive del divieto di avvicinamento a un minore riguardano una coppia affidataria accusata di maltrattamenti. Oltre 100 i carabinieri impegnati nell’esecuzione dell’ordinanza cautelare e in decine di perquisizioni domiciliari.

I soldi attorno al business. Secondo i carabinieri, quello sugli illeciti affidamenti di minori in provincia di Reggio Emilia è «un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell’indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali». Grazie a questi fondi venivano, inoltre, organizzati anche numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio di una Onlus, «in elusione del codice degli appalti e delle disposizioni dell’Autorità Nazionale Anticorruzione».

Scosse elettriche e lavaggi del cervello ai bambini per allontanarli dalle famiglie e fare soldi. Nel Reggiano scoperta una rete di medici, assistenti sociali e politici avevano messo in piedi un sistema per lucrare sugli affidi. Venti misure di custodia cautelare. Coinvolto anche il sindaco di Bibbiano (Re). La Stampa il 27/06/2019. False relazioni, terapeuti travestiti da personaggi “cattivi” delle fiabe in rappresentazione dei genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Il tutto per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito anche ad amici e conoscenti, per poi sottoporre i minori ad un programma psicoterapeutico per un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Questi i contorni dell’operazione «Angeli e Demoni» condotta dai carabinieri di Reggio Emilia che ha portato, in queste ore, all’esecuzione di una ventina di misure cautelari nei confronti di politici, medici, assistenti sociali e liberi professionisti. Gli indagati, secondo l’accusa, avevano messo in piedi da diversi anni un illecito e redditizio sistema di «gestione minori», il cui radicamento sull’intero territorio nazionale è tuttora in fase di sviluppo investigativo. Agli arresti anche il sindaco di Bibbiano (Re). e assistenti sociali nonché psicoterapeuti di una nota Onlus di Torino. Tra i destinatari di altri provvedimenti cautelari anche psicologi dell’Ausl reggiana. Sono poi decine gli indagati tra sindaci, amministratori comunali, un avvocato, dirigenti e operatori socio sanitari. Secondo il quadro accusatorio, quello che veniva spacciato per un modello istituzionale da emulare sul tema della tutela dei minori abusati, altro non era che un illecito business ai danni di decine e decine di minori sottratti alle rispettive famiglie. I destinatari delle misure cautelari sono accusati, a vario titolo, di frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamenti su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Ore e ore di «intensi lavaggi del cervello» intercettati dai carabinieri reggiani durante le sedute di psicoterapia effettuate sui minori anche in tenera età, questa l’accusa, dopo che gli stessi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le «più ingannevoli e disparate attività». Tre queste, sempre secondo la ricostruzione dei militari, relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata «aggiunta» di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi «cattivi» delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella che veniva spacciata ai bambini come «macchinetta dei ricordi». Il tutto durante, spiegano gli investigatori, i lunghi anni nei quali i Servizi sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati. Tra gli affidatari dei minori anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Infine secondo il quadro accusatorio ci sarebbero stati due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità, dopo l’illegittimo allontanamento. L’operazione, senza precedenti in Italia e condotta dai carabinieri del nucleo investigativo di Reggio Emilia è stata coordinata dal sostituto procuratore, Valentina Salvi.

Reggio Emilia, lavaggio del cervello e falsi documenti per allontanare bambini dai genitori. Diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, raggiunte da misure cautelari. Sono accusate di aver sottratto i minori alle famiglie per darli in affido retribuito a conoscenti. Tra gli affidatari anche titolari di sexy shop. La Repubblica il 27 giugno 2019. Ore e ore di intensi lavaggi del cervello durante le sedute di psicoterapia, bambini suggestionati anche con l'uso di impulsi elettrici, spacciati ai piccoli come "macchinetta dei ricordi", un sistema che in realtà avrebbe "alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari". Sono alcune contestazioni che emergono dall'inchiesta Angeli e Demoni sulla rete dei servizi sociali della Val D'Enza, nel Reggiano, che ha portato a misure cautelari per diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti di una Onlus di Moncalieri, in provincia di Torino, perquisita questa mattina. Le misure cautelari sono state eseguite dai carabinieri di Reggio Emilia. Il sindaco è agli arresti domiciliari. Uguale provvedimento per la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d'Enza, una coordinatrice del medesimo servizio, un'assistente sociale e due psicoterapeuti della Onlus torinese. Ulteriori otto misure di natura interdittiva (divieto temporaneo di esercitare attività professionali) sono state eseguite a carico di altrettanti dirigenti comunali, operatori socio-sanitari, educatori. L'inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, ha dell'incredibile: vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D'Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. E non solo. Secondo il quadro accusatorio, quello che veniva spacciato per un modello istituzionale da emulare sul tema della tutela dei minori abusati, altro non era che un illecito business ai danni di decine e decine di minori sottratti alle rispettive famiglie. I destinatari delle misure cautelari sono accusati, a vario titolo, di frode processuale, depistaggio, abuso d'ufficio, maltrattamenti su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d'uso. I minori venivano allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le "più ingannevoli e disparate attività". Tre queste, sempre secondo la ricostruzione dei militari, relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata "aggiunta" di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi "cattivi" delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi. Il tutto durante, spiegano gli investigatori, i lunghi anni nei quali i Servizi sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati. Tra gli affidatari dei minori anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Infine secondo il quadro accusatorio ci sarebbero stati due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità, dopo l'illegittimo allontanamento. Alcune vittime dei reati, oggi adolescenti, "manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo" evidenziano i carabinieri di Reggio Emilia, che hanno svolto gli accertamenti. Le indagini sono iniziate alla fine dell'estate 2018 dopo un'anomala escalation di denunce all'Autorità Giudiziaria, da parte dei servizi sociali coinvolti, per ipotesi di reati di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori. L'analisi dei fascicoli vedeva puntualmente approdare le indagini verso la totale infondatezza di quanto segnalato. Da questo spunto si è sviluppata l'indagine che ha svelato numerosi falsi documentali, redatti secondo l'accusa dai servizi sociali in complicità con alcuni psicologi, "artatamente trasmessi all'Autorità Giudiziaria". Il vicepremier Luigi Di Maio parla di "una galleria di atrocità assolute che grida vendetta" e ha dato indicazione ai suoi uffici di scrivere immediatamente una lettera al ministro Fontana per chiedere una verifica immediata di tutto il sistema di affidi nazionale, perchè "orrori simili non sono accettabili". Di Maio attacca il Pd: "Quello che viene spacciato per un modello nazionale a cui ispirarsi sul tema della tutela dei minori abusati, il modello Emilia proposto dal Pd, si rivela oggi come un sistema da incubo".

Servizi sociali, affidi illeciti: 18 misure cautelari. "Lavaggio del cervello ai bimbi". Affari con i minori tolti alle famiglie, ai domiciliari anche il sindaco di Bibbiano. L'inchiesta: i piccoli suggestionati anche con impulsi elettrici. Di Maio: "Verifiche urgenti". Benedetta Salsi il 27 giugno 2019 su Il Resto del Carlino. Diciotto persone, tra le quali il sindaco Pd di Bibbiano (Reggio Emilia) Andrea Carletti (video), politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti di una nota onlus di Torino sono stati raggiunti da misura cautelare questa mattina dai carabinieri di Reggio Emilia (foto) per affidamenti illeciti di minori.  L'inchiesta ‘Angeli e Demoni’ coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D’Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. Sono 27 gli indagati. Sono agli arresti domiciliari il sindaco di Bibbiano e altre cinque persone (la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d'Enza, una coordinatrice dello stesso servizio, un'assistente sociale e due psicoterapeuti di una Onlus). Dieci misure cautelari di natura interdittiva, il divieto temporaneo di esercitare attività professionali, sono state eseguite a carico di altre otto persone, dirigenti comunali, operatori socio-sanitari, educatori. Infine, altre due misure coercitive del divieto di avvicinamento ad un minore sono state eseguite a carico di una coppia affidataria accusata di maltrattamenti. Un giro d’affari, quello ricostruito dagli investigatori, da centinaia di migliaia di euro. Tra i reati contestati frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. I carabinieri che hanno svolto gli accertamente evidenziano che lcune vittime dei reati contestati dall'inchiesta, oggi adolescenti, "manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo". Le indagini sono iniziate alla fine dell'estate del 2018 dopo l'anomala escalation di denunce da parte dei servizi sociali coinvolti, per ipotesi di reati di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori. E l'analisi dei fascicoli vedeva puntualmente approdare le indagini verso la totale infondatezza di quanto segnalato. Da questo spunto si è sviluppata l'indagine che ha svelato numerosi falsi documentali, redatti secondo l'accusa dai servizi sociali in complicità con alcuni psicologi, "artatamente trasmessi all'Autorità Giudiziaria". Secondo gli investigatori, quello svelato dall'inchiesta 'Angeli e Demoni' è "un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell'indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali". Grazie a questi fondi venivano, inoltre, organizzati anche numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio di una Onlus, "in elusione del codice degli appalti e delle disposizioni dell'Autorità Nazionale Anticorruzione".  Oltre 100 i carabinieri impegnati nell’esecuzione dell’ordinanza cautelare e di decine di perquisizioni domiciliari. I bambini, stando alle contestazioni, venivano suggestionati durante sedute di psicoterapia anche mediante l’uso di impulsi elettrici, spacciato ai piccoli come “macchinetta dei ricordi”, che in realtà avrebbe “alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari. Tra gli affidatari dei minori anche titolari di sexy shop.

"Falsificati i disegni dei bambini, lavaggio del cervello". Ore e ore di intensi lavaggi del cervello intercettati dai carabinieri reggiani durante le sedute di psicoterapia effettuate sui minori, anche di tenera età, dopo che gli stessi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le più ingannevoli e disparate attività, tra le quali: relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata “aggiunta” di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi cattivi delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella che veniva spacciata ai bambini come “macchinetta dei ricordi”. Questi, secondo l'indagine 'Angeli e demoni' dei carabinieri di Reggio Emilia, erano solo alcuni dei metodi adottati nei confronti dei bambini con l'obiettivo di allontanarli dai genitori, per poi mantenerli in affido e sottoporli ad un circuito di cure private a pagamento di una Onlus piemontese. Il tutto durante i lunghi anni nei quali gli appartenenti ai servizi sociali indagati omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i Carabinieri hanno trovato e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati.

Di Maio scrive a Fontana: "Verifiche urgenti al sistema affidi". Il ministro Di Maio, a quanto si apprende, ha dato indicazione ai suoi uffici di scrivere immediatamente una lettera al ministro Fontana per chiedere una verifica immediata di tutto il sistema di affidi nazionale, perché "orrori simili non sono accettabili. E non lo saranno mai!". 

Terapeuti vestiti da cattivi delle fiabe e regali nascosti. Così gli psicologi e gli assistenti sociali manipolavano la mente dei bambini. Francesca Bernasconi, Giovedì 27/06/2019 su Il Giornale. False relazioni, disegni "artefatti attraverso la mirata aggiunta di connotazioni sessuali", terapeuti travestiti da cattivi delle fiabe, regali nascosti e scosse elettriche. Così, gli psicoterapeuti e gli assistenti sociali manipolavano la mente dei bambini su cui il giudice avrebbe dovuto decidere se strapparli o meno alle loro famiglie di origine. L'inchiesta dei carabinieri, che questa mattina ha portato all'arresto di 18 persone e all'inserimento di un'altra decina nel registro degli indagati, racconta un quadro raccapricciante, fatto di "ingannevoli attività", messe in piedi per allontanare i piccoli dalle loro famiglie. Tra gli stratagemmi usati da medici, psicologi e assistenti sociali della onlus torinese implicata, anche quello di travestirsi da personaggi malvagi delle fiabe, "in rappresentanza dei genitori intenti a fargli del male". Inoltre, per anni, i servizi sociali hanno evitato di "consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali", accatastate in un magazzino e scoperte dai carabinieri. Tutte tecniche che, insieme ai lavaggi del cervello e alle torture con elettrodi e scosse, servivano per alterare i ricordi dei bambini e far emergere una realtà falsata. In questo modo, facevano credere ai bambini di aver subito abusi nelle famiglie di origine. In questo modo, il giudice decideva spesso per l'affidamento dei minori, che venivano affidati ad amici o conoscenti delle persone implicate nel giro.

Torture sui bambini, accertati 2 casi di stupro nelle famiglie affidatarie. Tra gli affidatari anche titolari di sexy shop e persone con problemi psichici. Francesca Bernasconi, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Prima tolti ai genitori per denaro, poi sottoposti a torture e infine stuprati. È quanto emerso dall'inchiesta "Angeli e Demoni" dei carabinieri di Reggio Emilia, che questa mattina hanno arrestato 18 persone, accusate di aver messo in piedi un sistema per sottrarre i bambini alle proprie famiglie di origine, per affidarli a quelle di amici o conoscenti, in cambio di ingenti somme di denaro. Nel giro sono coinvolti politici, medici, assistenti sociale e persino il sindaco Pd di Bibbiano, che falsificavano relazioni e alteravano i ricordi dei piccoli, per convincere il giudice a dare i bambini in affido. Gli investigatori hanno intercettato ore e ore di lavaggi del cervello sui bambini, a opera di psicologi e assistenti sociali che, per alterare i ricordi dei minori, ricorrevano anche a scosse elettriche, quella che loro chiamavano "macchinetta dei ricordi". Tramite gli elettrodi venivano generati falsi ricordi di abusi sessuali, in realtà mai subiti dalla famiglia di origine e, grazie a falsi disegni e relazioni non veritiere, spesso il giudice decideva a favore dell'affido. Tra gli affidatari, figuravano anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Ma una volta arrivati nella nuova famiglia o nella comunità, non sempre l'incubo delle torture finiva. Alcuni bambini, infatti, venivano sottoposti ad abusi e le indagini hanno accertato due casi di stupro presso i nuclei e le comunità affidatari.

Li chiamano affidi, ma troppo spesso sono uno scippo. Anni fa Panorama si era occupato delle stranezze sugli affidi di bambini in Emilia. Alla luce dell'inchiesta di oggi sembra che nulla sia cambiato. Maurizio Tortorella il 27 giugno 2019 su Panorama. Sembra un uomo pensoso e forse triste, Francesco Morcavallo. Se davvero lo è, il motivo è una sconfitta. Perché, malgrado una battaglia durata quasi quattro anni, non è riuscito a smuovere di un millimetro quello che ritiene un «meccanismo perverso» e insieme «il più osceno business italiano»: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia. Dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna, Morcavallo ne ha visti tanti, di quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’«internamento» (spesso per anni) negli istituti e nelle comunità governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a sé. Ha tentato di correggere comportamenti scorretti, ha cercato di contrastare incredibili conflitti d’interesse. Ha anche denunciato abusi e qualche illecito. È stato a sua volta colpito da esposti, e ne è uscito illeso, ma poi non ce l’ha fatta e ha cambiato strada: a 34 anni ha lasciato la toga e da pochi mesi fa l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di società e successioni. E anche di diritto della famiglia, la sua passione.

Dottor Morcavallo, quanti sono in un anno gli allontanamenti decisi da un tribunale dei minori «medio», come quello di Bologna?

«Sono decine, centinaia? Sono migliaia. Ma la verità è che nessuno sa davvero quanti siano, in nessuna parte d’Italia. Lo studio più recente, forse anche l’unico in materia, è del 2010: il ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcolava che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi portati via dalle famiglie fossero in totale 39.698. Solo in Emilia erano 3.599. Ma la statistica ministeriale è molto inferiore al vero; io credo che un numero realistico superi i 50 mila casi. E che prevalga l’abbandono».

L’abbandono?

«Quando arrivai a Bologna, nel 2009, c’erano circa 25 mila procedimenti aperti, moltissimi da tanti, troppi anni. Trovai un fascicolo che risaliva addirittura al 1979: paradossalmente si riferiva a un mio coetaneo, evidentemente affidato ancora in fasce ai servizi sociali e poi «seguito» fino alla maggiore età, senza interruzione. Il fascicolo era ancora lì, nessuno l’aveva mai chiuso».

E che cos’altro trovò, al Tribunale di Bologna?

«Noi giudici togati eravamo in sette, compreso il presidente Maurizio Millo. Poi c’erano 28-30 giudici onorari: psicologi, medici, sociologi, assistenti sociali».

Come si svolgeva il lavoro?

«I collegi giudicanti, come previsto dalla legge, avrebbero dovuto essere formati da due togati e da due onorari: scelti in modo automatico, con logiche neutrali, prestabilite. Invece regnava un’apparente confusione. Il risultato era che i collegi si componevano «a geometria variabile». Con un solo obiettivo».

Cioè?

«In aula si riuniva una decina di giudici, che trattavano i vari casi; di volta in volta i quattro «decisori» che avrebbero poi dovuto firmare l’ordinanza venivano scelti per cooptazione, esclusivamente sulla base delle opinioni manifestate. Insomma, tutto era organizzato in modo da fare prevalere l’impostazione dei servizi sociali, sempre e inevitabilmente favorevoli all’allontanamento del minore».

E lei che cosa fece?

«Iniziai da subito a scontrarmi con molti colleghi e soprattutto con il presidente Millo. Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, là dov’è possibile, coincida con questo interesse. È la linea «meno invasiva», la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».

Gli altri giudici avevano idee diverse dalle sue? 

«Sì. Erano per l’allontanamento, quasi sempre. Soltanto un collega anziano la vedeva come me: Guido Stanzani. Era magistrato dal 1970, un uomo onesto e serio. E anche qualche giudice onorario condivideva il nostro impegno: in particolare lo psicologo Mauro Imparato.

Che cosa accadeva? Come si aprivano i procedimenti?

«Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perché i genitori venivano ritenuti «inadeguati»».

Che cosa vuol dire «inadeguato»?

«Basta che arrivi una segnalazione dei servizi sociali; basta che uno psicologo stabilisca che i genitori siano «troppo concentrati su se stessi». In molti casi, è evidente, si tratta di vicende strumentali, che partono da separazioni conflittuali. Il problema è che tutti gli atti del tribunale sono inappellabili».

Perché?

«Perché si tratta di provvedimenti formalmente «provvisori». L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, è per sua natura un atto provvisorio. Così, anche se dura anni, per legge non può essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si può opporre; nemmeno il migliore avvocato può farci nulla».

Tra le cause di allontanamento, però, ci sono anche le denunce di abusi sessuali in famiglia. In quei casi non è bene usare ogni possibile cautela?

«Dove si trattava di presunte violenze, una quota comunque inferiore al 5 per cento, io a Bologna ho visto che molti casi si aprivano irritualmente a causa di lettere anonime. Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perché una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’è di che capirne il perché».

Che cosa intende dire?

«Chi sono i giudici onorari? Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato».

Possibile?

«A Bologna mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come «tutore» del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare».

Ma sono retribuiti, i giudici onorari?

«Sì. Un tanto per un’udienza, un tanto per ogni atto. Insisto: certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. È un business osceno e ricco, perché quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business è alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca».

È una denuncia grave. Il fenomeno è così diffuso? Possibile che siano tutti interessati, i giudici onorari? Che tutti i centri d’affido guardino solo al business?

«Ma no, certo. Anche in questo settore c’è il cattivo e c’è il buono, anzi l’ottimo. Ovviamente c’è chi lavora in modo disinteressato. Però il fenomeno si alimenta allo stesso modo per tutti. I tribunali dei minori non scelgono dove collocare i minori sottratti alle famiglie, ma guarda caso quella scelta spetta ai servizi sociali. Comunque la crescita esponenziale degli affidi e delle rette è uguale per i buoni come per i cattivi. E c’è chi ci guadagna».

Per lei sono più numerosi gli istituti buoni o i cattivi?

«Non lo so. A mio modo di vedere, buoni sono quelli che favoriscono il contatto tra bambini e famiglie. Ce ne sono alcuni. Io ne conosco 2 o 3».

Ma, scusi: i giudici onorari chi li nomina?

«Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva, il Consiglio superiore della magistratura ratifica».

E nessuno segnala i conflitti d’interessi? Nessuno li blocca?

«Dovrebbero farlo, per legge, i presidenti dei tribunali dei minori. Potrebbe farlo il Csm. Invece non accade mai nulla. L’associazione Finalmente liberi, cui ho aderito, è tra le poche che hanno deciso d’indagare e lo sta facendo su vasta scala. Sono stati individuati finora un centinaio di giudici onorari in evidente conflitto d’interessi. Li denunceremo. Vedremo se qualcuno ci seguirà».

Quanto può valere quello che lei chiama «business osceno»? 

«Difficile dirlo, nessuno controlla. In Italia non esiste nemmeno un registro degli affidati, come accade in quasi tutti i paesi occidentali.

Ipotizzi lei una stima.

«Sono almeno 50 mila i minori affidati: credo costino 1,5 miliardi l’anno. Forse di più».

Torniamo a Bologna. Nel gennaio 2011 accadde un fatto grave: un neonato morì in piazza Grande. Fu lì che esplose il conflitto fra lei e il presidente del tribunale dei minori. Come andò?

«La madre aveva partorito due gemelli dieci giorni prima. Uno dei due morì perché esposto al freddo. Che cosa era successo? In realtà la famiglia, dichiarata indigente, aveva altri due bambini più grandi, entrambi affidati ai servizi sociali. Il caso finì sulla mia scrivania. Indagai e mi convinsi che quella morte era dovuta alla disperazione. I genitori avevano una casa, contrariamente a quel che avevano scritto i giornali, ma ne scapparono perché terrorizzati dalla prospettiva che anche i due neonati fossero loro sottratti».

E a quel punto che cosa accadde?

«Il presidente Millo mi chiamò. Disse: convochiamo subito il collegio e sospendiamo la patria potestà. Risposi: vediamo, prima, che cosa decide il collegio. Millo avocò a sé il procedimento, un atto non previsto da nessuna norma. Allora presentai un esposto al Csm, denunciando tutte le anomalie che avevo visto. E Stanzani un mese dopo fece un altro esposto. Ne seguirono uno di Imparato e uno degli avvocati familiaristi emiliani».

Fu allora che si scatenò il contrasto?

«Sì. Fui raggiunto da un provvedimento cautelare disciplinare del Csm. Venni accusato di avere detto che nel Tribunale dei minori di Bologna si amministrava una giustizia più adatta alla Corea del Nord, di avere denigrato il presidente Millo. Fui trasferito a Modena, come giudice del lavoro. Venne trasferito anche Stanzani, mentre Imparato fu emarginato. Nel dicembre 2011, però, la Cassazione a sezioni unite annullò quella decisione criticando duramente il Csm perché non aveva ascoltato le mie ragioni, né aveva dato seguito alle mie denunce».

Così lei tornò a Bologna?

«Sì. Ma per i ritardi del Csm, anch’essi illegittimi, il rientro avvenne solo il 18 settembre 2012. Millo nel frattempo era andato via, ma non era cambiato gran che. Fui messo a trattare i casi più vecchi: pendenze che risalivano al 2009. Fui escluso da ogni nuovo procedimento di adottabilità. Capii allora perché un magistrato della procura generale della Cassazione qualche mese prima mi aveva suggerito di smetterla, che stavo dando troppo fastidio a gente che avrebbe potuto farmi desistere con mezzi potenti».

Sta dicendo che fu minacciato?

«Mettiamola così: ero stato caldamente invitato a non rompere più le scatole. Capii che era tutto inutile, che il muro non cadeva. Intanto, in marzo, Stanzani era morto. Decisi di abbandonare la magistratura».

E ora?

«Ora faccio l’avvocato. Ma lavoro da fuori perché le cose cambino. Parlo a convegni, scrivo, faccio domande indiscrete».

Che cosa chiede?

«Per esempio che i magistrati delle procure presso i tribunali dei minori vadano a controllare i centri d’affido: non lo fanno mai, ma è un vero peccato perché troverebbero sicuramente molte sorprese. Chiedo anche che il Garante nazionale dell’infanzia mostri più coraggio, che usi le competenze che erroneamente ritiene di non avere, che indaghi. Qualcuno dovrà pur farlo. È uno scandalo tutto italiano: va scoperchiato».

Elettrodi sulle mani e forzature: ecco come manipolavano i ricordi dei bambini «Così ci hanno portato via nostro figlio». Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Giovanni Bianconi, Elvira Serra su Corriere.it. A interrogare la bambina tolta ai genitori naturali e affidata a una coppia di donne, nell’ottobre scorso, c’erano le due nuove mamme e la psicoterapeuta Nadia Bolognini, che poneva le domande. La bambina, che chiameremo A., si lamentava di non avere più visto il padre, e la dottoressa le dice: «Ma non ti ricordi che hai detto che non lo volevi più rivedere?» A.: «Non ho detto questo». Le due donne affidatarie intervengono per sostenere il contrario, ma A. insiste: «Io non ho detto che non volevo vederlo». Il confronto va avanti a lungo, con le adulte impegnate a far «confessare» la bambina e A. che resiste. Anzi, spiega che le piacerebbe reincontrare i veri genitori: «Ogni tanto mi capita di piangere perché mi mancavano gli abbracci del papà...». Più la Bolognini prova a stimolare la memoria di A.: «Avevi paura che ti facessero del male... Me lo hai detto, ti ricordi?». Ma A. non ricorda: «Quando?». È solo uno dei colloqui intercettati dai carabinieri e utilizzati dal giudice per dimostrare le pressioni e manipolazioni delle parole dei minorenni tolti alle famiglie d’origine. Una delle più innocenti, che serve al giudice per definire «destituita di fondamento e quindi certamente falsa», la paura di A., nei confronti del padre. In un’altra circostanza una psicologa del servizio di neuropsichiatria infantile della Asl di Montecchio Emilia riferisce che la bambina B. le ha confidato che l’ex convivente della madre a cui era stata sottratta la toccava nelle parti intime. A corredo della relazione allega due disegni: uno certamente fatto da B., di un uomo con la barba e senza mani; un altro in cui lo stesso uomo era «accanto a un’altra figura, con le proprie mani allungate all’altezza della zona genitale della citata seconda figura». Un’aggiunta, secondo l’accusa, fatta «personalmente» dalla psicologa per avvalorare quanto affermato nella relazione. Le conclusioni a cui sono giunti i magistrati al termine della prima fase di un’inchiesta complessa e complicata, dove le testimonianze dei bambini (già di per sé materia delicata), s’intrecciano con il lavoro di assistenti sociali, psicologici e affini (che pure è sempre di non facile valutazione) coincidono con quelle del perito incaricato di valutare gli interrogatori a cui fu sottoposta A.: «La bambina è considerata vittima di abusi senza che vi sia riscontro giudiziario di ciò e interferendo, quindi, con gli accertamenti di tale evenienza. Sono presenti significative e pericolose induzioni, suggestioni e condizionamenti che possono interferire significativamente con la rappresentazione mentale degli eventi, contribuendo quindi al rischio di falsi ricordi ma anche quelli al contesto familiare d’origine».

Il movente - oltre che economico attraverso incarichi, sussidi e pagamenti di rette - sarebbe secondo l’accusa anche «ideologico», a vantaggio di «scelte terapeutiche favorenti psicologi privati ai danni del servizio pubblico». Di una delle persone arrestate, la dirigente del Servizio di assistenza sociale dell’Unione Comuni Val D’Enza Federica Anghinolfi, omosessuale e già legata ad alcune donne affidatarie di minorenni, il giudice scrive che sono «la sua stessa condizione personale e le sue profonde convinzioni a renderla portata a sostenere con erinnica perseveranza la “causa” dell’abuso da dimostrarsi “ad ogni costo”». Nell’antologia dei casi analizzati dal giudice ci sono accuse di maltrattamenti nei confronti dei minorenni affidati alle nuove famiglie, o quelle accuse rivolte al padre naturale di C. - un altro bambino sottratto alla famiglia d’origine - di avere abusato sessualmente del figlio, nonostante l’indagine penale su quel vecchio fatto fosse stata archiviata. Ci sono le descrizioni di falsa indigenza e abbandono utilizzate come motivo per portare via i minorenni, come le denunce attribuite a una madre senza però dare conto dei disturbi mentali della donna. E c’è l’accusa di violenza privata rivolta alla dottoressa Bolognini (anche lei arrestata) per l’utilizzo della «magica macchinetta dei ricordi», una congegno «a impulsi elettromagnetici con cavi che la minore doveva tenere tra le mani», presentato come uno strumento utile e rievocare «le cose brutte» vissute in precedenza. Utile ad aprire «lo scatolone del passato e la cantina», senza fidarsi «delle persone che dicono di volerti bene». 

Il giudice ipotizza che sulle condotte dell’indagata pesino problemi personali passati e presenti, addebitando ad essi una «insofferenza riversata in una rabbia repressa sfociata negli atteggiamenti con i minori». Tra questi c’è «l’uso degli elettrodi per indurli a ricordare abusi solo sospettati, e di cui non si potrà ormai più sapere se siano avvenuti o meno, attraverso la inquietante “macchinetta dei ricordi”». Agli arresti è finito anche il marito della Bolognini, Claudio Foti, altro psicoterapeuta accusato di «modalità suggestive e suggerenti» nelle domande rivolte a D. per farle confessare presunte violenze sessuali subite dal padre. L’obiettivo, per gli inquirenti, era sempre lo stesso: «Costruire un’avversione psicologica dei minori per la famiglia di origine». E gli indagati lo perseguivano attraverso una «percezione della realtà e della propria funzione totalmente pervertita e asservita al perseguimento di obiettivi ideologici non imparziali».

Minori in affido: «Dicevano che un disegno dimostrava le violenze». Pubblicato giovedì, 27 giugno 2019 da Elvira Serra su Corriere.it. La sua faccia sorridente sbuca dalle scale. Il padre lo prende in braccio, fa le presentazioni. Il bambino non si intimidisce, però ha voglia di andare dentro per fare la merenda: è stato tutto il giorno a giocare all’oratorio, è tornato da poco a casa, la madre gli ha appena fatto la doccia e lui ora ha fame. La donna gli prende dal frigo delle merendine fresche, il figlio ne scarta una e scappa via, dietro la porta, probabilmente nella sua stanza. In cucina restiamo noi quattro: i genitori e il nonno. Non hanno voglia di parlare, sono preoccupati di quello che potrebbe ancora succedere, ma la rabbia, quella si intuisce, e il padre, in fondo, non la vuole nemmeno nascondere. «Riesce a immaginare quello che ci hanno fatto?». Lo racconta, incerto se andare avanti o fermarsi, perché l’avvocato preferisce che non parli adesso, non è il momento. Un anno fa hanno ricevuto la visita dei servizi sociali, sono andati a casa loro due volte. Poi una convocazione in questura, per lui, e dai servizi sociali per lei. «Mi hanno detto che mio marito aveva usato violenza contro il bambino. C’era un disegno che lo dimostrava. Io non l’ho mai visto quel disegno, né prima né dopo, e non ho mai visto il padre fare del male a nostro figlio», va avanti la moglie. «Mi hanno chiesto se volevo restare con mio figlio o con mio marito. Era ovvio che non avrei mai lasciato il bambino! Così siamo stati per sei mesi nella casa famiglia. Mio marito ce lo hanno lasciato vedere solo il primo mese. Non penso che abbia subito qualche trattamento strano: ha continuato ad andare a scuola, era tranquillo, e poi noi eravamo insieme, quando lui rientrava c’ero io ad aspettarlo». La loro storia replica il «sistema» applicato dal Servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza. Venivano individuate le famiglie più deboli e si creavano ad arte prove che giustificassero l’allontanamento dei minorenni: disegni manipolati, violenze mai avvenute. I bambini venivano poi affidati ad amici degli indagati, che in alcuni casi percepivano il doppio della diaria prevista in questi casi: 1.300 euro anziché seicento, grazie a false certificazioni, fornite dalla Onlus Hansel e Gretel, che dichiaravano come il minore fosse «problematico». Per cambiare i ricordi che i bambini avevano dei loro genitori, venivano plagiati, secondo l’accusa, con veri e proprio lavaggi del cervello. Gli inquirenti fanno notare con rammarico che tutti i genitori, adesso, nessuno escluso, hanno paura di parlare. Non si fidano della macchina giudiziaria e sperano, soprattutto, di rivedere presto i loro figli. Perché a differenza di questo bambino vispo che ricompare in cucina dicendo di avere ancora fame, gli altri non sono ancora tornati a casa.

«Facciamo un funerale a papà». Le frasi choc  ai bambini in affido. Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. Una foto con tanti regali accatastati e mai consegnati e un disegno che ritrae un uomo mentre accarezza ambiguamente una bimba. Ma il disegno è falso perché qualcuno ha aggiunto due lunghe braccia. Sono le due immagini che raccontano, in sintesi, l’indagine sui finti abusi segnalati dai servizi sociali della Val d’Enza, nel Reggiano, per togliere i bambini a famiglie deboli e affidarli (con aiuti mensili variabili tra i 600 e 1.300 euro al mese) ad altre coppie giudicate più adatte dagli operatori finiti sotto inchiesta. La foto è quella dei regali e delle lettere spediti ai figli da quei papà e quelle mamme che se li sono visti togliere senza che ci fossero state denunce alle forze dell’ordine. Pacchi dono ammucchiati (in genere per Natale e Pasqua ma anche per compleanni e promozioni) in una stanzetta dei Servizi sociali di Bibbiano, il comune travolto dall’inchiesta e il cui sindaco, il pd Andrea Carletti, è ai domiciliari assieme ad altre cinque persone per accuse varie tra cui abuso d’ufficio e falso. In un angolo si vedono una Barbie, degli scarpini da calcio, un pandoro, una console, altri giocattoli e dei vestiti. Una voce femminile intercettata nella stanza da una «cimice» piazzata dai carabinieri dice che «giacciono qua per mesi. Nessuno glieli consegna (ai bambini tolti e dati in affido, ndr) perché dicono che è meglio così...». «Il punto è che si voleva annichilire, direi annullare, qualunque forma di presenza dei veri genitori» è il ragionamento fatto da un investigatore che si è commosso alla lettura di lettere e bigliettini — «pensieri affettuosi e testimonianze d’amore» — mai arrivati a destinazione. 

E poi c’è il disegno contraffatto, il «caso pilota» da cui è partita l’inchiesta. Tratti ingenui a matita di una bimba che si ritrae accanto all’ex compagno della madre. Compaiono anche quelle braccia innaturalmente protese verso la piccola. Una modifica fatta «personalmente» dalla psicologa della Asl di Montecchio Emilia che seguiva la bimba, scrive il gip Luca Ramponi nell’ordinanza che ha disposto 16 misure cautelari. L’operatrice riferisce che la bambina le ha confidato che l’ex convivente della madre a cui era stata sottratta la toccava nelle parti intime. L’aggiunta serviva per avvalorare quanto affermato nella relazione. Nelle carte dell’indagine coordinata dal procuratore Marco Mescolini e dal comandante dei carabinieri Cristiano Desideri c’è anche il caso di un assistente sociale che, assieme a una dirigente comunale, inserisce tra virgolette delle frasi pronunciate da un’altra bambina. Parole però «frutto dell’elaborazione dei due indagati». Per esempio: «Mia mamma non fa più da mangiare perché papà non le dà i soldi per la spesa». E ancora: in casa «cibo avariato lasciato sui mobili da diversi giorni». Ma un sopralluogo dei carabinieri smentisce poi la circostanza. In un’altra circostanza, una psicologa dell’Asl diagnostica alla bambina una sintomatologia «seduttiva e sessualizzata». Ma omette di riferire delle precedenti crisi epilettiche della piccola, «che avrebbero consentito una diversa valutazione». Oppure due affidatarie dichiarano falsamente che la stessa bambina aveva detto loro di temere che i genitori «potessero rapirla». Non manca, infine, una singolare «terapia di elaborazione del lutto» per considerare emotivamente morto un genitore e farlo sparire dai ricordi: «Dobbiamo vedere tuo padre nella realtà e sapere che quel papà non esiste più e non c’è più come papà. È come se dovessimo fare un funerale!», spiega una psicoterapeuta a un ragazzino. I sei minori — di età compresa tra i cinque e gli undici anni — tolti alle famiglie (ma i casi su cui si indaga sono «svariate decine») rientreranno a casa. Ma non subito: servono altre relazioni del tribunale e per intanto resteranno dagli affidatari.

Reggio Emilia horror. Lavaggio del cervello ai bambini. Il film dell’orrore di Reggio Emilia: in manette 18 persone, anche un ex giudice. Ai domiciliari anche il sindaco dem di Bibbiano, Andrea Carletti, coinvolta la stessa onlus dell’inchiesta “veleno” disegni e colloqui manipolati secondo il gip. Simona Musco il 28 giugno 2019 su Il Dubbio.

Reggio Emilia horror. E’ una storia così brutta che non sembra vera. Perché dentro ci sono tutti gli ingredienti giusti per dar vita ad un film horror: disegni di bambini falsificati, padri e madri dipinti come mostri, scene di violenza simulata con travestimenti, regali e lettere d’affetto tenuti nascosti. Una vera e propria manipolazione su bambini dai 6 agli 11 anni, con un unico tremendo obiettivo: togliere decine di ragazzi ai propri genitori per affidarli ad altri, per guadagnare soldi in cure private e corsi di formazione.

Inchiesta “Angeli e Demoni”. Un quadro raccapricciante descritto nell’inchiesta “Angeli e demoni”, condotta dalla procura di Reggio Emilia.  Si parla di lavaggi del cervello, con ore e ore di psicoterapia e suggestioni indotte attraverso impulsi elettrici, per alterare «lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari». Sono 27, in totale, le persone coinvolte nell’inchiesta del pm Valentina Salvi, 18 destinatarie di ordinanza. Tra loro il sindaco Pd di Bibbiano ( Reggio Emilia) Andrea Carletti, al centro di tutto assieme alla rete dei servizi sociali dell’Unione comuni Val D’Enza. Carletti è finito ai domiciliari assieme alla responsabile e una coordinatrice del servizio sociale integrato. Un’assistente sociale e due psicoterapeuti della onlus di Moncalieri “Hansel e Gretel”.

Docufilm Veleno. La stessa coinvolta nei casi risalenti al periodo a cavallo il 1997 e il 1998. Raccontata dal docufilm “Veleno”. Quando sedici bambini vennero allontanati dalle proprie famiglie nella bassa modenese su indicazione dei servizi sociali per presunti abusi e riti satanici, ma senza prove reali. Le accuse sono a vario titolo di frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso.

Arrestato anche un giudice. E in manette è finito anche un ex giudice onorario del tribunale dei minori di Torino, Claudio Foti, direttore scientifico della onlus. Secondo il gip «alterava lo stato psicologico ed emotivo attraverso modalità suggestive e suggerenti con la voluta formulazione di domande sul tema dell’abuso sessuale e con tali modalità convinceva la minore dell’avvenuta commissione dei citati abusi». A far scattare l’inchiesta alla fine dell’estate del 2018, l’anomala escalation di denunce da parte dei servizi sociali, che ipotizzavano abusi sessuali e violenze ai minori da parte dei genitori. Inchieste che, puntualmente, finivano nel nulla ma che hanno rappresentato i pezzi del puzzle di un’altra storia.

Falsificazioni e complicità. Nonostante le archiviazioni, infatti, i servizi sociali proseguivano con il percorso psicoterapeutico, attraverso falsi documentali redatti in complicità con alcuni psicologi. L’iter era sempre uguale: al bambino di turno veniva diagnosticata una patologia post traumatica e così veniva preso in carico dalla onlus, con prestazioni psicoterapeutiche senza procedura d’appalto. Gli affidatari – amici e conoscenti dei servizi sociali – venivano incaricati di accompagnare i bambini alle sedute e di pagare le fatture a proprio nome, ricevendo mensilmente rimborsi sotto una simulata causale di pagamento.

Sistema redditizio. Un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro tramite quello che per tutti rappresentava un modello istituzionale per la tutela dei minori abusati. In realtà si nascondeva uno schema di reciproci conferimenti d’incarichi. Da un lato la Onlus aveva il monopolio di tutto il servizio dell’ente, compresi convegni e corsi di formazione, mentre i dipendenti coinvolti ottenevano incarichi di docenza retribuiti, in master e corsi di formazione della onlus. Un sistema tanto solido da portare all’apertura di un Centro specialistico regionale per il trattamento del trauma infantile derivante da abusi sessuali e maltrattamenti. I servizi sociali garantivano l’assistenza legale ai minori attraverso la sistematica scelta di un avvocato, indagato per «concorso in abuso d’ufficio», con fraudolente gare d’appalto gestite dalla dirigente del Servizio, con lo scopo di favorirlo.

Creare l’inferno. Una situazione familiare normale, secondo le indagini, veniva trasformata in un inferno. A partire dai disegni dei bambini, ai quali venivano aggiunti dei dettagli inquietanti, in grado di indurre terribili sospetti. Le case di quelle famiglie venivano descritte falsamente come fatiscenti, gli stati emotivi dei bambini travisati e per convincerli della cattiveria di mamma e papà. I terapeuti utilizzavano anche dei travestimenti, interpretando i personaggi cattivi delle fiabe come rappresentazione dei genitori, intenti a fargli del male. E poi c’erano lettere e regali spediti negli anni da parte delle famiglie naturali ai figli affidati ad altri. Regali accumulati in un magazzino e mai consegnati ai bambini, che i Carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato. Tra gli affidatari anche persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Un quadro squallido, scoperto anche grazie alle intercettazioni, dal quale sarebbero emersi anche due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità ed episodi di tossicodipendenza e autolesionismo.

Lavaggio del cervello. Gli inquirenti parlano di «intensi lavaggi del cervello» durante le sedute di psicoterapia. L’utilizzo di apparecchiature elettriche spacciate come strumenti per recuperare i ricordi delle «brutte cose» commesse dai genitori attraverso l’applicazione di alcuni elettrodi. Tecniche messe in pratica in prossimità delle testimonianze dei bambini davanti all’autorità giudiziaria. E a volte era proprio la terapeuta a raccontare cosa i bambini avrebbero dovuto ricordare, evocando esperienze traumatiche come abusi sessuali da parte dei genitori.

Il sindaco. Carletti, secondo il gip, sarebbe stato «pienamente consapevole della totale illiceità del sistema». Dell’assenza «di qualunque forma di procedura ad evidenza pubblica volta all’affidamento del servizio pubblico di psicoterapia a soggetti privati». Tanto che lo stesso «disponeva lo stabile insediamento di tre terapeuti», della Onlus coinvolta. «Al fine dello svolgimento, a titolo oneroso ed in assenza di qualunque titolo, dell’attività di piscoterapia con minori in carico ai Servizi sociali».

Casi sconvolgenti. Tra i casi analizzati dagli inquirenti quello di una bambina incapace di comprendere il suo allontanamento dai genitori. Insisteva per poterli rivedere. Però le psicologhe, le assistenti sociali e gli affidatari continuavano ad instillarle il dubbio di fatti atroci commessi proprio da mamma e papà. La bambina diceva: «Ma io non mi ricordo perché non li posso più vedere». Le  sue parole, di ottobre 2018, furono captate da un’intercettazione ambientale. «Ma non ti ricordi che hai detto che ( tuo padre, ndr) non lo volevi più rivedere? Io ricordo questo», rispondeva la psicologa. La bambina insisteva per rivederli. «Ogni tanto mi capita di piangere perché mi mancano gli abbracci del papà».

La "paladina" delle coppie gay "regista" degli affidi dell'orrore. Dichiaratamente omosessuale, e da tempo paladina delle famiglie arcobaleno, Federica secondo gli inquirenti sarebbe uno dei vertici del sistema malato dell'affidamento dei minori. Giuseppe De Lorenzo Costanza Tosi, Venerdì 28/06/2019, su Il Giornale.  Nelle carte dell’inchiesta “Angeli e Demoni” guidata della procura di Reggio Emilia, tra le persone coinvolte e agli arresti domiciliari compare anche lei: Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza. Omosessuale e da tempo paladina delle famiglie arcobaleno, Federica finita al centro delle indagini che sconvolgono l'Emilia e l'Italia. Secondo gli inquirenti sarebbe uno dei vertici del sistema malato dell'affidamento dei minori. "Sono state la sua stessa condizione personale e le sue profonde convinzioni - si legge nelle carte dell'inchiesta - ad averla portata a sostenere con erinnica perseveranza la “causa” dell’abuso da dimostrarsi ad ogni costo". Molto si è detto sul "caso affidi". Secondo i carabinieri, quello che emerge è "un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell’indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali". Ma forse non è tutto. "Non è solo questione di denaro", attacca Galeazzo Bignami, deputato di Forza Italia". Dietro il "mostruoso sistema degli affidi", dice, "si nasconde un movente ideologico, che è anche peggio". "Ero consigliere regionale quando nella rossa Emilia il Pd portò la gestione dei servizi sociali della Val d'Enza come esempio in Regione", spiega l'onorevole. "Federica Anghinolfi, individuata dagli inquirenti come vertice di questo sistema, veniva invitata dappertutto dai sinistrati ed era una bandiera per le famiglie arcobaleno in quanto esponente di quel mondo". Il profilo social della responsabile del servizio sociale ne è la dimostrazione. Online mostra foto arcobaleno, condivide articoli sulla galera per chi si macchia di omofobia, post sui Gay Pride e via dicendo. Niente di male. Solo che nelle carte dell'inchiesta, spunta anche una famiglia arcobaleno formata da due donne - "già legate alla Anghinolfi" - cui era stata consegnata una bambina. L'affido dei bambini alle coppie lgbt, infatti, é una battaglia che Federica porta avanti da diverso tempo. Non è un caso se, quando nel 2014 il Corriere dedica un lungo articolo ad una delle prime coppie omosessuali affidatarie in Italia, è lei ad essere interpellata per il suo "lavoro sulla genitorialità gay (seminari di approfondimento e corsi di formazione) fatto in questi mesi dai servizi sociali emiliani". Non solo. Nel 2014 la Anghinolfi partecipa ad un incontro al circolo Arci Colombofili. Il tema? Affettività di genere. E lì racconta, con tanto di testimonianze, il suo lavoro per assegnare i minori a coppie omosessuali. Ne andava e ne va fiera. In un video pubblicato da Rosso Parma, Federica Anghinolfi parla del sistema degli affidi. "Andiamo oltre al tema dell’identità di genere nella relazione genitoriale", la si sente dire nell'intervento video. Le battaglie Lgbt e la genitorialità gay sono un chiodo fisso. A maggio 2018 compare tra le protagoniste delle iniziative organizzate dall’Arcigay a Mantova in occasione della "Giornata di contrasto all'omofobia, alla bifobia e alla transfobia". La Anghinolfi è tra le relatrici dell'evento - guarda caso - sull'affido alle coppie omosessuali, un seminario dal titolo “affidarSI. Uno sguardo accogliente verso l'affido LGBT". Infine, nell’estate del 2018 Federica è relatrice alla Festa dell’Unitá al Parco Nord a Bologna, anche se in quell’occasione il focus é un altro: "Cura dell’infanzia, maltrattamenti e prostituzione minorile". Politica, ideologie e minori. "Di questa vicenda - sottolinea Bignami - non è tanto l’aspetto economico che colpisce. Ma quello culturale. Questa signora è legata a quel mondo, nessuno mi toglie dalla testa che in fondo, dietro a tutto questo, ci sia la teoria gender. Vogliono i bambini senza famiglie, senza identità. Come corpi eterei".

Il caso degli abusi sui bambini di Bibbiano è legato all’inchiesta “Veleno”. Vita il 27 luglio 2019. Parla Pablo Trincia, autore con Alessia Rafanelli dell’inchiesta podcast sul caso della “bassa modenese”. «I carabinieri ci hanno ringraziato, perché abbiamo fornito loro una chiave investigativa che prima non avevano». In manette professionisti protagonisti di entrambe le vicende: un giro d’affari da parecchie migliaia di euro, finalizzato ad allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito ad amici e conoscenti. «Se abbiamo contribuito anche in minima parte a salvare dei bambini e le loro famiglie dalla tortura del ricordo indotto, una delle peggiori forme di abuso che si possa immaginare, siamo soddisfatti. I carabinieri ci hanno ringraziato, perché abbiamo fornito loro una chiave investigativa che prima non avevano». Queste le parole di Pablo Trincia a Business Insider Italia, autore con Alessia Rafanelli dell’inchiesta Veleno, il podcast che ricostruiva le vicende di una presunta banda di pedofili (i cosiddetti “Diavoli della bassa modenese”) che alla fine degli anni Novanta portò all’allontanamento di 16 bambini dalle loro famiglie. Molti dei genitori non hanno più rivisto i loro figli, alcuni si sono suicidati, altri sono espatriati, insomma, una storia terribile sotto ogni punto di vista. Nelle sette puntate pubblicate da Repubblica.it dall’autunno 2017, Trincia e Rafanelli ricostruivano i fatti, mettendo in luce i molti dubbi sul ruolo svolto da assistenti sociali, psicologi e ginecologi durante le indagini, criticandone i metodi e ponendo pesantissime domande sulle conclusioni.

Quegli stessi professionisti finiti oggi in manette nell’inchiesta “Angeli e Demoni” condotta dai carabinieri di Reggio Emilia che ha portato a 18 misure cautelari nei confronti di politici, medici, assistenti sociali e liberi professionisti. Secondo il sostituto procuratore, Valentina Salvi, gli indagati avevano messo in piedi da diversi anni un redditizio sistema di “gestione minori”, un giro d’affari da parecchie migliaia di euro, finalizzato ad allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito ad amici e conoscenti, per poi sottoporre i minori ad un programma psicoterapeutico. Tra gli affidatari, anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Inoltre risulterebbero anche due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità, successive all’illegittimo allontanamento. Per i carabinieri, alcune vittime dei reati, oggi adolescenti, “manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo“.

Un sistema che poggiava su false relazioni, terapeuti travestiti da personaggi “cattivi” delle fiabe in rappresentazione dei genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Le indagini erano partite nel 2018, a causa dell’abnorme numero di segnalazioni di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori pervenute dai servizi sociali della Val D’Enza, nel Reggiano, alla Procura, che però si rivelavano puntualmente infondate. Da qui, l’indagine, che presto ha svelato numerosi falsi documentali, redatti secondo l’accusa dai servizi sociali in complicità con alcuni psicologi, “artatamente trasmessi all’Autorità Giudiziaria”.

Con un post su Facebook Pablo Trincia ha sottolineato come «La Procura di Reggio Emilia avrebbe appena sventato un secondo “caso Veleno”. Leggete nel dettaglio. Hanno arrestato Claudio Foti, responsabile del Centro Hansel e Gretel di Torino, lo stesso da cui provenivano le psicologhe che avete visto interrogare i bambini di Veleno». «I carabinieri hanno investigato su assistenti sociali e psicologhe, quelle rimaste al di fuori delle indagini di venti anni fa, che si erano concentrate solo sulle famiglie. Del resto, in Veleno avevamo messo in evidenza il gigantesco conflitto di interessi della psicologa Cristina Roccia, la professionista che aveva scoperto gli abusi, era diventata presidente di un centro privato (Hansel e Gretel, appunto, ndr) al quale erano stati poi affidati i bambini portati via alle famiglie, per un guadagno di oltre 2,2 milioni di euro», spiega Trincia. Cristina Roccia – che non risulta indagata – è la ex moglie proprio di Foti, il quale invece è indagato, insieme all’attuale compagna Nadia Bolognini. E voci vicine agli investigatori lasciano presagire nuovi indagati a breve, tra i quali anche nomi “pesanti” della psicologia italiana. «Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast», ricorda Trincia. Il testo di quella petizione contro “Veleno”, letto oggi, alla luce della svolta investigativa, mette un brivido. Parlando delle condanne dei genitori, scriveva infatti Foti: «Questa condanna in Cassazione può essere contestata, ma non si può ignorare che è stata assunta sulla base di una valutazione della credibilità dei bambini e sulla base di una massa di informazioni, rivelazioni, documentazioni, dati clinici, testimonianze coerenti e convergenti, passati attraverso un filtro di decine di psicologi, assistenti sociali, giudici». Ma ancora peggio è il passaggio nel quale Foti attaccava direttamente i giornalisti investigativi, “rei” di aver messo in dubbio il lavoro degli psicologi: «Le vittime di questa vicenda non sono state prese in considerazione con correttezza e rispetto da questa inchiesta. I giornalisti di Veleno hanno liquidato le testimonianze di allora, come se tutti gli intervistatori fossero suggestivi e manipolativi e tutti i bambini intervistati deliranti. Non solo! Non hanno evidenziato che quei bambini alle parole fecero seguire i fatti: per lunghi anni, pur avendone la possibilità, hanno rifiutato qualsiasi contatto con la famiglia d’origine e hanno evitato anche solo di informarsi sulla vita dei propri genitori. Contestualmente è mancata la correttezza e il rispetto anche per gli operatori che furono coinvolti dalla vicenda di 20 anni fa. I giornalisti di “Veleno” continuano a ricercare lo scontro con gli psicologi e degli assistenti sociali, che operarono allora facendo credere che sia la presunta coscienza sporca di questi professionisti a tenerli lontani da un incontro con i giornalisti, e non già lo scrupolo professionale che impedisce loro di discutere in piazza del lavoro clinico e sociale svolto». Naturalmente, fino al terzo grado di giudizio, tutti gli indagati sono innocenti. Certo che i filmati degli incontri delle psicologhe con le supposte vittime, pubblicati da Veleno su repubblica.it, molti dubbi li avevano sollevati. Già due anni fa.

Pablo Trincia su Facebook il 27 giugno 2019. "Diffondete!!! La Procura di Reggio Emilia avrebbe appena sventato un secondo “caso Veleno”. Leggete nel dettaglio. Hanno arrestato Claudio Foti, responsabile del Centro Hansel e Gretel di Torino, lo stesso da cui provenivano le psicologhe che avete visto interrogare i bambini di Veleno. Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast.

“ANGELI E DEMONI”: UNA VENTINA DI MISURE CAUTELARI ESEGUITE DAI CARABINIERI. Agli arresti un sindaco e assistenti sociali nonché psicoterapeuti di una nota Onlus di Torino. Tra i destinatari di altri provvedimenti cautelari anche psicologi dell’ASL reggiana. Decine di indagati tra sindaci, amministratori comunali, un avvocato, dirigenti e operatori socio sanitari. False relazioni e disegni artefatti per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito anche ad amici e conoscenti, per poi sottoporli ad un programma psicoterapeutico per un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Metodi altamente suggestivi utilizzati sui minori durante le sedute di psicoterapia, anche attraverso impulsi elettrici, strumento spacciato ai bambini come “macchinetta dei ricordi, per alterare lo stato dei relativi ricordi in prossimità dei colloqui giudiziari.

Tra gli affidatari anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi.

Due casi accertati di stupro presso le famiglie affidatarie ed in comunità, dopo l’illegittimo allontanamento.

Reggio Emilia. I Carabinieri del nucleo investigativo di Reggio Emilia, sotto il costante coordinamento della Procura Reggiana – Pubblico Ministero Dott.ssa Valentina Salvi – in queste ore stanno dando corso all’operazione “Angeli e Demoni”, con l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di politici, medici, assistenti sociali e liberi professionisti che, da diversi anni, avevano messo in piedi un illecito e redditizio sistema di “gestione minori”, il cui radicamento sull’intero territorio nazionale è tuttora in fase di sviluppo investigativo. Quello che insomma veniva spacciato per un modello istituzionale da emulare sul tema della tutela dei minori abusati altro non era che un illecito business ai danni di decine e decine di minori sottratti alle rispettive famiglie. I destinatari della misura cautelare sono accusati, a vario titolo, di frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamenti su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Ore e ore di intensi lavaggi del cervello intercettati dai carabinieri reggiani durante le sedute di psicoterapia effettuate sui minori, anche di tenera età, dopo che gli stessi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le più ingannevoli e disparate attività, tra le quali: relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata “aggiunta” di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi “cattivi” delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella che veniva spacciata ai bambini come “macchinetta dei ricordi”. Il tutto durante i lunghi anni nei quali i Servizi Sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i Carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati. I dettagli della complessa indagine, senza precedenti nell’intero territorio nazionale, verranno resi noti nella conferenza stampa che i vertici del Comando Provinciale dei Carabinieri di Reggio Emilia terranno il 28.6.2019 presso il Comando Carabinieri di Corso Cairoli a Reggio Emilia".

Affidamenti illeciti di minori. Dai master al centro contro gli abusi: le attività della onlus sotto accusa. L'organizzazione Hansel&Gretel di Torino, finita al centro dell'inchiesta che ha travolto il servizio sociale della provincia di Reggio Emilia, oltre a operare direttamente con i suoi psicologici nel trattare le problematiche di bambini vittime di violenze, era molto ricercata per la formazione degli operatori. Il suo fondatore Claudio Foti, ora ai domiciliari, era stato giudice onorario del Tribunale dei minori. Stefano Galeotti il 28 Giugno 2019 su Il Fatto Quotidiano. “Comprendere e rispettare a pieno le emozioni significa arricchire e rivoluzionare la pratica educativa, la pratica clinica e la pratica sociale, umanizzare la relazione di cura in ambito sanitario, trasformare la dinamiche dei gruppi e i processi organizzativi”. È questo il manifesto che la onlus Hansel e Gretel, sotto accusa nell’ambito dell’inchiesta Angeli e Demoni sull’affido illecito dei minori per cui 16 persone sono state arrestate e 26 indagate, presenta come finalità di uno dei master universitari che organizza sotto l’egida della Pontificia facoltà di scienze dell’educazione “Auxilium”. Perché la Hansel e Gretel, oltre a operare direttamente con i suoi psicologici nel trattare le problematiche di bambini vittime di abusi, era molto ricercata in Emilia nel campo della formazione. Intorno alla onlus gravitano infatti una serie di attività che vanno dall’organizzazione di convegni per addetti ai lavori alla formazione di operatori del settore fino a quella, più diretta, del personale ospedaliero, attività che secondo l’accusa della procura di Reggio Emilia sarebbero state finanziate con fondi regionali. Il tema è sempre quello d’ascolto del bambino e delle possibili modalità di curarne le sofferenze scaturite da maltrattamenti e abusi, e il motore di tutta l’organizzazione è Claudio Foti, giudice onorario del Tribunale dei minori di Torino dal 1980 al 1993 e già componente dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Lo stesso psicologo che, come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, è accusato di aver “alterato lo stato psicologico ed emotivo attraverso modalità suggestive e suggerenti con la voluta formulazione di domande sul tema dell’abuso sessuale”  e in questo modo “convinceva la minore dell’avvenuta commissione dei citati abusi”. Toti è ora in carcere, mentre ai domiciliari si trova Nadia Bolognini, direttrice dell’area evolutiva del Centro studi Hansel e Gretel e docente dei master. Fondata a Moncalieri, in provincia di Torino, nel 1989, la Hansel e Gretel aveva poi allargato il suo bacino d’azione principalmente in terra emiliana, in particolare tra i comuni della Val d’Enza, il fiume che divide le province di Parma e Reggio Emilia. Nel 2016, a Bibbiano, epicentro dell’inchiesta, con l’arresto del sindaco Pd Andrea Carletti, era stata coinvolta in un progetto denominato “La Cura”, nato come un centro sperimentale a sostegno dei minori vittime di violenza e abuso sessuale, un progetto fortemente voluto dall’Unione dei Comuni della Val d’Enza in collaborazione con la AUSL di Reggio Emilia. Lì in due anni sono stati presi in carico circa 210 giovanissimi, vittime di maltrattamenti, con un modello di psicoterapia basato sull’impiego dialogico ed empatico sviluppato dalla Bolognini. A presentare questi risultati in un convegno sull’abuso infantile organizzato lo scorso ottobre era stato proprio il fondatore Foti, che dal palco del teatro Metropolis di Bibbiano spiegava ai presenti come aiutare i bambini a “Rinascere dal trauma”. Pochi mesi prima, in maggio, lo stesso Foti era a Reggio con altri nomi importanti del Centro studi Hansel e Gretel per un convegno questa volta sponsorizzato anche dal Comune di Reggio Emilia e aperto dall’allora vicesindaco Matteo Sassi, segno di un’associazione che ormai si era fatta strada e costruita un buon nome nel territorio emiliano. Ma un altro importante settore di attività della Hansel e Gretel è rappresentato dalla formazione. Per l’anno 2018-2019 il centro studi è infatti riuscito a organizzare un master in “Gestione e sviluppo delle risorse emotive” in tre sedi diverse, Reggio Emilia, Torino e Roma. La struttura accademica su cui si basa è quella della Pontificia facoltà di scienze dell’educazione “Auxilium”, di evidente provenienza Vaticana, mentre a livello locale il progetto aveva ricevuto di nuovo il patrocinio dei Comuni della Val d’Enza. Il corso si articola in 22 giornate complessive di seminari per un totale di quasi 200 ore di lezioni, aperto ad un massimo di 25 persone alle quali è richiesta una quota di circa 2000 euro per partecipare. A Reggio Emilia, la onlus ha lanciato anche un secondo master, una specializzazione in “Sofferenze traumatica e intelligenza emotiva”. Un importante impegno di stampo accademico a cui l’associazione affianca corsi di formazione su temi specifici, organizzati in incontri di due giornate e “rivolti a insegnanti, psicologi, educatori, assistenti sociali e tutti coloro che lavorano a stretto contatto con l’infanzia”. Al centro dell’inchiesta figurano proprio i guadagni della onlus. Secondo gli investigatori, tra alcuni dipendenti dell’Unione Val D’Enza e la onlus di Moncalieri c’erano reciproci conferimenti di incarichi. La onlus era affidataria dell’intero servizio di psicoterapia voluto dall’ente pubblico e dei relativi convegni e corsi di formazione. I tre psicoterapeuti, (Foti, Bolognini e Sarah Testa) si legge nell’ordinanza, “nella piena consapevolezza della totale illiceità del sistema creato, a loro vantaggio, in palese violazione della normativa in tema di affidamenti di servizi pubblici e nella piena consapevolezza che la loro attività professionale venisse retribuita da ente pubblico, esercitavano sistematicamente attività di psicoterapia con minori loro inviati dal servizio sociale Val d’Enza”.

L’Inferno è a Bibbiano. Dicevano di lavorare per il benessere dei bambini, ma l'inchiesta del pm Valentina Salvi sta scoperchiando un sistema perverso di relazioni, favori e conflitti d'interesse tutto a danno dei minori. Un inferno che ha sconvolto e distrutto intere famiglie. Alessandra Vio il 4 Luglio 2019 su L'Intellettuale dissidente. C’è l’Inferno a Bibbiano. Non a caso l’inchiesta da brividi coordinata dalla pm Valentina Salvi che ha coinvolto l’intero settore dell’affido della Val D’Enza porta il nome di Angeli e Demoni. Ed eccoli, i demoni: sedici le persone legate alla rete dei servizi sociali, destinatarie di misure cautelari; ventinove le iscritte nel registro degli indagati, tra cui figurano, per addebiti di misura amministrativa, il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (Pd), l’ex sindaco di Montecchio, Paolo Colli (Pd) e l’ex sindaco di Cavriago, Paolo Burani (Pd) – questi ultimi entrambi ex presidenti dell’Unione della val d’Enza. Tra i demoni finiti agli arresti domiciliari figurano: una responsabile e una coordinatrice del servizio sociale, un’assistente sociale e due psicoterapeuti della onlus Hansel & Gretel di Moncalieri (Torino) – Claudio Foti, direttore della onlus, e Nadia Bolognini, responsabile del lavoro diagnostico dell’area evolutiva. Un tremendo giro d’affari di centinaia di migliaia di euro, costruito sulla pelle degli angeli, i bambini, ingiustamente allontanati dalle famiglie d’origine, manipolati, maltrattati e dati in affido a persone prive dei requisiti necessari e poi sottoposti ad un circuito di cure private a pagamento della onlus. Un business infernale di cui beneficiavano alcuni degli indagati e con il quale venivano organizzati numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio della Hansel & Gretel, divenuta affidataria dell’intero servizio di psicoterapia voluto dall’ente e dei relativi convegni e corsi di formazione, organizzati in provincia. La Hansel & Gretel, tramite i rapporti tra il presidente Foti e Francesco Monopoli – assistente sociale della Unione Val d’Enza, anche lui indagato – aveva inoltre ottenuto la possibilità di effettuare sedute di psicoterapia su minorenni al centro La cura di Bibbiano (Re), dietro compensi da capogiro: 135 euro per colloquio, quando la tariffa di mercato è di 60 o 70 euro. Il sistema di intrecci e relazioni era talmente consolidato da arrivare a coinvolgere anche il Centro Specialistico Regionale per il trattamento del trauma infantile derivante da abusi sessuali e maltrattamenti, che è risultata essere una costola della onlus: nel centro veniva infatti garantita l’assistenza legale ai minori attraverso la scelta, da parte dei servizi sociali, di un avvocato, ora indagato per “concorso in abuso d’ufficio”.

Un losco giro di denaro, di relazioni, favori, conflitti d’interesse, quello scoperchiato a Bibbiano; tutto giocato a discapito dei bambini e delle loro famiglie, andando a calpestare brutalmente il loro benessere, che invece dovrebbe essere il fine ultimo di qualsiasi azione all’interno dei servizi sociali. Tutto per infime ragioni d’interesse. È crollato così il tanto decantato sogno della Val d’Enza, dove la tutela dei bimbi dicevano fosse la priorità assoluta, ed anche sul sacrosanto benessere dei bambini prevale il puzzo del dio Denaro, dominatore incontrastato del mondo moderno. Si è sciolto il dolce marzapane delle pareti e la casa della strega ha rivelato la sua vera natura: una diabolica macchina che ha sconvolto e distrutto spietatamente tante famiglie e che ha visto minori sottoposti ad ogni tipo di sevizia.

Non Hansel e Gretel, ma piuttosto quello della strega cattiva era il ruolo di Claudio Foti e Nadia Bolognini; il forno, la loro onlus. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate: c’era l’Inferno lì dentro. I bambini erano sottoposti a stimolazione di falsi ricordi – che andavano dall’abbandono da parte dei genitori ai falsi abusi subiti all’interno della loro famiglia –, lavaggi del cervello, scariche elettriche dalla cosiddetta macchinetta dei ricordi… Claudio Foti avrebbe persino usato come cavia una bambina in un corso di formazione per gli operatori Asl di Reggio Emilia.

Un luogo di tortura psicologica, dove si cercava di indurre i bimbi ad odiare, disconoscere e “seppellire” i propri genitori. Raccapricciante ricordare che la Hansel & Gretel risultasse presente anche nel caso “Veleno” portato alla luce dal giornalista Pablo Trincia, autore dell’inchiesta sulla vicenda dei pedofili della Bassa modenese risalente al biennio 1996-1998. Sedici bambini vennero strappati via dalle loro famiglie tra Massa Finalese e Mirandola su indicazione dei servizi sociali perché ritenuti vittime di una rete satanica di pedofili. Nel 2014, a indagini concluse, si è giunti all’assoluzione di metà degli indagati: accuse false e famiglie distrutte. Le psicologhe che, all’epoca, interrogarono i bambini di Veleno facevano parte della Hansel & Gretel.

Altra figura cardine dell’Inferno di Bibbiano è Federica Anghinolfi, dirigente dell’Unione val d’Enza e motore dalla macchina diabolica: era lei ad esercitare pressioni sugli assistenti sociali affinché redigessero e firmassero verbali dove si attestava il falso riguardo allo stato familiare o al contesto abitativo dei bambini; lei sceglieva a chi affidare i bambini e da quali psicoterapeuti dovessero essere seguiti. Un brutale e spietato meccanismo per la demolizione di diversi nuclei familiari tramite l’ingiusto allontanamento fisico e la sospensione di qualsiasi contatto tra genitori e figli – le lettere e i giocattoli indirizzati ai bimbi dai genitori sono state ritrovate accatastate in un magazzino! -; poi i ripetuti lavaggi del cervello subiti dai piccoli. Uno scenario da incubo, degno di Orwell. Una realtà vicina alla distopia in cui la famiglia viene distrutta, i diritti dei bambini calpestati. Come se ciò non bastasse, molti degli affidatari erano privi dei requisiti necessari e nelle nuove famiglie molti bambini sono stati vittime di violenze fisiche o mentali. Inoltre, la Anghinolfi avrebbe in alcuni casi messo quest’orrenda macchina al servizio del suo essere una fanatica paladina dei diritti Lgbt: una bambina è stata ingiustamente allontanata dal padre perché giudicato omofobo, un’altra è stata affidata a una coppia di donne – vicine alla Anghinolfi – prive dei requisiti necessari all’affido e che hanno esercitato pressioni psicologiche sulla piccola. Ideologia, fanatismo isterico, interessi di varia natura: una combinazione di diabolici ingredienti che rende spietatamente ciechi, anche di fronte all’intoccabile benessere dei bambini.

Di tutta questa putrida faccenda i media hanno parlato troppo timidamente, nonostante l’assoluta gravità e tragicità della questione. Invece questa, oltre a un fatto da denunciare e condannare a gran voce, deve anche essere un punto di partenza per far luce sulle diverse problematicità del sistema degli affidi in Italia. Problematicità che sono state abilmente sfruttate dai protagonisti della vicenda affinché questa trama infernale prendesse forma. Tra di esse figurano il sottofinanziamento delle politiche sociali – di cui solo una minima parte è destinata ai servizi sociali – con la conseguente esternalizzazione dei servizi, troppo spesso basata sulla logica del massimo ribasso, che comporta una minimizzazione dei costi e della qualità del servizio. Emergono poi: la distinzione troppo spesso sfumata, se non assente, tra operatore professionale e prestatore di servizi; la scarsa vigilanza e i molli poteri sanzionatori degli ordini professionali, che andrebbero assolutamente rafforzati.

Federica Anghinolfi Occorre ricordare, infine, la frequenza con la quale i giudici onorari hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori, in cui spesso ricoprono posizioni apicali. Si tratta di psicologi, medici e assistenti sociali che da un lato sono chiamati a pronunciarsi sull’allontanamento dei minori dalle famiglie di origine e che contemporaneamente sono anche titolari, dipendenti o consulenti di centri di affido o istituti di accoglienza dei minori. Finalmente liberi onlus, un’organizzazione che si batte per la tutela dei minori e che denuncia l’eccessiva facilità con cui essi spesso vengono sottratti alle famiglie di origine, ha individuato, nel 2015, 156 giudici onorari nei Tribunali e 55 nelle Corti d’appello che operano in totale e palese conflitto d’interessi: ciò equivale a dire che il 20% dei magistrati minorili italiani ha un qualche interesse a che i bambini finiscano in un centro d’affido: quest’ultimo, per quei bambini, incassa dagli enti locali una retta giornaliera a volte elevata, con casi limite in cui supera i 400 euro. Ciò dà vita a un business colossale: in Italia, i minori allontanati dalle famiglie sono tantissimi – secondo il primo e unico studio approfondito condotto dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali nel 2010, erano 39.698, mentre “Finalmente liberi” ne stima almeno il doppio -; alimentano un mercato da 1-2 miliardi di euro l’anno e sono gestiti senza particolare trasparenza.

Con ciò, naturalmente, non si vuol dire che tutte le strutture dell’affido minorile hanno caratteristiche speculative. Tuttavia, queste storture sistemiche sono terreno fertile per il proliferare di macchine infernali come quella recentemente scoperchiata in Val d’Enza e per questo motivo andrebbero al più presto corrette: per arginare il più possibile la nascita di nuovi inferni. Alessandra Vio

Fabio Amendolara per “la Verità” il 5 luglio 2019. Una delle assistenti sociali ha addirittura ammesso, dopo aver descritto la casa di una delle famiglie alle quali sono stati sottratti illecitamente i bambini come fatiscente e inadeguata, di non essere mai stata nell' abitazione. Dalla carte dell' inchiesta «Angeli e demoni» della Procura di Reggio Emilia continuano a saltare fuori particolari inquietanti che descrivono quel sistema che ancora oggi qualcuno cerca di difendere. Un sistema che cercava a tutti i costi abusi sessuali che, in realtà, non c' erano mai stati. «Vi sono una serie di elementi indiziari», sottolineano gli inquirenti, «che inducono a ritenere che vi fosse una consapevole volontà da parte del servizio sociale di spingere sulla dubbia situazione di dubbio di abuso sessuale, in modo da accreditarne l' effettività, a prescindere dalle prove esistenti». Una delle testimoni, infatti, ha riferito agli investigatori che «un' assistente sociale molto vicina alla Anghinolfi (Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale integrato dell' Unione di Comuni della Val d' Enza, ndr) aveva chiesto alla madre di una delle bimbe di fare denuncia contro il papà». Ecco le sue parole: «Lo so perché eravamo presenti anche noi. Quando la donna è andata da loro da sola continuava a dire che i servizi sociali insistevano perché lei facesse la denuncia». In un altro passaggio i magistrati scrivono: «Confermativi anche i ricordi sul punto della madre, in ordine alle istanze della Anghinolfi per sollecitare l' avvio di un procedimento penale riguardante i pretesi abusi sessuali». Ecco le parole della mamma: «La Anghinolfi ci ha chiesto come mai non avevamo fatto la denuncia riguardo alle dichiarazioni della bimba. Io le ho spiegato che ci era stato detto che la segnalazione avrebbe attivato un procedimento d' ufficio che sarebbe comunque andato avanti. La Anghinolfi mi disse che era grave che io non lo facessi e mi chiese se io credevo o no alle dichiarazioni della bambina. Lì i servizi sociali ci hanno chiesto di recarci da loro per notificarci l' altro decreto di allontanamento». L' assistente sociale, a quel punto, secondo l' accusa, «era perfettamente consapevole che le frasi attribuite alla bambina erano artatamente modificate». In un altro caso, dopo la solita segnalazione, l' autorità giudiziaria per i minorenni delegò i servizi sociali a verificare le condizioni in cui viveva uno dei bimbi vittima d' allontanamento. Nella relazione gli assistenti sociali scrivono: «La casa appare spoglia e le operatrici non hanno visualizzato giocattoli». Quel documento ufficiale, però, come hanno verificato i carabinieri, presentava elementi di falsità. «In un sopralluogo di pochi mesi successivi, i militari rilevavano nel domicilio una condizione positiva e assolutamente diversa da quella riscontrata e descritta nella relazione del servizio sociale». Infatti c' erano giochi di società, videogiochi di ultima generazione, un piccolo calcio balilla e molte foto del bambino durante le sue fasi di crescita in compagnia dei genitori e dei nonni (anche loro demonizzati negli incartamenti degli assistenti sociali)». Le relazioni sembrano una la fotocopia dell' altra. Si faceva leva sulle condizioni della casa, sulla salute dei bambini, sui litigi familiari e soprattutto sugli abusi sessuali. C' era una strategia, insomma, per scippare i bambini alle loro famiglie. Bugie create ad arte, come dimostrano anche i servizi mandati in onda l' altra sera da Chi l' ha visto?, tra i pochi, oltre alla Verità, a continuare a raccontare il caso. In un tweet, dall' account ufficiale, la redazione di Federica Sciarelli mostra un verbale d' interrogatorio di una delle assistenti sociali che ha ammesso davanti ai magistrati di aver riportato particolari falsi in una relazione di servizio. Dall' altro lato, però, c' è chi critica il lavoro d' inchiesta. Dopo l' associazione dei magistrati per i minorenni e per la famiglia che ha descritto le notizia di stampa pubblicate nei giorni scorsi una «semplificazione dei fatti, non approfonditi né contestualizzati», è arrivato il commento del garante regionale dell' Emilia Romagna per l' infanzia e l' adolescenza Maria Clede Garavini. La difesa d' ufficio: «I servizi sociali e sanitari da tempo sono impegnati a tutelare e curare bambini e adolescenti al fine di favorire le condizioni necessarie al loro benessere e alla loro salute». In Emilia Romagna secondo la Garavini, «per affrontare queste situazioni così impegnative, la Regione ha emanato fin dal 2013 il documento sulle linee di indirizzo regionale per l' accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamenti abuso, che indicano un percorso dettagliato di prevenzione, valutazione e presa in carico». E come se nulla fosse accaduto, difende «le competenze professionali maturate e sedimentate negli anni». Le stesse messe in campo dai servizi sociali in Val d' Enza, supportate dalla Onlus Hansel e Gretel, e che sono crollate sotto l' inchiesta «Angeli e demoni».

Inchiesta in val d’Enza, la Municipale “segnalò irregolari gestioni di fondi”. L'allora comandante, Cristina Caggiati, secondo quanto ha riferito il suo vice Fabbiani agli inquirenti, fece una segnalazione sui soldi gestiti dai servizi sociali. Paolo Pergolizzi il 02 Luglio 2019 su Reggio Sera. Il sindaco Andrea Carletti emerge “come un personaggio particolarmente potente e irritato in passato dalla segnalazione effettuata dalla dirigente della polizia municipale della val d’Enza, Caggiati, relativa a irregolari gestioni di fondi relative al servizio sociale, segno di una chiara volontà di tenere coperti movimenti di fondi poco chiari, consentendo volutamente il permanere di situazioni di opacità funzionali alle attività illecite perseguite dai correi”. Nell’ordinanza del Gip Ramponi, relativa all’inchiesta della procura di Reggio “Angeli e Demoni” che sta terremotando la val d’Enza (di oggi la notizia che, oltre al sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, ai domiciliari, sono stati indagati anche l’ex sindaco di Montecchio, Paolo Colli e l’ex sindaco di Cavriago, Paolo Burani) c’è questo passaggio in cui Tito Fabbiani, ex vicecomandante della polizia municipale della val d’Enza, sentito come persona informata dei fatti dagli inquirenti, riferisce che, appunto, Cristina Caggiati, all’epoca comandante del corpo municipale dell’Unione, avrebbe fatto una segnalazione relativa a “irregolari gestioni di fondi relative al servizio sociale”. Ricordiamo, per dovere di cronaca, che l’ex vicecomandante Tito Fabbiani e la comandante Cristina Caggiati, sotto accusa per la loro condotta all’interno della Municipale della val d’Enza, sono stati licenziati, nell’aprile scorso (erano già stati sospesi dal servizio, ndr), in seguito a un altro grosso scandalo scoppiato in val d’Enza in cui Fabbiani è accusato di concussione, abuso d’ufficio, peculato, omessa denuncia, truffa aggravata ai danni dello Stato e mobbing, mentre la comandante Cristina Caggiati è indagata per abuso d’ufficio in concorso, oltre che per omessa denuncia. Il processo nei loro confronti è iniziato a fine maggio.

Fabio Amendolara per “la Verità” il 4 luglio 2019. C' era stata una segnalazione sulla torbida gestione dei fondi per i servizi sociali del Comune di Bibbiano scoperchiata poi dalla Procura di Reggio Emilia con l' inchiesta che hanno ribattezzato «Angeli e demoni». La ex comandante della polizia municipale della Val d' Enza, Cristina Caggiati, hanno ricostruito gli investigatori, aveva subodorato qualcosa e aveva portato quelle «irregolarità» all' attenzione del sindaco dem finito ai domiciliari Andrea Carletti, accusato di falso e abuso d' ufficio. Cosa che, a sentire un testimone, l' ex vicecomandante della polizia municipale, Tito Fabbiani, «irritò il sindaco». Fabbiani, stando al documento giudiziario che richiama le sommarie informazioni testimoniali rilasciate ai carabinieri, lo descrive come un personaggio «particolarmente potente». Fabbiani e Caggiati sono poi stati licenziati (dopo essere stati sospesi) perché finiti in un' altra inchiesta giudiziaria e ora sono sotto processo. Quella comunicazione, però, finì nel cestino. Un atteggiamento che per il giudice «è segno di una chiara volontà di tenere coperti movimenti di fondi poco chiari, consentendo volutamente il permanere di situazioni di opacità funzionali alle attività illecite perseguite dai correi». E, addirittura, sostiene l' accusa, appena avuta notizia delle indagini, «si è attivato per fornire successiva copertura all' attività svolta dai coniugi strizzacervelli per minori Nadia Bolognini e Claudio Foti (ieri erano in programma i loro interrogatorio di garanzia). Nelle comunicazioni pubbliche e finanche in un' audizione alla Commissione infanzia della Camera dei deputati il sindaco aveva fatto intendere che quella tra il Comune di Bibbiano e la onlus Hansel e Gretel di Moncalieri fosse una mera collaborazione scientifica a titolo gratuito. Pur di proteggere il sistema, il sindaco dem Carletti avrebbe «omesso di indicare il costo della collaborazione». Ma, soprattutto, avrebbe nascosto le modalità della corresponsione dei compensi. Perché, secondo l' accusa, erano «illegittime». La «copertura politica», così la definisce il giudice per le indagini preliminari che l' ha privato della libertà (il sindaco è agli arresti domiciliari), era arrivata in alto. A leggere gli atti, quella di Carletti non sarebbe stata solo una «omissione di controllo sull' attività dell' amministrazione» ma, stando all' ordinanza di custodia cautelare, «si adoperava per consentire la prosecuzione dell' attività, ottenendo anche un notevole ritorno d' immagine, oltre che un incremento dei fondi a disposizione». Insomma, Carletti, secondo l' accusa, non aveva che da guadagnarci. Il suo avvocato, all' uscita dall' interrogatorio di garanzia, ha detto ai cronisti che il sindaco ha fornito «importantissimi chiarimenti per quella che è la sua posizione e ha rappresentato in pieno la sua perfetta buona fede e l' assoluta serenità in coscienza». L' interrogatorio è durato un paio d' ore. E al termine, l' avvocato Giovanni Tarquini ha chiesto al gip la revoca della misura cautelare. Oltre al primo cittadino, sono sfilate davanti al gip Fadia Bassmaji e Daniela Bedogni, coppia omosessuale affidataria di una minore, indagate per maltrattamenti in famiglia, per aver denigrato, sistematicamente, tra giugno 2016 e dicembre 2018, i veri genitori della piccola, calcato la mano sui sensi di colpa della bambina e per averle inculcato la convinzione di essere stata abbandonata e maltrattata dalla famiglia d' origine. Le due si sono avvalse della facoltà di non rispondere. Come Marietta Veltri, responsabile dei servizi sociali della Val d' Enza e seconda solo alla dirigente Federica Anghinolfi. Anche lei ha fatto scena muta. E mentre l' inchiesta è concentrata proprio sulla gestione dei servizi sociali, il ministro della Gustizia, Alfonso Bonafede, ha mandato i suoi ispettori al Tribunale per i minori di Bologna. Bonafede lo ha riferito rispondendo a un' interrogazione della deputata reggiana di Forza Italia, Benedetta Fiorini, definendo «inquietante» la «rete criminosa ordita in danno a malcapitati minorenni, sottoposti a veri e propri trattamenti coattivi, facendo finanche ricorso a dispositivi ad impulsi elettromagnetici». Tuttavia, prosegue il ministro, «le questioni sollevate investono solo in parte lo spettro delle competenze del ministero». In concreto i magistrati ricevono periodicamente relazioni sulla situazione dei minori dati in affidamento. Le competenze del ministero sono quelle di verificare che i magistrati facciano il loro lavoro come si deve. E, proprio per verificare dove si erano inceppati i meccanismi, ha mandato i suoi ispettori. «Quello che possiamo fare», aggiunge Bonafede, «e che stiamo già ipotizzando è incrociare tutti i dati che arrivano dai diversi uffici giudiziari per verificare in maniera più stringente l' andamento delle situazione degli affidi di minori nei territori e individuare prima e meglio le criticità». E alla fine ha annunciato: «In qualsiasi aula giudiziaria verrà accertata l' esistenza di un abuso su un minore, posso garantire che non ci sarà nessuno sconto da parte della giustizia, che sarà inflessibile». Nel frattempo, però, cinque dei sette indagati convocati finora dal gip si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. E, come sottolineato dal Secolo d' Italia, «si è alzato un muro d' omertà».

Falsi abusi per togliere i minori alle famiglie: un filo collega l’Emilia alla Campania. C’è un filo rosso che lega l’Emilia alla Campania nell’indagine che ha portato a scoperchiare un vero e proprio business sull’affidamento di minori: 16 persone indagate per aver prodotto falsa documentazione atta a strappare bambini alle famiglie per affidarli a comunità conniventi. Si tratta dell’associazione Hansel & Gretel, ponte tra l’inchiesta dei magistrati e quella di Veleno di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli. Rosaria Capacchione su Napoli Fanpage l'1 luglio 2019. C’è un nome che collega l’Emilia Romagna alla Campania, l’inchiesta sui falsi abusi subiti dai bambini di Bibbiano, Mirandola, della Val d’Enza e dell’intera Bassa alla provincia di Salerno. E c’è un altro nome, quello dell’associazione Hansel & Gretel, che porta da Torino e Reggio Emilia fino a Napoli. Non figurano negli atti dell’indagine che la scorsa settimana ha portato all’arresto di medici, psicologi, assistenti sociali accusati di aver truccato le carte e depistato i processi, torturato i minori e falsificato le prove per dimostrare violenze sessuali mai avvenute. Ma sono fatti e circostanze che, a spezzoni, compaiono in altri fascicoli, alcuni archiviati, altri ancora in corso. Anche in questo caso, i protagonisti sono bambini di pochi anni, sottratti alle famiglie e dati in adozione, con modalità assai simili a quelle documentate dalla Procura di Reggio Emilia e dai carabinieri. Un link che tiene insieme i processi sui “diavoli della Bassa” – rivisitati dall’inchiesta di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli con il podcast “Veleno”, e dei quali è stata recentemente chiesta la revisione – quello della settimana scorsa e singoli casi giudiziari, sfuggiti alla grande stampa e comunque catalogati come errori giudiziari. Partiamo da “Hansel & Gretel”, associazione piemontese, una delle poche accreditate per l’assistenza ai bambini abusati. È stata fondata quasi trent’anni fa dallo psicologo Claudio Foti, uno dei nomi che contano nel suo campo, caposcuola di una teoria sull’intelligenza emotiva. È stato arrestato con l’accusa di frode processuale e depistaggio. Avrebbe usato come cavia una bambina, durante un corso di formazione dedicato ad assistenti sociali, convincendola di aver subito abusi sessuali mai avvenuti. L’associazione e Foti hanno curato a Napoli, nel 2015, un master di secondo livello sugli stessi temi. Nel 2017 hanno tenuto un corso di formazione destinato alle assistenti sociali del Comune, un seminario di due giorni “sull’attivazione cognitiva ed emotiva dei soggetti destinatari dell’intervento”.

La composizione delle onlus. Della onlus facevano parte l’ex moglie di Foti, Cristina Roccia, e quella attuale, Nadia Bolognini (arrestata). La prima è la protagonista di uno dei video degli incidenti probatori dell’inchiesta sui “diavoli della Bassa”, interrogatori suggestivi nei quali i bambini vengono indotti a confessare la partecipazione a riti satanici. Lorena Morselli, alla quale furono tolti i tre figli che non ha mai più potuto vedere, così li ha commentati su l’Avvenire: “Si vedono i bambini durante le audizioni protette a Modena, mentre devono rispondere alle domande del gip Alberto Ziroldi, che aveva nominato come periti proprio le psicologhe Cristina Roccia, allora moglie di Claudio Foti, Sabrina Farci e Alessandra Pagliuca, tutti di Hansel & Gretel. Uno dei miei figli parla come un automa: “in cimitero squartavamo i bambini e bevevamo il sangue”, a domanda risponde che lui stesso ne ha uccisi cinque, per tre volte a settimana. Dice che papà andava a prendere le vittime col pulmino della parrocchia e io alla fine pulivo da terra il sangue. Possibile che questo bastasse per mandare decine di persone in galera e i nostri figli in affido?”. Alessandra Pagliuca è una delle tre psicologhe che alla fine degli anni Novanta collaborarono con l’inchiesta. È napoletana, vive a Salerno. È sposata con un altro psicologo, Mauro Reppucci, ex giudice onorario del Tribunale dei minori di Napoli, stessa scuola di pensiero di Foti, di recente approdato alle teorie di Ryke Geerd Hamer, fondatore della Nuova Medicina Germanica, medico tedesco morto due anni fa, radiato dall’ordine professionale. Per intenderci, il teorico della causa psicologica dei tumori e dell’inutilità delle cure farmacologiche. Sandra Pagliuca è stata convocata in audizione, nella veste di esperta, dalla commissione parlamentare sull’Infanzia, appuntamento per giovedì mattina a Roma, a Palazzo San Macuto, sede di molte commissioni parlamentari. “Un appuntamento al quale non mancherò – commenta Paolo Siani, capogruppo del Pd in quella commissione. Sono proprio curioso di sapere cosa avrà da raccontarci. Anche perché bisogna studiare con attenzione le cause dell’aumento esponenziale dei casi di abusi e maltrattamenti sui minori. Non abbiamo elementi scientifici, epidemiologici, sul fenomeno. Ed è per questo che ho presentato una mozione, in discussione in aula domani (2 luglio), nella quale propongo l’istituzione di un osservatorio. Non è molto chiaro perché alcuni, tra i quali i parlamentari dei Cinque Stelle, sono contrari”.

Le sette sataniche di Salerno. Ad Alessandra Pagliuca è legata anche la denuncia dell’esistenza di sette sataniche in provincia di Salerno. La più clamorosa ha portato a un’inchiesta, che risale al 2007, che non ha prodotto alcun risultato. Protagonisti tre fratellini, che riferirono di altri tre bambini coinvolti. Nei loro racconti si parlava di adulti incappucciati e travestiti, di pozioni da ingurgitare “sennò non diventi figlio del diavolo” a base di sangue, sperma e droghe, probabilmente anfetamine. Li assisteva, nella veste di psicoterapeuta, proprio la Pagliuca. Che così commentò la vicenda: “Sono battaglie lunghe e dolorose, ma per noi la salvaguardia dei minori è una missione. Purtroppo c’è la tendenza a non dare troppo credito a quanto raccontano i bambini. Ma un esperto del settore riconosce subito un minore abusato. Lo legge perfino nel modo in cui parla o cammina. Negli ultimi tre anni mi è capitato di occuparmi di tre sette sataniche nel Salernitano. I processi sono ancora aperti e generalmente durano anni. Nel frattempo i minori soffrono e questi personaggi se la spassano”. Inchieste finite nel nulla. Sempre a Salerno, Maria Rita Russo, stessa formazione di Foti, Reppucci, e Pagliuca, neuropsichiatra infantile, dirigente del servizio Not dell’Asl, è stata rinviata a giudizio un anno fa per false dichiarazioni al pm. La professionista salernitana avrebbe forzato l’esito di una consulenza psichiatrica su un bambino di tre anni, avallando nei confronti del padre un processo per pedofilia che si è poi rivelato infondato. Il bambino è stato comunque dato in adozione. La gestione del servizio Not è stata oggetto di contestazioni e polemiche anche in tempi più recenti. A gennaio, nel corso del processo su presunti abusi ai danni dei bambini della scuola d’infanzia di Coperchia, piccola frazione di Pellezzano, il maresciallo dei carabinieri sentito come testimone ha escluso l’esistenza di elementi documentali necessari a confermare l’accusa a carico di sei bidelli  e del personale amministrativo dell’asilo. Il comandante della stazione di Pellezzano ha ripercorso la lunga fase investigativa sostenendo che, dalle indagini, in particolare dalla visione dei filmati delle telecamere nascoste all’interno della scuola, non era emerso alcun elemento d’accusa a carico degli imputati. Gli avvocati Gerardo Di Filippo e Cataldo Intrieri avevano poi chiesto e ottenuto l’acquisizione di alcune sentenze scaturite da inchieste giudiziarie nata su segnalazione del Not e di Maria Rita Russo, consulente della Procura nell’ambito dell’inchiesta sugli abusi alla materna di Coperchia e in altre numerose indagini su abusi ai danni di minori. Un canovaccio sovrapponibile, quasi una fotocopia, a quello dell’inchiesta sui “diavoli della Bassa” e sugli abusi in Val d’Enza.

Ora il Pd difende il suo sindaco ma si dimentica i bimbi abusati. Il Pd esprime vicinanza al sindaco di Bibbiano Andrea Carletti. Ma si dimentica delle presunte vittime delle onlus. Costanza Tosi, Domenica 07/07/2019, su Il Giornale. Il Partito democratico si schiera a difesa di Andrea Carletti, il sindaco (dem) finito al centro dell'inchiesta "Angeli e demoni" che attualmente si trova ancora agli arresti domiciliari e che, recentemente, è stato difeso dal circolo del Pd di Bibbiano che con un lungo comunicato stampa su Facebook. La lettera - pubblicata e firmata da Stefano Marazzi, in qualità di segretario del sindaco e sostenuta da "tutta la comunità del Pd" - è un chiaro atto di vicinanza e di solidarietà verso un primo cittadino che, secondo quanto riportato dalle carte - sarebbe implicato nella terribile inchiesta che ha scosso non solo Bibbiano, ma tutta l'Italia. Per i suoi compagni di partito, Carletti sarebbe una persona "sensibile e determinata" che "ha sempre sostenuto chi nutriva paure e timori in nome di quei principi fondamentali per lui irrinunciabili". I tesserati del Pd si augurano "che venga fatta chiarezza al più presto" e proseguono mostrando tutta la loro vicinanza a Carletti e alla sua famiglia, "sicuramente duramente colpita da questi accadimenti". E aggiungono: "La certezza che questa vicenda si concluderà positivamente quanto prima con l'accertamento della sua totale estraneità". Per loro Carletti è innocente, senza se e senza ma. Comprensibilmente, dato che in Italia vige la presunzione di innocenza. Tuttavia colpisce che nel documento redatto dal Partito democratico non ci sia un pensiero, anche minimo, alle sofferenze che genitori, bambini e intere famiglie hanno dovuto sopportare in tutti questi anni. Ma c'è di più: nel testo si accenna solamente ad una semplice "vicenda giudiziaria" su cui i magistrati dovranno fare chiarezza. Nessuna parola di vicinanza per le famiglie vittime di raggiri e prepotenze, ingiustamente accusate e private dei propri figli per colpa di un meccanismo di cui Carletti avrebbe fatto parte, anche solo incidentalmente e forse a sua insaputa. Un meccanismo che consentiva, però, all’intera organizzazione di lucrare sulla pelle dei bambini. Di fare cassa. Ma il Pd non è il solo a esprimere vicinanza all'indagato. Ad esso si aggiunge anche il Comitato direttivo della Sezione Anpi di Bibbiano che, "sollecitato anche da numerosi iscritti" - come si legge nel comunicato - "ha deciso di esprimere e rendere pubblica la propria solidarietà al sindaco Andrea Carletti in questo momento difficile per lui e per la comunità". Un sostegno che, sottolineano, "deriva da anni di collaborazione (…) avendo sempre visto e apprezzato il suo impegno, in particolare verso la scuola e i giovani, nell'affermare e diffondere i valori della legalità e per non dimenticare”. Poche invece, ancora una volta, le parole dedicate alle vittime del sistema di affidi illeciti: "Siamo i primi ad esprimere solidarietà ai minori e alle famiglie coinvolte" - afferma l’Anpi di Bibbiano - che subito dopo torna a dare supporto al sindaco dem: "Siamo fiduciosi che in tempi rapidi al nostro Sindaco verrà riconosciuto di aver sempre svolto la sua attività di amministratore pubblico con disciplina ed onore". Su ciò che dovrà essere riconosciuto invece ai genitori ai quali hanno tolto i piccoli, sulla speranza che vanga fatta giustizia per le vere vittime di questa atroce storia, anche l’Anpi non si esprime. Tace. Eppure, sul sito ufficiale dell’associazione non manca l’attenzione ai bambini. Queste le parole di uno degli appelli pubblicati sul web: “Vogliamo un’Europa contraria a qualsiasi forma di discriminazione, che garantisca asilo ai rifugiati ed il rispetto dei diritti di tutti, in particolare delle donne e dei fanciulli”. Insomma, per l’Anpi prima i bambini, ma in questo caso sembrano esserseli dimenticati. Anche il garante regionale dell’Emilia-Romagna per l’infanzia e l’adolescenza Maria Clede Garavini interviene sulla questione e attacca i media impegnati nell’inchiesta: la "semplificazione dei fatti, non approfonditi né contestualizzati, specie in una materia di grandissima complessità e delicatezza la cui trattazione richiederebbe un elevato livello di specializzazione". E questa volta il pensiero è volto verso gli assistenti sociali. Il ritratto dei servizi della Val d’Enza, “così come continua ad essere rappresentato dai media in questi giorni”, impone per Maria Clede Garavini “di fornire ulteriori precisazioni per evitare il diffondersi della sfiducia nei confronti dell’operato di tutti i servizi sociali e sanitari”. Garavini sottolinea in primo luogo che “i servizi sociali da tempo sono impegnati a tutelare e curare bambini e adolescenti al fine di favorire le condizioni necessarie al loro benessere e alla loro salute”, lavorando “con diverse istituzioni nonché’ svariati soggetti, pubblici e privati, in un’ottica di lavoro multidisciplinare e di corresponsabilità in attuazione delle norme e delle disposizioni vigenti”. Enti che, però, in nome di questa collaborazione hanno creato un business di migliaia di euro a discapito della tanto decantata “tutela dei minori”.

Su Bibbiano Zingaretti non deve tacere. E nemmeno minacciare chi è indignato. Francesco Storace domenica 7 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. Nicola Zingaretti se l’è cavata con una quarantina di parole. Il solito tweet per lavarsi la coscienza. Bibbiano, Reggio Emilia, quando il silenzio è d’oro. E un partito, il Pd, che assolda avvocati affinché “nessuno osi strumentalizzare” una vicenda che è turpe di per sé. Caro Zingaretti, non c’è strumentalizzazione da parte di chi vi fa domande. Ma si manifesta invece da parte vostra quando minacciate querele contro un popolo che è indignato per quello che è successo: bambini strappati alle loro famiglie, giro impressionante di quattrini, e un’amministrazione comunale coinvolta. Non si deve dire che il sindaco è del Pd? Basta un tweet? O un post su Facebook?

Solidali col sindaco e non con le vittime. Ha scritto Zingaretti il 27 giugno: “Schifoso e orribile quanto emerge dall’inchiesta “Angeli e Demoni” sulla gestione di minori. Si vada avanti, fino in fondo, per accertare le responsabilità, la verità e per punire i colpevoli senza esitazione. Patetici i tentativi di strumentalizzare politicamente questo dramma“. Mai la parola Bibbiano. Mai la sigla Pd. Anzi, poi, solo minacce di querelare chiunque osi parlare di Bibbiano e del Pd. E perché il Pd di Bibbiano è solidale col sindaco Carletti, che è sotto accusa? Perché anche l’Anpi si è messa in mezzo a difesa dell’amministrazione? Nuovi partigiani? E perché, caro segretario del Pd, non si sente da sinistra una sola voce di solidarietà con le famiglie di quei bambini, con le vittime?

Fa bene Fratelli d’Italia. Mille volte brava a Giorgia Meloni e ai parlamentari che venerdì sono andati a Bibbiano al sit-in di Fratelli d’Italia (nella foto sopra). Riflettori accesi, altro che querele, altro che avvocati, altro che censura. “L’inchiesta ‘Angeli e Demoni’ sta portando alla luce un ingranaggio orribile nel sistema di affidamento dei bambini ad altre famiglie. Se le accuse fossero confermate, ci troveremmo di fronte ad una inaccettabile mercificazione dell’infanzia“. Lo ha detto l’on. Ylenia Lucaselli. Querelate anche lei? E un’altra deputata di Fdi, Maria Teresa Bellucci sulle macchine che mandavano scariche elettriche ai ragazzi: contribuivano “a creare un ambiente ansiogeno e un clima emotivo inquieto“. E il sindaco Carletti “ha effettuato un affidamento diretto senza bando di una struttura comunale all’associazione che gestiva la cura dei minori allontanati dalle famiglie“. Gli facciamo un applauso, Zingaretti, e sbattiamo in galera la Bellucci al posto di Carletti? Questa sporca storia di orchi, di famiglie depredate, di figli rubati e segnati per la vita è vergognosa. E dal Pd ci saremmo aspettati piuttosto l’annuncio di volersi costituire parte civile nel caso di processo al sindaco che il suo partito non ha ancora cacciato. Invece, in preda al panico, al Nazareno non si rendono conto, evidentemente, di quanto sia turbata la pubblica opinione. Trenta persone accusate di togliere ingiustamente i minori alle loro famiglie per lucrarci sopra. Ogni anno 50mila bambini sono sottratti alle famiglie in Italia con un giro di soldi per un miliardo e mezzo. Quanto deve durare questo affare, onorevole Zingaretti? Alla politica chiediamo soluzioni e non silenzio ipocrita. Vada anche il segretario del Pd a Bibbiano, abbia il coraggio di non nascondersi e vedrà che non avrà bisogno di querelare nessun altro. Serve solo serietà. E non minacce.

Selvaggia Lucarelli sabato 6 luglio 2019. Se c’è un “caso zero” che lega il centro Hansel e Gretel e i casi di “Veleno” e oggi Bibbiano è questo: il caso Sagliano, provincia di Biella. Il primo, il più dimenticato. La storia di un’intera famiglia che si suicidó nel 1996 per atroci accuse di abusi su due bambini e con le perizie dei soliti nomi (Foti/Roccia del centro Hansel e Gretel e la Giolito del caso Veleno). E con quell’Alessandro Chionna, il pm che decise l’arresto di Gigi Sabani. Un caso così dimenticato, nonostante il clamore dell’epoca, che per avere una foto di queste 4 persone che non hanno mai avuto giustizia, sono andata io stessa al cimitero di Sagliano a fotografare le loro tombe. Ne scrivo oggi su Il Fatto. Leggete questa orribile storia, è importante. E condividete il più possibile.

Il 5 giugno del 1996, a Sagliano Micca, provincia di Biella, si suicidarono quattro persone. Insieme, dopo aver lasciato delle lettere d’addio, scesero nel garage di casa, entrarono in una Fiat Uno verde, mandarono giù qualche pasticca di sonnifero e respirarono il gas di scarico fino a morire. Erano Alba Rigolone (66 anni), suo marito Attilio Ferraro (68 anni), i loro due figli Maria Cristina Ferraro (insegnante di 39 anni) e Guido Ferraro (commesso di 36 anni). Tutti accusati di aver sottoposto alle più raccapricciati pratiche sessuali due bambini, i figli di Guido e Maria Cristina, quel giorno erano attesi in tribunale per l’udienza del processo appena iniziato. Un processo in cui l’impianto accusatorio si fondava principalmente sulle perizie di due consulenti: Cristina Roccia, una delle psicologhe coinvolte nella vicenda “Veleno” e colui che all’epoca era suo marito, ovvero quel Claudio Foti del Centro Studi di Moncalieri Hansel e Gretel, oggi agli arresti domiciliari per la vicenda di Reggio Emilia. Il caso Sagliano, nella sinistra catena che lega l’associazione Hansel e Gretel ad alcune delle storie più inquietanti e controverse di abusi su minori, può essere considerato il “caso zero”. E forse anche il più dimenticato, nonostante il suicidio, nonostante il clamore che suscitò all’epoca, tra videocassette sulla storia allegate a quotidiani, l’accorata difesa degli imputati di Vittorio Sgarbi e i pareri di noti opinionisti dell’epoca. Un’intera famiglia si tolse la vita lasciando un biglietto sul cruscotto: “Quattro innocenti sono costretti ad uccidersi perché il tribunale di Biella non ha dato la possibilità di dimostrare la loro innocenza”. Forse, oggi, alla luce di quello che sta emergendo, è possibile restituire dignità a quei morti la cui vicenda processuale fu ricostruita nel 2007, con appassionato rigore, dallo scrittore ed ex assessore di Biella Diego Siragusa in un libro, “La botola sotto il letto”, che poi fu presto ritirato per minacce di querele.

La vicenda inizia nel 1995, quando Guido e sua moglie Daniela si stanno separando tra rancori e recriminazioni. In particolare, Daniela nutre un profondo astio nei confronti della famiglia dell’ex marito. Detesta soprattutto sua suocera Alba e della bella sorella del marito Maria Cristina. A un mese dall’udienza di separazione Daniela porta il loro bambino Angelo, di 9 anni, presso il Servizio di Neuropsichiatria Infantile di Vercelli che a sua volta fa una segnalazione al Tribunale dei minori di Torino. Il bambino accusa suo padre Guido, sua nonna paterna Alba e sua zia paterna Maria Cristina di avere rapporti incestuosi in sua presenza e di abusare di lui oltre che della sua cuginetta Linda, figlia di Maria Cristina. Il Tribunale sospende immediatamente gli incontri tra Guido e suo figlio Angelo. 

Successivamente Daniela presenta una querela dettagliata contro il marito e la sua famiglia in cui racconta fatti raccapriccianti. Da quando ha circa tre anni, a casa dei nonni, Angelo assiste a scene di sesso esplicito e incestuoso: Maria Cristina lecca il pisellone al fratello Guido in salotto finché lui non le fa pipì sulla mano, sua nonna Alba, 66 anni, fa lo stesso sempre col pisellone di suo figlio Guido ma in camera. Maria Cristina, la piccola Linda e sua nonna Alba leccano tutte insieme Guido e vanno a letto nudi. La nonna nuda chiede a lui, Angelo, di toccarla ma il bambino si rifiuta. Un’altra volta Guido sbatte il pisellone sulla patata della piccola Linda oppure Guido lecca il deretano della madre anziana o suo padre prova a infilargli nel sederino il suo pisello ma lui scappa e gli altri dicono “Devi farlo!” Ti prego!”. Insomma, Sodoma. Un famiglia di persone apparentemente rispettabili, nasconde un simile orrore. La bambina viene prelevata mentre è a scuola e tolta alla madre per finire in un centro per minori, il pm Alessandro Chionna della procura di Biella dà il via alle indagini con perquisizioni a tappeto a casa di nonna Alba e nonno Attilio (che non è ancora stato accusato) e di Maria Cristina. Cercano materiale pornografico, videocassette, prove degli abusi. Non trovano nulla. La nonna non ha neppure un videoregistratore.

Il 3 giugno Alessandro Chionna li fa arrestare tutti e tre con tanto di sirene e manette con un’accusa precisa e devastante: abusi sessuali su minori. Breve parentesi: il pm Chionna fu anche il grande accusatore di Gigi Sabani e Valerio Merola nel famoso caso “Varietopoli” che portò all’arresto di Gigi Sabani nel 1996, proprio dopo due settimane dal suicidio della famiglia Ferraro, con le accuse di truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione. Lo aveva accusato una minorenne. Chionna fu poi rimosso dall’incarico perché si innamorò della ex fidanzata di Gigi Sabani (con cui poi convolò a nozze), che conobbe durante l’inchiesta (poi archiviata). Gigi Sabani rimase marchiato da questa vicenda e nel 2007 morì di infarto. Tornando a Sagliano, i detenuti vengono interrogati da Chionna e dal Gip Paolo Bernardini. Guido afferma che la sua ex moglie aveva detto spesso che gliel’avrebbe fatta pagare, che era gelosa di sua sorella Maria Cristina, che dal ’94 in poi aveva proibito a nonna Alba e a nonno Attilio di vedere il nipote, convinta che la nonna volesse avvelenare Angelo con lo sciroppo. Nonna Alba dice di aver sempre trattato i nipoti con amore, Maria Cristina conferma l’odio della cognata per lei e la sua famiglia. Nonno Attilio, l’unico rimasto libero, spiega di non avere rapporti sessuali con la moglie da 10 anni, altro che sesso e promiscuità in quella casa.

Il 5 giugno del 1995 Chionna e il maresciallo Santimone interrogano il piccolo accusatore Angelo. Il bambino conferma la versione orgiastica della storia, ma poi, quando gli si fa notare che il racconto è inverosimile, cambia completamente rotta e ritratta tutto. Sarà la prima di una lunga serie di ritrattazioni. “Tutto quello che ho raccontato è frutto della mia fantasia. Io ho voluto in questo modo far andare in prigione mio padre, i miei nonni, mia zia perché hanno trattato male me e mia madre. E’ stata una mia montatura in quanto vedo film in cui fanno porcate”, dice. A quel punto il bambino va via con la madre, ma dopo un po’ i due tornano in Tribunale. Angelo si era solo spaventato, vuole confermare gli abusi, dice la madre. E invece Angelo ribadisce di essersi inventato tutto. Successivamente dirà anche che nella casa degli abusi ci sono botole sotto il letto dei nonni e passaggi segreti. Si è inventato tutto di nuovo. Il 7 giugno il gip Paolo Bernardini ordina la scarcerazione dei tre indagati e in un’ordinanza molto prudente ma rigorosa, afferma che la situazione è poco chiara, che la querelante manifesta ostilità nei confronti della famiglia Ferraro, che ai bambini sono state fatte domande suggestive, che Angelo ha dei disturbi psichici mai approfonditi. Chionna, a questo punto, nomina come consulente tecnico Cristina Roccia del Centro Hansel e Gretel, la stessa che interrogherà alcuni bambini di Massa Finalese (il caso Veleno) un paio d’anni dopo. La consulente deve stabilire se Angelo e Linda sono attendibili. Linda sarà sottoposta a un vero interrogatorio, ma parlerà sempre con amore della mamma e della nonna con cui fa il gioco della principessa e dei gioielli. Nega ogni abuso, piange, le manca sua madre. Angelo, nonostante le proteste dei legali di Guido che non può più vedere suo figlio, invece continua a vivere con Daniela (se fosse stato vero che la madre lo manipolava, poteva continuare a farlo liberamente). Guido invia lettere strazianti al figlio che ormai non vede più da tempo, scrivendogli “Vorrei tanto poterti far avere dei doni ma non so come fare, ho ancora l’uovo di Pasqua che non mi hanno lasciato consegnarti!”.

Il 6 giugno Chionna chiede al consulente tecnico Maria Rosa Giolito (che risulta aver collaborato con Foti di Hansel e Gretel anche nella stesura di un libro, è anche lei coinvolta nelle perizie mediche della vicenda Veleno) di verificare se la bimba abbia subito abusi. “L’imene con bordi sottili è compatibile con la penetrazione di un dito di una persona adulta, non posso escludere né provare la penetrazione col pene”, sarà l’esito. Che in sostanza non vuol dire nulla, tanto più che il perito della difesa parlerà di normale conformazione dell’imene. La visita della Giolito al bambino Angelo darà esito negativo, tuttavia la dottoressa specificherà “I segni ritrovati non sono specifici per abuso sessuale pur essendo compatibili con tale diagnosi, va considerato però che un oggetto delle dimensioni di un dito può essere introdotto nell’ano senza troppo disagio”. Insomma, l’esito è negativo, ma si lascia una finestra aperta. Peccato che in seguito Angelo dirà chiaramente di essere stato penetrato dal padre e che quella perizia lo smentisca. La perizia tecnica di Cristina Roccia, per la cronaca, costerà al tribunale la non modica cifra di 6.417.450 lire. Quando ormai la scadenza delle indagini è imminente Chionna affida una nuova audizione del bambino Angelo a Claudio Foti. Aveva ritrattato troppe volte, l’accusa era molto indebolita. Con Foti accanto, il bambino afferma di aver ritrattato gli abusi perché minacciato dal maresciallo e conferma le violenze. Non solo. Accusa per la prima volta anche suo nonno Attilio e anticipa l’inizio delle violenze a quando aveva un anno (la cuginetta non era neppure nata!). Come potesse ricordarsi di violenze subite a un anno non è chiaro. Non solo. Aggiunge che la cuginetta non ha il coraggio di dire la verità, quindi se dovesse essere risentita lui vorrebbe essere presente, “così la aiuta a parlare”. Chionna chiede il rinvio a giudizio, il gip Bernardini fissa il giudizio immediato, ma estromette le consulenze tecniche-psicologiche affermando che non si limitano a fornire un apporto scientifico, ma esprimono dei giudizi sulla veridicità di quanto affermato dai bambini. Chionna, che senza quelle perizie ha pochi elementi, non si arrende. Chiede al Tribunale un’audizione protetta per i due bambini che, come richiesto da Angelo, saranno sentiti insieme dalla psicologa Paola Piola, già teste dell'accusa.

Alba, Attilio, Maria Cristina e Guido capiscono che se la bambina confermerà le accuse sono spacciati. E così sarà. La mattina del 5 giugno 1996, fuori dal tribunale, la sorella di Alba, Maria Rigolone e gli avvocati della difesa, attendono i Ferraro per un po’, poi allarmati dalla loro assenza chiamano i carabinieri. In casa furono trovati alcuni biglietti di addio. In uno, firmato da tutti e quattro, indirizzato al senatore Claudio Regis che li aveva sempre sostenuti c’era scritto “Violando il codice, dei bambini sono stati ascoltati come pretendeva il pm Chionna, dalla stessa psicologa chiamata dall’accusa come teste che da un anno prepara Angelo a condannare il padre e tutta la sua famiglia. La sentenza che ci aspetta è ovvia, siamo innocenti, non vale la pena continuare ad esistere”.  Maria Cristina aveva scritto un’altra lettera in cui si augurava di incontrare di nuovo sua figlia nell’aldilà. Nonna Alba aveva lasciato un biglietto: “Non ho mai fatto porcherie con i figli e i nipoti che adoravo. Ho insegnato loro le cose belle e giuste della vita, chiedo perdono ai miei cari”. E poi quel biglietto sul cruscotto: “Siamo innocenti”. Morirono insieme, respirando monossido, nella Fiat Uno verde di Maria Cristina. Ai funerali parteciparono più di 1000 persone, a Sagliano in tanti credettero alla loro innocenza fino alla fine. La sentenza di improcedibilità mise fine alla vicenda. Chionna disse di aver lavorato con correttezza, Paolo Crepet sentenziò che “il suicidio è un’ammissione di colpa”, il senatore Claudio Regis affermò “Queste persone sono state uccise per un patto scellerato fra procura e tribunale dei minori”. (e per questa dichiarazione fu processato e condannato). “Ora il dolore è solo mio”, dichiarò Daniela, la grande accusatrice, ai giornali. Ma a rimbombare ancora, dopo 23 anni dalla tragedia, sono le parole della psicologa Paola Piola, una delle grandi sostenitrici dell’accusa: “In fondo le vittime sono ancora i bambini. Ora sono anche senza genitori. La vicenda giudiziaria è stata archiviata col decesso degli imputati, e forse è meglio così”. Quattro morti, una verità mai accertata e ombre antiche, che dopo 23 anni, spuntano fuori da una vecchia botola. L’unica che è davvero esistita, in questa orribile vicenda. No, non è stato meglio così.

Foti: «Non sono un mostro. Mi hanno salvato i filmati». Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Elisa Sola su Corriere.it. Arrestato il 27 giugno con accuse infamanti — aver manipolato una minorenne spingendola a confessare abusi sessuali non esistenti — Claudio Foti, 68 anni, psicoterapeuta e direttore scientifico della onlus «Hansel e Gretel», da oggi è un uomo libero. Il tribunale del Riesame di Bologna ha accolto l’istanza del suo legale, l’avvocato Girolamo Goffari, revocando la misura dei domiciliari. Secondo i giudici «non vi sono gravi indizi di colpevolezza» per Foti, finito nella bufera di «Angeli e demoni», inchiesta su presunti illeciti nel mondo degli affidi.

Claudio Foti, come ha accolto l’ordinanza del Tribunale del riesame?

«Per me è caduta l’accusa più grave e infamante, relativa alla manipolazione della ragazza e alla terapia, così hanno scritto, “brutale e suggestiva” che io avrei eseguito. Ma per fortuna il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e la grazia del Signore mi ha consentito di ricordarmi che io quegli incontri li avevo registrati. Venti ore di filmati per 15 sedute mi hanno salvato». 

Sono queste le prove che hanno convinto i giudici?

«Sì. Se non avessi trovato i video, avrei potuto fare tutte le chiacchiere del mondo, ma sarei ancora agli arresti. Il tribunale ha preso atto del fatto che la mia terapia era basata sul rispetto empatico, che non vi erano elementi di induzione, né una concentrazione forsennata sull’abuso. Sono filmati inequivocabili: smentiscono clamorosamente le testimonianze contro di me, come quella della madre della ragazza, che ha cambiato le carte in tavola. Era stata lei a descrivere una situazione di abusi reiterati». 

Al di là del processo, lei come sta?

«Non è facile stare ai domiciliari. Né sopportare la marea di fango. E mi scuso se mi commuovo mentre le parlo. Ma subire un processo mediatico così duro, quando da 30 anni porti avanti in maniera impegnata e sofferta un’attività a favore delle donne e dei bambini, è veramente difficile. Nel processo mediatico non puoi intervenire, né difenderti». 

Come ha fatto a resistere, psicologicamente, per 22 giorni?

«Non saprei. Oggi ho fatto fatica ad uscire di casa. Ho fatto ore e ore di pratica meditativa. Il problema non erano tanto gli arresti, ma il senso di ingiustizia di subire il processo mediatico».

Come si spiega che le abbiano contestato accuse così pesanti?

«Ho delle idee, ma devo essere cauto. Un aspetto della “bufala” nei miei confronti, è che mi hanno indagato per aver trattato una paziente come “una cavia”. La verità è che noi avevamo vinto un bando dell’Asl di Reggio Emilia, che prescriveva un’attività di formazione di un gruppo di psicoterapeuti della stessa Asl, i quali avrebbero dovuto assistere alle sedute in una stanza con una videocamera a circuito chiuso. Una modalità che si usa in tutto il mondo. C’era il consenso della madre e di tutti gli interessati. Non so davvero perché tutto ciò sia accaduto. Sono di orientamento buddista, credo che le persone della procura che mi hanno accusato siano state animate dal desiderio di cercare la verità. Ma talvolta, la verità, la si cerca in modo sbagliato. Hanno detto a noi che eravamo verificazionisti, eppure, forse, lo sono stati loro: hanno trasformato in teorema qualcosa che non c’era».

Cosa farà, da oggi? 

«Non andrò in vacanza, mi devo riprendere. Ora penseremo a un progetto di riflessione e di ripartenza. C’è un danno di immagine enorme fatto alla persona e all’associazione Hansel e Gretel. I pregiudizi si fossilizzano, sarà difficile uscirne. Ma ripartiremo certamente, prepareremo un documentario. Io scriverò un libro su questo, ho già iniziato. A 68 anni sarà il mio primo romanzo, finora ho pubblicato saggi. Proverò a tradurre cosa ho provato per un dovere di verità nei confronti di chi mi è stato vicino».

L'inchiesta shock Bibbiano. Lo psicologo scarcerato: “Su di me solo fango, io quei bimbi li ho salvati”. Federico Cravero il 20 luglio 2019 su La Repubblica. «Su di me c’è lo stereotipo dell’abusologo, quello che vede abusi dappertutto...». Prima di qualunque domanda è Claudio Foti a mettere le mani avanti e a dire quello che i suoi detrattori pensano di lui. Psicoterapeuta, fondatore del centro studi Hansel e Gretel di Moncalieri, alle porte di Torino, per tre settimane è stato agli arresti domiciliari, indagato nell’inchiesta “Angeli e demoni” della procura di Reggio Emilia su un presunto giro di abusi e di affidi familiari a Bibbiano, in Val d’Enza.

L’accusa di fare il lavaggio del cervello, l’accostamento alla vicenda di “Veleno”, l’arresto... Si aspettava che un giorno la sua attività potesse passare da tutto questo?

«Su di noi è stata gettata un’ondata di fango e di fake news. La semplificazione che è stata fatta è una distorsione grave di un lavoro lungo trent’anni rigorosamente a favore dei bambini e delle donne vittime di violenza: non tutti gli abusi sono inventati».

L’hanno definita un mostro.

«Non abbiamo il controllo su quello che pensano di noi. Capisco che io possa essere scomodo e non pretendo applausi. Ci stiamo riorganizzando, sto già scrivendo un romanzo, ci riprenderemo da questa botta».

Di cosa è stato accusato?

«Ero ai domiciliari con l’accusa infamante di aver condotto una psicoterapia “suggestiva e brutale” su una ragazza, di averla usata “come cavia”, quando invece era stato firmato un consenso informato. Il mio avvocato Girolamo Coffari ha prodotto al Tribunale della libertà 20 ore di sedute videoregistrate e sono stato liberato».

E rispetto alle accuse di lucrare sui presunti abusi?

«Andavo fino a Reggio Emilia per 500 euro a giornata incluse le spese, quando in una qualunque giornata di formazione posso guadagnarne il doppio o il triplo».

Secondo lei cosa ha convinto il giudice che l’ha scarcerata?

«Era tutto nelle immagini, nessuna persona onesta avrebbe potuto dire che ho manipolato il ricordo di quella ragazza. Il mio metodo è basato sull’ascolto empatico dei sentimenti dei pazienti, che mi portano le loro sofferenze».

È il “metodo Foti”?

«Non esiste un “metodo Foti”, c’è una vasta area della psicoterapia che ha questo approccio. Naturalmente nella comunità scientifica c’è conflitto e sono stato accusato, soprattutto dagli psicologi forensi, di costruire falsi ricordi di abusi in modo aprioristico».

Invece?

«Invece il mio lavoro è solo finalizzato alla guarigione dei pazienti. Con una premessa, però. Le statistiche dicono che una bambina su cinque è abusata sessualmente prima dei 18 anni».

Così tanti casi?

«Gli abusi nell’infanzia sono un fenomeno sottostimato. La società è turbata, non lo accetta e preferisce non vederlo. È la stessa ragione per cui chi toglie i bambini ai genitori viene attaccato, dalla società e anche da alcuni partiti, in nome del valore della famiglia e si giudica un business quello delle comunità. Se i genitori hanno delle carenze vanno aiutati, ma a volte non si può e allora bisogna togliere i figli».

Non può accadere che il lavoro “clinico” degli psicoterapeuti diventi decisivo in un processo?

Certamente bisogna fare attenzione al rischio di false accuse, specie nelle separazioni, ma il nostro compito è di far emergere i “falsi negativi”, ovvero quei casi i cui i bambini non riescono a dare voce ad abusi davvero subiti e non li esternano. Se poi i magistrati abdicano al loro ruolo e si fanno suggestionare dagli psicologi, non è un problema mio. Ma di solito il quadro probatorio vede anche relazioni dei servizi sociali, delle maestre... L’importante è che ogni caso vada visto a sé, senza ideologie. Noi non siamo forcaioli, tant’è che abbiamo anche progetti di rieducazione dei sex offenders».

Ecco i verbali che inguaiano l'"uomo nero" di Bibbiano. Foti indagato anche per maltrattamenti familiari Lo sfogo della moglie: «Poi parli di tutela dei minori...» Nino Materi, Martedì 23/07/2019 su Il Giornale. Da un uomo che ha potere di «vita e di morte» su genitori e figli (nel senso che può decidere di togliere bambini alle famiglia in base a presunte «inadeguatezze genitorali»), ti aspetteresti che sia una persona competente, obiettiva ed equilibrata. E invece si scopre che Claudio Foti - il controverso psicoterapeuta della onlus «Hansel e Gretel» coinvolto nell'inchiesta sugli affidi illeciti a Bibbiano - è indagato anche per «maltrattamenti familiari». Il professionista che avrebbe dovuto combattere i maltrattamenti, sarebbe a sua volta un maltrattatore. Per il gip Foti è «portatore di una personalità violenta e impositiva». Vi fidereste di uno così? Accettereste di buon grado una sua sentenza da Foti che ha fatto per anni il giudice onorario al Tribunale dei minori di Bologna? Magari una sentenza che ordina che vostro figlio venga affidata a coppia gay? È quanto è accaduto a tante famiglie cui il «sistema Foti» ha scippato i bimbi con false accuse di pedofilia. Nelle intercettazioni si sente la moglie di Foti descrivere gli atteggiamenti violenti del marito nei riguardi suoi e dei figli. Si fa riferimento a «piatti rotti», ad «aggressioni verbali» e, addirittura, a «pavimenti sporcati con escrementi di cane». Foti smentisce tutto: «Mia moglie non mi ha mai denunciato. È stato solo un momento di nervosismo. Mai alzato un dito contro nessuno. Ci siamo subito chiariti, ora i rapporti sono ottimali». In caso contrario ci troveremmo dinanzi a uno psicoterapeuta che - più che curare le menti altrui - avrebbe bisogno di dare una regolata alla propria testa. A rendersene conto è la stessa moglie di Foti: quella Nadia Bolognini, anch'essa psicoterapeuta e coinvolta fino al collo in «Angeli e demoni». Dinanzi agli attacchi d'ira del marito, la Bolognini commenta: «E poi andiamo a fare i convegni sulla tutela dei minori...». Le nuove accuse sono emerse «attraverso le intercettazioni effettuate nelle indagini per altri reati». Oggetto di esame, le conversazioni con la moglie, anche lei indagata e finita ai domiciliari: misura che doveva essere estesa a Foti, ma nei giorni scorsi la decisione è stata revocata dal Riesame e sostituita con obbligo di dimora a Pinerolo. Un'attenuazione della posizione che ha permesso a Foti di accreditarsi come vittima di una «vergognosa gogna mediatica». Sulle responsabilità penali sue e degli altri indagati deciderà la magistratura. Ma, sotto il profilo morale, le distorsioni già appaiono evidenti. Trasmissioni tv come Matrix e Quarta Repubblica le hanno denunciate in maniera circostanziata, documentando affarismi e zone d'ombra dei servizi sociali. Un grumo di ideologie Lgbt, conflitti di interessi e commistioni politiche che il Pd vorrebbe far passare per «strumentalizzazioni».

«Non sono un mostro, ho solo cercato di riavvicinare i ragazzi alle loro madri». Simona Musco il 23 luglio 2019 su Il Dubbio. Intervista allo psicoterapeuta Claudio Foti, presidente della “Hansel&Gretel”. Nuova indagine sul professionista: ora è accusato di maltrattamenti sulla moglie e i figli

«Non sono un mostro». L’ultima novità dell’inchiesta “Angeli e Demoni” Claudio Foti l’apprende poco prima dell’intervista, dal tg. «Dicono che sono indagato per maltrattamenti su mia moglie», dice confuso. Tutto riconduce ad un’intercettazione, che il gip utilizza in ordinanza per descrivere la personalità dello psicoterapeuta direttore della onlus torinese “Hansel& Gretel”, coinvolta nell’inchiesta di Reggio Emilia. Ovvero «violenta e impositiva», afferma il giudice, analizzando quella telefonata in cui la donna – anche lei ai domiciliari nell’ambito della stessa inchiesta – si sfogava con delle amiche. Ma lui si difende, respinge le accuse, e si dice certo di dimostrare la sua innocenza. Con la storia degli affidi non c’entra nulla, giura, mentre quelle con la moglie erano le liti di una coppia in via di separazione. E la verità, secondo Foti, che dal 18 luglio ha il solo obbligo di dimora a Pinerolo, è una sola: «ho costruito la mia rispettabilità con 30 anni di carriera. Ma a qualcuno, forse, non sta bene. E questa nuova indagine è forse la risposta alla mia scarcerazione».

Cos’è questa storia dei maltrattamenti?

«L’ho sentita al tg. Mia moglie, parlando con un’amica, si lamentava del fatto che io trattassi male lei e i bambini. Parlava di un episodio in cui avevo rotto dei piatti. Ci stiamo separando, con qualche conflittualità, e lo facciamo usiamo termini diversi dagli insulti, ma più vicini al nostro mondo. Ma questa lite è stata spettacolarizzata. Si usa tutto, anche un normale conflitto coniugale, per distruggermi. Conosco mia moglie, sono sicuro che tutto questo finirà nel nulla».

Sua moglie ha sporto mai denuncia contro di lei?

«Assolutamente no. È stata la procura di Reggio Emilia a inviare gli atti, per competenza, alla procura di Torino. Ed è lei stessa ad ammettere pacificamente che entrambi abbiamo fatto degli errori nella nostra storia. Io mi sento attaccato, la leggo come una risposta al fatto che il Tdl abbia annullato il capo di imputazione più infamante».

Ovvero l’accusa di aver manipolato una minorenne…

«Non c’è manipolazione alcuna. La madre stessa, che in sede di sit di- ce che la figlia stava benissimo, nella prima seduta con me aveva parlato di un triplice abuso e aveva descritto in modo estremamente preciso le sofferenze che la ragazza provava prima della psicoterapia, sofferenze che io ho cercato di curare. Le registrazioni dimostrano anche i miglioramenti, seduta dopo seduta. Con quei nastri ho dimostrato che non c’è stata alcuna manipolazione».

E la frode processuale?

«Io non ho mai sentito parlare di alcun processo e in quelle registrazioni non c’è un solo accenno a procedimenti civili o penali. Io lavoro sul paziente e sui suoi problemi. E non sono mai stato chiamato a testimoniare da qualche parte».

La procura contesta le accuse sulla base di una seduta, dalla quale emergerebbe una manipolazione. Come spiega quel nastro?

«Il reato sarebbe stato compiuto tra il 2016 e il 2017, io ho portato 15 registrazioni del 2016. Rispetto al periodo in cui avrei commesso il reato non ci sono elementi di prova: gli investigatori Si sono basati su quell’unica seduta registrata nel 2018 ed è chiaro il metodo di lavoro si desume dal complesso della terapia. Io ho lavorato sul materiale che mi hanno portato la madre e la paziente. I video sono stati un colpo di fortuna per me».

Eppure, nonostante anche il Riesame abbia negato la gravità indiziaria, l’opinione pubblica è ancora contro di lei.

«Perché c’è molta confusione. Sono accusato, nel processo mediatico, di aver organizzato un giro di affidamenti retribuiti. Ma io sono uno psicoterapeuta, sono esterno al servizio pubblico, non mi occupo di affidamenti. Mi imputano qualcosa che non appartiene al mio ruolo. E non potevo incidere in quelle scelte, perché non competono me e non me ne viene in tasca nulla».

E perché crede ci sia tutto questo odio preventivo?

«Molti di coloro che mi hanno espresso odio, minacce di morte, cose terribile, vogliono bene ai bambini e sono indignati, giustamente, nei confronti della violenza sui più deboli. Ma hanno un piccolo problema: hanno già fatto il processo e si è concluso con la condanna a morte. Io dico a queste persone che il processo non si è ancora celebrato e dimostreremo che abbiamo curato correttamente dei bambini sessualmente abusati, su cui c’era una diagnosi di trauma sessuale precedente all’inizio della terapia».

Cioè?

«Una diagnosi psicosociale, fatta da psicologi, assistenti sociali ed educatori che avevano già raccolto tanti elementi. Una diagnosi di trauma sessuale non nasce dal fatto che uno è fissato con l’abuso e prende un indicatore avulso dal contesto costruendo, su un sintomo isolato, una diagnosi. Questa è una bufala. Le diagnosi da cui le terapie sono partite – e lo dimostreremo – sono una raccolta di tantissimi elementi, tra cui le dichiarazioni dei bambini, i sintomi delle loro sofferenze, le loro confidenze non solo alla rete degli operatori ma anche, a seconda dei casi, all’insegnante, ai familiari, al genitore affidatario. Dichiarazioni credibili, coerenti e ripetute».

Che idea si è fatto degli altri casi?

«Posso parlare solo dei terapeuti del centro studi Hansel& Gretel, perché conosco solo il loro lavoro. Il loro problema è che non hanno delle videoregistrazioni, perché non lo si può sempre fare. Non è facile mettere i bambini a parlare di abusi davanti ad una telecamera. Ed escludo che la selezione della trascrizione delle sedute corrisponda allo stile di lavoro di questi colleghi, non riconosco quello stile inquisitoriale. C’è sempre empatia e non si fanno mai tre domande di fila. Qualsiasi tipo di trascrizione non rende l’idea di un colloquio in cui circolano emozioni».

Condivide l’allontanamento dei minori dalle famiglie?

«Io lavoro spesso e volentieri mettendo madre e figlia insieme. Sono estreme e penosissime le occasioni in cui consiglio di stravolgere il nucleo familiare, la più straordinaria risorsa formativa. L’allontanamento è una situazione estrema».

Lei è accusato anche di concorso in abuso d’ufficio.

«Da 30 anni, con il centro studio, lavoriamo con l’ente pubblico e non ci siamo mai occupati di come lo stesso definisse le modalità di affidamento. Diamo per scontato che lo faccia seguendo le regole. Si parla di ingenti somme guadagnate tramite questi incarichi: si tratta di 135 euro a seduta che è la cifra che io, che ho 30 anni di esperienza, prendo a Torino, senza alcuno spostamento. In questo dovevo andare a Reggio Emilia, per 600 euro massimo a giornata, per due giornate al mese. Beh, in altre zone d’Italia mi pagano il doppio o il triplo e ci mettono anche il rimborso spese».

Com’è stato il giorno dell’arresto?

«Mi trovavo in vacanza, sulla Costiera Amalfitana. Non ho capito niente per un giorno o due, non mi sono reso conto di cosa si stava scatenando contro di me e contro il centro studi».

Per molti questo caso rappresenta una conferma dell’inchiesta “Veleno”, di Pablo Trincia.

«Con quella storia io non c’entro nulla, non ero presente in quella vicenda 20 anni fa. L’unica contestazione è che ho fatto una lettera aperta, firmata da 410 persone, contro quella ricostruzione. Non credo si possa contestare la libertà di pensiero. E devo dire che quell’inchiesta non rende giustizia alla vittime, che continuano ad essere fedeli e coerenti alle dichiarazioni che allora vennero prese sul serio dai giudici e in base a cui, con tre gradi di giudizio, si pervenne ad una sentenza di condanna. C’è un comitato di vittime, di cui Trincia non si è occupato, e continuano a ricordare i traumi subiti. Vittime che non hanno mai chiesto dei loro genitori naturali e non sono andati ai loro funerali».

Bibbiano, Laura Pausini si schiera: «Sono piena di rabbia nei miei pugni». Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Corriere.it. «Ho appena letto un articolo sulla storia dei Bimbi di Bibbiano. Sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni, mi sento incazzata fragile impotente». Inizia così il lungo post di Laura Pausini su Facebook, che schiera la sua popolarità su una vicenda non ancora chiarita. «Ho deciso di cercare questa storia perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese e dovrebbe essere la notizia vera di cui tutti parlano schifati. Tutta Italia». La cantante si chiede cosa si può fare e come si possa aiutare perché il caso abbia l’eco che merita: « Per chi non sa ancora di cosa parlo scrivete Bibbiano su Google e leggete. E poi scrivete su questi maledetti social che usiamo solo per le cavolate, cosa pensate di queste persone che strappano i figli alle loro famiglie. Non parlo di politica, parlo di umanità, di rispetto, di diritto alla Vita… ecco, se avete letto, ditemi sinceramente … voi non sentite di avere nelle mani degli schiaffi non dati? Non sentite la voglia di urlare? Non sentite la voglia di punire queste persone in maniera molto dura? Scusate lo sfogo ma a me manca il fiato pensando a questi bambini e alle loro famiglie che sono stati torturati psicologicamente per sempre. Se avete un figlio pensate che improvvisamente una persona della quale per altro potreste anche fidarvi, fa un lavoro psicologico tanto grave da portarveli via e affidarli ad altre persone. Come si rimedia adesso nella testa e nei cuori e nell’anima di queste persone? Ma vogliamo fare qualcosa?».

Il legale di Foti: «Non è un mostro, ma la gente è rabbiosa e cerca teste da tagliare». Secondo Girolamo Coffari, l’indagine è zeppa di sviste ed errori grossolani: «si parla perfino di elettroshock ma quel macchinario si trova su internet e gli psicologi lo usano da sempre…» Simona Musco il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Claudio Foti non avrebbe manipolato nessuna minore, convincendola di aver subito abusi che, in realtà, non ci sarebbero stati. Una convinzione che il giudice del Riesame ha maturato guardando i nastri di 15 sedute di psicoterapia, che dimostrerebbero l’inconsistenza di teorie sul lavaggio del cervello. Un dato che emerge dalla decisione di annullare gli arresti domiciliari dello psicoterapeuta 68enne, direttore scientifico della onlus “Hansel e Gretel”, da giovedì di nuovo libero, anche se con obbligo di dimora a Pinerolo, dove risiede. E che oggi fa dire all’avvocato Girolamo Andrea Coffari che dietro l’indagine “Angeli e Demoni” ci sono «errori grossolani» e polveroni. L’inchiesta, 23 giorni fa, aveva fatto scalpore, come un film horror fatto di plagi, con ore e ore di psicoterapia e suggestioni indotte attraverso impulsi elettrici, per sottrarre bambini a famiglie innocenti col solo scopo di guadagnare col sistema degli affidi. Un’indagine che riguarda 27 persone e conta 101 capi d’accusa, due soli dei quali contestati a Foti. Ma nonostante la sua posizione sia marginale, forse per la sua fama o forse per via di quei vecchi casi raccontati dall’inchiesta giornalistica di Pablo Trincia, dal titolo “Veleno” ( «una mera tesi giornalistica contestata anche dall’Anm», dice Coffari),- Foti è diventato il centro di tutto. E vittima predesignata dell’ennesimo processo mediatico, sfogatoio di una rabbia sociale cieca e superficiale.

LE ACCUSE. Sono due le contestazioni mosse a Foti. La più grave è quella di frode processuale, per aver «alterato lo stato psicologico ed emotivo di una minore». Una ragazza usata come «cavia» nell’ambito di un corso di formazione, con una psicoterapia dalle modalità «suggestive e suggerenti», che l’avrebbero convinta di aver subito abusi da parte del padre. E poi un concorso in abuso d’ufficio, perché il servizio di psicoterapia dell’Unione Comune della Val d’Enza, è finito in mano, in via esclusiva, alla sua coop senza alcun bando pubblico. Ma per il giudice del Riesame, sull’accusa più infamante non sussistono i gravi indizi di colpevolezza, mentre rimane solo l’abuso d’ufficio. Che, dice Coffari, «è una sciocchezza».

IL «MOSTRO». Nel caso di Bibbiano, dice l’avvocato al Dubbio, Foti ha una posizione marginale, fin dall’inizio. Lo è nel caso dell’abuso d’ufficio, dove si contesta ad un privato cittadino di non aver controllato «se l’amministrazione pubblica abbia osservato le regole amministrative». E quindi va subito a quell’accusa che vorrebbe Foti come un demiurgo di ricordi ossessionato dalle violenze sessuali come ragione di ogni disagio. A sostegno della tesi «due pagine di sommarie informazioni rilasciate dalla ragazza, che non dicono granché – afferma Coffari – e, soprattutto, un’intercettazione ambientale del 2018». Si tratta del corso di formazione e di frasi estrapolate da una seduta, nella quale Foti parte dal presupposto della violenza subita e da lì fa delle domande alla giovane. Come se volesse indottrinarla, per l’accusa. Ma quella non era la prima seduta per i due, bensì la ventesima, ognuna documentata da una registrazione. Precedenti che «non si possono ignorare – dice il legale – Noi abbiamo avuto la fortuna di trovare le videoregistrazioni delle prime 15 sedute, nelle quali si vede la giovane parlare spontaneamente di queste ipotesi di violenza». Foti si sarebbe così limitato a ripetere le stesse parole usate in precedenza dalla ragazza, nel tentativo, sostiene la difesa, di approfondire i suoi ricordi e ricollegarli ad un malessere grave da lei stessa lamentato.

LA «CAVIA». Per i pm la sua presenza al centro di una sala, con altri psicoterapeuti ad ascoltarla nascosti da un vetro, sarebbe stata una sorta di esperimento da laboratorio e lei un oggetto da vivisezionare. Il contesto è un corso di formazione per psicoterapeuti bandito dall’Asl, con lo scopo di formare una equipe di esperti in traumi, attraverso «il trattamento di un caso specifico». Una «prassi in tutta la psicologia clinica sistemico- relazionale dell’occidente», dice Coffari, che è anche presidente del “Movimento infanzia”.

IL PROCESSO MEDIATICO. Foti diventa il modello ideale di un orrore da buttare subito sul palcoscenico, senza garanzie, senza contraddittorio. Le carte lo descrivono come un uomo dalla personalità «brutale, violenta e impositiva», arrivando ad ipotizzare maltrattamenti sulla moglie, la ex compagna e i figli. «Questo sulla base di una telefonata in cui litiga con la moglie, anche lei psicologa che tratta maltrattamenti e abusi all’infanzia da una vita». Insomma, anziché urlarsi parolacce, i due si danno dei “maltrattanti”. «E questo basta». Perché a carico di Foti non c’è alcuna denuncia per maltrattamenti. E allora com’è diventato il mostro di Bibbiano? «Fa comodo, in un periodo in cui si cercano ghigliottine, teste da ghigliottinare», dice Coffari. Perché c’è «un clima da un prefascismo, un senso di rabbia che si deve sfogare istintivamente su dei capri espiatori».

«CONFUSIONE ED ERRORI». L’indagine, conclude Coffari, magari non è tutta da buttare e, forse, è riuscita a svelare qualche orrore. Ma gli errori, afferma, non si possono ignorare. Come quando si parla di elettroshock, «mentre si ha a che fare con un macchinario acquistabile su Amazon, usato normalmente dagli psicologi». O dell’Emdr, approccio psicoterapico riconosciuto dall’organizzazione mondiale della sanità, «trattato come una specie di sabba delle streghe». Insomma, «la mia impressione è che sia stato fatto più di un errore. E con Foti ho avuto ragione».

Quelle bufale crudeli sulla pelle dei bambini. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini. Angela Azzaro il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Nei giorni scorsi sui social girava un messaggio che accusava l’informazione di aver oscurato il caso di Bibbiano. Era un post molto sentito, molto emotivo. E diceva una marea di fesserie. In primo luogo l’accusa rivolta a giornali e tv. Se c’è infatti un caso che ha avuto una risonanza immediata, e fuori luogo, è stato proprio quello dell’inchiesta sull’affido di alcuni minori. Il commento, condiviso da migliaia di persone, faceva riferimento a centinaia di bambini strappati ingiustamente alle loro famiglie. L’inchiesta di Bibbiano, chiamata dalla procura “Angeli e demoni” a uso e consumo del processo mediatico, in realtà riguarda solo 6 casi. Ma l’opinione pubblica, abilmente strumentalizzata, ha già deciso che le persone coinvolte nell’inchiesta a vario titolo siano mostri, persone orribili che andrebbero più che processate mandate alla ghigliottina. La stessa sorte che è toccata al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti: coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di abuso di ufficio e falso in atto pubblico è invece diventato, anche grazie alle dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio, il simbolo di un sistema corrotto con cui invece non c’entra nulla anche per la procura. Bene ha fatto il Pd di Zingaretti a querelare per diffamazione il vicepremier dei 5 Stelle. Ma forse anche il Partito democratico avrebbe dovuto non solo rifiutare qualsiasi accostamento tra l’inchiesta e il proprio simbolo, ma dire che un’inchiesta non è una condanna e che soprattutto su temi così delicati bisognerebbe essere molto, ma molto cauti. Così non è stato. La conferenza stampa organizzata dalla procura di Reggio Emilia è diventata subito spettacolo, titoli sparati a tutta pagina. Si voleva l’orrore, il sangue, e si è fatto di tutto per costruirlo. Emblematici i titoli sul cosiddetto elettrochoc, in realtà un macchinario – riconosciuto dalla comunità scientifica – che non infligge scosse al paziente, ma emette suoni e vibrazioni che servono a stimolare i ricordi. Bastava leggere le carte. Ma in pochi anche nelle redazioni lo hanno fatto. Per chi ha avuto la pazienza di visionare le 270 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare la decisione del riesame di scarcerare Claudio Foti non è una sorpresa. Ma paradossalmente i giudici si basano sui fatti. Il processo mediatico no. E sarà difficile far cambiare idea a un’opinione pubblica sempre alla ricerca di qualcuno da linciare. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini: «Mi sento incazzata e impotente», ha scritto chiedendo ai suoi fan di prendere posizione. Una volta che si è creato il mostro è difficile rinunciarci.

Bibbiano, l’indagine si allarga: ricontrollati oltre 70 casi. Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. Settanta fascicoli ricontrollati dai giudici del Tribunale dei minori di Bologna. Accertamenti non soltanto sui sei casi, finiti nell’inchiesta dei carabinieri, dei finti abusi segnalati dai servizi sociali della Val d’Enza, nel Reggiano, per togliere i bambini a famiglie deboli e affidarli (con aiuti mensili sino a 1.300 euro) ad altre coppie giudicate più adatte. L’elenco comprende tutti i dossier trattati negli ultimi due anni dalla rete dei servizi sociali — con sei Comuni, tra cui Bibbiano, sede del presidio più importante, quello della struttura «La Cura» — e approdati sui tavoli delle toghe minorili. A ordinare la verifica è stato il presidente del Tribunale Giuseppe Spadaro che aveva da tempo informato la Procura di Reggio sui sospetti relativi alle tante denunce in Val d’Enza per maltrattamenti in famiglia: ma poi, senza riscontri, fioccavano le richieste di archiviazione. Il meccanismo per togliere i bambini era però già avviato con il corollario — per l’accusa — delle relazioni false per screditare i genitori «inaffidabili», i condizionamenti degli psicoterapeuti sui minori. E le modifiche ai disegni dei piccoli. Uno mostra un uomo che accarezza una bimba: ma poi si è scoperto che erano state aggiunte delle lunghe braccia. Già il primo fascicolo rivisto dallo staff di Spadaro contiene pesanti «anomalie e omissioni». In una dichiarazione di abbandono, dove i genitori naturali erano autori di violenze, il servizio non avrebbe comunicato al tribunale di avere individuato la nuova coppia affidataria. Questo contravvenendo alla sentenza che prevedeva invece un tassativo iter «concertato con i giudici». L’inchiesta — che terminerà il 26 settembre, poi si valuteranno le richieste di rinvio a giudizio — intanto prosegue: gli indagati sono saliti a 29. Tre sono sindaci o ex sindaci: uno è quello di Bibbiano Andrea Carletti. Sospeso dal prefetto e autosospesosi dal Pd «è ai domiciliari, accusato di abuso d’ufficio e falso: avrebbe assegnato dei locali a una onlus» precisa il suo avvocato Giovanni Tarquini. Sotto inchiesta per abuso d’ufficio ci sono anche gli altri due ex primi cittadini: anche loro Pd, sono Paolo Colli (Montecchio) e Paolo Buran (Cavriago), ex presidente dell’Unione Val d’Enza. Uno degli arrestati tira intanto un sospiro di sollievo. Si tratta di Claudio Foti, 68 anni, psicoterapeuta e fondatore della onlus «Hansel e Gretel» che collaborava con gli operatori reggiani. Accusato di aver manipolato una minorenne spingendola a confessare abusi inesistenti è tornato in libertà dopo che il Riesame ha revocato i domiciliari perché «non vi sono gravi indizi di colpevolezza». Lui ora dice: «Non sono un mostro. Mi hanno salvato i filmati delle sedute. Dimostrano che la mia terapia era basata sul rispetto empatico: se non li avessi trovati sarei ancora agli arresti».

Bibbiano, bimba buttata fuori dall’auto e lasciata sotto  al temporale: non confessava  i finti abusi. Pubblicato domenica, 18 agosto 2019 da Agostino Gramigna su Corriere.it. L’inchiesta «Angeli e Demoni», con al centro i servizi sociali della Val D’Enza accusati di aver redatto false relazioni per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti, si arricchisce di nuovo materiale. In nuovi audio, diffusi da un servizio del TgR Emilia-Romagna, si sente una madre affidataria che lascia una bimba sotto un temporale e la sgrida perché non parla di abusi subiti (che di fatto non sarebbero mai avvenuti). «Scendi, io non ti voglio più» — grida la donna, madre affidataria, in un’intercettazione ambientale dei carabinieri. La bambina è stata tolta alla sua famiglia. In un altro audio, la stessa donna sgrida la bimba perché non racconta su un diario di abusi subiti in passato: «Tu non ci scrivi perché c’hai paura di scrivere, perché le cose che devi scrivere adesso sono talmente profonde che non ti va più di scriverci. Non ci vuoi neanche andare vicino». Anche in questo caso gli abusi non ci sarebbero mai stati, almeno stando agli elementi emersi dall’inchiesta. Sempre il TgR Emilia-Romagna aveva mandato in onda una delle intercettazioni ambientali raccolte nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti in cui si sentono una neuropsichiatra e una psicologa dell’Ausl reggiana, indagate, conversare tra loro. In un passaggio si sente: «Comunque potevi anche dirgli guardi che lei è sposato, c’ha figli, cioè non si sa mai...». Parole seguite da una risata. Nella conversazione le due professioniste si riferivano a un maresciallo dei carabinieri che aveva chiesto loro documenti sugli affidi di Bibbiano. Audio che aveva suscitato il commento via tweet del ministro Matteo Salvini: «Pazzesco, due dottoresse del sistema Bibbiano ridacchiano tra loro minacciando i carabinieri impegnati nelle indagini sugli affidi... Che vergogna, che schifo!». Salvini, in un secondo tweet, aveva poi aggiunto: «Spero che non ci si fermi di fronte a nulla: i delinquenti colpevoli di queste mostruosità devono pagare tutto!».

Affidi illeciti, madre affidataria intercettata: "Non ti voglio più". E lascia la bambina sotto il temporale. Sgridata perché non voleva ammettere abusi mai accaduti. La Repubblica il 18 agosto 2019. Una bambina che non capisce perché non può più vedere i genitori, martellata di frasi e domande per instillarle dubbi. La stessa bimba sgridata perché non parla di abusi subiti - ma che non sarebbero mai avvenuti - e cacciata per punizione dall'auto dalla madre affidataria mentre fuori c'è un temporale. Il quadro sui presunti affidi illeciti della Val d'Enza, il "caso Bibbiano", descritto dall'inchiesta "Angeli e Demoni" della Procura di Reggio Emilia si arricchisce di nuovi dettagli: gli audio delle intercettazioni di alcuni indagati. Dopo le due professioniste che ridono di un maresciallo dei carabinieri, ora ci sono gli aspri rimproveri di questa madre affidataria a una bimba tolta alla sua famiglia naturale. Con tanto di punizione sotto la pioggia. "Scendi, non ti voglio più. Io non ti voglio più, scendi, scendi!", così grida la donna, indagata dalla Procura reggiana, in un'intercettazione ambientale mandata in onda dal TgR Emilia-Romagna in un servizio di Luca Ponzi. La testimonianza audio amplifica la drammaticità di un episodio che era già emerso dalle carte dell'inchiesta. I giudici descrivono una bambina oggetto di vessazioni psicologiche del tutto gratuite, dettate dall'esigenza di denigrare i genitori naturali. La piccola viene sbattuta fuori dall'auto in una giornata di pioggia del 20 novembre, come punizione per il fatto che non voleva ammettere di 'pensare' quello che la madre affidataria riteneva che Anna (nome di fantasia della bimba, ndr), stesse "pensando". La donna intima alla bambina di rivelare il male fattole dai genitori naturali. "Pensi che? - dice - Anna pensa che??? (urlando sempre di più, ndr) Daii! Quando mi vedi davanti al telefono Anna pensa che??? Dai dillo!!!" La bimba dice che non riesce a parlare con la donna e che ritiene di avere ragione. A questo punto l'affidataria ferma la macchina e urla "Porca puttana... porca puttana vai da sola a piedi... porca puttana! Scendi! Scendi! Non ti voglio più". Si sente aprire lo sportello e si sente lo scrosciare della pioggia. La donna continua: "Io non ti voglio più, scendi!". La bimba appare impaurita e dice con voce tremolante: "Perché..." C'è poi un altro audio mandato in onda oggi. È la stessa donna che parla alla medesima bambina, ma stavolta le rimprovera di non mettere nero su bianco su un quaderno gli abusi che avrebbe subito in passato: "Tu non ci scrivi - dice - perché c'hai paura di scrivere, perché le cose che devi scrivere adesso sono talmente profonde che non ti va più di scriverci. Non ci vuoi neanche andare vicino". E dagli atti la conversazione prosegue, sempre urlando: "Anziché dire... io sono così perché mi è successo questo! Piuttosto che dare la colpa a quelli che ti hanno fatto male dai la colpa a quelli che ti vogliono bene!". "Anziché dire sono stati loro (i genitori naturali, ndr) a farmi male no... sono Michela e Andrea (nomi di fantasia della coppia affidataria, ndr) che mi sgridano... troppo comodo". Abusi che però, stando all'inchiesta, la piccola non avrebbe in realtà mai subito. La bambina è infatti protagonista di un altro dialogo intercettato e citato nell'ordinanza per spiegare come i bambini venissero di fatto plagiati, in modo da formare false relazioni. "Ma io non mi ricordo perché non li posso più vedere", diceva la bambina nell'ottobre 2018. "Ma non ti ricordi che hai detto che (tuo padre, ndr) non lo volevi più rivedere? Io ricordo questo", risponde una psicologa, indagata. Ma la bambina: "Non ho detto questo". "Sì, hai detto che non volevi vederlo perché avevi paura che ti facesse del male", le rispondeva l'affidataria. L'inchiesta ha portato a fine giugno a 18 misure cautelari e si è concentrata su 6-7 casi e alcune figure chiave. Uno scandalo diventato terreno di scontro politico perché tra gli indagati, ora ai domiciliari, c'è anche il sindaco Pd di Bibbiano, Andrea Carletti, accusato di abuso d'ufficio e falso ideologico. Il leader della Lega Matteo Salvini oggi torna a gridare "vergogna", "sono dei mostri, non esseri umani. Per loro tanta galera e nessuna pietà". Il Movimento 5 Stelle, in una fase politica di equilibri sul filo del rasoio, però lo incalza e gli chiede con quale "coraggio" parli, sostenendo che con la scelta di provocare la crisi ha "mandato in fumo le speranze delle vittime di questo sistema illecito". Il riferimento è alla task force per il monitoraggio nazionale sugli affidi avviata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e ora "bloccata perché Salvini desidera più poltrone in Parlamento".

Bibbiano, intercettate due psichiatre: "Anche il maresciallo ha figli, non si sa mai..." Nella conversazione la minaccia al carabiniere che aveva chiesto i documenti sugli affidi. Costanza Tosi, Sabato 17/08/2019 su Il Giornale. Non bastavano le minacce ai genitori dei bambini in affido. Gli assistenti sociali della Val d'Enza avrebbero addirittura pensato di intimidire pure i carabinieri. È quanto emerge da alcune intercettazioni - rese note dal Tg3 Emilia-Romagna - che aggiungono dettagli sempre più inquietanti al caso Bibbiano e che fanno pensare che i “demoni” degli affidi illeciti sapessero i rischi che stavano correndo e, pur di scamparla, fossero pronti a tutto. A parlare sono due neuropsichiatre. Durante la conversazione al telefono in cui discutono di un maresciallo dei carabinieri che si era rivolto a loro per richiedere alcuni documenti sugli affidi di Bibbiano, ad un certo punto, una delle due dottoresse esordisce dicendo “…E comunque potevi anche dirgli guardi che lei è sposato, c'ha figli, cioè non si sa mai…”. Poi una risata, probabilmente di risposta, da parte della collega. Un’intimidazione, una minaccia velata, persino nei confronti di un pubblico ufficiale. E perché proprio dopo la richiesta delle prove sugli affidi? Forse tutti sapevano l’illeicità di quello che stavano compiendo e nonostante avessero capito di essere finiti nell’occhio del ciclone perseveravano nell’errore, cercando persino di sviare le indagini. Dopo tutto non stupisce che questo fosse il modus operandi degli indagati. Lo avevano già fatto anche nei confronti di due genitori affidatari. Quando i carabinieri li chiamarono a consegnare le ricevute dei pagamenti inerenti all’affido, i due avvertirono del fatto gli assistenti sociali, che iniziarono a sommergerli di raccomandazioni. “Mi raccomando se fanno domande particolari rispetto a valutazioni…non rispondete - ordinava l’assistente sociale riferendosi al colloquio con gli ufficiali - soprattutto se vi fanno domande non adeguate vi devono spiegare…voi chiedete perchè vi stanno chiamando…qual è l’oggetto”. Ancora una volta, dalle intercettazioni pubblicate nell’ordinanza della Procura, gli psicologi appaiono preoccupati per le indagini e cercano, ad ogni costo, di sviare i controlli. “Menomale che me lo avete detto va… - diceva, sollevato, l’assistente sociale ai genitori - “ma non vi fate intimorire dalla divisa voglio dire…” Al momento per le due neuropsichiatre non è stato contestato il reato di minacce a pubblico ufficiale, sebbene, secondo gli inquirenti, vi fossero i presupposti. Intanto le indagini continuano, e non è escluso che possa aggiungersi alle ipotesi di reato a seguito di ulteriori approfondimenti.

Business o solidarietà? Le anomalie del sistema affidi del Lazio. Letizia Giorgianni 18 Agosto 2019 su lavocedelpatriota.it. La storia che stiamo per raccontarvi non parla solo di una mamma a cui  è stata portata via, senza apparente motivo, la sua unica figlia, ma suggerisce anche l’inquietante ipotesi di un conflitto di interessi nella gestione dell’affido. Non siamo a Bibbiano ma nel Lazio. La mamma, antropologo medico, seguita dall’avvocato Fernando Ciurlia, ci racconta che sua figlia da ben sette mesi, vive in casa famiglia senza motivo alcuno, tanto che presenta un esposto contro i servizi sociali, ai loro ordini regionali e nazionali che infatti aprono un’indagine di controllo. Ci racconta che, dopo la conclusione del suo matrimonio, i servizi sociali hanno permesso, non opponendosi, che sua figlia vivesse in totale stato di abbandono per oltre un anno presso il domicilio paterno, ignorando tra l’altro il decreto di un tribunale che riteneva il padre non “all’altezza del compito genitoriale”. In un anno la ragazzina, senza la vigilanza attenta del padre, diventa irriconoscibile: si infligge lesioni per ben tre volte (taglio di un polso e ustioni); il suo stato psicologico è “devastato” come riferisce la terapeuta consultata dalla madre (atteggiamenti autistici, psicosi, alienazione dalla realtà, aggressività incontrollata) arrivando persino a rifiutare ogni contatto con la mamma, che pur ha sempre provveduto attentamente a lei, come possiamo anche dedurre dal fascicolo dell’intera vicenda. “Mia figlia era una ragazzina sana e felice prima che il padre me la portasse via. Del resto lui l’aveva già abbandonata per 4 anni per il suo rancore nei miei confronti poiché scelsi di chiudere la mia relazione con lui. Di questo rancore e delle sue intenzioni, che ha persino ammesso dinanzi ai servizi sociali e agli psicologi, ne sono informati tutti, eppure gli assistenti sociali hanno permesso che mia figlia si trasferisse da lui. I tribunali sono lentissimi quando non assenti: emettono decreti che poi mancano di far rispettare o emessi in totale assenza di informazioni poiché mai relazionate, senza leggere le relazioni esistenti, senza mai ascoltare la minore o i genitori; senza vagliare le prove, o basandosi su relazioni assolutamente false.” La ragazzina  adesso vive nella casa Famiglia Borgo Don Bosco, a Roma, dove lei stessa avrebbe deciso di rimanere. Stiamo parlando di una bambina che ha subito il trauma della separazione dei genitori, e che, come capita a molti minori in frangenti del genere, si è chiusa in se stessa, probabilmente accusando i propri genitori, in particolar modo la mamma, della conclusione della convivenza. Ma davvero pensiamo che una bambina di appena 14 anni, possa comprendere lucidamente e metabolizzare la fine della relazione dei genitori? e quindi decidere da sola su cosa sia più giusto per lei? Tra l’altro la madre riferisce che nel periodo in cui  viene affidata alla tutela del padre, a causa del disinteresse di quest’ultimo, avrebbe goduto di una libertà eccessiva per la sua età, che l’avrebbe portata, tra l’altro, ad episodi e situazioni che non si addicono ad una ragazzina. Ovvio che tornare a vivere con la mamma avrebbe interrotto quella condotta “senza nessuna limitazione”. Ci immagineremo che il ruolo delle istituzioni fosse quello di gestire con tatto e prudenza questa situazioni delicate, sempre tenendo ben chiaro in mente che crescere in famiglia dovrebbe essere il primo diritto inviolabile per ogni bambino; lo dicono  le leggi italiane. E lo Stato, le Regioni ed i Comuni dovrebbero prevenire le cause degli allontanamenti, non favorirli, almeno quando almeno un genitore sia nelle condizioni di occuparsi come si deve del proprio figlio. In questo caso invece, dopo la separazione della coppia, si è prima favorito l’affido al padre, (che un decreto del tribunale aveva dichiarato incapace di prendersi cura della figlia), per poi far decidere una bambina traumatizzata dalla separazione dei genitori, dove vivere. Ma chi sono gli attori di questo allontanamento? Il servizio sociale del Municipio di pertinenza ovviamente: il Municipio V di Roma. Abbiamo quindi raccolto informazioni su questo Municipio. L’assistente sociale che si è occupata della ragazzina, nonchè referente tecnico-amministrativo del Municipio V, partecipa spesso a convegni sull’affidamento organizzati o dove comunque partecipa” Movimento della famiglie affidatarie” una costola dalla quale nasce il Borgo Don Bosco, dove si trova la ragazzina (notizia facilmente riscontrabile anche nel sito internet della casa Famiglia. Di questi intrecci tra servizi sociali e associazioni che si occupano di affidi troviamo tracce anche nel web, dove scopriamo che il Municipio V, anni fa era coinvolto anche nella campagna ” Donare Futuro“, promossa per tutelare il diritto di bambini e ragazzi ad avere una famiglia, il V Municipio per Roma si fa proprio portavoce. Non solo: i servizi sociali del V Municipio,  insieme alla casa famiglia Don Bosco e CISMAI hanno realizzato, nel marzo 2019, un nuovo piano per la regolamentazione degli affidi nel Lazio, approvato dalla Regione Lazio. Tra i firmatari come possiamo vedere la costellazione completa di tutte queste associazioni che spesso hanno collegamenti diretti con il Municipio. Sempre in rete possiamo anche scoprire l’entità dei contributi che arrivano dalla Regione: la Regione Lazio (giunta Zingaretti)  ha stanziato 9 milioni di euro per la tutela dei minori. In questo modo l’ente disciplina le regole in materia di affidi, conferendo un ruolo primario ai distretti socio-sanitari che abbiamo prima elencato. A noi sembra che ci siano tutte le premesse affinché qualche magistrato decida di approfondire. Anche perchè non sembra essere l’unico caso di affido “sospetto”. Scopriamo di un altro caso simile, di cui si sta occupando l’avvocato Miraglia, in cui il giorno dopo l’emissione del decreto, i servizi sociali del Municipio V di Roma avevano già trovato una casa famiglia in cui alloggiare il ragazzino. Anche qui si tratta di un ragazzino che aveva vissuto la separazione, in questo caso abbastanza conflittuale, dei propri genitori.  Ma perché tanta fretta? se lo chiede anche l’avvocato Francesco Miraglia. Che pressioni hanno avuto? “Mi meraviglio di tanta celerità – si legge in una sua dichiarazione – dimostrata in questo caso dal Tribunale dio Roma, dove io stesso ho cause pendenti da tempo per le quali non è stata ancora emessa sentenza”. Non ci meravigliamo quindi se, sempre in rete, troviamo traccia di una protesta promossa proprio dagli assistenti sociali del V Municipio contro una norma che impone agli assistenti sociali di cambiare settore ogni 5 anni, eccolo qua su Redattoresociale.it. Ed ecco subito che loro insorgono: “così si distrugge la relazione, strumento principale della professione!”. Maliziosamente ci domandiamo quali siano veramente le relazioni che rischiano, con questa norma (peraltro giustissima a nostro avviso) di sgretolarsi. Certo che questo V Municipio non è certo un esempio virtuoso, perché già che ci siamo in rete troviamo un altro episodio a dir poco indicativo dell’operato interno: permessi di soggiorno falsi e finti contratti d’affitto, nel V municipio si favoriva persino l’immigrazione clandestina, tanto che a finire nei guai sono state 13 persone. Coinvolti anche impiegati comunali. La notizia risale al 31 luglio scorso. A questo punto.. non sarà il caso di far chiarezza anche sul sistema affidi Lazio? ho come l’impressione che avremo diverse sorprese!

Bibbiano, Colosimo: «S’indaghi anche nel Lazio: serve una commissione d’inchiesta». Il Secolo d'Italia martedì 30 luglio 2019. Una commissione d’inchiesta sugli affidi. Anche nel Lazio. La chiede FdI, «alla luce di quanto emerge dall’inchiesta su Bibbiano». A farsi promotrice dell’iniziativa è la consigliera regionale, Chiara Colosimo, che rilancia anche a livello regionale quando già chiesto da Giorgia Melonia livello nazionale, con la richiesta dell’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare.

La politica chiamata a fare la sua parte. «Alla luce di quanto emerge dall’inchiesta Bibbiano sugli arbitri compiuti nelle procedure di affidamento di bambini, come già proposto da Giorgia Meloni a livello parlamentare, ritengo sia indispensabile abbinare al buon lavoro del garante Jacopo Marzetti (Garante per l’Infanzia del Lazio, ndr), un serio intervento dei consiglieri regionali che, nel pieno esercizio delle loro funzioni ispettive, conducano approfondite indagini sull’operato di assistenti sociali, associazioni, operatori e comunità attive nel Lazio», ha spiegato Colosimo, nel giorno in cui le rivelazioni di una assistente sociale “pentita” hanno svelato ulteriori dettagli sul “metodo Bibbiano”.

A tutela dei bambini. «Nelle prossime ore presenterò la mia proposta di legge per chiedere l’istituzione della commissione d’inchiesta, come prevede l’articolo 35 dello statuto della nostra Regione», ha quindi annunciato Colosimo.

Bibbiano, Pd Lazio querela autori blitz circolo dem Ciampino. "Organizzato da Gioventù Nazionale con alcuni esponenti di FdI". Askanews.it Giovedì 8 agosto 2019. “Il Partito democratico del Lazio, come annunciato poche ore l’aggressione, ha depositato presso il comando dei carabinieri di Frascati la denuncia-querela contro gli autori del blitz, organizzato da Gioventù Nazionale col sostegno di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, ai danni del circolo dem di Ciampino”. Lo comunica in una nota l’ufficio stampa del segretario del Pd Lazio, Bruno Astorre. I fatti risalgono alla notte del 24 luglio scorso quando alcuni esponenti di Gioventù Nazionale attaccarono di notte manifesti sulla sede del Pd di Ciampino con accuse per i  fatti di Bibbiano.

Lazio, striscione "Parlateci di Bibbiano" in consiglio regionale: il Pd abbandona l’aula. Alessandro Della Guglia su Ilprimatonazionale.it il 31 Luglio 2019. Durante il consiglio regionale straordinario sulla sanità, subito dopo l’intervento del governatore Nicola Zingaretti, i consiglieri leghisti Laura Corrotti, Daniele Giannini e Orlando Tripodi, hanno esposto uno striscione con scritto “Parlateci di Bibbiano”. Uno striscione identico a quelli comparsi in tutta Italia due settimane fa, ovvero con la P rossa e la D verde. Inequivocabile dunque il riferimento alle iniziali del Partito Democratico. Rimosso quasi subito dai commessi, lo striscione (quando è stato esposto il segretario del Pd non era presente in aula) ha però scatenato una bagarre in consiglio. Il centrosinistra si è infuriato e quando hanno preso la parola i consiglieri della Lega, invece di replicare in qualche modo hanno abbandonato l’aula.

Zingaretti: “Hanno fatto bene ad abbandonare l’aula”. Zingaretti, rientrato pochi minuti dopo, ha difeso con veemenza il gesto dei suoi: “Vorrei mettere agli atti che bene hanno fatto consiglieri a uscire dall’aula, perché hanno denunciato l’impossibilità ad avere confronto quando ci sono pratiche di battaglia politica che ritengo inaccettabili. Io sono il presidente e non mi lascio scalfire da atteggiamenti di questo tipo e rimango – ha detto Zingaretti – ma reputo quanto accaduto gravissimo. Mi vengono in mente delle parole di Hannah Arendt quando denunciava in periodi difficili per le democrazie che non ci si confronta più tra idee diverse, ma si punta a demonizzare chi le idee le esprime. Io sono qui e se avete un canale diretto chiamate il vostro leader Salvini, che è atteso da circa un mese in Parlamento per parlare dei fondi russi: io non ho paura di riferire in Consiglio in quanto presidente di questa istituzione”. Eppure il confronto sul tema in questione a rifiutarlo sembrano essere proprio gli esponenti del Partito Democratico. Alessandro Della Guglia

Bibbiano, domanda di una giornalista a Zingaretti: lui ride e dà la colpa al M5S. Nicola Zingaretti ride del caso Bibbiano. Il M5S pubblica un video in cui il segretario del Pd Nicola Zingaretti scoppia a ridere quando una giornalista gli domanda del caso Bibbiano. Domenico Camodeca (articolo) e Pierluigi C. (video) su Blastingnews il 21 luglio 2019.  Il caso Bibbiano - paese della provincia di Reggio Emilia dove alcuni assistenti sociali e politici del Pd sono accusati di aver strappato illegalmente diversi bambini alle loro famiglie per affidarli a coppie di amici - comincia a montare sui mass media. Dopo giorni, settimane forse, in cui i fari mediatici si erano sì accesi sul presunto scandalo dei bambini ‘rubati’, ma senza attirare l’attenzione che sarebbe dovuta, vista la gravità dei fatti, ora le continue denunce, provenienti soprattutto da M5S e Lega, stanno fungendo da detonatore per l’opinione pubblica. Prima è toccato al leader pentastellato, Luigi Di Maio, beccarsi una querela dal Nazareno per aver definito il Pd come il “partito di Bibbiano”. Poi è stata la volta di Matteo Salvini annunciare una sua imminente visita nella cittadina reggiana allo scopo di non lasciare impuniti quelli che considera senza dubbio dei “crimini”. Ora la palla ripassa nel campo del M5S che pubblica un video (guarda qui sotto) sul suo profilo Facebook ufficiale per mostrare la reazione del segretario Dem a una domanda sulla vicenda: lui ride e punta il dito contro i grillini.

Il video del M5S che mostra le risate di Zingaretti su Bibbiano. “Attenzione, ascoltate attentamente come risponde zingaretti alla giornalista sui fatti di Bibbiano. Guardate questo video e fate vedere a tutti la sua reazione vergognosa”. Sono queste le parole mostrate in sovrimpressione dal M5S per presentare il breve video, della durata di soli pochi secondi, che immortala Nicola Zingaretti mentre si abbandona a una reazione scomposta alla richiesta di una giornalista di illustrare la sua posizione sul caso Bibbiano.

M5S PD. “Mi scusi posso farle una domanda?”, chiede l’inviata della testata Prima Pagina a Zingaretti. “Su cosa?”, risponde inizialmente con aria distratta il segretario del Pd. “Bibbiano”, specifica secca la cronista. “Ahahahahah”, il governatore del Lazio esplode in una risata e cerca di divincolarsi per andarsene. Ma la donna insiste. “Segretario, una domanda su Bibbiano. Perché se ne parla così poco?”, lo incalza. “Ne parla in maniera vergognosa il M5S”, si decide allora a rispondere, sempre con un sorriso stampato in faccia, ma puntando il dito contro i rivali politici pentastellati.

Le reazioni social contro il segretario del Pd: Buffone. Una reazione talmente inaspettata e spiazzante, quella messa in scena da Zingaretti sul caso Bibbiano, da indurre il M5S a commentare così quanto appena mostrato sul web: “La sua risatina nervosa e le sue accuse al M5S dicono tutto dell’imbarazzo Pd rispetto alle drammatiche vicende in cui è coinvolto un loro Sindaco”. Insomma, l’inchiesta di Bibbiano starebbe mettendo in forte difficoltà i vertici del Nazareno che cercano quindi di scaricare la responsabilità su chiunque osi accusarli. “Voteranno no alla nostra proposta di Commissione di inchiesta sugli affidi dei minori?”, si chiedono infatti ironicamente i pentastellati. Intanto, però, il web, almeno quello colorato di gialloverde, ha già emesso la sua sentenza. “Buffone - si legge in uno delle migliaia di commenti indignati apparsi a corollario del video - hanno attaccato per mesi il papà di Di Maio per materiali nella sua proprietà. Era l’argomento di tutti i tg. E su questo fatto Zingaretti ride. Vergogna”.

Il delirio dei 5S: anche su Bibbiano accusano Salvini. L’ira della base: «Siete ridicoli». Giovanna Taormina domenica 18 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Adesso accusano Salvini anche dell’orrore di Bibbiano. «Che coraggio, Salvini. E per giunta su un tema delicato e tragico come i presunti affidi illeciti di Bibbiano». L’ultimo delirio dei 5S è comparso sul Blog delle Stelle.  Sono così disperati da diventare ridicoli e confondono la politica con le indagini. E vogliono avere anche ragione. In apertura del blog c’è l’articolo dal titolo: “Bibbiano, ora Salvini ha pure il coraggio di parlare». «Peccato però – si legge – che Salvini abbia fatto cadere il governo. Lo stesso leader della Lega che, oggi, si sveglia e twitta parole di denuncia e condanna a carico delle “due dottoresse” che “ridacchiano tra loro minacciando i Carabinieri” e aggiungendo poi “che vergogna, che schifo”».

L’ultima follia dei 5S. Quello che si legge è a dir poco allucinante. «Ma Salvini, che ha fatto cadere il governo in pieno agosto esponendo tutti gli italiani a rischi gravissimi, dove trova la faccia per fare queste uscite? Ormai lo sanno tutti che con il suo gesto irresponsabile ha mandato in fumo anche la speranza delle vittime di questo sistema illecito. Non solo, Salvini ha soprattutto bruciato il prezioso lavoro che la Squadra speciale per la protezione dei minori, istituita dal ministro Bonafede e pienamente operativa, stava già facendo a ritmo serrato». E poi ancora rincarano la dose: «Un’attività di monitoraggio che, sulla base del campanello d’allarme di Bibbiano, avrebbe dovuto fare piena luce su questi sistemi, per evitare il ripetersi – in tutta Italia – di fatti di una gravità inaudita. Un’attività che adesso si è bloccata perché Salvini desidera più poltrone in Parlamento». «Una cosa è certa: il MoVimento 5 Stelle continuerà a battersi in ogni sede per fare giustizia. Per noi la parola data ai cittadini ha un valore sacro. La Lega invece si porterà sulla coscienza l’aver negato una possibilità fondamentale a tutte le famiglie che chiedono giustizia! A Salvini lasciamo i suoi tweet inutili, che servono solo a una dannosa propaganda che gli italiani hanno smascherato e che non ha più senso. Noi invece facciamo i fatti», assicurano i cinquestelle.

I grillini insorgono sul web. I commenti dei grillini in risposta all’articolo sono tutt’altro che lusinghieri. Scrive un utente: «Continuare a insistere e insistere sta diventando patetico e stucchevole. Io, convinto elettore del M5S, mi sto stancando e indispettendo. Ma lo vogliamo proprio battere nel ridicolo? E poi molti articoli ripetono spesso le stesse cose. Ci avete forse presi per “dementi”? Un po’ di pacatezza e silenzio, per favore». E un altro aggiunge: «Demonizzate Salvini e coi demoni di Bibbiano vi preparate a governare, traditori». Profetico un altro grillino: «Se si votasse a ottobre Salvini avrebbe il 40% Voi invece preferite l’inciucio con il Pd. Così facendo si voterà probabilmente l’anno prossimo e Salvini sarà salito nei consensi. Chissà, forse avrebbe anche il 50%. Brutto modo di sparire. Il Pd non è e mai sarà credibile».

Bibbiano, Prodi attacca i media: "Demonizzazione folle di un paese". "Questi media, debbono trovare un demonio, questo è uno dei problemi della nostra società moderna". Costanza Tosi, Venerdì 09/08/2019, su Il Giornale. Del caso Bibbiano sembra che non se ne parli mai abbastanza. Lo scandalo degli affidi illeciti, denunciato dalla Procura di Reggio Emilia, ha scoperchiato un giro di affari che ha distrutto, senza ritegno alcuno, intere famiglie e cambiato la vita a migliaia di bambini. Famiglie, che oggi chiedono giustizia e che sperano che nessuno lasci più cadere il silenzio sul loro dramma. Eppure, per qualcuno, il problema stà altrove. A intervenire su “Angeli e Demoni” ci ha pensato anche Romano Prodi. Il Professore ha rilasciato un intervista all’emittente locale Telereggio, accettando di parlare del caso scoppiato nel reggiano. Per Prodi , il vero problema di tutta questa storia sono i media e il loro atteggiamento. "La demonizzazione che viene fatta di un intero paese appartiene proprio alla follia, soprattutto per un problema come questo che andava ben oltre i confini", ha detto Prodi. "Questi media, debbono trovare un demonio, questo è uno dei problemi della nostra società moderna. (…) I media che schiacciano con uno slogan, tolgono ogni approfondimento di un problema, al di là di quello che possa decidere un giudice". Eppure, leggendo le carte della Procura di Reggio Emilia, non sembrerebbe che ci sia bisogno dei media per individuare i "demoni" di questa atroce storia. "Il sistema di demonizzare un' intera collettività - continua il Professore - legandola alle radici politiche è un sistema che dovrebbe essere ripudiato in ogni società con senso comune". Insomma, che chi ne parla stia "demonizzando Bibbiano" sembra essere la nuova trovata della sinistra progressista per giustificare il proprio silenzio su Bibbiano. Ci aveva già provato Nicola Zingaretti a travisare la questione attaccando la narrazione sui fatti di Bibbiano. Il leader del Pd aveva puntato il dito contro il governo, che dichiarando di voler tenere accesi i riflettori sul caso del reggiano, secondo lui, "strumentalizza e utilizza" la vicenda. Adesso si cambia musica, e anche il sindaco pd di Reggio Emilia, Luca Vecchi, aderisce al nuovo "slogan": "La demonizzazione di Bibbiano che scaturisce nella narrazione nazionale è barbara e inaccettabile", ha dichiarato alla Gazzetta di Reggio. "Una cosa è accertare responsabilità, violazioni, illeciti o addirittura abusi che se saranno accertati vanno severamente condannati. Altro è demonizzare un' intera comunità". Insomma, se si parla di Bibbiano accennando alla parola Pd è "demonizzazione". Ma trovare un altro modo per raccontare la questione non è cosa facile, dal momento che, non solo il sindaco di Bibbiano del Partito Democratico, Andrea Carletti è agli arresti domiciliari e altri due sindaci dem, a capo di paesini del reggiano, sono finiti nel registro degli indagati, ma il sistema della Val D’enza, ora finito sotto accusa, è da sempre stato sostenuto dal Partito democratico, in Emilia e non solo. La sinistra portava il modello come esempio da seguire e sponsorizzava il modus operandi del gruppo degli indagati. Intanto a Bibbiano ieri è arrivato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. "Sono avvenuti fatti, che se confermati, sono molto gravi e dobbiamo avere fiducia nella magistratura», ha affermato il ministro. "Ma gli operatori devono poter lavorare serenamente e ai bibbianesi dico che si può ripartire. Si deve ripartire individuando le responsabilità. Non si riparte chiudendo gli occhi", continua Bonafede. Che promette di tenere alta l’attenzione: "Non si metterà una pietra sopra a nulla di quello che è successo perché sarebbe un grave torto ai bambini e alle famiglie che hanno subito quello che hanno subito. Quindi si riparte con gli occhi bene aperti su quello che è successo in passato e su quello che non dovrà più accadere in futuro". Per il Pd invece, parlare ancora delle famiglie vittime del sistema perverso, pare non essere la cosa più importante. A Cavriago con Bonafede era presente anche Graziano Delrio, che ha ben pensato di sfruttare l’occasione per difendendere ancora il sindaco Carletti: "Non è implicato in nessun modo nella violenza sui minori ma è indagato per un abuso d' ufficio. Non vogliamo che sia messo sotto processo un sistema che tende a proteggere i più fragili". In realtà, se i fatti fossero confermati in aula di tribunale, il sistema di Bibbaino i più fragilinon li ha mai protetti.

Affidi, la Ferilli dice la sua: "Non esiste un caso Bibbiano". L'attrice "salva" il Partito Democratico e sostiene che non esiterebbe un caso Bibbiano, bensì un caso Foti, in riferimento allo psicologo. Pina Francone, Martedì 06/08/2019 su Il Giornale. "Io non credo che esista un caso Bibbiano", parola di Sabrina Ferilli. L'attrice romana ha commentato l'inchiesta Angeli e Demoni e lo fa con cognizione di causa, avendo da poco trattato la delicata e controversa tematica degli affidi dei minori nella fiction L'amore strappato, una serie che ha raccontato la storia di una bambina allontanata dalla sua famiglia per le false accuse di abusi sessuali della cugina nei confronti del padre. La 55enne, intervistata da Il Fatto Quotidiano, dice: "A Bibbiano bisogna capire chi ha sbagliato e in che termini, ma quello che è accaduto lì è quello che probabilmente è accaduto nella Bassa modenese e in tanti altri centri e tribunali d'Italia. Il problema non è il luogo, ma la metodologia utilizzata da questi psicologi per interrogare i bambini sui presunti abusi". Insomma, l'attrice, semmai, punta il dito contro gli psicologi, come Claudio Foti, psicoterapeuta della onlus torinese Hansel e Gretel coinvolto nell'inchiesta Angeli e Demoni della procura di Reggio Emilia sugli affidi illeciti. Per cui, per la Ferilli, sarebbe più opportuno parlare di "caso Foti". Infine, "salva" il Partito Democratico locale, non riconoscendolo colpevole: "Certo, quella è terra di sinistra, ma quando si parla di Emilia Romagna si parla pure di un territorio dove ci sono asili che funzionano, di metodi educativi che sono d’esempio per il resto del Paese, messi in piedi anche dalla sinistra. Come al solito la sinistra è incapace di prendersi i meriti e capace solo di prendersi gli schizzi di fango [....] Il Pd dovrebbe ricordare tutto quello che la sinistra ha fatto in tema di affidi, reinserimento, istruzione per i bambini e poi dire 'A Bibbiano siamo i primi che vogliono vedere puniti i colpevoli'. Ecco, serviva questo. L’Emilia è all’avanguardia su tante cose, la sinistra è ed è stata al centro di battaglie fondamentali per i diritti dell’infanzia, se ci dimentichiamo pure questo, ci resta solo il Papeete".

Il sindaco di Mantova chiama la polizia contro gli adesivi "Parlateci di Bibbiano". Il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, ha dichiarato guerra agli adesivi “Parlateci di Bibbiano”, comparsi sui bidoni della città, tanto da esser pronto a chiamare la polizia. Francesco Curridori, Sabato 24/08/2019, su Il Giornale. Il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, ha dichiarato guerra agli adesivi “Parlateci di Bibbiano”, comparsi sui bidoni della città, tanto da esser pronto a chiamare la polizia. “Qualche cretino ha pensato bene di imbrattare diverse parti di piazza Virgiliana e del centro con questi adesivi. Di Bibbiano parleranno le indagini che sono in corso. Intanto qui, che siamo a Mantova, ho chiesto alla Polizia Locale di verificare le telecamere per beccarli e sanzionarli per bene", ha scritto Palazzi sottolineando che il Comune sta "spendendo milioni per rendere più bella e pulita la città" e, pertanto, "i responsabili pagheranno tutti i costi per ripulire”. Letizia Giorgianni su 'La Voce del Patriota' fa, però, notare le reazioni polemiche dei concittadini che postano foto di striscioni abusivi esistenti da mesi e mai rimossi. “Mantova è piena di adesivi “imbrattanti”, - scrive un utente – come ad esempio quello di eQual, associazione che fa iniziative di interesse sociale. A me non danno fastidio e non credo che tu abbia elevato sanzioni al loro indirizzo. Quindi un po’ di coerenza”. Il sindaco Palazzi, oggi, si è difeso dagli insulti ricevuti dai social "da diversi attivisti di Casa Pound" e ha respinto le accuse di "doppiopesismo". "Oggi lo Spazio sociale La Boje ha definito la nostra politica fascistizzazione del centro storico, perché abbiamo messo telecamere, più luci, operatori nei parchi e perché sanzioniamo chi imbratta. In sostanza sarei comunista e fascista insieme", ha scritto in un nuovo post su Facebook dove ha rivendicato l'uso delle telecamere per dare sicurezza ai cittadini nei quartieri più degradati. "Vengano nel mio quartiere e parlino con le nonne che da quando ci sono le telecamere e le luci nuove escono più sicure la sera, per andare alla tombola sociale", ha scritto con vena polemica. "Ciò detto ciascuno ha il diritto di manifestare il proprio pensiero, dissenso e anche disobbedienza civile, che in democrazia è assolutamente preziosa, se rispettosa del prossimo e dei valori costituzionali", ha chiosato dichiarando nuovamente guerra agli imbrattatori di destra e di sinistra.

“Parlateci di Bibbiano” e il Sindaco PD chiama la Polizia per qualche adesivo.  Letizia Giorgianni su lavocedelpatriota.it il 24 Agosto 2019. La questione affidi illeciti provoca sempre dei gran travasi di bile tra gli esponenti Pd. Appena sentono parlare di Bibbiano partono con le minacce e le querele. L’ultimo a cui è saltata la mosca al naso è il sindaco Pd di Mantova, Mattia Palazzi che ieri, dalla sua pagina Facebook, ha promesso ferro e fuoco a chi ha imbrattato con degli adesivi i cassonetti di Piazza Virgiliana. “Parlateci di Bibbiano” c’è scritto nelle etichette incriminate, e lui tuona nevrastenico, dal suo profilo social: “Qualche cretino ha pensato bene di imbrattare diverse parti di piazza Virgiliana e del centro con questi adesivi – ha scritto nel post. Di Bibbiano parleranno le indagini che sono in corso. Intanto qui, che siamo a Mantova, ho chiesto alla Polizia Locale di verificare le telecamere per beccarli e sanzionarli per bene. Stiamo spendendo milioni per rendere più bella e pulita la città. I responsabili pagheranno tutti i costi per ripulire”. Solo che nella foto, oltre agli adesivi, compare in primo piano lo scarabocchio di un writer. E allora immaginiamo che, se per l’imbrattamento degli adesivi è stata allertata persino la Digos, probabilmente per il writer armato di bomboletta saranno stati chiamati di sicuro i Ros!! E non siamo gli unici a pensare che quello del “decoro” sia solo un pretesto, dal momento che non tardano ad arrivare alcuni commenti ironici, come quello di chi gli fa notare, postandone la foto, uno striscione affisso abusivamente da mesi su un vecchio edificio, senza che destasse la stessa solerzia nella rimozione. Nel caso specifico lo striscione era anche firmato, quindi, se avesse voluto, il sindaco paladino del decoro urbano, avrebbe saputo anche a chi telefonare! “Mantova è piena di adesivi “imbrattanti”, -prosegue il commentatore – come ad esempio quello di eQual, associazione che fa iniziative di interesse sociale. A me non danno fastidio e non credo che tu abbia elevato sanzioni al loro indirizzo. Quindi un po’ di coerenza”. Il sindaco a quel punto, stizzito, si lancia in spiegazioni sulla differenza tra pubblico e privato, cantilenando che sugli edifici privati nulla puó fare il Comune, ma ormai non convince più nessuno: “Cerchi con le telecamere chi mette gli adesivi perchè sono contro il PD (io personalmente impiegherei gli agenti per cercare altro) e quelli che invece imbrattano firmandosi la passano liscia? boh..” chiosa il commentatore. “Il vero motivo per la sparata e l’indignazione è che gli adesivi sono contro il PD. Capisco che tu essendo di quell’area politica ne prendi le difese. Però se la legge è uguale per tutti vorrei vedere la stessa indignazione per adesivi e striscioni di qualsiasi orientamento politico. Perchè a prescindere dal contenuto, o dalla proprietà pubblica o privata, tutti imbrattano la città. Invece il messaggio che passa è che ci sono adesivi da rimuovere subito e altri che va bene rimangano. E non è un bel messaggio”. Un altro posta la foto di adesivi di “azione antifascista” chiedendo: “Se non è ipocrita, Signor Sindaco, avrà fatto la stessa cosa con queste brutture”. Il sindaco tace.

Servizio Tg1 Rai dell'11 settembre 2019, ore 13,30 di Pasquale Notargiacomo. "Le cose che mi possono dire a me è che ho fatto troppe segnalazioni, hanno ragione. Alcune le ho fatte obbligata…mi sono sentita obbligata nel senso che se non le facevo questa qua mi minacciava di denunce". C’erano le pressioni dei servizi sociali della Val D’enza dietro le segnalazioni fatte dalla ASL di Montecchio sui casi di minori presunti vittime di abusi. Relazioni forzate su violenze che poi si sarebbero rivelate false davanti ai giudici. Lo ammette la psicologa Emelda Bonaretti in una conversazione con una collega: la neuropsichiatra Flaviana Murru finita agli atti del’inchiesta “Angeli e Demoni”. Entrambe sono indagate. Quando i carabinieri la intercettano sanno delle indagini in corso e stanno parlando delle minacce ricevute da Federica Anghinolfi, la potente dirigente dei servizi sociali e dal suo braccio destro Francesco Monopoli. "Io c’ho ancora talmente tanta sofferenza su quella roba lì che io, secondo me, smonto tutta laVal D’Enza, cioè se mi metto a dire quello che penso…se mi chiedono ha subito pressioni? …cazzo se ho subito". Pressioni che riguardavano anche il percorso dei bimbi in affido che dovevano essere seguiti rigorosamente a Bibbiano, dove lavorava il centro “Ansel e Gretel” di Claudio Foti. "Per mandarla a “La Cura”, per mandarla da Foti, lei non ci voleva andare. Io non posso obligarla se lei non ci vuole andare, cosa devoao fare…Obbligala te".

Fuori dal coro, diretta prima puntata con Mario Giordano. Inizia una nuova stagione dell'acceso talk di Rete4 sull'attualità politica. Si parlerà di immigrazione, pensioni, politiche economiche e dell'inchiesta sugli affidi dei minori a Bibbiano. Ospite l'ex Sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Alessandro De Benedictis su maridacaterini.it, Mercoledì, 11 Settembre 2019. Questa sera, alle 21:30 su Rete4, torna ad animarsi lo studio di Fuori dal coro. Mario Giordano lancia la nuova stagione del talk affidandosi ai temi più caldi dell’attualità politica. Spazio al dibattito sulle politiche migratorie e a quello che è stato annunciato dalla redazione come “uno scoop” sul controverso caso degli affidi dei minori a Bibbiano. Con fare esagitato, in apertura Mario Giordano presenta i temi della serata. Si sofferma molto sul caso di Bibbiano, esprimendo il suo grosso turbamento. Ora inizia quello che è stato annunciato come il momento clou della trasmissione, dedicato al presunto scandalo di Bibbiano. Mario Giordano la introduce con un’espressione afflitta, tormentata dal dolore. “Per tutta quest’estate non ho avuto pace”, si sfoga. Non è possibile, dice, strappare i bambini dalle madre e venderli. Non si può attaccare la famiglia per soldi e ideologie, rincara. In studio ci sono Anna e Franco – i nomi sono fittizi – genitori di Camilla (altro nome fittizio), bambina di due anni. La piccola sarebbe stata sottratta alla custodia dei genitori con violenza, durante una visita di finte Guardie Zoofile dell’Ente Nazionale Protezione Animali. Va in onda un video che fa vedere i momenti in cui le finte guardie letteralmente strappano Camilla di genitori. Un video mandato in onda per la prima volta da Chi l’ha visto?, su Rai3. Ma attenzione: sia l’ENPA, sia la Polizia Locale, sia il Servizio Sociale del Comune di Reggio Emilia hanno proclamato la loro estraneità. Contestualmente hanno denunciato la coppia per diffamazione. Al momento, dunque, il video è da trattare con molta cautela. Tuttavia, sia i genitori in studio, sia il loro avvocato confermano che si trattasse di assistenti sociali. Dal quadro accusatorio relativo al caso di Bibbiano, per ora, emerge un sistema collaudato. Attraverso una serie forzature amministrative e psicologiche, decine di bambini sono stati sottratti alle loro famiglie con accuse false. Il fine era quello di affidarli ad altre persone in cambio di denaro. Il tutto, corroborato da illeciti nell’organizzazione e nella gestione del servizio di assistenza sociale.

Un caso simile a quello di Camilla è quello di Sara (nome fittizio). Mario Giordano racconta di come sia stata portata via dalla famiglia per incuria genitoriale, presunti maltrattamenti e violenza sessuale da parte del padre. Ma, secondo l’inchiesta, le accuse alla famiglia erano state costruite ad arte dagli Assistenti Sociali. Pare che le confessioni della bambina siano state estorte (o addirittura inventate) durante i colloqui con la psicologa, condotti con modalità a dir poco anomale. È uno dei casi più conosciuti dello scandalo di Bibbiano. Se ne è parlato molto perché la famiglia affidataria è composta da due donne omosessuali. Dunque, al già delicatissimo tema del caso, si è aggiunto il dibattito sugli affidamenti alle coppie omosessuali. Con l’aiuto dell’Avvocato Morcavallo, in collegamento video, Mario Giordano sottolinea come tutto ciò sarebbe avvenuto per soldi. Il sistema degli affidi muove un business milionario, tra perizie, consulenze, colloqui, gestione delle case famiglia, affidi veri e propri. Secondo Morcavallo, è questo il motivo per cui i bambini non sono stati ancora riportati alle loro famiglie. Una tesi tutta da verificare.

Una delle figure centrali dell’inchiesta è Claudio Foti. È il Direttore della Onlus piemontese Hansel e Gretel, considerata dall’accusa il fulcro del sistema illecito. Nel suo ambito, Foti è considerato un grande esperto, ma in questo caso avrebbe alterato il sistema degli affidi per soldi. Fondi pubblici, principalmente, oltre al denaro pagato dalle famiglie affidatarie per mettere in atto la sottrazione. Una fonte definita segreta, cioè un ex dipendente della Onlus, conferma procedure alquanto dubbie durante il lavoro.

Nel frattempo, un’altra mamma racconta ai microfoni di Fuori dal coro come le è stata portata via la figlia. Le modalità sono sempre le stesse e prevedono la costruzione di prove fasulle per mettere in cattiva luce i genitori naturali.

Bimba “rapita”: i genitori querelano due assistenti sociali di Reggio. “Documenti finiti nella spazzatura”. Il caso questa sera a “Fuori dal Coro” su Rete4. Affidi illegali e bambini strappati alle famiglie: non è più “il caso Bibbiano”, ma una piovra che estende i suoi tentacoli ben oltre la val d’Enza.. Reggio Report 11/9/2019. Una coppia di genitori di Reggio Emilia, Stefania e Marco, ha denunciato alla Procura della Repubblica due assistenti sociali del Polo Est di Reggio Emilia, quali responsabili del “rapimento” della loro figlioletta, portata via da casa con l’inganno lo scorso mese di aprile. Lo annuncia l’avvocato Francesco Miraglia, che tutela la famiglia: le assistenti sociali sono state querelate per abuso di ufficio, falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, sostituzione di persona, false dichiarazioni all’autorità giudiziaria e violenza privata. Del caso l’avvocato Miraglia parlerà questa sera, mercoledì 11 settembre, nel corso della trasmissione Fuori dal Coro realizzata e condotta da Mario Giordano. Miraglia chiede inoltre che le querelate “vengano estromesse da questo caso C e cessino immediatamente di seguirlo” anche perchè – sostiene l’avvocato – hanno commesso un ennesimo, incredibile e increscioso atto: hanno gettato la documentazione relativa alla bambina dentro un bidone della spazzatura lungo la strada, visibile a tutti, con i dati sensibili bene in evidenza. Li hanno trovati, passando, proprio i due genitori de piccola, che hanno scoperto così, dai documenti gettati per strada, dove fosse alloggiata la loro figlioletta. Un altro episodio di una gravità inaccettabile». La signora Stefania, che in passato aveva fatto uso di droga – aggiunge il legale – al momento di partorire la bambina si è trovata contro i Servizi sociali, che le hanno tolto la figlioletta asserendo di aver trovato tracce di sostanze stupefacenti nel suo organismo e in quello della neonata. “Nulla di più falso, come dimostrano le cartelle cliniche. Ma la bimba, incredibilmente, le è stata portata via ben due anni dopo la sua nascita, e per di più nel corso di un blitz vergognoso e agghiacciante: fingendosi volontari dell’Enpa, l’ente di protezione animali, lo scorso 3 aprile addetti dei Servizi sociali si sono presentati a casa della donna, distraendola mentre qualcun altro saliva a prendere la piccola, l’afferrava dal lettino in cui dormiva, senza vestirla, e fuggiva verso l’auto con lei tenuta a penzoloni e sballottata come un sacco. Tutto ripreso, fortunatamente, dalle telecamere di sorveglianza di cui la casa è dotata”. «Ci aspettavamo che il Comune di Reggio Emilia chiedesse scusa a questa famiglia per come ha pianificato il blitz, che neanche le teste di cuoio organizzano in maniera così abile» prosegue l’avvocato Miraglia. «Oppure che promuovesse all’antiterrorismo le due assistenti sociali che lo hanno organizzato così bene. Invece il Comune ha denunciato la famiglia per diffamazione a mezzo stampa. Se questo è il modo di gestire le vicende dei bambini e il modo di agire dei Servizi sociali, l’unica soluzione è denunciare le assistenti sociali».

Fuori dal Coro, la testimonianza di una madre di Bibbiano: "Hanno staccato la luce, poi il raid in casa". Libero Quotidiano il 12 Settembre 2019. Una testimonianza sconvolgente, piovuta nel corso di Fuori dal Coro, il programma di Mario Giordano in onda su Rete 4 alla sua prima puntata della stagione. Si parla dello scandalo di Bibbiano, a raccontare l'orrore subito sono Anna e Franco, due genitori a cui è stata presa una figlia. Il ricordo del momento in cui è accaduto è terrificante: "Si presentano come Ente protezione animali, tanto che li riprendo anche dalla finestrina: volevano entrare in casa mia, non mi fidavo. Mi dicevano: un cane abbaia, mi apre? Mi apre? Non hanno voluto mostrarmi il tesserino. Poi hanno staccato la luce, dato che ci sono le telecamere di sorveglianza. Sono entrati quando è arrivata mia madre con la spesa", ricorda Anna. E ancora: "Sento gridare mia figlia. Alzo gli occhi, sono corsa, la ho vista in mano a qualcuno che la teneva a testa in giù, come un pacco. La ho inseguita fino a che è stata buttata sulla macchina", ha concluso.

Angeli e Demoni, seconda richiesta d'arresto per il sindaco di Bibbiano. Lunedì 16 settembre si svolgerà l’udienza davanti al Riesame di Bologna. Costanza Tosi, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. La Procura di Reggio Emilia non demorde. Per Andrea Carletti sono necessari gli arresti domiciliari. Il pm Valentina Salvi, a capo dell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi illeciti della Val d’Enza, ha presentato - come riporta la Gazzetta di Reggio - una nuova richiesta di arresto nei confronti del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti. Per il primo cittadino, all’inizio delle indagini, erano già stati predisposti i domiciliari, ma la misura era stata, poi, rivista dal gip Luca Ramponi il 20 giugno scorso in quanto il giudice aveva ritenuto insufficienti le motivazioni della Procura. Le accuse a cui deve rispondere Carletti per il caso riguardante i presunti affidi illeciti nel comune emiliano sono abuso d’ufficio e falso ideologico. Stessi reati per i quali sono accusati anche altri quattro indagati: l’avvocato Marco Scarpati, Federica Anghinolfi (dirigente del Servizio sociale della Val d'Enza), Nadia Campani (responsabile dell' Ufficio di Piano dell' Unione) e Barbara Canei (istruttore direttivo amministrativo del Servizio sociale dell' Unione). Anche per loro, adesso, la Procura chiede che siano disposti nuovamente gli arresti domiciliari. Secondo gli inquirenti, l’avvocato Scarpati avrebbe ottenuto guadagni ingiustificati grazie ad alcuni incarichi a lui affidati dall’Unione dei Servizi Sociali della Val d’Enza. La Salvi sostiene che sia stata “simulata l' effettuazione di una formale procedura a evidenza pubblica per l' affidamento dell' incarico di consulente giuridico a favore del Servizio sociale, procedura, in realtà, intrisa di macroscopiche e gravissime irregolarità volte a favorire Scarpati”. Sotto accusa, per la stessa vicenda, anche Federica Anghinolfi, la capa dei servizi sarebbe responsabile in quanto firmataria delle determine relative alle nomine fiduciarie del legale. Canei invece, avrebbe predisposto le determine di spesa mentre, Carletti e Campani - si legge nel capo d’imputazione riportato da La Stampa - erano “in costante raccordo con Anghinolfi e pienamente consapevoli della totale illiceità del sistema, disponevano la sistematica attribuzione di tutta la materia legale relativa ai minori affidati al Servizio sociale a un singolo soggetto”. Lunedì 16 settembre si svolgerà l’udienza davanti al Riesame di Bologna, cui spetta la decisione finale sulle ultime richieste avanzate dalla Procura. Per la terza volta il sindaco dem di Bibbiano dovrà difendersi per salvaguardare la propria libertà. Il Giudice per le Indagini Preliminari, infatti, ha respinto l' istanza di revoca dei domiciliari presentata da Carletti per ben due volte: i primi del mese di luglio, dopo l’interrogatorio di garanzia, e lo lo scorso 3 agosto.

Cala il sipario su Bibbiano. E gli amici di Foti salgono in cattedra. A soli tre mesi dallo scoppio dell'inchieste Angeli e Demoni si terrà a Firenze un convegno sugli abusi sui minori a cui parteciperà anche il legale di Claudio Foti. Nella scaletta, nessun accenno al "caso Bibbiano". Costanza Tosi, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. Un mese, due mesi, adesso quasi tre. Il tempo passa e i media iniziano a deporre le armi. Cala il silenzio e si chiude il sipario. Dietro le quinte, le maschere dei "demoni" riprendono a muoversi. Sembra la storia di una tagedia teatrale e invece è tutto vero.

Il sindaco Pd di Bibbiano ancora nei guai. A pochi mesi dallo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni", lanciata dalla Procura di Reggio Emilia, sui presunti scandali scovati nel sistema di affidi della Val d'Enza, pare che il silenzio costante sulla vicenda, cui il Partito democratico ha tenuto sempre fede, stia adesso contagiando tutti. Con buona pace delle famiglie distrutte che cercano giustizia. Tra l’esultanza di tutti coloro che, a poco a poco, stanno riprendendo a fare esattemente ciò di cui si occupavano prima di finire nel registro degli indagati. Proprio ieri, Claudio Foti, terapeuta della onlus torinese finita nel mirino degli investigatori, è tornato a parlare nel piccolo schermo. Durante la trasmissione “Storie Italiane” di Rai 1, l’indagato è tornato a parlare in pubblico, dicendo di esser stato perseguitato ingiustamente. "A Bibbiano non facevo terapie ai bambini", ha dichiarato Foti. Forse lui no. Ma la sua associazione? Ricordiamo che proprio la Hansel e Gretel, onlus piemontese fondata dallo stesso Foti, era riuscita ad accapparrarsi la gestione esclusiva del centro pubblico "La Cura" di Bibbiano. Il tutto senza una regolare gara pubblica e esenti da ogni tipo di canone d’affitto. I servizi sociali della Val d’Enza infatti avrebbero mandato a “La Cura” la gran parte dei minori che avevano in carico, facendo così incasare alla associaizione di Foti 135 euro a seduta. Ma qualcuno pare esserselo dimenticato. Tanto che, persino il Movimento 5 Stelle, tornato al governo con gli alleati della sinistra, dopo aver promesso alle famiglie emiliane che sarebbero stati presi provvedimenti per fare chiarezza sul tema degli affidamenti in tutta Italia, adesso pare essere stato contagiato dal silenzio dei dem. E così spariscono dai punti del programma del nuovo governo giallorosso le commissioni d'inchiesta parlamentari sugli affidi e di iniziative governative su Bibbiano nessuno ha più fatto sapere niente. Un dietrofront ottimale per tutti coloro che dovevano riprendere a seguire i propri loschi affari e che adesso, a poco a poco, tornano a sponsorizzare i loro metodi non riconosciuti. Come avverrà a breve in Toscana. A Firenze si terrà un convegno intitolato “Proteggere i bambini e le bambine dalla violenza assistita”. Il tema centrale è, evidentemente, quello degli abusi sui minori. Ma, nella scaletta dell’evento - come riportato da La Verità - non vi è traccia di interventi per parlare degli scandali della Val d’Enza. In compenso, a intervenire al convegno sarà Andrea Coffari. Avvocato difensore di Claudio Foti, il legale fa parte anche dei componenti dell'associazione “Rompere il silenzio”, la stessa di cui fanno parte Foti e alcuni tra gli altri indagati di “Angeli e Demoni”.

Il suo intervento s’intitola così: “Violenza su donne e bambini: apologia della pedofilia, negazionismo, cattivi maestri e ddl Pillon-Camerini”. Insomma, qualche parolina per continuare a difendere le teorie di Foti sugli abusi e perseverare con la diffusione delle idee su cui si è costruito il sistema di affari illeciti a Bibbiano. Chi critica il “metodo Hansel e Gretel” e le sue teorie che, tra le altre cose, si scontrano nettamente con i principi della carta di Noto, non è altro che un “difensore dei pedofili”. Chi, invece, sostiene che quando si parla di abusi su minori è meglio andarci con i piedi di piombo, finisce per essere “negazionista”. Ma torniamo all’evento. Il convegno di Firenze è organizzato dal Consiglio regionale e dalla Commissione pari opportunità della Toscana, la stessa Regione che ha richiesto milioni di euro di risarcimento al Forteto, dopo aver silenziato gli orrori che, per anni, si consumavano all’interno della comunità toscana. La parte introduttiva dell’incontro sarà tenuta da due esponenti del Partito democratico: Eugenio Giani e Rosanna Pugnalini. Dunque, non solo nei tre mesi dallo scoppio del caso Bibbiano, il Pd è intervenuto soltanto per sottolineare che i sindaci del proprio partito, indagati nell’inchiesta, non erano ancora stati processati e che quindi non se ne doveva parlare, adesso, come se niente fosse, sponsorizza - attraverso le istituzioni pubbliche - convegni con gli amici di Foti. Ma non basta. Perché tra gli organizzatori della giornata di incontri ecco spuntare un nome conosciuto. Il Cismai. Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento che ricompare in molte storie di falsi abusi e affidi ingiusti. Un organismo che, pur non essendo mai finito sotto indagine, rispunta nelle iniziative di Foti e Co. ormai dai tempi dei “Diavoli della Bassa”. A interventire, a Firenze, sarà Gloria Soavi, presidente del Coordinamento. Anche lei una veterana. Cliccando il suo nome, sul web, compaiono una serie non proprio breve di eventi e iniziative a cui la Soavi ha partecipato al fianco degli operatori della Hansel e Gretel. In più, la presidente, come riportato da La Verità, compare tra i soci l' Unione dei Comuni modenesi area nord, l'ente attualmente coinvolto nella storia della bambina di Mirandola mandata in cura a Bibbiano, per la quale è indagato dalla Procura di Modena. A supportare il Cismai è, tutt’ora, l'autorità Garante per l' infanzia, guidata da Filomena Albano che, recentemente, ha anche versato 40mila euro per supportare una ricerca dell’organizzazione.

Bibbiano, cosa è successo. Nomi e accuse dell'indagine sugli affidi. Sono 29 le persone iscritte nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e Demoni": il punto. Il Resto del Carlino l'11 settembre 2019. Sono finora ventinove gli iscritti nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta 'Angeli e demoni', condotta dai carabinieri di Reggio con il coordinamento del pm Valentina Salvi, i cui accertamenti stanno tuttora proseguendo. Al centro dell'indagine sono finite le complesse vicende relative ai bambini - dieci in tutto quelli confluiti nel fascicolo originario - che sarebbero stati strappati alle loro famiglie naturali ricorrendo a escamotage illeciti messi in atto da operatori dei servizi sociali di Bibbiano. Secondo gli inquirenti, questi ultimi avrebbero steso relazioni in cui erano evidenziati particolari falsi per mettere in cattiva luce i genitori naturali - ad esempio abusi da loro subiti, case in pessimo stato, scarse attenzioni verso i figli - e poter così disporre l'affidamento coatto dei minori ad altre famiglie. Dietro c'era un business: i piccoli venivano sottoposti a sedute di psicoterapia nella sede della 'Cura', struttura pubblica di Bibbiano, praticate da operatori del centro privato torinese 'Hansel e Gretel', che avrebbero percepito un compenso orario doppio rispetto a quello medio di analoghi professionisti. Altri approfondimenti sono in corso sulle vicende di possibili affidi illeciti segnalati da altre famiglie, che si sono rivolte ai legali e alla Procura per denunciare di aver vissuto situazioni simili a quelle oggetto del filone di inchiesta principale. Per alcuni indagati, inoltre, potrebbe profilarsi prossimamente la richiesta di giudizio immediato. Sei le persone che, il 27 giugno, sono finite ai domiciliari. Tra loro c'è il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti (per abuso d'ufficio e falso ideologico, ipotesi di reato legate alle procedure amministrative per l'appalto della psicoterapia): il gip Luca Ramponi ha bocciato per due volte la richiesta da lui avanzata di liberazione, e ora il primo cittadino - sospeso dal suo incarico pubblico dalla Prefettura e autosospeso dal Pd - attende il responso sulla misura cautelare dal Riesame, di fronte al quale ci sarà udienza il 16 settembre. Stessa misura per Federica Anghinolfi, la responsabile dei servizi sociali della Val d'Enza, considerata una figura-chiave nei presunti illeciti, chiamata a rispondere di molteplici accuse (tra cui falsità ideologica, frode processuale, violenza privata, peculato, depistaggio e lesione personale aggravata per i casi di alcuni bambini sottratti). Altrettanto per Nadia Bolognini, psicoterapeuta di Torino e moglie di Claudio Foti - quest'ultimo alla guida di 'Hansel e Gretel' -, per il quale il Riesame ha di recente riformulato la misura in obbligo di dimora a Pinerolo. Ai domiciliari si trova anche l'assistente sociale Francesco Monopoli. Marietta Veltri, coordinatrice dei servizi sociali Val d'Enza, è tornata libera in concomitanza con il pensionamento. La sospensione per sei mesi dall'attività lavorativa riguarda nove indagati (oltre ad Anghinolfi e Monopoli) tra assistenti sociali, educatori e personale amministrativo: tra questi Cinzia Magnarelli è intanto tornata al lavoro (in un altro settore dell'Ausl dove lei aveva chiesto e ottenuto il trasferimento prima dell'inchiesta) dopo aver ammesso di aver falsificato alcuni report su pressione dei superiori. Fadia Bassmaji e Daniela Bedogni hanno il divieto di avvicinamento alla minore che avevano avuto in affidamento e che avrebbe subito maltrattamenti. Tra gli indagati a piede libero ci sono l'avvocato Marco Scarpati (per l'incarico da 20mila euro per seguire legalmente i casi dei bambini, ipotesi di concorso estraneo in abuso d'ufficio) e il direttore provinciale dell'Ausl, Fausto Nicolini (concorso in abuso d'ufficio). Oltre agli ex sindaci di Cavriago Paolo Burani e di Montecchio Paolo Colli, entrambi ex presidenti dell'Unione Val d'Enza, indagati per falso ideologico.

A Genova il Pd chiede di riaprire il progetto di Foti. La richiesta dei dem è quella di “attivare un tavolo di confronto” per discutere di un progetto, realizzato e sostenuto dalle precedenti amministrazioni in collaborazione con il terapeuta Claudio Foti. Costanza Tosi, Domenica 08/09/2019, su Il Giornale. Il Pd non demorde. E a Genova propone di riaprire il "Progetto Arianna". Iniziativa creata in collaborazione con gli indagati del caso Bibbiano, tra cui Claudio Foti, padre della Hansel e Gretel, finito agli arresti domiciliari per l’inchiesta “Angeli e Demoni” della Procura di Reggio Emilia. A Rilanciare l’idea che, il progetto nato nel 2011 con il fine di “contrastare il maltrattamento e l'abuso di bambini e bambine”, debba essere rilanciato dal Comune, è stata Cristina Lodi, capigruppo dem a Genova. Qualche giorno fa ha presentato un ordine del giorno, firmato da altri cinque consiglieri del Partito democratico: Stefano Bernini, Alessandro Terrile, Mauro Avvenente, Alberto Pandolfo e Claudio Villa. Nel documento - come riporta La Verità - la richiesta è quella di “attivare un tavolo di confronto” per discutere di un progetto, realizzato e sostenuto dalle precedenti amministrazioni in collaborazione con il terapeuta Claudio Foti. Il testo, presentato giovedì, non è stato ancora discusso, ma in pochi giorni già sono state fatte manovre con cui, i dem, sembrano voler schivare le accuse. Dopo che i nomi dei consiglieri hanno iniziato a circolare, è spuntato un altro documento. Formale e senza le firme dei dem. A bloccare, in conferenza capigruppo, l’idea del Pd è stato Mario Mascia, leader dei consiglieri di Forza Italia. Che ha proposto, per contro, di istituire una commissione d’inchiesta che faccia chiarezza sul sitema degli affidi anche nella zona ligure. Nel testo, presentato in conferenza dalla Lodi, viene riconosciuta “l’ importanza del Progetto Arianna” e richiesto al sindaco, Marco Bucci, di coinvolgere “tutti gli organismi deputati che hanno competenza in materia”. La proposta è quella di ricreare una struttura che segua le linee del progetto bloccato dall' assessore alle Politiche sociali Francesca Fassio. Un’inziativa di cui, adesso, sono scomparse le tracce anche sul web. Dal sito del Comune di Genova, solo una mera spiegazione del progetto. Non compaiono nomi e il link alla pagina è stato cancellato. Poca trasparenza, per un progetto che viene considerato importante e da rilanciare. Sempre Mascia, a fine luglio e poco dopo l’uscita dello scandalo sul sitema degli affidi illeciti a Bibbiano, aveva presentato un' interpellanza in Consiglio comunale per sapere se c' erano rapporti o se fossero mai stati stipulati contratti tra l' amministrazione di Genova e gli indagati della Hansel e Gretel, Claudio Foti e Nadia Bolognini. Proprio da luglio, il Progetto Arianna è sparito dal sito del Comune. Diego Pistacchi, del Giornale del Piemonte e della Liguria, che per primo ha reso pubblico il contenuto del documento di cui è venuto a conoscenza, ha scoperto che, Claudio Foti, operava anche nella città ligure. Dal 2016 al 2018, almeno nove minori della zona sono stati affidati alle cure del terapeuta della onlus torinese. Incarichi che hanno consentito all’associazione finita sotto accusa di guadagnare ben 13mila euro. Tra questi, l’ultimo paziente preso in carico da Foti risale al 2 ottobre del 2018. In quel caso furono accordate quattro sedute della durata di tre ore l’una, per un totale di 1.200 euro. Adesso, il Comune ha deciso di fare chiarezza in merito e indagare se, anche a Genova, siano presenti storture per quanto riguarda la gestione degli affidi dei minorenni. I numeri già gettano qualche sospetto. Francesco Lalla, Garante regionale per l'infanzia, ha dichiarato di aver ricevuto segnalazioni di circa 260 casi. Tanto che, in un comunicato dei giorni scorsi, aveva evidenziato di voler “creare un sistema rinnovato che metta insieme istituzioni e terzo settore, famiglie e loro rappresentanze”. Ora si attendono i dati ufficiali. Intanto, l'assessore Fassio ha fatto “firmare un protocollo per individuare le linee guida per operatori sociali, psicologi, assistenti sociali e tutte le figure professionali che ruotano intorno ai minori e agli affidi”.

Il post dell'onorevole leghista su Pd-Bibbiano scatena la bufera. Nell'accostare il Pd ai fatti di Bibbiano, in un post pubblicato su Facebook, l'onorevole Flavio Di Muro ha scatenato una bufera politica, ma a difenderlo è il commissario provinciale della Lega, Alessandro Piana. Fabrizio Tenerelli, Giovedì 05/09/2019, su Il Giornale. "Ministro per la famiglia al Pd, saranno contenti a Bibbiano". È un post che ha scatenato un caso politico, quello pubblicato sulla propria bacheca Facebook dal deputato leghista, Flavio Di Muro, di Ventimiglia, in provincia di Imperia. Molti gli attacchi allegati come commento allo stesso post, col Pd che naturalmente non ha gradito l'accostamento ai fatti di Bibbiano. "È vergognosa questa vostra strumentalizzazione di gravi fatti di cronaca, che non c'entrano nulla con il Pd - afferma Annalisa - per screditare gli avversari politici. Evidentemente non siete in grado di contestarli nel merito". A bilanciare i commenti contrari, c'è quello di Concetta, che scrive: "Ma scusate, quando Di Maio dice che non vuole fare un partito con quelli di Bibbiano e si sa, che si riferisce ai pidioti nessuno dice niente e solo perché un deputato, per adesso, è diventato di opposizione, bisogna contestarlo e metterlo a palo per una frase? Andate a cagher". A tenere le parti di Di Muro è il commissario provinciale imperiese della Lega (nonché consigliere regionale ligure), Alessandro Piana: "Il post pubblicato dal nostro deputato ligure Flavio Di Muro non è senz'altro lesivo della reputazione del Pd e e quindi non appare diffamatorio - afferma -. Riguardo i gravissimi fatti di Bibbiano e le persone su cui indaga la Procura, invece, aspettiamo l'esito del procedimento giudiziario. In ogni caso, i 'democratici' non possono mettere il bavaglio alle opinioni. La libertà di espressione è un diritto inviolabile ed è sacra". E aggiunge: "A questo punto, ci aspettiamo che i dirigenti del Pd querelino ministri, viceministri e parlamentari del M5s, che in particolare sui fatti di Bibbiano hanno rilasciato dichiarazioni gravi nei confronti dei loro nuovi amici di Governo. Ovviamente, credo che questo non succederà. Perché metterebbe a repentaglio la vita già breve dell'alleanza giallo-rossa e vanificherebbe la vergognosa spartizione delle poltrone, avvenuta senza nessun rispetto della volontà popolare dei liguri e degli italiani".

La retromarcia dei grillini su Bibbiano: "C'è una parte di leggenda". Nel M5s non si parla più dello scandalo degli affidi. E c'è chi come Di Stefano minimizza: "C'è una parte di leggenda". Luca Sablone, Venerdì 06/09/2019, su Il Giornale. "Io con il partito di Bibbiano non voglio avere nulla a che fare", dichiarava a gran voce Luigi Di Maio esattamente il 18 luglio. Ma a distanza di poco più di un mese ci si trova a governa insieme. E inevitabilmente la guerra tra le parti che si era innescata fino a pochi giorni fa, per forza di cosa, dovrà allentarsi. Una prova la fornisce Manlio Di Stefano, intervistato da Bianca Berlinguer nel corso della trasmissione Carta Bianca.

La retromarcia. L'ex sottosegretario al Ministero degli Esteri in quota Movimento 5 Stelle ha risposto alla domanda del giornalista Mario Giordano, che chiedeva giustificazioni sull'esecutivo partorito con quello che era considerato il "partito delle banche": "No no. Il racconto che viene fatto su Bibbiano e sulle banche come sempre ha una parte di verità e una parte di leggenda ovviamente". Strano, perché il Partito democratico veniva da loro descritto come quello che "in Emilia-Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l'elettrochoc per venderseli". E il capo politico del M5S, durante l'esperienza con la Lega, si era anche offeso per le accuse di governo al fianco del Pd: "Dire che stiamo governando col partito di Bibbiano è veramente un'accusa ingiusta e falsa".

Morelli mostra a Conte la t-shirt "Parlateci di Bibbiano" alla chiama alla Camera. Giovanni Neve, lunedì 09/09/2019, su Il Giornale. Protesta inaspettata durante la chiama alla Camera per il voto di fiducia alla nuova maggioranza. Alessandro Morelli, deputato della Lega e presidente della Commissione Trasporti alla Camera, ha mostrato al premier Giuseppe Conte la maglietta con la scritta "Parlateci di Bibbiano". E citando Luigi di Maio, che aveva detto che non si sarebbe mai alleato con il "partito di Bibbiano", ovvero il Partito democratico, ha detto: "Ho segnalato al premier Conte che allearsi col partito di Bibbiano non significa dimenticarsi dei bimbi e delle famiglie vittime di questa tragedia.

Bibbiano, Lucia Borgonzoni e lo show in Senato. La Lega interrompe la seduta più volte, fischi e applausi. Il Resto del Carlino l'11 settembre 2019.  Video Senato, Bergonzoni cita Bibbiano e scatena il coro dei leghistiArticolo Bibbiano, cosa è successo. Bibbiano di nuovo usata come arma politica. Questa volta a sfoderare il solito slogan "Parlateci di Bibbiano" è la senatrice leghista bolognese Lucia Borgonzoni (video), peraltro anche candidata al governo della nostra Regione. Ieri la pasionaria del Carroccio, sottosegretario alla Cultura del governo appena caduto, si è presentata a Palazzo Madama con addosso una maglietta bianca con scritto "Parliamo di Bibbiano". La seduta a quel punto è stata immediatamente sospesa, come vuole il regolamento, dalla presidente del Senato Elisabetta Casellati. Lo stop è durato qualche minuto durante i quali i senatori leghisti si sono alzati e si sono andati a congratulare con Borgonzoni. Subito dopo la leghista, che sarà probabilmente la sola a sfidare Stefano Bonaccini alle prossime elezioni regionali (i grillini pare non abbiano un nome pronto a scendere in campo), si è rivolta al presidente Giuseppe Conte. «Forse – ha detto slacciandosi la giacca che copriva la scritta – il presidente non è che non sa cosa è Bibbiano, è che non ne vuole parlare. Non gliene importa nulla dei bambini e delle famiglie». Uno show fortemente contestato dalla nuova maggioranza e, invece, sostenuto da cori e applausi dall’emiciclo dove siedono i colleghi leghisti. Non ha tardato a rispondere il premier Conte: «Il governo non entra nel merito delle inchieste in corso – ha spiegato rivolgendosi alla ex alleata – Per quel che riguarda la competenza del governo una misura è stata già adottata: è stata istituita presso il ministero di giustizia una squadra speciale per la protezione dei minori». Una squadra istituita proprio di comune accordo con la Lega durante le ultime settimane di vita del governo giallo-verde. «E’ urgente un monitoraggio della situazione vigente e un più efficace censimento degli affidi – ha continuato Conte – Dobbiamo creare una banca dati nazionale per gli affidi in modo da poter incrociare i dati e rilevare eventuali anomalie già dall’incrocio dei dati», ha aggiunto il premier. Che poi ha replicato in punta di fioretto alla senatrice leghista: «La protezione dei minori non ha colore politico e non può essere circoscritta territorialmente. E’ un problema che riguarda tutti». «Da Salvini e dalla senatrice leghista Bergonzoni, candidata in pectore alle regionali, su ‘Angeli e Demoni’ solo ipocrisia. E’ la Lega che ha rischiato di fermare un lavoro serio su questo tema facendo cadere il governo Conte 1». Lo dichiarano infine in una nota i parlamentari emiliano romagnoli del Movimento 5 Stelle Maria Edera Spadoni, Stefania Ascari, Davide Zanichelli, Gabriele Lanzi, Maria Laura Mantovani, Michela Montevecchi, Alessandra Carbonaro, Marco Croatti, De Girolamo.

La protesta delle madri davanti a Palazzo Chigi: "Conte parlaci di Bibbiano". Il movimento nazionale #bambinistrappati scende in piazza: "Saremo qui ogni giorno perché si faccia luce su Bibbiano e su tutti i casi di bambini strappati". Costanza Tosi, Venerdì 13/09/2019, su Il Giornale. Striscioni di protesta, cori che gridano giustizia, magliette che uniscono la folla e fanno sentire tutti parte di un gruppo pronto a vincere. Sotto Palazzo Chigi decine di genitori protestano contro il nuovo governo giallorosso, uniti al grido di “Mai più Bibbiano”. Madri a cui sono stati tolti i figli, nonni che da anni non possono vedere più i propri nipoti, entrambe vittime di ingiustizie e soprusi, raggirate da un sistema che ha sfruttato le loro debolezze per lucrare sulla pelle di minori innocenti. Oggi, queste persone, hanno deciso di scendere in strada per pretendere che sia fatta chiarezza sul caso dei presunti affidi illeciti che ha sconvolto l’Italia. “Mai più Bibbiano” denuncia la folla scesa in piazza per la protesta organizzata dal Movimento Nazionale #bambinistrappati, associazione composta da 15mila persone e presente in numerosi Comuni d'Italia. È tempo di combattere per le famiglie distrutte perchè finite nel tunnel degli orrori. Intrappolate e manovrate dagli assistenti sociali della Val D’enza, spalleggiati dai terapeuti che violentavano psicologicamente i bambini per indurli a confessare abusi sessuali mai avvenuti. Oggi, queste persone, hanno deciso di lottare contro il silenzio delle istituzioni. Convinte, che per fare giustizia si debba denunciare e impaurite che il silenzio degli ultimi giorni porti all’insabbiamento dell’orrenda vicenda. "Abbiamo paura che questo nuovo Governo non parli più di Bibbiano", dicono i genitori. Che poi si fanno sentire e con gli occhi rivolti al Palazzo gridano: “Conte vienici a parlare di Bibbiano”. “Chiediamo commissioni regionali d’inchiesta per fare luce sugli affidi illeciti” spiegano i presenti. Dopo lo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni", sono state tante le storie che, da tutta Italia, madri, papà e intere famiglie hanno deciso di denunciare. Troppe, le vicende che sembravano seguire il copione delle storie raccontate nell’ordinanza della Procura di Reggio Emilia. Dopo tre mesi dall’uscita dell’inchiesta, la preoccupazione è che in molte parti d’Italia ci siano altri casi Bibbiano e ciò che la popolazione si aspetta è che il governo faccia qualcosa per fronteggiare questa minaccia, per far chiarezza su questo sospetto. Prima dello strappo dell’ex vicepremier Matteo Salvini, il Movimento Cinque Stelle aveva incluso nei punti che descrivevano le priorità dei pentastellati nel programma di Governo la riforma sugli affidi. Dopo solo due mesi e con un alleanza capovolta, le cose sembrano essere cambiate. Nei punti presentati nel programma dal neo governo giallorosso, la riforma sugli affidamenti dei minori è del tutto scomparsa. Una sorpresa, che considerato il precedente silenzio del Partito Democratico sulla questione, fa pensare che i gialli si siano piegati al volere dei dem e abbiano deciso di cucirsi la bocca. E c’è chi non ci stà. "Saremo qui ogni giorno - dichiarano i partecipanti alla protesta - perché si faccia luce su Bibbiano e su tutti i casi di bambini strappati".

Pontida, Salvini sul palco con bimba vittima di Bibbiano: "Lei ha ritrovato la sua mamma". Salvini accolto da una marea di persone a Pontida. Sul palco fa salire una bimba che da poco ha ritrovato la sua mamma. Serena Pizzi, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. "Oggi qui noi abbiamo vinto". E a giudicare dalle foto, dai numeri social e dall'affetto dimostrato, viene davvero facile dire che Matteo Salvini ha davvero vinto. Ad accoglierlo a Pontida ci sono migliaia di persone, ce ne sono talmente tante che gli abitanti hanno addirittura aperto i cancelli delle proprie abitazioni. "Non ho mai visto una Pontida così", dice il leader della Lega. E in effetti, il "pratone" è davvero pieno, ma soprattutto è carico. Carico di bandiere, di ideali, di progetti, di rabbia per questo governo dell'inciucio, ma c'è anche tanto amore. "La politica senza cuore e senza passione non è politica, ma una cosa da poltronari e qua ci sono valori", urla a gran voce Salvini. L'amore per una politica sincera "fatta per il bene del Paese" si sente nell'aria, nei cori dei presenti e si legge negli sguardi di tutte quelle persone che hanno scelto di andare a Pontida. Salvini non può far altro che ringraziare tutti questi sostenitori "uomini, donne e bambini, sono io che dico grazie a voi per questo spettacolo". Vedere tutta quella gente fa davvero impressione, fa venire i brividi. La piazza è davvero piena, quella davanti al leader della Lega è "l'Italia unita nel nome del lavoro". È l'italia che non vuole il governo giallorosso, è l'Italia che ha condiviso le idee e le mosse dell'ex ministro dell'Interno dall'inizio alla fine, è l'Italia che vuole andare a elezioni perché questo governo non rappresenta il nostro Paese e "noi vinceremo". Il discorso di Matteo Salvini dal palco di Pontida è davvero carico di argomenti, di emozioni e di rabbia per "tutti quei politici che se ne stanno chiusi nel palazzo e tengono solo alle loro poltrone". E in quasi un'ora di discorso, il leader del Carroccio mette il carico da 90 su tutto. Ma è sul finale che gli occhi dei suoi sostenitori si sono riempiti di lacrime. Salvini, infatti, ha fatto salire sul palco alcuni bambini, soli o con i propri genitori. E a una in particolare ha voluto dedicare qualche secondo: a Greta. "Greta è questa spelendida ragazza con i capelli rossi dopo un anno è stata restituita alla mamma - spiega Salvini emozionato -. Mai più bambini rubati alle loro famiglie, mai più bambini rubati alle mamma e papà, mai più bimbi come merce". Queste parole sono scandite chiaramente. Gli striscioni con riferimenti a Bibbiano arrivano sul palco. Fanno rabbrividire. E Greta è una delle poche che ce l'ha fatta, una fortunata. Ma non deve essere così. Lo scandalo di Bibbiano è agghiacciante, non dovrebbe proprio esistere. Poi Salvini si interrompe chiede ai presenti di prendersi per mano perché "la giornata di oggi sia l'inizio di una pacifica, democratica, rivoluzionaria liberazione del nostro Paese nel nome del lavoro, della dignità dell'orgoglio e della sicurezza. Viva la Lega, viva Pontida e viva l'Italia". E prima di lasciare il palco il leader del Carroccio batte un "cinque" alla mamma della ragazzina e poi alla stessa Greta. Loro si sono ritrovate, ma gli altri? Quanti bambini non vivono più con i loro genitori naturali perché sono stati portati via con l'inganno? Perché il Pd sta zitto e di Bibbiano non ne parla? Anzi, minimizza. Perché? Loro non risponderanno, ma oggi la piazza ha risposto in tutto e per tutto a Salvini.

Salvini: «La bambina di Bibbiano sul palco? Chi se ne frega. Ne porterei 50. Delinque chi li ruba». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. «Chi se ne frega»: così il segretario della Lega Matteo Salvini a Aria pulita su 7gold ha risposto a una domanda sulle critiche che ha ricevuto per aver portato sul palco di Pontida Greta, una delle bambine di Bibbiano. «Non una ma cinquanta bambini», ha detto anche, «se qualcuno ruba i bambini ai genitori» per un ritorno economico «è lui il delinquente». Aggiungendo: «Di storie come Bibbiano ne verranno fuori altre, non solo in Emilia». Domenica Salvini aveva portato sul palco di Pontida, nel corso del tradizionale raduno leghista, una bambina di sette anni di Bibbiano in riferimento al caso giudiziario dei presunti affidi irregolari avvenuti nel centro urbano in provincia di Reggio Emilia. Dicendo: «Mai più bambini rubati alle famiglie. Mai più bimbi rubati alle mamma e i papà. Mai più bimbi come merce. Chiedo a voi che siete sul prato, nel nome di questi bimbi che sono il nostro futuro, di prendervi per mano». Tra le persone coinvolte nel giugno scorso nell’inchiesta Angeli e demoni figura anche il sindaco di Bibbiano, accusato di abuso d’ufficio, e da allora il Pd è stato associato in toto a quei fatti, dalla Lega e in passato soprattutto dal M5S (Luigi Di Maio è stato per questo querelato dai dem). Dopo l’esibizione del leader leghista sul palco di Pontida di domenica, in tanti si sono tuttavia chiesti l’opportunità di esibire una minore per giunta coinvolta in una vicenda giudiziaria in corso. Carlo Calenda ha per esempio scritto via social: «Che gente siete per usare bambini su un palco. Tutti a testa china davanti a questo schifo? Siete senza onore». «Guai a chi ruba i bambini per lucrare», ha però risposto oggi Salvini. Per l’ex vicepremier, non è questa l’unica polemica legata a minori che lo ha chiamato in causa quest’estate. Era già accaduto a Milano Marittima il 30 luglio, con l’episodio del figlio sedicenne sulla moto d’acqua di un agente di servizio all’allora ministro dell’Interno. In quel caso, Salvini aveva detto: «Mio figlio sulla moto d’acqua della polizia? Errore mio da papà», prima di aggiungere che «nessuna responsabilità va data ai poliziotti, che anzi ringrazio perché ogni giorno rischiano la vita per il nostro Paese». In seguito è stata aperta un’inchiesta e l’agente è sotto procedimento disciplinare.

Pontida, la bambina  sul palco con Salvini  non è di Bibbiano. Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. Era ormai diventata, soprattutto sui social, la bambina di Bibbiano, dopo essere apparsa sul palco di Pontida. Greta non è di Bibbiano e neanche emiliana, ma vive in Lombardia. Alla kermesse leghista Salvini, dal palco, l’ha presentata come una «bellissima bambina con i capelli rossi che dopo un anno è stata restituita alla mamma». Non ha citato espressamente l’inchiesta della Val d’Enza, ma poi ne ha fatto riferimento aggiungendo: «Mai più bimbi rubati alle mamma e ai papà, mai più bimbi come merce», lasciando intendere che la piccola sul palco appartenesse al gruppo di minori di Bibbiano. Greta non è coinvolta nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti a Bibbiano e nella Val d’Enza reggiana, come risulta da fonti giudiziarie, dopo che la notizia era stata anticipata da Selvaggia Lucarelli: «Ho parlato con la madre. La bambina di Pontida non c’entra nulla con Bibbiano. Vive in Lombardia e le case famiglia a cui fu affidata erano a Varese e Como. Salvini ha strumentalizzato Bibbiano e i bambini in modo indegno», ha detto la blogger. Dal leader leghista nessun passo indietro sulla presenza della bambina a Pontida: «Chi se ne frega». Per il leader la piccola è un simbolo: «Non una ma cinquanta bambini. Se qualcuno ruba i bambini ai genitori» per un ritorno economico «è lui il delinquente». Di storie come Bibbiano «ne verranno fuori altre — aggiunge — non solo in Emilia».

Bimba Bibbiano a Pontida, l'attacco di Calenda: "È uno schifo". L'europarlamentare del Pd critica la Lega: "Che gente siete per usare bambini su un palco? Senza onore". Luca Sablone, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. Matteo Salvini finisce nuovamente nel mirino della sinistra. La "gravissima" accusa recente è quella di aver ospitato sul palco di Pontida la piccola Greta, che dopo un anno è stata restituita alla mamma. Il leader della Lega l'ha presa fieramente in braccio: "Mi pare che tra i bambini ci sia anche Greta, che è questa splendida bimba coi capelli rossi che dopo un anno è stata restituita alla mamma. Mai più bambini rubati alle famiglie. Mai più bimbi rubati alle mamma e i papà. Mai più bimbi come merce". A guidare la protesta è Carlo Calenda, che ha criticato la scelta di coinvolgere la bimba: "Che gente siete voi della Lega per usare bambini su un palco? Ma i cosìddetti moderati della Lega non hanno nulla da dire su questo sconcio e sugli insulti a Gad Lerner. Tutti a testa china davanti a questo schifo? Siete senza onore".

"Strumentalizzazione". Sui social è ormai diventato un vero e proprio caso. Diversi utenti si domandano: "Menomale che non si dovevano strumentalizzare i bambini! Vero? E allora cosa ci faceva una bimba di Bibbiano sul palco?". C'è poi chi si aggrega all'attacco e affonda: "Salvini oggi ha dato il meglio di sé, strumentalizzando il caso di Bibbiano. Ma...non a parole, bensì prendendo in braccio una bambina di quella località. Lo sciacallo leghista è sempre in prima linea". E ancora: "Credevate di aver toccato il fondo? Illusi. Salvini espone sul palco di Pontida 2019 i corpi di una madre e una bambina, presunte vittime dei fatti di Bibbiano, per fini di bieca propaganda. Abbiamo raggiunto un degrado del costume e della politica mai visto da 75 anni a oggi". Una pagina Facebook ha invece lanciato una frecciatina nei confronti dell'ex ministro dell'Interno: "Ma il Matteo Salvini che oggi ha sventolato sul palco una bimba di Bibbiano (incommentabili i genitori) è lo stesso che invitava a non strumentalizzare i bambini quando ha usato la Polizia di Stato per far giocare il suo pargolo con una moto d'acqua?".

Chef Rubio attacca Salvini: "Hai sfruttato la bimba di Bibbiano". Gabriele Rubini contro il leader della Lega: "L'hai utilizzata per la tua cazzo di perenne campagna elettorale dannosa e infruttuosa". Luca Sablone, Lunedì 16/09/2019, su Il Giornale. Chef Rubio non risparmia l'ennesima dura critica a Matteo Salvini. Il conduttore televisivo su Twitter si è sfogato contro l'ex ministro dell'Interno, reo di aver preso in braccio la piccola Greta, bimba restituita alla mamma dopo un anno: "Sfruttare una bambina per la tua c**** di perenne campagna elettorale dannosa e infruttuosa, è qualcosa di aberrante e il fatto che tu lo faccia dimentico delle volte in cui hai lanciato figli altrui in pasto ai tuoi haters minus habentes, fa di te una persona spregevole".

Polemiche. Ma Gabriele Rubini non è stato il solo ad attaccare il leader della Lega: nella giornata di ieri è arrivata anche la presa di posizione da parte di Carlo Calenda. L'europarlamentare del Partito democratico ha tuonato: "Che gente siete voi della Lega per usare bambini su un palco? Ma i cosìddetti moderati della Lega non hanno nulla da dire su questo sconcio e sugli insulti a Gad Lerner. Tutti a testa china davanti a questo schifo?".

SI PUÒ PARLARE DI BIBBIANO SENZA FINIRE NEL TRITACARNE? Luciano Moia per ''Avvenire'' il 18 settembre 2019. Bibbiano non è solo un caso mediatico-giudiziario. Non è solo un teatro amaro di strumentalizzazioni politiche che sgomentano per la totale assenza di coerenza etica (l' ultimo episodio è andato in scena domenica a Pontida). Non è solo l' ultimo caso di una lunga serie di situazioni che mostrano come il nostro apparato di protezione dei minori fuori famiglia abbia urgente necessità di una revisione globale, puntando all'armonizzazione di leggi e competenze oggi in equilibrio instabile tra magistratura, amministrazioni locali e, addirittura, privati. È anche - e soprattutto - un' inchiesta in cui sono finiti loro malgrado nove minori che hanno subito violenze psicologiche gravissime proprio da parte di quelle istituzioni preposte alla loro protezione e sono stati sottratti alle famiglie sulla base di presunzioni che, in almeno sette casi, si sono rilevate frutto di errori intollerabili, nella migliore delle ipotesi, se non di obiettivi legati a far lievi- tare i costi delle psicoterapie, oltre ad assurde congetture ideologiche. E ora tutti questi bambini e ragazzi, in vario modo e con diverse gradualità, stanno scontando sulla propria pelle gli esiti di comportamenti di cui la magistratura valuterà le responsabilità. Ma quanto avranno inciso quelle disavventure sul loro equilibrio psicologico? E come si sta cercando di rimediare ai guasti prodotti nella loro psiche dal gruppo di assistenti sociali e di psicologhe della Val d' Enza coordinate dalla dirigente del servizio, Federica Anghinolfi, tuttora ai domiciliari? Osservando gli esiti di quanto capitato, si può dire che ci siano situazioni sotto controllo e altre che mostrano ancora ferite aperte e sanguinanti. Abbiamo più volte fatto notare come dalle intercettazioni dei carabinieri, in gran parte rese pubbliche, emergano episodi agghiaccianti di accanimento violento verso i bambini, ascoltati per ore in modo oppressivo e minaccioso, con la reiterazione ossessiva di domande finalizzate a far raccontare a piccoli abusi e maltrattamenti da parte dei genitori. In sette casi su nove questi episodi si sarebbero rivelati inesistenti. Al di là di quanto emergerà nel processo - dovrebbe iniziare entro la fine dell' anno - siamo di fronte a procedure che, come più volte sottolineato, risultano al di fuori da ogni protocollo di corretto ascolto dei minori ma anche da ogni regola di deontologia professionale, oltre che da un minimo tasso di umanità. Con quali risultati? Quattro dei nove bambini coinvolti nell' inchiesta avevano già fatto ritorno alle proprie famiglie prima che fossero resi pubblici gli esiti del lavoro della procura di Reggio Emilia. La decisione era arrivata nei mesi scorsi, in tempi diversi, grazie alle verifiche avviate dai magistrati del Tribunale dei minori di Bologna a cui va dato atto di aver eseguito, in tempi non sospetti, il lavoro di verifica sulle relazioni dei servizi sociali con scrupolo e attenzione. E infatti, a fronte di perizie risultate tutt' altro che convincenti, erano richiesti approfondimenti di merito. Quindi, visto che neppure le nuove spiegazioni erano state convincenti, i quattro bambini avevano fatto ritorno alle proprie famiglie. Come già spiegato, queste verifiche sono state decise dal presidente dei Tribunale dei minori, Giuseppe Spadaro, nonostante l' assenza di comunicazioni dettagliate sull' inchiesta in corso da parte della procura di Reggio Emilia. O, meglio, la procura aveva comunicato solo l' archiviazione dei procedimenti penali a carico dei genitori maltrattanti ma ciò ovviamente non impediva, anzi imponeva ai giudici minorili di approfondire ugualmente le situazione di pregiudizio dei minori segnalate dai servizi sociali. Un' incongruenza che non ha impedito di risolvere quattro situazioni diverse, con un lavoro di accertamento molto complesso in cui è stato per esempio necessario riannodare i fili all' interno dei vari nuclei familiari. In un caso gli assistenti sociali erano intervenuti per i maltrattamenti inflitti alla moglie da un marito alcolista a cui il figlio di cinque anni era costretto ad assistere. La procura minorile ha obbligato l' uomo a seguire un percorso di riabilitazione e, una volta accertato che il problema era stato superato, ha dato disposizione perché, con il consenso della madre, il piccolo potesse rientrare in famiglia. Per un quinto bambino era stato il Tribunale ordinario di Reggio Emilia a disporre il ritorno a casa. Anche in questo caso l' allontanamento era stato deciso sempre dai servizi sociali della val d'Enza, nel corso di una causa di separazione. Poi il giudice, già all' inizio di giugno, verificata le condizioni, aveva deciso che il piccolo potesse essere riaffidato al padre. Esistono poi due casi per cui è già stata pronunciata la sentenza di affido preadottivo. L' indagine ha permesso di accertare la correttezza dell' ipotesi di abusi, confermata implicitamente anche dal fatto che i genitori, a differenza di tutti gli altri coinvolti nel caso Bibbiano, non hanno presentato appello. Per questi due bambini si apre quindi la strada dell' adozione definitiva e, si spera, condizioni per una vita migliore nell'abbraccio di una madre e di un padre capaci di stemperare con l' affetto e con il tempo i fatti terribili di cui sono stati vittime. Tutta da definire poi la sorte degli ultimi due minori di cui si parla nell' inchiesta. Per loro il ritorno in famiglia non può ancora essere programmato, anche se il gip di Reggio Emilia ha archiviato la posizione dei genitori per quanto riguarda le accuse di abusi. Sono due piccoli che hanno comunque alle spalle situazioni familiari non semplici.

Il sindaco di Bibbiano querela 147 persone tra cui Di Maio. Il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti ha querelato 147 persone tra cui anche Luigi Di Maio che lo avrebbe offeso definendo il Pd "il partito di Bibbiano". Francesco Curridori, Giovedì 19/09/2019 su Il Giornale. Il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, sospeso dal Pd, ha querelato 147 persone tra cui anche Luigi Di Maio. Il primo cittadino, agli arresti domiciliari per abuso d'ufficio e falso ideologico nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e demoni", ha ritenuto lesivi, offensivi e addirittura minatori alcuni post comparsi sui social da quando è scoppiato lo scandalo. Tra questi c'è anche l'ormai noto videomessaggio del capo politico del M5S che, prima della nascita del 'governo giallorosso', assicurava:"Col Pd non voglio avere niente a che fare". E ancora: "Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare". Come si legge sulla Gazzetta di Reggio gli avvocati di Carletti, Giovanni Tarquini e Vittorio Manes, hanno presentato alla Tribunale della Libertà un ricorso contro i domiciliari del loro assistito e su un ricorso della Procura che ne aveva chiesto l'arresto, negato dal Gip, in un altro filone. Ora agli investigatori spetta l'arduo rintracciare le 147 persone querelate e capire a chi corrispondono i relativi nickname.

Affidi illeciti, il sindaco  di Bibbiano querela chi lo ha offeso online (anche Di Maio). Pubblicato giovedì, 19 settembre 2019 da Corriere.it. Il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, sospeso e attualmente ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sugli affidi della Procura di Reggio Emilia, ha presentato una querela segnalando 147 fra post e mail dal contenuto ritenuto offensivo o minatorio nei suoi confronti. Tra i denunciati c’è anche Luigi Di Maio, che a metà luglio, prima della crisi di Governo e del patto coi dem, diffuse su Facebook un messaggio: «Col Pd non voglio avere niente a che fare. Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare». Il sindaco, difeso dagli avvocati Giovanni Tarquini e Vittorio Manes, è in attesa della pronuncia del tribunale della Libertà sul suo ricorso contro i domiciliari e su un ricorso della Procura che ne aveva chiesto l’arresto, negato dal Gip, in un altro filone.

Inchiesta "Angeli e demoni", il sindaco di Bibbiano querela: c'è anche Di Maio. Segnala come offensivi o diffamatori 150 fra post e commenti. Compreso il messaggio dell'ex vicepremier. La Repubblica il 19 settembre 2019. Il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, sospeso e attualmente ai domiciliari nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e demoni" sugli affidi in Val d'Enza della Procura di Reggio Emilia, ha presentato una querela segnalando 147 fra post e mail dal contenuto ritenuto offensivo o minatorio nei suoi confronti. Tra i denunciati c'è anche Luigi Di Maio, che a metà luglio, prima della crisi di Governo e del patto coi dem, diffuse su Facebook un messaggio: "Col Pd non voglio avere niente a che fare. Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare". La notizia, riportata dalla Gazzetta di Reggio, trova conferme in ambienti giudiziari. Il sindaco - ai domiciliari dal 27 giugno scorso, indagato per abuso d'ufficio e falso ideologico - è in attesa della pronuncia del tribunale della Libertà sul suo ricorso contro i domiciliari e su un ricorso della Procura che ne aveva chiesto l'arresto, negato dal Gip, in un altro filone. La denuncia di questi 147 messaggi ritenuti diffamatori potrebbe non essere isolata: i legali cui Carletti si è affidato stanno vagliando decine di altri contenuti simili. Sarà la Procura a valutare il materiale e a identificare chi si nasconde dietro i nickname.

Il sindaco di Bibbiano non è più agli arresti domiciliari, concesso l’obbligo di dimora. Il Dubbio il 20 Settembre 2019. Andrea Carletti dovrà soggiornare la notte nel Comune di Albinea ma non è più soggetto alla misura cautelare. Per i giudici comunque sussiste ancora il pericolo di reiterazione del reato. Dalle querele all’obbligo di dimora, il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti ha visto attenuare la misura cautelare che lo riguarda per essere coinvolto nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia sui cosiddetti affidi facili di minori. Carletti non è più dunque agli arresti domiciliari ai quali si trovava dal 27 giugno scorso. Il sindaco dovrà trascorrere la notte dalle 22 alle 7 del mattino seguente nel comune di Albinea. La nuova misura non elimina però le contestazioni della stessa Procura che gli attribuisce il reato di abuso di ufficio e falso ideologico. In ogni caso secondo il collegio dei giudici Criscuolo, Oggiani, Margiocco sussiste ancora il pericolo di reiterazione del reato nonostante l’obbligo di dimora. Dalle pagine del verbale sul quale è trascritto l’interrogatorio di Carletti si legge della “volontà di proseguire la sua carica di sindaco di Bibbiano con un metodo di azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante”.

Il sindaco di Bibbiano torna libero. I legali: «Contro di lui una gogna». Simona Musco il 21 Settembre 2019 su Il Dubbio. La decisione del tribunale del riesame. Ventiquattro ore dopo aver querelato 147 persone per gli insulti e le minacce ricevuti dopo l’indagine a suo carico, per il sindaco sospeso di Bibbiano, Andrea Carletti, è arrivata la revoca degli arresti domiciliari, disposti tre mesi fa nell’ambito dell’inchiesta “Angeli e Demoni”, della procura di Reggio Emilia, sulle presunte irregolarità nell’affido dei minori. A deciderlo il Tribunale della Libertà, che ha disposto l’obbligo di dimora nel Comune di Albinea, dove risiede. L’uomo diventato simbolo, per la gogna mediatica, del “metodo Pd” sugli affidi, è in realtà accusato dalla procura di abuso d’ufficio e falso ideologico. A Carletti, avevano precisato gli inquirenti subito dopo il deflagrare della notizia, viene contestata la violazione delle norme «sull’affidamento dei locali dove si svolgevano le sedute terapeutiche». Non è minimamente contestato, dunque, «il concorso nei delitti che in quei locali avevano luogo». Ma secondo l’accusa, il sindaco avrebbe avuto «un ruolo decisivo», permettendo nella sua veste pubblica, prima la destinazione senza gara alla struttura “La Cura” di un immobile pubblico a Bibbiano, poi l’affidamento a psicoterapeuti come Claudio Foti e Nadia Bolognini, entrambi indagati, della terapia dei minori affidati alla Val d’Enza. E i magistrati parlano dunque di un’adesione a quello che viene definito “Metodo Foti”, anche se determinata da mere motivazioni politiche: per l’accusa, infatti, creare un centro con esperti famosi come quelli della onlus “Hansel e Gretel” avrebbe accresciuto il suo potere politico con un forte ritorno di immagine. Secondo i il Tdl, dall’interrogatorio di Carletti emergerebbe «la volontà di proseguire la sua carica di sindaco di Bibbiano con un metodo di azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante». Ed è per questo motivo che per il collegio dei giudici «sussiste tuttora il pericolo di reiterazione di reati dello stesso tipo». L’atteggiamento del sindaco, dunque, sarebbe rimasto immutato, «non avendo determinato il tempo di tre mesi decorso in regime cautelare alcuna modifica nel suo atteggiamento», deduzione per la quale i giudici si richiamano all’interrogatorio del 12 agosto. E i rapporti politici sul territorio sarebbero rimasti intatti, rendendo dunque plausibile il rischio di poter influenzare qualcuno all’interno dell’amministrazione comunale fino a tre mesi fa da lui guidata. La permanenza coatta ad Albinea basta, perciò, a scongiurare qualsiasi rischio, secondo i giudici, non potendo, in tal modo, svolgere attività pubblica e soprattutto mantenere legami e influire su amministratori e dipendenti di enti locali territoriali a lui vicini. «L’isolamento a cui l’obbligo di dimora lo costringe – si legge nell’ordinanza appare misura adeguata e sufficiente al fine di recidere per il momento i contatti con il mondo professionale e pubblico in cui si collocava, ritenendo che anche i contatti via telefono o telematici saranno depurati di ogni possibile connotazione di reiterazione o inquinamento, alla luce della serra attività di intercettazione già svolta nel corso dell’indagine». Il ricorso per la revoca dei domiciliari, presentato dagli avvocati Giovanni Tarquini e dal professor Vittorio Manes, era stato discusso lunedì scorso. La decisione del Riesame, ha commentato Tarquini, «ha ridato un po’ di libertà al mio assistito. Avevamo chiesto la revoca della misura cautelare, questa è una decisione che l’attenua: è un miglioramento e un piccolo passo verso importanti chiarimenti». Una decisione, secondo Manes, che riporta le contestazioni «a una dimensione diversa e molto più contenuta rispetto a quella che gli effetti distorsivi della fortissima campagna mediatica avevano determinato. Ne escono ridimensionati anche i termini di gravità indiziaria e di necessità cautelare di questa vicenda». Intanto giovedì il tribunale di Bologna aveva rigettato un appello della Procura di Reggio Emilia su un’altra imputazione, per la quale la misura cautelare era già stata negata. «Su questa vicenda – ha aggiunto Manes – va tracciata una linea di distinzione molto chiara tra le presunte irregolarità amministrative che concernono l’affidamento del servizio da una parte e le modalità e le presunte distorsioni dello svolgimento del servizio di psicoterapia dall’altri». E gli i reati contestati a Carletti «si muovono solo sul primo versante ha concluso – e non hanno nulla a che vedere con i presunti abusi terapeutici» . I giudici, nel delineare la personalità di Carletti, fanno riferimento ad un episodio risalente al 2018, quando il sindaco sospeso si interessò in prima persona «circa la prosecuzione del metodo fino ad allora attuato, con cui si affidavano i minori in carico al Servizio sociale» a psicoterapeuti della Onlus piemontese “Hansel e Gretel”. Carletti si sarebbe adoperato per reperire un immobile a Bibbiano da adibire a nuova sede, dopo la dismissione della vecchia sede, oggetto di indagini per irregolarità amministrative, per far sì che la psicoterapia di Claudio Foti e dei suoi colleghi proseguisse. La scelta di cercarlo proprio nel Comune da lui amministrato, secondo i giudici, rappresenterebbe la volontà di «voler proseguire nella politica sociale che lo vedeva paladino dei diritti dei minori abusati, tuttavia incurante delle modalità con cui tale nobile scopo era attuato, anche a costo di eludere la normativa in materia e di finalizzare l’impiego di denaro pubblico al suo progetto». Dalle intercettazioni era emersa anche una sua disponibilità ad aiutare la onlus con la formazione di una comunità a Bibbiano, un centro di formazione che per il sindaco rappresentava «un buon progetto» e «un servizio alla comunità».

Bibbiano, i giudici duri su Carletti: “Spalleggiò organizzazione per ambizioni politiche”. Mattia Caiulo il 20/09/2019 su agenziadire.com dire. Il sindaco di Bibbiano è accusato di falso ideologico e abuso d'ufficio per il giro di presunti affidi pilotati a Bibbiano. Oggi gli sono stati revocati gli arresti domiciliari. Nonostante la revoca degli arresti domiciliari, sostituiti con l’obbligo di dimora ad Albinea, resta pesante la posizione giudiziaria di Andrea Carletti. Lo confermano le parole non tenere verso il sindaco sospeso di Bibbiano, accusato di falso ideologico e abuso d’ufficio nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, messe nero su bianco dal collegio di giudici del tribunale del Riesame di Bologna, Rocco Criscuolo (presidente) Mirko Margiocco e Rossana Maria Oggioni. Nell’ordinanza emessa oggi in merito al ricorso della difesa di Carletti contro la decisione del gip di Reggio Emilia di rigettare l’istanza di revoca o sostituzione della misura degli arresti domiciliari, si legge infatti in premessa che le altre persone indagate nell’inchiesta- lo psicoterapeuta Claudio Foti e gli assistenti sociali dell’Unione Comuni Val d’Enza, in primo luogo Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli, oltre agli psicologici, Nadia Bolognini, moglie di Foti ed altri “in servizio presso la Asl locale”- erano “fortemente ancorati ad una visione ideologica del proprio ruolo, che li rendeva convinti di essere in grado di assistere i minori abusati con capacità e metodo loro proprio, di cui essi erano gli interpreti, uniti nella acritica convinzione della validità scientifica della loro metodologia e del loro approccio maieutico, in grado di far emergere, con valore salvifico e terapeutico, ricordi di abusi sessuali subiti da minori con personalità fragili e in difficoltà”. Tale assioma di fondo, proseguono i giudici “era condiviso senza alcun dubbio dai protagonisti della vicenda, attuato come una vera e propria missione e intrecciato a motivazioni personali per ciascun indagato, in un misto di interessi ideologici, professionali ed economici”. In questo quadro la figura di Andrea Carletti, come sindaco di Bibbiano e delegato alle Politiche Sociali per l’Unione Comuni Val d’Enza viene descritta così: “L’adesione ideologica di Carletti al ‘metodo Foti’ era determinata da motivazioni politiche” e finalizzata a dare “lustro alla sua figura politica”. E ancora, scrivono i giudici, “il suo programma politico era impostato sulla buona riuscita della predisposizione di servizi specializzati nella cura di bambini oggetto di molestie e sul raggiungimento di risultati di eccellenza in tale campo: la buona riuscita del progetto dedicato alla tutela dei minori si riverberava sul suo successo politico”. Da ciò “la sua accettazione incondizionata delle modalità di operare dei coindagati, la condivisione delle operazioni e delle procedure poco limpide, non conformi ai parametri normativi, adottate dai responsabili dei Servizi Sociali”. Nel merito della nuova misura cautelare disposta, i giudici chiariscono poi: “Sussiste in primo luogo tuttora il pericolo di reiterazione di reati dello stesso tipo“. E nell’ordinanza spiegano il perché in due passaggi. Il primo riguarda alcune intercettazioni tra gli indagati che, venuti a conoscenza delle indagini a loro carico, si preoccupavano del destino dell’immobile di Bibbiano sede del centro “La Cura” dove venivano svolte le sedute di psicoterapia sui minori. Il fatto che dovesse essere dismesso perché oggetto di indagini per le irregolarità relative, “non ha comportato l’abbandono del progetto da parte degli indagati ma la ricerca assidua di un altro immobile che potesse essere adibito a nuova sede per proseguire la psicoterapia da parte di Foti e colleghi”. Carletti in prima persona, si legge, “si adopera per reperire un immobile a tal fine proprio a Bibbiano, paese del quale è sindaco e che vuole evidentemente mantenere come fulcro delle politiche sociali da lui perseguite, dimostrando con estrema sicurezza di voler proseguire nella politica sociale che lo vedeva paladino dei diritti dei minori abusati, tuttavia incurante delle modalità con cui tale nobile scopo era attuato, anche a costo di eludere la normativa in materia e di finalizzare l’impiego di denaro pubblico al suo progetto”. Ebbene, si legge ancora nell’ordinanza, “tale atteggiamento del sindaco di Bibbiano permane immutato ad oggi, non avendo determinato alcuna modifica il tempo di tre mesi decorso in regime cautelare”. Si cita poi un interrogatorio del sindaco del 12 agosto, in cui il primo cittadino non si dimostra affatto pentito e di fatto si dichiara pronto a rifare tutto. “Se domani semmai dovessi tornare a fare il sindaco, se venisse un soggetto, una cooperativa che si occupa di minori e di anziani e mi propone un intervento su un terreno privato e fanno l’investimento loro e io reputo che loro abbiano le caratteristiche e siano persone oneste, serie…”, dice Carletti alla Pm. Per i giudici, insomma, “emerge da questo passaggio la volontà di proseguire la sua carica di sindaco di Bibbiano con un metodo d’azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante”. Con riferimento al pericolo di inquinamento probatorio si osserva invece “che non risultano ad oggi concreti comportamenti volti a tal fine”. Dopo gli arresti non ha interrotto i rapporti incriminati. Tuttavia “la sospensione dalla carica di sindaco ad opera della legge Severino e la attribuzione ad altri della delega per le politiche sociali non si reputa abbiano determinato una cesura dei suoi rapporti con l’ambiente di appartenenza, in virtù dei soli tre mesi decorsi in regime domiciliare, essendo ragionevolmente tali rapporti di amicizia e colleganza politica ben radicati nel tempo e difficilmente scalfibili”. Ciò “comporta sicuramente una possibile influenza di Andrea Carletti su persone a lui vicine nell’ambito politico-amministrativo, con possibili ripercussioni negative sulle indagini”.

È comunque necessaria una misura. La “misura cautelare adeguata- concludono quindi i giudici- appare quella dell’obbligo di dimora nel Comune dove attualmente Andrea Carletti dimora e dove già erano in corso gli arresti domiciliari” che, pur rappresentando “una misura minore degli arresti domiciliari ne assicura tuttavia la medesima finalità, cioè l’impossibilità di svolgere attività pubblica e soprattutto mantenere legami e influire su amministratori e dipendenti di enti territoriali a lui vicini“. A margine viene infine fatto notare che con i motivi di Riesame gli avvocati di Carletti contestavano la sussistenza di gravità indiziaria, ma nell’udienza di oggi hanno rinunciato al primo motivo di gravame, insistendo esclusivamente sulla mancanza di esigenze cautelari.

Bibbiano, questa sera 20 settembre Claudio Foti a Quarto Grado: "Contro me solo fake news". Bibbiano, caso affidi illeciti: stasera Claudio Foti si difenderà davanti alle telecamere di Quarto Grado. Lo psicoterapeuta della Onlus "Hansel e Gretel" si difende e dice di non aver mai fatto l'elettroshock ai bambini. Federico Sanapo (articolo) il 20 settembre 2019 su Blasting News Italia. Continua a far parlare di sé quanto avvenuto a Bibbiano negli scorsi mesi, dove molti bambini, secondo quanto scoperto dalla Procura della Repubblica di Reggio Emilia, sarebbero stati sottratti illecitamente alle loro famiglie e dati in affido a terze persone senza alcun motivo. Per poter strappare i piccoli ai loro genitori, si sarebbero inventate le scuse più assurde, una su tutte quelle di presunti abusi che i minori avrebbero subito nelle proprie case. Ma la cosa che ha più inorridito, è stata la notizia secondo la quale ai piccoli sarebbe stato praticato anche l'elettroshock, questo in modo da poter manipolare la loro mente, facendo in modo che durante i processi potessero dire una versione dei fatti completamente differente da quella reale. Uno dei principali imputati è Claudio Foti, psicoterapeuta e direttore scientifico dell'associazione Onlus "Hansel e Gretel" che ha sede a Moncalieri, nel torinese, i cui studi sugli affidi sarebbero stati "promossi" in tutta Italia. L'uomo ha rilasciato negli scorsi giorni un'intervista alla trasmissione Quarto Grado, che da questa sera 20 settembre andrà in onda su Rete 4 e sarà condotta come sempre da Gianluigi Nuzzi e da Alessandra Viero.

Foti: Su di me solo fake news. Foti si è difeso a spada tratta davanti alle telecamere di Rete Quattro, spiegando che lui non ha mai utilizzato metodi violenti sui bambini, ne tanto meno l'elettroshock. Lo psicoterapeuta ha detto che su di lui sono state diffuse false notizie, e che non capisce tutto questo clamore mediatico su di lui. Secondo quanto riporta Tgcom24, sulle sue pagine online, durante l'intervista a Quarto Grado Foti ha dichiarato che lui ha fatto sempre del suo meglio, ma poi alla fine è stato accusato di aver utilizzato i bambini come cavie. L'uomo ha riferito che da quando è scoppiato questo caso non si è più ripreso, e che vive tutto ciò come un incubo, dal quale si augura di uscire presto.

Lo psicoterapeuta ha parlato anche della sua laurea. Inoltre, Claudio Foti ha precisato che sulla sua laurea sono state diffuse altre fake news, in quanto è in possesso di un regolare titolo di studio. Nel frattempo il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, anche lui finito nei verbali dell'inchiesta "Angeli e Demoni" è stato posto in obbligo di dimora presso il comune di Albinea. Fino a poche ore fa l'uomo si trovava in regime di arresti domiciliari, ma il Tribunale del Riesame ha accolto il ricorso presentato dallo stesso indagato. Carletti ha anche querelato il neo ministro degli Affari Esteri, Luigi Di Maio, in quanto il pentestellato lo avrebbe diffamato in alcuni post su Facebook e nei testi di alcune mail.

Bidello accusato di aver abusato di 11 bambini viene assolto, a firmare la perizia fu Claudio Foti. Il collegio peritale affermò che i piccoli erano incapaci di ricordare quello che era accaduto a causa delle suggestioni subite. Costanza Tosi, Martedì 24/09/2019, su Il Giornale. Mentre il caso Bibbiano si allarga, tanto che l’ideologia del “guru” Piemontese pare aver, negli anni, preso piede in tutta Italia, si scoprono altri indizi che individuano l’ombra del terapeuta, indagato nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, anche nell’aretino.

Il "metodo Foti" sembra aver determinato l’ennesima tragedia. Circa sette anni fa, un uomo di 51 anni che faceva il bidello in una scuola materna nel Valdarno, viene accusato di aver abusato di ben 11 bambini. Nel 2012 la prima segnalazione: una bimba, di appena quattri anni, manifesta atteggiamenti sospetti, tanto che, la madre, decide di farla visitare al Meyer, l’ospedale pediatrico fiorentino. In quell’occasione, una psicologa, ipotizza che possano esserci state violenze fisiche sulla minore. Un campanello d’allarme che induce gli altri genitori della scuola e prestare attenzione sul comportamento dei propri figli e prendere provvedimenti. I casi diventano 11. Secondo l’accusa l’uomo avrebbe portato i piccoli nel bagno, dove si sarebbero consumate le violenze sessuali. Il bidello viene messo agli arresti domiciliari, sostituiti, poi, dall’obbligo di dimora. Ma l’indagato nega e le maestre escludono che sia potuta succedere una cosa simile. Continuano le indagini. La scuola viene sorvegliata dai magistrati attraverso telecamere e microspie, ma nessun elemento giustifica le accuse. I racconti dei bambini fanno pensare al peggio. Centinaia di pagine di testimonianze distruggono il cuore dei genitori. A indirizzare i giudici nelle indagini sono alcuni disegni, fatti proprio dai minori. Secondo gli psicologi, i bimbi avrebbero tratteggiato nei fogli di carta figure riconducibili agli atti sessuali subiti. Sembra di assistere ad un film già visto. L’interpretazione delle immagini astratte create dai minori valgono all’uomo un processo che durerà anni e che, ancora, non ha visto fine. Come riporta La Nazione, è fissato per il 17 ottobre, infatti, il processo d’appello nel quale, il protagonista, ora 56enne, deve ancora difendersi dall’accusa di violenza sessuale che, in primo grado, gli era valsa una condanna a 13 anni di reclusione. A indurre i pm ad aprire il caso fu proprio Claudio Foti. Il terapeuta, nel 2012 firma la perizia che pone sotto accusa il dipendente della scuola materna nel Valdarno. Il metodo è sempre lo stesso. Deduzioni sulla base di disegni e denunce da parte dei minori avvenute dopo un percorso di psicoterapia. Così, come nei casi di Bibbiano, nei quali i bambini sarebbero però, stati plagiati e indotti a confessare abusi mai avvenuti. Il terapeuta della Hansel e Gretel fu anche presente come testimone al processo, durante il quale dichiarò che i bambini erano stati abusati e che erano in grado di testimoniare su quanto era successo. Dichiarazione subito contraddetta, in aula, da un’altra consulenza d’ufficio, che era stata disposta dal tribunale allora presieduto da Silverio Tafuro. Il collegio peritale di cui era alla guida il professor Giovanni Battista Camerini - riporta La Nazione - affermò che i piccoli sarebbero stati incapaci di ricordare quello che era accaduto a causa delle suggestioni subite. La conclusione di Foti venne definita “Sconcertante per improprietà”. Crolla la prova principale: il racconto dei minori. La sentenza è scritta. Il bidello viene assolto il primo dicembre 2016. Adesso, la corte d’appello ha disposto un’ulteriore perizia che impone che la capacità dei bimbi debba essere valutata caso per caso. I piccoli, ormai cresciuti, verranno ascoltati di nuovo. Quanto si riveleranno esatte,in questo caso, le deduzioni del terapeuta torinese? Se l’assoluzione venisse confermata saremmo, per l’ennesima volta, davanti ad una storia che ha distrutto la vita di un uomo, accusato ingiustamente di aver compiuto degli orrori e cambiato l’esistenza di bambini e famiglie costretti a vivere, per anni, con il dubbio di essere state vittime di un mostro.

BUSINESS AFFIDAMENTI. Il caso Bibbiano, a «Non è L’Arena» uno dei papà sul presunto sistema di affidi illeciti. Uno dei papà coinvolto nei presunti affidi illeciti: «Hanno stilato relazioni false su cosa si faceva e diceva». Corriere Tv il 22 settembre 2019. Il caso Bibbiano è uno dei temi affrontati nella prima puntata della nuova edizione di «Non è L’Arena» di Massimo Giletti. Parla uno dei papà coinvolti nel presunto sistema di affidi illeciti venuti alla luce nel corso dell’inchiesta ‘Angeli e Demoni’: «Hanno stilato delle relazioni completamente false su cosa si diceva e cosa si faceva all’interno degli incontri» dice l’uomo nel servizio trasmesso durante la puntata di domenica 22 settembre.

Ad Atreju la testimonianza choc di un padre di Bibbiano. "Così grazie alle mie denunce è partita l'inchiesta". Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 21 Settembre 2019. Si parla del dramma di Bibbiano, ad Atreju, nella sessione intitolata come l’inchiesta che ha fatto indignare l’Italia sugli affidi illeciti di della Val d’Enza, Angeli e Demoni. Ma non solo, si parla anche della comunità toscana il Forteto, al centro di un altro grande scandalo di sopraffazioni e violenze. Ad introdurre il senatore Fdi Alberto Balboni,  che osserva: “oggi dobbiamo chiederci perché è accaduto tutto questo”. La parola passa poi al direttore de Il Tempo Franco Bechis, il quale traccia un quadro di queste storie. La realtà  di Bibbiano, spiega, “era stata dipinta da una parte della stampa come un’eccellenza, ma con 1.200 bambini affidati ai servizi sociali occorreva rendersi conto dell’anomalia”. E prosegue ricordando che “il business degli affidamenti sia maggiore, e di molto, rispetto a quello dell’accoglienza dei migranti”. E poi è il momento delle testimonianze, introdotte dalla deputata Maria Teresa Bellucci. Per Bibbiano parla Antonio Margini. “Ricordate quei bambini affidati ad una coppia omosessuale? Ecco, io sono il papà”. E racconta come un matrimonio come tanti sia stato, un bel giorno, interrotto dalla relazione di sua moglie con una donna. “E parte, contro di me, la segnalazione ai servizi sociali. Vengono ad ispezionare la mia casa, 500 metri quadri con giardino e piscina, e viene definita ‘non idonea’. Scelta incomprensibile”. E poi prosegue ricordando, forse, il momento più duro, cioè il provvedimento che gli imponeva di vedere i suoi bambini solo in “incontri protetti”. Emerge il nome della dottoressa Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza (protagonista di questa vicenda assieme allo psicoterapeuta Claudio Foti). “Mi viene detto che io non posso vedere da solo i miei figli perché sono sospetto di essere un omofobo”. Da lì comincia un ciclo di umiliazioni, in cui addirittura questo padre viene rimproverato per come parla con i suoi figli durante gli incontri. “Ho cominciato a registrare tutto, e quando sono arrivato a 7,8 pen drive le ho portate in Procura e di fatto si è creato il “la” per l’inchiesta”. L’altra testimonianza, poi, è di Debora Ghillon, Toscana. Fu portata al Forteto, la ben nota comunità di Angelo Fiesoli, a 16 anni, incinta. “Arrivai lì per alcuni problemi che avevo in famiglia. Notai tutte le ragazze che avevano i capelli corti ed erano vestite tutte uguali. Mi venne subito spiegato che la prima regola, lì, era l’amore omosessuale. Per questo motivo c’erano molti ostacoli affinché il padre naturale di mio figlio, un ragazzo di 17 anni, avesse contatti con me e mi venisse a trovare. Un giorno, la mia madre affidataria lo prese a calci, fu l’ultima volta che lo vidi”. Da lì una fase da incubo. “Fui spinta a riconoscere come padre naturale di mio figlio, il figlio di Fiesoli”. Insomma, legata mani e piedi al Forteto. Fin quando, però non sono iniziate le prime denunce, degli altri accolti nella comunità, sottoposti a violenze e costrizioni. Anche Deborah si è unita a quel percorso di ricerca della verità. Ma si capisce che quell’incubo non finisce nè  mai del tutto. 

Milano, si lancia nel vuoto con la bambina: le avevano tolto altri due figli. La madre giù dall’ottavo piano: lei muore, salva la figlia di due anni e mezzo. Cesare Giuzzi e Gianni Santucci il 23 settembre 2019 su Il Corriere della Sera. La bambina accarezza il viso della madre. La bambina ripete: «Mamma, mamma». È inginocchiata accanto a lei. I capelli biondi della madre sono impregnati di sangue, una macchia larga sul marmo del pavimento. Le 15 di ieri passate da poco, nell’androne di un palazzo signorile al 5 di viale Regina Margherita, non lontano dal centro di Milano. La madre ha abbracciato la sua bambina, 2 anni e mezzo, e s’è buttata nella tromba delle scale, dall’ottavo piano. È morta. La bambina prova a svegliarla, in quel tempo sospeso che dura pochi secondi. Poi, una dopo l’altra, iniziano ad aprirsi le porte. Gli inquilini hanno sentito un tonfo, «come se fosse caduto un armadio». S’affacciano dall’alto. Vedono. Qualcuno perde il respiro. Qualcuno si copre gli occhi. Qualcuno urla. In sette chiamano il 118. L’impiegata di uno studio legale al piano terra esce e si trova davanti la scena. Non pensa. S’avvicina. Stacca la bambina dal corpo della madre. La tira su. Se la stringe in braccio. «Vieni con me, piccola. Vieni con me. Non stare qui». Le prime sirene attraversano il traffico. Accorrono tre Volanti della polizia. Arrivano gli specialisti della Scientifica per il sopralluogo. In pochi minuti accertano: la donna, 43 anni, ha due figli (8 e 11 anni) da una vecchia relazione con l’erede di una dinastia industriale lombarda. La bambina più piccola l’ha avuta con un altro uomo. Il palazzo per uccidersi con sua figlia l’ha scelto a caso. È entrata. Al custode ha detto: «Devo andare nello studio legale». Ha lasciato il passeggino all’ingresso, ha preso l’ascensore e ha appoggiato la borsa sul pianerottolo prima di buttarsi. «La bambina è viva, è un miracolo», bisbiglia un soccorritore. In serata, dopo un intervento all’ospedale «Niguarda», diventa una certezza: la piccola non ha lesioni cerebrali, solo fratture e violenti traumi al torace e all’addome, resta in pericolo di vita per tutto il pomeriggio, in serata i medici dicono che si salverà. Il Corriere non rivela alcun dettaglio personale della donna per proteggere i suoi bambini. Nella borsa i poliziotti trovano una convocazione dal Tribunale per i minorenni per un’udienza del 26 settembre, giovedì prossimo. La vita alla deriva di questa madre è raccontata negli atti giudiziari. Laureata in legge. Praticante senza aver mai lavorato. Molto benestante, di famiglia e di relazioni. I primi due figli affidati al padre. L’ultima perizia, di lei, diceva: «Gravi disturbi di personalità, narcisista e immatura, ma no disturbo psichiatrico». Poi ha conosciuto un altro uomo. È nata la bambina, che da sempre è affidata ai servizi sociali, ma in carico alla madre. Avrebbero dovuto vivere insieme in una comunità a Milano. Ma la madre s’allontanava di continuo. Ci sono molte segnalazioni, anche sull’uso di cocaina. Negli atti (di parte) viene accusata di avere relazioni molto ambigue, di uscire dalla comunità per andare al mare o nei locali, di lasciare la bambina da sola, di aver falsificato un certificato medico per non far vedere la figlia al papà, che avrebbe diritto a stare con lei 4 ore a settimana. Soprattutto, seguito dagli avvocati Daniela Missaglia e Giuseppe Principato, da agosto l’uomo ha intrapreso un nuovo percorso legale che, più dell’affido, puntava a un obiettivo netto e urgente: la mamma è pericolosa per la bimba. Di questo si sarebbe discusso in aula tra due giorni. Alle 10 di ieri mattina la donna ha mandato un sms al suo avvocato, Federico Balconi. Diceva: «Ho scritto una piccola memoria in cui smentisco punto per punto i testimoni. Ci vediamo alle 16, vero?». Alle 15 s’è trovata per caso davanti a quel palazzo col portone spalancato su viale Regina Margherita. Ed è entrata con la sua bambina.

«La donna ha ammesso i suoi errori»: l’ultimo referto  5 giorni prima che si lanciasse dall’ottavo piano con la figlia. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 su Corriere.it da Elisabetta Andreis e Gianni Santucci. Il 18 settembre, mercoledì della scorsa settimana, i servizi sociali del Comune scrivono una stringata relazione. Il documento, non più di una ventina di righe, certifica però alcuni fatti che oggi diventano cruciali. Elementi che aprono una prospettiva ancor più nera sul suicidio della donna, 43 anni, che poco dopo le 15 di lunedì scorso, 23 settembre (cinque giorni dopo quella relazione), si è lanciata dall’ottavo piano di un palazzo portando con sé la sua bambina di 2 anni e mezzo. In quel documento i servizi sociali, che hanno in affido la piccola fin da quando è nata, prendono atto che la madre non vive da tempo nella comunità alla quale è stata assegnata e dove dovrebbe passare (almeno) tutte le notti. Sostengono di averle proposto una comunità alternativa, ma che la donna l’ha rifiutata. La signora ha detto di vivere in un suo appartamento, e lo fa come se fosse libera (e non lo è) di condurre la sua vita in piena autonomia. Come se le direttive del Tribunale per i minorenni e delle autorità fossero elastiche, poco più che suggerimenti. I servizi sociali ritengono anche che, rispetto a tutto questo, la signora si sia ravveduta, «riconoscendo di aver commesso molti e gravi errori» (appunto, una continua violazione delle prescrizioni: le regole che avrebbe dovuto rispettare per vivere in comunità e in semi-autonomia accanto a sua figlia). Ecco, di fronte a questa situazione non si accende alcun allarme, non nascono sospetti, non si ritiene di dover valutare un qualche intervento d’urgenza. Il contenuto di questo documento va letto in parallelo con le richieste affannate e accorate del padre di quella bambina, che con i suoi legali Daniela Missaglia e Giuseppe Principato, dopo continue segnalazioni, a settembre ha consegnato al Tribunale un faldone di indagini difensive che contiene testimonianze, chat, foto e video: raccontano che quella madre ha istinti al suicidio, ha detto di voler uccidere la figlia, è stata denunciata per abbandono di minore, ha un giro di frequentazioni molto ambiguo. Con istanze urgenti al Tribunale del 2 settembre, 9 settembre e in un’udienza del 12 settembre, l’uomo e i suoi avvocati hanno invocato l’affido o in alternativa la protezione della bimba. L’immagine di quella donna però, dall’altra parte, è stata definita per mesi da educatori, assistenti sociali e periti, cristallizzata escludendo qualsiasi elemento di rischio. È accaduto anche con la stessa comunità di Milano che il 10 luglio, quindi due mesi e mezzo prima della tragedia, in un’altra relazione sostiene di avere il sospetto, «da settimane», che la donna non rientri neanche di notte. Si limitano a richiamarla e la invitano a riprendere gli incontri con la sua educatrice, che la donna (sempre per sua decisione) ha sospeso dalla primavera. Anche questa relazione (pur dicendo che è più serena, più sicura e che ha una ricca relazione con la bambina) dimostra che quella donna viveva di fatto in autonomia quasi totale, e senza alcuna vigilanza, o comunque con blandi richiami. L’unico elemento problematico, si ripeteva, era il conflitto col padre della bambina. La donna è morta. La piccola si è salvata, ma è ancora ricoverata in condizioni gravissime al Niguarda.

La figlia, le liti, i servizi sociali:  l’inchiesta sulla madre suicida. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it da Elisabetta Andreis e Giuseppe Guastella. Ipotesi istigazione a carico di ignoti: in Procura le carte del Tribunale per i minori sulla morte della madre che lunedì si è lanciata dall’ottavo piano con la figlia di 2 anni in un palazzo di viale Regina Margherita.

Affido sotto esame. L’inchiesta per istigazione al suicidio è stata aperta subito dopo la morte della madre che lunedì si è lanciata con la figlia di 2 anni e mezzo dall’ottavo piano di un palazzo in viale Regina Margherita. Ma quello che avrebbe dovuto essere un «contenitore» formale per fare tutti gli accertamenti necessari e di routine, come avviene sempre in questi casi, a breve inizierà a «riempirsi» di una mole di documenti sulla storia della donna di 43 anni e della sua bambina (che si è salvata ma è ancora in condizioni gravissime al «Niguarda»). Il sostituto procuratore Maura Ripamonti, titolare del fascicolo, ha chiesto infatti al Tribunale per i minorenni di Milano tutta la documentazione sulla vicenda dell’affido della bambina, che fin dalla nascita è stata in carico ai servizi sociali. Allo stesso modo di altri fatti di questo genere, di fronte a una persona che decide di uccidersi, l’istigazione al suicidio viene ipotizzata contro ignoti e non ha alcun legame con quello che è accaduto prima. In questo caso però esiste una battaglia legale tra i genitori, contenuta negli atti in possesso dei giudici minorili: documenti che dovranno essere esaminati dal o Ripamonti per valutare se esistano responsabilità di qualcuno e di che genere siano. Il che potrebbe, eventualmente, anche far modificare le accuse. L’inchiesta della Procura avrà dunque l’obiettivo di mettere ordine in quella storia cristallizzata in migliaia di pagine, che comprendono relazioni dei servizi sociali e degli educatori della comunità che ospitavano madre e figlia, perizie di parte o ordinate dai giudici, memorie e indagini difensive. Migliaia di pagine in cui si trovano due ricostruzioni totalmente opposte della realtà. Da una parte, la donna si descrive unicamente vittima di un complotto per sottrarle figlie (già due sue bambine erano state affidate al padre). Una linea sulla quale esiste una generale concordanza con le relazioni dei servizi, della comunità e dei consulenti di parte. Di fatto, emerge l’immagine di una donna che aveva una buona relazione con la figlia e che, pur con parecchie mancanze nel rispetto delle regole, si stava avviando verso un’autonomia. Dall’altra parte, sempre al Tribunale per i minorenni sono raccolte le decine di istanze del padre della piccola, rafforzate anche da corpose indagini difensive, in cui la donna era accusata di usare cocaina, di aver abbandonato in qualche caso la figlia da sola (su questo esiste anche una denuncia penale a Brescia), di avere frequentazioni ambigue, di essere psicologicamente instabile di aver manifestato più volte istinti suicidi. L’ultima richiesta di proteggere la bambina risale a tre ore prima del suicidio. L’unico punto di contatto, al momento, è l’ammissione della donna di alcune sue mancanze: «L’avere a volte disatteso i regolamenti della comunità, così come tutte le altre sciocchezze — si legge nella sua ultima memoria difensiva — sono state fatte esclusivamente per quello che io ritenevo il bene della mia bambina». Il punto chiave però, per la donna, era chiarire di essere vittima di attacchi e false accuse da parte del padre.

GLI ORCHI, LA FAMIGLIA, LA POLITICA. Franco Bechis su Bibbiano: "Pensavo usassero il caso contro il Pd, poi ho letto le carte". La scoperta-shock. Libero Quotidiano il 23 Settembre 2019. "Bibbiano è Italia, è Europa, è il mondo, è lo specchio della decadenza di una civiltà". Franco Bechis, sul Tempo, spiega perché è giusto continuare a parlare dell'indagine sullo scandalo adozioni della cittadina nel Reggiano. Un caso di cui Matteo Salvini e Giorgia Meloni parlano da mesi, e che di contro il Pd che vede alcuni suoi esponenti coinvolti sta trascurando. Il direttore è intervenuto ad Atreju, la festa di FdI, per moderare un dibattito sul tema, chiamato direttamente dalla Meloni. "Ho sempre una certa diffidenza - confessa Bechis - sull'uso delle inchieste giudiziarie come arma politica e giornalistica (sconsiglio ai politici di farlo, prima o poi questo metodo si ritorcerà con chi lo impugna), e ancora più pudore avevo avvicinandomi a quelle cronache sulle vite di minori, spesso bambini, strappati alle famiglie naturali con provvedimenti autorizzati dalla magistratura". Anche perché chi come il M5s prometteva "Noi con il partito di Bibbiano mai" dopo un paio di settimane è stato pronto a "infilarsi proprio con quel partito nello stesso letto matrimoniale con gran piacere". Insomma, chiosa il direttore, "era chiaro l'uso strumentale del caso Bibbiano". Poi però, pungolato dalla Meloni, ha letto con attenzione tutte le carte dell'inchiesta ed è arrivato a una conclusione: "Aldilà delle responsabilità penali personali che verranno stabilite nei processi, dietro il caso Bibbiano c'è una questione culturale e antropologica profonda". Migliaia di bambini sono stati sottratti ai padri e madri naturali per venire affidati a "cooperative o comunità che fanno quel mestiere, coppie o unioni civili dello stesso sesso preferite alla famiglia originaria". I numeri del "modello Emilia Romagna" sono impressionanti: "Nei comuni della Val d'Enza cui appartiene anche Bibbiano c'erano nel 2016 1.900 bambini affidati ai servizi sociali. I minorenni in quelle stesse terre erano 12mila, quindi quelli con situazioni familiari difficili o impossibili erano addirittura il 16%. Quindi o eravamo in terre abitate solo da orchi e orchesse, o altro che modello, quella di Bibbiano era invece una anomalia che avrebbe dovuto fare saltare tutti sulla sedia e indagare per capire cosa era accaduto". Il nemico, suggerisce Bechis, forse non sono gli orchi "ma la stessa famiglia naturale. Perché retrograda, perché ancorata a vecchi stili di vita, perché non abbastanza evoluta dal punto di vista culturale, magari semplicemente perché povera. In molti di questi casi sarebbe bastato dare un aiuto economico alle famiglie naturali e i problemi sarebbero stati facilmente risolti, e a costo assai minore da quello sopportato dai servizi sociali attraverso l'affido a cooperative o case famiglia dove il costo di mantenimento di un bimbo oscillava fra 100 e 200 euro al giorno e talvolta anche molto di più". Simbolicamente, conclude Bechis, oggi al governo c'è proprio il partito di Bibbiano, "che ha le sue radici culturali in parte del Pd, ma anche dentro il M5s e nell'Italia viva di Matteo Renzi". E chi ha a cuore la famiglia naturale è all'opposizione.

Metodo Bibbiano: la storia di Mina e i “diavoli della bassa modenese”. Le Iene il 4 ottobre 2019. Matteo Viviani racconta la terribile storia di Mina e Najib. Le loro figlie sono state allontanate dalla famiglia per presunti abusi sessuali, raccontati dalle bambine 4 anni dopo essere state allontanate, in un centro che aveva già raccolto i racconti dei bimbi coinvolti nel caso dei “diavoli della bassa modenese”. False relazioni dei servizi sociali per sottrarre i bambini alle famiglie d’origine e affidarli a pagamento ad altre famiglie? Una vicenda incredibile, che ha inizio il 27 giugno scorso, quando i carabinieri portano a compimento l’operazione chiamata “Angeli e demoni”. Funzionari pubblici, assistenti sociali, medici e psicologi avrebbero, stando alle accuse, manipolato le testimonianze dei minori per allontanarli più facilmente dalle famiglie, mandandoli in affido e sottoponendoli a un ciclo di cure psicologiche a pagamento. Tutto parte nell’estate del 2018, quando sul tavolo della Procura di Reggio Emilia arrivano numerosissime segnalazioni di abusi sessuali sui minori. Segnalazioni che arrivano tutte dal servizio sociale della Val d’Enza, un gruppo di comuni del nord Italia che ha sede a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia. Gli investigatori piazzano cimici e avviano intercettazioni: per la Procura si è scoperchiato un sistema ben collaudato. Ma come funziona questo sistema? Dopo una segnalazione generica, magari quella di una famiglia in difficoltà o di maltrattamenti, si allontana subito il minore, che viene preso in carico dai servizi e avviato a un lungo percorso di psicoterapia pagato dal Comune. E quelle sedute di psicoterapia vengono fatte da una onlus piemontese, il Centro studi Hansel e Gretel. Da quel momento i bambini iniziano a raccontare di abusi sessuali terribili durante le sessioni. Ma quegli incontri si sarebbero svolti in modo assolutamente inconsueto. Un bimbo di 8 anni sta parlando con una psicoterapeuta, oggi indagata, che travestita da lupo finge di essere il papà del bambino. Questo, secondo il gip di Reggio Emilia, è fatto “per alterare lo stato psicologico ed emotivo del bambino rispetto ai propri genitori e alla loro condotta”. E dopo essere arrivato addirittura a far immaginare al piccolo la morte dei genitori. “Dobbiamo fare una cosa grossa, vedere tuo padre per come è nella realtà e sapere che quel papà non esiste più. È come se dovessimo fare un funerale”: un modo per costruire nella mente dei piccoli un ricordo di abusi. “Ma tu sentivi qualcosa là sotto nella patatina?”, dice a una bambina di 9 anni la psicologa, quando la piccola le dice di stare pensando agli abbracci di suo papà nel lettone. E quando la bimba dice un secco no a quella domanda, la psicologa insiste chiedendole se lui si muoveva. Lei, confusa da quella domanda che non capisce bene, risponde “un po’”  e allora la dottoressa tira la somma: “Eh, faceva sesso!”. Ma a quanto pare, visto che la bimba non ha mai parlato di violenze, la psicologa sarebbe arrivata addirittura a modificare un disegno della bambina, aggiungendo elementi di chiara connotazione. Dopo un anno la bimba è tornata a casa dai suoi genitori. Quella di Bibbiano è una tragedia forse già accaduta, come nel caso dei “diavoli della bassa modenese”, di molti anni prima. Un caso tornato alle cronache dopo 20 anni a seguito dell’inchiesta dei nostri colleghi Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, che lo hanno raccontato nel libro “Veleno”. Una storia che avrebbe molti punti in comune con le vicende di Bibbiano. Nel Modenese sono 16 i bambini allontanati dalle proprie famiglie, per accuse di pedofilia, satanismo e omicidi. Patrizia Micai, un avvocato che da 20 anni lavora al caso dei diavoli, dice al nostro Matteo Viviani:  “Come può essere che all’improvviso dei bambini vedano i diavoli, le bare, i morti? È un fatto inquietante”. Noi de Le Iene abbiamo trovato una storia del passato in cui gli attori principali sono proprio quei professionisti  legati al caso della bassa modenese. Una storia che sembra raccontare un metodo fuori da ogni regola. La storia di Najib e di sua moglie Mina. Najib è il padre di due ragazze che non vede da quando sono bambine. Mina è la mamma, le figlie le sono state portate dai servizi sociali appena arrivate in Italia dalla Tunisia. Siamo all’inizio del 2000: dopo la nascita della seconda figlia la donna divorzia e si sposta dalla Tunisia arrivando in Italia, dove trova un nuovo compagno. Due anni dopo, nel 2006, le bambine raggiungono la madre in Italia ma accade che il suo nuovo compagno inizi a maltrattare le bimbe. Mina si presenta al pronto soccorso, dove vengono notati i segni di quelle botte. “All’ospedale i dottori fanno tutte le visite – racconta la donna - e attivano i carabinieri, oltre a un’equipe specializzata in maltrattamenti”. Mamma e bimbe vengono prese in carico dai servizi sociali e mandate in una comunità protetta. Qui però le cose sembrano non procedere bene, tanto che una relazione dei servizi dice che la madre non si interessa alle figlie e che è capitato che uscisse senza di loro. Mina nega con tutte le sue forze, spiegando al nostro Matteo Viviani che non era possibile in alcun modo uscire da quella struttura. “Incapacità genitoriale” scrivono i servizi in una loro relazione e allora il tribunale per i minori chiede di collocarle in un ambiente protetto, “non necessariamente con la  madre”. “Sono arrivate le assistenti sociali con i carabinieri, non mi hanno detto che volevano togliermi le bambine, ma le hanno prese”. Le due figlie di Mina vengono portate in una comunità per minori, lo stesso centro che anni prima ospitava alcuni dei bimbi del caso dei “diavoli della bassa modenese”. “Era il luogo dove questi bambini venivano ascoltati”, spiega l’avvocato Patrizia Micai. Le relazioni di quel centro piemontese, dove vengono portate le figlie di Mina, sono firmate dalla psicologa Valeria Donati, che nel caso Veleno aveva raccolto le dichiarazioni del bambino zero, il bambino da cui tutto è partito”. “Prima di essere allontanato dalla famiglia, mesi prima, questo bambino non aveva mai detto nulla”, spiega ancora il legale. Le relazioni della Donati a quei tempi parlavano di funerali, di bambini seppelliti vivi, di bambini che uccidevano altri bambini. Un orrore inimmaginabile. Intanto le figlie di Mina, dopo sei mesi in quel centro, a raccontare che le botte non arrivavano solo dal nuovo compagno della madre ma anche da lei stessa. “Non ho mai picchiato le mie bambine, le amavo tantissimo”, racconta con le lacrime agli occhi Mina. La donna tenta di vedere le figlie ma questo non fa che peggiorare la situazione: i servizi scrivono che lei “è poco lucida e concentrata solo su se stessa” . A scriverlo è Federica Anghinolfi, una delle principali indagate per i fatti di Bibbiano, accusata di aver falsificato documenti per dimostrare abusi che alcuni dei bambini non hanno mai davvero raccontato. Mina si separa dal nuovo compagno, trova un lavoro ben pagato e va a vivere per conto proprio: nella nuova casa ha già le due stanze pronte per le bimbe ma niente da fare, le bimbe non tornano. Le può vedere solo per 45 minuti al mese, sempre sotto lo stretto controllo degli assistenti sociali. “Le bambine pensavano che io le avessi lasciate lì, erano cambiate, piangevano sempre”, racconta la donna. Ma le relazioni degli assistenti sono impietosi con la madre e spiegano che è solo lei a cercare il contatto fisico con le bimbe, come per dimostrare che le bambine non vogliano avere contatti con lei. All’incontro del mese però succede una cosa terribile: la bimba piange e quando la madre chiede il perché lei dice che aveva dormito con un uomo. Mina è sconvolta e dice all’assistente sociale che, se fosse stato vero, l’avrebbe uccisa. La madre chiede una prova ginecologica, che però non verrà mai concessa. Per gli operatori del centro Mina è diventata aggressiva nei loro confronti, tanto che viene processata e condannata a dieci mesi per violenza e minacce a pubblico ufficiale. Mina viene dichiarata parzialmente incapace di intendere e di volere: gli incontri con le figlie vengono sospesi e da allora la mamma non vede più le bambine. Ma la cosa ancora più incredibile è che nessuno abbia mai cercato il genitore naturale delle bambine, come dovrebbe essere per legge. Anzi, è il contrario. Il padre infatti ha presentato dieci diverse domande per potere vedere le figlie, dichiarandosi disponibile a occuparsene. L’uomo arriva a lasciare il paese d’origine e il lavoro per raggiungerle in Italia, mentre gli assistenti sociali scrivono che lui si è sempre disinteressato di loro. E quando Najib si presenta ai servizi di Reggio Emilia, viene cacciato e anche al Tribunale dei minori gli chiudono la porta in faccia. Il padre chiede ufficialmente l’affidamento delle figlie ma i servizi sono irremovibili. Gli negano anche gli incontri protetti con le bambine, chiesti da un giudice. Dopo una battaglia durata 9 anni Najib ottiene la certificazione giudiziaria che non ha mai abbandonato le bambine. Alla fine però ci si limita a un’audizione delle bambine, a cui però non viene detto che il padre le sta cercando, “per non destabilizzarle”. La madre inizia uno sciopero della fame e proteste tra Reggio Emilia e il Parlamento ma nel 2009 da quella comunità parte una nuova segnalazione contro di lei. A firmare è la responsabile del centro, la psicologa Valeria Donati, che accusa la madre di fatti infamanti: abusi sessuali e prostituzione minorile (le bambine sarebbero state abusate da uomini che la mamma portava a casa). Accuse basate sulle dichiarazioni della figlia maggiore di Mina, ma a 4 anni dall’allontanamento. Una storia incredibile di abusi e anche orge, anche alla presenza del secondo compagno della madre. Le relazioni con le presunte dichiarazioni delle bimbe sarebbero però piene di contraddizioni tra loro. Si parla addirittura di una valigia piena di soldi, coi proventi della prostituzione, che sarebbe stata sotto al letto della madre. Una valigia mai trovata. Vi facciamo notare una “piccola” incompatibilità: la psicologa Donati era responsabile della psichiatria, della comunità dove le piccole erano ospitate e “portavoce” di questa denuncia gravissima. “Come musulmana, se dormo con un uomo che non è mio marito è un grande peccato per la mia religione e per la mia morale”, aggiunge Mina. Come anche per i casi della bassa modenese, anche qui ciò che la Donati relazionava ai giudici non si sarebbe basato su registrazioni video né audio, né su relazioni di quegli incontri con le minori. In quel procedimento Anna Cavallini, perito del tribunale di Modena, è incaricato di verificare le dichiarazioni delle piccole. La stessa Cavallini era già stata perito del tribunale di Modena in uno dei processi ai “diavoli”. Ma le dichiarazioni delle piccole cambiano col tempo. All’inizio la bambina dice di non aver assistito direttamente alle violenze sulla sorella. Poi però cambia versione, aggiungendo che la sorella era presente e veniva abusata insieme a lei. Racconti francamente incredibili, con la bimba che parla di violenze avvenute addirittura in un bagno di un bar. Il risultato della visita ginecologica, 4 anni dopo l’allontanamento, è chiaro: abusi. La relazione però cita 11 indicatori di presunta violenza che un medico chirurgo specializzato in pediatria, sentito da Matteo Viviani, definisce così: “Possono essere fattori normalissimi, fin dalla nascita, in alcune bambine. Sono normali varianti della fisiologia e dell’anatomia umana, ma qui vengono poste come elementi sicuri di abuso. Su 11 indicatori citati, c’è un solo elemento che può essere ricondotto a un trauma o a un contatto sessuale . Difficile però pensare che una bambina di 5 anni venga sodomizzata con una penetrazione completa e poi la mattina dopo possa andare tranquillamente all’asilo. È un po’ inverosimile”. Relazioni però sulla base delle quali Mina è stata condannata a 8 anni di carcere per maltrattamenti e prostituzione minorile. Ma la volete sapere la cosa più incredibile? La figlia più grande di Mina viene adottata da una famiglia che abita nello stesso comune della Donati. La piccola? Addirittura dalla stessa Donati! Matteo Viviani si reca dalla psicologa ma lei non ha niente da dire. “Io non parlo di queste cose sulla stampa”. E intanto ci sono due genitori che non vedono più le proprie figlie da anni.

Bibbiano, Mauro Grimoldi a Pietro Senaldi: "Delirio di onnipotenza degli psicologi". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'8 Ottobre 2019. «Bimbi sottratti ingiustamente ai genitori? Ci sono tanti casi in Italia, quanto successo a Bibbiano non è un' eccezione, lo sa qualsiasi psicologo giudiziario. C' è una falla nel sistema, una patologia da sanare, anticorpi che non si attivano». Mauro Grimoldi, ex presidente dell' Ordine degli Psicologi della Lombardia, consulente del tribunale di Milano ed esperto nella valutazione di minori autori di reato ne ha viste tante e ha deciso di squarciare il velo delle ipocrisie. Non c' è nessuno scandalo politico, non esiste un partito di Bibbiano «e sono convinto anche che non ci sia nessun traffico, nessuna compravendita di bambini; almeno io, nella mia esperienza, non ne ho mai avuto il sentore. Tuttavia Bibbiano ha scoperchiato un enorme e reale problema». Grimoldi ci tiene a mettere subito in chiaro le cose, perché questa non è un' intervista scandalistica, ma solo la testimonianza di un professionista di grande autorevolezza che svela le proprie convinzioni dopo decenni di esperienza sul campo. La storia che ci ha raccontato è inquietante: il destino di adulti accusati di reati che generano stigma e suscitano spontaneo sdegno e orrore, o quello di bambini che hanno l' unica colpa di essere figli di genitori che si separano in modo conflittuale è affidato allo Stato. «Sbagliare per eccesso o difetto di tutele in questo caso produce sempre un disastro che deve essere evitato in ogni modo. La sorte di bimbi e genitori si dovrebbe giocare su fatti e indagini accurate, verificabili, eppure può capitare che qualcuno agisca sulla base di preconcetti ideologici» è la denuncia dello psicologo.

Dottor Grimoldi, com' è possibile che uno psicologo indichi la necessità di togliere un bimbo a una madre e a un padre senza che ci siano inconfutabili prove di incapacità genitoriale?

«È un tema di esercizio del potere, tema che mette sempre il singolo di fronte alla tentazione dell' onnipotenza. La verità che conoscono tutti gli addetti ai lavori è che esiste una nicchia minoritaria di psicologi e psichiatri cui viene affidato un compito delicatissimo, quello di esprimersi sulla capacità a testimoniare di una presunta vittima di violenza, oppure sulle capacità genitoriali di qualcuno, e che agisce sulla base di pregiudizi. Il loro ruolo, anziché ricercare la verità, diventa quello di dimostrare una tesi, di fare giustizia. Diventano dei missionari. Quando nel lavoro si incontra questo genere di consulenti d' ufficio ci si accorge che ogni dialogo o prova a discolpa portata dagli esperti di parte è inutile. Lo psicologo del tribunale conosce le conclusioni cui deve arrivare prima di iniziare. È un gravissimo problema per le conseguenze sociali dell' operato di questa minoranza di colleghi».

Questo può segnare la vita, e talora anche la morte, di cittadini comuni, che potremmo essere anche noi e i nostri figli.

«Non dovrebbe succedere, e nella maggioranza dei casi non succede. Avremmo tutti gli strumenti necessari per evitarlo, anzitutto il confronto tecnico con i consulenti nominati dalle parti in causa, ma anche i test e l' osservazione della relazione dei bambini con i genitori condotta con metodi esistenti, obiettivi e verificabili. Lo psicologo dovrebbe sempre confrontare le proprie convinzioni con la possibilità che la verità possa essere diversa. È ciò che distingue un percorso scientifico dall' ideologia. Per questo è particolarmente odiosa l' idea che il tecnico, cui è affidato un compito delicatissimo, in realtà possa talora lavorare secondo una posizione pregiudiziale, tendendo semplicemente a verificare una convenzione preordinata. Ci sono, in sintesi due modalità di approccio all' esecuzione di un compito tecnico di valutazione. Una consiste nel continuo tentativo di falsificare le proprie convinzioni, le si verifica pensando a soluzioni alternative, l' altra può essere definita confermativa di una posizione data. Si tratta di una questione etica, di tensione ideale nell' esercizio del proprio compito».

Come avviene che si dimostri che una famiglia non è adeguata o che un bambino è vittima di violenze che invece non ha subito?

«In astratto manipolare un bambino è facile. Fino a sei anni i minori sono totalmente suggestionabili, è ancora forte in loro il pensiero magico, che gli impedisce di cogliere il nesso tra causa ed effetto. Ma in realtà fino a dieci anni il bambino non ha una personalità tale da contraddire l' autorità esterna».

Lo si manipola promettendogli dei premi?

«Non serve, basta suggerirgli le risposte, chiedergli "è vero che è successa quella cosa?", per sentirsi confermare ciò che ci si aspetta. Ma in realtà è sufficiente che il bambino intuisca che ci si aspetta da lui una frase perché la dica spontaneamente. È così che la verità psicologica deforma la realtà e ne crea una parallela, sbagliata, che diventa però quella giudiziaria, e quindi, per gli effetti che produce, reale più di quella vera».

In sostanza gli si riesce a far dire quel che si vuole?

«Sì, se conduci le indagini in maniera suggestiva o senza adeguata preparazione sulla conduzione di audizione a minori. Qualcosa del genere è accaduto qualche anno fa nel caso di Rignano Flaminio».

Ma perché uno psicologo dovrebbe avere interesse a togliere un bambino ai genitori?

«Non è una questione di interesse. Direi che quella che ho definito, e ripeto essere, una patologia del sistema deriva da due tipi di pregiudizio».

Quali sono questi pregiudizi?

«Ruotano quasi sempre intorno al tema, evidentemente rilevante, della violenza e dell' abuso. Ci sono i negazionisti, che quando incontrano vissuti di violenza e di vittimizzazione nel corso di vicende di separazione conflittuale, fingono indifferenza e fanno di tutto per negarla sistematicamente. Recentemente nel corso di una consulenza, un bambino per quattro volte in un' ora ha cercato invano di raccontare le violenze cui aveva assistito per molti anni, e la consulente attivamente cambiava argomento. L' ideologia che c' è alla base spesso cerca di privilegiare, sempre e comunque, la famiglia tradizionale. Poi ci sono i cosiddetti abusologi, quelli che mirano alla dimostrazione della colpevolezza di autori di reati di violenza e abuso. Con Bibbiano si è arrivati a sospettare la manipolazione di colloqui e test. Sono convinto non solo che in astratto possa succedere ma anche di averlo visto accadere e di averlo segnalato».

Questi psicologi alla Bibbiano agiscono come santoni?

«Direi che si comportano più come missionari ciechi. Pensano di dover dimostrare una verità, e alla fine la trovano anche dove non c' è».

Diciamola tutta: gli psicologi in giudizio possono arrivare a creare una realtà che non esiste?

«L' errore qui ha cause spesso multiple e conseguenze gravi, su adulti e minori: stravolge le loro vite, le distrugge e le ricrea, producendo effetti catastrofici. Ma questo non succede solo con i minori».

Cosa intende?

«Nei processi penali, per esempio, ancora oggi lo psicologo talvolta cerca connessioni tra la personalità e lo stile di vita di un individuo e la possibilità che abbia commesso il reato».

Ma questo non è normale?

«Non dovrebbe esserlo, è vietato dall' articolo 220 del codice di procedura penale, e perfino i trattati di psichiatria forense segnalano questo come un errore grave. Ma ancora oggi ci sono giudici che chiedono se la personalità di un soggetto è coerente con la commissione di un reato o con l' esserne vittima. E psicologi che accettano di rispondere. È una metodologia lombrosiana. Sostenere che se hai un tratto somatico inquietante sei un criminale non è molto diverso dal cercare correlazioni tra un tratto della personalità e il fatto che tu abbia commesso un reato. Le prove processuali per giustificare una condanna, come un provvedimento d' affido, devono essere oggettive, non presuntive, o probabilistiche».

I giudici hanno colpe in questi affidamenti su presupposti sbagliati?

«Il giudice ha una competenza giuridica e un tempo limitato a disposizione: è naturale che si avvalga di consulenti, spesso molto validi».

Quindi il giudice è completamente manovrabile dagli psicologi?

«No. Il giudice deve affidare al consulente un compito tecnico, ma ha gli strumenti per difendersi dagli psicologi ideologizzati. I consulenti tecnici sono scelti dal magistrato tra esperti con una competenza molto specialistica. I nomi si conoscono. Se qualcuno raggiunge sempre le stesse conclusioni, è difficile che passi inosservato. Specie nelle realtà di provincia, come Bibbiano. Sono certo che il giudice, quando legge una relazione, è messo in grado di capire se le argomentazioni dello psicologo sono pretestuose o non adeguatamente motivate, specie leggendo attentamente anche le relazioni dei consulenti di parte, che sono il primo anticorpo alle perizie basate su pregiudizi».

L' esplosione del caso Bibbiano potrà in futuro sanare in qualche modo la patologia dei bimbi dati in affido con leggerezza?

«Me lo auguro ma non è facile. Trovo preoccupante che un grave problema tecnico venga strumentalizzato politicamente, perché sposta il focus».

In concreto cosa si può fare?

«Gli assistenti sociali coinvolti in casi così delicati dovrebbero avere un carico di lavoro non eccedente quanto umanamente sopportabile, ed essere affiancati da supervisioni costanti e competenti. I giudici e i consulenti dovrebbero valorizzare il contraddittorio tecnico come momento prezioso, di verifica e di garanzia. E gli Ordini degli Psicologi, infine, hanno il compito di garantire la qualità degli interventi dei propri iscritti. È una priorità l' intervento disciplinare sui casi critici, senza timore di comminare sanzioni che impediscano di nuocere a coloro che espongono le famiglie a sofferenze evitabili. Però il caso Bibbiano potrebbe produrre effetti negativi anche al contrario».

A cosa si riferisce?

«Alla donna che si è buttata dall' ottavo piano pochi giorni fa a Milano con il bimbo di tre mesi in braccio. Non escludo che la suggestione dello scandalo di Bibbiano abbia generato un eccesso di cautele rispetto a un intervento necessario». Pietro Senaldi

Sciacalli, fake e caccia alle streghe, tutta la verità sul caso Bibbiano. Simona Musco l'11 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Il presidente del tribunale dei minori smonta il caso. Secondo Giuseppe Spadaro sarebbe necessaria la figura di un legale che tuteli gli interessi dei minori. Il cosiddetto “Sistema Bibbiano” non esiste. Non esistono i «bambini portati via alle loro famiglie per fare quattrini», né migliaia di casi di ragazzini “rapiti” senza motivo dagli assistenti sociali. Una certezza emersa durante una riunione voluta dal presidente del Tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, che lo scorso 13 settembre ha incontrato i responsabili dei servizi sociali della province di Reggio Emilia, impegnati sui diversi fascicoli provenienti dalla Val d’Enza, finita al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. E se un sistema è emerso dopo quell’inchiesta giudiziaria, che ha tentato di fare luce su nove casi sospetti di affido, è quello dello «sciacallaggio» mediatico e politico. Che ora rischia di provocare un effetto anche peggiore: una sfiducia nelle istituzioni e, quindi, una riduzione delle denunce per maltrattamenti. Così come rischiano di diminuire le famiglie disposte a farsi carico dei minori allontanati dal proprio nucleo familiare, destinati così a finire in comunità. L’allarme è stato lanciato nel corso della riunione voluta da Spadaro, durante la quale si è discusso degli esiti dell’analisi effettuata su ben cento casi risalenti agli ultimi due anni e provenienti dalla zona interessata dall’inchiesta. Un’attività di approfondimento preceduta da quella relativa ai nove fascicoli finiti in “Angeli e Demoni”. Di questi, sette sono stati chiusi con un ricongiungimento dei bambini ai loro genitori, avvenuto ancor prima dell’emanazione dell’ordine di custodia cautelare. Una decisione presa su segnalazione degli stessi servizi sociali e per merito dell’attività istruttoria svolta dal tribunale, dopo aver constatato il rientro della situazione di pregiudizio. Ma anche ciò è stato usato strumentalmente: sebbene il ricongiungimento sia avvenuto prima degli arresti, la notizia è stata diffusa solo pochi giorni dopo l’operazione, alimentando l’idea che un sistema esiste ed è marcio. Per altri due casi, più complessi e frutto di segnalazioni anche da parte di insegnanti e medici, il tribunale ha deciso di effettuare un’ulteriore indagine, affidando l’incarico ad un altro servizio sociale e nominando un consulente. Ma l’analisi è andata ben oltre, appurando come su cento richieste di affido 85 sono state respinte. Un esito confortante, dunque: il sistema degli affidi, al di là delle possibili storture, funziona, perché può contare anche su procura minorile e tribunale, che accertano la fondatezza delle segnalazioni. Un lavoro che richiede qualche mese di tempo, ma che rappresenta il filtro necessario per evitare traumi inutili. Lo studio, dunque, dà una certezza: al netto della patologia imprevedibile, costituita da singoli assistenti sociali e psicologi disposti a commettere un reato, non esiste una macchinazione finalizzata a strappare i bambini ai propri genitori per lucrarci su, così come descritta nei mesi scorsi. Un messaggio devastante, ha sottolineato nel corso della riunione Spadaro. Ma se tale visione ha preso piede, la colpa è anche e soprattutto della strumentalizzazione, spesso a fini politici, della vicenda, con la conseguenza, denunciata dai servizi sociali, che ora tutto il sistema è in difficoltà. E di bambini realmente maltrattati «ce ne sono a migliaia». Le criticità, però, non mancano. E tocca al legislatore – ora affiancato dalla “task force” del ministro della Giustizia – risolverle, ha sottolineato durante il vertice Spadaro. Che ha avanzato dei suggerimenti, come quello di nominare «un curatore speciale, con un avvocato per ogni minore, a prescindere dai genitori». Ma il primo punto su cui intervenire, ha sottolineato, è l’articolo 403 del codice civile, per ridurre il potere autonomo in via d’urgenza in capo ai servizi sociali, che consente loro di effettuare allontanamenti in via temporanea. Sarebbe utile, poi, accordare maggiori poteri giurisdizionali di controllo ai giudici minorili, con modifiche sulla procedura per una maggiore partecipazione nel rispetto del contraddittorio e un aumento delle piante organiche dei tribunali dei minori. Rimane la preoccupazione per gli effetti mediatici della vicenda. «Trovare persone disposte a prendere in carico bambini con così grossi problemi è difficile – ha evidenziato Spadaro nel corso della riunione – e ora lo sarà ancora di più. Sono persone straordinarie, disposte a prendersene cura pur non avendo la certezza che un giorno saranno i loro genitori». Un problema che si associa allo scoramento dei servizi sociali. «Se ci sono 17 mele marce – ha aggiunto non si possono buttare via 10mila assistenti sociali».

«A Bibbiano un sistema sano». Il Pd cerca di “cancellare” lo scandalo e vuole le scuse. Leo Malaspina giovedì 10 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. «Su Bibbiano qualcuno chiederà scusa al Partito democratico per mesi e mesi di calunnie?», si domanda il deputato del Pd Ubaldo Pagano. La faccia tosta è clamorosa, ma non è l’unica. Da questa mattina, sulle bacheche dei militanti del Pde anche di alcuni parlamentari, è tutto un fiorire di commenti. Lo scandalo degli affidamenti del paesino emiliano, che vede coinvolto anche il sindaco dei Democratici, sembra essere diventato una fake news. «Dovranno chiederci scusa», «Ecco, avete visto?», «A Bibbiano non è accaduto nulla». Il motivo?

La faccia tosta del Pd: su Bibbiano vuole le scuse. Cos’è successo? La novità è una dichiarazione del giudice del Tribunale dei minori di Bologna, secondo cui – a parte i casi accertati di abuso, 15 su cento – «il sistema dei servizi sociali era sano». Sano perché a fronte di un centinaio di segnalazioni di affidi illeciti o scorretti, in 85 casi non si è arrivati all’allontanamento dei bambini, archiviando le denunce arrivate. Ma va chiarito che i casi “sospetti” non sono affatto il 15%. «In una trentina di casi difficili i giudici hanno deciso l’affido esplorativo. I ragazzi non sono stati allontanati dalla famiglia ma i servizi sociali sono stati chiamati a sostenere genitori e figli per superare eventuali momenti di fatica. Su 100, infine, solo in 15 casi i giudici hanno accolto la richiesta di allontanamento. La decisione è arrivata soltanto dopo verifiche approfondite svolte dai consulenti incaricati», spiega l’edizione di Repubblica Bologna, citando il Tribunale dei Minori. L’indiscrezione sarebbe emersa a margine di una riunione voluta dal presidente Giuseppe Spadaro per fare il punto della situazione dopo l’indagine “Angeli e Demoni”.

«Il sistema è sano, a parte le mele marce…». Secondo quanto spiega Repubblica, Monica Pedroni, nuova dirigente dei servizi con sede a Bibbiano, avrebbe rassicurato gli operatori: « Se vi sono state mele marce che hanno tentato di frodarci processualmente devono essere giudicate dalla magistratura e punite in maniera severa. L’assistente sociale è di fatto come la polizia giudiziaria per un pm, dunque chi ha sbagliato dovrà essere punito». Secondo il presidente Spadaro il “sistema” ha dimostrato nel suo complesso di essere sano: « Voi servizi sociali svolgete un delicato e fondamentale ruolo nel nostro Paese di tutela dei minori, non mollate e continuate a lavorare con prudenza, professionalità e coraggio». Nel complesso, significa che il 30% dei casi è sospetto: se vi sembrano pochi…  In una trentina di casi, infatti, i giudici hanno deciso per «l’affido esplorativo»e in 15 casi i giudici hanno accolto la richiesta di allontanamento. Numeri che – se confermano che non tutti a Bibbiano erano corrotti o in malafede, tra gli operatori sociali, com’è ovvio – non sgonfiano affatto lo scandalo. Anzi, ne confermano la gravità.

Bibbiano, respinti otto allontanamenti su 10. Il Tribunale dei minori: «Il sistema ha retto». Il presidente Spadaro fa il punto: «Se ci sono mele marce devono pagare». Redazione, Giovedì 10/10/2019, su Il Giornale. Sono passati tre mesi dall'esplosione dell'inchiesta della Procura e dei carabinieri sulla drammatica vicenda di Bibbiano, in val d'Enza. Un centinaio di bambini allontanati ingiustamente dalle famiglie, l'accusa. Psicologi, psicoterapeuti e assistenti sociali sotto inchiesta, anche il sindaco di Bibbiano coinvolto nel caso. Adesso l'intera vicenda viene ridimensionata da Giuseppe Spadaro, presidente del tribunale dei minori di Bologna. Ma ciò non significa che si possa fare come se non fosse mai accaduto nulla, perché le segnalazioni - rivelatesi per lo più infondate - sono partite o transitate attraverso i servizi sociali e così il sistema di verifiche sembra aver bisogno di un'importante revisione. «Su cento segnalazioni solo in 15 casi i giudici hanno accolto le richieste di allontanamento» sintetizza Giuseppe Spadaro, facendo il punto della situazione dopo l'indagine ribattezzata in modo inquietante «Angeli e Demoni». Alla riunione voluta da Spadaro , come riporta Repubblica.it, hanno preso parte i responsabili dei servizi sociali della province di Reggio Emilia impegnati sui diversi fascicoli della Val d'Enza. E Spadaro avrebbe rassicurato gli operatori: «Se vi sono state mele marce che hanno tentato di frodarci processualmente devono essere giudicate dalla magistratura e punite in maniera severa. L'assistente sociale è di fatto come la polizia giudiziaria per un pm, dunque chi ha sbagliato dovrà essere punito». Ma il sistema nel complesso sarebbe sano: «Voi servizi sociali svolgete un delicato e fondamentale ruolo nel nostro Paese di tutela dei minori, non mollate e continuate a lavorare con prudenza, professionalità e coraggio». Come spiega Spadaro, su cento fascicoli esaminati non è stata riscontrata nessuna anomalia, ma c'è voluta tutta l'estate per passare allo scanner le richieste di provvedimenti per i minori della Val d'Enza. Questo periodo è stato usato dai magistrati per controllare la regolarità degli allontanamenti dei bambini dalle loro famiglie. Il dato emerso, per i giudici, è confortante. Eppure, ad approfondire che cosa si nasconde dietro le statistiche, ovvero l'odissea di intere famiglie, i numeri dicono che su un centinaio di segnalazioni dei servizi di Bibbiano, con i quali si prospettava l'allontanamento dei bambini, in 85 casi il Tribunale ha deciso diversamente, ovvero di lasciare i bimbi nelle proprie case. In una trentina di casi difficili i giudici hanno deciso «l'affido esplorativo»: i ragazzi non sono stati allontanati dalla famiglia ma i servizi sociali sono stati chiamati a sostenere genitori e figli per superare eventuali momenti di fatica. Su 100, infine, solo in 15 casi i giudici hanno accolto la richiesta di allontanamento. La decisione è arrivata soltanto dopo verifiche approfondite svolte dai consulenti incaricati.

Meluzzi al legale di Foti: "Se fossi bimbo abusato mi asterrei da Bibbiano".

La risposta dell'avvocato: "Non si permetta di toccare questo tasto perché non ci fa una bella figura". Francesca Bernasconi, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. "Se fossi stato un bambino abusato mi asterrei da questioni che riguardano l'abuso di bambini". Con queste parole, lo psichiatra Alessandro Meluzzi ha attaccato Andrea Coffari, avvocato di Claudio Foti, direttore scientifico della onlus Hansel e Gretel, implicata nell'inchiesta Angeli e Demoni, durante la puntata di ieri di Quarto Grado. Secondo il professor Meluzzi, generalmente, "un buon criterio psicanalitico e psicologico dovrebbe spingerci ad astenerci da questioni che sono state parti gravi nella formazione della nostra personalità e del nostro disagio". Quindi Coffari, che è stato un bambino abusato, non dovrebbe occuparsi dello scandalo di Bibbiano. "Mi lasci dire- continua- che io considero questa sua assunzione di difesa una cosa professionalmente incauta: se fossi stato un bambino abusato mi asterrei da questioni che riguardano l'abuso di bambini". Immediata la risposta dell'avvocato che paragona il suo caso a quello di Primo Levi che, seguendo il ragionamento del professore, non avrebbe potuto scrivere il libro Se questo è un uomo, tornando ad occuparsi di abusi da lui stesso subiti. "La storia la scrivono i testimoni, le vittime sono testimoni di una storia- dice con forza Andrea Coffari-Perciò non si permetta di toccare questo tasto perché non ci fa una bella figura". E conclude avvisando lo psichiatra: "Parla a vanvera di un metodo Foti che non mi sa descrivere. Se ne parla in maniera negativa commette atto di diffamazione". Ma Meluzzi non sembra affatto intimorito e risponde: "Ne risponderò in tribunale".

Il centro del sistema Bibbiano: ecco tutti i tentacoli di Foti. Il professore finito al centro dell'inchiesta ha un passato poco noto: ecco quale. Costanza Tosi e Elena Barlozzari, Venerdì 11/10/2019, su Il Giornale. Dall’Emilia alla Campania lo scandalo degli affidi illeciti si allarga a macchia d’olio. Sono sempre di più le famiglie che denunciano l’allontanamento dei propri bimbi sulla base di false accuse. A Salerno la Procura si è già messa in moto per rivedere alcuni casi, mentre in città come Verona e Roma sono emerse storie che ricalcano in maniera impressionate quelle che arrivano da Bibbiano. Storie di mamme e papà accusati di aver abusato dei propri figli senza uno straccio di prova, storie di famiglie divise e minori portati via dalle proprie case come fossero dei pacchi. E a Torino? Dopo l’arresto di Claudio Foti, i riflettori sul capoluogo sabaudo si sono spenti, eppure è qui che il professore di Pinerolo, finito al centro dell’inchiesta Angeli e Demoni, ha mosso i primi passi come terapeuta. Siamo nel 1980, Foti ha in tasca una laurea in lettere ma finisce a fare un tirocinio da psicologo all’ospedale di Novara. Appena due anni più tardi darà vita alla sua creatura: la Hansel e Gretel di Moncalieri. Qualcosa di più di un quartier generale. La onlus è anche il biglietto da visita con cui il terapeuta riesce ad accreditarsi presso le procure di mezza Italia. I primi li assume a Torino, dove diventa consulente e perito nei processi di abusi e maltrattamenti sui minori, arrivando persino a ricoprire il ruolo di giudice onorario minorile. Sono gli anni in cui entra in contatto con l’establishment piemontese. Chi se lo ricorda ai tempi degli esordi lo descrive come un personaggio "estremamente carismatico e rassicurante". A fare da cerniera tra lui e quel mondo sono soprattutto gli eventi di respiro internazionale che organizza in città e che lo rendono popolare. La sua credibilità non viene scalfita neppure quando, alla fine degli anni Novanta, l’attività di consulente tecnico d’ufficio si interrompe bruscamente. “Non ho mai visto una perizia d’ufficio, né della procura né del tribunale giudicante, a firma del dottor Foti almeno dal 97”, ci racconta la psichiatra e storica consulente Patrizia De Rosa. Ad un certo punto, infatti, “l’azione giudicante si è resa conto di non aver bisogno di perizie assertive che spesso non si integravano con gli altri elementi di indagine”. Questo perché, il metodo Foti, ci conferma l’esperta, era caratterizzato da “un atteggiamento di estrema vicinanza a quello che riferivano la madre o il padre autori della denuncia”.

Nonostante l’inciampo, il professore continua a godere di ottima considerazione a livello istituzionale. Se per mesi si è parlato di "partito di Bibbiano" in riferimento al Partito democratico, accusato di aver promosso e sostenuto le attività di Foti, l’esperienza torinese insegna che, almeno all’ombra della Mole, l’infatuazione per il guru della psicoterapia sia stata trasversale. Il rapporto tra il Comune di Torino e la Hansel e Gretel, infatti, è stato costante. L’amministrazione guidata dalla grillina Chiara Appendino, ad esempio, ha destinato un assegno di 195mila euro a una decina di realtà volontaristiche. Tra queste spicca proprio la onlus di Foti. Ma già nel febbraio dello stesso anno, Palazzo Civico aveva concesso il suo patrocinio al trentennale dell’associazione. La tre giorni si è svolta in una sala di proprietà della Regione Piemonte, all’epoca governata dal dem Sergio Chiamparino. Uno spazio che, in più occasioni, ha ospitato i seminari organizzati da Foti e rivolti a psicologi, medici, operatori sociali, educatori, insegnanti, insomma tutte quelle figure che lavorano a contatto con bimbi e ragazzi. Parallelamente si intensificano le attività cliniche e terapeutiche. Fiore all’occhiello del progetto è proprio l’equipe che si occupa di maltrattamenti e abusi. Un gruppo di esperti che aveva il compito di diagnosticare il trauma nei casi segnalati dai servizi sociali. Il metodo utilizzato, era lo stesso che, a suo tempo, i tribunali torinesi avevano rottamato, rimpiazzando Foti e il suo staff con consulenti meno "ossessionati" dalla conferma dell’abuso. Una tendenza confermata dai dati diffusi in rete dalla stessa onlus: nel 70% dei casi affrontati, circa 400 dal 2011 al 2015, gli allievi del terapeuta hanno riscontrato il trauma. “Torino è una super Bibbiano. Il caso Hansel e Gretel, il caso Foti nascono proprio qui, quindi se dovessimo trovare un luogo che è la testa della piovra direi che questo è Torino”, ci spiega il professor Alessandro Meluzzi. Per andare a fondo sulla questione è stata creata una commissione d’indagine a Palazzo Lascaris, su iniziativa del capogruppo di Fratelli d’Italia, Maurizio Marrone. “La Hansel e Gretel ha formato intere generazioni di assistenti sociali, educatori, operatori, giudici onorari, tutte figure che appartengono allo stesso ambiente, e il rischio - sostiene il consigliere - è che questo abbia portato a una diffusione capillare dell’ideologia fotiana”.

La rabbia degli assistenti sociali:  «Il 90 % è bersaglio di minacce». Pubblicato venerdì, 11 ottobre 2019 da Corriere.it. Una ricerca choc, realizzata su oltre 20mila assistenti sociali. Questi i risultati: il 90% degli operatori è stato vittima di aggressioni verbali, sono cioè stati minacciati di comportamenti ritorsivi. Tre su 20 hanno subito una forma di aggressione fisica. Uno su 10 ha subito danni a beni o proprietà, più di un terzo teme per sé o per la propria famiglia. Le vittime sono per lo più donne, che rappresentano la gran parte delle operatrici. Si tratta del cosiddetto “effetto Bibbiano”? No, perché la ricerca (presentata il 15 ottobre a Bologna durante il convegno «AmbienteLavoro») è del 2017 e quindi le cose non vanno bene da tempo. Gli effetti di quella vicenda, ancora aperta, sono caso mai riferibili ad un altro dato, come spiega Gian Mario Gazzi, Presidente del «Consiglio nazionale ordine degli assistenti sociali» (Cnoas). «Sul nostro sito abbiamo un sistema di rilevazione delle minacce: nel periodo estivo, che di solito registra un calo di casi, quest’anno abbiamo registrato una segnalazione al giorno». Quel conto quindi deve ancora essere fatto, mentre gli unici dati di cui per ora siamo in possesso, e che sembrano destinati a peggiorare, sono questi: considerando l’intero arco della carriera professionale, episodi di violenza fisica hanno coinvolto il 15,4% del campione. 872 intervistati dichiarano che in tali eventi l’aggressore ha utilizzato un oggetto o un’arma. L’indagine ha approfondito le modalità in cui si è espressa la violenza fisica contro gli assistenti sociali intervistati, in riferimento all’ultimo trimestre precedente la compilazione del questionario, rilevando che il 2,5% (503 assistenti sociali) è stato spinto da un utente; l’1,1% (214 assistenti sociali) è stato colpito con un pugno o un calcio da un utente; lo 0,7% (126 assistenti sociali) ha subito una violenza fisica che ha comportato un intervento medico importante e lo 0.9% (192 assistenti sociali) ha subito una violenza fisica che ha comportato un intervento medico di lieve entità. In un arco temporale così breve, tre mesi, sono stati oltre mille gli assistenti sociali coinvolti. L’esposizione al rischio di subire violenza o aggressività verbale è nettamente superiore nei servizi territoriali dedicati alla tutela minori o alla fragilità adulta, rispetto ai servizi dedicati a chi è sottoposto a misure penali o a servizi più orientati alla consulenza come i consultori. Secondo i numeri forniti dalla Croce Rossa Italiana, nel 2018 si sono verificati 3mila casi documentati di aggressioni agli operatori sanitari. I dati raccolti da Anaao Assomed con un sondaggio del maggio 2018 su un campione di 1.280 soggetti, confermano l’allarme: oltre due medici su tre dichiarano di aver subito aggressioni fisiche o verbali. Aggressioni che consistono in spinte, schiaffi, botte, insulti e minacce. Pronto soccorso, psichiatria e Sert i settori più a rischio. La Croce Rossa Italiana, a metà giugno, ha rilanciato la campagna “Non sono un bersaglio”, diffondendo i dati del primo semestre raccolti dall’Osservatorio creato nel dicembre 2018. Grazie a questionari anonimi tra i propri volontari, la Cri ha potuto rilevare che: quasi la metà delle aggressioni, il 42%, è fisica, e non si limita all’insulto o all’invettiva; quasi la metà delle aggressioni, il 47%, avviene in strada; più di una su quattro, il 28%, è ad opera del branco.

Quel che resta di Bibbiano: tracollo degli affidi, assistenti sociali aggrediti. Simona Musco il 12 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Prima di Bibbiano, il sistema italiano degli affidi era «tra più invidiati al mondo». Ma ora, di famiglie disposte ad accogliere i minori ne sono rimaste poche e i servizi sociali sono meno propensi a segnalare i casi problematici. Il sistema italiano degli affidi «è tra i più invidiati al mondo», aveva evidenziato qualche giorno fa, nel corso di una riunione con i responsabili dei servizi sociali della Val d’Enza, il presidente del tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro. Eppure, dopo il caso Bibbiano, tutto rischia di crollare. A partire dal numero delle famiglie affidatarie, ormai ridotte all’osso. Ma non solo: i servizi sociali sono meno propensi a segnalare i casi problematici e gli stessi operatori sono costantemente vittima di aggressioni. Un clima che trova le sue ragioni nella sfiducia generata dal racconto che del caso Bibbiano è stato fatto, che ha criminalizzato l’intero mondo dei servizi sociali. A segnalare la situazione di pericolo è il presidente del consiglio nazionale dell’ordine degli assistenti sociali, Gianmarco Gazzi, che parla di una «situazione drammatica». Una situazione in cui, «per propaganda – spiega al Dubbio – si è fatta di tutta l’erba a un fascio». Il racconto mediatico e politico del caso Bibbiano ha infatti messo in difficoltà le persone più fragili, rendendole meno propense «ad avvicinarsi ai servizi». Col rischio «di perderci intere situazioni che hanno invece bisogno di aiuto e di tutela – sottolinea – Inoltre, da quando tutto è iniziato i miei colleghi sono oggettivamente ancora più a rischio di aggressioni, violenze, minacce». Sono infatti aumentate le segnalazioni in tal senso: Gazzi parla di «un caso al giorno», con nove assistenti sociali su 10 che aggrediti nella propria vita professionale. «E non parliamo di urla: ci sono colleghi finiti in ospedale con 20- 30 giorni di prognosi aggiunge – L’ultimo caso nel comasco: un assistente sociale è stato aggredito, ma non dalla famiglia in cui si stava svolgendo l’allontanamento, che ha anzi collaborato, bensì dai vicini». I pericoli derivano anche dalle fake news sui numeri: «c’è chi ha diffuso cifre irrealistiche e scorrette, blaterando su cose come 500mila minorenni allontanati dalle famiglie». Ma la realtà è molto diversa: il ricorso a tale strumento, in Italia, come riportato nella relazione sullo stato di attuazione della legge sull’affidamento, elaborata dal ministero della Giustizia e dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali relativamente al biennio 2014- 2015, ha statisticamente i numeri più bassi in Europa, con 2,6 minorenni dati in affidamento ogni 1000 sotto i 18 anni, contro i 9,6 della Germania, in cima alla classifica, e i 3,9 della Spagna. Gli affidi familiari costituiscono circa la metà degli affidi totali: su 26.615 minori in affidamento, stando agli ultimi dati disponibili, quelli del 2016, sono 14.012 quelli ospitati presso famiglie, nella maggior parte dei casi individuate tra parenti, come previsto dalla legge. I restanti 12.603 minori sono invece risultati residenti in strutture per l’affido, sulle quali ora si è concentrata l’attenzione della task force ministeriale, che ha denunciato costi troppo elevati. «Smettiamola di raccontare storie che non esistono – conclude Gazzi – Bisogna, piuttosto, discutere di interventi preventivi. L’allontanamento è l’estrema ratio. E viene spesso dimenticato che le segnalazioni non partono dai servizi sociali, ma dalle scuole o dai medici di famiglia. Dobbiamo ribadire che non è con i bonus che aiutiamo le famiglie, ma se diamo dei servizi che siano capaci di sostenerli nelle loro competenze genitoriali. Al sud non abbiamo più consultori, mentre gli assistenti sociali in forza agli enti locali sono 12mila, a fronte di 8mila Comuni». A conferma della delicatezza della situazione, anche quanto testimoniato, nel corso delle audizioni davanti alla Commissione speciale d’inchiesta sul sistema di tutela dei minori in Emilia Romagna, da Daniela Casi, una delle referenti della rete di affido di emergenza emiliana, realtà parallela ed emergenziale rispetto alla rete degli affidamenti. «La vicenda scoppiata in Val d’Enza ha creato molto disorientamento, ma noi vogliamo far emergere il bene che c’è nel mondo degli affidi – ha spiegato Si è creata una sorta di “cappa negativa” su uno degli aspetti più marginali di un affido, quello del contributo economico. Ma le famiglie affidatarie non sono interessate di certo a questo». In questo periodo, dunque, «ci stanno arrivando molte meno richieste di emergenza, ma ciò non significa che ci siano meno situazioni di difficoltà. C’è, piuttosto, meno propensione, da parte dei servizi sociali, ad intervenire». E quando si parla di allontanamento di minori, ha aggiunto, non si deve pensare solo a quelli forzati, ma anche alle stesse richieste d’aiuto delle famiglie. «Un aspetto – ha concluso – rimasto nell’ombra in questi mesi».

 Minori: quattro fratelli strappati ai genitori. Le Iene il 10 ottobre 2019. I De Stefano sono una bella famiglia napoletana che per venti anni ha dovuto affrontare un incubo terribile. Questa sera a Le Iene la loro storia nel servizio di Veronica Ruggeri. Vedersi portare via i propri figli senza alcuna colpa. Questa sera nel servizio di Veronica Ruggeri vi racconteremo la storia della famiglia De Stefano. Erano una felice famiglia napoletana composta da mamma Imma, papà Ferdinando e i loro quattro figli: Giusy, Gennaro, Salvatore e Antonio. Venti anni fa la loro vita è stata stravolta completamente ed è iniziato un incubo. I quattro fratelli, all’epoca bambini, vengono infatti allontanati dai loro genitori dopo che su questi cade un’accusa terribile: sfruttamento della prostituzione minorile. Un’accusa che poi si è rivelata falsa. I quattro fratelli non hanno rivisto i genitori per anni, nonostante fossero innocenti. E anche una volta stabilita dal tribunale la loro innocenza, il calvario per la famiglia continua. E l’incubo li perseguita ancora oggi.

Famiglie fragili che allo Stato chiedevano soltanto aiuto. Marco Guerra l'11 ottobre 2019 su Cultura ed Identità. Famiglie fragili, donne sole che hanno subito abusi di ogni tipo e vissuto una vita turbolenta, indigenza economica momentanea o cronica, richieste di aiuto ai servizi sociali ma al tempo stesso tanta dignità, un amore smisurato per i propri figli e una volontà sovraumana di combattere per riaverli tra le loro braccia. Sono questi i tratti comuni che emergono dalle testimonianze raccolte tra le mamme a cui i servizi sociali di Bibbiano e di altri comuni italiani hanno sottratto i loro bambini, laddove forse un aiuto e un’assistenza concreta sarebbe stata più utile. CulturaIdentità ha parlato con Sonia Cecchinato, seguita dai servizi sociali fin da quando aveva 15 anni, età in cui scappa da casa per non subire più abusi. Sonia racconta di non essersi mai drogata, mai alcolizzata, di non avere denunce per violenze, tuttavia i primi 4 figli avuti con un compagno tossico le furono portati via dai servizi sociali per “inadeguatezza genitoriale”. Sonia non si arrende, vede i figli crescere con altre famiglie ed alcuni di essi la fanno diventare anche nonna. Nel frattempo si ricrea una vita con un nuovo compagno e nel 2010 va ad abitare a Bibbiano, qui ha un altro figlio che cresce senza problemi. L’incubo inizia nel 2012 quando il marito perde il lavoro e la coppia chiede aiuto ai servizi sociali. Da quel momento dopo solo tre incontri, gli operatori dei servizi sociali redigeranno la relazione in base alla quale verrà emanato il decreto di allontanamento del bambino dalla famiglia. Tutto avviene il 17 luglio del 2017, Sonia si reca nella sede dei servizi sociali dopo aver lasciato Davide dall’Asilo. Non lo andrà mai più a riprendere e da quel momento lo vedrà solo un’ora ogni due mesi in un luogo protetto. Misure restrittive che non sono mai cambiate, malgrado il marito avesse trovato un nuovo lavoro. La relazione che ha portato al decreto del giudice era firmata tra gli altri dalla Anghinolfi, personaggio al centro dell’inchiesta. “Sono arrivati da noi perché mio marito ha perso il lavoro e ci siamo ritrovati senza un figlio, sono bastati 3 incontri per giudicarci” dice Sonia con tono tranquillo e con la speranza riaccesa dall’esplosione dello scandalo bibbiano. Ora a sperare sono anche altre migliaia di genitori in tutta Italia, che stanno facendo rete con le famiglie di Bibbiano. Chiara Fioletti di Brescia presenta una storia molto simile: compagni violenti, una situazione economica non rosea e la richiesta di aiuto ai servizi sociali che ha avuto come ultimo risultato la sottrazione della figlia nel 2016. Anche Chiara ci tiene a sottolineare che non è mai stata dipendente da droghe o alcol.

Caso Bibbiano, i giudici minorili contro lo sciacallaggio: «Ora basta speculazioni». Simona Musco il 15 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La denuncia dei magistrati: «Non esiste alcun sistema». Il grido d’allarme di Giovanni Mengoli, coordinatore della Rete Minori : «Clima di sfiducia sproporzionato, così rischiamo di lasciare I giovani in condizioni di violenza». La «grave strumentalizzazione» del caso Bibbiano «ha bloccato il sistema di tutela». E ciò a causa di «una incontrollata comunicazione mediatica». Un allarme lanciato Giovanni Mengoli, religioso dehoniano, presidente del Consorzio gruppo CeIS e Coordinatore della rete tematica minori della Federazione italiana comunità terapeutiche, secondo cui l’interlocuzione tra comunità di accoglienza e servizi sociali sono diventate «difficili e formali». E mentre «calano le richieste di ingresso dai servizi», afferma, cresce «il disagio degli stessi ragazzi in accoglienza, confusi e destabilizzati per il clima di sospetto che respirano». Ma a lanciare l’allarme è anche l’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, che venerdì si è riunita a Lecce per discutere di devianza e fragilità nei percorsi della giustizia minorile. Un’occasione che è servita per smentire nuovamente «l’esistenza di un “sistema emiliano” fondato su una gestione di assoluto potere da parte dei servizi sociali in assenza di un approccio critico e valutativo degli altri operatori istituzionali», ma anche per condannare il modo in cui la notizia su Bibbiano è stata offerta all’opinione pubblica. Ovvero «senza alcun filtro, cautele, sufficienti e autorevoli spiegazioni dei percorsi investigativi e della peculiarità del caso», esponendo così il sistema della giustizia minorile e familiare «alle speculazioni e, in qualche ipotesi, anche a comportamenti rivendicativi di soggetti in malafede, catalizzando le istanze di pancia degli scontenti e amplificando l’inutile logica del sospetto su tutto e su tutti, anziché proporre quella saggia del dubbio e dell’attesa». Comportamenti, affermano i giudici minorili, che hanno determinato «una devastante e generalizzata delegittimazione delle professioni di aiuto, di assistenza, di cura e protezione delle persone di minore età e della funzione del giudice delle relazioni», ribadendo «l’esigenza di salvaguardare con forza l’indispensabilità di un sistema di giustizia minorile e familiare». Ma la delegittimazione ha riguardato anche il mondo dei servizi sociali. Che al di là delle eventuali «mele marce», sulle quali, come ha evidenziato il presidente del tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, «sarà la procura ordinaria a fare chiarezza», rimane un presidio fondamentale per la gestione delle criticità. «Dopo il caso Bibbiano – spiega Mengoli al Dubbio – gli assistenti sociali non decidono più nulla. Le comunità, di solito piene, ora sono quasi svuotate, nessuna interlocuzione sta andando in porto e gli unici accessi che abbiamo sono quelli dei minori che finiscono nelle maglie della giustizia, ovvero quelli con qualche misura cautelare e con la messa alla prova. I servizi sociali hanno paura a prendere decisioni, si sentono sotto osservazione». Il tutto a svantaggio dei ragazzi, spiega Mengoli, ma anche delle famiglie. «Il disagio tra i giovani è innegabile – sottolinea – Vedremo tra un anno questo immobilismo che effetti avrà prodotto: basterà monitorare i servizi per le tossicodipendenze, il carcere minorile eccetera. Ho il timore che i problemi di abuso di sostanze aumenteranno, perché bisogna ricordare che quello è un sintomo di un malessere». E ciò, sostiene, implica anche maggiori costi per la comunità. In linea generale, afferma, il sistema funziona e anche bene, ma può migliorare. «Uno dei problemi più seri spiega – è il fatto di lavorare sempre in emergenza. I minori arrivano in continuazione, quindi va aumentato il numero di persone che lavorano in questo settore e quando si fanno degli interventi su un nucleo familiare è importante lavorare anche con i genitori. Servono psicologi, non tanto per valutare, ma per rinforzare». Un problema di priorità politiche, dunque, oltre che di procedure. Che necessiterebbero di interventi per «ammettere la possibilità del contraddittorio», come suggerito anche da Spadaro. Ma urgente è anche sottolineare «la strumentalizzazione mediatica e politica dell’informazione che, a partire dall’indagine su Bibbiano, sta creando un clima di sfiducia verso le istituzioni preposte alla tutela dei minori – sottolinea – Il pericolo è quello di colpevolizzare tutti i professionisti e i volontari, bloccarne le decisioni e abbandonare i minori a condizioni di violenza. Ricordo che le segnalazioni su presunti abusi, maltrattamenti o inadeguatezze genitoriali partono dalla scuola o da privati cittadini e, attraverso i servizi sociali, raggiungono il Tribunale dei minori che apre un fascicolo sul caso».

L'Associazione dei magistrati dei minori: "Il sistema Bibbiano non esiste". Dopo il controllo sull'operato dei magistrati bolognesi, i giudici sentenziano: "Non esiste un sistema emiliano". Costanza Tosi, Lunedì 14/10/2019, su Il Giornale. “Non esiste nessun sistema Bibbiano” e “non è vero che i servizi sociali hanno potere assoluto”. Ha sentenziato l’Associazione dei magistrati per i minori e per la famiglia durante il congresso nazionale che si è svolto, a Lecce, venerdì e sabato scorsi. Ad aprire l’incontro è stata proprio una lunga discussione sull’inchiesta “Angeli e Demoni”. Dopo i fatti di Bibbiano il Tribunale dei minori di Bologna era stato accusato di aver, in qualche modo, facilitato il diffondersi del “metodo Foti”. La maggior parte delle relazioni stilate dagli assistenti sociali che si occuparono dei bambini protagonsti dell’inchiesta della Procura di reggio Emilia sui presunti affidi illeciti, infatti, erano state inoltrate proprio al Tribunale dei minorenni di Bologna che, si presume senza effettuare le dovute verifiche, aveva proceduto con le sentenze di allontanamento. Eppure, negli ultimi anni, le richieste di affido provenienti dai servizi sociali dell’Unione Val D’enza avevano registrato numeri altissimi, ma nessuno si era insospettito. O meglio, chi aveva provato a denunciare le storture era stato fatto fuori. Come aveva raccontato a ilGiornale.it Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale dei minori di Bologna, che dal 2009 al 2013, anni in cui ha prestato servizio dichiara di aver assistito a un vero e proprio giro d'affari, intrinso di misteri che parlavamo proprio di false relazioni, accuse infondate, pretesti inconcepibili per togliere i bambini alle proprie famiglie. “Abbiamo fatto degli esposti su anomalie enormi", aveva spiegato l’ex giudice, che, ancora oggi, non ha dubbi sulle proprie denunce: “Sparivano fascicoli. Noi decidevamo di riassegnare i bambini alle famiglie naturali ma, le nostre decisioni venivano revocate da altri giudici. Noi mandavamo i bambini a casa e, dopo poco, venivano riportati via”. Qualcosa, anche al tribunale dei minori, non funzionava e, a quanto pare, continua a non funzionare. Schiacciati dalle accuse di aver favorito i "demoni di Bibbiano" i giudici avevano deciso di avviare un controllo interno al tribunale per verificare l’operato dei magistrati bolognesi. Sono stati analizzati un centinaio di fascicoli, che ripercorrevano i casi delle segnalazioni arrivate proprio dagli operatori della Val D’Enza, in un arco di tempo lungo un anno e risalente al periodo immediatamente precedente ai fatti di Bibbiano. Secondo i numeri, nell’85% dei casi il tribunale non ha accolto le richieste di allontanamento dei minori dalle loro famiglie. Nel restante 15%, invece, è stato deciso l’affido. Respinto anche il ricorso presentato dalle famiglie in questione. Eppure dagli scandali dei Diavoli della Bassa, alle storie di Morcavallo fino alle denunce della Procura sui casi dei bambini di Bibbiano qualcosa sembra essere andato storto. Considerando vent'anni di scancadali sugli affidi perchè analizzare proprio i dodici mesi precedenti all'uscita allo scoperto delle carte dell'inchiesta? In quei mesi evidentemente le indagini erano già in corso e gli indagati lo avevano capito. Tanto che, persino Federica Anghinolfi, come emerge dalle intercettazioni, sapeva di essere ascoltata. Non era forse necessario andare a scavare un po' più a fondo? Magari durante gli anni in cui le denuncie venivano silenziate e Morcavallo e sui colleghi messi da parte per aver disturbato il queto vivere delle aule di tribunale bolognesi. Ma è bastato un controllo interno per far esultare l’associazione dei magistrati: “In tale situazione risulta smentita l’esistenza di un sistema emiliano”. Intanto le indagini per comprendere se quel sistema fallato fosse davvero alla base delle storie dei bambini di Bibbiano sono ancora in corso. Anche se questo pare non fermare i magistrati, che hanno deciso di mettere a tacere le accuse nei loro confronti con il controllo di appena cento casi. Per l’Aimmf il vero problema è da ricondurre ai media. Secondo l’associazione avrebbero trattato “senza alcun filtro e cautele” l’uscita di informazioni riguardanti i minorenni. Tanto da aver “esposto il sistema della giustizia minorile alle speculazioni”. Il tutto, si legge nel comunicato pubblicato dall’associazione, “catalizzando le istanze di pancia degli scontenti e amplificando la logica del sospetto su tutto e tutti”. Un fatto questo che, per i magistrati, avrebbe causato un danno enorme a tutti coloro che lavorano in difesa dei minori.

Minore rinchiusa in comunità dai servizi sociali: "Le hanno dato psicofarmaci senza nessun motivo". Dopo l'allontanamento dalla madre la ragazzina è stata portata in un centro in provincia di Asti dove si trova rinchiusa da giugno senza vedere nessuno e imbottita di psicofarmaci di cui non avrebbe bisogno. Costanza Tosi, Venerdì 18/10/2019, su Il Giornale. Rinchiusa in una casa famiglia, imbottita di psicofarmaci, esclusa dalla vita, distaccata dal mondo. É questa la situazione di Giorgia, una ragazza di 17 anni a cui gli assistenti sociali hanno tolto tutto negli anni più belli della sua vita. Da quando è stata portata via dalla sua casa, la ragazza è rinchiusa in una comunità terapeutica per minori in provincia di Asti. Non può incontrare nessuno, no ha più amiche, non va a scuola. Le sue giornate sono scandite dal sonno e dalle medicine che è costretta ad ingerire. Il suo calvario ha inizio nel mese di maggio. Per Giorgia e sua madre comincia l’inferno. Tra le mura delle loro abitazione un agguato simile ad un blitz. Si presentano in 14, tra assistenti sociali, medici e forze dell' ordine. Vogliono prendere Giulia e portarla via. Che lo avrebbero fatto a tutti costi lo si capisce dalle parole della mamma intervenuta, in veste anonima, a Unomattina, il programma di Rai 1. “Le mostrarono anche una siringa - racconta - per farle capire l' andazzo: se fai problemi, ti sediamo e ti portiamo via.” Ora la donna può sentire Giulia sono una volta a settimana per una breve chiamata di dieci minuti. Se non di meno. Perchè nel caso in cui l’operatore incaricato di supervisionare i contatti tra le due ritenga che la chiamata stia diventando troppo problematica, ha persino il potere di interrompere immediatamente la comunicazione. Il motivo per cui Giorgia è finita in questo lager non ha dell’umano, ma è l’ennesima storia fatta di ingiustizie e forzature ai danni di un minore. L’ennesimo inciampo di un sistema che, troppe volte, invece di aiutare uccide. Circa tre anni fa la mamma di Giorgia decide di affidarsi ai servizi sociali. La sua era un richiesta di aiuto resa necessaria dal difficile momento che lei e la sua prima figlia stavano attraversando. Le due non andavano più d’accordo e il fatto che la madre fosse rimasta incinta di due gemellini Giulia proprio non riusciva ad accettarlo. Così la madre ha cercato di farsi aiutare da qualcuno per riuscire a risolvere il problema che causava sofferenze nella minore. “Quando è stata presa in carico dai servizi sociali Giulia - ci racconta l’avvocato della madre Bruna Puglisi- ha fatto pochissimi incontri con dei professionisti. Due o tre volte ha visto la psicologa e c’è stato un appuntamento con la psichiatra. Fine.” Tre soli incontri e poi il peggio. “Le hanno diagnosticato un funzionamento psichico a tratti paranoide. I servizi sociali, riportavano nelle relazioni, che Giorgia era sola, isolata. Barricata in casa. In realtà questo non è assolutamente vero. La ragazzina andava a scuola come tutti, faceva nuoto ad alti livelli, voleva diventare insegnante. Usciva con le amiche, era una ragazza normale”. Ad ogni modo mamma e figlia hanno fatto quello che gli assistenti sociali consigliavano. Partecipavano a degli incontri e rispettavano il percorso richiesto. Piano piano le cose in famiglia sono iniziate a tornare alla normalità. La mamma ha disgraziatamente perso i due piccoli che portava in grembo e questo ha contribuito al riavvicinamento della figlia più grande. A Giulia era stato chiesto di recarsi ad un centro diurno, ma lei, come racconta l’avvocato, “si sentiva a disagio là dentro, sempre a stretto contatto con ragazzini con problematiche molto serie ed evidenti”. Così, quando il rapporto con la madre ha iniziato a ricucirsi, le due hanno piano piano diradato la loro presenza agli incontri e Giulia ha totalmente smesso di recarsi al centro. Un’iniziativa che non è piaciuta ai servizi sociali. Che hanno deciso di intervenire, richiedendo al Tribunale dei Minori il trasferimento della ragazza in una comunità terapeutica. Dopo poco Giulia è stata prelevata da casa con forza e rinchiusa in questo centro in provincia di Asti dove, per mesi, le sono stati somministrati psicofarmaci pesanti. “La madre non ha mai dato l’autorizzazione e invece alla ragazza sono stati dati farmaci per curare le schizzofrenie.” Ci spiega l'avvocato. Non le dicevano neanche a cosa servissero quelle pasticche. Quando è stata ascoltata in aula di tribunale Giulia, lo ha raccontato: “mi dicevano che erano per farmi stare tranquilla”. Eppure la madre continua a lottare. “Ci siamo rivolti alla Corte d' Appello - continua l' avvocato - per chiedere che fosse dimessa. Persino il pm ha chiesto una ispezione in comunità.” Sono state fatte delle perizie e sia il profilo rilevato dal perito di parte che quello emesso dalla ctu hanno confermato che la ragazzina non ha nessuna tendenza psicotica e non deve prendere psicofarmaci. L’esperto chiamato dal giudice, nella relazione descrive una ragazza che non ha bisogno di terapie farmacologiche costanti. Infatti, si legge nella perizia, Giulia “non manifesta sintomi psicotici, ma ha manifestato gravi disturbi del comportamento reattivi a eventi particolarmente stressanti, che possono essere stati interpretati come sintomi psicotici”. I farmaci per curare queste crisi sono consentiti, ma solo in caso “di intensi stati di ansia o di gravi disturbi comportamentali”. Un racconto agghiacciante che, si aggiunge alle storie delle famiglie piemontesi che noi de IlGiornale.it vi abbiamo raccontato nei giorni scorsi. A poco a poco nella regione della Hansel e Gretel, stanno emergendo decine e decine di segnalazioni che parlano di false relazioni e assurdi pretesti per allontanare i minori dalle proprie famiglie. Ed è per questo che, anche Chiara Caucino, assessore regionale del Piemonte alle politiche sociali, ideatrice peraltro del progetto di legge “allontamenti zero”, ha deciso di provare a vederci chiaro in tutta questa storia. É andata personalmente a suonare il campanello della comunità terapeutica, ma una volta lì davanti nessuno le ha aperto. “Non mi hanno fatta entrare. Non hanno mai aperto il cancello. Siamo rimasti fuori per due ore” ha raccontato. Porte sbarrate. Ma cosa si nasconde dietro quei cancelli? “C’è un atmosfera carceraria - racconta l’avvocato Puglisi - Fanno vivere i minori peggio dei detenuti. Alla Ragazza hanno tolto il cellulare. Non sente più nessuno. Non vede più nessuno. Sta solo a letto. É privata di tutti i suoi diritti.” Per far vivere i ragazzi in questo stato, la comunità dove si trova Giulia, incassa ogni giorno ben 260 euro più iva. E con lei, vivono almeno altre nove ragazze. “Lei vuole uscire, vuole tornare a scuola, sperava di farlo a settembre e invece niente.” Continua l’avvocato. E se Giulia stà male, sua madre muore dentro al solo pensiero di averla vista due volte in cinque mesi, in un luogo neautro e sotto costante osservazione. In fin dei conti lei, voleva solo essere aiutata.

Bibbiano, la testa del serpente: "Qui è iniziato tutto quanto". Dopo l'arrivo di decine di segnalazioni da parte di famiglie che denunciano di essere state allontanate ingiustamente dai propri figli, nella città della onlus di Claudio Foti la Regione ha deciso di istituire una commissione d'indagine. Costanza Tosi e Elena Barlozzari, Lunedì 14/10/2019, su Il Giornale. Dopo lo scoppio del caso Bibbiano a Torino sono arrivate decine e decine di segnalazioni. Denunce che ricalcano le storie dei bambini di Reggio Emilia e descrivono situazioni di false accuse e finte relazioni con le quali onlus e assistenti sociali sarebbero riusciti a portare via i minori dalle proprie famiglie. Un campanello d’allarme per le istituzioni che, proprio in Piemonte, hanno avviato una commissione d’indagine per fare chiarezza sul tema degli affidi. Da cosa parte l’idea di istituire un’indagine conoscitiva? “La prima ragione è che ci sono arrivate moltissime segnalazioni che meritano di essere approfondite”, spiega il capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Piemonte, Maurizio Marrone, che insieme alla deputata Augusta Montaruli e al criminologo Alessandro Meluzzi si sta occupando di raccogliere gli appelli dei genitori. Ad aggiungere sospetti anche il fatto che, proprio a nel capoluogo sabaudo, hanno sede alcune realtà coinvolte nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Le stesse che, continua Marrone, “qui da noi hanno avuto per anni in appalto il servizio di formazione degli assistenti sociali e consulenze di psicoterapia a centinaia di minori”. L’esito delle votazioni in Assemblea regionale è stato positivo: 33 i sì provenienti dai gruppi di maggioranza, ma anche da M5s e Moderati. Al via il mandato alla commissione Sanità di svolgere un’indagine conoscitiva sul sistema piemontese di segnalazione e presa in carico di casi di abuso e maltrattamento ai danni di minori. Ma l’iniziativa divide i partiti politici. Il Pd, reduce dalle accuse di essere il “partito di Bibbiano” dopo che alcuni dei suoi esponenti sono rimasti invischiati nello scandalo di Angeli e Demoni, si è astenuto dalle votazioni. Il ritornello è sempre lo stesso, per la sinistra moderata non è compito della politica “ergersi a giudice”. “Non è nostro compito trasformare i consiglieri regionali in una sorta di pubblici ministeri – è intervenuta la consigliera Monica Canalis – e non dobbiamo mascherare da Commissione d’indagine conoscitiva quella che, a tutti gli effetti, sembra una Commissione d’inchiesta”. Ma c’è chi non ci sta. “Abbiamo recepito tutte le proposte di emendamenti che sono arrivate dal Partito democratico su quest’ordine del giorno – dichiara Marrone – eppure il Pd alla fine non ha partecipato al voto. Hanno perso una buona occasione per fare chiarezza una volta per tutte.” Un’opportunità per prendere le distanze da un metodo che ha portato allo scandalo sui presunti affidi illeciti e a cui, proprio i dem piemontesi, hanno permesso di diffondersi. “I seminari organizzati – prosegue il consigliere – si svolgevano in sale istituzionali di proprietà della Regione e del Comune di Torino, con tanto di patrocini istituzionali e quote di partecipazione.” Grazie ai patrocini pubblici, le associazioni come Hansel e Gretel non dovevano affrontare alcun costo, a fronte di un guadagno di centinaia di euro a persona. Per di più, l’ordine degli assistenti sociali riconosceva i crediti formativi a questi seminari che, così, diventavano un passaggio quasi obbligato per gli addetti ai lavori. “Il timore è che queste associazioni abbiano influito sulla mentalità professionale degli assistenti sociali, diffondendo un’ideologia che deduce gli abusi sui minori anche quando non ci sono prove e che criminalizza l’ambiente familiare, ritenendo l’inserimento in comunità o a famiglie affidatarie come una sorta di redenzione”, conclude il capogruppo di Fratelli d’Italia. A posizionare la lente d’ingrandimento sul tema degli affidi in Piemonte anche l’assessore Chiara Caucino, che ha sta lavorando a un disegno di legge (Affidi zero) per contrastare l’allontanamento pretestuoso dei minori. “In Piemonte c’è una percentuale di allontanamenti di minori superiore alla media nazionale, quindi – sostiene le leghista – è necessario definire in modo più stringente le regole legate agli allontanamenti”. Secondo i dati forniti dal Centro nazionale di documentazione dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, in Piemonte i bambini e ragazzi presi in carico e collocati in affidamento familiare nel 2017 erano 1.397 mentre per quanto riguarda le comunità per minori se ne contavano 1.131 per un totale di oltre 2.500 allontanamenti.

Bibbiano arriva a Reggio Emilia, indagata una funzionaria del Comune. Dalle intercettazioni telefoniche ascoltate dai carabinieri emerge che la donna avrebbe avuto contatti con Federica Anghinolfi e consigliato ai vertici dell'Asl di affidare alla onlus di Claudio Foti un appalto pubblico. Costanza Tosi, Martedì 15/10/2019, su Il Giornale. Si allunga la lista degli indagati nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti e i sospetti sull’esistenza del sistema Bibbiano arrivano fino al comune di Reggio Emilia. "Te lo do brevi manu, perché non vorrei mai che intercettassero delle cose anche nei giri di mail privati". Così recitava, in una telefonata ascoltata dai carabinieri, Daniela Scrittore, una funzionaria del settore Politiche Sociali al Comune di Reggio. Dall’altra parte della cornetta Federica Anghinolfi. La responsabile dei servizi sociali della Val D’enza finita al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Fu proprio la paladina delle coppie gay, secondo le carte della Procura, ad essere determinante nel mantenere i contatti che riuscissero a legare tribunali, associazioni, operatori sociali e istituzioni, affinchè il suo progetto aberrante di strappare i minori alle famiglie d’origine per darle in affido ad amici e conoscenti avesse la meglio. E infatti, eccola che spunta di nuovo, in contatto con l’ennesima indagata. Daniela Scrittore, come emerge dalle intercettazione telefoniche mandata in onda in un servizio di Luca Ponzi del Tgr Emilia Romagna, aveva un rapporto molto stretto con l’Anghinolfi e le due si sentivano spesso, per scambiarsi documenti e informazioni. E se alcuni tra gli accusati sembravano essere plagiati dalle più alte menti del sistema occulto, la Scrittore sembrerebbe aver proprio contribuito alle decisioni più importanti. Dalle cinquanta telefonate intercettate infatti, si può dire che fu proprio la funzionaria del Comune a convincere il già indagato dirigente dell’Asl Attilio Mattioni ad assegnare un appalto alla onlus del terapeuta Claudio Foti. In barba alle gare pubbliche. Ad aggiungere dettagli all’accusa sono state anche alcune funzionarie della stessa Asl di Mattioni che, avrebbero confermato di aver incontrato la donna proprio nella segreteria dell’ufficio che aveva bandito la gara. Circostanze negate con forza, da Scrittore in aula di tribunale dove venne ascoltata come testimone nel processo a carico del dirigente, motivo per cui è finita nel registro degli indagati con l’accusa di false dichiarazioni. Secondo gli inquirenti la dipendente pubblica avrebbe sviato le indagini. Mattioli, accusato di aver favorito Foti, procurando al suo centro studi un ingiusto profitto, grazie all’assegnazione di un appalto per un corso di formazione per operatori socio sanitari, era stato interrogato dai magistrati nel mese di giugno. In quell’occasione, l’indagato spiegò di aver affidato il servizio alla Onlus piemontese affidandosi, in via informale, alla sua collega del Comune, la quale gli avrebbe consigliato la Hansel e Gretel come servizio di psicoterapia valido a cui avrebbe dovuto affidare l’incarico. Nonostante l’indagata abbia negato i fatti raccontati dal dirigente dell’Asl le testimonianze del personale incaricato alla segreteria di Mattioli hanno confermato la presenza della donna in circostanze sospette: all’interno degli uffici incaricati per la gara pubblica e proprio nel momento in cui stava per essere determinata l’assegnazione. I racconti hanno confermato i sospetti dei magistrati e adesso, la Scrittore, si ritrova tra gli indagati del caso Bibbiano. Intanto i carabinieri continuano a sbobinare le telefonate intercettate tra la nuova indagata e Federica Anghinolfi e non si asclude che per la Scrittore, possano moltiplicarsi le accuse. Proprio venerdì si è proceduto al sequestro del suo telefono cellulare per ulteriori accertamenti. Un quadro che lascia aperti molti sospetti. Ad aggiungersi alle dichiarazioni in tribunale anche un intervento della Scrittore, risalente al mese di settembre. La funzionaria faceva parte dei mebri del Tavolo regionale sulle linee di indirizzo per l’accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamento e abuso, motivo per cui - come riporta La Verità - era stata sentita il 30 settembre in occasione della Commissione regionale affidi, istituita per fare chiarezza sul tema a seguito dei sospetti destati dai casi dei bambini di Bibbiano. Un’incontro in cui la Scrittore apparve schiva e dedita a nascondere le evidenze del caso. Quando i consiglieri regionali la sollecitarono a intervenire su Angeli e Demoni, furono queste le sue parole sui numeri degli affidi nella zona: “Non si tratta assolutamente di numeri anomali, ma di numeri compositi, nel senso che comprendono sia gli affidi consensuali che giudiziali, a tempo pieno e a tempo parziale”. Insomma i numeri non erano un problema, anzi, secondo la funzionaria, potevano persino rispecchiare l’evidenza di un’attenzione particolare alle necessità dei minori: “Se qui ci sono più affidi è perché li preferiamo agli inserimenti in comunità, pensiamo che la famiglia sia sempre una soluzione migliore per i bambini” aveva aggiunto la Scrittore. Sull’affidamento delle cure per la ricerca del trauma alla Hansel e Gretel che, da anni, occupava gli spazi del centro pubblico La Cura, la Scrittore giustifica le scelte del Comune. “Perché i Comuni ricorrono a centri privati? Perché il servizio pubblico in ambito sanitario purtroppo spesso non è sufficiente e non sempre riesce a garantire la cura. Non abbiamo luoghi adatti per fare colloqui e accogliere gli utenti. È come dire alle famiglie: “Ti ho fatto una buona diagnosi, ma ora non posso metterti a disposizione il trattamento”. Insomma, la Asl non era in grado di garantire cure psicologiche ai bambini e quindi meglio affidarli ad un centro “ossessionato” dalla conferma dell’abuso a tutti costi, messo da parte dai Tribunali Piemontesi che avevano riscontrato poca attendibilità nelle ralazioni provenienti dagli operatori di quel centro e, per di più, che negli anni aveva persino sfornato psicologi già finiti al centro di scandali sugli allontanamenti forzati come quelli dell’inchiesta dei Diavoli della Bassa. Ma forse la Scrittore non è d’accordo con l’inadeguatezza del "metodo Foti", tanto che è persino riuscita a difendere l’operato degli undici assistenti sociali che organizzarono il "rapimento" della bambina di Reggio Emilia. Si intrufolarono in casa della famiglia della minore con la scusa di essere della protezione animali e, in undici, strapparono la piccola dalle braccia della madre tra urla di disperazione e pianti da far accapponare la pelle. “L’allontanamento - ha commentato la Scrittore - era stato deciso dal Tribunale per i minorenni e si cerca il più possibile di intervenire affinché la separazione non sia troppo traumatica. In alcuni casi però, quando reiterati tentativi di dialogo con i genitori non vanno a buon fine, è necessario agire diversamente. Rimane un caso eccezionale nel quale i servizi sociali non hanno deciso le modalità d’intervento”. E mentre i magistrati sentenziano l’inesistenza di un metodo Bibbiano, ogni dettaglio che sia aggiunge alle storie degli angeli di Reggio Emilia fa pensare all’esatto contrario.

L'escalation piemontese di Foti, a sostenerlo fu il Partito democratico. Anche in Piemonte sede principale di Hansel e Gretel, Claudio Foti ha approfittato di patrocini pubblici concessi da Pd e M5S per svolgere attività remunerativa di tipo formativo e terapeutico. Costanza Tosi, Giovedì 17/10/2019, su Il Giornale. Se Claudio Foti negli anni ha riscosso il successo che lo ha portato a raggiungere livelli altissimi nel campo della psicologia è perché qualcuno ha dato credito a tutte le sue teorie, appoggiando le sue ipotesi ed elevandolo a guru della materia. E questo qualcuno è il Partito democratico. Prima di approdare nel reggiano, infatti, il terapeuta finito al centro dell’inchiesta sui presunti affidi illeciti, è riuscito a portare in alto il suo nome tanto da poter vantare un curriculum pieno zeppo di eventi e convegni da lui presieduti, straripante di docenze di alto livello e una lunga serie di incarichi come consulente tecnico nelle aule di tribunale. Pur non potendo vantare di grossi titoli a livello di istruzione, dove riesce ad ottenere una laurea in lettere (presa in otto anni) e una serie di brevi corsi di specializzazione in ambito psicologico di poco credito. Vette altissime, che Foti ha scalato in Piemonte (regione in cui è nato e dove, anni dopo, ha fondato il centro Studi Hansel e Gretel) grazie al costante sostegno, anche a livello economico, del Comune di Torino, da sempre marchiato dalla direnzione dei partiti della sinistra. Dall’85 all 89 infatti, il terapeuta con laurea in lettere, ha ricoperto il ruolo di professore di “psicologia della devianza” alla Scuola Superiore di Servizio Sociale, il cui ente di riferimento, si legge nel curriculum di Foti, è proprio il Comune di Torino. Poi, una serie di docenze nei vari comuni piemontesi che gli permettono di arrivare persino a ricoprire il ruolo di giudice onorario presso il tribunale dei minori di Torino per ben 12 anni (dal 1982 al 1994). Un successo che però si rivelerà il primo inciampo per Foti che, “almeno dal 97”, ci spiega la psichiatra Ptrizia De Rosa è stato messo da parte per quanto riguarda l’attività di consulente tecnico in ambito giuridico. “Si era capito che le sue relazioni eccessivamente sbilanciate verso i racconti delle vittime non coincidevano con le evidenze emerse durante le indagini e questo provocava attrito nei casi da portare a termine”. Insomma, il metodo del terapeuta che vantava conoscenze a livello internazionale, iniziava a destare sospetti per i magistrati. Non fu così per le istituzioni che, fino a pochi mesi fa, hanno continuato a finanziare i seminari dell’indagato. Nel 2015, ad esempio, si svolse uno dei convegni patrocinati nella sala regionale Atc. L’obiettivo dell’incontro, dall’inquietante titolo “Recuperare i cattivi. Ma noi, siamo veramente buoni?”, era focalizzato sul lavoro psicologico da svolgere nei confronti di detenuti sex offenders.Tra i partecipanti, l’ormai onnipresente CISMAI. Nel programma, della durata di due giorni, anche il saluto istituzionale di Giovanna Pentenero (Pd), ex assessore all’istruzione, lavoro, formazione professionale della Regione Piemonte. Stessa storia a marzo del 2017 quando, sempre nel medesimo spazio, gentilmente concesso dalla Ragione (al tempo sotto la giunta Chiamparino), si è svolto un’altro incontro di “due giornate di studio organizzate dal Centro Studi Hansel e Gretel.” Il tema era il cavallo di battaglia del professor Foti: “L’educazione sessuale che non c’è, l’abuso sessuale che c’è e il mancato ascolto dei bambini”. Questa volta, l’evento, era persino “accreditato per la formazione continua degli assistenti sociali”. Infine, a febbraio del 2019, la onlus di Foti decise di organizzare un seminario in occasione del trentennale di Hansel e Gretel. Una tregiorni che si è tenuta nella sala convegni ATC di proprietà della Regione Piemonte che, “grazie ai patrocini pubblici viene concessa gratuitamente invece che al costo di 2250 euro da listino”, come ci spiega Maurizio Marrone, capogruppo di Fratelli d’Italia. E, difatti, l’evento era organizzato con il patrocinio del Comune di Torino. Concesso, questa volta, dalla Giunta Appendino. Anche in questo caso l’incontro si rivelava di massima importanza per gli operatori socio-assistenziali, essendo accreditato dall’Ordine degli assistenti sociali per i crediti di formazione. I partecipanti, nonostante la concessione dello spazio a titolo gratuito, per assistere agli interventi dovevano versare 75 euro più IVA. Altro denaro veniva raccolto con una lotteria i cui fondi sarebbero stati destinati “alle terapie dei bambini in condizioni di difficoltà”. Se Claudio Foti ha agito indisturbato per un ventennio formando, attraverso la sua ideologia, decine e decine tra assistenti sociali, operatori e addetti ai lavori c’è stato chi gli ha permesso di farlo. Sponsorizzando il suo operato e garantendo, anche, aiuti in termini di spese. Le amministrazioni Piemontesi hanno permesso al metodo finito sotto accusa per le storie dei bambini di Bibbiano di affondare le proprie radici in tutto il territorio. “Così - spiega Marrone - queste associazioni potevano anche influire sulla mentalità professionale degli assistenti sociali nel diffondere quest’ideologia di sostenere una diffusione capillare degli abusi sui minori e quindi dedurli anche quando non ci sono prove e anche nella mentalità di criminalizzare l’ambiente familiare e optare su l’allontanamento e l’inserimento in comunità o a famiglie affidatarie come una sorta di redenzione rispetto all’ambiente che viene molto demonizzato come quello della famiglia d’origine.” E se le sviste degli anni addietro potrebbero sembrare ormai acqua passata, errore figlio di una dilangante “disattenzione”. In realtà il Partito Democratico sembra non voler optare per un cambio di rotta. In Regione, pochi giorni fa, è stata istituita una commissione d’indagine per fare chiarezza sul tema degli affidi a seguito di decine di segnalazioni arrivate da famiglie che denunciano di essere state ingiustamente allontanate dai propri figli. Il giorno della votazione il Pd, reduce peraltro dalle accuse di essere il “partito di Bibbiano” dopo che alcuni dei suoi esponenti sono rimasti invischiati nello scandalo di Angeli e Demoni, non ha partecipato al voto. Il ritornello è sempre lo stesso, per la sinistra moderata non è compito della politica “ergersi a giudice”. Lo dichiara prontamente la consigliera Monica Canalis: “Non è nostro compito trasformare i consiglieri regionali in una sorta di pubblici ministeri e non dobbiamo mascherare da Commissione d’indagine conoscitiva quella che, a tutti gli effetti, sembra una Commissione d’inchiesta”. Ma c’è chi non ci sta. “Abbiamo recepito tutte le proposte di emendamenti che sono arrivate dal Partito Democratico su quest’ordine del giorno – dichiara Marrone – eppure il Pd alla fine non ha partecipato al voto. Hanno perso una buona occasione per fare chiarezza una volta per tutte.” La stessa occasione che si sta lasciando sfuggire anche il governo giallorosso. Nonostante i continui solleciti da parte dei partiti dell’opposizione. “Alla Camera stiamo ancora aspettando che nasca una Commissione d’inchiesta - ha dichiarato il deputato della Lega Alessandro Morelli - continueremo a batterci affinché non cali il sipario sulla vicenda, in barba a quei media che ritengono sia “inutile” indagare su questo sistema”.

Quella lotta silenziosa del leghista su Bibbiano: "Nessuno ne parla". La battaglia solitaria del leghista Alessandro Morelli: "Su Bibbiano è calato il silenzio da parte di tutti. Noi insisteremo a oltranza". Giorgia Baroncini, Sabato 12/10/2019, su Il Giornale. "Su Bibbiano è calato il silenzio da parte di tutti, compreso quello del mondo politico, che fino a poco tempo fa denunciava il sistema degli affidi, salvo poi dimenticarsene una volta spenti i riflettori". Lo ha affermato il deputato Alessandro Morelli, responsabile Editoria della Lega. Morelli ha parlato ogni giorno, per un mese intero, di Bibbiano e dello scandalo "Angeli e Demoni". Il Partito Democratico ha sempre cercato di non affrontare l'argomento mentre in tutta Italia si è diffuso lo slogan "Parlateci Di Bibbiano", con le lettere delle parole che ricordano il simbolo dei dem. Il deputato leghista ha continuato a parlare della tragica vicenda ogni giorni sulla sua pagina Facebook. "Le persone hanno risposto bene al nostro servizio, ringraziandoci per quello che stavamo facendo, ce lo chiedevano proprio loro di parlare di Bibbiano. Sono pochi infatti, e i cittadini ce lo confermano, i media che parlano di quello che per noi rimane il più grande scandalo degli ultimi tempi", ha affermato Morelli. Lo scorso luglio, l'ex governo gialloverde aveva deciso di fare chiarezza dando vita una Commissione d'inchiesta parlamentare sugli affidi dei minori. "Ad oggi l'istituzione di una Commissione è bloccata alla Camera, dopo l'ok al Senato, e speriamo si velocizzi l'iter - ha spiegato il leghista -. Noi continueremo a occuparcene in sede parlamentare, sono pronti infatti degli atti per sollecitare il governo affinché non cali il sipario su questa vicenda". La Lega vuole tenere alta l'attenzione sul tema e spera di vederci presto chairo. "Insisteremo a oltranza, così come abbiamo già fatto sia alla Camera che al Senato, quando con la collega Lucia Borgonzoni abbiamo mostrato delle magliette al premier Conte per sensibilizzare l'esecutivo sul tema. Stiamo parlando di decine di famiglie alle quali sono stati strappati i figli per ragioni economiche o persino ideologiche, e spesso nel silenzio della politica locale", ha concluso Morelli.

Caso Affidi: quale giustizia per i bambini? Dopo Bibbiano emergono decine di casi analoghi che impongono riflessioni sull'intero sistema. Ne parliamo con l'avvocato Daniel Missaglia che segue questo tipo di casi. Panorama il 26 ottobre 2019. “Quale giustizia per i bambini?” è la domanda che riassume il titolo di un convegno, il primo, organizzato dal Comitato contro l’ingiustizia personale e familiare, costituito poco prima dell’estate con l’ambizioso scopo di fornire supporto alle persone che si vengano a trovare coinvolte in qualunque forma di ingiustizia, anche scaturente da conflitti familiari, attraverso percorsi di conoscenza e approfondimento. Il 29 ottobre 2019, a Palazzo Parigi, Milano, si terrà il battesimo operativo di questo Comitato, presieduto dall’ex Sindaco, Gabriele Albertini. Moderatore l’Avv. Daniela Missaglia, matrimonialista, socio fondatore del comitato stesso di cui è anche membro del direttivo e vicepresidente. L’abbiamo contattata per aiutarci a comprendere il tema del convegno e provare a rispondere all’interrogativo che ne costituisce il titolo.

Buongiorno Avvocato, per quale motivo ha deciso di far nascere questo Comitato ed organizzare questo dibattito?

"Tutto nasce al termine di lunga riflessione maturata all’esito di una pluridecennale attività legale nel campo del diritto di famiglia. Vede, ho sempre vissuto il mio lavoro come una ‘missione’, con particolare attenzione ai minori coinvolti. Per questi ultimi la patologia del nucleo familiare costituisce una lacerazione drammatica e sono loro a patirne le conseguenze. L’avvocato di famiglia incanala i conflitti verso un binario legale e, applicando il diritto e la giurisprudenza, come anche la logica ed il buon senso, contribuisce in modo determinante ad arrivare ad un punto d’arrivo che giova a tutti i protagonisti di queste amare vicende. Non sempre però vi si riesce. E questo dipende anche dal fatto che abbiamo a che fare con un meccanismo di giustizia fatalmente imperfetto".

In che senso, può spiegarci?

"Anni di esperienza nelle aule giudiziarie e nei gangli dell’apparato della giustizia che gravita attorno alle crisi familiari mi hanno formato ed aiutato a riconoscere cosa funziona e cosa no e che costituisce una freno alla risoluzione dei conflitti, pregiudicando la tutela dei soggetti deboli, i figli in primis. Il costituente ed il legislatore hanno disegnato un sistema ‘ideale’, quasi utopistico, attraversato però da numerose falle che, con l’andar del tempo, si sono tradotte in frequenti ingiustizie con danni irreversibili. Ad esempio: se, per colpa del malfunzionamento della giustizia non riesco a conseguire un credito, ho perso del denaro. Importante, vero, ma lo si può superare. Ma quando, per effetto di un cortocircuito distorsivo, finisco per ‘perdere’ l’affidamento o collocamento di un figlio, il danno si ripercuote sulla vita stessa, gli affetti, non è più un danno, è un incubo. A noi giusfamiliaristi le persone mettono in mano le loro vite e quelle dei loro figli e noi stessi siamo spesso accompagnati dalla frustrazione di non riuscire ad ottenere per loro "giustizia" o di non riuscire ad ottenerla in tempo utile. Montesquieu diceva che una giustizia ritardata è una giustizia negata".

Quindi sono i tempi lunghi a creare ingiustizie?

"Anche, ma non solo. Vi sono criticità più importanti che concernono la struttura stessa dei Tribunali. Solo pochi Tribunali, in Italia, in genere quelli dei capoluoghi di regione (ma non tutti), hanno una sezione specializzata nel diritto di famiglia, dove si respira una maggiore capacità di applicare i criteri più corretti ed aggiornati della giurisprudenza e dove i giudici, occupandosi solo di queste vicende, hanno sviluppato maggiore empatia e professionalità con i casi concreti. Ma nella stragrande maggioranza dei Tribunali, quelli medi e piccoli, una separazione delicata viene trattata tra una causa condominiale ed un dissidio fra aziende e fornitori di materiale, decreti ingiuntivi e sfratti per finita locazione. Il Giudice, mancando di specializzazione ed esperienza, finisce sovente per decidere secondo una valutazione estemporanea e non a norma di diritto. Anche nelle sezioni specializzate, però, il ricambio dei giudici è intenso e vengono designati magistrati che hanno tutt’altra formazione e non sono pronti a dirimere casi complessi di conflitti familiari. Quello che si chiede da tempo è che si faccia una seria riforma che crei, in ogni ufficio giudiziario, il Tribunale della Famiglia, così come esiste quello delle Imprese o del Lavoro, formato da giudici specializzati con una peculiare formazione, che permetta loro di affrontare le cause familiari con estrema competenza".

In tal caso i problemi sarebbero risolti?

"Non ancora, perché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Quand’anche avessimo ovunque giudici specializzati che assumano decisioni uniformi, non è detto che queste decisioni risultino poi corrette e preservino dalle ingiustizie. Il problema è a monte: con eccessiva frequenza i Giudici abusano del meccanismo della delega e sub-delega, avvalendosi di soggetti terzi a cui devolvono accertamenti istruttori che poi fanno propri e condizionano i loro pronunciamenti. E se questi soggetti cadono in errore, ovvero sono in conflitto di interessi o in malafede, il danno è comunque fatto. Nei procedimenti di diritto di famiglia i Giudici si avvalgono di ausiliari, di consulenti (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri in genere), così come di operatori dei Comuni, i Servizi Sociali. Fino ad uno/due decenni fa era il Giudice a prendersi sulle proprie spalle la responsabilità delle decisioni. Con gli anni si è diffuso il meccanismo della deroga a terzi e questo ha amplificato, a mio avviso, i casi di ingiustizie contro cui lotto, sia individualmente sia, da ora in poi, anche attraverso il Comitato".

Chi sono i cattivi che ostacolano la giustizia?

"Non vi sono buoni o cattivi. Esistono giudici capaci, consulenti capaci, assistenti sociali capaci. Poi vi sono gli altri, ed è da questi che bisogna guardarsi. I grandi scandali che, da Bibbiano a ritroso, hanno coinvolto i Servizi Sociali e lo stesso funzionamento dei Tribunali per i Minorenni, hanno acceso i riflettori su un sistema fallato, quand’anche corrotto, secondo i dati emersi nelle inchieste della magistratura. Un circolo vizioso di soldi, rapporti, connivenze, interessi di vario tipo fra autorità, assistenti sociali, cooperative a loro volta delegate dagli enti affidatari, il tutto nel più incivile spregio verso le vite coinvolte, quelle dei bambini e quelle dei loro genitori. Il 29 ottobre parleremo anche di questo, pur stando ben attenti a non generalizzare e non buttare via, come si dice, il bambino con l’acqua sporca. Ho incontrato operatori sociali di grande sensibilità e passione, e quando è accaduto è stata una benedizione a protezione di chi doveva essere tutelato".

Le è mai capitato invece di imbattersi in un sistema "Bibbiano" o qualcosa di simile?

"Purtroppo sì e anche di questo si parlerà all’evento di Palazzo Parigi. Molte volte ho percepito e raccolto io stessa prove di connivenze inadeguate o sovrapposizioni di nomine: Le sembra normale, ad esempio, che un Assistente Sociale che ha in mano il destino dell’affidamento di un minore ricopra anche la funzione di Giudice Onorario nello stesso Tribunale chiamato a pronunciarsi? Eppure è accaduto, nonostante il Consiglio Superiore della Magistratura abbia cercato di arginare questo fenomeno. Così come accade che i professionisti chiamati ad assolvere il compito di consulenti del giudice appartengano quasi sempre ad un ‘circolo magico’ chiuso, fatto di una ridda determinata di nomi, sempre gli stessi, alcuni dei quali a loro volta in conflitto di interessi a vario titolo. Si costituisce così un potentato autoreferenziale che è molto pericoloso e tende a danneggiare la giustizia privandola della sua rigorosa terzietà e cecità, quella che rende tutti uguali davanti alla legge. Spesso questo non accade, in un sistema malato che crea figli e figliastri o che, come nel caso di Bibbiano, si nutre di affidamenti extra-familiari, in cooperative della stessa rete, per alimentare una giostra infernale che utilizza i bambini per autosostentare se stessa".

A Bibbiano i protagonisti sono i servizi sociali ed il Tribunale per i Minorenni, anche quest’ultimo non funziona?

"Io ne chiedo, da tempo, l’eliminazione con accorpamento di tutte le sue competenze nel Tribunale ordinario, magari in quel Tribunale della Famiglia di cui ho parlato pocanzi. Che funzionino poco e male lo scoprono tutti coloro che, volenti o nolenti, finiscono al suo cospetto. Lo stesso legislatore se n’è accorto al punto da privarlo di competenze, a favore del Tribunale ordinario, in svariati ambiti civili. Il problema sta a monte, nella sua struttura rigorosamente collegiale, dove ogni decisione non può essere assunta nell’immediato da un singolo giudice ma, appunto, da un collegio di giudici togati ed onorari. Questo limite fisiologico, unito alla mancanza cronica di magistrati e ad una struttura del processo tutto sommato libera e deregolata, ha fatto sì che per ogni decisione si aspettino tempi biblici".

Insomma, va tutto male, ma vede luce alla fine del tunnel?

"Certamente, ma ci vuole coraggio e competenza. Coraggio di ammettere che qualcosa non funzioni e competenza nella selezione delle personalità chiamate a riscrivere le regole. I politici si improvvisano tuttologi e spesso invadono campi a loro estranei per formulare proposte di legge che aggravano, anziché risolvere, i problemi. L’Italia, anche nell’ambito del diritto di famiglia, ha realtà di eccellenza, studi legali iper-specializzati, magistrati attenti e competenti, consulenti navigati che non fanno parte di circoli chiusi ed hanno come mero interesse la giustizia. Questo vale anche per ottimi operatori sociali e studiosi della materia. E’ a questi che va affidato il compito di raddrizzare le righe storte di un sistema che può e deve migliorare, nell’interesse di tutti noi cittadini".

Emilia, l'orrore della sinistra: "Affidi a coppie omosessuali". Il deputato di Fratelli d'Italia Galeazzo Bignami denuncia: "Le famiglie povere ora sono diventate preda della sinistra". Luca Sablone, Giovedì 07/11/2019, su Il Giornale. Le polemiche sul caso Bibbiano non si placano. Anzi: i toni in Emilia-Romagna sono destinati a inasprirsi. Soprattutto dopo che Giuliano Limonta, coordinatore della commissione tecnica sui minori, ha ridotto il tutto a un semplice "raffreddore". Per questo La Verità ha intervistato Galeazzo Bignami, deputato bolognese di Fratelli d'Italia, che l'ha definita una "banalizzazione intollerabile e allucinante. Da queste commissioni d'inchiesta non ci aspettavamo nulla. Ma neanche ci aspettavamo degli insulti alle vittime". Uno degli aspetti che avrebbe provocato la stortura del meccanismo degli affidi potrebbe essere l'assenza di verifiche da parte di autorità pubbliche indipendenti: "Infatti l'autocontrollo era l'aspetto più patologico di tutto il sistema". Così come spiegò Federica Anghinolfi, una delle indagate: "Ammise che i servizi sociali avevano bypassato un livello di controllo". Inoltre in Val d'Enza era stato "sperimentato un sistema specialistico in connessione con il territorio, senza sottoporsi alle previste verifiche da parte della provincia". E questo significa che "non si possono minimizzare le responsabilità della Regione e del Pd che la guida".

"Adozioni Lgbt". Nella relazione della commissione tecnica si sottolinea che la carenza di personale e fondi nelle strutture pubbliche rischia di spostare il "baricentro delle decisioni clinico-assistenziali in contesti professionali non pubblici". Ma questo passaggio "sembra un tentativo di lavarsi la coscienza". Oggi le Asc, le Asp, le Asl, l'unione dei Comuni, i Comuni stessi possono occuparsi di affido dei minori: "A chi compete unificare il tutto? Alla Regione. Che invece dà la colpa agli altri". Alcuni elementi della commissione Bonaccini stupiscono Bignami: "Non si cita mai l'Anghinolfi, non si citano mai i finanziamenti elargiti. Le commissioni muovono delle critiche lievi, cercando però di salvare il sistema. E poi si continua a mettere a repentaglio la famiglia tradizionale". Sotto la lente di ingrandimento sono finiti i progetti approvati e finanziati dalla Regione: "Tutti volti a un unico obiettivo: vincere le ultime resistenze in tema di affidi alle coppie omosessuali". Il deputato ha parlato anche del Movimento 5 Stelle: "Hanno dato un contributo ad Hansel e Gretel di Foti". Nello specifico Rossella Ognibene, candidata sindaco dei grillini a Reggio Emilia e quindi eletta consigliera comunale a maggio 2019, "si è dimessa per assumere la difesa dell'Anghinolfi". E poi Andrea Coffari, candidato alle politiche per il M5S, "ha assunto la difesa di Claudio Foti". Infine Bignami ha parlato del caso Bibbiano in vista delle elezioni Regionali in Emilia-Romagna il 26 gennaio: "Nessuno vuole strumentalizzare questa tragedia. Ma di certo Bibbiano è un'ombra pesantissima sui servizi sociali della Val d'Enza e sulla Regione Emilia-Romagna". Infine è stato fatto notare come "le vittime non erano figli di professoroni o professionisti dell'intellighenzia borghese", ma si trattava di "famiglie povere, fasce deboli". "Una volta questa gente era protetta dalla sinistra. Oggi ne è diventata preda", ha concluso.

Meglio le famiglie delle comunità, lo dice la Cassazione. Una recente sentenza della Suprema Corte detta le linee guida sui casi di affidi: prima la famiglia, le comunità solo extrema ratio. Ma la realtà delle cose è differente. Daniela Missaglia il 7 novembre 2019 su Panorama. Il 4 novembre 2019 la Cassazione ha smentito la Corte d’Appello di Venezia che, in aderenza alla precedente pronuncia del Tribunale per i Minorenni della città lagunare, aveva confermato il collocamento di due bambini in una comunità, lontano da mamma e papà, senza accogliere la richiesta dei nonni di affido temporaneo. Gli Ermellini, annullando la sentenza, hanno, ancora una volta, censurato il malvezzo di non considerare un principio basilare collegato alle situazioni in cui i genitori risultino incapaci di assolvere al proprio ruolo. Vien da chiedersi, di fronte alle tragedie di Bibbiano e di tutti i casi che hanno preceduto questa inchiesta, se i nostri Tribunali siano sintonizzati con i principi che la Suprema Corte di Cassazione continua ad enunciare, annullando le sentenze delle corti di merito che perseverano nel privilegiare le strutture esterne alle famiglie quali luoghi in cui disporre affidi temporanei dei bambini strappati ai genitori (per presunte inadeguatezze). Principio secondo il quale occorre sempre privilegiare il contesto familiare dei minori, cui i nonni appartengono a pieno diritto, onde indirizzare i bambini tolti ai genitori presso queste figure con cui hanno un legame affettivo e di relazione. Insomma: la comunità deve costituire solo l’extrema ratio, la scelta ultima quando ogni possibilità di affidamento presso gli ascendenti o altri parenti appaia impercorribile. E’ ovvio, è logico, è umano persino, applicando solo il buon senso. E invece no, pare. Perché le comunità etero-familiari proliferano e si diffondono in tutta Italia, lucrando (in troppi casi, ma non in tutti, sia chiaro) proprio sulla violazione di questo enunciato principio che salvaguarda la famiglia d’origine del minore in luogo di qualsiasi alternativa esterna ad essa. Senza contare che, ad oggi, i controlli sulle Comunità etero familiari si riducono a mere autocertificazioni delle stesse, atteso che le procure presso i Tribunali per i Minorenni non paiono sufficientemente attrezzate per farlo direttamente. E’ un dato di fatto che il giro di denaro che si origina è davvero notevolissimo per quanto ingiustificato visto che, nella stragrande maggioranza delle fattispecie, i nonni (o gli zii) prenderebbero con sé i minori in difficoltà con tutto l’amore possibile e pure a gratis. E chi paga queste scelte? Tutti noi, anche quando non ve ne sarebbe bisogno: Bibbiano sta scoperchiando un vaso di Pandora di incarichi e commesse legati agli affidi temporanei che farebbe girare la testa a chiunque, in termini di spesa non necessaria. Altro che spending review, altro che Cottarelli. Un ingegnere giapponese, Shingo Shigeo, divenuto celebre dopo la seconda guerra mondiale, dedicò la sua vita allo studio dei sistemi per migliorare e rendere più efficienti i processi industriali e coniò un detto che lo rappresenta ma che ben si adatta a queste situazioni: il tipo di spreco più pericoloso è quello che non siamo in grado di riconoscere. Un giro miliardario (sì, miliardario) che - unito ad altri osceni business - fanno dell’Italia uno scolapasta dai cui fori escono rivoli di denaro pubblico che potrebbe essere destinato ad altro. Senza contare che molti dei giudici onorari che decidono gli affidamenti dei minori sono ancora oggi in un palese conflitto di interessi, già ben censurato dal Consiglio Superiore della Magistratura. In altre parole, ancora oggi, l’operatore sociale è spesso il giudicante. Anche nella graduatoria per il triennio 2020 -2022, sono stati ( ri) confermati alcuni Giudici Onorari, in barba alle ultime circolari del Consiglio Superiore della Magistratura sulle incompatibilità previste per i componenti dei collegi giudicanti di primo grado o delle sezioni per i minorenni delle corti d'appello. Morale: le leggi e i principi ci sono ma il sistema pare allergico agli stessi. Dunque, i poveri nonni, per poter difendere i diritti dei nipotini, dovranno passare attraverso tre gradi di Giudizio, sperando di essere ancora vivi alla fine del percorso giudiziario.

L'ira di una madre: "Mi hanno tolto mio figlio per darlo a una coppia gay". Mamma Roberta si sfoga col Giornale.it: "Dicono che è per il suo bene, ma un bambino non avrebbe diritto a crescere con una madre e un padre?" Elena Barlozzari e Costanza Tosi, Venerdì 15/11/2019 su Il Giornale. Quella di Roberta non è solamente la storia di una mamma che sta lottando per riportare a casa i propri figli. Di genitori che si sono riscattati da un passato difficile e stanno cercando di ricomporre il puzzle della propria vita ce ne sono tanti. Ma la sua storia è diversa. Nel suo caso, infatti, sembra di intravedere lo stesso movente ideologico che avrebbe spinto Federica Anghinolfi, paladina dei diritti Lgbt e responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza, ad affidare un minore a una coppia di omosessuali. Ma andiamo con ordine. Roberta oggi ha 32 anni. Ne aveva appena 24 quando i servizi sociali del Comune di Torino le hanno tolto i bambini: Riccardo, Maria e Ginevra. Quel giorno non se la scorderà mai. “Sono andata a prenderli all’uscita di scuola – racconta in esclusiva a Il Giornale.it – e non li ho trovati, non c’erano più, li avevano portati via”. Roberta e i bimbi vivevano già da qualche tempo in una comunità mamma-bambino in provincia di Torino. “Quando ho scoperto che il mio ex marito si drogava ho chiesto aiuto agli assistenti sociali – spiega – che ci hanno mandato in comunità”. Quello che doveva essere un modo per proteggere la famiglia ha finito con lo smembrarla. Roberta finisce in mezzo alla strada, i suoi figli, invece, vengono mandati in comunità minorili diverse. La situazione si sblocca nel 2014. Maria e Ginevra vengono affidate alla zia, dove si trovano tutt’ora, la storia di Riccardo, invece, è più complicata. Viene affidato alla nonna materna che dopo poco rinuncia. “Ha preso il bambino – racconta Roberta, che con sua madre ha sempre avuto un rapporto conflittuale – e senza nemmeno avvisarmi lo ha riportato indietro”. Siamo nel 2016 e il bimbo ha ormai dieci anni. L’accaduto le viene comunicato da un’assistente sociale. Ma non è la sola novità. Riccardo, dopo essere stato rifiutato dalla nonna, è stato già dato in affido ad una coppia gay. Roberta non crede alla sue orecchie. Le sembra una cosa assurda. “Dicono di volere il bene di mio figlio, ma un bambino – si domanda – non avrebbe diritto a crescere con una madre e un padre?”. L’avvocato Simona Donati che assieme al collega Silvio Delfino sta seguendo il caso di Roberta ci ha spiegato che “a differenza delle adozioni, non esiste una norma che vieti espressamente l’affido di un minore ad una coppia gay ma neppure una che lo consenta”. La legge 184 del 1983 stabilisce che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo è affidato a una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Insomma, in materia di affidamento la normativa fissa una corsia preferenziale per le famiglie tradizionali e non c’è nessun riferimento alle unioni civili. Ma non è finita qui. Come ha scoperto il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone, infatti, “a gestire l’affido di minori alle coppie omosessuali come consulente interna c’è un’assistente sociale del Comune che è contemporaneamente attivista Lgbt e fondatrice di una nota associazione di aspiranti genitori omosessuali”. Quello che potrebbe apparire come un conflitto di interessi sembra non preoccupare l’amministrazione pentastellata. Tanto che a gennaio di due anni fa la funzionaria ha partecipato ad un incontro pubblico “per riflettere sull’affidamento dei minori a persone o coppie omosessuali attraverso la condivisione dell’esperienza di alcuni protagonisti”. Tra le testimonianze c’è anche quella dei due papà affidatari con cui vive il figlio di Roberta. Il tutto con il patrocinio dell’amministrazione comunale. La stessa che negli ultimi mesi si è distinta per aver fatto da apripista alla trascrizione anagrafica dei figli delle coppie gay nati all’estero con la maternità surrogata. “Ci chiediamo se nella Torino amministrata dai Cinque Stelle – denuncia Marrone – le famiglie povere non siano diventate il safari park per le coppie gay ricche in cerca di figli”.

Bibbiano, il ministero non si ferma e manda gli ispettori a Bologna. Simona Musco il 13 Novembre 2019 su Il Dubbio. Si cercano possibili connivenze tra indagati e giudici minorili. Ma sulle toghe che hanno smentito il sistema di “Angeli e demoni” si abbattono vecchie e nuove fake news. L’aria al Tribunale dei minori di Bologna è tesa. Perché dopo l’indagine sui Comuni della Val d’Enza, ormai a tutti nota come “Caso Bibbiano”, le ombre che fino ieri avevano coperto il cielo dei servizi sociali si addensano anche sopra la magistratura, con una nuova inchiesta amministrativa disposta dal ministero della Giustizia a via del Pratello, per accertare eventuali anomalie nell’attività svolta dal Tribunale con l’ausilio del servizio sociale. L’intento del guardasigilli Alfonso Bonafede è quello di monitorare eventuali rapporti, anche extraprofessionali, tra giudici e operatori del settore minorile, che potrebbero aver determinato situazioni di incompatibilità e il rispetto dei protocolli. Un rispetto che era stato sancito, nelle scorse settimane, da un’approfondita indagine interna disposta dal presidente del Tribunale, Giuseppe Spadaro, sui fascicoli degli ultimi anni, compresi quelli finiti nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Da quell’indagine era emersa una certezza: non esiste, a dire del presidente, alcun sistema Bibbiano, perché gli unici casi ambigui sarebbero quelli finiti sotto la lente della procura ordinaria. Nove casi in tutti, sette dei quali erano già stati “risolti” dal Tribunale dei minori con il ricongiungimento dei minori con le rispettive famiglie. Tutto regolare, insomma, e nemmeno un minimo spazio per poter immaginare connivenze tra i magistrati minorili e indagati. E che le anomalie evidenziate dall’inchiesta non potessero tradursi in un “sistema” era emerso anche dall’indagine della commissione regionale appositamente costituita: nessuna macchinazione mostruosa ordita per allontanare i minori dalle famiglie, bensì singoli «casi in cui qualche anomalia si è verificata e sui quali la magistratura sta svolgendo il suo lavoro», aveva chiarito Igor Taruffi, vicepresidente di quell’organismo. L’indagine del ministro, ora, dà però di nuovo adito a dubbi e sospetti. Un’indagine che non si limiterà all’acquisizione di documenti, ma che prevede anche la consultazione del protocollo riservato e l’audizione diretta degli interessati: dai magistrati al personale amministrativo, passando per chiunque sia in grado di fornire informazioni. «Sin dall’inizio ho chiarito che la protezione dei bambini è una priorità – ha sottolineato Bonafede – e su questo fronte andremo fino in fondo. La prossima settimana presenteremo i dati sul monitoraggio degli affidi effettuato dalla squadra speciale di giustizia per la protezione dei minori. È la prima volta che si è in grado di fornire un quadro di dati chiaro, omogeneo e su base nazionale». L’idea di fondo è quella che esista un’area grigia, con rapporti poco chiari tra indagati e Tribunale. Un’ipotesi fortemente respinta dagli stessi magistrati e che nei mesi scorsi era stata avallata anche grazie a fake news che avevano fatto sospettare del lavoro dei giudici. Tutto fa riferimento ad un’intercettazione del dicembre 2018, nella quale lo psicoterapeuta Claudio Foti del centro “Hansel e Gretel” e l’assistente sociale Francesco Monopoli facevano riferimento all’aiuto che il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti avrebbe potuto dar loro «contattando giudici che sostenessero in un convegno la soluzione metodologica da loro preferita». E alla richiesta di Foti circa il nome del «giudice amico», Monopoli rispose «Mirko Stifano», giudice togato minorile di Bologna che, però, non risulta indagato. Il che significa che per la procura non esistono elementi in grado di sostenere un’accusa circa un suo coinvolgimento nella vicenda. Ed è qui, dunque, che compare l’anomalia a mezzo stampa. A fine luglio, infatti, spunta la notizia shock: il Tribunale dei Minori, scriveva un giornale locale, era stato avvisato dalla procura di Reggio Emilia che uno degli affidi era illecito e che le relazioni che avrebbero allontanato il minore dai genitori contenevano dei falsi. Ad avvisare il giudice Stifano sarebbe stato il sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, che gli avrebbe chiesto di interrompere l’iter di allontanamento, inviandogli gli atti che avrebbero dimostrato la falsità dei servizi sociali. Una richiesta, riportavano i giornali, caduta nel vuoto, tant’è che il bambino sarebbe comunque finito nel centro “La Cura” di Bibbiano, dove sarebbe rimasto fino all’esecuzione dell’ordinanza. Notizia categoricamente smentita dal Tribunale: la Procura di Reggio Emilia, giurava in una nota Stifano, che ha anche dato mandato ai propri legali per difendere la propria onorabilità, non avrebbe «mai segnalato falsità poste in essere dai servizi sociali», né «fatto richieste o dato indicazioni di alcun genere perché i decreti del Tribunale dei minori non fossero eseguiti». Tant’è che il bambino è stato ricongiunto alla propria famiglia proprio su iniziativa del Tribunale stesso, il 13 maggio, molto prima, dunque, dell’esecuzione dell’ordinanza “Angeli e Demoni”. Una bufala strana, ancora più strana alla luce dell’ispezione disposta da Bonafede.

"Pubblichiamo i dati sugli affidi". Così i giudici finiscono nel mirino. La proposta arriva dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che ha annunciato che, la prossima settimana, saranno pubblicati i dati sul monitoraggio degli affidi in tutta Italia. Costanza Tosi, Martedì 12/11/2019, su Il Giornale. Se la commissione d’indagine regionale ha cercato di mettere un punto alle ricerche sugli affidi illeciti decretando che il sistema è sano e definendo Bibbiano “un raffreddore” c’è chi continua a volerci vedere chiaro. C’è qualcuno che, forse, sulla profondità delle indagini della sinistra per scovare le colpe dei suoi mette ancora un punto interrogativo. Chi, perlomeno, propone di non parlare solo di “macrotemi” e affidarsi ai dati. Forse, sarebbe anche l’ora. A distanza di quattro mesi dallo scoppio dello scandalo sulle storie dei bambini di Bibbiano, che ha portato a un'inchiesta giudiziaria che procede sulle accuse di ventisei indagati e diciotto misure cautelari, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede annuncia una nuova inchiesta amministrativa sull' operato del Tribunale di Bologna. "La protezione dei bambini è una priorità", ha affermato il Guardasigilli la cui proposta sarà portata a termine dall' ispettorato del ministero della Giustizia al tribunale per i Minorenni di Bologna. "Una decisione nata - spiega in una nota Bonafede - in seguito all' ispezione eseguita immediatamente dopo l' emergere dell' inchiesta Angeli e Demoni, tenuto conto degli esiti dell'istruttoria". Se non altro forse questa volta si parlerà di numeri e, come si suol dire, la matematica non è un’opinione. Il ministero ha annunciato che, la prossima settimana, saranno pubblicati i dati sul monitoraggio degli affidi in tutta Italia. Non sono bastate le rassicurazioni di indagini frettolose, né tantomeno la costanza dei dem nel mantenere oscurata la questione del tema degli affidi per far calare il sipario sugli scandali emersi dall'inchiesta della procura di Reggio Emilia. L’indignazione di centinaia di famiglie impaurite dalla scoperta di un probabile meccanismo, ben collaudato, intrinso in illeciti che lucra sulla pelle dei bambini non è poi così facile da silenziare. L’idea del ministro è quella di "andare oltre le sole forme dell' acquisizione documentale che prevede anche la consultazione del protocollo riservato e l'audizione diretta degli interessati: magistrati professionali e onorari, personale amministrativo, altri soggetti in grado di fornire informazioni in merito alla vicenda e anche rappresentanti del foro locale". Insomma, scavare un po' più a fondo di quando non sia riuscita a fare la commissione d’indagine istituita in Regione. L'obiettivo è quello di "accertare possibili anomalie nell'attività svolta dal Tribunale per i minorenni di Bologna con l' ausilio del Servizio sociale della Val d'Enza". Era proprio lì, dalle aule del tribunale bolognese che passavano la maggior parte delle relazioni fallate stilate dai servizi sociali che, in alcuni casi, passate inosservate e senza essere verificate sarebbero costate l'ingiusto distacco di una famiglia dal proprio bambino. Tanti, troppi problemi riscontrati dalla Procura di Reggio nei casi dei bambini finiti nelle mani di Federica Anghinolfi e Claudio Foti, potenti dirigenti inseriti nel sistema e capaci di dialogare con magistrati, istituzioni e onlus. Da lì l'allarme. La nuova indagine amministrativa ha l'obiettivo è porre l'attenzione su "gli eventuali rapporti, anche extraprofessionali, tra giudici e operatori del settore minorile che potrebbero aver determinato situazioni di incompatibilità; le misure eventualmente adottate dal presidente del Tribunale sulle possibili situazioni di incompatibilità/astensioni; la corretta applicazione delle tabelle di organizzazione anche con riguardo alle attività dei giudici onorari minorili; ogni altro aspetto che possa risultare di interesse". Bibbiano è solo a Bibbiano? O davvero, come hanno gridato centinaia di mamme e papà, o come affermò con forza, a noi del Giornale.it, lo psichiatra Alessandro Meluzzi "Bibbiano è in tutta Italia"? Il dubbio non può restare e per questo è necessario capire dove stà la verità.

Affidi, dodicimila in 18 mesi. Bonafede: «Niente allarmi ma noi vigiliamo». Simona Musco il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio. I risultati della squadra speciale del ministero della Giustizia. Parla il Guardasigilli: «Nessuno può insinuare che non ci sia volontà di parlare di questi argomenti. Per la prima volta c’è qualcuno che toglie la benda allo Stato». È la «prima volta» che «lo Stato si toglie la benda che ha avuto finora e apre gli occhi per guardare a 360 gradi la situazione». Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, affermando che «sul tema degli affidi la maggioranza politica che oggi è al governo ha la massima concentrazione». «In un momento in cui qualcuno osa insinuare che non ci sia volontà di parlare di queste tematiche, cancelliamo questo dubbio: la maggioranza politica ha concentrazione massima non solo per parlarne, ma anche per agire concretamente, tutti uniti e compatti». Quello del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sembra quasi una manovra per compattare la maggioranza, dopo gli scossoni degli ultimi giorni e in risposta a chi, fino a ieri, era al governo. Il pretesto, con due settimane di anticipo sulla tabella di marcia, viene dal “Caso Bibbiano”, con i primi risultati della Task Force voluta dal ministero per monitorare il sistema degli affidi. E i numeri grezzi della fase uno – per la «prima volta» in cui «lo Stato si toglie la benda» -, per quanto freddi «non sono allarmanti», assicura Bonafede: nel periodo dal primo gennaio 2018 al 30 giugno 2019, i minori allontanati dai propri genitori sono stati, complessivamente, 12.338, circa 23 al giorno, su un totale di 9,8 milioni di bambini e adolescenti, dei quali 1540, poi, conclusi con un rientro nella famiglia d’origine, ovvero il 12,5%. Numeri, al momento, privi di valutazione qualitativa: «dobbiamo capire le condizioni di disagio sociale – ha sottolineato il guardasigilli -. Ma è la prima volta che il ministero ha la possibilità di avere questi dati». Ma cosa dice l’indagine circa i fatti dell’inchiesta “Angeli e Demoni”? E 12.338 affidi sono troppi o pochi? Impossibile, al momento, rispondere, giura il ministro. Ma un dato certo, dall’Emilia Romagna, viene dato dal presidente del tribunale dei minori di Bologna: nello stesso periodo monitorato dal ministero, in Emilia gli allontanamenti sono stati 249 e di questi circa la metà dei ragazzi sono rientrati in famiglia. «Numeri bassissimi», ha commentato il giudice Giuseppe Spadaro. Il monitoraggio ha consentito di verificare anche la natura degli stessi affidamenti: 8.722 sono stati disposti da un tribunale, mentre la parte restante dagli altri uffici. E il collocamento in comunità dipende dalla mancanza di famiglie disposte ad accoglierli o su precisa richiesta degli stessi minori, in particolare gli adolescenti. Dati che arrivano da un monitoraggio su 213 uffici su 224, ossia il 95% del totale. Negli stessi 18 mesi, inoltre, sono state 5.173 le ispezioni ordinarie o straordinarie effettuate negli istituti di assistenza pubblici o privati, ossia a circa 9 al giorno. «La squadra si era data compiti importanti e ambiziosi – ha spiegato Bonafede – ovvero il monitoraggio dell’applicazione della normativa, la raccolta di proposte e la creazione di una banca data nazionale degli affidi». Un monitoraggio che rischiava di essere interrotto dalla crisi di governo, «la mia più grande paura», ha confidato Bonafede. Ma il ministro è riuscito a concludere ieri la fase uno, restituendo intanto l’entità del fenomeno. «Non agiamo per allarmare qualcuno», anzi, «non è un dato allarmante ha spiegato -. Vogliamo, semmai, tranquillizzare i cittadini, dicendo che c’è una maggioranza politica che concentra l’attenzione, per la prima volta, proprio sui bambini, per garantire un sistema che protegge bambini e famiglie». Le criticità riguardano l’eterogeneità delle esperienze e lo spezzettamento del percorso del minore, che risulta, così, non sempre sotto controllo. La fase due sarà perciò caratterizzata da un lavoro di riflessione sui numeri, sullo sviluppo della banca dati e sullo studio di nuove possibili linee d’azione per rendere l’attuazione delle leggi omogenea. «È necessario prevedere un termine di scadenza dell’affidamento, salvo proroghe, con un monitoraggio semestrale ha aggiunto -. Serve una revisione della disciplina dei collocamenti, con una tempestiva valutazione da parte del tribunale dei minori e un protocollo normativo peri provvedimenti d’urgenza che non tolga il controllo allo Stato in nome dell’emergenza».

Bibbiano, la verità della Regione: «Altro che silenzio». Simona Musco il 27 Novembre 2019 su Il Dubbio. La relazione della commissione emiliana sugli affidi. Dal 2014 al 2017 sono stati 2970, in totale, I minori fuori famiglia. Molti I casi di affido consensuale, soprattutto in Val d’Enza: ben 25 sui 64 complessivi. La politica fa finta di non vedere Bibbiano, sosteneva ieri, dalle colonne del Fatto Quotidiano, Selvaggia Lucarelli. O meglio il Pd, che trincerandosi dietro la frase “Bibbiano non esiste” avrebbe messo fine alle polemiche sui presunti affidi illeciti scoperchiati dalla procura di Reggio Emilia con l’inchiesta “Angeli e Demoni”. La critica di Lucarelli parte dal presupposto che in Emilia Romagna l’analisi sulla questione che rimane a tutt’oggi un’ipotesi di reato che ancora non ha varcato le soglie di un’aula di tribunale sia stata affidata ad una commissione tecnica composta, in buona sostanza, da soggetti collaterali alla vicenda. Insomma, gente che in qualche modo con quel sistema c’entrava e che non avrebbe dunque la necessaria obiettività per analizzare i fatti. In sostanza Lucarelli punta il dito contro la commissione tecnica presieduta da Giuliano Limonta, esperto di neuropsichiatra infantile, affiancato da collaboratori del Cismai, il coordinamento dei servizi contro i maltrattamenti di cui faceva parte anche Claudio Foti, della Hansel& Gretel, finita nello scandalo “Angeli e Demoni”. Il timore, comprensibile, è che il controllato e il controllore corrispondano alla stessa persona, fornendo dunque una comoda scappatoia alla politica per camuffare il silenzio dietro un gran baccano.

Ma la commissione tecnica di cui parla Lucarelli non è l’unica. Ve n’è in realtà, un’altra, squisitamente politica, composta da 27 consiglieri regionali e presieduta da Giuseppe Boschini, del Pd, affiancato da esponenti provenienti, oltre che dal Partito Democratico, anche da M5S, Lega, Sinistra Italiana, Fratelli d’Italia, L’Altra Emilia e Gruppo Misto. Una commissione che il 14 novembre scorso ha concluso i propri lavori, dopo 45 audizioni, l’acquisizione di documenti e vari confronti politici e di metodo, con una relazione di 250 pagine che analizza numeri, norme e dichiarazioni. Insomma, se n’è parlato. E anche prendendo posizione politicamente, se è vero, com’è vero, che il governatore dem emiliano, Stefano Bonaccini, ha annunciato la costituzione di parte civile della Regione in caso di processo. Ma non solo: la commissione politica, proprio per scansare qualsiasi accusa di semplificazione e di insabbiamento, ha messo in evidenza tutte le criticità del sistema affidi, proponendo alcuni correttivi per renderlo più efficiente e fornire più garanzie di tutela ai minori. Ma nelle sue conclusioni ha smentito anche le fake news, a partire da un fatto: non è mai stata affidata a privati la valutazione dei casi dei minori e quindi nemmeno l’analisi delle situazioni familiari o le segnalazioni alla magistratura. A causa di una cronica carenza d’organico nel pubblico, invece, il privato sociale subentra nella fase successiva, ovvero nella gestione delle comunità di accoglienza, che entrano in campo quando non ci sono famiglie affidatarie o un contesto familiare idoneo. E poi ha restituito la misura dell’inchiesta: su 2500 operatori sociali, sono sette quelli indagati, per sei casi su circa 3000 minori fuori famiglia. Ma andiamo ai numeri, dunque. Che vanno incrociati, per iniziare, con quelli forniti dal ministero della Giustizia al termine della prima fase dei lavori della squadra speciale voluta da Alfonso Bonafede. Il dato finale fornito da via Arenula, relativo agli ultimi 18 mesi, parla di 12.338 minori collocati fuori famiglia in tutta Italia. E in questo panorama, risulta tra i più bassi il numero a quello relativo alla sola Emilia Romagna, dove stando ai dati forniti dal presidente del tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, nello stesso arco di tempo sono stati eseguiti 249 allontanamenti, dei quali 116 conclusi con un ricongiungimento. E a ciò si aggiunge un ulteriore dato: il 45% di tali casi riguarda adolescenti – quindi situazioni estranee al cosiddetto “caso Bibbiano” – per i quali a richiedere l’affido è stata la stessa famiglia. Si tratta, dunque, di allontanamenti consensuali, pensati per risolvere situazioni di disagio. I numeri, ovviamente, cambiano considerando il dato complessivo degli interventi, che comprende anche quelli in corso dagli anni precedenti. In totale, al 31 dicembre 2017, erano 2970 i minori fuori famiglia, dei quali 1529 in affido familiare, in 452 casi consensuale. Di questi, nella famigerata Val d’Enza, 17 Comuni i cui servizi sociali sono finiti al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni”, il numero totale è di 64, dei quali 25 su richiesta della stessa famiglia. E nei casi in cui il tasso di minori fuori famiglia risulta maggiore rispetto alla media regionale – come Piacenza ( 6,55), Reggio Emilia ( 5,71) e Bologna ( 4,90) -, così come in quelli per cui le percentuali di ricorso all’affido familiare risultano più alte – Piacenza ( 4,61) e Reggio Emilia ( 4,29), compresa la Val d’Enza ( 3,32) – «si riscontra un forte ricorso agli strumenti dell’affido consensuale», ossia «un progetto condiviso con la famiglia e che non comporta quindi allontanamenti di tipo traumatico». Un dato interessante se si pensa che rispetto ad una media regionale pari a 0,64, nella Val d’Enza il ricorso all’allontanamento consensuale è pari a 1,80. Uno dei problemi emersi dalla relazione è quello della durata degli affidi: il totale in corso da più di 24 mesi, tempo previsto dalla norma di riferimento, «risulta pari a circa il 67%». Ma importanti sono anche le classi d’età: i minori in affido da zero a 10 anni rappresentano il 40% del totale, con un picco nella fascia 6- 10 ( 27,34%). Le proposte normative, anche a seguito dell’audizione del presidente Spadaro, non sono mancate, con l’impegno, da parte della Regione, di farsi parte attiva nell’accompagnare i processi di riforma. Tra queste due in particolare: una revisione delle procedure d’urgenza per l’allontanamento transitorio dei minori, con criteri di garanzia e rappresentanza per le famiglie e per il minore stesso, assicurando in tempi certi un adeguato contraddittorio; e l’istituzione di una sorta di “codice rosso minori”, che analogamente a quello istituito per la violenza di genere «consenta un triage approfondito, ma preferenziale e quindi rapido, per i casi urgenti di intervento sul maltrattamento e abuso ai minori, in un quadro giuridicamente chiaro, vigilato direttamente dalla autorità giudiziaria, e con le opportune garanzie giuridiche per tutti gli attori coinvolti».

Infanzia, la Garante: «I servizi ai minori non rispettano gli standard minimi». Simona Musco il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio. Filomena Albano, alla guida dell’authority per l’infanzia: «Dalle relazioni familiari al digitale, le tutele vanno aggiornate». Mascherin ( Cnf): «Serve il difensore del minore». Trenta anni dopo la rivoluzione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, è il momento di un “Child Act”, che metta insieme tutti gli interventi necessari per rendere i diritti dei minori davvero diritti “in crescita”. Un atto formale che stabilisca i livelli essenziali delle prestazioni, il rispetto della forma del giusto processo, con la presenza di un avvocato dei minori, e un welfare per l’infanzia, in grado di combattere la denatalità e l’emergenza educativa. Al netto delle polemiche a volte sterili e, soprattutto, disinformate sui presunti “sistemi”, come quello Bibbiano, che, dicono gli esperti, «non esiste». Spunti che sono venuti fuori dai tavoli di lavoro organizzati dal Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, in occasione dei 30 anni della Convenzione, firmata il 20 novembre del 1989. Ma il mondo di oggi non è lo stesso di 30 anni fa e ciò comporta nuovi bisogni, nuove esigenze e nuove vulnerabilità e, quindi, nuovi diritti. «Tra essi ricordo il diritto dei bambini a non essere lasciati soli, a non dover assistere a discussioni o litigi tra genitori, a coltivare i propri sogni e a realizzarli, a utilizzare in modo consapevole e sicuro i nuovi media digitali», ha sottolineato Albano. Diritti in crescita, dunque, ovvero da interpretare in chiave evolutiva, partendo dal concetto base della prevalenza del superiore interesse del minore. «Oggi i servizi all’infanzia e all’adolescenza non rispettano standard minimi uguali per tutti», ha spiegato Albano, che ha proposto quattro livelli essenziali delle prestazioni: mense scolastiche per tutti i bambini delle scuole dell’infanzia, posti di nido autorizzati per almeno il 33% dei bambini fino a 36 mesi, spazi- gioco inclusivi per i bambini da zero a 14 anni e una banca dati sulla disabilità dei minorenni. «Dobbiamo garantire che i diritti siano realizzati per tutti, non uno di meno». La rivoluzione epocale segnata dalla Convenzione, ha sottolineato Licia Ronzulli, presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, è quella di aver reso i bambini soggetti di diritti e non più oggetti di tutela. Ma le norme, in Italia, sono ancora carenti. Ed è dimostrato dalla fotografia dell’Istat, secondo cui 1,26 milioni di bambini vivono in povertà assoluta, in termini di mezzi di sostentamento ma anche di povertà educativa. E la soluzione è «un vero welfare per l’infanzia», ha sottolineato. A sottolineare l’esigenza di considerare il sistema infanzia come unico e integrato al sistema economico è stato il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin. Che ha ricordato come non esistano riserve di competenza all’interno del mondo dell’infanzia. «Il processo minorile ha bisogno di interventi modificativi – ha sottolineato -. Un sistema che vede un soggetto di diritti, il minore, al centro del processo, con la garanzia di una voce autonoma e indipendente: il difensore del minore. Questo manca in maniera chiara». L’avvocato del minore, ha spiegato Mascherin, garantisce infatti soggettività, autonomia e indipendenza di difesa. E «serve un procedimento che più si avvicini alle regole del contraddittorio e del giusto processo», ha aggiunto. 

La lentezza pachidermica del Tribunale dei Minori. Iter burocratici assurdi, carta invece del digitale, lentezze di ogni tipo. Da tutta Italia arrivano notizie di malfunzionamenti. E' ora di fare qualcosa. Daniela Missaglia il 22 novembre 2019 su Panorama. Immaginate che in una gara di Formula 1, ad un certo punto, scenda in pista Giuda Ben-Hur con la sua quadriga trainata da cavalli, pretendendo di partecipare alla corsa. E’ più che scontato che, già dopo la prima curva, il celebre personaggio del colossal hollywoodiano perda nettamente di vista le monoposto e, tra le risate di compatimento del pubblico, proceda con un passo trotterellante mentre gli altri sfrecciano sull’asfalto. La metafora proposta illustra la differenza, oramai sempre più marcata, tra la giustizia amministrata nei Tribunali ordinari e quella all’interno dei pachidermici Tribunali per i Minorenni, sempre più arretrati ed ingolfati, anti-storici e quindi dannosi, per molti versi. Già, perché le residue competenze che permangono in capo alla giustizia minorile, sul piano civilistico, vengono gestite da una struttura che non è in grado di procedere alla stessa velocità del Giudici dei Tribunali ordinari, zavorrata da plurimi fattori. Il primo dei quali è la gestione delle cause e dei fascicoli, ancora legata alla "carta", quando sono anni che fuori da quelle mura è tutto telematizzato. Se i Tribunali ordinari oggi viaggiano on-line, su appositi portali, accessibili e consultabili dagli avvocati, dai giudici, dai cancellieri, dai periti, snellendo tutto l’iter, nei palazzi dei Tribunali per i Minorenni ogni causa è ancora legata all’atto depositato fisicamente, con la conseguenza - invero drammatica - che basta non stampare un documento, non allegare un fax, per esempio una relazione dei Servizi Sociali, e cambia il corso stesso degli eventi. Senza contare che per avere la copia dei documenti depositati la trafila burocratica può durare anche una settimana, se tutto va bene. Vi è poi il cosiddetto rito minorile, ancestrale, basato sulla rigorosa collegialità di ogni decisione: un provvedimento che, nei casi d’urgenza, al Tribunale ordinario può essere assunto da un singolo magistrato, al Tribunale per i Minorenni presuppone la riunione di un consesso di più giudici, onorari e togati, con la conseguenza di finire, molto spesso alle calende greche. Appunto, per rimanere in tema. In questi giorni novembrini il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia è esploso e ha sentito il bisogno di licenziare un durissimo comunicato contro il malfunzionamento del Tribunale per i Minorenni di Bologna: fascicoli che mancano o incompleti, giustizia lenta, omesse comunicazioni, assenza di telematizzazione, ordinanze che languono nell’iper-spazio, e chi più ne ha più ne metta. Queste accuse possono valere per ogni ufficio di giustizia minorile in Italia. La lentezza è tale che infinite volte al minore - della cui tutela si discute - cresce la barba e oltrepassa la soglia della maggiore età senza che venga pronunciata una decisione definitiva. Non vi è più ragione di proseguire questa agonia, non è più tollerabile che la giustizia venga amministrata a due velocità, visto che - in ambito familiare - il prezzo da pagare è salatissimo, con interessi in gioco di importanza capitale. In fondo, la vicenda di Bibbiano è fatalmente esplosa anche in virtù di questi malfunzionamenti. Ben-Hur ha fatto il suo tempo, ma non può più competere con l’evoluzione di un mondo che non lascia più spazio alle sue quadrighe.

Bibbiano: satanismo, papà-orchi, mamme-streghe. Ecco come convincevano tutti a “falsare” i casi. Chiara Volpi sabato 23 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. L’inchiesta su Bibbiano, che con un dettagliato servizio pubblicato oggi da La Verità, aggiunge un altro capitolo orrorifico agli sconcertanti atti già acquisiti dalla magistratura e resi noti dai media. Stante alle nuove rivelazioni pubblicate oggi sul quotidiano diretto da Belpietro, la cornice si arricchisce infatti di nuovi elementi. E la scena si “arricchisce” di boschi misteriosi, maschere inquietanti, sangue e ombre. Orchi e streghe. Satanisti, cannibali e adoratori del Male. Una narrazione gotica, quella desunta dalle relazioni di assistenti sociali e psicologici, per cui i mostri erano i genitori. I salvatori gli operatori dei servizi sociali. L’unica costante rimasta inalterata anche oggi che la verità sta venendo fuori è che le vittime sono sempre stati i bambini…

L’inchiesta su Bibbiano: nuovi, sconcertanti, elementi. Già, perché aumentano i mostri. Decuplicano le false accuse. Proliferano tentativi più o meno striscianti di difendere aguzzini chiave e comprimari. Non si contano più le volte che il Pd ha tentato di sminuire gravità e responsabilità politiche dello scempio. Ma le figure chiave dell’inchiesta su Bibbiano, Federica Anghinolfi (responsabile del servizio sociale dell’Unione della Val d’Enza), Claudio Foti (direttore della onlus Hansel e Gretel) e Francesco Monopoli (assistente sociale dei servizi sociali dell’Unione Val d’Enza). Tutti oltre che potentissimi deus ex machina intervenuti dram,maticamente nelle vite delle famiglie, stravolgendone i destini, anche abili persuasori occulti di colleghi e dipendenti indottrinati giorno dopo giorno. E convinti da menzogne e artefazioni ad hoc a operare secondo il loro terribile disegno.

Le inquietanti dichiarazioni degli assistenti sociali interrogati. Secondo quanto ricostruito da La Verità, infatti, Anghinolfi e Monopoli avrebbero fatto credere agli assistenti sociali che occorreva proteggere i bambini da una setta. In base a quelle che il quotidiano di Belpietro definisce «le sconcertanti dichiarazioni rese agli inquirenti dagli assistenti sociali», interrogati, «i loro capi li spingevano a togliere i figli alle famiglie inventando la minaccia di un gruppo “satanista”». Di più: «Dobbiamo salvare i bambini a costo di forzare le relazioni o addirittura falsificarle»- Come scrive La Verità, infatti, «la presentavano, così, come una lotta contro il male. Una forza oscura, terribile e insidiosa, una piovra che allungava ovunque i propri tentacoli viscidi». dunque, per la precisione, «si sarebbe trattato di una setta satanica dedita a violenze sistematiche sui piccini, a omicidi di minorenni, a riti blasfemi e addirittura a cannibalismo rituale». Operatori e operatrici, terrorizzate, venivano anche ammoniti in merito al potere esercitato da questi presunti “adoratori del male”: tutti giudici, membri delle forze dell’ordine, professionisti di successo. Insomma, i satanisti potevano essere ovunque. I loro figli vessati sempre…

Papà-orchi e mamme-streghe: incredibile trama per facilitare gli affidi. Guarda caso, però, come scrive La Verità, «la comparsa di queste storie sui riti satanici a Reggio Emilia e dintorni risale al 2016. Cioè nel periodo in cui nella zona sbarcano i professionisti di Hansel e Gretel. A cui venne affidata la gestione del centro La cura di Bibbiano». E allora, come è stato possibile non notare quella “strana” coincidenza fra i casi di Bibbiano e quelli della Bassa Modenese al centro dell’inchiesta “Veleno»? E, soprattutto, come operatori e assistenti sociali di quelle zone hanno potuto farsi convincere così facilmente che quelle storie dell’orrore, a dir poco inverosimili. Popolate di papà mostri e familiari orchi. Mamme-streghe e complici fantomatici? Come convincersi, senza notare nulla di strano, che, come conclude anche il servizio de La Verità, «due potentissime e terribili sette sataniche avrebbero operato in provincia di Modena e in provincia di Reggio Emilia a distanza di vent’anni l’una dall’altra»? Ai giudici la neanche troppo ardua sentenza…

"A Bibbiano parlavano di cannibali e satanisti per togliere i bimbi ai genitori". Spuntano i testimoni che raccontano come i "demoni di Bibbiano" li inducevano a fare carte false con le storie di uomini pedofili e cannibali. Una minaccia per i piccoli del paese. Costanza Tosi, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Liberare i bambini da una setta satanica spietata. Così il capo dei servizi sociali Federica Anghinolfi, il suo collaboratore Francesco Monopoli e il fondatore della Hansel e Gretel, Claudio Foti insieme alla ex moglie Nadia Bolognini plagiavano gli operatori per spingerli a compiere gli atti illeciti. Per convincerli che strappare i bambini alle proprie famiglie di origine era la cosa giusta da fare. O,meglio, che quella era l’unica cosa da fare. La sola via per salvare i piccoli da questo terribile pericolo.

Il terreno era labile sotto i piedi di chiunque nel paesino in provincia di Reggio Emilia. Secondo i falsi racconti dell’orrore che i "Demoni di Bibbiano" riportavano agli assistenti sociali, i mostri, pedofili che abusavano dei bambini potevano essere ovunque. Denunciarli era troppo pericoloso perché gli uomini della setta erano persone molto potenti: magistrati, personale delle forze d'ordine, professionisti del settore. Un gruppo numeroso le cui pedine potevano trovarsi sparse ovunque, anche di fronte alla propria casa. Le menti del sistema illecito che muoveva gli affidi in tutta la Val D’Enza plagiavano chi aveva più bisogno. A raccontarlo, in aula di tribunale, sono almeno sei testimoni diversi e non tutti indagati dalla Procura di Reggio Emilia. Indotti, convinti e spaventati dai racconti di Anghinolfi e Monopoli, gli operatori dei servizi stilavano decine di perizie false allo scopo di allontanare i minori dalla propria famiglia. "Anche adesso che mi avete aperto gli occhi faccio fatica a credere che fosse tutto falso", ha detto uno dei testimoni durante l’interrogatorio. E nella convinzione che due righe di falsità scritte su un foglio avrebbero salvato la vita ad un bambino voi, non avreste fatto lo stesso? Così agivano gli uomini dei servizi sociali, convinti di fare del bene. Sicuri che stavano solo salvando le vittime da una setta di cannibali. "Vivevamo in una stanza chiusa, ci avete portato la luce aprendo le finestre”, anche queste parole arrivano da una degli assistenti sociali del comune di Bibbiano in aula di tribunale. Le favole dell’orrore attaccavano. Funzionavano per mandare avanti il gioco illecito e le parole dei racconta menzogne erano forti. Persuasive. Tanto da essere credibili. Così, la rete si allargava a poco a poco e la favola diventava una realtà per tantissime persone. Ad essere imbrogliato, anche un perito, che pare sia stato avvicinato in Tribunale, prima di un' udienza. Ad indirizzarlo sul da farsi sarebbe stato proprio Monopoli. Raccontando al professionista “il pericolo" che quel bambino correva, la famiglia era un nido di mostri. Gli psicologi di Claudio Foti, alla Hansel e Gretel avevano tutto sotto controllo. Era semplice procedere con le sedute. Bastava seguire alcune linee guida. Se i bambini, nei loro racconti o ottraverso i loro disegni, utilizzavano le parole bosco, camionista o maschera scattava il campanello d’allarme. Quelli erano i segnali che il piccolo era finito nelle mani dei pedofili. Storie surreali che aggiungono dettagli inquietanti a quella che già dalle carte della procura di Reggio Emilia si era mostrata come una vicenda disumana. Testimonianze che, Rossella Ognibene, legale di Federica Anghinolfi, respinge. Non ci sono prove che confermino i racconti dei testimoni. Eppure la storia rende tutto amaramente più credibile. Qualcosa di troppo simile era già successo. A pochi chilometri di distanza da Bibbiano. Nel 1997 gli stessi racconti di sette staniche di pedofili che abusavano di minori e compivano riti nei cimiteri portò, nella Bassa Modenese, ad aprire un indagine. 16 bambini vennero allontanati dalle proprie famiglie e il parroco più amato della zona morì, nella stanza del suo avvocato, abbandonato dal suo stesso cuore che non resse il peso delle accuse. Nessuno trovò mai le prove dell’esistenza di una setta di maniaci che sacrificavano i propri bambini. Quasi vent’anni di processi e poi la verità. Le accuse non reggono. Nessuna setta è mai esistita. Alcuni degli imputati vennero assolti nel 2013 dalla Corte d' Appello. Ad interrogare quei bambini che raccontarono gli atti osceni, anche ai tempi furono gli operatori della Onlus di Claudio Foti. La stessa che, nei casi dei bambini di Bibbiano, è stata accusata di plagiare le piccole vittime al fine di inculcare nelle loro menti ricordi falsati. Ancora una volta sembra di assistere al un film già visto. Una delle bambine dei “Diavoli della bassa” il cui padre è finito in carcere con l’accusa di pedofilia, venne poi rintracciata da Pablo Trincia autore del podcast Veleno in cui racconta la verità sui casi di Mirandola. La ragazza a anni di distanza confidò al giornalista "di avere la percezione di essersi inventata tutto".

"Vogliono eliminare la famiglia". Ecco cosa c'è dietro Bibbiano. Papa Francesco incontra le famiglie a cui furono tolti i figli per false accuse di pedofilia e satanismo e si scaglia contro quel sistema che portò all'inchiesta dei "Diavoli della Bassa" negli anni novanta e al "caso Bibbiano" vent'anni dopo. Costanza Tosi, Venerdì 15/11/2019, su Il Giornale. Dei "demoni" di Bibbiano è vietato parlare. A distanza di mesi dallo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni" sui presunti affidi illeciti nel paese in provincia di Reggio Emilia c’è chi ancora prova a silenziare le denunce, bloccare in petto le grida dei genitori che cercano giustizia. Condannare la spinta dei media a tenere accessi i riflettori affinché venga fatta chiarezza per tutte quelle famiglie strappate dai propri bambini sulla base di false accuse e lavaggio del cervello ai minori. In molti ancora continuano a negare l’esistenza di un sistema e di un’ideologia estrema che cerca di distruggere la famiglia naturale. La storia però porta proprio lì, all’evidenza di una cultura che ha combattuto la famiglia fino ad arrivare a condannare genitori innocenti. É proprio con questi genitori che, questa volta, si schiera anche papa Francesco. Il vescovo mercoledì ha incontrato i familiari a cui una ventina di anni fa, psicologi e assistenti sociali tolsero i bambini con falsi pretesti. Le cronache li chiamavano “diavoli” e invece si sono dimostrati delle vittime. Anche se ancora c’è chi non crede alle loro storie, su cui ormai, e finalmente, i tribunali hanno fatto giustizia. Sono i protagonisti delle storie di Veleno, l’inchiesta in cui il giornalista Pablo Trincia racconta la verità sulle famiglie che, alla fine degli anni novanta, vennero accusate di far parte di sette sataniche che commettevano abusi sui minori. Accuse da far accapponare la pelle: pedofilia e satanismo. Ma lì, a Mirandola, in quel paesino del modenese, tra queste famiglie, spesso fragili e indifese, di pedofili che compievano riti satanici si scoprirà che non ce ne sono mai stati. Quelle erano solo storie dell’orrore che gli assistenti sociali hanno assecondato e gli psicologi fatto denunciare ai minori in tribunale dopo lunghi lavaggi del cervello in cui i medici plagiavano i bambini fino a farli parlare di abusi mai avvenuti. Alcuni di loro facevano parte della Onlus Hansel e Gretel, l’associazione capitanata da Claudio Foti, oggi al centro dell’inchiesta sui bambini di Bibbiano. A loro sono andate le parole di Papa Francesco: "I bravi fedeli di Mirandola! Io vi ringrazio - ha detto - per come avete portato la croce e per come avete avuto il coraggio di difendere il parroco. Era innocente e voi lo avete tanto difeso". Il parroco è don Giorgio Govoni. Il prete che fu accusato di capitanare la setta satanica degli abusi. Le scioccanti testimonianze dei bambini molestati riportate da psicologi e assistenti sociali schiacciarono di accuse il parroco fino a farlo soffocare dal dolore. Don Giorgio morì nel 2000, ucciso da un malore mentre era nell' ufficio del suo avvocato. Il cuore non ha retto il dolore per quelle accuse terribili che spinsero il pm a condannare l’uomo a 14 anni di reclusione. La sua storia fu poi raccontata in un libro “Don Giorgio Govoni martire della carità, vittima della giustizia umana”. L’autore, don Ettore Rovatti, parroco di Finale Emilia quando era ancora in vita parlò con Trincia: “C' è una mentalità dietro a tutto questo armamentario giuridico, la famiglia ha torto sempre. Lo Stato ha sempre ragione. Questa gente vuole distruggere la famiglia, così come il comunismo voleva distruggere la proprietà privata. Queste psicologhe e assistenti sociali dell' Ausl volevano dimostrare che Dio, poveretto, non ha saputo far bene il suo mestiere. Erano loro che sapevano fare meglio del padreterno”. Disse il parroco, che aveva ricostruito l’intera storia dei “Diavoli della Bassa” attraverso atti dei processi, testimonianze, documenti. Ritrovare le sue trencento pagine di verità, oggi, è come cercare un ago in un pagliaio. Il suo libro è ormai introvabile, le copie stampate furono pochissime e, una volta esurite, non andarono mai in ristampa. La verità sul perché di questa piccola storia è un altro pugno nello stomaco, un’altra ferita per tutte le vittime di quelle vicende che hanno distrutto intere famiglie e cambiato la vita a decine di bambini. L’editore subì delle minacce e la paura lo spinse a fermare tutto. Così hanno raccontato mercoledì al Papa, quando una delle famiglie del caso Veleno a cui furono portati via i bambini ha regalato a Francesco una copia del libro su don Giorgio Govoni. Davanti a tutto questo niente è riuscito a fermare le parole di Bergoglio: “Siamo forse in dittatura? - ha detto - In Italia non c' è la libertà di stampa? Fate forza per ripubblicare questo libro, la libertà di stampa è per tutti”. Eppure in un paese in cui la libertà di stampa esiste, ancora ci sono storie che faticano ad essere accettate, che qualcuno non vuole che vengano raccontate. Forse, perchè portano a galla la verità su un sistema figlio di un’ideologia malata: la stessa ideologia che ha portato alle storie dei Diavoli della Bassa, prima, e dei bambini di Bibbiano, ora.

A Ferrara il Pd fa ricorso al Tar per fermare indagine su affidi. Il Pd ha deciso di presentare un ricorso al Tar per chiedere che la delibera che istituisce la commissione d'inchiesta di Ferrara sia dichiarata illegittima. Ecco le motivazioni (irrisorie). Aurora Vigne, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Il sistema Bibbiano, si sa, ha contagiato diverse città emiliane. Un meccanismo malato sul quale le famiglie, ora, chiedono chiarezza. Proprio per questo il Comune di Ferrara, guidato da giugno dal leghista Alan Fabbri, ha approvato l' istituzione di una commissione di inchiesta locale sul sistema di gestione dei minori per verificare se la macchina degli affidi funziona bene. Ma facciamo un passo indietro. È di giorni fa la notizia che l'indagine della Regione Emilia Romagna è stata conclusa - o meglio, sepolta - con questa sentenza inverosimile. "I servizi comunali sono complessivamente ben organizzati sul territorio - ha detto il presidente della commissione Giuseppe Boschini (del Pd) - che operano in un quadro sempre più complesso, con risorse non sempre adeguate: serve un passo avanti anche da parte della Regione Emilia-Romagna per migliorare il coordinamento di queste complessità". Insomma, non ci sarebbe nessun allarme sociale diffuso sul tema. Il che è assurdo. Ma si sa, la commissione era presieduta dal Pd e aveva un 5 Stelle come vice e così i dem e le istituzioni emiliane hanno potuto dormire sonni tranquilli. Ma a dare fastidio al Partito democratico ora è proprio la città di Ferrara. Con la commissione di inchiesta locale sul sistema di gestione dei minori, il pavimento sotto ai piedi ben saldi dei dem ha iniziato a tremare. E dire che non si tratta assolutamente di una caccia alle streghe. Ma piuttosto si tratta "della volontà di approfondire, spinti da un doveroso impegno di trasparenza nei confronti delle famiglie, utenti di un servizio delicatissimo, soprattutto dopo i dubbi sollevati sull' intero sistema dalle inchieste nazionali ancora in corso", ha spiegato l' assessore alle Politiche sociali, Cristina Coletti. Ma al Pd l'iniziativa non è piaciuta per niente e addirittura ha deciso di presentare un ricorso al Tar per chiedere che la delibera che istituisce la commissione sia dichiarata illegittima. E quali sarebbero le motivazioni? Considerando che siamo in Comune guidato dal centrodestra sembrano alquanto irrisorie. I consiglieri dem, infatti, insistono in particolare su un punto, ovvero il numero di piddini all' interno della commissione, che non ritengono proporzionale. In altre parole, ai dem brucia il fatto di non avere il controllo della commissione. Ma perché avere tanta paura? D'altronde, secondo la Regione a guida Pd, tutto funziona perfettamente e non c'è un sistema malato. Che dire: forse il Pd preferisce la linea dell'insabbiamento. Non si sa mai che poi esca qualche lato marcio anche a Ferrara.

Sinistra e Chiesa unite per censurare il caso Bibbiano. Un nuovo convegno sui fatti di Bibbiano scatena gli animi dei toscani. Il cardinale Giuseppe Betori e il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, uniti nella battaglia per la censura. Costanza Tosi, Martedì 12/11/2019 su Il Giornale. Bambini abusati, schiacciati da pressioni psicologiche, plagiati da pensieri umani figli di ideologie esasperate. Dagli scandali del Forteto toscano ai Diavoli della bassa modenese, fino alla più recente inchiesta guidiziara sui bambini di Bibbiano. A distanza di vent’anni le une dalle altre, ripercorrendo queste storie si compongono gli orrori di 50 anni di violenze sui minori che hanno rovinato centinaia di vite e distrutto intere famiglie. Ma parlarne è quasi un reato. Dirlo è offensivo e legare vicende che hanno alla base un dato comune, nonché l’ideologia, per qualcuno è strumentalizzazione. Per i progressisti uomini della sinistra la soluzione sarebbe tacere davanti a tanto squallore. Lo avevano fatto intendere agli inizi delle indagini sui "demoni" di Bibbiano, fingendosi, a comodo, garantisti e gridando all'unisono "no alle strumentalizzazioni. Lasciamo che la giustizia faccia il suo corso". Che importa denunciare gli abusi, le violenze psicologiche sui minori affinchè non si ripetano, in nome di un dovere morale che serva ad accendere i riflettori su un tema che forse, visti i fatti, meriterebbe alcune riflessioni? A loro, niente. L’importante è silenziare le questioni, sopratutto quelle in cui, in qualche modo, i sinistri sono coinvolti, anche solo perchè condividono le stesse ideologie, o hanno creduto in metodi che si sono verificati pericolosi.

É successo di nuovo. Che qualcuno abbia cercato di censurare un momento di confronto e, questa volta, la squadra che si è schierata contro la libera espressione di un pensiero è numerosa e ben assortita. Succede che, il 30 novembre, a Bergamo, si terrà un convegno, Da Barbiana a Bibbiano. Tra gli ospiti, il giornalista Pucci Cipriani, il garante per l'infanzia e l'adolescenza del Lazio, Jacopo Marzetti, e Francesco Borgonovo, vicedirettore della Verità. Il tema è quello dell’abuso dei minori e il titolo fa intuire il focus. Barbiana è, infatti, una località in provincia di Vicchio, il paese in Toscana, casa del celebre don Lorenzo Milani. Bibbiano, il paese nel reggiano finito al centro delle cronache con l'inchiesta "Angeli e demoni". Un evento per continuare a parlare di storie che mai riusciranno ad essere seppellite e che hanno ancora bisogno di essere tinte della verità più pura, almeno finché la giustizia non farà il suo corso. Ma c'è chi non è d’accordo. Insorgono i garantisti sui social e, a questo giro, dice la sua persino il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze. "Non si può accettare che la figura di don Lorenzo Milani, servitore esemplare del Vangelo e testimone di Cristo, sia strumentalizzata", ha dichiarato. Ci risiamo. Con la stessa filastrocca. Strumentalizzazione sembra essere diventata la parola d’ordine. "Si tratta dell' ennesima distorsione e travisamento che da varie e diverse parti, in maniera ricorrente nel corso dei decenni, è stata fatta e continua ad essere fatta del pensiero e dell' azione di questo nostro sacerdote - ha proseguito Betori - vicende inaccettabili come questa suscitano amarezza e dolore per il ricordo di don Milani, per la diocesi, e per tutti coloro che lo hanno conosciuto". Eppure ci sono episodi che di amarezza e dolore ne hanno sicuramente causato di più. Che nel titolo della locandina del convegno venga accostata Barbiana ai più recenti fatti di Bibbiano dipende da un fatto semplice e chiaro. È proprio dalla "scuola di don Milani" che provenivano alcuni tra i fondatori del Forteto, la comunità degli orrori gestita da Rodolfo Fiesoli, tornato ad occupare le pagine di cronaca pochi giorni fa quando la Cassazione ha confermato la sua condanna a 14 anni e 10 mesi di carcere per maltrattamenti e violenza sessuale su minori. A dirlo è chi non avrebbe mai voluto farlo e a cui questa consapevolezza ha provocato sì, sofferenze e tanto, dolore. La “denuncia” è partita da alcuni soci della sede di Bologna del Centro formazione e ricerca "don Lorenzo Milani" e scuola di Barbiana che hanno spiegato del legame fra alcuni discepoli di don Milani e il Forteto. Motivo per cui, hanno poi deciso di dimettersi e tirare giù la saracinesca della sede bolognese del centro. "Un socio fondatore della nostra associazione di Vicchio, Edoardo Martinelli, è stato anche fondatore del Forteto, poi fuoriuscito, che da anni sapeva delle violenze che ivi venivano commesse", hanno spiegato i soci di Bologna. Che poi hanno aggiunto, senza mezze parole, che "i documenti raccolti hanno messo in evidenza la piena commistione tra la vicenda Forteto e Barbiana attraverso l'abuso distorto del pensiero di don Milani, ma anche attraverso l'inerzia di coloro che, consapevoli da anni, avrebbero potuto e dovuto intraprendere una battaglia in difesa dei più deboli". Come se non bastasse tra i fatti ricordano che "un noto esponente della nostra associazione di Vicchio, Manrico Velcha, in rete definito segretario generale, ha per anni partecipato al cda della Istituzione Centro di documentazione don Milani del Comune di Vicchio a fianco del pregiudicato per reati di violenza sessuale, atti di libidine violenti e continuati ai danni di minori disabili Rodolfo Fiesoli, partecipazione protrattasi fino al giorno dell'arresto di Fiesoli, 20 dicembre 2011". Evidentemente si parla di una esasperazione malata, di un utilizzo improprio di un ideologia per compiere atti disumani. Ma infatti, dato che il convegno ancora non si è tenuto, con ogni probabilità nessuno avrebbe partecipare con l’intento di voler infangare il nome di don Milani. Una strana interpretazione di un titolo volto a collegare due vicende purtroppo legate da un filo rosso. Una cosa però è certa: i rapporti tra alcuni seguaci di don Milani e i protagonisti della vicende del Forteto meritano di essere chiariti. Senza censura. Senza che questo possa offendere nessuno che, piuttosto, dovrebbe essere sconcertato dalle ultime denunce. E invece, a farsi sentire è stato anche il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Con lui, anche il sindaco del Mugello, che ha aderito persino ad una marcia a Barbiana. Una trasferta speciale per salvaguardare il nome di don Milani che Rossi ha annunciato persino sulla sua pagina Facebook dove, peraltro, non gli è passato di mente di dedicare due parole alla notizia della condanna del mostro del Forteto. Così, giusto per dire. Della gita ha invece scritto: "L'esperienza di Barbiana è così alta che non può essere infangata. Tutti devono rispettarla e attingere ad essa, come ad una fonte, per riflettere sul presente e sul futuro, proprio e della propria comunità. A me pare che mai come oggi tutti noi siamo chiamati in causa, personalmente, per un impegno di solidarietà verso chi ha bisogno, senza distinzioni di appartenenza nazionali, etniche o di classe". D'accordo anche Luca Lotti che ha invece diffuso un comunicato contro il leghista Simone Pillon. Anche lui, tra i partecipanti al convegno. "Pillon ha superato ogni limite di decenza", ha scritto Lotti. Per poi arrivare puntuale al ritornello: "È inaccettabile che la figura di don Milani venga strumentalizzata per miseri scopi di propaganda politica". Tutti adirati per la paura che si associ il nome di don Milani alle storie scandalose sui bambini. Nessuno che proferisce due parole per condannare la condotta disattenta (ci si augura) di chi, prima di loro, ha appoggiato e, ancor peggio, finanziato il Forteto nonostante le denunce e le condanne per reati che fanno accapponare la pelle. Per Bibbiano in fondo, è stato lo stesso. Forse però, qualcuno dovrebbe rendersi conto che è arrivato il momento di mettere da parte la propria tanto amata concezione del mondo progressista e ammettere che condannare i danni di un’ideologia smisurata non ha niente a che vedere con la strumentalizzazione politica. Che difendere le vittime condannando i colpevoli non ha niente a che vedere con la volontà di infangare gli innocenti. L'insurrezione ingiustificata per ostacolare convegni, eventi, spazi di discussione su Bibbiano, sul Forteto, su Veleno, è una censura contro la ricerca della verità. Perché? Fa paura a qualcuno?

Bibbiano scarica la sinistra: "Quelli del Pd ci hanno traditi". Gli scandali di Bibbiano hanno scosso i cittadini del paesino in provincia di Reggio Emilia. Ora la sinistra perde una fetta dei suoi elettori. Costanza Tosi, Martedì 26/11/2019, su Il Giornale. Pd sì, oppure no? A pochi mesi dalle elezioni regionali in Emilia Romagna è questo il dilemma. La regione rossa per antonomasia subirà la crisi della sinistra o rimarrà fedele agli uomini del Pd? Siamo andati a sentire cosa ne pensano i cittadini di Bibbiano. Il piccolo paese in provincia di Reggio Emilia, balzato alle cronache negli ultimi mesi, per gli scandali sugli affidi illeciti. Le storie di Angeli e Demoni per il Partito democratico sono state un boccone difficile da digerire. Tra gli indagati dalla Procura di Reggio Emilia, infatti, sono finite anche alcune reclute del Pd. Tra questi Andrea Carletti, sindaco del paese e colpevole, secondo l’accusa, di aver favorito la Onlus di Claudio Foti offrendo allo psichiatra spazi comunali per svolgere le terapie ai minori, senza istituire le dovute gare d’appalto. Ora il primo cittadino è passato dagli arresti domiciliari all'obbligo di dimora nel Comune di residenza, Albinea. Come deciso dal tribunale della Libertà di Bologna sul ricorso della difesa del primo cittadino, attualmente sospeso dall'incarico dopo l’inchiesta in cui risponde di abuso di ufficio e falso. Ma non basta. Perché Carletti non è l’unico ad essere accusato di aver compiuto qualche passo falso in Emilia Romagna. Insieme a lui sono finiti nel registro degli indagati altri due sindaci dem: Paolo Colli e Paolo Burani, ex sindaci di due comuni nel reggiano, Montecchio e Cavriago. Anche loro indagati per abuso d’ufficio. Passeggiando per le vie del paese l’odore che si respira è di scetticismo. A dominare tra i bibbianesi sono gli indecisi, che ora temono che gli errori della sinistra potrebbero aver fortificato il sistema malato che coordinava gli affidi in tutta la Val D’enza. Regna la strategia del "non voto". "Tanto non cambia niente. I partiti ormai sono tutti marci. Da una parte e dell’altra. Tanto vale rinunciare a dire la propria", dicono i cittadini. "Io non voto e faccio prima. Quando verrà fuori la verità saprò cosa fare", proseguono. Ma qualche anima più speranzosa c’è. E, tra un caffè e l’altro, qualcuno ammette che da tempo ha abbandonato il proprio credo politico. "Il Partito democratico mi ha deluso. Hanno fatto cose inaccettabili". E chi invece rincara la dose e senza mezzi termini emmette: "Io sono allergico al Pd". Non tutti però escono scossi dalle storie delle famiglie a cui hanno strappato i piccoli con false accuse e lavaggi del cervello ai bimbi al fine di fargli confessare abusi mai avvenuti. "Bibbiano rimane a Bibbiano. Non credo che incida molto", ci spiega un passante. Altri riducono l’inchiesta ad uno slogan dei populisti per sconfiggere la sinistra. Come il leader delle Sardine, Mattia Santori, che in occasione della manifestazione in piazza a Modena aveva dichiarato che "gli slogan su Bibbiano qua non funzionano perché la gente ha un cervello". E così, dietro l’onda dei pesciolini, c’è chi sostiene che sia tutta una farsa. "Quelle su Bibbiano sono tutte dicerie. Di tutto quello che hanno detto, di vero, non c’è quasi niente", si scalda una signora nella piazza del Comune. Beh, sarebbe il caso di dire che questo, forse, ce lo diranno le indagini.

NON PARLATECI DI BIBBIANO. Davide Lessi per “la Stampa” il 20 novembre 2019. Parlateci di Bibbiano, dicono. Ma farlo da questo paese di poco più di 10 mila anime, a una manciata chilometri da Reggio Emilia, non è semplice. I suoi abitanti sfuggono. Prevale la discrezione, la voglia di non alimentare polemiche. Tanto più ora che mancano un paio di mesi alle Regionali. Il motivo di questa diffidenza te lo spiegano al bar Carducci, a pochi passi dalla piazza principale. «Ci hanno trattato come appestati», dice Mario. «Pensi che quest' estate quando sono andato in vacanza l' albergatore mi ha sconsigliato di dire agli altri ospiti da dove venivo. Non voleva creare paure e ansie». Bibbiano, il paese diventato "hashtag" dello scontro politico estivo, è ancora stravolto. Poco importa che le luci del set ora si siano abbassate. Tutti ricordano l' inizio del film: è l' alba del 27 giugno quando questa comunità della Val d' Enza viene tramortita da 6 arresti, 27 indagati, 1600 pagine di intercettazioni. L' indagine si chiama "Angeli e Demoni", e va a scoperchiare un presunto sistema di affidi illeciti di minori, gettando ombre sull' amministrazione della cosa pubblica e sui servizi sociali. Mettendo in discussione uno dei baluardi di questa terra: la fiducia tra cittadini e istituzioni.

"Le minacce continuano". «Siamo stati travolti da un' onda anomala», racconta Paola Tognoni, sindaca facente funzione. È lei che ha sostituito Andrea Carletti (Pd) finito agli arresti domiciliari (a settembre convertiti in obbligo di dimora) con l' accusa di abuso d' ufficio e falso. «Non è semplice per una comunità come questa ritrovarsi alla ribalta delle cronache nazionali per un tema delicatissimo come la tutela dei minori», spiega dagli uffici del Comune. C'è da capirla. Bibbiano, cuore della Val d' Enza, conosciuta per le feste settembrine che la celebrano come «culla del parmigiano» è stata trasformata in un' agorà politico-mediatica che poco o nulla aveva a che vedere con l' indagine. Nella scalinata del municipio un via vai di manifestazioni, comizi di leader (da Matteo Salvini a Giorgia Meloni) e di sconosciuti personaggi in cerca d' autore, come tale Padre David, sedicente esorcista che, vestito con un saio bianco, diceva di voler far espiare alla comunità i suoi peccati. «Alcuni raduni hanno rasentato l' orrido - ammette ancora Tognoni -. Ma la verità, purtroppo, è che abbiamo subito minacce da tutta Italia». In Comune non si contano le telefonate e le mail di offese. «Una volta abbiamo ricevuto anche delle lettere che contenevano sterco. E il primo consiglio comunale dopo gli arresti, per motivi di sicurezza, è stato fatto con i poliziotti in tenuta anti-sommossa a presidiare l' ingresso».

Un sistema sotto-accusa. Passati, per ora, i problemi di ordine pubblico, si prova a fare una conta dei danni di quest' onda anomala. Che ha travolto i servizi sociali di tutta la Val d' Enza: dai 15 operatori occupati nella cura e nel sostegno dei minorenni, in sette sono finiti nell' indagine. Alcuni di loro con delle accuse gravi: l' aver manipolato le testimonianze dei bambini per facilitare l' avvio delle procedure di affidamento urgenti. Per capire l' effetto dell' inchiesta aiuta spostarsi a Barco, frazione di Bibbiano, dove hanno sede gli uffici sulla tutela dei minori dell' Unione Val d' Enza. «Le minacce non sono ancora finite», spiega Francesca Bedugni, sindaca dem di Cavriago e ora titolare delle deleghe ai servizi sociali per gli 8 comuni della valle. L'ultima intimidazione è stata recapitata ai servizi sociali della vicina Ferrara: una busta con dentro proiettili che indicava come destinatari «gli assistenti sociali di Bibbiano». Si lavora in un generale clima di diffidenza che mette a rischio anche l' erogazione dei quotidiani servizi di tutela ai minori. «Il paradosso è che il clamore suscitato dall' inchiesta ha fatto sì che, per ora, il sistema sia diventato più debole: non c' è da meravigliarsi che nei prossimi mesi, come anticipato dal presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna, calino le segnalazioni di violenze e abusi». In tutta Italia diversi assistenti sociali, tra gli oltre 40 mila iscritti all' albo, starebbero chiedendo di essere spostati dai servizi ai bimbi a quelli per adulti e anziani. «Abbiamo paura di finire in indagini nel normale svolgimento del lavoro, perciò chiediamo di essere trasferiti ad altri impieghi», dice una di loro che preferisce l' anonimato.

L'autocritica. Eppure c'è chi, in attesa delle verità processuali, vorrebbe parlare di Bibbiano. «Ma seriamente, non con degli slogan», premette Alberto Iotti, consigliere nel vicino comune di Sant' Ilario. Lui ha redatto un libro bianco per sottolineare le responsabilità politiche che emergono dall' inchiesta. «Il limite di questa vicenda è quello di aver esaltato un modello, quello della Val d' Enza, senza un pensiero critico», dice. E spiega: «Hanno abbracciato le teorie dell' associazione Hansel e Gretel e le hanno sostenute economicamente senza esercitare un controllo politico». Il metodo di ascolto empatico dei bambini, professato dallo psicologo Claudio Foti e dalla moglie Nadia Bolognini (entrambi indagati), diverge da quello prescritto dalla Carta di Noto, il protocollo che contiene le linee guida deontologiche per gli psicologi forensi. «L' errore degli amministratori è quello di fidarsi di un metodo senza metterlo in discussione. Per questo dovrebbero fare autocritica - dice ancora il consigliere Iotti -. Ma Salvini smetta di dirci che qui rubiamo i bambini». La nuova ondata Il clima, con la campagna per le regionali entrata nel vivo, rischia di infiammarsi di nuovo. «Il pericolo c' è - ammette la dem Francesca Bedugni -. C' è chi vuole cavalcare l' inchiesta per strumentalizzarla e raccogliere consenso». Ancora più diretta è Valentina Bronzoni, 29enne consigliere comunale eletta a Bibbiano con una lista civica di opposizione. «Qui in Emilia, Salvini non può utilizzare lo spauracchio dei migranti ma sta politicizzando il caso affidi per creare un' altra paura atavica tra le persone: quella che un giorno, ingiustamente, qualcuno gli porti via i figli. È un gioco troppo facile però». Fatto sulla pelle dei bambini.

Bibbiano, la Cassazione revoca i domiciliari al sindaco. Secondo la corte non c'erano condizioni per arresto di Carletti. Giuseppe Baldessarro il 03 dicembre 2019 su La Repubblica. Torna il libertà il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. La Cassazione ha revocato l'obbligo di dimora nei confronti del primo cittadino Pd indagato per lo scandalo 'Angeli e Demoni' sul presunto sistema di affidi illeciti di minori scoppiato in Val d'Enza, in provincia di Reggio Emilia. La misura cautelare era scattata nel giugno scorso quando il politico venne arrestato e messo ai domiciliari. Successivamente era stata decisa la misura dell'obbligo di dimora. A distanza di sei mesi ora è tornato libero. In attesa delle motivazioni, la Cassazione avrebbe deciso per la revoca sentenziando che non sussistevano le condizioni per l'arresto. Il ricorso alla Cassazione era stato presentato dai legali di Carletti, l'avvocato Giovanni Tarquini e il professore Vittorio Manes. Il sindaco non era direttamente coinvolto nelle vicende degli affidi illegittimi dei bambini da parte dei servizi sociali dell'Unione dei comuni della Val d'Enza, ma risulta indagato d'abuso d'ufficio e falso per aver affidato degli spazi pubblici all'associazione "Hansel e Gretel", che si occupava della psicoterapia dei bambini. Carletti alla lettura della sentenza è parso commosso, a chi ha avuto modo di parlargli è sembrato soddisfatto e  ha detto: "È un importante passo verso la verità. Stasera sono felice, è finito un incubo"

Bibbiano, la Cassazione "È illegittimo l'arresto del sindaco Pd Carletti". Le motivazioni della Cassazione: "Indizi insufficienti per far scattare la misura cautelare". Angelo Scarano, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. "Il sindaco Andrea Carletti non poteva essere arrestato". Sono queste in sintesi le motivazioni della Cassazione che è stata chiamata a pronunciarsi sulle misure cautelari per il primo cittadino del Pd di Bibbiano. Il sindaco dem era stato sottoposto agli arresti domiciliari e poi all'obbligo di dimora proprio nell'ambito dell'inchiesta sugli affidi dei minori. Le motivazioni della Cassazione sono state riportate dall'ex parlamentare Pierluigi Castagnetti su Twitter e poi sono state confermate, secondo quanto riporta ilCorriere, dal deputato dem di Reggio Emilia, Andrea Rossi: "Mi sono messaggiato con i legali di Carletti che hanno confermato la notizia". Il sindaco di Bibbiano, finito nella bufera per il caso di alcuni affidi di minori, resta indagato per abuso d'ufficio. Ma di fatto la Cassazione ha stabilito che gli indizi non erano sufficienti a far scattare le misure cautelari. In questi mesi il caso degli affidi nel piccolo comune in provincia di Reggio Emilia ha fatto parecchio discutere diventando anche un vero e proprio caso politico. Il tema è entrato anche nella campagna elettorale per le Regionali in Emilia Romagna che si terranno a gennaio: "Per qualcuno non sarà stato un 'sistema', ma nel registro degli indagati sono finite 28 persone, si sono aperti nuovi filoni d'inchiesta, una funzionaria del Comune di Reggio Emilia è stata indagata per depistaggio ed emergono nuovi casi preoccupanti. L'ultimo è la denuncia fatta da due genitori di Bibbiano che non vedono da ormai sette mesi la figlia di tre anni", ha affermato qualche giorno fa la candidata della Lega alla guida della Regione, Lucia Borgonzoni. "La fine delle indagini - ha detto Borgonzoni - che dovrebbe essere imminente, consentirà di far luce, giustizia e chiarezza sui fatti. Minori e famiglie hanno bisogno di tutele, protezione e trasparenza. E noi continueremo la nostra battaglia politica per ottenerle e per arrivare a una riforma del sistema delle decisioni che coinvolgono bambine e bambini". Di certo questa vicenda infiammerà ancora queste ultime sette settimane di sfida elettorale per un voto, quello dell'Emilia Romagna, che si potrebbe rivelare determinante anche per la tenuta dell'esecutivo. E di fatto nel voto peserà anche il modo in cui i cittadini si sono approcciati a questa vicenda su cui ci sono ancora molti aspetti da chiarire.

Bibbiano, «I barbari del web hanno minacciato di morte mio figlio di 5 anni». Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Corriere.it. «Quando rientrerò nel mio ufficio? Per ora non ci penso, bisogna fare un passo alla volta ma ci vogliono calma e gradualità. Per oggi mi accontento delle innumerevoli telefonate di stima, amicizia e solidarietà che sto ricevendo. Attestati che mi fanno dimenticare quelle continue minacce di morte indirizzate a me, a mia moglie e a mio figlio che ha cinque anni». Dopo che la Cassazione martedì sera ha revocato l’obbligo di dimora, Andrea Carletti — 47 anni, laurea in Scienze politiche, dirigente alla provincia di Reggio Emilia,— è tornato un uomo libero. Ed è tornato anche — così prevede la legge Severino che norma la sospensione degli eletti — sindaco di Bibbiano, il comune travolto dall’indagine sul presunto sistema di affidi illeciti di minori scoppiato in Val d’Enza. Carletti — autosospeso dal Pd — era stato accusato di falso e abuso d’ufficio per aver irregolarmente affidato alcuni spazi comunali a un’associazione coinvolta nell’inchiesta. «Ma in poche ore, dopo che la notizia dell’indagine è finita su web, telegiornali e carta stampata sono diventato un orco, un mostro» accusato di «nefandezze indicibili, senza capo né coda, tipo il rapimento dei bimbi, violenze, abusi». Per i «barbari del web» — così li definisce — la sentenza era «stata emessa subito: pubblico linciaggio per tutti gli indagati e in primis per il sindaco del Pd». Carletti parla nell’ufficio a Reggio di Giovanni Tarquini, uno dei due avvocati — l’altro è Vittorio Manes, ordinario di diritto penale a Bologna — che lo assistono. Interrompe lo sfogo per telefonare alla moglie — «tra un po’ torno a casa» — e poi riprende: «Leggevo le carte giudiziarie che raccontavano uno scenario e sui social ne veniva descritto uno diverso, terrificante, vignette sconvolgenti per il loro orrore, frasi irripetibili. Un’inarrestabile macchina del fango alimentata da un mix di falsità, odio, ignoranza, ipocrisia. A un certo momento ho catalogato le offese e le minacce peggiori ricevute online e ho dato mandato ai miei avvocati di denunciare 147 persone». Il volto del sindaco è visibilmente provato, ma sa di essersi lasciato alle «spalle cinque mesi da incubo». Ricorda l’orario esatto in cui i carabinieri di Reggio Emilia hanno suonato al campanello — «6 e 55 del 27 giugno scorso» — per notificargli gli arresti domiciliari, misura poi «alleggerita», a settembre, in quella dell’obbligo di dimora ad Albinea, il comune nel Reggiano dove vive. Resta indagato, «ma le prossime fasi giudiziarie le affronterò a schiena dritta, fiducioso di veder riconosciuta la mia estraneità ai fatti contestati».

Bibbiano, il sindaco Carletti: «Il web voleva il mio linciaggio in nome del popolo». Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Corriere.it. «Abbiamo ricevuto minacce di morte io, mia moglie e mio figlio. Il web chiedeva il mio linciaggio “in nome del popolo”»: Andrea Carletti, il sindaco di Bibbiano tornato completamente libero dopo che la Cassazione ha stabilito che non esistevano i presupposti per arrestarlo parla. Parla per la prima volta dal 27 giugno scorso quando venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulle adozioni denominata «Angeli e demoni» cavalcata per mesi dal centrodestra. «Ho toccato da vicino il significato vero, profondo della parola libertà. Il giorno dopo una delle tante serate trascorse in Comune vieni svegliato, e in poche ore, dalle Alpi alla Sicilia diventi il mostro, l’orco di Bibbiano» ha esordito Carletti, 47 anni, che resta indagato ma per reati di natura amministrativa e non per abusi sui bambini. «La tua pagina Facebook - prosegue ricordando i giorni dopo lo scoppio dell’inchiesta - è sommersa da insulti e minacce di morte rivolte non solo a te ma alla tua famiglia, a tuo figlio. Insulti e minacce di morte che riempiono anche le pagine social di `autorevoli´ figure istituzionali a livello nazionale. Il Procuratore Mescolini il giorno dopo, in occasione della conferenza stampa, chiarisce la mia posizione, ma la verità sembra interessare a pochi. Ormai la macchina del fango è partita: un mix di falsità, odio, ignoranza, ipocrisia con tanti obiettivi ma non sicuramente quello della verità e del bene dei minori. Dopo pochi giorni la sentenza di condanna era già stata emessa: i vili barbari del web chiedevano “in nome del popolo” il pubblico linciaggio degli indagati, sindaco in testa, se poi - ha concluso - il sindaco è del Pd ancora meglio». Il prefetto di Reggio Emilia ha chiarito che Carletti potrà riprendere a svolgere il ruolo di sindaco: «Da domani tornerò al silenzio, affronterò le nuove fasi giudiziarie a schiena dritta -prosegue ancora il primo cittadino di Bibbiano - per il doveroso rispetto verso chi sta svolgendo le indagini, delle famiglie e dei minori coinvolti. Nei prossimi giorni, con la dovuta cautela, con la dovuta gradualità, riprenderò un cammino interrotto il 27 di giugno. Questo lo devo innanzitutto a chi a maggio mi ha rinnovato la mia fiducia. Per ora riassaporare la libertà dopo cinque mesi ha un gusto indescrivibile».

Bibbiano: la Cassazione revoca i domiciliari al sindaco, Renzi:”Su di lui montagna di fango”. Il Riformista il 4 Dicembre 2019. Torna il libertà il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. “Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nonchè l’ordinanza applicativa della misura cautelare attualmente in esecuzione. Per l’effetto, revoca la misura cautelare dell’obbligo di dimora”. Questo il dispositivo emesso ieri sera, al termine della camera di consiglio, dalla sesta sezione penale della Cassazione che ha accolto il ricorso del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti contro la misura cautelare a cui era stato sottoposto per le ipotesi di reato di abuso d’ufficio e falso nell’ambito dell’indagine ‘Angeli e demoni’ su presunte irregolarità negli affidi di minori. I difensori del sindaco avevano impugnato in Cassazione il provvedimento con cui il Riesame di Bologna, il 20 settembre, aveva sostituito gli arresti domiciliari (a cui Carletti era stato sottoposto dal 27 giugno) con l’obbligo di dimora nel Comune di Albinea, nonchè quello con cui il gip di Reggio Emilia aveva detto ‘no’, il 25 settembre, alla revoca delle misure cautelari. Il sostituto pg della Suprema Corte Ciro Angelillis aveva invece sollecitato, nell’udienza a porte chiuse di ieri mattina, il rigetto dei ricorsi. Entro un mese, come prevede la legge, i giudici del ‘Palazzaccio’ depositeranno le motivazioni della loro sentenza. A distanza di sei mesi dall’obbligo di dimora è tornato libero. In attesa delle motivazioni, la Cassazione avrebbe deciso per la revoca sentenziando che non sussistevano le condizioni per l’arresto. Il sindaco non era direttamente coinvolto nelle vicende degli affidi illegittimi dei bambini da parte dei servizi sociali dell’Unione dei comuni della Val d’Enza, ma risulta indagato d’abuso d’ufficio e falso per aver affidato degli spazi pubblici all’associazione “Hansel e Gretel”, che si occupava della psicoterapia dei bambini. Carletti alla lettura della sentenza è parso commosso, a chi ha avuto modo di parlargli è sembrato soddisfatto e ha detto: “È un importante passo verso la verità. Stasera sono felice, è finito un incubo”. “Vi ricordate la storia di Bibbiano? L’attacco violento di Lega e Cinque Stelle al sindaco? Le pagliacciate in Parlamento e sui social con lo slogan ‘Parlateci di Bibbiano?’. Bene. Ieri la Cassazione ha detto che quel sindaco NON doveva essere arrestato. Una montagna di fango vergognosa contro un uomo che non meritava quel trattamento – ha scritto su Facebook Matteo Renzi –  Ricorderete come l’arresto venne usato: il grimaldello per costruire la battaglia politica di chi ha più a cuore i sondaggi che la verità. La giustizia è una cosa seria. Lasciarla in mano ai giustizialisti rende questo Paese un posto barbaro. In attesa che qualcuno chieda scusa, un abbraccio a quel Sindaco. Non smetteremo mai di chiedere giustizia e verità contro il populismo e gli slogan. No, non smetteremo MAI”.

Primi mea culpa M5s su Bibbiano. Gabriella Cerami su huffingtonpost.it il 04/12/2019. "Di Maio ha sbagliato", dice il pentastellato Carabetta. E anche altri parlamentari accusano il capo politico. Lui tace. C’è un video che torna indietro come un boomerang, che fa molto male al Movimento 5 Stelle e a Luigi Di Maio che lo ha girato. “Linea comunicativa totalmente sbagliata”, lo accusa il deputato Luca Carabetta. Ma ricostruiamo i fatti. A fine luglio il capo politico M5s, per smentire le voci di una futura alleanza con il Pd, disse in diretta Facebook che quello dei dem era il “Partito di Bibbiano” e che mai, dunque, avrebbe fatto nascere un governo con loro. Cavalcò l’inchiesta sugli affidi illeciti approfittando del fatto che il sindaco dem del piccolo comune di Reggio Emilia, Andrea Carletti, era stato accusato di abuso di ufficio e falso. Al di là del fatto che esattamente un mese dopo è nato l’esecutivo giallorosso, ora il primo cittadino di Bibbiano non ha più l’obbligo di dimora e può riprendere il suo mandato. Così le parole utilizzate nel famoso video si ritorcono contro l’ex vicepremier e il suo partito non gli perdona quell’uscita quanto mai affrettata: “Non ho mai scritto un post su Bibbiano o sul Pd perché non ho mai condiviso la linea comunicativa di Di Maio. Ha sbagliato”, dice il deputato grillino Luca Carabetta. I parlamentari 5Stelle sono piombati nell’imbarazzo generale. Sotto accusa finisce ancora una volta il capo politico. “Partiamo in quinta senza conoscere le carte, senza sapere. Come sempre. Se andate sulla mia bacheca Facebook non trovate post su Bibbiano per questa ragione”, dice un altro deputato al primo mandato. Di Maio approfittò dell’inchiesta sugli affidi dei bambini per colpire il partito di Nicola Zingaretti e per seguire la linea di Matteo Salvini, allora suo alleato di governo. Anche la Lega andò con toni pesanti contro il Pd. Basti pensare che l’attuale candidata governatrice dell’Emilia Romagna Lucia Borgonzoni in Aula alla Camera si presentò con una maglietta con su scritto: “Parliamo di Bibbiano”. Il mea culpa da parte di Di Maio ancora non è arrivato. E neanche da Salvini che non torna indietro: “Bibbiano? Le uniche scuse devono farle coloro che senza motivo hanno portato via i bambini alle loro famiglie e coloro che hanno coperto questo indegno sistema”. Ma i parlamentari 5Stelle invece sono molto critici: “La comunicazione esce sparata senza aspettare un minuto”, dice chi ha tenuto sempre un profilo basso e ora fa notare: “Ci siamo coperti di ridicolo. Prima e adesso”. E infatti adesso Matteo Renzi lo fa notare: “Vi ricordate la storia di Bibbiano? L’attacco violento di Lega e Cinque Stelle al sindaco? Le pagliacciate in Parlamento e sui social con lo slogan ‘Parlateci di Bibbiano?’. Ricorderete come l’arresto venne usato: il grimaldello per costruire la battaglia politica. In attesa che qualcuno chieda scusa, un abbraccio a quel Sindaco”. Nicola Zingaretti invece non cita il Movimento 5 Stelle ma in maniera molto chiara dice: “A chi ha utilizzato una storia di cronaca giudiziaria per organizzarci una campagna politica dico nuovamente: vergognatevi!”. La campagna politica è quella in Emilia Romagna, che a gennaio andrà al voto. Tra i 5Stelle c’è anche chi oggi dice: “Forse dovremmo chiedere scusa”.

Borgonzoni e la t-shirt su Bibbiano: «Non mi scuso» Il sindaco: su di me macchina del fango. Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 su Corriere.it da F. Caccia, A. Fulloni. La senatrice della Lega, a meno di due mesi dalle elezioni, attacca di nuovo il Pd: «Chi ha sbagliato deve pagare». «Io non cambio idea. Chi ha sbagliato deve pagare». La senatrice della Lega, Lucia Borgonzoni, non chiede scusa. Anzi rilancia. «Tra un festeggiamento e l’altro il Pd si ricordi dell’orrore dei bambini sottratti alle loro famiglie senza una ragione, delle sofferenze e delle ingiustizie», così contrattacca la candidata alla presidenza della Regione Emilia Romagna, a meno di due mesi dalle elezioni. E a chi sulla sua pagina Facebook la provoca («Parliamo adesso di Bibbiano, dai!») ricordandole la maglietta esibita a Palazzo Madama tre mesi fa - quella appunto diventata presto virale, «Parliamo Di Bibbiano», con le lettere «P» e «D» scritte in rosso in riferimento polemico al partito del sindaco Carletti - lei replica dando del tu all’interlocutore: «Se ne parlerà a processo, ti sei accorto vero che ci sarà un processo...?». Il sindaco Carletti, finito quest’estate al centro dell’inchiesta-scandalo «Angeli e Demoni» sul sistema di affidi nel Comune in provincia di Reggio Emilia, dopo il pronunciamento della Cassazione è tornato un uomo libero. «Leggere gli articoli e non solo i titoli farebbe comunque bene», insiste però la Borgonzoni su Facebook. Secondo lei, il provvedimento a favore del sindaco di Bibbiano non sposta d’un millimetro il problema: «Per qualcuno non sarà stato un “sistema” - ha anche scritto nei giorni scorsi - ma nel registro degli indagati sono finite 28 persone, si sono aperti nuovi filoni d’inchiesta, una funzionaria del Comune di Reggio Emilia è stata indagata per depistaggio ed emergono nuovi casi preoccupanti. L’ultimo è la denuncia fatta da due genitori di Bibbiano che non vedono da ormai sette mesi la figlia di tre anni. La fine delle indagini, che dovrebbe essere imminente, consentirà di far luce, giustizia e chiarezza sui fatti. Minori e famiglie hanno bisogno di tutele e protezione. E noi continueremo la nostra battaglia politica per ottenerle».

Zingaretti straparla su Bibbiano. Bonafede, esiste la querela a Di Maio? Francesco Storace giovedì 5 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. A Zingaretti dà fastidio se si parla di Bibbiano. E quindi preferisce straparlarne. Quando lo fa, sbraca, deraglia, sbatte. Da ieri il segretario del Pd rischia testate sui lampioni perché sembra ubriaco. Appena ha saputo che il sindaco di Bibbiano può affrontare il processo da imputato a piede libero, ha cominciato a bere. Vodka a volontà, compagni. Come se qualche giudice avesse mandato al macero un’inchiesta contro una banda di delinquenti che sottraevano i figli alle loro famiglie. Che ha da festeggiare Zingaretti? Il sindaco Carletti non è stato prosciolto dalle accuse: aveva addosso quelle di falso e abuso d’ufficio e di quelle dovrà rispondere. Il sistema Bibbiano non si chiama Carletti, ma un’ideologia rossa che punta a sterminare l’istituto familiare. Al punto che Zingaretti commette un clamoroso autogol quando pretende di mettere all’indice chi si batte per accertare  quanto accaduto. Ce l’ha con Laura Pasini, che si disse schifata per quanto appreso? Con Giorgia Meloni, che è invece fiera della denuncia che si è beccata per questa battaglia sacrosanta di verità? Oppure con Luigi Di Maio. Il suo delizioso partner di governo fu il più duro di tutti con il Pd quando esplose lo scandalo degli affidi: mai con il partito di Bibbiano, disse il capo pentastellato beccandosi la querela di Zingaretti. O meglio: l’annuncio della querela, perché non si sa che fine abbia fatto. Perché risulta difficile fare contemporaneamente l’indignato e poi governare assieme. Zingaretti, prima di parlare di Carletti, sarebbe molto più credibile – e gliene daremmo atto – se rendesse pubblici la querela, il testo, la ricevuta di effettiva presentazione in tribunale. Se non ricorda, Zingaretti può rivolgersi al guardasigilli Bonafede, che non mancherà di sguinzagliare i suoi ispettori a caccia della querela annunciata. Magari il ministro può anche essere sollecitato in proposito da qualche parlamentare curioso.

Zingaretti si rassegni: Bibbiano non è un’invenzione. Il segretario del Pd si deve rassegnare: la vicenda di Bibbiano è vergognosa e non la si può più nascondere con le falsità, con le accuse sulla propaganda altrui. Perché è per gli inquirenti che c’è stato un intreccio pauroso tra soggetti istituzionali e non sulla pelle delle creature rubate all’amore dei loro famigliari. E questo dovrebbe fare accapponare la pelle anche a lui. Invece preferisce – dice di preferire – le querele, magari selettive. Se stai con me tollero le tue parole. Se stai contro di me ti scateno giudici e avvocati. Anche questo attiene ad una politica sbagliata, urlata, odiosa. Abbia coraggio, Zingaretti. Chi è che sbaglia su Bibbiano? I magistrati? I giornali? Le destre? E persino la Pausini? Vuole querelare il mondo, il segretario del Pd, ma non dice se lo ha fatto nei confronti del suo maggiore alleato. E neppure che cosa pensa sia accaduto da quelle parti. Se pensa che a palazzo di Giustizia abbiano sbagliato, ha un solo modo per riscattare l’onore; firmi una norma sulla responsabilità civile dei giudici e la sbatta in faccia a chi accusa il suo sindaco. Ma faccia attenzione ai tempi, proprio perché non è stato ancora prosciolto. L’assoluzione d’ufficio non è stata ancora introdotta nel codice e certo sarebbe difficilmente prevederla come potere del segretario del Pd.  I bambini tolti con l’inganno alle famiglie non sono una congiura delle forze oscure della reazione in agguato.

Caso Bibbiano, i demoni non erano demoni. Angela Azzaro su Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Per i giornali era il mostro, il ladro di bambini. Per la Lega e Fratelli d’Italia era il cavallo di Troia attraverso cui far cadere il buon governo Pd in Emilia Romagna. Dall’altro ieri il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, può tornare a fare il sindaco, dopo la decisione della Cassazione di revocare l’obbligo di dimora. «Pur dovendo attendere le motivazioni della decisione – è il commento dei suoi legali Giovanni Tarquini e Vittorio Manes – sembra desumersi che la Corte abbia ritenuto che le condotte, contestate a Carletti, non giustificano alcuna misura cautelare». Chissà che diranno quei pm che a fine giugno hanno invece deciso di mettere le manette al primo cittadino a uso e consumo dei media. L’accusa nei suoi confronti è abuso di ufficio e falso per l’affidamento di locali per la cura di minori, ma la decisione dell’arresto era stata così forte e mediaticamente strumentalizzata che per l’opinione pubblica il sindaco, a cui già da settembre erano stati revocati gli arresti domiciliari, era diventato una sorta di appestato, uno che rubava i bambini alle famiglie. Ora la rabbia è tanta da parte di chi ha subito il linciaggio, anche indirettamente. «Chi chiederà scusa a Carletti e alle persone messe alla gogna ingiustamente?» ha chiesto polemico il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. «La Cassazione – è stato il commento del leader di Italia Viva, Matteo Renzi – ha detto che quel sindaco non doveva essere arrestato. Una montagna di fango vergognosa contro un uomo che non meritava quel trattamento». Il caso di Bibbiano andrebbe studiato nelle scuole di giornalismo e di sociologia per capire quel meccanismo che coinvolge procure, giornali e psicosi collettiva. È quel circolo vizioso che a partire da un’inchiesta trasforma gli indagati in colpevoli, i colpevoli in mostri, i giornalisti in seguaci non dei fatti ma di una presunta Verità intesa come dogma. Quello che è successo in Emilia Romagna è da manuale. Fin dalla prima battuta. La procura invece di avere un basso profilo, considerato che sono coinvolti alcuni bambini e le loro nuove e vecchie famiglie, decide di chiamare l’inchiesta “Angeli e demoni”. Con un nome così come è possibile pensare che l’opinione pubblica possa farsi una idea serena? Come ci si può fare un quadro oggettivo, quando l’informazione fa di tutto per allarmare, cambiare i numeri, amplificare, gettare fango? A leggere alcune testate o a sentire alcuni programmi tv (anche del servizio pubblico) il caso Bibbiano coinvolge centinaia di bambini. Numeri sballati che non hanno nulla a che vedere con l’inchiesta. I bambini coinvolti sono nove, sette dei quali sono già tornati alla loro famiglia di origine. Il sospetto è che si volesse colpire il sistema di welfare della Val d’Enza e con questo gli assistenti sociali e gli psicologi coinvolti. In tutto ci sono 28 indagati, compreso il sindaco Carletti e dovranno rispondere, a vario titolo, di 102 capi di imputazione. Diversi di loro, più o meno famosi, in attesa della chiusura delle indagini prevista per metà dicembre, stanno facendo partire più di una querela o stanno ottenendo le prime sentenze a favore. È quello che è accaduto a Claudio Foti. La sua foto è diventata l’emblema dell’inchiesta: immagini scelte appositamente per farlo apparire crudele, per attirare su di lui l’odio delle persone. Nei suoi confronti pesano due capi di imputazione. Il primo, quello di frode processuale, è di fatto già caduto: il tribunale della Libertà ha infatti tolto i domiciliari con la motivazione che non esistono gravi indizi di colpevolezza. Resta il concorso esterno in abuso d’ufficio. Il suo avvocato Girolamo Andrea Coffari è pronto a dare battaglia. «Presenterò – ci spiega – un articolato al pm da cui si evincerà come Foti non ha fatto assolutamente nulla. Non ho alcun dubbio. Si tratta di un clamoroso errore e lo dimostrerò. Ci metto la faccia che verrà assolto. Abbiamo assistito – chiude – a una gogna mediatica indecente». Già. I fatti, le prove, un giusto processo. Coffari è convinto che il sistema mediatico non condizionerà i giudici. Purtroppo questo non sempre è vero. Negli ultimi anni si è sviluppato un fenomeno chiamato giustizia difensiva, cioè una giustizia che tende ad assecondare l’opinione pubblica per timore delle critiche che purtroppo a volte diventano anche minacce nei confronti di quei giudici che invece di rispondere alla pancia, si basano sullo Stato di diritto. «Leggeremo il testo della Cassazione – ha scritto il deputato Pd Stefano Ceccanti – ma sin da ora parliamo davvero di Bibbiano, della carcerazione preventiva, delle accuse spacciate per condanne, del circuito mediatico-giudiziario, del giusto processo, della presunzione di innocenza». Ha ragione Ceccanti, non c’è tempo da perdere. Con Bibbiano si è andati oltre, si è costruito un mostro sulla pelle dei minori, di chi è più fragile e dovrebbe essere ancora più tutelato. Fermiamoci prima che sia troppo tardi.

Ps: Oggi sui giornali leggeremo le parole di Zingaretti, di Renzi e di altri che chiedono le scuse per i fatti di Bibbiano, ma i primi a dover chiedere scusa sono quegli stessi giornali su cui leggiamo la notizia e che fanno finta di nulla.

Bibbiano, nessuna assoluzione cancella la gogna social. Claudio Rizza il 5 Dicembre 2019 su Il Dubbio. L’indignazione resta identica, Bibbiano è uno scandalo, poveri bambini. E nessuno dirà mai: ci siamo sbagliati. Due cavalli di battaglia della campagna leghista (e anche cinquestelle) anti immigrati e anti Pd si sono clamorosamente afflosciati in questi ultimi giorni e mesi. Si tratta dei casi politici di Bibbiano e di Riace. Il primo, ricorderete, è quello dello scandalo dei “bimbi strappati ai genitori” in Emilia Romagna, con la complicità dei tribunali dei minori, di assistenti sociali e del sindaco Carletti, che li avrebbe favoriti. Ha sollevato un’indignazione senza confini e pronunciato sentenze senza appello, prima di ogni accertamento di verità. Le indagini del Tribunale dei minori e della Commissione regionale, corroborati da cifre e statistiche, hanno invece appurato che non c’era scandalo, che i casi sospetti erano sei su cento, che non c’erano state sevizie, insomma che «Angeli e Demoni» era una sorta di fiction. Una campagna mediatica pompata da politici sia sui social che in Parlamento: parlateci di Bibbiano. Il tam tam orchestrato dai siti web teleguidati ha fatto sì che fake news diventassero verità. Succede ormai dappertutto e da anni. Il sindaco è stato arrestato, spedito ai domiciliari e finalmente liberato dalla Cassazione: non c’erano motivi per privarlo della libertà. L’altro sindaco, quello di Riace, Mimmo Lucano, fu preso di petto dal ministro dell’Interno, Salvini nel 2018: «Con me l’immigrazione di massa non sarà più un affare, la pacchia è finita». Arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, Mimmo Lucano è stato allontanato con un «divieto di dimora». Un sindaco leghista ha poi preso il suo posto. Ma era ineleggibile ed è stato dichiarato decaduto. La Cassazione e il gip hanno smontato le accuse a Lucano: «Non ha compiuto alcuna irregolarità nell’assegnazione degli appalti né ci sono elementi per dire che abbia favorito presunti matrimoni di comodo». Cosa resta di questi due casi divenuti emblema di durissime battaglie politiche? Purtroppo tutto. Perché il gioco al massacro è proprio questo: quando i tribunali ristabiliscono la verità, ti assolvono, ti riabilitano, il danno resta intatto e non è più risarcibile. Gli accusatori senza prove non possono essere puniti, intanto i voti li hanno presi, i social e il web continuano imperterriti a riproporre presunti e fasulli illeciti come verità accertate, sulle “colpe” dei sindaci ci sono tonnellate di articoli, sulla loro innocenza qualche riga delle sentenze. L’indignazione resta identica, Bibbiano è uno scandalo, poveri bambini. E nessuno dirà mai: ci siamo sbagliati.

Santificano il sindaco ma gli abusi di Bibbiano restano sotto inchiesta. Carletti scarcerato, non assolto. Celebrato come eroe, nessuno però spiega il caos affidi. Fabrizio Boschi, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. Prima di scaldarsi tanto i dem dovrebbero riflettere su un fatto: il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, al quale la Cassazione ha revocato l'obbligo di dimora nell'ambito dello scandalo «Angeli e Demoni» sul presunto sistema di affidi illeciti di minori scoppiato in Val d'Enza (Reggio Emilia), nel giugno scorso, è, e resta, indagato per abuso d'ufficio e falso per l'affidamento di locali per la cura di minori. Nulla è cambiato da questo punto di vista e, infatti, lo attende il processo (per la metà di dicembre è prevista la chiusura delle indagini preliminari) assieme agli altri 28 indagati nell'inchiesta condotta dalla Procura di Reggio Emilia tra cui anche una funzionaria del Comune di Reggio Emilia. Che sia innocente o meno lo stabiliranno i giudici. Non quelli del Pd o Matteo Renzi. Eppure a sentire i dem sembra che Carletti sia il nuovo martire. Minacce e insulti sessisti sono piovuti sulla pagina Facebook, e nei messaggi privati, della candidata del centrodestra alla presidenza dell'Emilia-Romagna, Lucia Borgonzoni, per la t-shirt che indossò in Senato con su scritto «Parlateci di Bibbiano», con le lettere P e D scritte in rosso in riferimento polemico al partito del sindaco Carletti. Lei replica dando del tu all'interlocutore: «Non mi faccio intimidire, ma vado avanti. Ecco l'effetto del clima d'odio seminato da qualche democratico che forse si è dimenticato che il sindaco Carletti, resta indagato. Se ne parlerà a processo, ti sei accorto vero che ci sarà un processo? Io non cambio idea. Chi ha sbagliato deve pagare. Tra un festeggiamento e l'altro il Pd si ricordi dell'orrore dei bambini sottratti alle loro famiglie senza una ragione». I dem si affrettano, invece, a pretendere le scuse per il sindaco ma non c'è nulla da scusare in verità perché l'indagine è ancora in corso. Pure il deputato dem Matteo Orfini si rifà vivo su Twitter: «Molti si dovrebbero vergognare per aver speculato su Bibbiano. Tanti dovrebbero chiedere scusa. Ma ce ne è uno che più di chiunque altro avrebbe il dovere di farlo: l'attuale ministro degli Esteri», prendendosela con Luigi Di Maio per i duri attacchi mossi al Pd. E per tutta risposta il M5s sarebbe pronto a sgambettare gli alleati di governo con la possibile candidatura alle regionali di Natascia Cersosimo, la consigliera di Cavriago (Re) che per prima scoprì il caso dei bimbi di Bibbiano. La leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ribadisce la propria posizione: «Credo che nessuno debba chiedere scusa, intanto perché la revoca dell'obbligo di dimora a Carletti non vuol dire che non ci sia un procedimento nei confronti del sindaco. In secondo luogo, se queste persone sono colpevoli o innocenti questo lo stabilirà la magistratura. La cosa che a me sfugge è questo accanimento del Pd sulla vicenda di Bibbiano. È stato il Pd che ha acceso i riflettori su un suo interesse facendo una difesa senza precedenti dei suoi rappresentanti coinvolti nella vicenda, io nel dubbio questa difesa ad un mio sindaco non l'avrei fatta». Ma Carletti fa comunque l'offeso: «È stata una sofferenza incredibile. Sono stato trattato cinque mesi da orco, linciato dai barbari del web e da autorevoli figure istituzionali a livello nazionale. Un incubo per me e la mia famiglia insultati e minacciati di morte. Odio, ignoranza, ipocrisia: nessuno voleva vedere la verità, se poi il sindaco è del Pd ancora meglio».

Quanta confusione sotto il cielo di Bibbiano. Dal sindaco Carletti, che per errore molti dicono “assolto” ai dubbi sulle richieste di allontanamento ricevute a Bologna: il presidente, Spadaro, nega siano state 100. Ma l’Associazione dei giudici minorili dice il contrario. Maurizio Tortorella il 6 dicembre 2019 su Panorama. Ma quanta confusione riescono a fare, giornali e social media, sullo scandalo Bibbiano? Fanno confusione sulla sorte giudiziaria del sindaco del paesino emiliano, Andrea Carletti, indagato per abuso d’ufficio e falso ideologico, uno degli inquisiti che lo scorso 27 giugno era stato confinato agli arresti domiciliari, e che ora la Cassazione ha liberato dalla misura cautelare dell’obbligo di dimora. Fanno confusione perché, contrariamente a quanto su Carletti hanno scritto alcuni quotidiani (scatenando sui social media una ridda di precoci festeggiamenti nella parte politica del sindaco) la recente decisione della Cassazione non è affatto un’assoluzione definitiva. A dirla tutta, non è nemmeno un’assoluzione. In realtà il sindaco Carletti, così come gli altri 27 indagati nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia, resta pienamente coinvolto nel procedimento sui presunti dieci affidi illegittimi di bambini: per lui come per gli altri indagati il pubblico ministero Valentina Salvi prima o poi chiederà il rinvio a giudizio e solo allora, finalmente, comincerà il processo penale vero e proprio. Poi arriveranno le sentenze e solo allora, finalmente si vedrà se le accuse reggeranno o meno alla prova dei fatti. E se ci sarà da festeggiare. Va detto, però, che a Bibbiano la confusione è davvero tanta e non riguarda soltanto il sindaco: c’è ben altro, che ancora non torna. Affogato nei dubbi resta un dato fondamentale, cioè quello relativo alle richieste di allontanamento di bambini e adolescenti da parte dei Servizi sociali della Val d’Enza, il Consorzio di Comuni di cui Bibbiano è parte e che è finito al centro dell’inchiesta reggiana. C’è una statistica, di cui s’è molto discusso negli ultimi mesi, che scaturisce da un complesso lavoro di verifica annunciato ai primi di luglio da Giuseppe Spadaro, il presidente del Tribunale dei minori di Bologna che ha competenza su tutta la Regione. Pochi giorni dopo lo scoppio dello scandalo di Bibbiano, Spadaro aveva dichiarato di avere deciso di ricontrollare “una settantina di altri allontanamenti” di bambini della Val d’Enza, decisi dal suo Tribunale tra 2018 e 2019. L’iniziativa era stata presentata dai mass media come uno scrupolo meritorio e s’era poi conclusa verso la metà di ottobre. Secondo quanto avevano riportato tutti gli organi di stampa, in una riunione svolta attorno al 12 di quello stesso mese Spadaro aveva rivelato una statistica importante, evidente frutto del lavoro di approfondimento avviato in luglio. Sia pure con sfumature diverse, tutti i giornali avevano attribuito a Spadaro alcuni numeri davvero sorprendenti: su un centinaio di segnalazioni in cui i servizi di Bibbiano-Val d’Enza avevano prospettato l’allontanamento dalle famiglie, in 85 casi il Tribunale aveva deciso all’opposto e aveva lasciato i bambini all’interno delle famiglie. Le cronache avevano sottolineato che il presidente Spadaro avesse dichiarato che quel rapporto di 15 contro 85 era “il segno di un sistema giudiziario che ha fatto il suo dovere e ha dimostrato di essere sano”. Spadaro aveva anche dichiarato o lasciato intendere che “il sistema Bibbiano non esiste”. Quei dati e quelle parole, però, erano state fatte oggetto di critiche. Da più parti si erano manifestate perplessità sul “lavoro di scavo” deciso da Spadaro: perché i giudici minorili di Bologna avevano sentito la necessità di una verifica suppletiva? E perché il supplemento d’indagine era avvenuto solo dopo l’emersione dell’inchiesta penale sui presunti affidi illeciti? Insomma, come erano stati decisi quegli allontanamenti? Erano stati condotti con tutte le verifiche del caso e come frutto del corretto contraddittorio fra le parti, o ci si era semplicemente affidati alle relazioni dei Servizi sociali? Un’eco di quei dubbi è emersa anche nei lavori della Commissione d’inchiesta della Regione Emilia-Romagna. Varata un mese dopo lo scoppio dell’inchiesta sui bambini di Bibbiano, la Commissione regionale s’è data il compito d’indagare nel sistema regionale degli affidi minorili. Per questo ha ascoltato assistenti sociali, avvocati, psicologi ed esperti. A manifestare perplessità, in particolare, era stato Camillo Valgimigli, docente di neuropsichiatria infantile all’Università di Modena e Reggio, e dal 1995 al 2003 giudice onorario minorile d’appello proprio a Bologna. Da tempo il professor Valgimigli è critico sul sistema degli affidi, e alla fine dello scorso ottobre ha depositato agli atti della Commissione d’inchiesta una relazione dettagliata in cui ha sottolineato che, “se è vero quanto afferma il presidente Spadaro, i Servizi sociali di Bibbiano in meno di due anni avrebbero proposto al Tribunale dei minori altri 85 allontanamenti ingiustificati, evidentemente spinti da una visione distorta, che ovunque sospetta abusi e maltrattamenti”. Valgimigli ha allargato l’orizzonte del dubbio: “Se i numeri non ci ingannano” ha scritto nella relazione “e se la logica è logica, 10 di quei 15 allontanamenti decisi dal Tribunale minorile di Bologna sono poi stati comunque definiti ‘illeciti’ dalla Procura di Reggio Emilia. Quindi la proporzione finale tra richieste di allontanamento e allontanamenti motivati sarebbe ancora inferiore”. Insomma: per Valgimigli la tesi dell’esistenza di un “sistema Bibbiano” avrebbe trovato una conferma proprio nei numeri esposti da Spadaro. Alla fine di ottobre la Commissione regionale sembrava dovesse chiudere i suoi lavori senza ascoltare il presidente del Tribunale minorile. Poi all’improvviso, il 14 novembre, la Commissione ha “audito” per molte ore il presidente del Tribunale (e forse proprio la relazione del professor Valgimigli non è estranea alla decisione). È stato un intervento autorevole e importante, quello del presidente del Tribunale, anche perché – come lo stesso Spadaro ha sottolineato più volte – il poter parlare “in una sede istituzionale” gli permetteva finalmente di “sgomberare il campo da valutazioni errate ed equivoci”. Il problema è che, proprio sulla fondamentale statistica degli allontanamenti, Spadaro ha offerto alla Commissione una spiegazione che purtroppo ha lasciato irrisolti tutti i dubbi. Anzi, rischia forse di accrescerli. Verso la fine della sua audizione, infatti, il presidente del Tribunale dei minori di Bologna ha risposto a una domanda del consigliere Andrea Galli, di Forza Italia, che gli ha chiesto lumi sul fondamentale tema di quelle 100 “richieste di allontanamenti” in 85 casi respinte dal Tribunale dei minori: “Se le cose stanno così” ha obiettato Galli “questo vuol dire che i Servizi sociali della Val d’Enza hanno un tasso di errore dell’85%”. L’implicita domanda di Galli: come era stato possibile che i giudici minorili non avessero reagito a “un tasso di fallimento di tale portata”? Spadaro ha risposto negando l’assunto di partenza: “C’è un equivoco” ha dichiarato il magistrato “perché è passato un messaggio fuorviante. Le cose non stanno così. Se davvero l’85% delle segnalazioni dei Servizi sociali che io ho analizzato mi avessero chiesto di allontanare i bambini (dalle loro famiglie, ndr), io stesso sarei andato alla Procura della Repubblica e avrei detto: guardate che ci sono altri casi da analizzare”. Spadaro ha quindi specificato che i Servizi sociali della Val d’Enza non avevano affatto proposto al Tribunale “100 richieste di allontanamento”, ma che si erano limitati a fornire “segnalazioni di potenziale pregiudizio”, relazioni molto meno preoccupanti. “Insomma” ha spiegato Spadaro “in quell’85% di casi non era stato chiesto l’allontanamento, altrimenti sarebbe stato un dato estremamente allarmante. Questo lo devo dire per amore di verità. In 15 casi, invece, le segnalazioni erano così gravi da aver comportato un allontanamento, prima temporaneo e poi definitivo”. Ora, è possibile che alla metà di ottobre i giornalisti avessero collettivamente capito male i dati di Spadaro, trasformando per errore le segnalazioni di potenziale pregiudizio in richieste di allontanamento. Noi giornalisti, si sa, sbagliamo spesso, come peraltro dimostra il diffuso equivoco sulla presunta “assoluzione in Cassazione” del sindaco Carletti. Il problema è che dei dati attribuiti alla metà di ottobre al presidente Spadaro non hanno scritto soltanto i giornali, ma resta un ben più autorevole riscontro ufficiale. A fornirlo è un comunicato dell'Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (Aimmf), di cui proprio Spadaro è vicepresidente. L’11 e 12 ottobre, l’Aimmf ha tenuto a Lecce un congresso su “Il Giudice delle relazioni tra disagio, devianza e nuove fragilità”. E nel comunicato finale del convegno, vergato a puntuale difesa del Tribunale dei minori di Bologna, si legge testualmente: “A seguito delle recenti e puntuali precisazioni fornite dal presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna, dopo una scrupolosa verifica interna e una riunione con i responsabili dei servizi sociali e con la nuova dirigente della Val d’Enza, è stato accertato che in 85 procedimenti su 100, avviati su richiesta della Procura minorile, era stata respinta la proposta di allontanamento dei minori dalla famiglia d’origine e il collocamento presso terzi suggerito dai detti servizi". Il comunicato dell’Aimmf prosegue: “Risulta smentita l’esistenza di un ‘sistema emiliano’ fondato su una gestione di assoluto potere da parte dei servizi sociali in assenza di un approccio critico e valutativo degli altri operatori istituzionali". Alla luce di queste due opposte versioni dei fatti, la questione delle 100 relazioni dei servizi sociali resta del tutto irrisolta: chi ha ragione? Il presidente Spadaro, che nega autorevolmente di aver ricevuto 100 richieste di allontanamento dai suoi assistenti sociali, o l’Associazione dei magistrati (di cui Spadaro è vicepresidente), che invece parla chiaramente di 100 “proposte di allontanamento e collocamento presso terzi”? Qualcuno farà chiarezza? Perché sotto il cielo di Bibbiano c’è davvero troppa confusione…

Il sindaco Pd e il sistema Bibbiano: ora spuntano le intercettazioni. Nelle carte della procura di Reggio Emilia tra le storie dei bambini di Bibbiano spuntano le intercettazioni tra il sindaco e gli altri indagati. Costanza Tosi, Sabato 07/12/2019, su Il Giornale. Adesso tutti parlano di Bibbiano. Nel vortice di chiacchiere e discussioni opinabili, nel bel mezzo degli editoriali che, in barba alla legge, già sentenziano sull’esistenza o meno del sistema di affidi illecito denunciato dalla procura di Reggio Emilia c'è un particolare che sfugge ed è forse l’unico che bisognerebbe sottolineare. Cosa c'è davvero nell'ordinanza? Nelle carte le intercettazioni captate dai carabinieri smentiscono, parola dopo parola, la difesa del sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. Tra i racconti dettagliati delle indagini la valutazione del gip del Tribunale di Reggio Emilia Luca Ramponi. "Non è vero che l'indagato non sapesse nulla, piuttosto sapeva e coprì politicamente l'iniziativa amministrativa illegittima, compartecipando nella agevolazione fattiva della stessa anche a fronte di specifiche richieste di altri componenti dell' organo di indirizzo politico". Si legge. Ramponi accusa senza mezzi termini l’indagato di esser stato non solo complice di tutto, ma in maniera del tutto lucida e consapevole. E per gli scettici diventa più facile da credere se si vanno a rileggere le telefonate tra Carletti e alcuni degli indagati, tra cui Federica Anghinolfi. La responsabile del Servizio Sociale dell'Unione Val d'Enza finita al centro degli scandali sui bambini di Bibbiano. Ma partiamo dalla storia. I protagonisti dell’inchiesta “Angeli e Demoni” stavano lavorando all’apertura di una comunità per minori. Un'operazione in grande. La casa avrebbe accolto bambini provenienti da tutto il nord Italia e non solo minori del reggiano. Di questo progetto Anghinolfi, Carletti, ma anche Foti e altri parlarono a lungo. In una telefonata con con Marcello Cassini, legale rappresentante della società cooperativa “Si può fare”, la capa dei servizi della Val d'Enza racconta di essersi mossa per trovare una sede che potesse ospitare il centro. "Loro hanno cercato sta benedetta casa su a Bibbiano e ne avevano trovata una in affitto, ma per come è articolata non si riesce a suddividere", dice l'assistente sociale. A questo punto l’interlocutore tira in mezzo il sindaco. Come riportano i carabinieri, "Marcello dice di aver già avvisato Carletti di questa cosa, in quanto quest'ultimo gli aveva detto di conoscere una grande casa in cui i proprietari volevano fare un caseificio". Carletti avrebbe, dunque, contribuito alla ricerca del centro inconsapevole di cosa stesse andando a fare? Senza sapere di cosa si trattasse veramente? Ignaro di come queste persone stessero lavorando con i minori? Ma andiamo avanti. Per il progetto era tutto pronto. Persino il nome era già stato deciso. “Rompere il silenzio”. Secondo la procura a spingere per creare il centro nelle sue zone era proprio Carletti. Le cure secondo il sindaco dovevano essere, ovviamente, affidate alla onlus di Claudio Foti. Per il sindaco i metodi dello psichiatra Torinese erano eccellenti. Come dimostra una telefonata registrata tra la Anghinolfi e Carletti. Dopo il convegno Rinascere dal trauma: il progetto La Cura i due si sentono per scambiarsi opinioni su come fosse andato l’incontro volto a celebrare il sistema Bibbiano. Federica Anghinolfi: "Secondo me è arrivato un messaggio molto chiaro, anche di natura scientifica". Carletti d’appoggio: "Io l'ho ribadito apposta in fondo...". Carletti era persino intervenuto per sottolineare il messaggio di natura scientifica senza essere al corrente di come funzionasse tutto il sistema? Ciò che è certo è che il sindaco era molto legato alla Anghinolfi e agli altri. Li conosceva. Aveva un rapporto stretto tanto da scambiarsi consigli, pareri e perplessità. Secondo il gip "il suo ruolo di copertura si è anche estrinsecato facendo valere espressamente la propria competenza e il proprio peso politico per superare le perplessità di altri componenti della giunta dell' Unione proprio con riguardo alle modalità di affidamento del servizio di psicoterapia e della sua retribuzione di fatto". Tra le tante, un’altra telefonata è utile a chiudere le fila del discorso e rendere più chiara la posizione del sindaco santificato dopo aver ottenuto la revoca dell’obbligo di dimora. A parlare sono Claudio Foti e Francesco Monopoli uno degli assistenti sociali che collaboravano con Federica Anghinolfi. Questa volta si parla di cifre. Il nuovo centro di accoglienza per minori doveva fissare un costo per i bambini che venivano accolti. A tal proposito Monopoli racconta: "Ho provato a sondare per il discorso della retta e… fra i 250 e i 260 euro... è un po' un discorso di lana caprina... nel senso che fino a 250 nessuno dice niente". Dunque sembrerebbe che fosse già tutto deciso. Mancavano solo le cifre. Ma sarebbe stata la "Hansel e Gretel" ad occuparsi della psicoterapia ai minori. Eppure non era stata indetta nessuna gara pubblica. Tutto in amicizia e senza rispettare i dovuti step legali. Come riporta La Verità a confermare il modus operandi di Andrea Carletti è stato anche l'ex sindaco di Gattatico in provincia di Reggio Emilia, Gianni Maiola. Secondo quanto emerso dalle sue segnalazioni sembrerebbe che "per un verso la gratuità del servizio non era emersa nella discussione di giunta e che vi era una precisa consapevolezza della onerosità del servizio, tanto che egli pose il problema e segnalò le proprie perplessità, e sia Carletti che Anghinolfi e Campani rassicurarono gli altri componenti della giunta dell'esistenza di un formale affidamento alla Hansel e Gretel". Adesso, per qualcuno, dopo che il sindaco del Pd è tornato libero, “Bibbiano” è diventata tutta una farsa mediatica strumentalizzata dalla destra populista. Ma oltre i discorsi, in cui per di più andrebbe intanto sottolineato che la decisione dei pm non rende ancora Carletti innocente, ci sono delle indagini trascritte in un’ordinanza della Procura che parlano di fatti. Che mettono nero su bianco perchè di Bibbiano si doveva parlare. E che fanno pensare che, forse la sinistra prima di pretendere le “scuse” dovrebbe aspettare i processi.

Bibbiano, tornano a casa gli ultimi 4 bimbi coinvolti nell'inchiesta. Gli ultimi quattro bambini le cui storie erano state raccontate nelle carte della procura sull'inchiesta "Angeli e Demoni" hanno iniziato il percorso per tornare a riabbracciare i propri genitori. Costanza Tosi, Domenica 08/12/2019, su Il Giornale. Anni di sofferenze, battaglie e ingiustizie che hanno distrutto intere famiglie e rovinato gli anni più belli della propria vita a decine di bambini. A Bibbiano i servizi sociali avrebbero tolto i bambini ai propri genitori naturali, con accuse mai confermate e pretesti infondati. Ora, anche gli ultimi piccoli rimasti lontani dalla propria famiglia, stanno per rientrare nelle proprie case. Un calvario durato anni il loro, che forse adesso vedrà la parola fine. Gli ultimi quattro bambini le cui storie sono state riportate nelle oltre duecento pagine dell’inchiesta “Angeli e Demoni” hanno iniziato il percorso per rientrare a casa. Adesso porteranno a termine i necessari incontri protetti e poi potranno finalmente riprendere la loro vita accompagnati dall’affetto del loro papà e della loro mamma. Tra loro anche Katia. La sua storia era una delle più crude tra quelle raccontate dalla procura. La bambina era stata affidata, sotto consiglio di Federica Anghinolfi, a capo dei servizi sociali della Val D’enza, ad una coppia di donne omosessuali. Nelle carte, le intercettazioni delle due donne trascritte dai carabinieri e già riportate da noi de IlGiornale.it a pochi giorni dallo scoppio dell’inchiesta, furono uno dei passi più strazianti. Un giorno la piccola venne scaraventata fuori dall’auto di una delle due donne. Si tratta di Daniela Bedogni, compagna di Fadia Bassmaji nonchè amica e ex fidanzata proprio di Anghinolfi. Tutte molto attive all’interno del mondo per i diritti Lgbt. La donna lasciò la minore sotto la pioggia, in strada. Tra urla di rabbia e parole da far accapponare la pelle. “Porca puttana vai da sola a piedi... Porca puttana scendi! Scendi! Non ti voglio più! Io non ti voglio più scendi! Scendi!”. Sbraitava la madre affidataria. La bambina nel tragitto non riusciva ad accusare il padre di abusi nei suoi confronti. Katia non riusciva a dire una bugia. Quelle violenze infatti non sono mai state provate, eppure per qualcuno la bambina avrebbe dovuto confessarle. Di forza. E solo perchè questo avrebbe fatto sì che la piccina non tornasse più a casa e rimanesse ostaggio delle due donne. La minore dopo le denunce è stata subito allontanata dalla coppia e adesso, come ha raccontato il giornalista della Rai Luca Ponzi, potrà ritornare finalmente a casa. A tornare a casa sarà anche un altro tra i bambini del bibbianese. La sua è una storia tanto assurda quanto dolorosa. Gli assistenti sociali lo pressarono per fargli confessare di aver subito abusi dai suoi genitori. Volevano che dicesse che i suoi genitori avevano masturbato sia lui che i suoi fratelli. Queste accuse non furono mai provate e l’incubo, questo bambino, non lo visse a casa sua, ma nella famiglia affidataria alla quale venne dato proprio dagli stessi servizi sociali della Val d’Enza. Fu a casa dei “nuovi genitori” che il piccolo venne abusato. Stuprato da un ragazzo di 17 anni, affidato alla stessa famiglia. Una vicenda assurda e che lascerà un trauma nel bambino per tutta la vita. Ma che, non ha toccato minimamente uno degli indagati. Francesco Monopoli, collega di Federica Anghinolfi infatti, dopo essere venuto a conoscenza della tragedia diede la colpa proprio al piccolo abusato. “Chissà che segnali avrà mandato a questo ragazzo perché fosse predabile”. Con queste parole l’assistente sociale sostenne che il bambino avesse fatto intendere all’adolescente di essere disponibile dal punto di vista sessuale e che questo avrebbe fatto fare il primo passo al ragazzo. Un po’ come dire alle donne stuprate che è colpa della minigonna. É con queste storie che resta impossibile non gridare all’evidenza della gravità dei fatti di Bibbiano. Eccole qui le vittime del sistema. Sono queste piccole creature che per tutta la vita dovranno portarsi dietro il peso delle ingiustizie che hanno subite che lasceranno per sempre una ferita profonda nelle loro anime. Ma il popolo dei garantisti, della sinistra liberale, chiede le scuse per il sindaco Carletti. Che solo per essere tornato un uomo libero dopo la revoca da parte del pm dell’obbligo di dimora è stato dichiarato vittima del sistema. In realtà ancora oggi il sindaco dem dovrà provare, in aula di tribunale, di non aver favorito tutti coloro che hanno fatto carte false (nel vero senza della parola) per strappare questi bambini dalle proprie famiglie, di non aver aiutato le menti di questo sistema illecito, senza mettersi dalla parte delle vittime. Quelle vere.

Le uniche vittime di Bibbiano sono i bambini, non il sindaco. Andrea Carletti, il primo cittadino, si dice "crocifisso". Ma a chiedere le scuse posso essere soltanto le famiglie devastate dallo scandalo affidi. Mario Giordano il 20 dicembre 2019 su Panorama. Perseguitato? Vittima? Addirittura «crocifisso», come si è autodefinito, paragonandosi nientemeno che a Gesù sul Golgota? Non scherziamo: intanto il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, resta indagato. E poi resta indagato nell’ambito di una inchiesta che ha sollevato il velo su un orrore spaventoso, quello del business sui minori strappati alle loro famiglie. Dunque dovrebbe pensarci due volte prima di proclamarsi vittima. Come dovrebbero pensarci il segretario del suo partito, Nicola Zingaretti del Pd, e tutti gli altri politici che si sono affrettati a guadagnare un titolo di giornale, vestendo i comodissimi panni dei martiri mediatici. Perché, in questa vicenda, le vittime ci sono davvero. Ma non sono quelli che stanno sulle cadreghe che contano e strepitano sui giornali. Non sono né il sindaco né il segretario del Pd. Non sono i partiti politici e i loro rappresentanti. Le uniche vittime di questa vicenda, purtroppo, sono i bambini. Il sindaco di Bibbiano per ora ha solo avuto la revoca dell’obbligo di dimora. Non l’assoluzione. Per l’amor dei cielo: ce l’avrà. Glielo auguriamo. Gli auguriamo di dimostrare l’innocenza in tribunale, oltre che sui giornali. Ma nel frattempo abbia la decenza di evitare la parola «crocifissione». Perché di crocifissioni, in questa orrenda storia, ce ne sono state fin troppe: sono stati crocifissi quei bimbi strappati alle loro mamme, tenuti lontani per anni, quei bambini a cui si diceva «facciamo il funerale al tuo papà»; sono stati crocifissi quei bambini che chiedevano «perché papà non viene a trovarmi?» e si sentivano rispondere «perché non ti vuole più»; sono stati crocifissi quei bambini che non ricevevano i giocattoli dai loro genitori perché gli assistenti sociali li buttavano nell’immondizia, insieme con le loro lettere. E sono stati crocifissi quei bambini i cui disegni venivano modificati per dimostrare che erano stati molestati anche se non era vero. Solo per tenerli lontani dai genitori. Per sfasciare le famiglie. E per fare più soldi. Ecco chi sono le vittime di Bibbiano. Ecco chi è stato davvero crocifisso. Il sindaco dimostrerà la sua innocenza, Zingaretti si guadagnerà un po’ di agenzie di stampa facendo la vittima e gridando alla «vergogna». Qualche altro politico ripeterà che bisogna «chiedere scusa». Ma vi rendete conto dell’assurdità? Ancora una volta la politica ha perso il contatto con la realtà: gli unici cui bisogna chiedere scusa, infatti, sono quei piccoli torturati e plagiati in nome dell’ideologia e del dio denaro. Nessun adulto può tirarsi fuori dalle responsabilità di questo orrore. Nessuno adulto, se ha un minimo di umanità, può fare a meno di sentirsi toccato nel profondo. Nessun adulto può fare a meno di sentirsi in qualche modo responsabile di non aver capito, di non aver intuito, di non aver protetto questi bambini. Di non aver scoperchiato prima il pentolone dell’orrore. Figurarsi se può farlo chi è stato sindaco in quelle zone. Figurarsi se può farlo il segretario di un partito che da quelle parti da sempre fa il bello e il cattivo tempo. Bibbiano non è stato un raffreddore, come hanno scritto i tecnici mandati dalla Regione per seppellire tutto. Bibbiano è un’inchiesta che ancor prima di individuare reati e eventuali colpevoli (questo lo stabilirà il processo), ha sollevato il velo su uno scandalo che non è solo a Bibbiano, ma che è nazionale. Ed è lo scandalo dei bambini calpestati da un sistema che mira soltanto a fare soldi. E che nessuno controlla. Tanto è vero che ancora oggi non si sa quanti sono i bambini allontanati dai tribunali in Italia, nessuno conosce quanto rendano, dove finiscono quei soldi, nessuno indaga sulle complicità e sui conflitti di interesse tra giudici minorili che decidono gli affidi e le cooperative che su quegli affidi prosperano. Nessuno è riuscito a fermare il business osceno che si è scatenato sulla pelle dei più piccoli. Altro che raffreddore: è una pestilenza. Una pestilenza che fa guadagnare molte persone, si capisce. Ma che non ha pietà dei bambini. E che perciò andrebbe fermato. A qualsiasi costo. In qualsiasi modo. Anche a costo di indagare un sindaco, se è necessario. Perché per quante violenza ci possa essere nell’indagare un sindaco che poi (forse) si dimostrerà innocente, non è paragonabile alla violenza che c’è nello strappare un bimbo al suo papà dicendogli che «papà è morto» o «papà non ti vuole», mentre il papà lo sta aspettando fuori dalla porta. E il fatto che i politici non lo capiscano, autoproclamandosi vittime e crocifissi, è l’ennesima dimostrazione, caso mai ce ne fosse ancora bisogno che i politici pensano a difendere sempre e soltanto sé stessi, anziché chi ne ha davvero bisogno, come i bambini. Poi si chiedono perché la gente non crede più in loro.

Abusi sui bambini, il Papa più avanti della politica. Donzelli: «Da Bibbiano al Forteto, hanno paura». Francesco Storace mercoledì 18 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Forteto, Bibbiano, sugli abusi ai bambini il Papa sembra più coraggioso della politica italiana….“Il Parlamento invece pare chiudersi a riccio. La commissione d’inchiesta sul caso esploso in Toscana anni addietro non parte. Le forze politiche di maggioranza la rinviano ancora ed è una vergogna oggettiva”. Lo dice al Secolo d’Italia il deputato Giovanni Donzelli, parlamentare toscano di Fratelli d’Italia, che sul caso Forteto ha condotto una durissima battaglia fino al varo della commissione. “Una certa politica – aggiunge – ha raggiunto livelli così bassi da far apparire cose di buonsenso come lungimiranti. Accusano la destra di aver strumentalizzato il caso per distrarre dalla realtà: sono i minori le vittime di questa vicenda, strumentalizzati per interessi economici e personali. E adesso pretendono anche che stiamo zitti?”

Chi e che cosa frena il varo della commissione d’inchiesta?

“Pd e Movimento 5 Stelle stanno litigando su tutte le poltrone, e fra queste anche quella del Forteto. Nella migliore delle ipotesi si tratta di questo. Sono nove mesi che l’istituzione della commissione d’inchiesta parlamentare è una legge dello Stato: quando partirà dovrà indagare anche per capire se fra i motivi di questo inaccettabile ritardo ci sia il tentativo di qualcuno, ancora oggi, di coprire i pedofili e i loro amici”.

Il Forteto in sintesi… molti italiani ancora non sanno…

“Il Forteto nasce negli anni ’70 dalla spinta ideologica del ’68. L’idea di una vita comunitaria a contatto con la terra e la natura si è trasformata presto in un luogo dove si sono commesse le peggiori angherie. Bambini con situazioni difficili affidati dai magistrati e poi abusati. Non si parla solo di abusi fisici, ma anche psicologici e sociali che hanno coinvolto anche le persone entrate in buona fede per lavorare e scappate per disperazione. E pensare che per anni le istituzioni della sinistra l’hanno incensata presentandola come un esempio. Il Forteto è stata una vera e propria setta”.

Dove dovrebbe spingersi la commissione?

“La commissione d’inchiesta ha il dovere di indagare sulle responsabilità dei magistrati, della politica, e di tutti quegli ambienti che hanno permesso a dei mostri di agire indisturbati, sguazzando in un sistema di potere granitico creato dalla sinistra in Toscana. Ma soprattutto è un risarcimento di verità e giustizia che lo Stato deve alle vittime: lo stop, per contro, rappresenta l’ennesima ferita inferta”.

Perché non può presiederla chi ha denunciato lo scandalo?

“Io penso che certamente non possano presiederla rappresentanti in continuità con le forze che per anni, al governo della Toscana, hanno finanziato il Forteto, lo hanno accreditato fino ad usarlo per le campagne elettorali. Sulla verità non possono esserci compromessi: per indagare efficacemente è necessario conoscere in modo approfondito la vicenda, dalle sentenze al lavoro delle due commissioni d’inchiesta toscane, le cui relazioni sono state approvate all’unanimità dal Consiglio regionale. Mi auguro che nessuno si sogni di mettere in discussione questi documenti”.

Bibbiano, nuovi guai per Foti: «Sospeso sei mesi dalla professione». Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 su Corriere.it. Nuovi guai per lo psicoterapeuta Claudio Foti, 68 anni, direttore scientifico della onlus «Hansel e Gretel» coinvolto nell’inchiesta «Angeli e Demoni» della procura di Reggio Emilia su un presunto giro di affidi illeciti a Bibbiano, nella Val D’Enza. Questa mattina — lunedì — i carabinieri del Nucleo Investigativo di Reggio Emilia hanno dato esecuzione a Pinerolo (Torino) a un’ordinanza cautelare interdittiva nei suoi confronti, emessa il 6 dicembre scorso dal gip del Tribunale di Reggio Emilia, che dispone per Foti il divieto per mesi sei di esercitare l’attività professionale di psicologo-psicoterapeuta nei confronti di soggetti (pazienti o clienti) minorenni. Il provvedimento è stato assunto in ordine al capo di imputazione secondo cui il terapista avrebbe sottoposto una minore a «sedute serrate, attraverso modalità suggestive e suggerenti, con la voluta formulazione di domande sul tema dell’abuso sessuale» per ingenerare in tal modo in capo alla minore «il convincimento di essere stata abusata sessualmente dal padre e dal socio». Questo con l’obiettivo di radicare «nella minore un netto rifiuto nell’incontrare il padre», che è stato dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale. La nuova misura cautelare è stata decisa dopo una serie di indagini successive all’esecuzione dell’ordinanza cautelare del 27 giugno scorso, quando per Foti erano scattati gli arresti domiciliari, poi revocati il 18 luglio dal tribunale del Riesame di Bologna e commutati nell’obbligo di dimora nel Comune di residenza (Pinerolo). Secondo fonti giudiziarie proprio il materiale video prodotto dalla difesa di Foti a sostegno dell’istanza di riesame che è stata accolta, è stato analizzato da un consulente tecnico della Procura reggiana risultando «in maniera oggettivamente antitetica a quanto prospettato dalla predetta difesa, un chiaro ed inequivocabile sostrato probatorio a sostegno invece delle ipotesi accusatorie». Una tesi che ha visto concorde il giudice per le indagini preliminari, che ha firmato l’ordinanza di sospensione dalla professione per Foti.

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 10 dicembre 2019. Mesi fa Andrea Coffari, avvocato difensore di Claudio Foti, rilasciò una intervista a questo giornale e spiegò di aver consegnato alle autorità ore di filmati delle sedute di terapia effettuate dal suo assistito sui bambini del caso «Angeli e demoni». Secondo Coffari, da quei video si sarebbe potuta evincere la bontà del lavoro di Foti. Grazie a quelle ore di registrazione, sosteneva Coffari, tutti coloro che avevano avanzato dubbi sulla professionalità del terapeuta torinese avrebbero dovuto ricredersi, e prepararsi a chiedere scusa. Siamo di fronte a uno dei più clamorosi casi di eterogenesi dei fini che la Storia ricordi. Poiché proprio quei filmati hanno costituito «al contrario di quanto prospettato dalla predetta difesa, un chiaro ed inequivocabile sostrato probatorio a sostegno invece delle ipotesi accusatorie della procura di Reggio Emilia». Questo ha scritto il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, Luca Raponi, nel provvedimento in cui stabilisce che il guru di Hansel e Gretel, 68 anni, «non potrà esercitare l' attività di psicologo o psicoterapeuta con pazienti minorenni» per un periodo di sei mesi. Si tratta di una nuova misura interdittiva a carico di Foti, che scaturisce da accuse piuttosto pesanti mosse dalla Procura di Reggio Emilia, secondo cui Foti avrebbe condotto su una minorenne «sedute serrate, attraverso modalità suggestive e suggerenti, con la voluta formulazione di domande sul tema dell' abuso sessuale». Queste sedute avrebbero ingenerato nella piccola «il convincimento di essere stata abusata sessualmente dal padre e da un suo socio». In questo modo Foti avrebbe radicato «nella minore un netto rifiuto nell' incontrare il padre». Il risultato fu che al padre della minorenne fu tolta la potestà genitoriale. In pratica, la bimba gli fu strappata. Quel padre fu trasformato in un mostro a seguito di sedute di terapia condotte in modo sbagliato, tramite i metodi che gli operatori di Hansel e Gretel hanno sempre rivendicato con orgoglio, presentandosi come gli illuminati cacciatori di abusi ingiustamente osteggiati dai difensori dei pedofili. Non importava che la comunità scientifica avesse da tempo rigettato le tecniche di Foti e dei suoi collaboratori. Questi ultimi continuavano a insistere di essere nel giusto. È emblematico, a tal proposito, ciò che accadde mesi fa, quando a Foti furono revocati gli arresti domiciliari. Inizialmente, infatti, il guru di Hansel e Gretel era stato sottoposto a una misura cautelare pesante. Il suo difensore fece però ricorso al Tribunale del Riesame di Bologna, che decise di revocare gli arresti, limitandosi a imporre a Foti l' obbligo di dimora a Pinerolo, il suo paese in provincia di Torino. In quell' occasione, Coffari cantò vittoria, spiegando che - proprio poiché aveva visionato i famigerati filmati delle terapie - il giudice aveva deciso di alleviare i provvedimenti nei confronti del terapeuta. Qualche tempo dopo, però, uscirono le motivazioni del Riesame, e i toni utilizzati dai giudici, si scoprì, non erano poi così blandi, anzi. In realtà, il Riesame usava parole pesantissime nei confronti del terapeuta piemontese. Il giudice spiegava che Foti, Federica Anghinolfi, Nadia Bolognini e gli altri del giro bibbianese erano «fortemente ancorati a una visione ideologica del proprio ruolo che li rendeva convinti di essere in grado di assistere i minori abusati con capacità e metodo loro proprio, di cui essi erano gli interpreti; uniti nella acritica convinzione della validità scientifica della loro metodologia e del loro approccio maieutico; in grado di far emergere, con valore salvifico e terapeutico, ricordi di abusi sessuali subiti da minori con personalità fragili e in difficoltà». Esisteva, secondo il giudice del Riesame, una «scuola Foti» e il metodo che essa utilizzava appariva «di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della Carta di Noto». Secondo il giudice «l' opera di Foti si è inserita in una scia che portava gli indagati a credere fortemente nella sussistenza a priori di abusi sessuali nella vita dei piccoli pazienti». Tra le altre cose, il giudice bolognese contestava persino la professionalità del terapeuta (che, va ricordato, non ha una laurea in psicologia o psichiatria, ma in lettere, ed esercita grazie a una sanatoria). Il Riesame, nelle motivazioni, parlava infatti di «trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti da parte di una persona che, tra l' altro, non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l' attività di psicoterapeuta». Di fronte a queste frasi viene da chiedersi: come mai, allora, il tribunale del Riesame decise di revocare gli arresti domiciliari a Foti e addirittura di far cadere una delle accuse nei suoi confronti? Il motivo è semplice. L' accusa in questione era quella di frode in processo penale e depistaggio. Riguardava appunto la vicenda di una ragazzina che il terapeuta ha seguito tra il 2016 e il 2017 e che sarebbe stata spinta a ricordare abusi subiti dal padre in tenera età. La ragazza nel frattempo è diventata maggiorenne, il procedimento sugli abusi ha già fatto il suo corso e l' accusa è caduta soltanto per questioni tecniche legate alle tempistiche. Secondo il tribunale, tuttavia, restava «pacifico che la terapia con la ragazza era per Foti un vantaggio economico, posto che per ogni seduta di un' ora il suo guadagno era di euro 135, tariffa ben al di sopra e quasi doppia rispetto alla tariffa media di uno psicoterapeuta pari a euro 70». Questa ragazza è la stessa a cui, ora, fa riferimento il Gip di Reggio Emilia. Sapete che cosa significa? Che qui abbiamo ben due giudici - quello del Riesame di Bologna e quello reggiano - che hanno espresso nero su bianco critiche pesantissime all' operato di Claudio Foti e di Hansel e Gretel. Secondo entrambi i giudici, infatti, il terapeuta torinese utilizzava metodi invasivi, faceva pressioni sui pazienti minorenni affinché raccontassero abusi che in realtà non avevano subito. Il provvedimento del Riesame impediva a Foti di operare a Bibbiano, ma gli consentiva comunque di seguire pazienti a Pinerolo. Il nuovo provvedimento del Gip, invece, blocca per sei mesi qualunque attività del creatore di Hansel e Gretel. Di fronte a tutto questo, di fronte a giudici (non pm, non giornalisti) che attaccano con tanta forza il lavoro sui pazienti minorenni di Foti e compagni, tocca porsi una domanda. Per quale motivo ad Hansel e Gretel fu affidata la gestione esclusiva del centro La Cura di Bibbiano?

Quali attestati di benemerenza aveva prodotto Foti? Sul suo conto circolavano già parecchi pareri negativi, il suo lavoro era stato ampiamente contestato anche prima che arrivasse in Emilia Romagna. Eppure il sindaco del Pd Andrea Carletti e gli assistenti sociali bibbianesi hanno deciso di concedere a Foti e ai suoi totale libertà di azione. Come sia stato possibile, forse, dovrebbero dircelo i fini analisti che, da qualche tempo, continuano a definire Bibbiano «un raffreddore». Lo dicano al Gip che il caso Angeli e demoni non esiste. Oppure, optino per un più dignitoso silenzio.

Giovanardi: "perché il Pd non si dissocia dalle idee di Foti?". Sulla vicenda di Bibbiano, l’ex ministro lancia una polemica sulle idee dello psicologo e sulla sinistra che per anni le ha sponsorizzate. Panoram ail 10 dicembre 2019. Una nuova, dura polemica sullo scandalo dei bambini di Bibbiano: la lancia Carlo Giovanardi, ex senatore modenese del centrodestra e più volte ministro. Giovanardi chiama in causa il Partito democratico e chiede come sia stato possibile che, per anni, quel partito abbia sostenuto e addirittura “sponsorizzato” Claudio Foti, lo psicologo piemontese finito al centro dell’inchiesta Angeli e Demoni della Procura di Reggio Emilia. Di Foti, indagato per frode giudiziaria e abuso d’ufficio, Giovanardi critica alla radice idee e statistiche: secondo lo psicoterapeuta, il 75% dei minori sarebbe vittima di abusi di qualche genere (sessuali, fisici o psicologici), tanto da usare l’irriverente iperbole di “Olocausto” per descrivere il fenomeno. Giovanardi sottolinea poi che Foti sostiene che anche gli abusi non provati dalla giustizia sono quasi sempre veri, e che le sentenze di assoluzione non significano nulla. Lo psicologo teorizza inoltre che l’allontanamento dei bambini dalle famiglie è la sola strada per fare emergere in loro il ricordo delle violenze subite. Alla luce di tutto questo, Giovanardi chiede che anche il Pd si opponga a queste idee da “caccia delle streghe”.

Carlo Giovanardi: Tutti conosciamo il terribile significato del termine "Olocausto", che richiama lo sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti nella Seconda guerra mondiale. Ma c'è un altro Olocausto, meno noto, che ci illustra lo psicologo Claudio Foti nel suo intervento "il negazionismo dell'abuso sui bambini, l'ascolto non suggestivo, la diagnosi possibile", pubblicato sul numero 2 del 2007 della rivista MinoriGiustizia. Scrive Foti: "L' olocausto dell'abuso sulle donne e sui bambini, con i suoi scenari infinitamente differenziati e sfumati, ma forse più impensabili e indicibili di quelli dei lager e assolutamente non circoscritti da un visibile filo spinato, rimane comunque un fenomeno in gran parte sommerso e l' impegno a sottrarlo dalla notte millenaria di rimozione e di negazione, in cui resta avvolto, per poterlo contrastare ed affidare alla coscienza ed alla memoria, risulta assai piu' difficile di quanto non sia accaduto per altre espressioni di violenza storicamente documentate". Nello stesso intervento leggiamo: "La prima verità è che gli abusi organizzati (ritualistici o finalizzati al traffico di materiale pedopornografico) esistono o sono diffusi; la seconda verità è che sono destinati a rimanere ancora a lungo sostanzialmente impensabili e pertanto socialmente inaffrontabili dal punto di vista preventivo e repressivo". Sin dal tempo dei cosiddetti "Diavoli della bassa modenese" (1999) passando per il caso degli “orchi” dell’asilo di Rignano Flaminio (2006), un ristretto numero di persone dalla più disparata estrazione politica e professionale, hanno contestato in Parlamento e fuori questo approccio ideologico alla tematica dell' abuso sui minori: dal giornalista Pablo Trincia, con la sua indagine Veleno, all’avvocato Patrizia Micai, difensore di alcuni dei condannati; dallo psichiatra modenese Camillo Valgimigli all’ex giudice del Tribunale minorile di Bologna, Francesco Morcavallo. Dopo la esplosione dell'indagine "Angeli e Demoni" Francesco Borgonovo sulla Verità, Maurizio Tortorella con il suo libro "Bibbiano e dintorni" e Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano hanno con pacatezza e e ineccepibile documentazione informato i lettori della gravità dei reati ipotizzati dalla magistratura di Reggio Emilia. Viceversa, un tema così angoscioso e delicato ha innescato polemiche strumentali e imbarazzanti, sceneggiate da parte di esponenti della Lega, di Fratelli d'Italia e dei 5 Stelle, e altrettante incredibili e imbarazzanti difese d'ufficio da parte del Partito democratico: un clima ben diverso da quello dell'epoca delle maestre di Rignano Flaminio, quando il Pd era giustizialista e forcaiolo, e la destra non era da meno, con Alessandra Mussolini e Luca Barbareschi a chiedere al governo Berlusconi, di cui facevo parte come sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla famiglia, di dissociarsi pubblicamente dalla mia difesa delle maestre (poi assolte con formula piena). Purtroppo la rissa politica rischia di far dimenticare il dramma di migliaia di famiglie vittime di pregiudizi ideologici, come quelli che hanno portato il Centro Hans e Gretel di Claudio Foti a sostenere e diffondere tra magistrati minorili, operatori dei servizi e psicologi il dato che il 75% dei bambini italiani sia abusato in famiglia, o sessualmente o tramite violenza fisica o psichica. Come scrive Foti nel testo già citato, “i clinici, attrezzati all'ascolto empatico dei loro pazienti, ben conoscono su un piano empirico la diffusione dell'abuso sui bambini, essendo abituati ad accogliere, magari dopo mesi e anni di psicoterapia, precisi ricordi di violenze, latenti o manifeste, avvenute nell'infanzia dei loro pazienti e a verificare effetti di integrazione e benessere di straordinario rilievo a seguito della narrazione ed elaborazione terapeutica di questi ricordi".

E che cosa accade se la giustizia poi assolve o archivia? "I dati relativi alle false accuse" scrive Foti "non possono basarsi sulle archiviazioni e sulle assoluzioni giudiziarie. Non si può considerare il responso giudiziario come un fondamento di verità clinica e sociale, confondendo la verità giudiziaria con quella scientifica e dimenticando che la prima necessariamente deve tener conto, giustamente e inevitabilmente, del parametro delle prove. La stessa verità giudiziaria, inoltre, risulta spesso condizionata vuoi da modalità d'indagine e processuali che tengono assai poco in considerazione le comunicazioni dei bambini, vuoi dalla scarsa preparazione psicologica dei giudici". Conclude Foti: "Si rischia di lasciare il piccolo testimone in balìa di vissuti paralizzanti. Si finisce per generare anziché una suggestione positiva, una massiccia suggestione negativa nel bambino…". I milioni di cittadini italiani che hanno visto in televisione le agghiaccianti immagini di come venivano interrogati i bambini della Bassa Modenese e di Bibbiano si sono resi conto di come sono stati tradotti nella realtà certi teoremi, suffragati anche dalla teoria del cosiddetto "disvelamento progressivo", secondo la quale un bambino sottratto ai genitori, con i quali per mesi viene precluso ogni contatto, se debitamente (ed empaticamente) interrogato farà affiorare gli abusi subiti. Abusi che non possono non essere veri perché, come scrive Foti, "in conclusione non è affatto dimostrato che il falso ricordo, quando consiste in un evento sconvolgente e traumatizzante si possa inserire nella memoria autobiografica". Vorrei pertanto che il Pd di Reggio Emilia e quello nazionale spiegassero perché abbiano sempre esaltato e sponsorizzato le teorie di Foti; perché non condannino le terribili conseguenze di queste teorie; e soprattutto perché non intendano fare causa comune con tutti coloro, anche della loro stessa area politica, che ben prima di Bibbiano si sono opposti a questo ritorno alla "caccia alle streghe". 

Le strane statistiche del giudice di Bibbiano. Il presidente del Tribunale dei Minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, ha detto che il sistema è sano. Ma i numeri sugli allontanamenti che ha fornito lasciano dubbi. Maurizio Tortorella il 22 dicembre 2019 su Panorama. Giuseppe Spadaro, forse, ricorderà questo 2019 che ormai declina come uno dei peggiori anni della sua vita. Dopo un’estate infernale, e alla fine di un autunno da incubo, al presidente del Tribunale dei minori di Bologna sembrerà poca cosa perfino la grave intossicazione alimentare che in aprile gli aveva imposto un ricovero in ospedale. Per Spadaro la guerra, quella vera, è iniziata alla fine di giugno, quando è scoppiata l’inchiesta «Angeli e demoni»: suo malgrado, da allora il magistrato è sotto i riflettori dei mass media e il suo ufficio è finito al centro dello scandalo per i presunti allontanamenti illegittimi dei bambini di Bibbiano, la cittadina emiliana che in quel campo (come l’intera Regione) è sotto la sua giurisdizione. Nato 55 anni fa in Calabria, magistrato dal 1990 e dal 2013 in carica a Bologna, Spadaro ha disperatamente cercato di presentare se stesso e i suoi giudici come le «prime vittime» degli assistenti sociali coinvolti nell’inchiesta. Non è servito: il gorgo accusatorio dei social media lo ha risucchiato. A Spadaro «Angeli e demoni» ha rovinato anche luglio, agosto e settembre: il magistrato ha dovuto rinunciare al mare per scavare nei fascicoli da cui ha fatto uscire mille statistiche, a suo dire rassicuranti. Ma l’inchiesta della Procura di Reggio Emilia, involontariamente, gli ha soprattutto stoppato la carriera: prima di Bibbiano veniva data per certa la sua promozione al vertice del Tribunale per i minori di Roma, il più importante d’Italia, per cui Spadaro aveva fatto domanda nel 2018. Il Consiglio superiore della magistratura era schierato con lui, Piercamillo Davigo in testa. A metà novembre, invece, lo stesso Csm ha sospeso tutto. Ai primi di luglio, del resto, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha avviato un’indagine amministrativa sull’ufficio di Spadaro. È vero che gli ispettori ministeriali, da buoni magistrati, non sono mai troppo severi con i colleghi dei quali si occupano. Ma stavolta il Guardasigilli ha domandato un’analisi insolitamente approfondita: Bonafede ha ordinato di «andare oltre l’acquisizione documentale» e di «ascoltare giudici, personale amministrativo, avvocati e altri soggetti in grado di fornire informazioni». Non contento, l’11 novembre Bonafede ha chiesto agli ispettori un supplemento d’indagine «sui rapporti tra giudici e operatori che potrebbero aver determinato situazioni d’incompatibilità, e sulle misure adottate dal presidente». Cioè dal povero Spadaro. Questo supplemento d’ispezione è stato probabilmente motivato dal fatto che nelle intercettazioni di «Angeli e demoni» era emersa la vicinanza tra uno dei 41 giudici bolognesi e gli psicologi Claudio Foti e Nadia Bolognini, al centro delle indagini. Il 27 agosto Spadaro aveva sostituito il magistrato in questione, ma non c’è stato nulla da fare: un mese fa, la nuova ispezione ha indotto il Csm alla prudenza. Come se i guai non bastassero, in novembre è arrivata la ciliegina sulla torta: l’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia ha inviato a Bonafede e al Csm un rapporto sulle presunte inadempienze del Tribunale di Spadaro. Ne esce un quadro più che fosco, cupo. Gli avvocati lamentano che a Bologna ci sono procedure di sospensione della potestà genitoriale, e addirittura di adottabilità dei bambini, «in cui da oltre un anno non vengono fissate le udienze». Denunciano «il sistematico, mancato reperimento dei fascicoli in cancelleria e negli uffici dei magistrati» e lo «smarrimento di fascicoli». La presidente dell’Ordine, Celestina Tinelli, sostiene che spesso «gli avvocati non possono nemmeno partecipare alle udienze». E la grana rischia di ripetersi con iniziative analoghe di altri Ordini legali emiliani…Alla fine di questa nera sequenza di avversità, il 14 novembre Spadaro è stato chiamato a rispondere alle domande della Commissione d’inchiesta sugli affidi minorili, varata dalla Regione Emilia-Romagna. Lì, caricato a molla, il magistrato ha finalmente potuto sfogarsi. Ha ricordato le offese e le minacce ricevute sui social media: «Mi hanno chiamato sequestratore di bambini!», ha protestato. Il presidente ha cercato di rappresentare la piena efficienza del suo Tribunale: «Siamo tra i migliori in Italia» ha dichiarato con orgoglio. Ma poi è accaduto un fatto strano. Perché a Spadaro è stato chiesto conto di due numeri, fondamentali, che i giornali, concordi, gli avevano attribuito alla metà di ottobre: per dimostrare l’insussistenza di ogni problema e respingere l’accusa di un «sistema Bibbiano», Spadaro avrebbe riferito che tra 2018 e 2019 i Servizi sociali avevano chiesto al suo ufficio 100 allontanamenti, e che i suoi giudici ne avevano respinti ben 85. Proprio alla Commissione regionale, però, quella statistica è stata sottoposta a critiche. Possibile che gli assistenti sociali avessero chiesto allontanamenti infondati nell’85 per cento dei casi? E come mai, davanti a quella valanga di errori, i giudici non avevano preso provvedimenti? Posto di fronte alla questione, Spadaro ha dato la sua versione: «È un equivoco», ha spiegato «perché i Servizi sociali non chiedevano 100 allontanamenti, altrimenti sarebbe stato un dato estremamente allarmante e io stesso sarei andato in Procura a segnalarlo». Spadaro ha dichiarato che, al contrario, gli assistenti sociali avevano presentato 100 «segnalazioni di potenziale pregiudizio», cioè relazioni assai meno definitive. E non così preoccupanti. Resta agli atti, però, un comunicato ufficiale dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, di cui lo stesso Spadaro è vicepresidente. L’11 e 12 ottobre, l’Aimmf si è riunita in congresso a Lecce, e nella nota finale di quell’assise si parla proprio delle 100 «richieste di allontanamento». Così la versione di Spadaro viene autorevolmente smentita proprio dall’associazione di cui è vicepresidente: «A seguito delle recenti e puntuali precisazioni fornite dal presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna» scrive l’Aimmf «è stato accertato che in 85 procedimenti su 100, avviati su richiesta della Procura minorile, era stata respinta la proposta di allontanamento dei minori dalla famiglia d’origine e il collocamento presso terzi suggerito dai Servizi sociali». L’annus horribilis di Spadaro, insomma, continua. 

Nek e l'appello per Bibbiano: "Vogliamo la verità". Nek, dopo la Pausini, lancia un messaggio su social su quanto accaduto ai bimbi tolti alle loro famiglie per essere affidati ad altre coppie. Angelo Scarano, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. Il mondo della musica si mobilità per far luce sui fatti di Bibbiano. Diversi volti noti della musica italiana chiedono la verità su quei bambini tolti ai gentiori per essere poi affidati (nel silenzio più assoluto) ad altre coppie. La prima voce ad alzarsi in questo senso è stata quella di Laura Pausini. Proprio la cantante romagnola ha voluto lanciare un appello molto chiaro: "Ho appena letto un articolo e sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni. Mi sento incazzata, fragile, impotente". E ancora: "Ho deciso di cercare questa storia, perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo. Cosa si può fare? Come possiamo aiutare?". Adesso su questa vicenda (che da settimane ilGiornale.it sta raccontando) è intervenuto anche Nek che con un post sui social ha chiesto la verità su quanto accaduto a Bibbiano. Il cantante non usa giri di parole e anche lui dai social lancia un appello che ha fatto in poche ore il giro del web: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Insomma la storia dei bimbi di Bibbiano grazie anche ai messaggi dei volti noti dello spettacolo tenta di rompere il muro del silenzio che diversi organi di stampo hanno creato attorno a questa vicenda. E c'è da giurare che l'appello di Nek non resterà isolato e non sarà certo l'ultimo. Altri cantanti sono pronti a chiedere la verità e a dar voce ad una vicenda su cui è importante tenere alta l'attenzione.

Bibbiano, Nek risponde agli insulti rossi: "Bah, passo e chiudo..." Nek adesso non usa giri di parole e risponde per le rime a chi lo ha attaccato per il suo post su Bibbiano: "Vi pare giusto?" Angelo Scarano, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. Nek reagisce. Non ci sta a subire attacchi gratuiti per il suo appello a far luce su quanto accaduto a Bibbiano. Come è noto, il cantante sui social ha lanciato un messaggio chiaro per chiedere verità su una vicenda che finora ha diverse ombre. Lo ha fatto con semplicità, con queste parole: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Parole che hanno subito scatenato la reazione degli haters "rossi" che su Facebook e Twitter hanno messo nel mirino il cantante. Ma non ci sono solo gli haters ad attaccare Nek. C'è anche Luca Bottura che su Repubblica non ha usato certo toni morbidi per il cantante: "Filippo Neviani, in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l'umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo". Livore gratuito contro chi ha espresso un'opinione legittima e che viene deriso anche sul fronte professionale. Ma Nek non ci sta e così ha deciso di reagire e dire la sua rispedendo al mittente tutti gli insulti ricevuti: "Paragonare una mia canzone di 25 anni fa a un crimine contro l’umanità, uno di quelli veri… Ma certo, è normale, si fa, è satira! Tirare fuori addirittura i lager e Salò. Ok, è sempre satira! Ma sarà davvero satira accostare tutto questo? Una canzone che legittimamente può o non può piacere, con eventi e tragedie che hanno segnato la storia di tutti noi? Bah!! Passo e chiudo". Poi chiama in causa in modo esplicito Bottura: "Non discuto la critica – scrive Nek – Sono quasi 30 anni che ci sono abituato. Né tantomeno, quando è attinente, la satira. Evviva la libertà di espressione, del signor Bottura, della stampa, quella di ognuno di noi, ma anche la mia". Ma dopo aver regolato i conti con chi l'ha insultato, Nek rilancia il suo appello per Bibbiano: "Ho espresso un pensiero su una vicenda che mi stava a cuore, e che ritengo importante. Sono stato oggetto di critiche, giudizi, insulti, strumentalizzazioni e forzature. Me ne faccio serenamente una ragione. E certo non mancherò di esprimermi ancora ogniqualvolta ne sentirò il bisogno". Insomma il cantante non usa giri di parole e non torna sui suoi passi dopo aver chiesto verità per Bibbiano.

Da Nek a Mietta e Laura Pausini anche i VIP contro il silenzio su Bibbiano. Letizia Giorgianni il 21 Luglio 2019 su La Voce del Patriota. Mentre il Pd minaccia querele a chiunque parli della vicenda ed il suo segretario Zingaretti risponde con una risata alla domanda della giornalista, l’indagine sugli affidi di Bibbiano si estende a nuovi casi, che riguardano anche altri comuni, e che getterebbe ombre su oltre 70 affidi. Si perché, mentre il pool degli avvocati del Pd sono impegnati affinché “nessuno osi strumentalizzare” la vicenda, i magistrati del Tribunale e della Procura dei minori di Bologna, su ordine del Presidente Giuseppe Spadaro, stanno ricontrollando tutti i dossier trattati negli ultimi due anni dalla rete dei servizi sociali per 6 Comuni. Impossibile ormai arginare lo sdegno provocato da una tale mercificazione  e violazione dell’infanzia; non basta più il silenzio dei media e neppure l’infaticabile lavoro della fallimentare agenzia on-line di Mentana, impegnata alacremente a far sgonfiare l’inchiesta con notiziole ininfluenti (tipo il finto prete che parlava di Bibbiano). Lo sdegno della gente comune è tangibile. E allo sdegno della piazza, (l’ultimo corteo a Bibbiano proprio ieri) adesso si unisce anche quello dei vip, come la Pausini, Nek, e nella tarda serata di ieri anche la cantante Mietta, che dopo aver letto su Instagram lo sfogo di Nek, chiede a quest’ultimo la possibilità di condividere il post, appoggiandolo in pieno. Niente prime pagine per loro però. I loro post sono passati praticamente inosservati, ignorati. Dal canto loro i media, o per lo meno quelli che ritengono che l’informazione sia un diritto solo quando non lede gli interessi del padrone, continuano a tacere. Anzi, adesso, dopo la presa di posizione di personaggi dello spettacolo, tacere non gli basta più. Sono passati all’attacco, dimenticandosi completamente ogni regola, oltre che deontologica di buon senso, di quella che dovrebbe essere l’attività di un cronista. C’è infatti persino chi tenta di ironizzare e mettere alla berlina coloro che vogliono venga fatta completa luce sulla vicenda. Lo fa Repubblica, che chiama con disprezzo gli indignati “complottisti da social” ma anche La Stampa, che titola un articolo, (che di informativo non ha proprio niente): E allora Bibbiano? con il chiaro intento di descrivere in toni grotteschi chi osa collegare l’inchiesta di Bibbiano al Pd. Nell’articolo la giornalista, incredibilmente, parla di “luoghi comuni e falsità contro il Pd” di chi vuole strumentalizzare la vicenda per interessi personali. Probabilmente ne sa più lei che i pm che si stanno occupando dell’inchiesta. Fa eco Next, che di tutta l’inchiesta, documentata anche da intercettazioni, ci propina un “trattato” sull’uso improprio della parola “elettroshock” sui bimbi, rassicurandoci che non si è trattato di un vero e proprio elettroshock ma di “stimoli di tipo elettrico usati nella terapia per superare alcuni tipi di traumi”. Certo, adesso ci sentiamo sicuramente sollevati. E ci domandiamo se non vogliano anche loro prendere il posto degli inquirenti che si stanno occupando della vicenda. Per fortuna esistono anche giornalisti che alle imbarazzanti forme di autocensura preferiscono la coraggiosa e dolorosa ricerca delle verità nascoste. E anche la politica lo deve fare. E non si tratta di strumentalizzazione, si tratta di tenere ancora i riflettori accesi affinchè venga fatta piena luce sulla vicenda. Se non si considerano le responsabilità politiche ci ritroveremo tra qualche anno a dover affrontare un altro caso, altre vittime. Ricordiamo che prima Forteto e oggi Bibbiano si sono generati negli stessi ambienti culturali e politici. In tutti questi casi il silenzio è stato il nutrimento che ha consentito a queste realtà di operare per anni in modo incontrastato.

#ParlatecidiBibbiano. Perché la cacca non diventi… cioccolata. Cristiano Puglisi 23 luglio 2019 su Il Giornale. Ancora mutande sporche di Nutella. Questa volta al Comune di Bibbiano. A consegnarle, in sei borsette chiuse destinate ad altrettanti e differenti destinatari, tutti interni alla macchina comunale, è stato nuovamente il misterioso gruppo degli “Idraulici”, che già si era distinto per un’azione similare nei confronti della nave della ONG“ Open Arms”, ormeggiata al porto di Lampedusa. Il gruppo di attivisti, vestiti proprio da idraulici, ha fatto irruzione sabato mattina negli uffici comunali e ha recapitato la “castana” sorpresa a quelli che ha identificato come i responsabili dello scandalo relativo agli affidi. “Gli Idraulici – hanno poi spiegato gli autori del gesto in un comunicato stampa - non dimenticano qual è il loro compito principale, la ragion stessa del loro esistere: sturare quelle situazioni in cui l’accumulo di merda è diventato eccessivo. Bibbiano è una latrina a cielo aperto, la cui puzza viene coperta e deviata in ogni modo dal silenzio di sistema. È in questi frangenti che un Idraulico torna utile!”. “Non ci sono stati – dice ancora il comunicato – servizi-scandalo, maratone, titoloni a tutta pagina e chi ha provato a richiamare l’attenzione è stato immediatamente tacitato con news spacciate come prioritarie. Ma gli Idraulici arrivano come il destino, senza pretesti, senza riguardo, esistono come esiste il fulmine! E con loro, la gente d’Italia, che nella famiglia naturale ha un cardine imprescindibile(…)”. Il gruppo degli “Idraulici” è ritenuto vicino al think tank identitario Il Talebano. “Quanto è successo a Bibbiano è un fatto tremendo, la politica deve intervenire fermando la sperimentazione sociale attuata nelle scuole di stato sui bambini – ha commentato al proposito Fabrizio Fratus, fondatore proprio de ‘Il Talebano’ – Le strutture pubbliche non devono essere utilizzate per fini ideologici”. Già. Eppure il fecale fetore dei fatti di Bibbiano sembra, nella grande stampa generalista, essere già stato dimenticato. Passato in secondo piano, destinato non più alle prime pagine (come invece capita agli scontri tra le ONG e l’attuale ministro dell’Interno e al ridicolo “Russiagate” all’amatriciana), ma, al più, alla cronaca giudiziaria. #ParlatecidiBibbiano è l’hashtag-denuncia che sta circolando in queste ore su Twitter, rilanciato, tra gli altri, anche dal presidente di CulturaIdentità, Edoardo Sylos Labini. Giusta iniziativa, perché di Bibbiano si deve parlare. Se ne deve parlare per rispetto verso i bambini, vittime innocenti e senza difesa, e verso le famiglie coinvolte. È una questione morale, prima che giornalistica. Perché non si può consentire che la cacca, ancora una volta, diventi cioccolata.

Sui social centinaia di meme e post costruiti ad arte accusano media, Partito Democratico e movimento Lgbt di aver oscurato l’inchiesta di Reggio Emilia sui presunti abusi. Nadia Ferrigo il 18 Luglio 2019 su La Stampa. «Allora Bibbiano?» La «guerriglia culturale» invocata da VoxNews.info, l'autodefinitosi «quotidiano sovranista» Il Primato Nazionale e da una nebulosa galassia di decine di pagine Facebook dai nomi più o meno evocativi, ha un nuovo tormentone: l'inchiesta sui presunti abusi su minori in provincia di Reggio Emilia. Ne parlano centinaia di post e articoli, condivisi e commentati migliaia di volte sui social: nulla aggiungono, se non notizie false e un minestrone di pregiudizi e luoghi comuni che vanno dai «risultati della campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale e diffondere la teoria gender» a una «ideologia aberrante che mira alla disgregazione totale della famiglia nel nome del gender, del femminismo, della famiglia arcobaleno, dei diritti/capricci». Colpevole è il Partito Democratico, che con «la complicità dei media» vuole mettere a tacere la vicenda. Una squallida speculazione, con argomenti che nulla hanno a che fare con l’inchiesta di Reggio Emilia. Cosa c'entrano per esempio Luciana Littizzetto, Fabio Volo, Roberto Saviano e Laura Boldrini? Assolutamente nulla. Ma sono decine i meme che accostano le loro fotografie al «connivente silenzio dei media» sull’indagine. Lo stesso accade sugli account Facebook e Twitter dei media nazionali. Le notizie di politica sono bersagliate dallo stesso, squallido ritornello: «Parlate dei rubli, per non parlare di Bibbiano». Nella lettura complottista di una galassia di siti specializzati nella produzione di bufale e fake news virali, i media sono complici di Pd e movimento Lgbt: l’obiettivo di tutti sarebbe nascondere la realtà. Ecco i fatti. Giovedì 27 giugno i carabinieri di Reggio Emilia hanno messo agli arresti domiciliari sei persone al termine di un'indagine su un'organizzazione criminale che da una parte aveva lo scopo di togliere bambini a famiglie in difficoltà e affidarli a famiglie di amici o conoscenti, mentre dall’altra gestiva illecitamente fondi pubblici. L'indagine si concentra dell'affidamento di sei bambini legati ai servizi sociali dell'Unione Val d'Enza, un consorzio di sette comuni che condividono la gestione di molti servizi. La notizia è stata riportata da tutti i principali media italiani, che continuano a seguirne gli sviluppi. Ma la campagna d’odio, anche in assenza di notizie, va alimentata: online le varianti morbose sono infinite, per forza ripetitive. Spesso ricostruzioni assolutamente false. Titola l’ultimo link di VoxNews.info: “I mostri di Bibbiano occupano aula contro Salvini”. Le fotografie sono quelle della protesta dei parlamentari del Pd, che chiedono che il ministro Matteo Salvini riferisca in Parlamento sulla vicenda dei fondi russi alla Lega. Nulla a che fare con l’inchiesta. Tra i più attivi su Facebook, gli account legati all’estrema destra. Un esempio, il «Gruppo Gnazio». I post con riferimenti a Bibbiano sono decine, i commenti assolutamente irripetibili. Tra quelli che senza vergogna si possono riprendere c’è: «Vauro ha la matita rotta, nessun commento sui bambini di Bibbiano?». Continua a essere postato e ripostato il video attribuito a Bibbiano – ma che in realtà si riferisce a un’altra vicenda di cronaca, come raccontato da Open – di un bimbo che si dispera perché separato dal padre. Filmato postato anche dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Questa squallida campagna di speculazione su una vicenda giudiziaria ancora agli esordi, cui prodest? A chi giova? Non certo ai bambini. Nè a quelli vittime degli abusi – che per oltre il 70% avvengono in famiglia – né ai bambini presunte vittime degli errori del sistema di affidamento. A decidere non saranno né i social né le invocate «indagini giornalistiche», ma la magistratura.

Commento di Alessandra Ghilardini: Questo sotto è una parte di quello che scrivevate nel non tanto lontano 31 luglio 2016...definendo l'unione val d'Enza una lavatrice sana....quindi non mi stupisco ora la vostra improvvisa prudenza e ritrosia nel commentare anni di abusi perpetrati da chi voi esaltavate come la soluzione ai problemi di quella "cattivona" (mio aggettivo) modello di famiglia patriarcale così definito da quella brava professionista Federica Aghinolfi.

"La Val d’Enza. C’è un posto in Italia dove la lotta alla pedofilia è una priorità assoluta. E i risultati si vedono. È un fazzoletto di terra in provincia di Reggio Emilia dove gli otto comuni della Val d’Enza - 62mila abitanti, 12mila minorenni, 1900 in carico ai servizi , 31 seguiti per abusi sessuali - hanno costituito un’Unione guidata dal sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, per tutelare i minori. E magari cambiare anche la testa di chi non vede il problema. «Abbiamo fatto rete e lavoriamo con operatori specializzati capaci di dare risposte rapide. La variabile tempo è decisiva», dice Carletti. È seduto di fianco al medico legale Maria Stella D’Andrea e all’assistente sociale Federica Anghinolfi. «Noi la volontà politica l’abbiamo avuta. E nonostante i tagli abbiamo anche trovato i soldi». Come li hanno spesi? Facendo formazione sugli operatori per renderli in grado di leggere in anticipo i segnali di malessere, spesso aspecifici, dei bambini, rivalutando la figura dell’assistente sociale, lavorando con gli ospedali e con le scuole e appoggiando in modo esplicito le vittime della violenza. Ad esempio costituendosi parte civile in un processo contro una madre che faceva prostituire la figlia dodicenne. Favoloso. Ma i soldi? «Abbiamo cercato di ricorrere meno alle comunità (che pure sono fondamentali) dove per seguire un bambino servono 50mila euro l’anno. E abbiamo incentivato il ricorso agli affidi, che costano molto meno». Le idee. Un piano capillare. La professionalità degli operatori. «Per noi è decisiva la riumanizzazione delle vittime. E per questo servono empatia e competenze specifiche. Ma sa quanti sono i corsi di laurea, a medicina o a psicologia, che prevedono la materia: “vittime di violenza”? Zero», dice Maria Stella D’Andrea, che chiede al governo interventi non solo teorici. La legge di Stabilità del 2016 ha previsto, ad esempio, un “percorso di tutela delle vittime di violenza” rimandando a un decreto della presidenza del consiglio la definizione delle linee guida. Ma il decreto non è mai arrivato. E anche se arrivasse ci sarebbe la garanzia della sua applicazione? Dubbio legittimo. «Dal 2001 la legge prevede l’obbligo per il sistema sanitario di mettere a disposizione delle vittime uno psicoterapeuta. Ma, mancando i soldi e mancando una visione, mancano anche gli psicoterapeuti. Però tutti zitti. In questo Paese è ancora troppo forte l’idea della famiglia patriarcale padrona dei figli», dice Anghinolfi. Così in provincia di Reggio insistono con il fai da te. E a settembre, grazie anche alla consulenza del centro studi Hansel e Gretel di Torino, apriranno un Centro di Riferimento per minori che garantirà formazione, tutela, ascolto e assistenza. Venite qui, vi diamo una mano. Il sistema? Lo chiamano “riciclo delle emozioni”. Come se i bambini finissero dentro una lavatrice sana e cominciassero a lavarsi dentro. Ora, il modello degli otto comuni dell’Unione Val d’Enza è lì, basta allungare una mano e prenderlo. Interessa?"

Non è più tollerabile. Luca Bottura il 21 luglio 2019 su La Repubblica. Ameno stavolta. Filippo Neviani in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt’ora nella lista dei crimini contro l’umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato al gusto Puffo. Successivamente prestò la sua immagine a una campagna contro la droga condotta fianco a fianco dell’allora ministro Giovanardi e di un cane poliziotto. Il cane cominciò a drogarsi di lì a breve. Non stupisce che ieri abbia pubblicato sui social un post indinniato sulla vicenda di Bibbiano, l’indagine su presunte sottrazioni di minori nel Reggiano, corredata da uno striscione in caratteri postfascisti nel quale si attribuisce al Pd il ratto dei piccoli. Quella di Nek viene subito dopo la presa di posizione social di Laura Pausini, a sua volta desiderosa di squarciare la coltre di silenzio su un evento di cui parlano tutti dacché è emerso, e di Enrico Ruggeri, che l’altro giorno accusava Zingaretti di aver preso i rubli prima di Salvini. Successivamente, la Pausini è stata ripresa dal sottosegretario contro gli Interni, Sibilia, mentre a Nek è toccato il retweet di Giorgia Meloni. La domanda sorge spontanea: ma il povero Povia, che il sovranista da pentagramma lo faceva quando non era ancora così di moda, sarà contento di vedere tutta ‘sta gente sulla Lada dei vincitori?

“E allora Bibbiano?”: Pd, media, movimento lgbt nel mirino dei complottisti da social. La macchina dell'odio che specula sull'inchiesta "Angeli e demoni" di Reggio Emilia si è riattivata alcuni giorni fa, dopo le parole del vicepremier Di Maio. E cerca di saldarsi all'indagine statunitense sul miliardario Jeffrey Epstein. Segnalato un utente che ha minacciato di morte il deputato dem Andrea Romano. Simone Cosimi il 19 luglio 2019 su La Repubblica. L’operazione è stata certificata dal vicepremier Luigi Di Maio. Intervistato sugli scenari politici, in merito a un possibile accordo di governo col Pd ha spiegato che il M5S non avrebbe mai fatto un’alleanza “con il partito di Bibbiano”. In risposta, i dem hanno annunciato una querela al ministro dello Sviluppo economico. Non era una dichiarazione campata in aria. Da qualche giorno l’implacabile macchina della calunnia si è messa in moto sui social network, dove l’inchiesta "Angeli e demoni" sul sistema illecito di gestione dei minori in affido in Val d’Enza, secondo l’accusa strappati alle famiglie con manipolazioni e pressioni e assegnati ad altri nuclei, viene da giorni sfruttata come stigma con cui screditare e attaccare il Partito democratico. E non solo. Il gancio è con l’ormai ex sindaco sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, indagato per abuso d’ufficio e falso ideologico. Secondo i pm avrebbe saputo del sistema e avrebbe deciso, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, “lo stabile insediamento di tre terapeuti privati della Onlus Hansel e Gretel all’interno dei locali della struttura pubblica ‘La Cura’”. Sui social il topic "Bibbiano" è montato in questi giorni come una gelatina in cui avvolgere una nuova campagna d’odio dalle mille facce. Davvero una delle più scivolose degli ultimi tempi. Passando anche dalle parole del vicepremier, che il 18 luglio in diretta Facebook ha detto: "Col Pd non ci voglio avere nulla a che fare, con il partito di Bibbiano che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli non voglio averci nulla a che fare e sono stato in questo anno quello che più ha attaccato il Pd". Centinaia di post, articoli e meme (alcuni raffiguranti personaggi come Roberto Saviano, Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Fabio Volo o Laura Boldrini con la mano sulla bocca, rei di aver censurato il tema) hanno nel corso dei giorni mescolato il fatto a mille altri cavalli di battaglia del sovranismo e populismo digitale, transitando da siti come VoxNews.it, dalle galassie social sovraniste – come l’intervento del consigliere di Ostia di CasaPound, Luca Marsella - fino a eventi reali. Come quello di ieri organizzato da Fratelli d’Italia con ospite Alessandro Meluzzi che in un video rilanciato da Giorgia Meloni (fra gli account più attivi per l’hashtag #Bibbiano insieme a quello di Francesca Totolo, collaboratrice del Primato nazionale, il sito di CasaPound, e di @adrywebber) spiega che “il caso di #Bibbiano è solo la punta dell'iceberg”. Dalla teoria gender alla “campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale”, come si legge in altri post, tutto – secondo l’intossicazione in corso – è coperto dal Pd che avrebbe lanciato il diversivo del Russiagate “divulgato provvidenzialmente dopo #Bibbiano, lo scandalo del #Csm e quello della sanità in Umbria” come scrive Totolo in una battaglia che nella mattinata di venerdì l’ha contrapposta all’eurodeputato Pd Carlo Calenda, che è ripetutamente intervenuto per tentare di contrastare la campagna d’odio e disinformazione. Perché Bibbiano è diventato ormai il ritornello con cui un ristretto ma agguerrito gruppo di account risponde a qualsiasi post o contenuto, specialmente se pubblicato da esponenti Pd o giornalisti. La “world cloud” delle parole più usate in quei contenuti e in quelle risposte è composta da “bambini”, “scandalo”, “caso”, “fatti”, “famiglie”, “attenzione” e poi “minori”, “inchiesta”. C'è chi si è spinto oltre: Andrea Romano, deputato del Partito democratico, ha segnalato alla polizia di aver subito minacce di morte su Twitter dall'utente @VincenzoMoret17 per la vicenda del presunto screzio con la deputata dei 5 Stelle Francesca Businarolo. La vicenda è slegata da quella di Bibbiano, ma l'utente ha twittato le sue minacce usando l'hashtag #Bibbiano. Gli hashtag che raccolgono le diverse articolazioni della campagna sono #Bibbiano e #BibbianoPD. Anche se a scavare bene, il primo a muovere le truppe dell’odio è stato uno ben più pesante: #PDofili, decollato dal 27/28 giugno, per esempio col tweet di  @alberto_rodolfi in risposta a Matteo Orfini o di @ValeMameli. Il più condiviso è stato quello di @PiovonoRoseNoir, il cui si dice che “da oggi non sono più #PDioti ma #Pdofili. Hanno fatto il salto di qualità le merde”. A firmare i contenuti, a conferma di squadriglie piccole ma agguerrite, sono stati 2.600 utenti per 6.200 post fra tweet e retweet. Ma solo poco più di 400 utenti hanno postato un contenuto originale. Nonostante si sia ormai spento da giorni, anche per i timori di querela traslocando #BibbianoPD, è ancora ricco di orrori di ogni genere. Ne escono collage fotografici con i personaggi citati sopra, e altri come Lucia Annunziata, la senatrice Monica Cirinnà o la nostra giornalista Federica Angeli, e la frase “Tutti muti su Bibbiano”. Contenuti fuori da ogni senso e contesto come vecchi spezzoni di video in cui Matteo Renzi elogiava il sistema degli asili nido di Reggio Emilia o di un bambino disperato perché separato dal padre ma, come ha svelato Open, attribuibile a un’altra situazione in Sardegna di due anni fa. E ancora, orribili vignette con protagonisti bambini sottoposti a sevizie elettriche, ritornelli contro il “silenzio dei media”, che in realtà stanno coprendo approfonditamente il caso, e sul “sistema che ruba i bambini”. Non basta. Negli ultimi giorni sembra essersi saldato anche un ponte digitale con le vicende che negli Stati Uniti hanno portato in carcere il miliardario Jeffrey Epstein, ex amico di Bill Clinton, del principe Andrea, duca di York, ma anche di Donald Trump, accusato di sfruttamento sessuale dei minori fra 2002 e 2005 e che ora rischia fino a 45 anni di carcere. Alcuni tweet (basta scorrere quelli dell’utente @DPQ87968970) tentano di trapiantare quella vicenda, innestandola sul tessuto dell’inchiesta italiana di Bibbiano e simili, con un obiettivo: avvalorare la folle tesi di un sistema internazionale, una specie di Spectre per cui la pedofilia è uno strumento per tenere sotto controllo politici e le mosse dei governi. L’hashtag è, non a caso, #PedoGate e raccoglie fra l’altro riferimenti ai più diversi casi di cronaca del passato, anche italiano, che ovviamente non hanno alcun collegamento l’uno con l’altro. Ricapitolando, gli hashtag più utilizzati su Twitter – che è il canale principale su cui si sta squadernando l’operazione – sono #bibbiano, #bibbianopoli (che sta decollando proprio in queste ore, quasi in contrapposizione a Moscopoli), #bibbianopd (su cui tuttavia poco meno 300 profili nell’ultima settimana hanno pubblicato post originali, il più popolare è l’elogio degli asili nido di Renzi, nel 2012, il secondo più diffuso è del deputato 5 Stelle Massimo Baroni che rilancia il meme con Saviano e gli altri accomunati dalla scritta “Bibbiano”), #bibbianonews, in ordine decrescente di utilizzo. In una decina di giorni, tutti i contenuti sul tema, sempre rimanendo al social dell’uccellino, sono circa 78mila. Non c’è nulla di casuale: il numero relativamente basso delle utenze più attive coinvolte e il loro schema d’azione – quasi sempre risposte a post del Pd e di altri – racconta dell’ennesima operazione coordinata. Sono infine dati e tendenze che dimostrano la reale capacità di influenzare e raggiungere altri utenti perché non includono gli utenti o i contenuti” nascosti” da Twitter in quanto offensivi o dannosi secondo gli ultimi aggiornamenti delle regole della piattaforma.

Quelle bufale crudeli sulla pelle dei bambini. Angela Azzaro il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini. Nei giorni scorsi sui social girava un messaggio che accusava l’informazione di aver oscurato il caso di Bibbiano. Era un post molto sentito, molto emotivo. E diceva una marea di fesserie. In primo luogo l’accusa rivolta a giornali e tv. Se c’è infatti un caso che ha avuto una risonanza immediata, e fuori luogo, è stato proprio quello dell’inchiesta sull’affido di alcuni minori. Il commento, condiviso da migliaia di persone, faceva riferimento a centinaia di bambini strappati ingiustamente alle loro famiglie. L’inchiesta di Bibbiano, chiamata dalla procura “Angeli e demoni” a uso e consumo del processo mediatico, in realtà riguarda solo 6 casi. Ma l’opinione pubblica, abilmente strumentalizzata, ha già deciso che le persone coinvolte nell’inchiesta a vario titolo siano mostri, persone orribili che andrebbero più che processate mandate alla ghigliottina. La stessa sorte che è toccata al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti: coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di abuso di ufficio e falso in atto pubblico è invece diventato, anche grazie alle dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio, il simbolo di un sistema corrotto con cui invece non c’entra nulla anche per la procura. Bene ha fatto il Pd di Zingaretti a querelare per diffamazione il vicepremier dei 5 Stelle. Ma forse anche il Partito democratico avrebbe dovuto non solo rifiutare qualsiasi accostamento tra l’inchiesta e il proprio simbolo, ma dire che un’inchiesta non è una condanna e che soprattutto su temi così delicati bisognerebbe essere molto, ma molto cauti. Così non è stato. La conferenza stampa organizzata dalla procura di Reggio Emilia è diventata subito spettacolo, titoli sparati a tutta pagina. Si voleva l’orrore, il sangue, e si è fatto di tutto per costruirlo. Emblematici i titoli sul cosiddetto elettrochoc, in realtà un macchinario – riconosciuto dalla comunità scientifica – che non infligge scosse al paziente, ma emette suoni e vibrazioni che servono a stimolare i ricordi. Bastava leggere le carte. Ma in pochi anche nelle redazioni lo hanno fatto. Per chi ha avuto la pazienza di visionare le 270 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare la decisione del riesame di scarcerare Claudio Foti non è una sorpresa. Ma paradossalmente i giudici si basano sui fatti. Il processo mediatico no. E sarà difficile far cambiare idea a un’opinione pubblica sempre alla ricerca di qualcuno da linciare. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini: «Mi sento incazzata e impotente», ha scritto chiedendo ai suoi fan di prendere posizione. Una volta che si è creato il mostro è difficile rinunciarci.

Commento di Andrea Battoccolo: Allora spiegatemi una cosa: parlate di risonanza immediata: appena venuta fuori la notizia ho visto i TG che ne anno parlato per circa 2 giorni, poi personalmente non ho più visto niente, se no qualche piccolo riassunto sulle notizie precedenti. Che si tratta solo di 6 casi lo sento ora da voi, e personalmente non ci credo,dico personalmente perché più che un idea personale non posso farmi visto che i media tradizionali non ne parlano e le notizie che si trovano in rete vanno prese con le pinze giustamente. Allora perché non la fate voi informazione,no voi state zitti per 2 settimane, poi ve ne uscite accusando di infamia chi accusa i responsabili di questo schifo, tanto non imparerete mai, ma la storia del forteto la gente se la ricorda, parlate di andare cauti, io parlo di giustizia e TRASPARENZA. Se volete essere credibili la prostima volta non state in silenzio per 2 settimane perché così mi sembrate più insabbiaturi che giornalisti. Buonasera merde! No, giusto per dire...Era il 2013 su canale 5 quando Morcovallo già denunciava che era un sistema e non un un caso isolato, io non so se sarebbero indagati solo su 6 casi ( mi pare strano visto il giro di soldi che porta)mi interessa sapere in quanti altri posti succede Sto schifo, mi interessa sapere perché nel 2013 non è esplosa una bomba di fronte tali affermazioni e in fine mi interessa sapere quanta codardia e servilismo servono per starsene zitti 2 settimane( parlo in generale perché è il secondo articolo che vedo a difesa degli indagati dopo 2 settimane di puro silenzio) e uscirvene difendendoli, siete fantastici. VOI e chi vi sostiene NON CONOSCETE VERGOGNA E RISPETTO PER LE VITTI “Allora Bibbiano?” è il nuovo tormentone della “guerriglia culturale” di Vox&Co.

Bibbiano, insulti "rossi" su Nek "Tue canzoni come Hiroshima". Bottura su Repubblica punta il dito contro Nek che ha chiesto verità su Bibbiano. Il cantante "massacrato" per le sue canzoni. Angelo Scarano, Lunedì 22/07/2019 su Il Giornale. Nek ha chiesto la verità sul caso Bibbiano e per questo motivo è finito nel mirino della stampa di sinistra. Non si spiega altrimenti l'attacco di Repubblica, a firma Luca Bottura, contro il cantante che qualche giorno fa si è esposto sui social proprio sul caso che riguarda i bimbi tolti alle loro famiglie per essere affidati ad altre coppie. Non si tratta di una voce isolata. Anche Laura Pausini ha chiesto la verità su quanto accaduto. Ma a sinistra hanno già messo per bene nel mirino Nek. Le sue parole sono state fin troppo chiare, parole di un padre: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Nessuna polemica, solo la richiesta di dare voce a questa vicenda sui cui è in corso un inchiesta. A quanto pare però l'appello di Nek che è stato condiviso da tutti suoi fan e non solo, non è stato digerito a sinistra. Ed ecco qui che arriva il livore. Nel suo pezzo Botturaparla con questi toni di Nek: "Filippo Neviani, in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l'umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo". Un vero e proprio assalto al cantante che viene colpito con un giudizio (molto) discutibile sulla sua carriera e sul suo stile musicale. A prendere le difese di Nek è stato Salvini che su Facebook ha commentato così le parole di Bottura: "Non avevamo dubbi che una certa sinistra avrebbe subito messo Nek tra i “cattivi” per aver denunciato gli orrori di Bibbiano, nonostante lui con la politica non c’entri nulla e si sia permesso di fare solo un ragionamento da papà. Non si smentiscono mai". Insomma la colpa di Nek è forse quella di aver alzato il velo su una storia, come quella di Bibbiano, che merita luce e verità in tempi rapidi? A quanto pare porsi alcune domande può essere pericoloso. Sulla strada si può incontrare anche chi paragona una tua canzone ad una tragedia come quella di Hiroshima...

Bibbiano, Nek e Pausini veri megafoni del popolo. Paolo Giordano, Lunedì 22/07/2019, su Il Giornale. Ci risiamo. Il pop torna a smuovere la politica, a infiammare l'opinione pubblica, a dividere le opinioni. Finita senza rimpianti l'epoca dei cantanti ideologici (quelli che poi si trovavano al Festival de l'Unità, per intenderci) adesso ci sono artisti che rilanciano casi di cronaca e lo fanno a prescindere dal partito di appartenenza. Laura Pausini e Nek, per esempio, o Mietta subito dopo. Per venti giorni le indagini sul presunto giro illecito di affidi di bambini a Bibbiano (16 misure cautelari e 29 indagati) avevano volato basso nell'informazione, scatenando più che altro qualche baruffa social, ma niente più. E dello psicoterapeuta Claudio Foti o del sindaco Andrea Carletti parlavano soltanto i vicini di casa e gli avvocati, anche se il primo cittadino Pd è ai domiciliari per falso e abuso d'ufficio. La cronaca è così ingolfata da pinzellacchere e bagattelle, da casi di penoso glamour o ridicola politicanza da perdere per strada talvolta le questioni di reale importanza. Come questa. Ci hanno pensato per primi due artisti che con la politica non hanno mai avuto a che fare ma che stavolta sono «scesi in campo» muovendo le opinioni dei loro fan, che sui social sono milioni. «Non sentite di avere nelle mani degli schiaffi non dati?», ha scritto per prima Laura Pausini alla propria maniera verace e sincera: «Questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese e dovrebbe essere la notizia vera di cui tutti parlano schifati». Prima botta da migliaia di like. Poi è arrivato Nek, un altro che non si è mai schierato con la politica ma solo con il buon senso: «Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell'agghiacciante vicenda di Bibbiano». Missione raggiunta. Non soltanto Salvini e Di Maio hanno parlato della questione, ma pure i social hanno fatto il proprio mestiere, dividendosi tra favorevoli e contrari ma comunque dando un segnale di grande interesse. Insomma, più o meno come altri loro colleghi tanti anni fa, anche Pausini e Nek hanno dato la scintilla all'opinione pubblica, si sono schierati, hanno preso evidentemente una posizione. Rispetto agli anni '70 e '80, oggi gli artisti si spendono per questioni vere, non per vertenze ideologiche. E perciò, da genitori, Pausini e Nek hanno richiesto maggiore chiarezza sui fatti di Bibbiano. Suscitando immediata risposta ai piani alti. A conferma che gli artisti pop sono ancora autentici megafoni del sentimento popolare.

Mannoia sbotta per Bibbiano: "Volete screditare l'avversario". Fiorella Mannoia attacca Sibilia per aver condiviso l'appello per Bibbiano della Pausini. Ed è scontro sui social. Angelo Scarano, Mercoledì 24/07/2019 su Il Giornale. La vicenda di Bibbiano da qualche giorno si è intrecciata con il mondo della musica italiana. Diversi cantanti, tra questi in prima fila ci sono Nek e Laura Pausini. Tutti e due sono finiti nel mirino del web solo per aver chiesto luce e verità su una vicenda, quella dei presunti affidi illeciti, che ha parecchi lati oscuri. Proprio ieri la Pausini è intervenuta sul caso per ribadire la sua posizione e per sottolineare che non ha lanciato un appello per "sentirsi dire brava" ma per richiamare l'attenzione su quello che avrebbero passato questi bambini. Ma c'è un'altra voce che fa parecchio discutere, quella di Fiorella Mannoia. La cantante "rossa" ha avuto un battibecco con il sottosegretario agli Interni, Carlo Sibilia proprio sui fatti di Bibbiano. La Mannoia non ha usato giri di parole e ha attaccato il grillino che ha chiesto di far luce sulla vicenda: "Lo vedete come fate? State strumentalizzando qualsiasi cosa per motivi politici. Cantanti, bambini... Ma non vi vergognate? La faccenda di Bibbiano è grave e seria. Smettetela di strumentalizzarla, i bambini e le famiglie non lo meritano. Che sia fatta luce su questo schifo al più presto". La Mannoia non ha digerito il post di Sibilia che condividendo una foto di Laura Pausini ha di fatto ringraziato chi in questi giorni ha cercato di tenere alta l'attenzione su un caso come questo. E così il grillino ha immediatamente replicato alle accuse della Mannoia: "Mi sono limitato a ringraziare chi ha scritto pensieri che condivido. Sono pubblici. Ho condiviso e ringraziato. Perché sono (momentaneamente) un politico dovrei smettere di ringraziare, retwittare, vivere? Ognuno faccia la sua parte per fare luce su questo schifo. Non dividiamoci". Ma di fatto la Mannoia non ha digerito la risposta del pentastellato ed è passata nuovamente al contrattacco contestando la posizione del sottosegretario e mettendo in discussione il suo appello: "State attaccando il cappello su questa storia triste approfittando per screditare l’avversario, fatelo su tutto, ma non sui bambini. Se veramente vogliamo stare uniti smettiamola di farne un caso politico. È un triste caso umano sul quale si deve fare luce". Insomma sul caso pian piano si sta sviluppando una polemica feroce che riguarda sia il mondo della politica che quello dello spettacolo. E probabilmente lo scontro non finirà in tempi brevi. L'indagine in corso prosegue e a quanto pare il caso Bibbiano resta un nervo scoperto per il Pd che ha protestato duramente per la visita di Salvini nel centro dell'Emilia-Romagna finito sotto i riflettori.

SU BIBBIANO È VIETATO ESPRIMERSI. Francesco Borgonovo per “la Verità” il 24 luglio 2019. Grazie all'odiosa vicenda di Bibbiano gli italiani hanno finalmente la possibilità di comprendere come funzioni la cultura progressista. Una regola imposta da tale cultura è la seguente: gli artisti che si interessano a temi sociali vanno benissimo, ma solo se i temi sociali sono quelli graditi alla sinistra. In caso contrario, gli artisti in questione meritano dileggio, insulti e attacchi feroci. A questo proposito ci sono tre casi emblematici che meritano di essere approfonditi. Partiamo da quello di Laura Pausini, la prima a esporsi con enorme coraggio sulla Val d' Enza. La cantante, con un post su Facebook, ha richiamato l' attenzione su quanto sta accadendo a Bibbiano e dintorni, e ha notato che la gran parte dei media sta cercando di insabbiare tutto. Come prevedibile, con quell' intervento la Pausini si è attirata un fiume di critiche. Così ha deciso di tornare sul tema: «Questo messaggio è per i bambini. Non lo faccio né per farmi insultare né per farmi dire brava. Qui c' è solo da fare qualcosa subito e da far sapere a tutti coloro che perdono tempo a scrivere cazzate, che c' è una notizia gravissima con cui dobbiamo fare i conti», ha scritto. E ha aggiunto: «Ecco chi ha bisogno di sfogarsi, stavolta utilmente, tiri fuori la voce per parlare di questo scandalo». La Pausini, purtroppo, non è stata l' unica a finire alla gogna per aver parlato di Bibbiano. La stessa sorte è toccata anche a Nek. Pure lui ha deciso di esporsi pubblicamente con un messaggio accorato: «Sono un uomo e sono un papà», ha scritto. «È inconcepibile che non si parli dell' agghiacciante vicenda di Bibbiano. Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre... E non se ne parla. Ci vuole giustizia!!». Tanto è bastato per attirargli l' astio del progressista medio internettiano. Come se non bastasse, contro Nek si è scatenata pure Repubblica, tramite la penna di Luca Bottura, uno che, dopo decenni di carriera, continua a confondere la satira con la spocchia. Con la consueta sicumera, Bottura ha rivolto a Nek un corsivo feroce: «Filippo Neviani, in arte Nek, esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l' umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo». Mascherata dietro un' ironia degna delle peggiori scuole medie, c' è l' accusa infamante: Nek ha commesso un crimine contro l' umanità perché ha scritto una canzone a favore della vita, dunque merita di essere sbertucciato e insultato. Già: i temi pro life, le battaglie su Bibbiano o sul gender sono ridicole. Non meritano altro che sberleffi e sputi. Esattamente come quelli che sono piovuti addosso a Ornella Vanoni, celebratissima icona della musica italiana. Di solito, quando la si cita, ci si leva il cappello. A meno che, ovviamente, non si occupi di temi sgraditi all' intellettuale unico progressista. La Vanoni ha scritto quanto segue: «È mostruoso ciò che è accaduto a Bibbiano. Questi bambini hanno perso l'infanzia, come tanti ormai nel mondo, e sono rovinati per sempre. Non sono pupazzi che si possono spostare da una famiglia all'altra. Queste persone dovrebbero andare in galera senza processo». In men che non si dica sulla cantante hanno cominciato a piovere pietre, sotto forma di offese via Web. C' è chi l' ha accusata di non essersi siliconata il cervello, chi la descrive come una vecchia rimbambita e altre amenità dello stesso tenore. Persino alcuni quotidiani online si sono accodati, accusandola di aver utilizzato toni troppo duri e di aver invitato a condannare gente senza prima averla processata.

Tre casi diversi, stesso trattamento. Morale: se un artista si impegna in una causa politicamente scorretta, gli tocca il linciaggio. In realtà, nelle parole della Vanoni, della Pausini e di Nek non c' è alcun riferimento politico. C' è solo il caro, vecchio e troppo spesso dimenticato buon senso. C' è la rabbia del genitore (o del figlio, del fratello, del semplice osservatore) davanti a uno scandalo che grida vendetta e di cui nessuno si è interessato se non per difendere i presunti colpevoli. Ma nemmeno una normalissima manifestazione di umanità viene tollerata: su Bibbiano è vietato esprimersi. A meno che non lo si faccia per difendere il Pd.

Rita Dalla Chiesa parla di Bibbiano E finisce nel mirino degli haters. Dopo Laura Pausini, Nek e Ornella Vanoni, ora anche Rita Dalla Chiesa parla di Bibbiano. Ed è subito polemica. Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019, su Il Giornale. Laura Pausini, Nek, Ornella Vanoni e ora, anche Rita Dalla Chiesa. La giornalista dice la sua sul caso Bibbiano e, anche per lei, è pioggia di insulti sui social. Ad innescare la polemica è stato un tweet del giornalista di Rai3 Massimo Bernardini che attacca il ministro degli interni, Matteo Salvini, sul caso degli affidi illeciti emerso dall’inchiesta della Procura di Reggio Emilia. “Prima le Ong adesso le famiglie affidatarie e i servizi sociali: l’offensiva di Matteo Salvini contro i corpi intermedi che fanno sussidiarietà è grave e senza precedenti. Nella furia della polemica politica sta demolendo la credibilità di interi pezzi di società.” Scrive Bernardini, che esorta la replica del vicepremier: “Urge risposta”. A schierarsi dalla parte di chi tiene accesi i riflettori sullo scandalo di “Angeli e Demoni” è invece la conduttrice Rita Dalla Chiesa. Che commenta: “Perché pensi che sia solo una battaglia politica? Allora anche il vostro silenzio lo è… Qui si parla di bambini, ci sono le prove, ci sono famiglie distrutte, sappiamo tutti che non sempre gli assistenti sociali si comportano in modo eticamente corretto. Riflettiamoci.” Ma come era già successo nei giorni scorsi con i big della musica, attaccati a suon di insulti dal popolo dei social, anche per la giornalista non mancano le critiche: “Da quando sei diventata leghista? Pensavo che fossi una persona affidabile”, commentano i followers. Mentre il leader della Lega prende le sue parti, esprimendo solidarietà a Rita Dalla Chiesa tramite una foto postata sul suo profilo instagram: “Solidarietà a Rita Dalla Chiesa, riempita di insulti in rete perchè ha osato rompere il muro di omertà su Bibbiano". La prima a parlare di Reggio Emilia, finendo nella bufera tra i commenti degli haters, era stata Laura Pausini. E, nonostante le polemiche, scaturite per il suo appello a tenere alta l’attenzione sulla vicenda, la cantante continua a difendere la sua battaglia tramite Facebook: “Ho chiesto di non strumentalizzare le mie parole NON sono un messaggio politico. Come NON lo erano quelle dedicate ai bambini morti nei barconi. Sto dalla parte dei bambini. Sempre.” Il caso Bibbiano continua a dividere e a fare polemica. Mentre le famiglie e i bambini restano in attesa di avere giustizia.

Alessandro Borghese chiede verità e giustizia per i bambini di Bibbiano. Lo chef più amato della tv lancia una petizione sui social per chiedere una Commissione di Inchiesta sugli affidi illeciti nel comune emiliano. Alessandro Zoppo, Mercoledì 31/07/2019, su Il Giornale. Alessandro Borghese si è aggiunto alla schiera di volti noti del mondo dello spettacolo che hanno voluto esprimersi sul caso Bibbiano, l’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi dei minori nel comune in provincia di Reggio Emilia che è diventata un caso politico nazionale. Lo chef più amato della tv ha usato i social per sostenere la petizione #MaiPiùBibbiano, che chiede una seria riforma degli affidi dei minori in Italia. “Never again!”, il messaggio di Borghese, affidato ad una foto che racconta lo choc provocato dal venire a conoscenza della storia dei bambini di Bibbiano. La petizione, lanciata dal Moige (il Movimento Italiano Genitori) sul sito ufficiale della onlus, chiede l’attivazione di una Commissione di Inchiesta che faccia luce sulle responsabilità dirette e indirette e sulle eventuali complicità degli amministratori locali.

Alessandro Borghese appoggia il Moige sul caso Bibbiano. Il Moige chiede inoltre al Parlamento italiano una modifica sostanziale al “sistema degli affidamenti dei minori, mettendo al centro il diritto del bambino a stare con i suoi genitori e rafforzando le verifiche e i controlli indispensabili per la tutela puntuale del minore”. “Il rapporto mamma-figlio-papà – si legge nel documento presentato dal Moige – va tutelato, protetto e salvaguardato con il massimo rigore e per questo chiediamo a gran voce al Parlamento italiano una riforma delle norme che regolano gli affidi dei minori, prevedendo, modalità chiare e stringenti unite a severe verifiche delle professionalità e dei potenziali conflitti di interesse”. Boghese è soltanto l’ultimo tra i tanti attori, cantanti e personaggi tv che si sono espressi, prendendo una posizione netta su un caso che presenta diversi lati oscuri. Prima del noto chef star del piccolo schermo, erano stati Nek, Rita Dalla Chiesa, Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni e Laura Pausini ad affrontare la vicenda, scatenando spesso e volentieri violenti scontri verbali e insulti a pioggia sui social.

L'ipocrisia progressista su Bibbiano. Karen Rubin, Sabato 27/07/2019, su Il Giornale. «Non venire sarebbe stato molto peggio perché è necessario che le istituzioni siano presenti». Si espresse così Laura Boldrini in visita a Fermo quando Amedeo Mancini fu arrestato per l'omicidio di Emmanuel Namdi. Al funerale c'erano la Boldrini, Sassoli, la Kyenge e per il governo Renzi presiedeva Maria Elena Boschi. Al cospetto della Rackete su una nave Ong, di fronte alle telecamere c'erano Orfini, Delrio e Fratoianni. Una passarella antirazzista funzionale al proprio elettorato dal momento che nessuno di loro era presente né quando a Palagonia fu sterminata una coppia di italiani da un ivoriano né quando furono assassinate Pamela Mastropietro da un nigeriano e Desiree Mariottini da tre nordafricani. Se invece Salvini va in visita a Bibbiano non si tratta più della presenza dello Stato ma della strumentalizzazione di un caso di cronaca su cui esigere silenzio. Un atteggiamento da due pesi e due misure. Dall'inchiesta su Bibbiano emerge un abuso di potere che impressiona come un traffico di organi ma siccome il sistema welfare utilizzato nel reggiano era quello sostenuto dalla sinistra si cerca di stendere un velo pietoso su agiti che hanno provocato indicibili sofferenze a molte famiglie. Sui bambini dei comuni della Val d'Enza è stata usata una stimolazione elettronica che non è l'elettroshock ma non è neanche una terapia standardizzata e considerata la più sicura allo stato dell'arte. Queste stimolazioni sono associate ad una tecnica psicoterapica, l'Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), che si prefigge lo scopo della rielaborazione di vissuti traumatici attraverso la stimolazione del cervello. In Italia è una tecnica usata da poco e sulle stimolazioni elettroniche si conosce poco o niente. Fatto è che si sono presi dei bambini che avrebbero subito un abuso, li hanno stimolati affinché rievocassero un abuso ipotizzato. Tutto questo senza il consenso dei genitori, messo in atto da una Onlus, la Hansel e Gretel. Una bambina sottratta alla sua famiglia è stata data in affidamento ad una coppia di lesbiche da una dirigente dei servizi sociali, attivista Lgbt, che con una delle donne era stata legata sentimentalmente: forse non è un conflitto di interesse ma fa pensare ad una sorta di risarcimento. La sinistra invece di invocare il silenzio di Salvini dovrebbe dare una risposta sul perché il comune gestito da un loro sindaco abbia assegnato ad una attivista Lgbt i servizi sociali e la tutela di minori che dovrebbero essere protetti da tutte le ideologie.

Lo sfogo della Cuccarini: "Fate luce su Bibbiano alla faccia di chi ci insulta". Anche Lorella Cuccarini prende parte a quel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo che esige la verità su Bibbiano. Anna Rossi, Sabato 03/08/2019 su Il Giornale. Lo scandalo degli affidi illeciti di Bibbiano ha sconvolto l'opinione pubblica. L'inchiesta Angeli e Demoni fa davvero rabbrividire. E ora, anche i personaggi del mondo dello spettacolo alzano la testa e vogliono la verità. La esigono. La prima a farsi sentire è stata Laura Pausini. "Ho appena letto un articolo e sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni - ha scritto sui social la cantante romagnola -. Mi sento incazzata, fragile, impotente. Ho deciso di cercare questa storia, perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo. Cosa si può fare? Come possiamo aiutare?" E al suo grido di rabbia si è unito anche Nek. L'artista non ci sta, non può stare zitto di fronte a questo scempio. "Sono un uomo e sono un papà - commenta anche lui su Facebook -. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia". Ma i loro appelli hanno scatenato tutta la sinistra rossa che si è rivolta a loro con parole d'odio, immediatamente condannate da Matteo Salvini. Il ministro, anzi, ha personalmente ringraziato questi artisti per essersi interessati a un tema così delicate e al contempo forte. Diversi, quindi, i cantanti e i personaggi del mondo dello spettacolo che chiedono giustizia. E a questi si aggiunge anche Lorella Cucccarini. Intervistata da La Verità sfoga tutta la sua rabbia. "I miei su Bibbiano sono sentimenti condivisi. [...] E insieme alla nostra gente penso a quello che è accaduto a Bibbiano e mi domando com'è possibile. Se fosse successo a me di patire ciò che hanno dovuto subire quei poveri genitori forse sarei morta di dolare oppure avrei reagito come una belva". "La Anche Lorella Cuccarini prende parte a quel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo che esige la verità su Bibbiano su Bibbiano deve uscire tutta - dice - e abbiamo diritto di sapere se quello era un sistema ristretto o se è successo anche in altre parti d'Italia. [...] Quella di Bibbiano è una barbarie assoluta e io sto con loro, sono una di loro. Noi mamme sappiamo cosa significa anche solo la remotissima possibilità che ti possano togliere un figlio: è un incubo, uno strazio, un dolore anche solo immaginarlo. Posso dirlo? Non ne posso più del politicamente corretto. È ora che noi che abbiamo un dialogo col pubblico facciamo sentire la nostra opinione al di là delle convenienze ed è anche ora di smetterla di pensare che i giudizi della rete siano oro colato. Basta fare come me: fregarsene. Mi raccomando voi continuate: andate fino in fondo".

Da Alessandro Borghese a Milly Carlucci: si allarga il fronte “Mai più Bibbiano”. Carlo Marini giovedì 1 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Si allarga il fronte di associazioni e cittadini che pretendono chiarezza sullo scandalo degli affidi in provincia di Reggio Emilia. A questo proposito, in queste ore il Moige ha lanciato la petizione on line Mai più Bibbiano. «È inaccettabile –si legge nel comunicato stampa – che qualcuno possa prendersi il diritto di strappare i figli alla mamma e al papà e che servizi sociali “deviati” distruggano la vita dei minori senza alcun controllo e senza alcun ragionevole motivo. La Costituzione e il diritto internazionale ribadiscono con forza l’importanza dell’indissolubilità del rapporto mamma-figlio-papà che va tutelato, protetto e salvaguardato con il massimo rigore». La petizione è disponibile a questo link: «Per questo –prosegue la nota del Movimento italiano dei genitori – lanciamo una petizione per chiedere al Parlamento di riformare subito il sistema degli affidamenti dei minori, mettendo al centro il diritto del bambino a stare con la sua mamma e il suo papà, rafforzando le verifiche e i controlli indispensabili per la tutela puntuale del minore. Ecco alcuni dei punti su cui chiediamo di riformare il sistema degli affidi a tutela dei ragazzi: rafforzare il sistema del contraddittorio, evitare il conflitto di interessi, fornire il potere di decisione esclusivamente ai giudici e non ad altre figure professionali, riconoscere abusi e violenze solo tramite comprovate prove filmate, valutare l’allontanamento solo in casi estremi privilegiando comunque l’affidamento ai parenti del minore».

Mai più Bibbiano: i vip aderenti: «Sono sempre più numerosi i personaggi del mondo dello spettacolo e dei media che stanno aderendo alla petizione, in primis Sabrina Ferilli, reduce del successo della fiction “L’amore strappato”, che tratta di una storia vera di falso abuso e allontanamento del minore dai genitori, ma ad oggi anche Alessandro Borghese, Guillermo Mariotto, Eleonora Daniele, Metis Di Meo, Rita Dalla Chiesa, Andrea Lo Cicero, Monica Leofreddi (nella foto di copertina con Mariotto e Borghese), Monica Marangoni, Cataldo Calabretta, Carla Gozzi, Milly Carlucci, Milena Miconi che hanno deciso di dare voce e sostegno ad una riforma che rimetta al centro la tutela del legame tra mamma-figlio-papà».

Da Pausini a Branduardi: in campo anche i big della musica. Nei giorni scorsi, anche nel mondo della musica alcuni artisti più coraggiosi avevano fatto sentire la propria voce. A cominciare da Laura Pausini, passando per Nek e Ornella Vanoni, per concludere con Angelo Branduardi, autore di un paio di post di denuncia sulla vicenda di Bibbiano.

Bibbiano, il “Rolling Stone” zittisce i VIP e impone il silenzio. Stelio Fergola su Oltrelalinea.news 25 Luglio 2019. “Su Bibbiano i musicisti italiani hanno perso la testa”, recita il titolo del Rolling Stone di ieri. E ancora: “L’indecente passerella di oggi del ministro Salvini nel paese reggiano conferma la tossicità del dibattito sul tema”. Il riferimento è a Laura Pausini, a Nek ma anche a Ornella Vanoni, i quali invertendo decisamente il trend di VIP che tradizionalmente non fanno altro che da megafono al pensiero unico su praticamente ogni tema, hanno alzato la voce contro lo scandalo degli affidi pilotati di Bibbiano.

Il Rolling Stone impone il silenzio. Proseguendo nella lettura, l’articolo ci regala perle ancora maggiori: “Il problema è che quando una vicenda come quella di Bibbiano viene strumentalizzata in maniera feroce come una parte politica ha fatto in queste settimane, chiamarsi fuori da un dibattito così tossico, soprattutto per una persona con così tanta visibilità, sarebbe buonsenso.” Il risultato di questa frase è chiaramente solo uno, tranne per chi vuole intendere diversamente: i signori cantanti non possono parlare di Bibbiano, anche se non citano questo o quel partito, ma si limitano a constatare l’orrore di fatti che, al netto del giudizio definitivo, in molti casi sono praticamente flagranze di reato. Ammesso e non concesso che la “strumentalizzazione” sia presente infatti, questo non è un buon motivo per cucire la bocca a chi ha tutto il diritto di criticare uno scempio come quello perpetrato contro famiglie, mamme, papà e soprattutto bambini. La verità è che, come sempre, la “tossicità” consiste nel fatto stesso che se ne parli, come non potrebbe essere diversamente, vista la gravità dell’accaduto. E specialmente in questo momento i dibattiti devono andare sempre verso altre direzioni politiche. Giammai discutere l’integrità dei democratici. 

Bibbiano, la denuncia di Meluzzi: «Scandalo frutto della cultura di sinistra, basta omertà». Il Secolo d'Italia  martedì 23 luglio 2019. In un video pubblicato su Youtube da Fratelli d’Italia, il professor Alessandro Meluzzi, famoso psichiatra ed esperto di problemi legati ai minori, denuncia un clima di pesante omertà sullo scandalo dei bambini “sottratti” ai genitori legittimi dagli operatori sociali, con la complicità della politica. «Sembra che si voglia far calare il silenzio su questa tragedia frutto di una certa cultura di sinistra», dice Meluzzi, che loda le denunce di cantanti come Nek e Laura Pausini e invita chiunque abbia a cuore la sorte dei bambini a parlare di questo scandalo e ai musicisti chiede di organizzare un grande concerto per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa vicenda, “contro un certo buonismo e un’omertà mafiosa di cui si stanno rendendo complici anche i media».

Bibbiano, Alessandro Meluzzi sulla commissione d'inchiesta: "Il Pd si deve vergognare". Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Uno scandalo nello scandalo. In Emilia Romagna è stata nominata una commissione deputata a indagare su Bibbiano. Peccato che sia presieduta da Pd, sinistra italiana più una ragazza del M5s. Per Giorgia Meloni uno scandalo, un tentativo di insabbiare l'orribile vicenda dei bambini strappati alle legittime famiglie. E la pensa così anche Alessandro Meluzzi, che dice la sua in un durissimo video, in cui spiega: "Giorgia Meloni ha giustamente stigmatizzato e denunciato lo scandalo della regione Emilia Romagna, che ha nominato una commissione di inchiesta sugli orrori di Bibbiano presieduta dal Pd, da Sinistra italiana e da una ragazzotta del M5s - premette Meluzzi -. Se questa è la volontà di ricerca da parte dell'ente da cui dipende la sanità, l'assistenza della regione Emilia Romagna, io credo che questo sia uno scandalo nello scandalo, che si aggiunge ancora di più al furto dei bambini, ai traffici delle cooperative e a tutte le vicende che hanno scatenato la sacrosanta reazione degli italiani". Dunque, Meluzzi picchia durissimo contro la sinistra: "In questo modo il Pd si condanna, condanna se stesso non solo all'inevitabile sconfitta elettorale, anche in Emilia Romagna. Ma si condanna anche di fronte al tribunale della storia, dell'etica, della dignità. Che vergogna cari amici del Pd: un tentativo di fare una commissione per insabbiare", conclude. Il video è stato rilanciato su Twitter dalla Meloni: "Ascoltate il prof Meluzzi sulla recente nomina di una commissione d'inchiesta in Emilia Romagna sui presunti affidi illeciti di Bibbiano. Uno scandalo nello scandalo, che vergogna!", conclude la leader di Fratelli d'Italia.

Bibbiano, Meluzzi al Pd: «Volete solo insabbiare. Che vergogna». Il Secolo d'Italia  sabato 3 agosto 2019. «Che vergogna, cari amici del Pd. Il tentativo di fare una commissione non per denunciare e rivelare, ma insabbiare. Che vergogna». Con un video postato su Facebook, Alessandro Meluzzi torna su Bibbiano e si sofferma sul caso della Commissione d’inchiesta istituita alla Regione Emilia Romagna, in cui il Pd si è messo alla presidenza e ha affidato le due vicepresidenze a Sinistra italiana e M5S. Una scelta che, visti i coinvolgimenti politici nell’inchiesta sui bambini rubati, lascia quanto meno interdetti.

«Uno scandalo nello scandalo». Meluzzi lo dice chiaramente, parlando della «commissione sugli orrori di Bibbiano presieduta da Pd, Sinistra italiane e M5S»: «Io credo che questo sia uno scandalo nello scandalo. Uno scandalo che si aggiunge al furto dei bambini, ai traffici delle cooperative e a tutte quelle vicende che hanno scatenato la sacrosanta reazione degli italiani». «In questo modo – prosegue Meluzzi – il Pd si condanna, ma condanna se stesso non soltanto all’inevitabile sconfitta elettorale, anche in Emilia Romagna. Condanna se stesso di fronte al tribunale della storia, dell’etica, della vita. Che vergogna, cari amici del Pd. Che vergogna», conclude Meluzzi, che in apertura del filmato loda Giorgia Meloni per aver denunciato – anche – la vicenda della commissione d’inchiesta.

La denuncia di Giorgia Meloni. «Il Pd nomina una commissione d’inchiesta in Emilia Romagna sullo scandalo degli affidamenti illeciti di minori assegnandosi la presidenza e dando le due vicepresidenze al M5S e alla Sinistra italiana», ha scritto la leader di FdI sulla sua pagina Facebook, ricordando che si tratta dello «stesso Pd che ha i propri esponenti coinvolti nello scandalo e che non voleva si parlasse di Bibbiano» e dello «stesso M5S che chiedeva verità, ma a livello locale vanta tra le sue fila un avvocato che ha rinunciato a ogni ruolo istituzionale per difendere una delle principali indagate». «Una situazione talmente paradossale – ha concluso Meloni – che farebbe quasi ridere, se di mezzo non ci fosse il dramma di tante famiglie».

 Giorgia Meloni, furia contro il Pd: sapete chi indaga su Bibbiano? Lo scandalo. Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Giorgia Meloni a valanga contro il Pd. Motivo? Bibbiano. "Il Pd", scrive Giorgia su Twitter, "che non voleva si parlasse di  Bibbiano, nomina la commissione d'inchiesta sugli affidi illeciti prendendosi la presidenza e nominando 2 vice di SI e M5S (da cui proviene l'avvocato di una delle indagate). Farebbe ridere se non ci fosse di mezzo il dramma di tante famiglie". Si è insediata la commissione d'inchiesta regionale per approfondire il tema degli avvidi illeciti. Presidente della commissione sarà infatti il consigliere del Pd Giuseppe Boschini, mentre i suoi vice saranno Igor Taruffi di Sinistra Italiana e Raffaella Sensoli del M5s. "E' possibile supporre - ha detto il consigliere leghista Massimiliano Pompignoli - che l'obiettivo del Pd sia quello di mettere i lavori della commissione in sorveglianza preventiva: non si sa mai cosa potrebbe emergere".

Bibbiano, sindaco Pd nei guai: ecco cosa emerge dalle carte. I dirigenti locali del Partito democratico si schierano al fianco di Andrea Carletti, ai domiciliari: "Siamo con te". Pina Francone, Martedì 06/08/2019 su Il Giornale. L'inchiesta Angeli e Demoni continua e ora che il giudice ha confermato gli arresti domiciliari al sindaco di Bibbiano del Partito Democratico, i compagni di partito tornano a difenderlo con forza dalle accuse. Andrea Carletti, primo cittadino del comune di 10mila anime in provincia di Reggio Emilia, teatro dello scandalo degli affidi illeciti, non è accusato di reati commessi contro i bambini, ma è indagato – in quanto delegato dei servizi sociali dell'Unione dei Comuni della Val d'Enza – per abuso d'ufficio e falso ideologico. Ecco, gli è stata negata la revoca della misura cautelare, che il gip Luca Ramponi gli ha appunto confermato. E il giudice gli ha confermato i domiciliari spiegando che "non sussistono ragioni per un'attenuazione della misura, tanto meno per una revoca, tenuto conto della pendenza di indagini anche relative ad altre fattispecie contro la pubblica amministrazione, analoghe a quelle per cui è cautelato". Insomma, ci sarebbe altra carne sul fuoco, ovvero nuovi accertamenti investigativi su ulteriori aspetti delle sue attività da sindaco in relazione ai servizi sociali di sua competenza. E qui è scattata la gara di solidarietà tra i dem locali, con il segretario del Pd di Bibbiano, Stefano Marazzi, che ha scritto una lettera all'ex sindaco: "Sul filo del rasoio, ma non posso lasciar passare questa giornata senza mandarti un pensiero. È inutile e superfluo dire che ci abbiamo sperato con tutti noi stessi, abbiamo vissuto questa attesa con l'ansia di chi prova un grande senso di ingiustizia e non attende altro che questa situazione assurda finisca", le parole vergate e riportare da LaVerità. "Per l'ennesima volta, le notizie che ci giungono non ci danno sollievo. Dobbiamo ancora attendere per riabbracciarti, ma siamo ancora qui, al tuo fianco, come e più di prima. Tieni duro Andrea, non mollare. La tua comunità rimane saldamente al tuo fianco e aspetta il tuo ritorno", scrive ancora il segretario Marazzi nella sua missiva, a prova di una Pd compatto e a difesa, a spada tratta, del proprio esponente. Del quale provano a sminuire il ruolo nel caso Angeli e Demoni, ma sul quale gli inquirenti continuano a puntare un cono di luce per statuire la verità e fare giustizia.

Caso Bibbiano. Fi: Commissione senta 10 persone. 24emilia.com il 5 Agosto 2019. Andrea Galli, capogruppo di Forza Italia, in Regione chiede alla Commissione regionale appena insediata, che deve fare luce sulla vicenda dei presunti affidi illeciti in Val d’Enza, di ascoltare 10 persone. “Gentile Giuseppe Boschini, presidente della Commissione d’inchiesta regionale sui fatti della Val d’Enza, come membro della Commissione appena insediata sono costretto a ribadirle anche formalmente la mia totale contrarietà rispetto alla decisione del Pd, partito che lei rappresenta, di escludere il centrodestra dall’ufficio di presidenza. Una scelta che credo possa pregiudicare lo svolgimento dei lavori e che getta una luce equivoca sulle reali intenzioni della maggioranza di far chiarezza sullo scandalo vergognoso che sta emergendo dall’inchiesta Angeli e Demoni. L’impressione da molti rilevata è che il Pd su una questione così delicata abbia deciso di diventare controllore di se stesso. Infatti, escludere Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia significa ad oggi escludere un centrodestra che, in base alle ultime elezioni europee, rappresenta la maggioranza relativa degli elettori emiliano-romagnoli: non certo una buona partenza rispetto all’obiettivo di un lavoro comune e super partes che lei stesso si è dato nel momento della elezioni. Ora, in ogni caso la Commissione esiste e spero che i membri di centrodestra che ne fanno parte possano almeno esercitare in modo pieno i diritti e doveri che la legge consente loro. In qualità di capogruppo di Forza Italia in Regione, alla luce di questa premessa, chiedo immediatamente vengano sentiti alla prima riunione utile alcuni personaggi chiave di questa vicenda. Al di là della possibilità di sentire gli stessi indagati, chiedo vengano invitati in Commissione:

Roberta Mori, consigliere regionale Pd e coordinatrice nazionale degli Organismi di pari opportunità regionali

Pablo Trincia, giornalista autore dell’inchiesta Veleno

Luigi Costi, ex sindaco di Mirandola

Mauro Imparato, psicologo ed ex giudice onorario del tribunale dei minori

Paola Tognoni, vicesindaco di Bibbiano e sindaco in pectore dopo la sospensione di Carletti

Cinzia Magnarelli, assistente sociale pentita, indagata ma già intervistata da diversi media

Marcello Burgoni, già direttore del Servizio Minori dell’ASL di Mirandola

Carlo Giovanardi, ex sottosegretario alla famiglia

Gloria Soavi, presidente Cismai

Monica Michele, vicepresidente Cismai

Grazie per la sua disponibilità”.

Reggio Emilia. Bimbi sottratti, metodi sospetti. Per 20 anni lo stesso copione. Lucia Bellaspiga domenica 7 luglio 2019 su Avvenire. Modena, Reggio Emilia, Salerno, Biella... «stessi operatori, stessi drammi». E a "Chi l’ha visto" la prova dei lavaggi di cervello. «Mi sono occupato di ’Ndrangheta per anni, ma questa inchiesta è umanamente devastante». Così il procuratore capo di Reggio Emilia ha commentato "Angeli e Demoni", l’inchiesta che avrebbe fatto emergere un giro di affidamenti illeciti di bambini nella provincia di Reggio Emilia. Corposo il materiale raccolto in mesi di indagini e intercettazioni su figli strappati ai genitori 'per essere sottoposti a lavaggio del cervello', convinti di 'aver subìto abusi in realtà inesistenti', indotti attraverso falsi ricordi ad accusare i genitori. Un sistema lucroso (centinaia di migliaia di euro secondo gli inquirenti) messo in opera da anni dalla rete dei servizi sociali della Val d’Enza reggiana. Le sedute psicoterapeutiche erano condotte dagli operatori dell’associazione Hansel&Gretel di Moncalieri ( Torino), con il loro metodo del "disvelamento progressivo" o "empatico": agli arresti il fondatore Claudio Foti ('alterava lo stato psicologico attraverso suggestioni' e così "convinceva il minore dell’avvenuto abuso"), con la sua attuale compagna Nadia Bolognini. Chiaro il procuratore capo: «Abbiamo fatti, non critiche a metodologie». Aggiornamento del 18 luglio 2019: Il Tribunale del Riesame di Bologna ha revocato gli arresti domiciliari a Claudio Foti; la misura è stata sostituita con un obbligo di dimora nel Comune di Pinerolo. E allora ecco i fatti. Sono 277 le pagine dell’ordinanza con cui il gip di Reggio Emilia Luca Ramponi ha disposto 17 misure cautelari e indagato 27 persone: vi sono le pressioni subite dai bambini, la violenza psicologica con cui venivano indotti a dire e pian piano a credere ciò che 'dovevano' dire e credere, il tutto con l’ausilio di metodiche che, se non fossero state registrate e riprese dai Carabinieri, sembrerebbero incredibili. Qualche esempio. Una delle psicoterapeute vuole rimuovere la figura del padre dalla mente del piccolo: «Dobbiamo fare una cosa grossa – gli dice – sai qual è?, l’elaborazione del lutto... quel papà non esiste più come papà, è come fosse morto, dobbiamo fargli un funerale ». Chiaro perché i regali e le lettere portati dai genitori non venivano consegnati ai figli, sempre più certi di essere stati abbandonati.

Il metodo di Hansel&Gretel e affini. I bambini – continuano gli inquirenti – "anche in tenera età, subivano ore di lavaggi del cervello intercettati, dopo esser stati allontanati dalle famiglie attraverso le più ingannevoli attività". Tra queste, "relazioni mendaci, disegni artefatti con l’aggiunta mirata di connotazioni sessuali" e addirittura "terapeuti travestiti da personaggi cattivi delle fiabe in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male".

La macchinetta della "verità". E poi i "falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella spacciata ai bambini per macchinetta dei ricordi". Nessun elettrochoc, come sbrigativamente titolato dai giornali, ma un Neurotek, macchinario Usa il cui utilizzo non è certo previsto dal sistema sanitario italiano: il bambino riceve sulle dita impulsi elettromagnetici mentre confessa. Non un elettrochoc, certo, ma se veniva applicato un effetto lo aveva. Facile immaginare la paura di quei piccoli, soprattutto leggendo quali domande suggestive fossero loro rivolte durante gli impulsi. Questo nell’Italia del 2019, dove se un maestro bacchettasse le dita di un alunno sarebbe radiato.

Satana, da copione. E così, quasi da copione (visti i pregressi di Finale Emilia vent’anni fa, di cui parleremo poi), ecco arrivare le confessioni anche sul satanismo. Il meccanismo è perverso, sempre lo stesso: la bimba nel 2011 è stata allontana dal nucleo familiare solo per problemi economici. Ma solo dal 2017, quando inizia la terapia a 'La Cura' di Bibbiano con la Bolognini – attuale compagna di Foti, anche lei ai domiciliari – 'emersero racconti di abusi sessuali seriali, subiti da lei, dal fratello e dalla sorella da parte dei genitori'. Di peggio: "Subito dopo la seduta con la citata terapeuta nel 2018 avrebbe iniziato a manifestare sintomi di una sorta di possessione demoniaca, giungendo a raccontare omicidi plurimi commessi dal padre quando lei aveva tra 2 e 4 anni... La notte di Halloween uomini mascherati portavano 5/6 persone per volta, immobilizzate con iniezioni presso la sua abitazione, ove il padre le uccideva e ove i bambini venivano poi stuprati". Infine "il padre truccava il volto dei bambini col sangue dei cadaveri e li dava alla madre". Gli inquirenti precisano che la Bolognini ha atteggiamenti fortemente induttivi per far emergere nella ragazzina "l’essere cattivo che dimorava dentro di lei".

I danni nel tempo. Torture psicologiche indelebili. Lo dice il gip: diventati adolescenti, quei bambini ora 'manifestano profondi segni di disagio', caduti nella droga e nell’autolesionismo. Questi dunque i risultati ottenuti da esperti? Niente di nuovo, per chi conosce già le vicende analoghe avvenute venti anni fa nel Modenese, seguite fin dagli esordi da 'Avvenire' e oggi approdate nelle otto imperdibili puntate di 'Veleno' di Pablo Trincia. Anche lì si verificò uno strano 'picco' di presunti abusi sui bambini, tant’è che una ventina furono prelevati la notte nelle case o al mattino a scuola e mai più fecero ritorno. Dopo le sedute con gli operatori della Hansel&Gretel (allora non c’era la Bolognini ma la prima moglie di Foti, Cristina Roccia) cominciarono uno a uno a raccontare di messe nere, sangue di cadaveri bevuto scoperchiando lapidi e bare in pieno giorno, decine di bimbi accoltellati sulle croci e decapitati da loro stessi. Orrori mai avvenuti (non mancava un solo bambino nei paesi), ma gli 'esperti' ci credettero e fioccarono allontanamenti definitivi, arresti, condanne. Anche gli assolti non rividero più i figli.

Il vero dramma a Chi l’ha visto. Mercoledì Chi l’ha visto ha ripercorso i punti di contatto tra la Bassa Modenese e l’attuale caso di Reggio Emilia (in entrambi opera la psicologa Valeria Donati). Grande il turbamento quando hanno parlato di spalle due delle ex bambine, all’epoca torchiate da psicologhe e assistenti sociali con i soliti metodi. Oggi, donne di 27/28 anni, sono ancora convinte di aver squartato decine di bambini. E per questo piangono, tremano: «Certo che l’ho fatto, lo ricordo benissimo»... La Cassazione ha stabilito da anni che nulla di ciò era avvenuto, ma ormai sono marchiate a vita, si credono ancora assassine, prostrate dal pentimento di ciò che non hanno fatto. In studio c’era una delle madri (assolta), mater dolorosa impietrita a veder sua figlia ridotta così, mai più vista da 21 anni fa.

L’odio lgbt per i maschi. Federica Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali della Val d’Enza (ora ai domiciliari) è attivista lesbica. In qualche caso (forse tre) ha sottratto i minori e li ha affidati a coppie lesbiche. Una volta addirittura alla sua ex compagna Fadia Bassmaji, ai domiciliari. Non solo: le due affidatarie lesbiche, dice l’ordinanza, imponevano alla piccola "un orientamento sessuale vietandole tassativamente i capelli sciolti", ritenuti "appetibili per i maschi". Atteggiamento che il gip definisce "ideologicamente e ossessivamente orientato". Dalle intercettazioni emerge che le due instillavano nella piccola l’idea che il padre l’avesse abusata, e la ingiuriavano con cattiveria gratuita.

Non solo Emilia Romagna. Alessandra Pagliuca, psicologa di Hansel& Gretel, contribuì a sottrarre i 16 bambini nella Bassa Modenese vent’anni fa. Ma la giornalista napoletana Rosaria Capacchione denuncia su fanpage.it: alla Pagliuca si deve pure l’inchiesta sulle sètte sataniche a Salerno nel 2007. Tre fratellini raccontarono di adulti incappucciati, diavoli, pozioni di sangue, sperma e droga. Stessa follia di Finale Emilia, guarda caso. «Inchieste poi fondate sul nulla, ma i bambini non sono più tornati», dice. Il fatto quotidiano invece ricordava ieri il famoso suicidio a Biella di quattro adulti accusati di pratiche indicibili sui figli. Lasciarono un biglietto, "siamo innocenti". «A far parlare i bambini erano Claudio Foti e, di nuovo, Cristina Roccia».

Traumatizzati all’infanzia? Tutti gli indagati "hanno avuto esperienze traumatiche nell’infanzia" simili a quelle attribuite ai minori, scrive il gip: uno stupro di gruppo da piccola, una dipendenza da alcol, maltrattamenti dal padre alcolizzato... Esperienze pregresse per le quali 'non potevano porsi in rapporto di indifferenza verificando gli eventi'. Storie oscure di affidi illeciti: le gravi accuse nell’ordinanza, i fatti sconcertanti emersi dalle intercettazioni Il procuratore capo: «Mi sono occupato di ’ndrangheta, ma questa inchiesta è umanamente devastante. Sono fatti» Modena, Reggio Emilia, Salerno, Biella... «stessi operatori, stessi drammi». E a Chi l’ha visto la prova dei lavaggi di cervello

Dalla Bassa a Bibbiano, quel filo che lega le onlus. redazione Sul Panaro i 4 Agosto 2019. MIRANDOLA E DINTORNI – Non si spengono i riflettori sui fatti di Bibbiano. In questi ultimi giorni sono stati diversi gli approfondimenti riguardo al filo che lega la vicenda degli affidi nel reggiano e quanto avvenuto nella Bassa venti anni fa. A partire dalla vicenda della bimba di Mirandola e dai finanziamenti (269 mila euro impegnati dall’Ucman, come denunciato da Antonio Platis e Mauro Neri) al Centro Studi Hansel e Gretel coinvolto proprio nei fatti di Bibbiano. Proprio su quest’ultimo punto si sono accesi i riflettori anche della stampa nazionale. I quotidiani La Verità e Il Giornale hanno rilanciato la questione del finanziamento dell’Ucman al Centro Studi sollevata da Platis e Neri che si chiedono se si possa parlare di danno erariale:

Nell’ottobre 2018 è stato organizzato al Teatro Metropolis a Bibbiano (RE) un convegno nella cui locandina appare, come Partners de “La Cura”, oltre al Centro studi Hansel e Gretel un solo ente locale: l’Unione Comuni Modenesi Area Nord. Eppure la scadenza del rapporto Mirandola-Bibbiano doveva essere il 30.4.2018.

Al convegno hanno partecipato numerose persone oggi indagate nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Tra i relatori figura anche la Responsabile della onlus a cui Mirandola aveva affidato nel 2013 la bambina oggi al centro dell’inchiesta “Angeli e demoni”. Da notare – spiegano i consiglieri Neri e Platis – che la Responsabile della casa famiglia è nel direttivo di una nota associazione assieme a Claudio Foti, Nadia Bolognini e Sarah Testa. Questa associazione realizza un quotidiano on line che ha “l’obbiettivo di difendere i bambini dall’adultocentrismo, dal negazionismo e dalla cultura patriarcale”.

Complessivamente, per gli affidamenti diretti, sono stati impegnati dall’Ucman indicativamente 269.354 euro in favore di questa onlus. Agli atti della prima determina nel 2013, la responsabile dell’epoca Monica Benati, affermava che verosimilmente la minore sarebbe stata nel centro scelto fino alla maggior età (raggiunta a fine 2018). Già questo – incalzano gli esponenti di FI – è un fatto molto grave perché si è scelta una struttura direttamente, senza considerare l’impegno palesemente pluriennale che avrebbe portato sopra la soglia dei 40mila euro l’affidamento. A questo si aggiunge un altro aspetto già contestato nel 2017. Perché invece di affidarci al Servizio Sanitario Regionale, l’Unione Area Nord ha fatto una convenzione, formalmente con la Val d’Enza, ma palesemente con il Centro Hansel e Gretel per pagare psicologi privati a 135 euro all’ora? Pensate che i preventivi agli atti dell’Ucman non sono dei comuni reggiani, ma di un privato. Quei soldi non dovevano finire là. A nostro avviso c’è il rischio di un danno erariale e per questo abbiamo chiesto ulteriori chiarimenti con un’interrogazione.

I quesiti sono sostanzialmente tre.

Perché l’Unione Area Nord ha dato adesione al convegno del 10-11 ottobre 2018 a Bibbiano come unico ente locale “partners”?

Quale ruolo ha avuto l’onlus in cui era affidata la minore mirandolese oggetto dell’inchiesta “Angeli e Demoni” nella scelta del Centro Hansel e Gretel visti i rapporti palesi che si evincono tra i responsabili dei due centri.

Se la Giunta Ucman, in futuro, intenda rendere maggiormente trasparente il criterio di selezione delle case famiglia.

Inoltre, secondo Il Resto del Carlino e il giornalista Pablo Trincia autore dell’inchiesta Veleno, la onlus “Il centro aiuto al bambino” della psicologa Valeria Donati, finita nell’inchiesta di Bibbiano, “in corrispondenza delle sentenze di assoluzione dei coniugi Covezzi e della famiglia Morselli e con la pubblicazione dell’inchiesta Veleno i ricavi scendono nel 2017 a 70.000 euro”. Invece, la onlus avrebbe ricevuto da tribunali, associazioni e Comuni nel 2004 251 mila euro, 269 mila nel 2005, 337 mila nel 2006, 480 mila nel 2007, 495 mila nel 2008, 512 mila nel 2009, 571 mila nel 2010, più di 650 mila nel 2012. Secondo Trincia, poi, i 18 bambini del caso Veleno seguiti dal CAB dal 2002 al 2013 erano suddivisi in quattro categorie a seconda della gravità della situazione e per loro il CAB riceveva 1.032 euro al mese per la fascia D e 1.400 per la A. Intanto nei giorni scorsi si è insediata la Commissione regionale di inchiesta sui fatti di Bibbiano e in Parlamento  le commissioni Affari Istituzionali e Giustizia del Senato, riunite in sede congiunta e deliberante, hanno approvato la proposta relativa all’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sugli affidi. Ora la palla passa alla Camera, ma sembra che la proposta possa procedere speditamente come ha spiegato anche la senatrice M5S Maria Laura Mantovani: “Adesso va alla Camera dove farà anche lì un percorso rapido. Da senatrice dell’Emilia Romagna sento particolarmente la delicatezza del tema: l’inchiesta sui fatti di Bibbiano e sui servizi sociali dell’Unione dei Comuni della Val d’Enza e le vicende accadute 20 anni fa nella Bassa modenese, note come ‘caso Veleno’, sono ferite aperte e dolorose. La commissione d’inchiesta intende far luce sulle procedure degli affidi in tutta Italia”.

Sulla commissione regionale e sulla sua composizione, ovvero escludere il centrodestra, Forza Italia ha sollevato perplessità e Andrea Galli, capogruppo in Regione, in una lettera aperta al neoeletto presidente Boschini ha scritto: In ogni caso la Commissione esiste e spero che i membri di centrodestra che ne fanno parte possano almeno esercitare in  modo pieno i diritti e doveri che la legge consente loro. In qualità di capogruppo di Forza Italia in Regione, alla luce di questa premessa, chiedo immediatamente vengano sentiti alla prima riunione utile alcuni personaggi chiave di questa vicenda. Al di là della possibilità di sentire gli stessi indagati, chiedo vengano invitati in Commissione:

Roberta Mori, consigliere regionale Pd e coordinatrice nazionale degli Organismi di pari opportunità regionali

Pablo Trincia, giornalista autore dell’inchiesta Veleno

Luigi Costi, ex sindaco di Mirandola

Mauro Imparato, psicologo ed ex giudice onorario del tribunale dei minori

Paola Tognoni, vicesindaco di Bibbiano e sindaco in pectore dopo la sospensione di Carletti

Cinzia Magnarelli, assistente sociale pentita, indagata ma già intervistata da diversi media

Marcello Burgoni, già direttore del Servizio Minori dell’ASL di Mirandola

Carlo Giovanardi, ex sottosegretario alla famiglia

Gloria Soavi, presidente Cismai

Monica Michele, vicepresidente Cismai

Quanto alla vicenda di Bibbiano, il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia Luca Ramponi ha confermato gli arresti domiciliari per il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (ora sospeso dalla Prefettura). Carletti, che si è autosospeso dal Partito Democratico, è accusato di abuso d’ufficio e falso ideologico e si trova agli arresti domiciliari dal 27 giugno.

Bibbiano, "Chiesta l'audizione di Carlo Lucarelli". La Lega ha chiesto che Carlo Lucarelli, in qualità di presidente della Fondazione emiliano romagnola vittime dei reati, sia convocato per un'audizione della Commissione speciale della Regione sul caso Bibbiano. Francesco Curridori, Sabato 24/08/2019, su Il Giornale. Lo scrittore Carlo Lucarelli probabilmente sarà ascoltato sul caso Bibbiano. Lo rende noto Stefano Bargi, capogruppo della Lega in Regione Emila Romagna, la quale negli scorsi giorni ha aperto una commissione d'inchiesta. "Se qualcuno si aspettava che la Lega si adeguasse al ruolo marginale che le è stato affidato nell’ambito della Commissione speciale di inchiesta sul sistema tutela minori della Regione Emilia-Romagna si sbagliava", ha chiarito Bargi al Secolo d'Italia. La Lega vuole vederci chiaro e ha chiesto che Carlo Lucarelli, in qualità di presidente della Fondazione emiliano romagnola vittime dei reati, venga ascoltato insieme a Elena Buccolieri, direttrice del medesimo ente. Lo scopo è capire i rapporti tra la Fondazione e gli indagati dell'inchiesta sui presunti affidi illeciti nella Val d’Enza. Bargi spiega che la Lega intende" alzare il sipario e fare luce su una vicenda orribile e sconvolgente qual è quella che è emersa dall’indagine Angeli e Demoni” e, pertanto, ha chiesto che vengano sentita anche "figure cardine nella gestione dei Servizi sociali". Il timore è che i vertici del Pd della Commissione speciale hanno tutto l'interesse a offuscare la vicenda dal momento che sono coinvolte esponenti politici come il sindaco di Bibbiano e gli ex primi cittadini i di Cavriago e di Montecchio. "Del resto gli ultimi sviluppi dell’indagine Angeli e Demoni – conclude Bargi – stanno facendo emergere come tutta l’Emilia Romagna, e non solo la Val d’Enza, sia, in realtà, stata infettata dal sistema degli affidi illeciti".

Bambini picchiati: nuove accuse all'"eroe della Repubblica" Germana Giacomelli. Le Iene 31 marzo 2019. Dopo il primo servizio dedicato alla super mamma d'Italia, premiata dal presidente Mattarella come "eroe della Repubblica", Pablo Trincia ha raccolto nuove testimonianze di ragazzi che raccontano di aver subito o visto maltrattamenti da parte di mamma Germana nella sua casa famiglia. Nuove testimonianze di ragazzi cresciuti nella casa famiglia di Germana Giacomelli, la donna che alcuni giorni fa è stata premiata dal presidente Mattarella con una delle più alte onorificenze riservate a chi è impegnato nel sociale. Dopo il primo servizio di Pablo Trincia, in cui abbiamo parlato con alcuni dei 121 figli che sono stati affidati nel corso degli anni alla casa famiglia di Germana e che ci hanno raccontato di maltrattamenti che avrebbero subito in quella casa per mano della donna, ci sono arrivate molte segnalazioni. Il numero di chi dice di aver subito o visto maltrattamenti all’interno di quella casa è passato da otto a trenta. “Quando ho visto il vostro servizio ho detto ‘cazzo io lo so chi è’. Mi è preso il panico. Quella donna è cattiva”, ha detto una ragazza a Pablo Trincia. “Se sbagliavamo a pulire ci maltrattava, ci picchiava, spintonava, ci dava le botte in testa”. Con una psicologa siamo andati a parlare con una bambina che sta ancora in quella struttura e che è tornata a casa per qualche giorno. “Adesso non mi picchiano più, perché tempo fa mi picchiavano”, dice la bambina. Quando le chiediamo da quanto tempo la trattano bene risponde “un mese”. Proprio da quando abbiamo iniziato a seguire questa storia. Ma non sarebbe stato sempre così. “Una volta la Germana mi ha dato uno schiaffo nel naso mi ha fatto uscire il sangue. Anche agli altri dava le sberle”. E poi aggiunge, in riferimento all’educatore che lavora insieme alla donna: “Pietro mi ha detto "se qualcuno ti chiede se la Germana ti picchia tu non rispondere"”.

"Le Iene" e il presunto "business" dei minori. Claudio Figini, Coordinatore della Cooperativa Sociale COMIN e pedagogista, il 4 giugno 2014 su Il Fatto Quotidiano. Oggi vorrei stigmatizzare certi pregiudizi alimentati da servizi televisivi discutibili e aggressivi che sfruttano l’imbarazzo dell’interlocutore non avvezzo alle telecamere per disinnescargli sul nascere spiegazioni e giustificazioni. Già, perché a volte non basta avere la coscienza pulita per essere abili affabulatori. È un tipo di televisione che ricorda quella pubblicità coi tipi a cui piace vincere facile. Ce l’ho col servizio de “Le Iene” intitolato “Come funziona il business dei bambini” trasmesso il 21 maggio. Criticare “Le Iene” è impopolare: godono fama d’integerrimi fustigatori d’imbroglioni e malandrini che non guardano in faccia a nessuno e probabilmente è così. Però ricorrono spesso a quella bassezza del mettere a disagio e utilizzano sovente fattori scandalistici e a effetto per aggiudicarsi il tifo degli spettatori.

Io chiedo: ma sapete qual è il percorso che porta un minore in comunità? Pensate che si tratti così spesso di abusi di potere da parte di assistenti sociali e giudici in malafede? E siete certi che sia poi ‘sto gran business?

Nel dubbio, prima di dare cifre e giudizi alla carlona, fate un giro nelle nostre comunità. Se maneggiate le cifre, allora provate a leggerle, altrimenti sono solo numeri da enfatizzare. Se per voi una retta tra i 70 e i 90 euro giornalieri è un magna-magna, il giro nelle comunità fatelo lungo, così vedrete bollette da pagare, cibo, vestiti e libri da comprare, il dentista da onorare. C’è tutto ciò che occorre alla gestione dignitosa di una casa e a far sentire un minore a proprio agio. Ci sono operatori da stipendiare (e sai che stipendi!), automezzi da mantenere e corsi e sport e vacanze estive. Un gelatino, se non è troppo. Ci sono le strutture indispensabili per il buon funzionamento delle comunità, perché quel che ci viene chiesto è un servizio efficace e decoroso. Esistono standard da rispettare e organismi di vigilanza che li esigono e garantiscono. Insomma, le comunità non sono espedienti per spillare denaro pubblico. Conosciamo bene le situazioni dei ragazzi che accogliamo così come i nostri sforzi per farci carico efficacemente della loro situazione. Ogni anno la cooperativa che io coordino ospita un quarantina di minori in cinque comunità e le rette son quelle. Nessuno di noi si arricchisce. Rispondiamo solo a un bisogno sociale concreto e forniamo servizi economicamente sostenibili, quindi ci tocca pensare anche a quel lato lì, il che non fa però di noi dei faccendieri. Che poi, ben venga il giorno in cui le comunità non serviranno più! Noi per primi spingiamo per soluzioni alternative ad esempio ci piace l’affido, che troviamo ideale per tanti minori e che ai Comuni costerebbe assai meno. I nostri bilanci sono pubblici e basta scorrerli per intuire che senza donazioni da privati e supporto di volontari non potremmo garantire servizi di qualità senza andare in rosso. Sì, ci tocca maneggiare denaro e ne faremmo a meno, senza dubbio. Così come non c’è dubbio che ci muoviamo in ambiti di forte emotività individuale e collettiva. Le immagini di bambini allontanati dalle madri, spesso usate in modo strumentale per canalizzare un istintivo sdegno, hanno comunque del vero. Trovatelo, un bambino entusiasta di entrare in comunità, pur provenendo da una situazione molto critica! Diverso però è dipingerci come macchine da soldi che ci lucrano sopra. E intendiamoci: non dico mica che le comunità funzionino tutte in modo impeccabile e che non ci siano situazioni al di sopra di ogni sospetto. Possiamo avere umana comprensione per quei genitori che si rivolgono ai media per denunciare supposti torti subiti, offrendo punti di vista emotivi ma parziali. Sappiamo che errori di giudizio possono essere commessi da chi è tenuto a giudicare. Però esistono la responsabilità della tutela e il dovere istituzionale d’intervenire di fronte a maltrattamenti e abusi. Sono provvedimenti che hanno spesso un che di drastico e brusco, ma sono doverosi e responsabili. E comunque, da noi non caverete mai una parola di puntualizzazione sulla situazione specifica di un nostro ragazzo. Le comunità sono una risorsa, non una iattura. Quindi ripeto: venite a vederle; entrate senza urlare; armatevi di pazienza e domandate, osservate, sforzatevi di cogliere cosa c’è dietro e oltre. Eviterete di fabbricare fuorvianti stereotipi. Chiudendo, esprimo la mia personale solidarietà alla Cooperativa Sociale di Trento (e alla vice-direttrice e giudice onorario del Tribunale per i Minorenni, ingiustamente attaccata) e lo faccio rilanciando il comunicato stampa del Coordinamento Nazionale Comunità d’Accoglienza diffuso il 22 maggio.

PERDE I FIGLI AFFIDATI ALL’AMICA, A LE IENE LA STORIA DI MADELAINE.  Morgan K. Barraco il 28 Novembre 2017 su Tuttotv.net. Le Iene hanno raccontato la storia di Madeleine nella puntata di martedì, 28 novembre 2017. Una storia straziante che inizia in Africa, da dove la famiglia della donna e di Balla sono partiti per raggiungere l’Italia. Qui conoscono Simona, con cui stringono una forte amicizia e che spesso aiuta Madelaine ad accudirli. Una potente alluvione costringe però la coppia a ritornare in Paese per sistemare tutto e convinti dalle parole di Simona, decide di lasciarli in custodia sicuri che sarebbero stati con una persona fidata. Madelaine ed il marito Balla non avrebbero mai immaginato che nel giro di poco tempo avrebbero perso i bambini. Balla viene infatti avvisato dal figlio maggiore che la situazione è molto diversa da quella che crede e che i ragazzini sono stati affidati in una casa famiglia. L’uomo ha contattato Simona per capire che cosa fosse successo, ma la donna mente e gli dice che i ragazzini sono andati a fare una vacanza a sue spese. Solo in quel momento rivela la verità e la donna afferma che i servizi sociali sono stati chiamati su segnalazione della scuola. Madelaine quindi contatta l’istituto, come mostrano Le Iene, ma scoprono che ancora una volta Simona ha mentito. E’ stata infatti lei a chiedere l’intervento delle autorità e si è anche impegnata a trovare loro una Casa Famiglia. Solo messa alle strette Simona ammette di aver agito per interesse dei bambini, convinta che non fossero sereni insieme ai genitori. Le Iene però hanno intervistato tutte le persone che in tanti anni hanno conosciuto Madelaine ed affermano tutti che si trattava di una famiglia per bene. Delle foto dimostrano tra l’altro che i bambini avevano tutto, dai vestiti sempre puliti fino alle feste di compleanno con gli amici. Madelaine ora non può più riavere i figli e Simona rifiuta di rispondere alle domande de Le Iene sulle sue molteplici menzogne. Sottolinea invece di aver fatto il bene della madre e dei bambini, chiedendo addirittura l’intervento dei Carabinieri e continuando a ripetere che è il Tribunale dei Minori a dover decidere sul destino dei bambini di Madelaine. Clicca qui per vedere il servizio di Ruggeri de Le Iene sulla storia di Madelaine. 

“Ho perso i miei figli per una bugia”. Le Iene 02 aprile 2018. Annamaria Notario da quattro anni, tra bugie e calunnie contro di lei, aspetta di riabbracciare i  figli. “Sto mettendo tutto l’impegno che posso per riportare i miei figli a casa. Voglio che finisca questo incubo”. Sono le parole di una mamma, Annamaria Notario, a cui gli assistenti sociali, quattro anni fa, hanno portato via i tre figli. Bugie, false accuse e indagini superficiali hanno fatto sì che una mamma che, come ripete Annamaria, “non ha fatto niente”, perda i suoi figli. Tutto inizia quattro anni fa, quando Annamaria viene chiamata dai carabinieri, che le dicono di portare con sé i bambini. “Mi sono fidata, mi avevano detto che dovevano solo parlarmi”. In caserma trova gli assistenti sociali e un'ordinanza del Giudice di Torino, con la quale le venivano tolti i figli. I bambini vengono chiusi in una stanza, e da quel momento non potranno più stare con la madre. “Io non li ho più potuti abbracciare, baciare, non li ho più visti. Non ho neanche potuto spiegargli il motivo, il perché, cosa ci stava succedendo. E li ho rivisti dopo 28 giorni”. Cosa ha provato quando ha capito cosa stava succedendo? “Mi è caduto il mondo addosso. È stato bruttissimo”. Gli assistenti sociali, per cui, come spiega l’avvocato di Annamaria, Edoardo Carmagnola, ora la giudice Elena Stoppini ha rinviato gli atti al pm affinché siano indagati, si sarebbero basati solo sulle parole del papà dei bambini e di Giulia Baro, la sua nuova compagna. Indagati anche alcuni carabinieri che avrebbero aiutato la Baro entrando nel database dell'Arma. Il padre dei bambini, ci racconta l’avvocato, accusava la Notario di non fargli mai vedere i figli. “Non è assolutamente vero”, ribatte Annamaria, “li ho sempre lasciati andare dal padre”. Poi arriva la denuncia di Giulia Baro per stalking: “Si sono basati solo sulle sue parole. Non mi hanno mai creduto. Non hanno nemmeno guardato le prove”, ci racconta Annamaria. Inizia così un processo lungo e lentissimo, che dura quattro anni. Fino a quando, qualche giorno fa, Giulia Baro viene condannata a due anni e sei mesi per calunnia dal Tribunale di Ivrea. Ad incastrare la donna, oltre alle continue prove che, ci spiega l’avvocato Carmagnola, Annamaria ha portato per difendersi, sarebbe stata una lettera inviata dalla Baro, che si fingeva Annamaria, in cui si ricoprivano di ingiurie e offese gli assistenti sociali. Ma è proprio con questa lettera, spedita da un computer aziendale, che le indagini sono arrivate alla Baro. Quando chiediamo ad Annamaria cosa prova nei confronti della donna che le ha portato via il compagno e i figli risponde secca, perdendo il tono gentile che aveva tenuto fino a quel momento. “Un disgusto totale”, dice. “Se voleva prendersi il mio compagno se lo poteva pure prendere, ma non rovinare la vita di tre bambini”. Bambini che continuano per ora a stare con il padre e che possono vedere la madre solo una volta la settimana. “Non vivendo con loro la quotidianità non vedi i loro cambiamenti. È bruttissimo”. “Il tempo che ho perso con loro non me lo ridarà più nessuno. Ma spero che ci siano altri giorni per fare tutto quello che non abbiamo fatto in questi anni”, Annamaria s’illumina solo all’idea. E quando le parliamo della nuova consulenza tecnica dovrà affrontare sulle sue capacità genitoriali ci risponde: “Sto mettendo tutto l’impegno che posso per riportarmeli a casa. Voglio che finisca questo incubo”. A luglio Annamaria saprà se potrà riabbracciare i suoi bambini. Noi le facciamo un grosso in bocca al lupo e continueremo a seguire la sua battaglia per riabbracciare i figli.

Sabrina Saccomanni e Andrea Barlocco, all’ex corteggiatrice di Uomini e Donne e al pr i servizi sociali tolgono i figli: “La casa è troppo sporca”. Oggi il 6 marzo 2014. Secondo gli assistenti sociali il disordine eccessivo in casa è sintomo di incapacità genitoriale. Barlocco: «Sono tra l’incavolato e il disperato». Mentre il legale della coppia dice: «Non c’è una sola prova». L’ex corteggiatrice di Uomini e donne, Sabrina Saccomanni, e il pr Andrea Barlocco, i servizi sociali tolgono loro i figli: “La casa è troppo sporca”. La storia ha dell’incredibile, ma è la vicenda che sta travolgendo la vita della coppia. I loro figli di sei mesi, 21 mesi e quasi 13 anni sono stati portati via da casa circa un mese fa.  A raccontare la vicenda Matteo Viviani delle Iene.

PRIMA IL CONTROLLO, POI IL VERDETTO – La coppia vive in un complesso residenziale alle porte di Milano e lì si sono presentati non solo gli assistenti sociali, ma anche i Carabinieri e Polizia locale, i quali dopo un controllo hanno portato via i bambini perché la casa era sporca e in disordine: «L’abitazione è in condizioni igieniche allarmanti (si rimanda alla relazione dei Carabinieri)», hanno scritto, infatti, i servizi sociali nella loro relazione. Ma Barlocco non intende arrendersi e davanti alla troupe delle Iene Andrea contesta tutti i punti d’accusa. Tra questi si parlerebbe di panni puzzolenti da lavare, di vestiti sporchi gettati sul pavimento della stanza dei ragazzi, di totale disordine ed escrementi di cane in un bagnetto. Sul punto Barlocco sottolinea che è usato solo dall’animale. 

L’AVVOCATO: “PORTARE VIA I FIGLI DECISIONE SPROPORZIONATA” – «Questa situazione a mio avviso non poteva essere così grave da provocare un allontanamento dei tre bambini», hanno dichiarato i legali di Sabrina Saccomanni e Andrea Barlocco, che sono passati dal colpo di fulmine all’altare.  Hanno anche aggiunto: “Non c’è alcuna fotografia che possa dimostrare tutto quello che hanno rilevato i carabinieri”, sottolineando che gli assistenti “avrebbero dovuto verificare se ci fossero state segnalazioni da parte della scuola o della scuola di calcio”. Mentre, proprio alle Iene sia l’allenatore sia prete dicono di non aver notato segnali di trascuratezza nel bimbo più grande che vedono spesso. Inoltre, la casa è grande quasi 300 metri quadrati, insomma una abitazione confortevole. E, sempre dal racconta dalle Iene, gli assistenti sociali non hanno neppure chiesto ai parenti se disposti ad accudire i figli, ma hanno preferito portarli via all’improvviso. Anzi, i nonni sentiti dalle Iene hanno poi detto: “Avremmo fatto di tutti per tenerli. E’ normale che ci fosse un po’ di disordine, tra il giocare con i bimbi e fare una lavatrice i genitori preferiscono giocare con i figli. Anche casa nostra, quando vengono a trovarci i bimbi, sembra un campo di battaglia.

BARLOCCO: “SONO TRA IL DISPERATO E L’INCAZZATO” – «Sono tra il disperato e l’incavolato», dice ora Barlocco, cercando la sua giustizia attraverso le Iene. Mentre gli assistenti sociali controbattono: «Quello che ha portato all’allontanamento è un po’ il dubbio sulle competenze genitoriali, quel livello di incuria della casa fa presupporre dei livelli di trascuratezza proprio rispetto alle capacità genitoriali». Per concludere: «Una casa in disordine è un po’ sintomo di trascuratezza e la trascuratezza è pari al maltrattamento…». E ora sarà battaglia durissima.

Le Iene: sottratti i figli all'ex corteggiatrice di Uomini e Donne Sabrina Saccomanni. Andrea e Sabrina alle Iene raccontano la storia. La storia è stata raccontata dalle Iene nell'ultima puntata, ecco tutti i retroscena della vicenda di Sabrina e Andrea. Martina Biaggi il 07 marzo 2014 su it.blastingnews.com. Il 5 marzo è andata in onda una nuova puntata del noto programma Le Iene, tra i servizi c'è ne stato uno che riguardava una coppia di ex famosi, parliamo di Sabrina Saccomanni ex corteggiatrice del programma di Canale 5, Uomini e donne, e di Andrea Barlocco ex PR dei VIP. La storia:

Tutto ha inizio circa un mese, quando nell'appartamento della coppia che si trova in una zona residenziale di Milano, sono arrivati degli assistenti sociali accompagnati dai carabinieri e dalla polizia locale. Gli ufficiali, dopo aver effettuato un controllo della casa, decidono inaspettatamente di portare via i 3 figli dei due, rispettivamente di 6 e 21 mesi e uno di quasi 13 anni, inoltre anche la baby sitter che in quel momento era con i minori viene portata via dalle forze dell'ordine. Sabrina e Andrea durante il servizio delle Iene hanno svelato il loro disagio e la loro indignazione per quanto accaduto e che ancora sta accadendo, raccontando poi che ogni volta che vanno a trovare i figli in caserma devono fare finta di niente per non turbare i piccoli,inoltre devono comportarsi secondo certi canoni per non ricevere un verbale negativo. Secondo quanto si evince dal rapporto dei Carabinieri, la motivazioni che stanno dietro alla sottrazione dei minori sarebbero le cattive condizioni igieniche della casa e il disordine che regna in essa. In particolare si parla di "panni puzzolenti ancora da lavare, del tappeto di vestiti sporchi gettati alla rinfusa sul pavimento della stanza dei ragazzi o anche degli escrementi di una cane nella vasca da bagno".

L'avvocato. Secondo l'avvocato di Sabrina e Andrea, Sonia Gaiola, la situazione non giustificava un allontanamento dei bambini dalla casa, ha dichiarato inoltre che non ci sono foto comprovanti del disordine e della mancanza d'igiene, gli assistenti sociali non hanno verificato se ci fossero state segnalazioni dalla scuola, non hanno chiesto informazioni al pediatra che li aveva in cura, e soprattutto non hanno chiesto ai nonni e ai parenti più stretti se si potevano occupare loro dei minori in quel periodo. Secondo l'avvocato non si sta pensando per niente al benessere dei bambini, infatti anche i più piccoli si accorgono dell'assenza dei genitori e questo sicuramente non gli fa bene.

I servizi Sociali. Ad un incontro con gli Assistenti Sociali, l'avvocato Gaiola alla richiesta di una spiegazione sulle motivazioni dell'allontanamento dei bambini si è sentita rispondere che il motivo per il quale sono stati tolti i figli alla coppia era il dubbio nato sulle loro competenze genitoriali, venuto fuori dalla trascuratezza della casa. L'allenatore di calcio dei bambini, così come il prete che conosce bene la famiglia hanno rivelato alle telecamere delle Iene, che non hanno mai notato disagi di nessun tipo nei figli di Sabrina e Andrea, e che sicuramente non si aspettavano una cosa del genere. Se è vero che gli assistenti sociali hanno utilizzato criteri alquanto semplicistici per arrivare alla decisione di portare via tre bambini dalle braccia dei genitori, allora bisogna preoccuparsi in quanto un genitore a meno di gravi maltrattamenti e situazioni particolari che vanno approfondite, non dovrebbe mai essere allontanato dal proprio figlio.

Le Iene e i figli tolti ai genitori per una casa sporca. Giornalettismo.com il 06/03/2014. Ad una nota coppia di genitori dopo una visita in casa vengono sottratti i tre figli a causa delle cattive condizioni igieniche dell’abitazione. È la storia raccontata in un servizio mandato in onda nella puntata di ieri de Le Iene, firmato da Matteo Viviani.

LA SOTTRAZIONE DEI BAMBINI – Il calvario comincia un mese fa, quando alla porta della casa di Andrea Barlocco, ex pr dei vip, e Sabrina Saccomanni, ex corteggiatrice di Uomini e Donne, in un complesso residenziale alle porte di Milano, si presentano assistenti sociali accompagnati  da Carabinieri e Polizia locale, i quali dopo aver effettuato un controllo decidono di portar via tre bambini, di 6 mesi, 21 mesi e quasi 13 anni, e la baby sitter che li stava accudendo. Da allora – è la stessa coppia a raccontarlo alle telecamere di Mediaset – viene stravolta la vita dei due genitori, che passano il loro tempo a piangere, impossibilitati a vedere i loro bambini e oltretutto costretti, quando incontrano i piccoli in caserma, a sorridere per non compromettere con un verbale negativo il percorso stabilito dai servizi sociali. Ma, ovviamente, anche sorpresi dalla motivazione della sottrazione dei figli.

LA RELAZIONE DEL DISORDINE – «L’abitazione è in condizioni igieniche allarmanti (si rimanda alla relazione dei Carabinieri)», hanno messo nero su bianco i servizi sociali nella relazione che racconta del disordine trovato in casa. Alla troupe delle Iene Andrea risponde punto su punto ai rilievi del rapporto, in cui si parla dei panni puzzolenti ancora da lavare, del tappeto di vestiti sporchi gettati alla rinfusa sul pavimento della stanza dei ragazzi, o anche degli escrementi di un cane in una vasca da bagno (che il padrone di casa dice essere esclusivamente riservato all’animale).

LA PAROLA ALL’AVVOCATO – «Questa situazione a mio avviso non poteva essere così grave da poter provocare un allontanamento dei tre bambini», ha spiegato l’avvocato di Andrea e Sabrina, Sonia Gaiola. «Non c’è alcuna fotografia che possa dimostrare tutto quello che hanno rilevato i Carabinieri», ha aggiunto l’assistente del legale. «In questo caso specifico si stanno adottando delle procedure che non favoriscono il benessere psico fisico dei bambini», ha poi continuato la dottoressa Gaiola. «Avrebbero dovuto verificare se ci fossero state segnalazioni da parte della scuola o della scuola di calcio», dice. Ma nè l’allenatore Franz nè il prete che conosceva la famiglia dicono alle telecamere delle Iene di aver visto il ragazzino più grande vestito o curato in cattivo modo. «Siamo rimasti colpiti». «Nessuno si aspettava questa cosa», rivelano alle Iene chi conosceva la famiglia. Già, la famiglia. A quanto pare gli assistenti sociali, racconta il servizio, non hanno chiesto ai parenti (ai nonni, ad esempio) se disposti ad accudire i figli. Nè segnalazioni o informazioni sono giunte al pediatra che curava i bambini più piccoli. Un particolare, quest’ultimo, che potrebbe seriamente avere il suo peso nella crescita e nella formazione dei bambini. Anche i neonati riescono a percepire la mancanza dei genitori e della casa, spiega una psicoanalista alle Iene. «Sono tra il disperato e l’incazzato», dice il papà Andrea.

LA RISPOSTA DEGLI ASISSTENTI SOCIALI – «Quello che ha portato all’allontanamento è un po’ il dubbio sulle competenze genitoriali», rispondono le assistenti sociali ad un incontro con l’avvocato della coppia. Un dubbio aperto – spiegano – «sulla base della possibilità di presenza di una trascuratezza importante rispetto a questi tre bambini». «Quel livello di incuria della casa fa presupporre dei livelli di trascuratezza proprio rispetto alle capacità genitoriali». «Una casa in disordine è un po’ sintomo di trascuratezza e la trascuratezza è pari al maltrattamento…».

La trasmissione manda in onda la vicenda dell’allontanamento di tre minori cernuschesi. Dal Comune ribattono: «Servizio non corrispondente ai fatti, ci riserviamo di tutelare l'immagine dell'ente»». Giornale-infolio.it il 07 Marzo 2014. Alla fine il servizio annunciato delle Iene questo mercoledì sera è andato in onda. E i retroscena di una vicenda raccontata a metà nei giorni scorsi si chiariscono. Nel servizio di Matteo Viviani non viene mai citata Cernusco, ma i luoghi della storia si riconoscono così come è noto il dirigente del Settore Servizi Sociali intervistato alla fine. Tema, l’allontanamento disposto dalle assistenti sociali cernuschesi, in accordo con le forze dell’ordine e il Tribunale dei Minori, dei tre figli (8 mesi, 21 mesi e 12 anni) dell’ex corteggiatrice di Uomini e Donne, Sabrina Saccomanni, e del compagno Andrea Barlocco, ex pr dei vip. Il motivo? Nel servizio si parla di casa sporca (descritta con fotografie anche da una relazione dei carabinieri) e dei minori trovati da soli nell’abitazione. Troppo poco per portarli in una comunità, secondo la psicoanalista Giuliana Barbieri, interpellata da Viviani. Il dirigente municipale, dal canto suo, prova a fornire delle spiegazioni lasciando intendere che si attiverà per riportare al più presto i bambini in famiglia, dai nonni o dagli zii. Il giorno dopo la messa in onda il tam tam in Rete è stato immediato. Accuse anche pesanti sono state rivolte all’amministrazione comunale che in giornata ha diffuso una nota stampa: «In riferimento al servizio del programma di Italia 1 Le Iene sull’allontanamento dai genitori di tre minori, tutti residenti in città, il Comune intende chiarire che la vicenda, così come rappresentata nel servizio, non corrisponde alla realtà dei fatti e che, a differenza di quanto visto e sentito nel corso della puntata, la situazione è stata gestita dai Servizi  Sociali nell’esclusivo interesse dei minori coinvolti: quanto affermato è inoltre confortato dalla documentazione in possesso del Comune che, come richiesto, è stata trasmessa all’autorità giudiziaria competente. L’amministrazione comunale si riserva, pertanto, ampia facoltà di tutelare la propria immagine e quella dei Servizi Sociali che hanno sempre operato nel rispetto della legge e nell’interesse primario dei minori coinvolti nella vicenda».

Casa sporca? Via i bambini: ecco la reazione delle assistenti sociali. Le due assistenti sociali non hanno gradito il servizio de “Le Iene” e hanno chiesto ai genitori di non fotografare i loro figli e poi di vederli a settimane alterne. Fabio Giuffrida su tv.fanpage.it il 19 marzo 2014. Matteo Viviani torna a parlare del caso dei due bambini sottratti ai propri genitori poiché tenevano la loro abitazione in condizioni igieniche non compatibili con gli standard degli assistenti sociali. I due genitori si sono detti disperati per la situazione che si è venuta a creare anche perché i due figli hanno vissuto una bella infanzia e, a detta loro, la sottrazione dei due piccoli sarebbe del tutto ingiustificata. "Casa sporca? Via i bambini", questo il titolo che è comparso nel servizio trasmesso da "Le Iene" questa sera. Dopo la visita di Viviani, tra i genitori e gli assistenti sociali è venuto meno "il clima di collaborazione" al punto che non gli è stato più consentito scattare foto ai propri figli e gli è stata limitata la possibilità di vederli (infatti potranno incontrarli a settimane alterne e potranno telefonarli, nella settimana in cui non li vedranno, una sola volta). "Non sta né in cielo né in terra!" ha sbottato una psicoanalista interpellata dalla iena. Il Sindaco di Cernusco sul Naviglio ha preso le distanze da "Le Iene" sottolineando come Viviani abbia descritto in maniera non veritiera la vicenda dei due minori. Vincenzo Spadafora, Garante per l'Infanzia e Adolescenza, infine, ha dichiarato: Sono rimasto senza parole. L'eccesso di zelo ha portato gli assistenti sociali a non compiere tutti gli atti preliminari prima dell'allontanamento dai genitori. Non avrebbero dovuto usare le forze dell'ordine, avrebbe dovuto sentire la scuola, i nonni e il pediatra.

·         Emilia nostra, le mani della 'ndrangheta su politica e affari.

Emilia nostra, le mani della 'ndrangheta su politica e affari. Il presidente del consiglio comunale di Piacenza accusato di mafia. Imprenditori che non denunciano e chiedono favori alla cosca. E le relazioni pericolose che portano all'ex Ad di Unicredit Ghizzoni. Giovanni Tizian il 25 giugno 2019 su L'Espresso. Da un lato gli incendi, i danneggiamenti, insomma, il tradizionale metodo mafioso. Dall'altro personaggi insospettabili affiliati alla cosca, contigui ad essa o che hanno tentato di usare il clan per arricchirsi. Imprenditori e industriali del Nord, emiliani e lombardi, che con i boss hanno stretto rapporti, chiedendo favori, e subìto le loro imposizioni senza mai denunciare. È il doppio volto della 'ndrangheta emiliana. Che con i suoi esponenti di punta sarebbe stata in grado di intervenire sul banchiere Francesco Ghizzoni, all'epoca dei fatti amministratore delegato di Unicredit. Nelle oltre 250 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip del tribunale di Bologna su richiesta dal pm Beatrice Ronchi della procura antimafia di Bologna, c'è la fotografia del dopo Aemilia, il maxi processo contro la 'ndrangheta emiliana. È un'istantanea amara, che ci dice quanto poco sia mutato nei territori dove domina la famiglia Grande Aracri. Il centro resta Brescello, provincia di Reggio Emilia.  Nel paese sciolto per mafia nel 2016  ai boss finiti in carcere si sono sostituiti i nuovi sovrani che hanno preso in mano le redini della cosca. E hanno saputo stringere rapporti con personaggi in vista dell'economia locale.

L'ultima operazione conta sedici arresti, 76 indagati, una miriade di società finite nel mirino degli investigatori. E soprattutto ci sono gli affari, gestiti dai Grande Aracri, originari di Cutro, paese del Crotonese, ma residenti ormai da decenni nel cuore dell'Emilia. La famiglia di 'ndrangheta colpita duramente nel 2015 con l'operazione “Aemilia”. Dopo quegli arresti un gruppo di affiliati storici ha collaborato con la giustizia. Sono state riempite migliaia di pagine di verbali. Dichiarazioni che hanno permesso di ricomporre ulteriormente il mosaico criminale realizzato dai clan a queste latitudini. Quest'ultima indagine è in parte frutto delle rivelazioni dei pentiti. Un colpo duro alle nuove leve e ai boss rimasti fuori dalla prima grande retata di quattro anni fa. Come Francesco e Salvatore Grande Aracri, padre e figlio. Fratello e nipote del mammasantissima Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, il capo dei capi della 'ndrina.

Il presidente. Il giovane Salvatore Grande Aracri può contare su una rete di complici e affiliati molto estesa. Tra tutti spicca la figura di Giuseppe Caruso, “Pino” per gli amici. Professione: dipendente dell'agenzia della Dogane, prestato alla politica, eletto in quota Fratelli d'Italia(il partito di Giorgia Meloni) presidente del consiglio comunale di Piacenza. Per i pm dell'antimafia bolognese è un affiliato della 'ndrangheta emiliana. Caruso spiega così il suo ruolo nella cosca: «Io ho mille amicizie ... da tutte le parti: bancari ... oleifici ... industriali. Tutto quello che vuoi ... quindi io so dove bussare ... quindi se tu mi tieni esterno ti dà vantaggio, se tu mi immischi ... dopo che mi hai immischialo ... e mi hai bruciato ... è finita ... perché la gente li chiude le porte ... la gente mi chiude le porte ... che vuoi da me ... se tu sei bruciato ... non ti vuole ... hai capito quello è il problema ... quindi allora, se tu ci sai stare, è così». Del resto Caruso è sempre pronto a mettere a disposizione il suo pacchetto di conoscenze.

Riso e omertà. Pino Caruso, il politico, è indagato per associazione mafiosa. Ma anche per un episodio di truffa ai danni di Agea (l'agenzia che eroga i fondi in agricoltura) che coinvolge due imprenditori del riso molto in vista. Si tratta di Massimo Scotti e Claudio Roncaia. Il primo è il cugino del patron di Riso Scotti, il famoso “doottor Scotti” della pubblicità, ed è presidente del Consiglio di Amministrazione della Riso Roncaia. Il secondo è il titolare della Roncaia Spa, un'azienda di Castelbelforte, provincia di Mantova, che navigava in pessime acque. Per la truffa né a Scotti né a Roncaia viene contestata l'aggravante mafiosa, anche perché in un altro episodio sono ritenuti vittime, seppure senza mai aver denunciato, di una serie di imposizioni del clan. Per esempio sono stati obbligati ad affidare il trasporto del riso ai camion di un affiliato pagando il servizio il 20 per cento in più del dovuto. In altri casi hanno dovuto regalare alcuni quintali di merce per i ristoranti della 'ndrangheta emiliana.

L'amico banchiere. Come sono entrati in contatto questi imprenditori con il clan? A dire degli affiliati intercettati dagli investigatori della squadra mobile, alla famosa fiera Cibus che si tiene ogni anno a Parma. A Caruso li avrebbe presentati lo zio di Salvatore Grande Aracri, il nuovo boss emergente della mafia padana. Ma c'è di più. Claudio Roncaia stava attraversando una fase nera in quel periodo. Era il 2015 e i conti aziendali erano in rosso. Per questo chiede aiuto a Pino Caruso, il politico affiliato. Proprio grazie all'intervento di quest'ultimo, Unicredit avrebbe cancellato il nome di Roncaia dalla “centrale rischi”, così da agevolare prestiti bancari in futuro. «Hai visto come ci muoviamo?», dice soddisfatto Caruso a Roncaia una volta portata a termina la missione in Unicredit. Usa il plurare, Caruso. Per indicare che il gruppo, la cosca, a cui appartiene si è mosso. E lo ha fatto senza sbavature, senza sollevare sospetti. Caruso, dunque, risolve i problemi di Roncaia in Unicredit, scrivono gli investigatori e gli inquirenti. Ma quali erano gli agganci di Caruso nel più grande istituto di credito italiano? «il personaggio intervenuto per risolvere le problematiche di Roncaia era l'allora amministratore delegato di Unicredit Francesco Ghizzoni», si legge nell'ordinanza di custodia cautelare. Lo stesso Ghizzoni che in quello stesso periodo era stato tirato in ballo da Ferruccio De Bortoli per le pressioni che avrebbe ricevuto dall'allora ministro Maria Elena Boschi, che avrebbe chiesto al banchiere di valutare l'acquisizione di Banca Etruria di papà Boschi. «Con l'Unicredit abbiamo, stiamo per firmare un accordo 50 per cento ... siamo andati con ... è andato ... da Ghizzoni e quello l'abbiamo risolto». A confermare l'intervento di Ghizzoni è una seconda intercettazione. Il 30 settembre 2015 il fratello di Claudio Roncaia, Riccardo spiega a un suo amico che « l'amministratore delegalo, Ghizzoni di Piacenza...siamo andati a casa sua ... ci manda una persona che lo conosceva ... in due giorni l 'ha risolta». La persona che conosce Ghizzoni, emerge dall'ordinanza, è proprio Caruso. Anche Massimo Scotti nel corso di una conversazione confennava l'intervento del Ghizzoni per l'estinzione del debito: «è stato Ghizzoni ha fare intervenire l'ufficio legale di Unicredit... che ha quindi formulato una richiesta alla quale loro (inteso Roncaia) avrebbe aderito ... con l'ufficio legale, loro han determinato e han detto ... guardate noi per chiudere vogliamo 600.000, noi abbiam detto va bene ti do 600.000 ... chiuso, basta fine del gioco». Una manina santa. O meglio, come lo definiscono in un'intercettazione «un angelo in paradiso».

Servizi segreti, massoni e politici: ecco tutti i legami della 'ndrangheta in Emilia Romagna. Nuovi pentiti svelano i contatti delle cosche padane. Tra cene elettorali, 007 "amici di Bisignani" e "grembiuli" bolognesi. A parlare sono soprattutto i boss, che fanno tremare un sistema di potere. E così gli 'ndranghetisti riprendono a uccidere, in una guerra di mafia che non sconvolge la Calabria. Ma la pianura emiliana. Giovanni Tizian il 7 dicembre 2017 su L'Espresso. Il lato oscuro della 'ndrangheta emiliana. Popolato da 007, forze dell’ordine, politici e massoni. L’intreccio tra potere e clan nella narrazione di quattro nuovi pentiti rivela scenari inediti in una terra che rifiuta l’etichetta di preda delle cosche. Sospetti per ora, che affiorano però negli interrogatori di alcune gole profonde. Un intrigo padano, dai contorni nebulosi, reso ancor più inquietante da un omicidio. La settimana scorsa in provincia di Reggio Emilia è stato ucciso un giovane di 31 anni, originario della Calabria. Persona perbene, lo descrivono tutti. Due figli piccoli e nessun precedente. Nella stessa via erano state bruciate due auto in quindici giorni. Oltre alla procura ordinaria si è attivata anche l’Antimafia. Si scava nel privato, senza tralasciare piccoli dettagli che portano all’attività del padre della vittima, un edile con una partecipazione in un consorzio dove sono presenti personaggi vicini ai clan. Il delitto è «come sale su una ferita aperta», ha detto il questore nei giorni in cui anche a Ostia le pistole sono tornate a far paura. Il timore che avessero ragione i pentiti però è forte. Alcuni di loro hanno avvertito i magistrati di Bologna di una possibile lotta interna alla ’ndrangheta. Non in Calabria, ma nella pianura emiliana. E come in tutti i conflitti la possibilità che muoiano anche gli innocenti è concreta. Sintomi di questa fibrillazione sono comparsi fin dentro i penitenziari, dove si sono verificati duelli tra ’ndranghetisti di opposta fazione. A nove mesi dell’inizio del più grande maxi processo alle ’ndrine del Nord, c’è chi teme un ritorno agli anni Novanta, quando a Reggio le cosche non esitavano a usare le bombe e le lupare. Sembrava la Corleone di Salvatore Riina, eppure era ed è la provincia di Reggio Emilia. Lungo la via Emilia si sta abbattendo un ciclone giudiziario, alimentato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che stanno rivoltando il passato di complicità che molti davano per sepolto. C’è chi prega in segreto per salvarsi, chi riflette come prevenire il colpo e chi, invece, contrattacca nelle aule di tribunale dove lo Stato sta fronteggiando la cosca Grande Aracri - originaria di Cutro, nel Crotonese - ma trapiantata dagli anni Ottanta al di là della Linea Gotica. Una cosa è certa: calato il sipario su questo processo dimenticato dalla stampa nazionale, nulla sarà più come prima in questa pianura trasformata in Far West. Tanto che il gruppo di ’ndranghetisti finiti in carcere ha trasformato le celle in hotel a 5 stelle. Tablet, cellulari, droga, caffè in cella preso con i poliziotti penitenziari, in stile don Raffaè. Pestaggi e accordi con la camorra. Tutto questo nella sezione alta sicurezza, da dove partivano persino pen drive con gli audio che servivano a istruire i testimoni del maxi processo. Episodi emersi grazie ai collaboratori. Il contagio più temuto dalla ’ndrangheta si è ormai diffuso: in meno di un anno cinque nuove richieste di collaborare con la giustizia. Quattro super pentiti affidabili e un altro che la procura antimafia di Bologna non ha ritenuto credibile, nonostante sia il braccio destro del capo dei capi Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, e reggente del clan a Reggio Emilia. Gli altri che hanno ottenuto la patente di collaboratori credibili non sono, però, da meno. Nell’ordine: Nicola Femia, “Rocco” per gli amici, col grado di boss dell’omonimo gruppo mafioso; Pino Giglio, imprenditore e cassaforte della cosca Grande Aracri; Antonio Valerio, affiliato del cerchio magico del padrino “Manuzza”; Salvatore Muto, uomo d’affari del gruppo criminale cutrese. Insomma, per l’impenetrabile mafia calabrese è un colpo durissimo. Una tragedia epocale per l’organizzazione che vanta il minor numero di pentiti rispetto alle mafie tradizionali. Il primo ad alzare bandiera bianca, sotto i colpi della procura antimafia di Bologna è stato Nicola Femia. A febbraio scorso “Rocco” ha chiesto di incontrare i magistrati. Dieci giorni dopo i giudici bolognesi lo condanneranno in primo grado a 26 anni per mafia. Nell’ambiente del gioco d’azzardo legale è conosciuto come il signore delle slot. Uno dei primi a investire nel settore allo scoccare del nuovo millennio. Affondano qui le radici del suo impero economico e criminale. Stringe alleanze commerciali con imprese note del gaming, diventa partner di affermati imprenditori del Nord Italia e sfrutta la complicità di ingegneri informatici. Regista di joint venture tra mafie con fatturati a sei zeri. Oggi è un super pentito, che ha già riempito migliaia di pagine di verbali di interrogatorio. Carte scottanti, per gli argomenti che svela e per i nomi citati. Dichiarazioni che hanno permesso di aprire fascicoli in diverse procure antimafia e di rafforzare inchieste che sono in corso. Di certo, Femia, non ha mostrato alcuna remora di fronte ai pm: già al primo confronto ha ammesso di aver ucciso una persona quando aveva 15 anni. Fu assolto. L’omicidio era stato ordinato dal vecchio patriarca della mafia calabrese Vincenzo Mazzaferro. Quello fu l’inizio della sua carriera. In segno di riconoscenza il padrino lo battezzò «riservato» dell’organizzazione. In pratica Nicola Femia non aveva dovuto affiliarsi formalmente: «Sapeva (il boss ndr) che poteva contare su di me per qualsiasi cosa, non aveva interesse a rendere ufficiale una mia affiliazione». Da allora Femia inizierà la sua ascesa. Era uomo dei Mazzaferro, e questo bastava a spianargli la strada verso il successo. In Calabria come in Emilia. Nipote, peraltro, di un pezzo da novanta della cosca processato assieme a Michele Sindona, il banchiere della mafia pre Riina. Femia, insomma, qualche segreto lo custodisce. Anche perché da quando ha lasciato la carriera di narcos per diventare re delle slot ha conosciuto figure di un certo peso. Come quel tale, descritto nei verbali come uomo dei servizi segreti, che si vantava di essere amico di Luigi Bisignani, «quello della P4, P5...», ha spiegato con una battuta. Non è l’unico 007 da lui frequentato. Le indagini hanno documentato diversi incontri con un agente segreto. Chiamato dai pm non ha voluto fornire spiegazioni. Il collaboratore Femia sta illuminando con le sue dichiarazioni zone buie di questo territorio che sono collegate anche alla politica. Svela ai magistrati le richieste ricevute dai clan della Lombardia per organizzare cene elettorali in Emilia in favore di alcuni politici i cui nomi sono ancora coperti dal segreto. Riferisce anche di un ex deputato, sempre emiliano, che gli aveva fatto chiedere voti tramite il suo faccendiere. Rivela, poi, i rapporti con professionisti iscritti alla massoneria bolognese, delle mazzette per comprarsi le sentenze e il rapporto con un avvocato già parlamentare. Le storie trapelano dall’ambiente giudiziario dove però vige un grande riserbo. Tutto quello che emerge dagli interrogatori fa vedere come in questo territorio si riesce con facilità a mettere in contatto un ex narcos diventato re dell’azzardo legale con pezzi delle istituzioni locali e nazionali. Basta pensare che nell’arco di sei mesi Femia con una sola società di gaming online è stato in grado di incassare fino a 40 milioni. Don “Rocco” non è tra gli imputati del maxi processo Aemilia contro la cosca Grande Aracri, ma in quell’aula è andato a testimoniare, perché con alcuni emissari di quella ’ndrina aveva stretto una partnership.

UNA QUESTIONE POLITICA. Il “pentito” Salvatore Muto ripercorre adesso l’intreccio politico mafioso in Emilia, partendo dal 1994 quando sostiene che venne impartito l’ordine dai clan di far votare Forza Italia. «Quelli che si diedero da fare erano tutte persone appartenenti alla ’ndrangheta o in qualche modo legate... mi occupavo del volantinaggio, appendevo i manifesti». Secondo Salvatore Muto a distanza di ventitrè anni la passione per il partito di Berlusconi non si è affievolita. Il primo politico condannato in Emilia per complicità con i clan si chiama Giuseppe Pagliani, consigliere comunale e provinciale di Forza Italia. Condannato in appello a 4 anni, assolto in primo grado, nel filone politico del maxi processo. In un altro stralcio della medesima inchiesta è tuttora indagato per rivelazione di segreto il senatore Carlo Giovanardi, in passato nel Pdl. Muto dopo la campagna elettorale per Berlusconi racconta di essere partito per Reggio Emilia. Accolto nella corte del padrino Nicolino Grande Aracri. Fu proprio don Nicolino a confidargli la formula del successo criminale: «Le guerre le ho fatte al Nord e le ho vinte io». Il collaboratore di giustizia custodisce segreti anche sull’attività politica attuale. Questioni di voti e potere. Ricorda quando il suo capo gli raccontò di aver ricevuto da un affiliato la richiesta di raccogliere voti per il candidato a sindaco del Pd di Reggio Emilia. Si tratta dell’attuale primo cittadino Luca Vecchi, successore dell’attuale ministro Graziano Delrio. Un sostegno interessato, che però non è stato ricambiato: «Il sindaco non era a favore nostro, si è messo contro di noi», precisa Muto nel verbale del 17 novembre scorso. La moglie di Vecchi, Maria Sergio, è stata per anni dirigente dell’ufficio urbanistica del Comune guidato da Delrio. La coppia Vecchi-Sergio è stata presa di mira dal boss Pasquale Brescia, volto imprenditoriale dell’organizzazione e vicino a diversi poliziotti. In una missiva inviata alle redazioni di giornali dal carcere ha lanciato accuse pesantissime sia al sindaco che a sua moglie. Lettera dai toni minacciosi, che ha portato la procura antimafia di Bologna a indagare Brescia e l’avvocato che lo difendeva. Il pentito Muto sta svelando ulteriori particolari di quella vicenda: sostiene che l’autore della lettera si vantava di sapere molte cose del sindaco Vecchi ma che non poteva parlarne. La lettera, dice un altro pentito che si chiama Antonio Valerio, «fu scritta per far muovere il sindaco Vecchi a prendere le parti dei cutresi... visto che anche sua moglie Maria Sergio è cutrese e aveva un parente capo di Cutro negli anni ’60-’70... sapendo questo si cercava a livello psicologico di assoggettarlo». In questo modo la 'ndrangheta emiliana messa alla sbarra ricatta. Per difendere ciò che ha costruito in trent’anni di colonizzazione.

CATASTO È POTERE. Potito Scalzulli è un ex dirigente del demanio di Reggio Emilia. Oggi fa politica in Romagna, lontano dalla città in cui tutto è cominciato. La prima denuncia porta la data del 23 novembre 2010, in tempi non sospetti, dunque. Quando, cioè, il bubbone 'ndrangheta emiliana non era esploso pubblicamente. Scalzulli nei suoi esposti non ha mai usato mezzi termini: all’interno dell’ufficio che dirigeva si era incancrenito un sistema, «il sistema catasto», lo definisce. Sette anni di esposti che non hanno smosso alcunché. Per questo, adesso, con il maxi processo in corso ha deciso di inviare il malloppo di documenti e denunce raccolte negli anni alla Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi. «Prove documentali che certificano la collusione e la connivenza con il gruppo organizzato di pubblici dipendenti fautori del malaffare, il cosiddetto sistema catasto», si legge nell’incipit del documento inviato alla Commissione. Alla spartizione avrebbero partecipato, secondo l’ex dirigente, funzionari di vertice dell’Agenzia, politici interessati alla tenuta del “Sistema” per garantirsi la continuità del consenso «determinante per fare la differenza sugli equilibri politici elettorali». Al centro delle denunce di Scalzulli anche un politico locale del Pd nonché dipendente dell’Agenzia del territorio, Salvatore Scarpino. Consigliere comunale di riferimento della numerosa comunità calabrese a Reggio Emilia e in ottimi rapporti con l’attuale ministro Delrio. Su Scarpino oltre alle denunce di Scalzulli pesano le dichiarazioni in aula di un testimone durante il processo alla ’ndrangheta emiliana. Renato Maletta, in passato candidato a sostegno di Delrio sindaco e sottoposto di Scarpino all’Agenzia, ha raccontato di aver fatto campagna elettorale per il consigliere Pd. Sorprendenti, tuttavia, le frequentazioni di Maletta: invitato al matrimonio, in Germania, del figlio di un boss e proprietario di un cavallo nel ranch reggiano di un imputato per ’ndrangheta. Non il massimo per chi aspira a ruoli politici. D’altronde, però, l’Emilia non è neanche più la roccaforte etica di un tempo.

Brescello, chiuso per mafia il Comune di Peppone e don Camillo. Il consiglio dei ministri ha deciso: il municipio della provincia di Reggio Emilia va sciolto perché condizionato dal clan. È la prima volta che accade in Emilia. Arriveranno tre commissari per almeno 18 mesi. Giovanni Tizian il 20 aprile 2016 su L'Espresso. Sul filo del rasoio il Consiglio dei ministri ha deciso: sciogliere il Comune di Brescello, provincia di Reggio Emilia. A pochi giorni, dunque, dallo scadere del termine di tre mesi previsto dalla legge. E nel giorno in cui è ripreso il maxi processo con 147 imputati contro la 'ndrangheta, scaturito dell'inchiesta che ha portato al provvedimento su Brescello. Finisce così la favola del paese di Peppone e don Camillo . Strade basse, casali, pianura verdissima e bagnata dal grande fiume Po, che divide questa terra dalla provincia di Mantova. Costretto, ora, a fare i conti con una situazione inedita per la regione. Un'etichetta amara, il primo municipio dell'Emilia a essere sciolto per infiltrazioni mafiose. Finale Emilia, infatti, è stato salvato dallo stesso destino pochi mesi fa. Nonostante la prefettura di Modena ne avesse chiesto lo scioglimento. I problemi di Brescello si chiamano 'ndrangheta. Condizionato, secondo gli ispettori della prefettura, dall'organizzazione che ha cuore e portafoglio proprio in questo paese di 8 mila abitanti. Una decisione per nulla scontata. Nonostante evidenti sottovalutazioni e complicità del territorio finite tutte dentro la relazione dei commissari inviati dal prefetto che dovevano verificare se l'ente era stato o meno inquinato dal clan. Brescello, comunque, non aveva più un sindaco da quando, qualche mese fa, Marcello Coffrini si era dimesso. Eletto con il Pd, aveva in tutti i modi retto all'urto delle polemiche suscitate dopo l'intervista rilasciata al Collettivo Corto Circuito in cui definiva «una brava persona» il boss Francesco Grande Aracri. Nei giorni a seguire dopo la messa in onda, aveva persino organizzato una manifestazione in piazza per mostrare alle istituzioni quanto i cittadini lo volessero ancora primo cittadino. Tutti con lui: anche il parroco. Non si è dimesso neppure dopo l'arrivo della commissione d'accesso inviata dal prefetto. E in un primo momento, lo stesso Pd è stato molto timido nel chiedere a Coffrini di fare un passo indietro. Ma nel momento in cui il prefetto ha inviato la relazione al Viminale con chiedeva lo scioglimento qualcosa è cambiato. Lo spettro del primo ente chiuso per mafia ha portato il partito insistere, anche se non sempre pubblicamente, affinché il sindaco lasciasse l'incarico. Qualcuno, forse, pensava che con questa mossa si potesse evitare la decisione più estrema: lo scioglimento. In vista, tra l'altro delle imminenti elezioni del 5 giugno, giornata di voto anche a Brescello. Non più. Perché ora arriveranno tre commissari a gestire il municipio per almeno 18 mesi. Solo dopo si terranno nuove elezioni. Il clima che troveranno i funzionari del ministero non sarà dei migliori. La tensione resta alta. Gran parte della famiglia del capo clan è in libertà. I cittadini volevano l'ex sindaco e lo hanno sostenuto anche dopo il clamore delle sue parole di amicizia verso il boss. Qui la 'ndrangheta non è mai stata avvertita come un problema. Perché dal '92 non si spara. Perché le imprese della 'ndrina hanno lavorato ovunque. E fatto lavorare. Se questa è la mafia, pensano in molti, allora non è poi così tanto male. Tuttavia, l'inchiesta Aemilia( oltre 200 indagati) racconta un volto diverso della 'ndrangheta emiliana . Fatto di corruzione, violenza, quattrini sporchi. Il controllo del territorio avviene con il potere dei soldi. Delle relazioni. E quando serve c'è sempre il fuoco o il piombo per convincere le persone che non si piegano. Nella relazione di scioglimento in mano al Viminale c'è uno spaccato inquietante di condizionamento mafioso del comune. Fonti autorevoli, riferiscono, per esempio, della cessione di un terreno da parte della vecchia giunta, guidata dal padre dell'ex sindaco, dove le famiglie del clan hanno potuto realizzare il loro quartierino. Con ville e capitelli. D'altronde, il vecchio sindaco, che ha governato per tantissimo tempo, ha difeso, in passato, i Grandi Aracri (il nucleo familiare che dà il nome al clan dell'indagine Aemilia) in diversi procedimenti davanti al tribunale amministrativo. La situazione che troveranno i commissari è complessa. Tra nuove leve pronte a prendere il posto dei reggenti in carcere al 41 bis e cittadini spaventati più dal periodo di commissariamento che dai boss di Brescello.

·         Parma Letale.

PARMA LETALE. Vanni Zagnoli per “Libero Quotidiano” il 29 aprile 2019. Non saranno contenti i risparmiatori rovinati: Calisto Tanzi, il cavalier ex Parmalat, è sereno, a 80 anni. «Si incrocia abitualmente a Parma», ci raccontano. E allora ci mettiamo sulle sue tracce, parlano di una villa a Martorano, verso Reggio Emilia, ma là non si vede. Telefonata di conferma in Gazzetta di Parma e arriva l' indirizzo, a Fontanini di Vigatto, nella periferia ducale. Fermiamo un automobilista: «L' ho vista in televisione, la villa è lì, a sinistra». C' è il cancello alto, un lungo viale, è freddo, sono le 9 passate e Calisto non si vede. Suoniamo. Avevamo frequentato Calisto e il figlio Stefano al Parma calcio, dai primi anni '90, e davvero avremmo voglia di una foto con lui, di salutarlo. Le otto coppe in dieci anni con i gialloblù, adesso crociati, la partita con la Juve finita 3-3, con due gol recuperati dal Parma, per due volte, raro anche 20 anni fa. Calisto è stato a suo modo un creativo, categoria tanto di moda oggi. Per la finanza, cioè anche per mantenere il Parma a livello mondiale, si è rovinato, dando forse il colpo di grazia ai bilanci Parmalat. Con il contabile Fausto Tonna e altri, aveva inventato una copertura finanziaria, un fondo in centro America, una scrittura falsa, e in fondo è stato accertato che i bilanci della Parmalat erano fasulli dal '90, esattamente da quando prese il Parma, alla morte di Ernesto Ceresini, il presidente più amato, mentre stava volando verso la serie A. «Il Parma mi emoziona sempre», ci racconta di sera, «il calcio mi è sempre piaciuto e mi piace ancora. Allo stadio non posso andare». La moglie Anita lascia il numero di casa, chiamiamo, ci passa il cavaliere, un pio democristiano. «Che a un certo punto dava fastidio al sistema», garantisce Vincenzo, chef nella via dei ristoranti a Reggio, dopo 10 anni a Parma. La realtà è che Calisto inventò le sponsorizzazioni. La Parmalat nell' automobilismo, con la Brabham. Tanzi non ha mai fatto interviste, dall' arresto di 17 anni fa. «Potrei», rivela, «ma sono io che non voglio, preferisco non apparire. Invece parliamo normalmente, se vuole». Cioè privatamente, ma ci perdonerà, per avere raccontato la nostra chiacchierata affettuosa. Ricordiamo Hristo Stoitchkov, il bulgaro pallone d' oro, arrivato dal Barcellona, con berlina targata San Marino. «Curioso», gli dicemmo allora, e il trequartista bizzoso quasi ci minacciò fisicamente. Calisto segue il calcio dalla tv, dialoga magari con gli amici, ha una moglie fedelissima e tre figli. Stefano, presidente del Parma dal '96, al posto del fido Giorgio Pedraneschi, lavorava nel Reggiano, a Casalgrande, alla ceramica Ricchetti, certo non ai forni. «Adesso è a Londra, ogni tanto torna a Parma». Si percepisce, al telefono, l' orgoglio del padre, anche nello spiegare dell' altra figlia, Laura, farmacista in città. E appena riusciamo andremo a trovarla, di certo chiederà di non essere ripresa, oltre che non intervistata, siamo abituati Francesca era in Parmatour, divorziò da Salvatore Scaglia, dirigente del Parma e poi della Roma. Erano i tempi in cui era Juve-Parma su tutti i fronti, scudetto, coppa Italia e Uefa, magari. «Meritavamo almeno due scudetti», ci confessò Antonio Benarrivo, terzino vicecampione del mondo nel '94. Tanzi aveva tanti nazionali e per mantenerli a Parma esasperò la creatività della sua finanza, addomesticò molti ma non gli arbitri, mai teneri, con la sua creatura. Non sono più di moda gli scudetti in provincia, dal 2002 è solo Juve, Inter e poco Milan. Calisto ci ha provato e si è scottato, aveva un universo infinito di aziende, da Collecchio al Sudamerica. «Sono agli arresti domiciliari», ma in villa è quasi uno spasso. «Ho solo 3 ore di libertà, la mattina, e lei è venuto a suonare che ero proprio fuori». «A una visita medica», aggiunge la moglie Anita. Sennò sarebbe sceso e almeno l' avremmo rivisto, di sicuro magrissimo, tipo il figlio. «Sto discretamente, via». Calisto ha buona memoria, rammenta persino i gregari, le riserve, i nomi romantici delle sue 12 stagioni nel calcio. «Sorce arrivato dal Licata, dalla serie B, Pulga poi allenatore, del Cagliari, in A, e Matrecano. Susic, Cornelio Donati». Servirebbero ore per rievocare tutto, da Zola a Nevio Scala, alle partite della nazionale allo stadio Ennio Tardini. «Ricordo il custode dell' epoca, Corrado, e poi i dirigenti: Riccardo Sogliano, Michele Uva (vicepresidente Uefa) e Fabrizio Larini». Dalle sponsorizzazioni ai primi stranieri in maglia crociata: il portiere Taffarel dal Brasile, l' esterno Grun dal Belgio, poi diventato centrale, e l' attaccante Tomas Brolin dalla Svezia, anche per esportare il marchio Parmalat. Il centro sportivo a Collecchio, la Parmalat che fece la fine della Cirio e del suo presidente, Sergio Cragnotti. Calisto a 80 anni è sereno, neanche abbiamo il coraggio di chiedergli se rifarebbe tutto, l' ondata di odio nei confronti suoi si è placata da tempo, nessuno va a suonargli a casa, come abbiamo fatto noi. Calisto ha quel nome unico, tipo Ciriaco, De Mita, che alla Lazio aveva portato il figlio Giuseppe. Tanzi junior, Stefano, è magrissimo e garbato, era un presidente troppo educato, per questo calcio. Adesso il Parma ha 7 grandi imprenditori, capeggiati da Barilla, e un cinese in causa con loro, presidente spodestato. Calisto passeggia per Parma, si svaga ripensando agli errori. Sono decine, se non centinaia, gli imprenditori andati nel pallone con il pallone, in fondo è stata la Parmalat ad affondare il Parma, a un certo punto Calisto si era fatto prendere la mano, voleva essere il numero uno al mondo nel latte e derivati e nel football. Aveva in pugno il brasiliano Rivaldo, prima che si consacrasse campione e andasse al Barcellona e il suo Parma aveva messo gli occhi anche su Cristiano Ronaldo, quando aveva 16 anni. Calisto ha e si è emozionato, con il pallone. Faceva persino l' editore, del circuito Odeon, aveva partecipazioni a Teleducato, da un anno fusa con TvParma, arrivavano nella piccola Parigi, il lunedì, i più grandi opinionisti nazionali, compreso Ivan Zazzaroni, oggi direttore del Corriere dello sport. Calisto ospitava tanti, sull' aereo privato con cui i gialloblù, oggi crociati, andavano alla conquista dell' Europa: Coppa delle Coppe e due Uefa, supercoppa europea e finale persa di Coppa delle Coppe. Invitava anche i giornalisti, magari pensionati, dopo-lavoristi, insomma piccoli personaggi di piccole testate, proiettati dalla serie D di mezzo secolo fa, magari, ai viaggi in Europa. Lo chiamavano il lattaio, con quelle sue buone maniere era arrivato a scalare il potere, la finanza, sempre restando nell'ombra. Interviste rarissime, la famiglia nel Parma e nelle aziende. «Litigai con la figlia Francesca e me andai da pr crociato», dice Giorgio Gandolfi, parmigiano, una vita fra Torino e Milano, alla Stampa, in particolare. Calisto si era preso un pr internazionale, non aveva badato a spese, a immagine, a investimenti. Aveva costruito Collecchiello, il centro sportivo gioiello, levando la squadra dagli allenamenti in cittadella, mitici, aperti ai pensionati. L' impero è crollato 16 anni fa, lui finì in manette, il figlio anche ma per meno, il padre ha sofferto tanto ma forse rifarebbe molto. La fede l' ha sempre sostenuto, anche quando girava con il sondino al naso. Magrissimo, condannato a 17 anni e fischi, come dicono nel granducato. Non ha più il sorriso degli anni d' oro, quando era alleato proprio di Cragnotti e gli trasferì Crespo, per lo scudetto biancoceleste. Questa provincia di non più di 700mila abitanti gli è fondamentalmente grata. Tanzi aveva capito a metà anni '80 il potenziale della sponsorizzazione sportiva, condivisa anche con Zanetti, mister Segafredo, oggi alla Virtus Bologna basket, capace di portare in formula 1 Ayrton Senna. Calisto portò Parma sul tetto d' Europa, non confermò Carlo Ancelotti dopo un biennio senza trofei, scelse Malesani, si aggiudicò tre coppe in cento giorni eppure perse gli scudetti, nonostante investimenti mondiali. Cedette Buffon e il campione del mondo Thuram alla Juve, Fabio Cannavaro, poi pallone d' oro, all' Inter, ridimensionò appena si rese conto che sarebbe crollato. Il Parma si salvò per miracolo, grazie alla legge Marzano, sarebbe fallito nel 2015, con Tommaso Ghirardi («Non l' ho conosciuto», dice Calisto), che vendette il pentolone di debiti all'albanese Rezart Taci, con tentativo finale di Manenti, ex impiegato in supermercati. Adesso Parma ha un potenziale da Champions league, con quei 7. Al centenario, nel 2013, arrivò l' Europa League, mancata per un debito di 265mila euro, che poi fece aprire il pentolone dei debiti. Oggi Calisto è lì, guarda la tv e legge i giornali, a Fontanini di Vigatto. «Faccio il giardiniere e il nonno, mi vengono a trovare i nipoti. Qui è casa di mia moglie e qui venivano a cena i campioni». Per 20 anni fu tra i più potenti d' Italia. Chissà se davvero diede fastidio a qualcuno che glielo fece pagare...

·         Ci sono 40 malati gravi in cella a Parma.

Ci sono 40 malati gravi in cella a Parma.Alcuni hanno più di 80 anni. Sono detenuti nel carcere di Parma: Cardiopatici, leucemici, diabetici, ciechi, ammalati di cancro. Alcuni con una incompatibilità carceraria certificata, scrive Damiano Aliprandi l'1 Settembre 2018 su Il Dubbio. Ha l’arto inferiore amputato, cardiopatico, affetto da ischemia, angioplastica, iperteso, diabetico, disfunzioni respiratorie. Si tratta di Giuseppe, un ergastolano che ha incompatibilità carceraria certificata ha 69 anni ed è da 27 in carcere. Poi c’è Salvatore, un altro ergastolano di 85 anni affetto da un aneurisma, trombosi e cardiopatia. Si trova in carcere da 25 anni. Oppure Maurizio, ergastolano in carcere da 23 anni, invalido al 100 per cento con accompagnatore, che ha una pregressa tubercolosi di grado severo, crisi depressive, attacchi di panico e claustrofobia. Non mancano i detenuti come il 72 enne ergastolano, in carcere da 28 anni, che ha la leucemia e afflitto da cecità. Oppure Giancarlo, che ha due tumori, uno al colon e l’altro ai testicoli. Più che un carcere, quello di Parma è un vero e proprio lazzaretto. La lista è lunga, sono persone ristrette in cella, nella sezione As3, quella di alta sicurezza dove la carcerazione pone sostanzialmente limitazioni nel partecipare al programma di riabilitazione. Molti hanno un’età che va dai 65 agli 85 anni, per di più invalidi al 100%, con persone detenute da decenni. La situazione sanitaria dei detenuti ristretti a Parma presenta un quadro che rompe con il luogo comune che in carcere non ci va nessuno e nessuno sconta gli anni fino alla fine. Eppure non solo scontano gli anni in carcere fino alla fine, ma la lunga permanenza in carcere, li priverebbe della possibilità di guarire. Soffrono di patologie fisiche gravi, spesso accompagnate da disturbi psichiatrici. Persone che sono da decenni in carcere e quando escono, lo fanno di solito tramite una bara. Come il caso dell’ergastolano Gaspare Raia morto l’anno scorso, nel mese di giugno. Aveva quasi ottant’anni e stava scontando l’ergastolo nel reparto As3 da più di 25 anni. All’inizio del mese le sue condizioni di salute erano peggiorate ed è stato ricoverato in ospedale, dove però i tre posti letto, riservati ai detenuti, erano occupati da altri ammalati in regime di 41 bis, tra i quali c’era Totò Riina. Aveva da tempo un tumore in fase avanzata e il giudice, solo pochi giorni prima che morisse, gli ha concesso gli arresti domiciliari per facilitare l’accesso del personale medico che lo aveva in cura. L’istituto di Parma è un carcere di alta sicurezza noto per aver ospitato detenuti al 41 bis come Bernardo Provenzano (deceduto nel luglio del 2016), Raffaele Cutolo (il fondatore della Nuova Camorra Organizzata), e Totò Riina, morto a novembre del 2017. Più volte Il Dubbio ha denunciato la situazione critica legata all’invecchiamento della popolazione carceraria (soprattutto quelli in 41 bis), ma soprattutto il problema legato alle persone detenute con gravissimi problemi fisici e psichici. Ora abbiamo la lista e l’ha ottenuta l’associazione Yairaiha Onlus, la cui presidente è Sandra Berardi, che da oltre 10 anni è impegnata nella lotta per l’abolizione dell’ergastolo, del 41 bis e per una amnistia generale. Ricordiamo che l’associazione recentemente ha promosso anche un appello – sottoscritto da giuristi, movimenti politici come Potere al Popolo, associazioni come Antigone e personalità come Ornella Favero, l’europarlamentare Eleonora Forenza o Francesco Maisto Presidente, emerito del Tribunale di Sorveglianza di Bologna – che chiedono la scarcerazione di tutti i detenuti gravemente malati. Partono dal caso Dell’Utri, accogliendo con favore la sua scarcerazione per incompatibilità con il carcere, dicendo che venga riconosciuta la sospensione della pena o la misura domiciliare a tutti i detenuti che presentano patologie analoghe o più gravi di quella riscontrata all’ex senatore. L’appello sottolinea che fra gli oltre 58.000 detenuti sono moltissime le persone affette da patologie gravissime: tumori, patologie psichiatriche, cardiovascolari, respiratorie, disabilità gravi, leucemie, diabete, morbo di Huntington. «Per la maggior parte, – sostengono i promotori dell’appello – gli istituti penitenziari – non sono attrezzati per le cure necessarie ed anche negli istituti dove sono presenti centri clinici le cure sono per lo più inadeguate, e rischiano di determinare l’aggravamento delle patologie». Il carcere di massima sicurezza di Parma ne è un esempio, con un centro clinico che è ingolfato. Appena si liberano i pochi posti della sezione terapeutica alla quale l’amministrazione penitenziaria assegna i detenuti per il trattamento di patologie in fase acuta o cronica in fase di scompenso, subito vengono rimpiazzati da coloro che stanno male. Il reparto – allestito per un massimo di 30 posti – è diventato un punto di riferimento anche per gli altri penitenziari. Così il sovraffollamento aumenta e aumentano anche le persone malate. Poi accade che, a causa delle loro gravi patologie, i detenuti si sentono male e vengono ricoverati d’urgenza in ospedale. Non di rado, poi muoiono.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Succede in Toscana.

Federico Giuliani Costanza Tosi per il Giornale il 20 novembre 2019. Nel buio della notte, ai lati della strada illuminata dal via vai continuo delle macchine, decine e decine di immigrati spacciatori si appostano sul ciglio in cerca di clientela. Sono quasi sempre in due. Oltre al pusher, un palo. Basta questo per tenere la situazione sotto controllo e assicurarsi che nessuno veda il gioco illecito. Il meccanismo è ben oliato e niente e nessuno sembra poter ostacolare o anche solo infastidire i venditori di droga, tutti stranieri, operativi 24 ore su 24 e in ogni giorno dell’anno. Ottenere droga, qualunque tipo di droga, al Parco delle Cascine di Firenze, è facilissimo. Basta avvicinarsi agli stranieri, imbastire una trattativa, accordarsi sul prezzo, consegnare i soldi e la dose è già in tasca. Fumo, cocaina e eroina: non manca niente nell'elenco delle droghe vendute dagli africani. Alla Fortezza da Basso, nei pressi del centro storico, proprio sotto l’ingresso principale dell’edificio che ospita eventi e convegni, c’è un altro luogo chiave dello spaccio fiorentino. La chiamano "stanza del buco" ed è uno spazio oscuro delimitato da un cancello di ferro. Al di là delle grate i pusher preparano le dosi da vendere ai clienti, i quali non devono far altro che scavalcare una piccola siepe e scendere attraverso un sentiero nel luogo dove avviene lo scambio. Basta poco per accorgersene. Intorno decine di aghi e siringhe usate per una dose, in mezzo a bottiglie di alcol. Gli immigrati riescono a procurarsi dai fornitori cocaina, eroina e hashish. E se un cliente ha bisogno di grandi quantità non c’è nessun problema, basta saperlo prima. Magari con una chiamata. I pusher non si fanno problemi, “la polizia dorme”, dicono. Sono sicuri che nessuno li fermerà. Il rischio è minimo, il profitto alto. Molto alto. La maggior parte di loro non ha identità, sono invisibili. Entrati in Italia illegalmente con i barconi. Non hanno residenza, né domicilio. Impossibile rintracciarli. Quasi impossibile beccarli, soprattutto di notte. Sanno bene come aggirare i controlli e fregare le forze dell'ordine. E così gli affari vanno a gonfie vele. La qualità della merce, assicurano gli immigrati, è ottima. Il ritornello che recitano è sempre il solito: la cocaina è pura, l’eroina è pura, il taglio è ridotto al minimo e il prezzo è trattabile. Ma senza esagerare. E così le mafie ingrassano, grazie alla manovalanza nera. È emergenza droga in Toscana. Il consumo di sostanze stupefacenti ha raggiunto vette altissime e lasciato per strada diversi morti per overdose. Nella sola provincia di Firenze, da gennaio ad oggi, sono 13 i morti. Un numero altissimo. Gli immigrati spacciatori non si fanno scrupoli. Vendono la roba anche ai minorenni. L’ultimo decesso per overdose da eroina risale allo scorso 2 novembre, il cadavere di un trentottenne è stato trovato nei pressi della stazione centrale. A pochi passi dal maestoso Duomo di Firenze. E proprio l’eroina, è la droga che ha provocato più morti nel capoluogo toscano. Dietro le sue bellezze da cartolina, i musei e le opere d’arte, Firenze nasconde un’altra dimensione: quella di piazza di spaccio a tutti gli effetti, capace di attirare i tossicodipendenti dal resto della regione e non solo. Scordatevi nascondigli segreti, pusher acquattati dietro qualche cespuglio o imboscati in qualche vicolo secondario lontano dal centro storico. Gli spacciatori, a Firenze, sono ovunque e regnano nella più completa illegalità. Dalla stazione Santa Maria Novella al parco delle Cascine, dalla Fortezza da Basso al centro storico: ogni luogo è buono per comprare "la roba".

Firenze, piazza della stazione in mano ai pusher. E nel fast food droga invece di panini. Pubblicato martedì, 26 novembre 2019 su Corriere.it da Antonio Crispino. Intorno alla stazione di Santa Maria Novella, il biglietto da visita della città, l’assedio dei pusher a tutte le ore. Il McDonald’s si è trasformato nel quartier generale degli spacciatori. Non si fa in tempo a scendere dal treno e sentire l’annunciatore della stazione Firenze Santa Maria Novella che uno spacciatore ti sta già offrendo del «fumo». Appena fuori dallo scalo ferroviario (presidiato dai militari) trovi qualcuno che prova a venderti droga. Insegue il cliente come farebbe un venditore di enciclopedie o aspirapolveri. Alla luce del sole come nel buio della notte. Perché loro sono sempre lì, in piazza della Stazione. Episodi di spaccio si verificano anche in altre città e davanti ad altre ferrovie ma a Firenze Santa Maria Novella la presenza dei pusher è capillare. Presidiano la parte antistante così come le strade laterali; seguono il flusso di turisti con il trolley e stanziano all’ingresso dei negozi come vedette. Al punto che il McDonald’s che fa angolo con via Nazionale è stato trasformato in una sorta di coffe shop olandese. E questo accade all’indomani di quanto disposto dal questore di Firenze: chiusura per una settimana (licenza sospesa) del fast food. Aveva giudicato il pubblico esercizio «assiduamente frequentato da soggetti che vi si recano per consumare svariati reati, dallo spaccio di sostanze stupefacenti ai reati contro il patrimonio, rendendosi talvolta autori di fatti di violenza». Alla riapertura nulla è cambiato nonostante gli sforzi del ristorante che con la vigilanza privata pattuglia persino i bagni trasformati in una vera e propria stanza del buco. Sono devastati. Su quattro ne funziona solo uno e si accede solo con lo scontrino. «Li rompono perché ci salgono con i piedi sopra per non farsi vedere, si drogano e poi vandalizzano tutto» spiega un addetto alla sicurezza sull’uscio. Un suo collega è al piano superiore che cerca di far uscire un gruppo di spacciatori seduti al tavolo. Non hanno consumazioni davanti a loro ma solo un bustone di plastica azzurra. Sono lì per procacciare clienti. La sera è anche peggio. Prendiamo un tavolo vicino all’ingresso e aspettiamo. Dopo appena dieci minuti ci raggiunge un ragazzo che ci offre «erba di qualità» mentre stiamo mangiando. Prende i soldi che gli allunghiamo e dopo poco ci fa segno di raggiungerlo all’esterno. Mentre aspetta che usciamo scambia quattro chiacchiere con uno dei vigilantes. Lo conosci? «Certo, è un amico. All’interno ci sono le telecamere, cerco di non creargli troppi problemi altrimenti chiama la polizia e mi arrestano». E’ stato già ammanettato una volta, poi è tornato a spacciare nello stesso punto. Spiega che, soprattutto dopo il primo arresto, ogni giorno parte da Napoli con massimo cinque dosi di cocaina. Gliela pagano 70 euro al grammo. Il motivo è intuibile: cinque dosi (confezionate e detenute in un certo modo) rappresentano il limite consentito per non essere arrestato e per far rientrare il possesso nell’uso personale o, comunque, il possesso in «modica quantità» con cui rischia solo una denuncia a piede libero. «Non siamo la Digos - si giustifica Tommaso Valle, capo ufficio stampa della McDonald’s Italia -. C’è una collaborazione in atto con le forze dell’ordine. Le chiamiamo ogni volta che vediamo qualcosa di illecito ma è chiaro che noi ci occupiamo di ristorazione non del controllo del territorio». Proprio il fast food di via Nazionale sta rafforzando il sistema di sorveglianza con videocamere ad alta risoluzione che consentano l’ingrandimento dei volti e un migliore riconoscimento degli spacciatori da parte degli inquirenti. «Volendo fare una valutazione a livello nazionale posso dire che una situazione di tale gravità la registriamo solo a Firenze Santa Maria Novella, non c’è un termine di paragone in tutta Italia» continua Valle. E ha ragione. Il resto della piazza è un supermercato della droga: si trova di tutto, dalla cocaina all’hashish, dall’eroina alla marijuana. Anche davanti ad altri locali c’è la solita teppa. Lavorano in coppia. Uno conserva le sostanze stupefacenti nelle tasche e l’altro si occupa della singola consegna, anche all’interno dei negozi. Si cerca di vendere a tutti, dal turista al minore. Nemmeno la polizia fa più paura. Anzi, più di una volta, durante un blitz le forze dell’ordine sono state aggredite mentre cercavano di bloccare un pusher che aveva appena ceduto droga a un ragazzino.

Toscana, nella Regione rossa di Rossi la sanità è sempre più malata. I casi Fucecchio, Versilia e Stella Maris raccontano di come venga gestita la sanità in Toscana. Fabrizio Boschi, Mercoledì 30/10/2019, su Il Giornale. Anche la Toscana nel 2020 andrà al voto. La carriera politica di Enrico Rossi (finalmente) volge al termine. L’ultimo comunista rimasto in circolazione (fondatore del fortunatissimo partito Articolo 1) lascerà la guida della Regione (e speriamo anche la politica) anche se a differenza di Umbria e Emilia-Romagna, difficilmente la sinistra verrà sradicata dalla Toscana. Ma questo lo vedremo. Intanto quello che è certo è che la sua amministrazione non ha brillato per efficienza. Soprattutto nella sanità. Basta vedere le liste di attesa per una Tac o una risonanza: oltre 3 mesi. E fa specie che nel 2000 Rossi si sia candidato alle elezioni regionali coi Ds entrando nella giunta di Claudio Martini (altro desaparecido) proprio con l'incarico di assessore alla Sanità. Ruolo che ha ricoperto fino alla sua elezione a governatore nel 2010. In pratica sono 20 anni che Rossi si occupa di sanità in Toscana (da assessore e da governatore) e 30 anni che viene stipendiato dalla politica (sindaco di Pontedera tra il 1990 e il 1999). Eppure, come dicevamo, la sanità non è il fiore all’occhiello della Toscana. Per colpa della politica naturalmente, non certo dei medici che sono un’eccellenza. Ricorderete il caso del mega buco all’Asl 1 di Massa Carrara. Poi c’è sempre la situazione dell'Ospedale Versilia che è sempre più grave e sempre meno accettabile soprattutto al pronto soccorso dove medici e infermieri sono costretti ad operare in condizioni anche psicologicamente intollerabili. Il pronto soccorso stesso diventa poi di fatto una breve degenza a causa della mancanza di posti letto nei reparti. La sanità in Toscana deve essere quanto prima affidata ad un commissario. In generale poi sta passando sempre più il criterio che se hai i soldi ti curi, se non li hai forse. La civiltà di un Paese si giudica anche da questo. Ma un altro caso è esemplificativo di come venga gestita la sanità in Toscana. Alle eccellenze vengono spesso segate le gambe. Come recentemente accaduto a Fucecchio con il Cesat, centro di eccellenza per protesi di anca e ginocchio, dove un luminare come il professor Massimiliano Marcucci è stato costretto a lasciare nel gennaio scorso l'ospedale di Fucecchio e a tornare al lavoro a Firenze, al CTO, da dove era partito nel lontano 2009 col proposito, nel corso degli anni, di far diventare il vecchio ospedale San Pietro Igneo di Fucecchio punto di riferimento per pazienti provenienti da tutta Italia. Ma, come detto, in Toscana le eccellenze vengono viste con sospetto. È quello che è accaduto alla Fondazione Stella Maris di Calambrone (Pisa), istituto scientifico specializzato in neurologia e psichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza. Il Tar della Toscana ha parzialmente accolto il ricorso della Fondazione, contro un ingiusto provvedimento stabilito dalla Regione Toscana che stabiliva un tetto di spesa per l'acquisto di prestazioni specialistiche. “La Regione, con un decreto del 2018, aveva stabilita un tetto finanziario per l'Irccs Stella Maris che comportava una decurtazione di circa un milione di euro e consentiva un recupero su più anni, anche retroattivo al 2018, della percentuale di remunerazione proveniente da ricoveri ospedalieri di bambini fuori Toscana, che le Regioni di provenienza non rimborsano alla Regione – spiega il direttore generale della Stella Maris, Roberto Cutajar -. La decisione della Regione Toscana avrebbe reso stabilmente precari i bilanci della nostra Fondazione in quanto la trattativa sui rimborsi di regola avviene due o tre anni dopo l'anno in cui sono avvenuti i ricoveri, rendendo impossibile ogni programmazione pluriennale di acquisizione di attrezzature sanitarie, di costruzione o ammodernamento delle strutture edilizie, per l'evidente impossibilità di ottenere prestiti e mutui dalle banche, appunto per l'incertezza continuata negli anni dei bilanci". Il Tar invece, aggiunge il manager, "ha ritenuto giustamente illegittima questa disposizione domandando come l'operatore economico potrebbe prevedere quali Regioni non provvederanno a far fronte alle prestazioni rese a favore dei loro cittadini da parte di altre Regioni, né quali misure organizzative e strategiche l'operatore sanitario potrebbe porre in essere. Le previsioni in esame, in altri termini, come rilevato dalla ricorrente, ledono la certezza dei rapporti giuridici e il legittimo affidamento, esponendo gli operatori sanitari al mancato riconoscimento ex post di prestazioni rese a residenti in altre Regioni, pur essendo le stesse state erogate nel rispetto dei limiti di spesa regionali, con l’effetto che le previsioni stesse sono illegittime e devono essere annullate". La sentenza, inoltre, ritiene possibile l’apposizione di un tetto all’IRCCS, ma non sulla base di un calcolo teorico di prestazioni ‘potenzialmente inappropriate’ e tenendo presente che la Regione su tale materia si è data precise regole di analisi dell’appropriatezza delle prestazioni, che la Regione medesima ha completamente disatteso. Sull’apposizione di un tetto finanziario alle prestazioni ospedaliere dell’IRCCS, che il Tar ha ritenuto in via di principio apponibile, è da notare che lo Stella Maris Scientifico è l’unico in Italia interamente dedicato alla ricerca e all’assistenza ospedaliera per i bambini affetti da malattie del cervello e della mente. Attualmente le liste di attesa dell’ospedale Stella Maris, per alcune patologie tra cui l’autismo, arriva addirittura al 2021, un vero e proprio scandalo della sanità. A ciò si aggiungono la drammatica situazione di circa 700 bambini in attesa di una presa incarico nell’ambito dei Day Services ambulatoriali. “E’ buon senso concludere che l’attività dell’IRCCS – continua Cutajar - non solo non dovrebbe essere limitata o frenata ma dovrebbe essere incentivata a collocarsi sulla massima efficienza, tenendo comunque conto che la risposta in tale delicato settore la risposta della sanità italiana e di quella regionale è assolutamente insufficiente. Si pensi che per tutto il territorio italiano, come segnala un importante documento della SINPIA, la Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile i posti letto sono solo 289 (di cui 58 presso il nostro Istituto Scientifico), un altro scandalo della sanità italiana. Si pensi che secondo gli ultimi dati epidemiologici un bambino ogni 68 nati potrebbe essere portatore di una diagnosi di autismo”. Tutto questo dovrebbe essere motivo di orgoglio e piena soddisfazione. Ma non per la politica Toscana evidentemente. E con un ministro della Salute come Roberto Speranza, che l’unica salute di cui si è occupato nella vita è quella sua, le cose non sono destinate ad andare meglio. “In tutto questo c’è qualcosa di irrazionale e che non va nell’approccio della politica alle problematiche dei bambini affetti da malattie del cervello e della mente. I bambini e le loro famiglie che da tutta Italia vengono a curarsi a Stella Maris hanno bisogno di una migliore considerazione ed attenzione da parte delle istituzioni sanitarie. Su questo il nostro IRCCS può dare proposte convincenti alle autorità preposte alla programmazione regionale. La Regione non limiti l’azione di Ospedali come la Stella Maris che da anni ed anni, con l’entusiasmo e la bravura dei propri medici e del personale sanitario tutto, si affanna a dare risposte che spesso il SSN non riesce a dare nel nostro settore specialistico”, conclude Cutajar. "La Regione potrà anche impugnare la sentenza, ma il suo atto è controverso - tuona il capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale, Maurizio Marchetti -. Il Tar ha sentenziato: la delibera di un anno fa con cui la Regione ha imposto tetti di spesa alle cliniche private per l'accoglienza di pazienti da fuori Toscana presenta profili di illegittimità. Noi l'avevamo sempre sostenuto, poiché comprime di fatto da un lato la libertà d'impresa delle cliniche, dall'altro la libertà di scelta su dove e come curarsi per i pazienti, e lo fa in maniera del tutto arbitraria, addossando ad altri la responsabilità di non riuscire a farsi rimborsare dalle altre Regioni". Anche il senatore Massimo Mallegni, vice coordinatore vicario di Forza Italia, commenta: “La sanità deve tornare saldamente nelle mani dello Stato centrale. La riforma del titolo V della Costituzione non ha prodotto gli effetti sperati ma ha anzi creato una grande differenza tra i sistemi sanitari regionali. Se le intenzioni erano buone la realtà lo è molto meno purtroppo. La sanità va ripensata alla luce di quello che sta succedendo in Toscana ed in molte regioni dove la sanità è di serie B e a volte anche di serie C. Dovrebbe essere tutta di seria A”.

·         Firenze nelle canzoni.

Firenze nelle canzoni: un sondaggio per scegliere quella più bella. Da Odoardo Spadaro, Riccardo Marasco fino a Pupo e Leonardo Pieraccioni: quante sono le canzoni dedicate a Firenze? Matteo Regoli il 22 agosto 2019 su La Repubblica. La dolce nostalgia del brano di Odoardo Spadaro o le romantiche parole, quasi versi, di "Firenze sogna" scritte da Cesare Cesarini e intonate dalla voce di Claudio Villa o Carlo Buti. Oppure la sconsolatezza e la malinconia amorose di una serata fiorentina cantate da Brunori Sas. Qual è la vostra canzone preferita fra quelle che hanno Firenze come protagonista o come sfondo di storie ed emozioni? Il capoluogo toscano è stato spesso fonte di ispirazione per compositori e cantautori, oltre che luogo natale di importanti esponenti della tradizione cantautorale classica italiana del '900. Una tradizione che a Firenze e in Toscana affonda le proprie radici nella poesia popolare degli stornelli, canti dalla metrica variabile originari del XVII secolo. Ecco proposta una scelta di dieci canzoni, che comprende classici come "Porta un bacione a Firenze" di Odoardo Spadaro, "Firenze Sogna" di Cesare Cesarini (nota nelle interpretazioni di Carlo Buti e Claudio Villa) o "L'alluvione" di Riccardo Marasco, ma anche pezzi di successo più recenti, come "Firenze Santa Maria Novella" di Pupo o "Firenze" di Leonardo Pieraccioni, fino ad arrivare agli esiti più moderni, con i brani "Lei, lui, Firenze" di Brunori Sas o "Il cielo di Firenze" di Paolo Vallesi. Queste sono alcune delle canzoni che abbiamo selezionato. Votate quella che per voi rappresenta di più Firenze. 

Odoardo Spadaro - Porta un bacione a Firenze

Claudio Villa - Firenze sogna

Riccardo Marasco - L'alluvione

Pupo - Firenze Santa Maria Novella

Ivan Graziani - Firenze (Canzone triste)

Laura Landi - Firenze piccoli particolari

Riccardo Marasco - Firenze bottegaia

Leonardo Pieraccioni – Firenze

Brunori Sas - Lei, lui, Firenze

Paolo Vallesi - Il cielo di Firenze

·         Carrara. Morire di marmo.

Morire di marmo, ecco cosa succede dentro le cave di Carrara. Pubblicato venerdì, 31 maggio 2019 da Marco Carlone, Elena Pagliai, Daniela Sestito su Corriere.it. Nella città apuana la «pietra che splende» è stata per secoli sinonimo di identità locale: dall’estrazione al commercio, passando per la lavorazione, il settore marmo è da sempre pilastro dell’economia cittadina. Il comparto registra però un consistente numero di infortuni sul lavoro, un vero e proprio bollettino di guerra: 12 incidenti mortali negli ultimi tredici anni, 1206 feriti. E si tratta di un dato parziale, visto che dal 2017 l’osservatorio infortuni dell’Asl locale non è stato attivo per una riorganizzazione della struttura interna. Gli incidenti sono diminuiti rispetto agli anni Cinquanta o Sessanta – furono, ad esempio, 22 i decessi nel comparto solo nel 1965 – ma mai del tutto terminati: le condizioni di lavoro – spesso estreme – continuano così a dar luogo a una lunga scia di infortuni. Sono molti i modi in cui si muore di marmo: schiacciati dai blocchi o dagli escavatori in manovra, sommersi dalla frana di un versante, colpiti dalle perline del filo diamantato sparate come proiettili dai macchinari che squadrano il materiale. A parlare con i cavatori sembra quasi che la montagna, ad un certo punto, ti presenti il conto. Di ben altro avviso i rappresentanti dei sindacati, che rifiutano l’ineluttabilità degli incidenti. Quello del marmo di Carrara è un complesso industriale che perde le sue origini nel tempo: utilizzato già nel I secolo a.C. dai Romani e scelto da Michelangelo per le sue opere più note, il minerale è ancora oggi fra i più famosi e richiesti al mondo. Adesso come allora, protagonisti di questo settore sono i «cavatori», gli operatori dell’estrazione, nonché gli artigiani e gli operai di segherie e laboratori di lavorazione, largamente diffusi ai piedi delle Apuane. Nati a Carrara, Massa o nei paesini di versante, gli uomini del marmo crescono insieme, sviluppando legami profondi con chi di fatto un domani diventerà loro collega, responsabile della sicurezza o datore di lavoro. Ma non solo. Il settore è uno dei pochi dove agli operai capita di lavorare fianco a fianco con titolari e capocava. Non è un caso che qui il termine cavatore abbia duplice valenza e indichi sia l’operaio che i suoi superiori. In questo mondo soggetti con ruoli differenti difficilmente si contrappongono, e il senso di appartenenza alla comunità lavorativa può talvolta vincere sulle denunce per infortunio o per sicurezza precaria. «Quando c’è un infortunio non c’è mai una posizione, c’è una difesa corporativa. Spesso il capocava magari è il cognato del padrone, il fratello del padrone, il loro amico. Non c’è una distinzione dei ruoli» dice Paolo Gozzani Segretario Cgil Carrara.

Dall’alto di un vecchio sentiero si vedono gli operai gesticolare sul piano di cava: dirigono ritmicamente il traffico degli escavatori, che muovono blocchi e scaricano detriti come fossero briciole di pane. «Da quando ci sono ‘ste macchine in cava, non ci si rende più conto di quanto siano pesanti i blocchi» racconta Umberto, un ex operaio che lavora con il marmo fin dagli anni Settanta. D’estate sulla pelle dei cavatori si vede tutta l’abbronzatura di ore e ore passate a lavorare all’aria aperta. Sveglia alle cinque meno un quarto e poi fuori in cantiere, con un sole cocente a picco sul capo, riflesso ovunque dal bianco del minerale. Cambiano le stagioni ma non le condizioni di lavoro: d’inverno la sveglia suona un po’ più tardi, ma bisogna affrontare le strade ghiacciate e scivolose, le superfici del minerale gelide, la nebbia, la neve. Quello del cavatore è un lavoro soggetto a condizioni climatiche estreme: da poco sono state installate le colonnine metereologiche per interrompere i turni quando le temperature salgono o scendono troppo. Non si potrebbe lavorare col ghiaccio, né sopra i 35 gradi, ma non tutti gli imprenditori sono disposti a bloccare il flusso della produzione a causa del meteo. Una situazione che migliora nelle cave in galleria, dove però bisogna fare i conti con il tasso di umidità elevatissimo, il rimbombo delle ventole, il buio perenne. «Una volta in cava lavoravano i “bagasci”, operai giovanissimi che, a detta dei lavoratori di oggi, erano agili come gatti. Ora sono le macchine ad essere veloci, e i cavatori non riescono a tenere il passo» dice Andrea Figaia Segretario Cisl Massa-Carrara.

Strapiombi che toccano quasi i 10 metri, filoni di marmo discontinui e instabili, versanti friabili: chi lavora in cava deve necessariamente fare i conti con l’imprevedibilità delle Apuane. Si dice che in passato i cavatori più esperti sapessero riconoscere i pericoli ascoltando i rumori delle fratture del monte. Adesso è l’insistente frastuono dei macchinari a far da sottofondo. Gli operai si trovano a combattere anche una lotta impari con apparecchi automatizzati che non hanno turni né stanchezza, che producono a prescindere da orari, temperatura, rischi, compensi. «Noi stiamo lavorando con la natura, e ogni tanto a forza di scavarla – pugnalarla, come diciamo noi – succede quello che non dovrebbe succedere. Il rischio c’è sempre, però questo lavoro non lo cambierei con nessun’altro al mondo. Quale ufficio avrà mai un paesaggio del genere?», racconta Mirco, cavatore. Il panorama dalle cave è mozzafiato: lì, dall’alto, si domina tutta la piana sottostante, la città di Carrara, fino ad arrivare alla costa. 

Dal 2016 la Regione Toscana e la Procura di Massa, in seguito ai numerosi incidenti, hanno attuato uno sforzo consistente per migliorare i controlli e la prevenzione degli infortuni. Sono 3,2 i milioni di euro investiti nella sicurezza in cava e in segheria, con un forte aumento dei controlli sul posto di lavoro. Da quando sono state messe in atto queste nuove misure, gli incidenti sono diminuiti, ma garantire l’abbattimento del rischio in un ambiente in cui i pericoli sono di natura così varia non è stato possibile. Il timore è anche che i numeri delle denunce non riflettano la realtà. Alcuni cavatori parlano di ricatto occupazionale, sebbene non si tratti di una situazione generalizzabile per ogni cava. Non denunciare le situazioni a rischio equivale a mettere a repentaglio la propria vita. Denunciarle, tuttavia, significa firmare un documento contro la propria cava, andando incontro a un probabile licenziamento. «Tanti hanno paura di denunciare o segnalare quali sono le cose che non vanno. Ci sono certi capocava che ti dicono “se non ti va bene, quello è il cancello”» dice Gianluca., Lega dei Cavatori. Negli ultimi anni la questione della sicurezza sembra essere diventata urgente anche nel settore logistico del comparto. Secondo i rappresentati dei sindacati, in questo campo i contratti sarebbero sempre più precari e non tutti gli operatori dello stoccaggio sarebbero sufficientemente formati a gestire un lavoro tanto specifico e rischioso. Qual è l’alternativa però? I dati sulla situazione lavorativa del territorio sono stati a lungo scoraggianti. Nonostante in quest’ultimo anno la quota dei senza impiego si attesti al 10,4%, dal 2014 al 2017 il tasso di disoccupazione della provincia ha oscillato dai due ai sei punti percentuali in più, raggiungendo il picco del 16,6% nel 2016. Sul piatto della bilancia finiscono dunque pesi di diverso genere: uno stipendio, la propria salute, ma anche il legame con i propri colleghi, con il titolare, talvolta anche con la propria famiglia. Nel frattempo, gli uomini del marmo continuano a lavorare, minuscoli di fronte alle bancate che li sovrastano, alle macchine che lavorano implacabili, alle ferree regole di una professione che non fa sconti ai suoi lavoratori.

·         Il Degrado del Giglio.

Firenze, inchiesta sul degrado del "Giglio" sfiorito. Spaccio di droga, risse, degrado in pieno centro. Viaggio in una città in crisi che si prepara alle elezioni comunali, scrive Panorama il 14 aprile 2019. Foto: La polizia di Stato ha smantellato la centrale dello spaccio ai giardini della Fortezza da Basso di Firenze: poliziotti undercover e telecamere nascoste hanno portato alla luce almeno 200 episodi di spaccio in poco più di due mesi. Ventisei le persone finite in manette tra spacciatori e fornitori della droga, quattro dei quali fermati durante un blitz della polizia in un parcheggio sulla A1, 23 gennaio 2019.  Perfino l’affabile cingalese in piazza della Repubblica, venditore di trottole volanti, sussurra furtivo: «Vuoi una canna?». No, grazie. Firenze, allo sbocciar di primavera, è un dedalo asserragliato. Orde di turisti, bivacchi selvaggi, clandestini piantagrane, ambulanti di tarocchi e spacciatori di tutto. L’apocalisse diventata ordinarietà. «Città dal fascino sottile» scriveva Stendhal. E adesso, ahilui, dalle grossolane brutture. Così, dal palco di un’anonima piazza periferica, Matteo Salvini arringa la folla. Accanto c’è Ubaldo Bocci, sessantenne con barba e capelli bianchi: è sulla sua spalla che s’è poggiato lo spadone leghista. A fine maggio tenterà l’inosabile: sfilare al Pd la Disneyland del Rinascimento. Il leader della Lega già lo chiama «Caro sindaco». Lui si schermisce, ma ci conta. «C’è molto da fare» sprona Salvini. «Non ci servono supereroi e belli da Pitti Uomo, ma serve gente che ami la città: compresi i quartieri dove non si può andare nei giardini perché spacciano». L’altro Matteo, quel Renzi disarcionato, ribatte ribaldo: «Caro Salvini, prima di parlare dei risultati della mia città, sciacquati la bocca. Perché la mia città si chiama Firenze, e Firenze sa riconoscere da lontano i venditori di fumo. Viva la bellezza, viva Fiorenza». Da mesi, Renzi largheggia: dalle rive dell’Arno partirà la riscossa. L’ex premier, già sindaco della capitale medicea, medita vendetta, tremenda vendetta. Si frega le mani. Le amministrative, spera, saranno l’occasione per dare un buffetto all’arcinemico populista. Che gli ha sottratto potere, voti e popolarità. Matteo contro Matteo. A Firenze è scoccata la campagna elettorale. Da una parte, Dario Nardella: delfino dell’ex Rottamatore. Dall’altra, Ubaldo Bocci: candidato del centrodestra. Del primo contendente molto si sa: ex diessino, poi renzianissimo, adesso zingarettiano. Anche se, malcelando imbarazzo, notifica: «Il mio partito è Firenze». L’altro è un neofita della politica: manager di Azimut, società di consulenza patrimoniale, e cattolico attivissimo nel volontariato. Dunque, Dario contro Ubaldo: il partitone della prossima tornata. L’inarrestabile Lega tenta di gabbare il declinante Pd. Buttando in campo gli endemici malanni del capoluogo toscano: degrado, criminalità e lassismo. Nardella, reduce da un lustro al comando, mette le mani avanti: «Firenze non è una città più insicura di altre. Non abbiamo un’emergenza sicurezza». Le cronache degli ultimi mesi lasciano qualche perplessità. Una sequela di violenze: e non nelle lande periferiche, ma tra i palazzi rinascimentali del centro. Come la recente megarissa in piazza dei Ciompi: una spedizione punitiva, sul far della sera, con un gruppetto di nordafricani che aggredisce un tunisino con una mazza. O la singolar tenzone, due settimane fa, al mercato di san Lorenzo: cinque extracomunitari finiti all’ospedale. Oppure la furibonda lite, un mese orsono, in via dei Servi, a pochi passi dal Duomo. Una zona che, ogni weekend, diventa un ring urbano: cazzotti, spranghe, bottiglie, furti, spaccio. Residenti e commercianti, esasperati, fanno colletta per pagare un servizio di vigilanza. Per fortuna, arriva Nardella: «Non lasceremo che in via dei Servi viga la legge del più forte!». Campa cavallo, gli rispondono i fiorentini. Già scossi dalla morte, il 10 giugno 2018, di Duccio Dini, 29 anni. In sella al suo scooter, una domenica mattina, è centrato da due auto che si inseguono: un regolamento di conti da poliziottesco americano. Sette rom vengono arrestati. Segue sommossa popolare, al grido di: chiudete i campi nomadi. A partire dal più problematico: il Poderaccio. «Lo smantelleremo» promette Nardella. La contingenza richiede determinazione e tempismo? «Ci vorranno diciotto mesi» indugia il sindaco. Nell’attesa, il campo rom rimane lì: intonso. Tra le usanze locali c’è il rogo di cataste di rifiuti e masserizie. Solo nelle ultime settimane, i vigili del fuoco sono intervenuti tre volte. Nell’attesa di smobilitare, la scorsa estate è stata sgomberata l’attigua baraccopoli. Il 2 luglio 2018, mentre osserva ammirato la più salviniana delle ruspe in azione, Nardella annuncia: «Un altro intervento concreto su legalità e cura della città. Andiamo avanti con il nostro piano contro le occupazioni abusive». Già. Eppure, come documenta solerte il deputato di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, due mesi dopo i rumeni s’erano riaccampati: poche decine di metri più in là.  Tutto tace invece in un altro insediamento dei dintorni. È in una fabbrica dismessa: la Gover. Anche qui: cumuli di lerciume, carcasse d’auto, escrementi umani. A pochi metri, in via del Pesciolino, c’è una distesa di palazzoni e un parco giochi. L’olezzo arriva fino agli scivoli. Niente paura, però. Rinascita imminente. Già il 18 aprile del 2012 il predecessore di Nardella, l’indimenticato Renzi, deflagra: «Così non può andare avanti! Bisogna mettere a posto». Agli inferociti residenti spiega che il tempo dei cincischiamenti è finito: o intervengono i proprietari dell’area, altrimenti ci pensa il Comune. Ruspa! Com’è finita, non smette di ricordarlo il solito Donzelli, con periodiche e urticanti incursioni. L’ultima è di qualche settimana fa. Solita solfa: «Insicurezza, sporcizia, degrado» cataloga il deputato. «Ormai gli abitanti della zona sono in balia degli abusivi». Altra cavalcata trionfale è quella degli immobili occupati. Un anno fa, in risposta a un’interrogazione di Arianna Xekalos, allora capogruppo dei Cinque stelle in consiglio e adesso alla guida della civica «Firenze in movimento», l’assessore al ramo ne conteggia ben 26. Diciassette sono di privati. Come l’ex hotel Concorde, dove lo scorso dicembre l’ennesimo incendio ha mandato sette persone all’ospedale. Quattro edifici, poi, sono pubblici. A partire dall’ex scuola Don Facibeni, sede del centro sociale Cpa occupata dal 2001. Tra le iniziative più acclamate del collettivo si segnala, un anno fa, l’incontro con l’ex brigatista Barbara Balzerani, in occasione del quarantennale del rapimento di Aldo Moro. L’opposizione, in testa il battagliero capogruppo di Fratelli d’Italia, Francesco Torselli, chiede l’immediato sgombero. Ma Nardella frena: «È un’operazione complessa». E aggiunge: «Se fosse stato facile, l’avrebbero sgomberato da vent’anni...». Inappuntabile. Niente paura, però. L’arma segreta contro le occupazioni abusive c’è. E ha persino un nome: cabina di regia. Orpello di memoria craxiana e d’indimenticabile inutilità. Stavolta invece si fa sul serio. Regione, Comune, demanio, diocesi. Tutti uniti, meglio degli Avengers. Gli irregolari hanno le ore contate. Lo stesso dicasi per i turisti sudicioni e maleducati. Quelli sì, messi in riga come soldatini. Rieducati, uno dopo l’altro, a suon d’illuminate ordinanze. «Cos’è il genio?» ragionava il fiorentinissimo Perozzi di Amici miei. «È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione». Qualità sfoderate dal sindaco nella lotta ai bivacchi. I gitanti si sbracano indecorosamente? Lui fa bagnare con gli idranti gli scalini del Duomo e le altre zone di assembramenti. «Una misura gentile, che evita la multa» chiarisce Nardella. Talmente gentile da aver accolto il plauso dei turisti. Pronti a riaccomodarsi sui limpi gradini, dopo rapida evaporazione acquea. O a bagnarsi i calzoni in cerca di refrigerio. Ben congegnata anche la soluzione per le code in via de’ Neri, dove c’è un’affollatissima rivendita di cibarie. Qui vige un’inflessibile ordinanza anti-panini. Impone consumazione dinamica, evitando ogni staticità. Insomma: bisogna mangiare in piedi, o meglio camminando. Passi lunghi e ben distesi. «Una risposta concreta e di buonsenso» esulta Nardella. Magari il problema fossero solo i turisti maleducati... Ci sono quelli che scambiano i monumenti per latrine. Gli studenti ubriachi che vagano molesti nella notte. Le risse a colpi di bottigliate. E uno spaccio ormai capillare. Qualsiasi droga in qualsiasi angolo del centro. Ogni giorno: dalle 8 e 30 del mattino fino all’alba successiva. Malavita di strada che s’è ormai regolamentata. Del resto, nell’ultimo indice di criminalità pubblicato da Il Sole 24 ore, Firenze è la quarta provincia italiana per denunce di reati. «È diventata la città delle illegalità» bombarda Marco Stella, coordinatore fiorentino di Forza Italia. In ossequio al conterraneo Dante Alighieri, Nardella però «guarda e passa». Anzi: rilancia. «In questi cinque anni» gongola «abbiamo realizzato il 95 per cento dei punti del programma!». Urca! Nemmeno Renzi avrebbe osato tanto. L’allievo straccia il maestro. La dura realtà costretta a inchinarsi davanti a palmari evidenze numeriche: un nuovo Rinascimento è già cominciato. I colpevoli fiorentini, distratti dal logorio della vita moderna, se ne facciano una ragione.

·         Le famiglie ricche di Firenze.

Le famiglie ricche di Firenze sono sempre le stesse dal Rinascimento. Alla faccia della mobilità sociale, scrive Mattia Sisti su it.businessinsider.com. il 30 marzo 2019. Firenze. Dal Rinascimento a oggi poco è cambiato. Camminando per le strade del nostro bellissimo paese si ha l’impressione che il tempo non scorra mai. Se noi ci fossimo trovati per le stesse strade, viali e piazze nel 1400 piuttosto che negli anni 2000 troveremmo ben poche cose che sono cambiate, a parte l’abbigliamento delle persone, le automobili e l’illuminazione elettrica. I monumenti, i palazzi e addirittura i nomi delle vie sono gli stessi da secoli. Questo è particolarmente vero per la città simbolo del Rinascimento italiano: Firenze. La quale ha addirittura la stessa farmacia dal 1200: la famosa Officina Profumo-Farmaceutica di Santa Maria Novella. Ma in maniera assolutamente sorprendente la stessa immobilità a livello urbanistico e artistico a Firenze si estende anche a livello di mobilità sociale. Ovvero: le famiglie ricche di Firenze sono fondamentalmente le stesse dal Rinascimento ad oggi. Uno studio da parte di due ricercatori italiani Guglielmo Barone e Sauro Mocetti intitolato ‘Qual è il tuo cognome? Mobilità intergenerazionale durante 6 secoli’ (2016) sostiene proprio questo. Lo studio, che ha avuto una certa eco internazionale, è stato condotto tramite la comparazione tra i dati dei contribuenti fiorentini nel 1400 e nel 2011—il tutto farcito da cognomi, occupazione, reddito e ricchezza. La tabella mette a confronto il censimento di Firenze 1427 e le dichiarazioni dei redditi 2011. A destra i dati del 1427: le percentuali indicano la ricchezza da 1 (minimo) a 100 (massimo). I cognomi a livello familiare sono stati sostituiti da lettere per motivi di privacy. I dati riportati dalla tabella sono inequivocabili: i più ricchi fiorentini ai nostri giorni lo erano già nel 1400 e lo sono stati durante tutti questi secoli. Avevano e hanno le stesse professioni come: membri della corporazione dei calzolai, della lana o della seta o avvocati. In altre parole, i loro guadagni e la loro ricchezza sono sempre stati sopra la media. Al contrario, i più poveri abitanti di Firenze di oggi sono tali dal 1427 e svolgono anche gli stessi lavori, come ad esempio il medico o chi lavora con la lana; la loro ricchezza e reddito sono stati sotto la media a partire dal 1400 fino ai giorni nostri. Il che dimostra in maniera forse inequivocabile che, perlomeno a Firenze, alcune professioni come l’avvocato o il mercante di seta non sono vere e proprie "professioni" ma vere e proprie dinastie. Per fare una comparazione, un recente studio riportato da James Pethokoukis dell’American Enterprise Institute dimostra come in America sia vero il contrario: la mobilità sociale è un fenomeno molto diffuso. Certo è anche vero che camminare per le strade di New York o Boston non è certamente equiparabile ad essere davanti al Duomo di Firenze,  camminare per il colonnato degli Uffizi oppure visitare Palazzo Pitti: in America tutto è in continuo cambiamento, gli edifici così come la scala sociale.

·         La direttrice di Sollicciano.

Il carcere “Solliccianino”, dopo 22 anni perde la sua direttrice, scrive Damiano Aliprandi il 27 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Dopo 22 anni da direttrice di due carceri importanti, distinta per il suo impegno profuso per rendere il carcere più umano, è stata demansionata dall’amministrazione penitenziaria per svolgere il lavoro da vicedirettrice nel carcere di Sollicciano. Parliamo di Margherita Michelini, 22 anni di direzione, prima della custodia attenuata del carcere femminile di Empoli e successivamente di quella maschile del Mario Gozzini di Firenze. Quest’ultimo conosciuto come il “Solliccianino” è diventato un esempio virtuoso grazie al suo impegno affiancato dalle istituzioni toscane, il personale civile, gli agenti penitenziari e il mondo del volontariato laico e religioso. Nonostante, come detto, il suo impegno, ma anche le sue condizioni di salute e il suo ricorso al Tar del Lazio per affermare il diritto di essere assegnata nuovamente al Gozzini, il Dap ha comunque deciso di trasferirla con il ruolo di vice direttrice. Già ad ottobre scorso, era arrivata l’indiscrezione sull’allontanamento della direttrice (previsto dall’avvicendamento dei direttori in tutta Italia) con cui i detenuti hanno instaurato nel corso di questi 6 anni un rapporto quasi familiare. E sono stati proprio i detenuti, 75 sui 100 complessivi, a firmare un documento in cui si è chiesto di impedire il trasferimento della direttrice storica del carcere. «Vogliamo precisare – hanno sottoscritto i detenuti – la nostra contrarietà a questa decisione improvvisa e inopinata. La nostra direttrice aveva chiesto di restare nella stessa sede riscuotendo verbali assicurazioni che così sarebbe stato. Ci sorge pertanto il sospetto che possa trattasi si un colpo di mano». I reclusi hanno pregato di far scongiurare il trasferimento visto il rapporto con la direttrice Michelini, che «ha instaurato nell’istituto un clima improntato a forte caratura empatica, ponendo sul terreno pratico il buon senso oltre la norma». I reclusi, nella petizione, avevano anche accennato alle precarie condizioni di salute della direttrice, da anni in lotta contro il cancro: «Da anni combatte contro pesantissime condizioni di salute che però non fanno venire meno il suo impegno lavorativo, le sue condizioni di salute sono tali da rendere impensabile un eventuale trasferimento in altre città». Già allora circolavano le ipotesi – poi purtroppo confermate – dello spostamento di Michelini alla vicedirezione del più grande carcere di Sollicciano. Su questo hanno detto i reclusi: «Non comprendiamo e non giustificheremo l’eventuale spostamento, in qualità di vicedirettore, al vicino carcere di Sollicciano richiedendo tale ruolo un impegno lavorativo insostenibile (viste le dimensioni del carcere)». La lettera si è chiusa con un accorato appello all’amministrazione penitenziaria: «Nell’esprimere solidarietà alla nostra direttrice, ci auguriamo che il sussurrato provvedimento possa rientrare e che il clima di serenità o collaborazione possa continuare a Solliccianino». Una posizione, quella dei detenuti, condivisa anche da molte delle associazioni che da anni lavorano all’interno del carcere. Margherita Michelini ha sempre organizzato momenti per creare ponti con l’esterno. Da ricordare quando, nel 2017, realizzò un evento all’interno del carcere, in occasione della rificolona, una festa tradizionale del folclore fiorentino. Vi partecipò una delegazione dell’associazione per l’iniziativa radicale ‘ Andrea Tamburi’ con la presenza di Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, e Paolo Hendel, iscritto anche lui al partito. Era il periodo della riforma dell’ordinamento penitenziario, in via di approvazione, quando, poi l’allora governo decise di non emanarla più. La Michelini, in una amara lettera pubblicata da La Nazione, ha espresso amarezza e delusione per il suo trasferimento, concludendo con la speranza di non essere dimenticata.

·         Prato, in ostaggio del "Dragone".

Prato, in ostaggio del "Dragone". Nonostante arresti e Polizia la comunità cinese ormai ha cambiato il tessuto culturale e sociale della città toscana. Giorgio Sturlese Tosi il 20 settembre 2019 su Panorama. Dopo le retate, la pax mafiosa è finita e i vecchi boss si riprendendo Prato, grazie anche ad alleanze inquietanti. Prendiamo la storia di Lin Cai Wang. Corpulento e alto un metro e 90, si rasava completamente il cranio. Per questo era soprannominato «Hesan», il Monaco. Stava nel tinello di casa sua, nel cuore della Chinatown cittadina, quando, nel 2009, i carabinieri gli hanno messo le manette. Dieci anni dopo, scontata la pena, è tornato ai suoi affari. Allora la guerra che il Monaco combatteva per il monopolio dello spaccio di droga, del gioco d’azzardo e della prostituzione, dopo il suo arresto, era sfociata in una mattanza. Il 17 giugno 2010 due ragazzi cinesi furono fatti letteralmente a pezzi a colpi di mannaia, in pieno giorno, in una rosticceria di via Strozzi. Eppure per il Monaco è passato il tempo ma non il vizio. E così è tornato in carcere. I poliziotti della sezione Criminalità straniera dalla Squadra mobile di Prato l’11 luglio scorso l’hanno arrestato ancora per sfruttamento della prostituzione. Il blitz della polizia in sei hotel di Prato oggi racconta vizi e corruzione dell’anima orientale della città toscana. Escort asiatiche, arrivate in Italia col visto turistico, erano a disposizione di ricchi cinesi che pagavano 500 euro a notte per festini a basse di sesso e droga. Dell’organizzazione farebbe parte anche un pezzo grosso della criminalità, Lin Xia, detto Lucas. I pubblici ministeri Lorenzo Gestri e Gianpaolo Mocetti sospettano che fosse il punto di contatto tra malavita cinese e alcuni carabinieri corrotti. Era già successo, a Prato, che i poliziotti dovessero arrestare i propri colleghi. Per gli investigatori Lucas è coinvolto anche in una sparatoria tra clan rivali avvenuta in mezzo ai passanti ai giardini pubblici. Giocava al fare boss, Lucas, che ha nominato come difensore di fiducia l’avvocato Luca Cianferoni, il legale di Totò Riina. Il Monaco e Lucas però sono criminali dal coltello facile e dalle visioni ristrette. I veri boss non hanno interesse a dimostrare il loro potere con le mannaie. I padrini sanno mediare, sono maestri del brokeraggio e gestiscono un capitalismo criminale grazie anche alla collaborazione di professionisti italiani, commercialisti e consulenti del lavoro, che costituiscono quella zona grigia che di Prato, nelle parole del procuratore Giuseppe Nicolosi, fa «una palude». Colletti bianchi che agevolano un’economia parallela a quella legale che condiziona il mercato e, a lungo andare, lo stesso tessuto sociale. La crisi, la pressione fiscale e le difficoltà burocratiche hanno permesso che questa arrembante forma di capitalismo attecchisse sulle fragilità del sistema produttivo. Tra gli imprenditori locali c’è chi resiste, chi soccombe e chi cerca nella sponda criminale un appiglio per sopravvivere, divenendo talvolta complice. Chi comanda davvero la malavita cinese a Prato gestisce colossali traffici che pompano denaro liquido da reinvestire in attività apparentemente legali. Talvolta, come ha svelato la colossale inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Firenze con l’operazione «China Truck» del 2018, le due economie si intrecciano e si alimentano. In manette, con decine di connazionali, era finito il presunto capo della triade italiana, Zhang Naizhong. Chiamato dalle sue vittime l’Uomo nero, per gli inquirenti era «il capo dei capi» che da Prato comandava su mezza Europa. Il Tribunale del riesame prima, e la Cassazione poi, hanno cancellato l’accusa di mafia. In attesa del processo a 85 indagati che partirà a breve, anche l’Uomo nero, scaduti i termini della custodia cautelare, è tornato un cittadino libero. Le accuse contro la sua organizzazione però sono paradigmatiche della capacità di diversificare gli interessi, anche criminali, dei clan cinesi. Si va dal trasporto merci, al traffico internazionale di rifiuti, al mercato della contraffazione, alla gestione di sale giochi e centri benessere. Poi c’è il racket delle estorsioni, con annessi incendi di magazzini e supermercati (l’ultimo, a fine agosto, a Monsummano Terme, con decine di famiglie evacuate ma nessun ferito: era solo un avvertimento). Senza dimenticare il core business di tutte le triadi che operano in Italia in stretta collaborazione con la Cina: l’organizzazione e lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Un’inchiesta della Guardia di finanza, la «Money to money», ha calcolato in quattro miliardi di euro il denaro in nero che da Prato prendeva la via della Cina attraverso i money transfer e la complicità di Bank of China. Dopo gli arresti e un processo con centinaia di imputati dilatato fino all’inverosimile per difficoltà burocratiche e di traduzione degli atti (e azzerato dalla prescrizione), quel fiume carsico di valuta che veniva generato a Prato ma finiva all’estero si è prosciugato. Oggi i soldi viaggiano direttamente nei container o, come sospettano gli inquirenti, vengono riciclati grazie alla criminalità organizzata di stampo mafioso italiana che ha messo a disposizione di alcuni imprenditori cinesi la propria, collaudata, rete. Intanto sempre più attività commerciali passano di mano e vengono acquistate da orientali. Un terzo degli alberghi della città, anche di lusso, ha cambiato proprietari e nazionalità. Dopo le confezioni e le tintorie, dopo i parrucchieri e gli estetisti e i ristoranti, l’avanzata cinese ha conquistato i bar, dalla periferia fino al centro. L’ultimo a essere ceduto è lo storico bar Magnolfi, aperto nel 1926, famoso per le sue ciambelle e i clienti vip, da Roberto Benigni a Francesco Nuti. Era in vendita da tempo e nessun italiano si è fatto avanti. Finché è arrivato Weng Yu, classe 1990, che aveva già rilevato la famosa pasticceria Orgiu. Stesso destino è toccato al centralissimo bar Andrei, cent’anni di storia. Il titolare, Bruno Rosi, racconta: «Un giorno nel locale si sono presentati due ragazzi d’origine cinese che mi hanno fatto una proposta di acquisto. Ci abbiamo pensato e deciso di vendere. Di italiani a chiedere informazioni per acquistare il bar non se n’è visto nemmeno mezzo». Già nel 2010 Edoardo Nesi scriveva nel libro Storia della mia gente: «Quando vendi un’azienda vendi anche la sua storia». E qui in gioco c’è la storia di Prato, ostaggio di una mutazione demografica ed economica di cui qualcuno sa approfittare, ma nessuno sa gestire. Il procuratore Nicolosi, lo dice tra il serio e il faceto: «Qui siamo come a Fort Alamo. La nostra è una procura di frontiera, non abbiamo il mare ma abbiamo un mare di cinesi». Perché nella valle del Bisenzio, il piccolo fiume che attraversa la città, gli immigrati clandestini non arrivano sui barconi ma in aereo. Si chiamava Hang Ke Yuek il primo cinese residente a Prato; era il 1968. L’ultimo censimento del Comune conta 23.647 cinesi iscritti all’anagrafe (gli italiani sono 153 mila), in costante aumento. A cui vanno aggiunti migliaia di irregolari. Oggi Marco Wong e Teresa Lin siedono in consiglio comunale. Ingegnere elettronico con un passato da vice presidente di Huawei Italia, Wong per la sua campagna elettorale ha scelto uno slogan profetico: «La preferenza al futuro di Prato». Da imprenditore ha toccato con mano la presenza dei clan cinesi: «Ho ricevuto minacce telefoniche da qualcuno che voleva che pagassi il pizzo, ma sono andato subito in questura a sporgere denuncia. Esiste un gravissimo problema sociale. La manovalanza criminale è frutto della mancata integrazione e dell’abbandono della scuola dei ragazzi cinesi che formano prima delle baby gang e poi delle vere e proprie bande criminali». Sul fronte della lotta all’illegalità però Wong è ottimista: «È vero che c’è ancora una diffusa ignoranza delle regole, ma la situazione sta migliorando, grazie ai controlli nelle aziende e perché gli imprenditori più giovani vedono il proprio futuro in Italia e si uniformano al sistema legale». I dati sembrano dargli ragione: dopo il rogo del 2013 della ditta Teresa moda, nel quale morirono carbonizzati sette operai che dormivano in fabbrica, la Regione Toscana ha avviato un piano straordinario di controlli interforze nelle aziende cinesi. Le imprese regolari erano appena il 6 per cento del totale. Nel 2017 erano arrivate al 56 per cento. Oggi a Prato, secondo i dati di Camera di commercio, ci sono 6.288 imprese con titolare cinese (le italiane sono 28.590). Ma sono quasi tutte imprese individuali, facili da chiudere e riaprire, e infatti il tasso di mortalità è precoce: il 35 per cento chiude entro i tre anni di vita. Un chiaro segnale di allarme, denuncia Luca Giusti, presidente della Camera di commercio di Prato: «Questa volatilità delle società induce a pensare che queste imprese restino aperte il tempo necessario per massimizzare i guadagni prima che arrivino i controlli di legge, riuscendo senza conseguenze a evadere le tasse, il versamento dell’Iva e dei contributi previdenziali e aggirando le leggi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro». L’Irpet, l’istituto regionale per la programmazione economica della Toscana, ha stimato che il 22 per cento del Pil pratese sia cinese e che le imprese orientali in città valgano miliardi di euro. Prato è, in percentuale, la prima provincia italiana con imprese a conduzione straniera. I numeri affermano che a Prato l’economia dipenda della Cina, ma per il presidente della Camera di Commercio i dati vanno letti diversamente: «Qual è la reale ricaduta economica sul territorio? Le aziende cinesi acquistano e rivendono “estero su estero”, non è che se spariscono i cinesi Prato va in crisi. Piuttosto la presenza di attività cinesi sul territorio deve essere una risorsa, una opportunità per tutti, nel rispetto delle regole, altrimenti diventa concorrenza sleale». Un tema all’ordine del giorno. Il procuratore Nicolosi rivela che su circa mille procedimenti l’anno per violazioni delle normative sulla sicurezza sul lavoro, almeno novecento sono a carico di imprenditori cinesi. In procura, ogni giorno, si firmano procedimenti, indagini e sequestri a carico di cittadini cinesi. «Ma affrontiamo molte difficoltà, l’organico dei magistrati e del personale è insufficiente, l’evidenza di rapporti tra il mondo legale e la criminalità organizzata emerge costantemente dalle indagini, mentre le nostre richieste alle autorità diplomatiche cinesi vengono ignorate». Un po’ come un fortino, Prato resiste come può alle cariche. Nessun segnale, però, di un arrivo della cavalleria. Non lontano da Prato un magistrato antimafia che i cinesi li conosce bene afferma sconsolato: «Della mafia cinese non importa nulla a nessuno».

SOLITA SIENA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         L’Affaire David Rossi.

David Rossi, in vendita online il "suo" orologio: “Lucrano sul nome di mio padre”. Le Iene il 23 settembre 2019. Alcuni annunci sfruttano la morte del manager di Mps per guadagnare su internet, e non è la prima volta: “Avevano già messo in vendita alcuni suoi quadri: mia madre li ha ricomprati per non lasciarli a quella gente”, dice a Iene.it la figlia Carolina Orlandi. “David Rossi e l’orologio della discordia”, “David Rossi e le ombre segrete sull’orologio di Rocca Salimbeni”: questi sono solo alcuni degli annunci online che sfruttano il nome del manager di Mps per lucrare in modo macabro sulla sua morte. Appaiono su vari siti, mostrano un modello Sector Expander 308, come quello appartenuto a David Rossi, morto il 6 marzo 2013 in circostanze sospette. “Ma ovviamente non è il suo”, dice a Iene.it la figlia Carolina Orlandi. “Non sappiamo se queste persone vogliono vendere orologi dello stesso modello sfruttando la vicenda di mio padre, o se invece è semplicemente una truffa. In ogni caso stiamo valutando di prendere provvedimenti”. Non è la prima volta, purtroppo, che qualcuno cerca di guadagnare con il nome di David Rossi: “Qualche anno fa mio padre aveva venduto dei quadri all’asta, e dopo la sua morte le opere erano finite online a prezzi esagerati sfruttando in maniera veramente vergognosa quello che è successo. Alla fine li aveva ricomperati mia madre, per evitare che rimanessero nelle mani di questa gente orribile”. Noi de Le Iene ci occupiamo da tempo del caso della morte del manager. David Rossi era il capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena quando il 6 marzo 2013 è volato giù della finestra del suo ufficio, mentre l’istituto era al centro di una bufera finanziaria e mediatica. Ma si è trattato di un suicidio o di omicidio? Sono molti i punti che non tornano in questa vicenda, che abbiamo ricostruito nello speciale di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti che potete vedere qui sopra. Nel caso, l’orologio di Rossi gioca un ruolo importante: sarebbe infatti stato gettato dalla finestra venti minuti dopo la caduta del corpo, secondo uno studio disposto dai familiari del manager. E questo dimostrerebbe che nella stanza, subito dopo la caduta, ci sarebbe stato qualcuno. Nonostante le due archiviazioni delle inchieste sulla morte, considerata un suicidio, la famiglia continua a chiedere giustizia nella convinzione che qualcosa non torni nella ricostruzione della magistratura. E dopo le nostre inchieste, i parlamentari di tutte le principali forze politiche hanno chiesto che sia istituita una commissione d’inchiesta per far luce su tutti quei punti oscuri ancora aperti. “La caduta del governo, purtroppo, ha bloccato tutto” chiude Carolina. “Siamo deluse, c’è sempre qualcosa che ostacola la ricerca della verità. Adesso speriamo che il nuovo esecutivo tenga fede alla volontà espressa da tutti i partiti e si vada avanti con la commissione”.

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 23 settembre 2019. Un dolore tanto profondo quanto silenzioso. Una mancanza quotidiana che si appalesa ad ogni passo, ad ogni respiro. Ma anche la consapevolezza che la verità sulla morte di suo padre David Rossi un giorno si raggiungerà. La persona che lotta per tutto questo è Carolina Orlandi, figlia della moglie di Rossi - Antonella Tognazzi, intervistata la settimana scorsa da Libero. Carolina, che ha sempre considerato il manager morto il 6 marzo del 2013 in circostanze non ancora chiarite «l' altro padre». «Sì, David era per me come un padre. Sono cresciuta in una famiglia allargata, che si è sempre voluta bene e rispettata» racconta Carolina, per cercare di far comprendere quale legame sostanziale ci fosse. Un legame che diventa ancora più palpabile leggendo il libro che Carolina ha scritto, intitolato "Se tu potessi vedermi ora" (Mondadori editore). Il quale, oltre a valerle il Premio Stresa 2018, è il racconto-memoriale di un rapporto profondo tra padre e figlia, dove il legame è ancora più forte perché non di sangue.

Carolina, raccontaci la sera del 6 marzo del 2013.

«Era apparentemente una sera come tante altre, ma David in quel periodo era molto nervoso. L'inchiesta sul Monte dei Paschi l'aveva messo sotto pressione e lui aveva la responsabilità di difendere la banca. Io sono tornata a casa un po' prima perché avevo voglia di parlargli, ma quando arrivai David non era ancora tornato».

E tua madre?

«La mamma era a casa malata e, appena vista, mi manifestò le sue preoccupazioni: papà non era tornato e questo la rendeva inquieta. In più non rispondeva agli sms e la preoccupazione, a quel punto, si trasformava in ansia».

E che cosa fece tua madre?

«Chiamò Giancarlo Filippone, amico e collaboratore di mio padre, per chiedere se sapeva qualcosa e dirgli che sarei andata alla banca per cercarlo».

Filippone (la persona, ripresa dalle telecamere, che si affaccia per poi allontanarsi nel vicolo dove è ripreso il corpo agonizzante di David) che cosa disse a tua mamma?

«Disse a mia mamma di dirmi di aspettarlo fuori, nella piazza antistante. Questa circostanza inizialmente non mi sembrò per nulla strana, ma con il passare del tempo e con l' andare avanti delle indagini cambiai opinione».

Da che cosa sei stata colpita, dal fatto che Filippone ti abbia detto di aspettarlo fuori?

«Quello sinceramente no, perché poteva essere una delicatezza verso una ragazza di ventun anni. La cosa che mi ha sempre sorpreso è come Filippone fosse arrivato alla Banca. Era tutto di corsa, agitatissimo, come se si immaginasse già qualcosa di brutto. La mia sensazione, ex post, è quella di una persona che aveva visto poco prima qualcosa nella stanza di mio padre che non andava, e che dopo la telefonata di mia mamma aveva già capito che poteva essere successo qualche cosa».

E poi che cosa accadde?

«Salimmo nella stanza di David e Filippone mi chiese di rimanere fuori dalla porta, che era chiusa: sarebbe entrato solo lui. Ricordo ogni attimo di quei minuti: a un certo punto sento il respiro affannato di Filippone che si avvicina e mi dice "una tragedia, David si è ammazzato". Mi cade il mondo addosso e proprio in quel momento squilla il telefono di Giancarlo: era mia mamma. Mai dimenticherò il suo urlo. Io scappai via».

In che senso?

«Volevo correre da mia mamma. Cercai la strada per uscire e in quel mentre vidi l’altro collega di David, Bernardo Mingrone, e il portiere del Monte Paschi, Massimo Ricucci».

E tua mamma?

«Arrivai a casa e la trovai in stato di choc. Quando sentimmo l'ambulanza passare, la nostra casa era in centro a Siena e a pochi minuti dalla sede della banca, i nostri sguardi si incrociarono: capimmo che non c'era più nulla da fare».

Quale era stata la tua prima valutazione sull'accaduto?

«Sinceramente pensai che David si fosse effettivamente suicidato».

Quando hai percepito il primo segnale che qualche cosa di strano era accaduto e che tuo padre, più che essersi tolto la vita, poteva invece essere stato ucciso?

«Fin dal giorno seguente. Immediatamente il pm Marini non dispose l' autopsia di David, ma la distruzione del corpo. Come sai l' autopsia è dovuta per legge, e quella negligenza mi fece capire che si voleva subito chiudere il caso».

Quali altre chiamiamole "disattenzioni" ritieni siano state fatte in fase di indagine?

«Sono talmente tante, le negligenze, che la lista sarebbe davvero infinita. Credo che tutta la fase di reperimento delle informazioni e delle prove sia stata condotta in modo non adeguato alla gravità dell' accaduto. La sensazione, ripeto, è che si volesse chiudere tutto con troppa fretta, derubricando il fatto come "suicidio". Il fatto è che indagare su mio padre morto per un omicidio mentre il Monte dei Paschi era sotto inchiesta per l' acquisizione di Banca Antonveneta, era scomodo e inopportuno».

Mi fai qualche esempio di "leggerezze" investigative?

«Il procuratore Natalini dispose la distruzione dei fazzoletti intrisi di sangue trovati nel cestino della stanza di David. Certo, poteva essere il sangue di mio padre, ma una analisi sarebbe stata importante e avrebbe eliminato ogni dubbio. Così come la restituzione e poi la distruzione dei vestiti di David a mia zia, senza nemmeno analizzarli. E ancora: fuori da Monte Paschi esistono credo una quindicina di telecamere che riprendono ogni movimento che avviene lì davanti, ma nessuna immagine è stata recuperata se non quella del vicolo dove per più di venti minuti agonizzava e moriva David. In più fu recuperata solo un' ora di immagini di quella telecamera, dalle 19,59 alle 20,59: perché?».

Mi stai dicendo che dalle indagini hai capito che c' era qualcosa che non andava?

«Ma certamente. Considera che il corpo di David era pieno di segni non compatibili con la caduta . Il torace aveva segni importanti, i polsi avevano lividi. Le scarpe erano rovinate sulla punta come se mio padre avesse cercato di risalire dentro la finestra. Man mano che passava il tempo, capii che non poteva essere un suicidio».

Mi hai detto che ci sono tante telecamere: ma il portiere di Monte Paschi non si è mai accorto di nulla, guardando il monitor della sua guardiola?

«No. Massimo Ricucci non ha visto nulla. Quasi mezz' ora in cui David moriva, e lui nulla».

È ancora a Monte Paschi, lui? Hanno intrapreso iniziative disciplinari, che tu sappia?

«Sì, il custode a cui è "sfuggita" l' agonia di David lavora ancora lì, e non credo che alcun provvedimento disciplinare sia stato preso».

Come era il rapporto con tuo padre?

«Era un rapporto eccezionale. Mio padre era riservato e non faceva mai trapelare la sua sensibilità e la sua dolcezza. Era un uomo che non ha mai fatto mancare nulla a mia madre e a me. E in più era colto: sapeva tutto, leggeva e mi stimolava a leggere, io non vedevo l'ora di finire un libro per potermi confrontare con lui. Condivideva il mio progetto di diventare giornalista e mi spronava continuamente».

Ti manca?

«Mi manca confrontarmi con lui nelle scelte professionali che sto facendo, vorrei sentire la sua voce che mi consiglia per il meglio. E sai una cosa? Una sera gli dissi che volevo scrivere un libro, lui mi rispose che per farlo bisognava avere qualcosa da raccontare. Ora, nel mio primo libro, ho raccontato la più dura delle storie: la sua».

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 15 settembre 2019. Antonella Tognazzi è la vedova di David Rossi, il responsabile della comunicazione di Monte dei Paschi, la banca di Siena e una delle più importanti d' Italia, trovato morto la sera del 6 marzo del 2013 nel vicolo dove affacciava la sua stanza all' interno dell' istituto di credito. La caduta di David Rossi e la sua agonia durata quasi un' ora restano un ricordo indelebile e violento per ognuno di noi. Quelle ombre che si avvicinano subito dopo la sua caduta, riprese dalle telecamere di sorveglianza, per poi andare via senza prestare soccorso sono il paradigma di una violenza umana che è impossibile da spiegare. Poi i soccorsi che, dopo pochi minuti e già nel primo referto scrivono "suicidio", come a voler chiudere in fretta una vicenda inopportuna e scivolosa per troppe persone. La parola "suicidio" copre tutto, e lascia alla fragilità di chi non c' è più la responsabilità di un gesto senza ritorno. Dietro alla vicenda giudiziaria, che vanta ben due archiviazioni (mentre, in genere, in Italia si manda a giudizio per qualsiasi cosa), esiste potente la parte umana di una donna che con sua figlia si è vista privare dell' amore più caro, e che pretende giustizia.

Antonella, a che punto siamo processualmente?

«Dopo le due archiviazioni, stiamo aspettando che la Procura di Genova concluda le indagini nei confronti della Procura di Siena».

Sei fiduciosa che qualcosa possa accadere?

«Io ho sempre avuto fiducia nella giustizia. Viviamo in uno stato di diritto e credo che la verità, prima o poi, possa emergere».

Ad oggi però questo non è accaduto, anzi sembra che ci sia stata sempre una fretta incredibile a chiudere tutto con la parola "suicidio". O sbaglio?

«Gli unici che sono andati a processo siamo io e il giornalista Davide Vecchi, rei secondo la Procura di aver violato la privacy per la pubblicazione di uno scambio di mail tra Rossi e l'ex amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola. Naturalmente siamo stati assolti perché "il fatto non sussiste"».

Che cosa si aspetta da questa nuova indagine?

«Intanto spero che nessuno sia stato reticente come accaduto precedentemente, e spero che ci sia il coraggio di rimarcare tutte le lacune e gli errori che ci sono state in fase di indagine. Io e mia figlia Carolina siamo state già sentite».

Tante sono state le lacune durante le indagini, molte evidenziate sia da libri come quello di sua figlia Carolina ("Se tu potessi vedermi ora", Mondadori) e l' altro di Davide Vecchi «"Il caso David Rossi.

Il suicidio imperfetto del manager Mps", Chiarelettere)che da inchieste televisive come quelle delle "Iene" . Come mai secondo lei nessuno ha pensato di riaprire le indagini e andare a processo?

«Io credo che archiviando la morte di mio marito come suicidio si sia messo a tacere tutto. Far luce sulla morte di David sarebbe scomodo per tanti».

Che tipo era suo marito?

«David era un uomo molto dedito alla famiglia, serio e per bene. Ai più poteva sembrare non simpatico, in realtà era semplicemente un tipo schivo e taciturno».

Che cosa accadde quella sera?

«Io non stavo bene e alle 19 chiamai David per chiedere se passava a prendere delle medicine; deve sapere che mio marito non faceva mancare mai nulla, era un uomo attento a ogni sfumatura che mi riguardasse. In quella telefonata lui mi disse che dopo mezz' ora sarebbe stato a casa».

E invece?

«Il tempo passava e lui non arrivava, così cominciai a chiamare ripetutamente e gli mandai dei messaggi, "così mi fai preoccupare"».

Perché lei si preoccupava se poteva essere semplicemente al lavoro?

«Guardi, a parte che David era puntuale e, sapendo che mi servivano delle punture per il mio malessere, mai avrebbe tardato, e poi in quei giorni era molto teso per la vicenda che stava attraversando il Monte dei Paschi»

C'è qualcosa che ricorda di quel periodo?

«Mio marito voleva riferire ai magistrati e in questo senso aveva scritto una mail all'amministratore delegato».

Pensa che questa sua volontà di parlare con i magistrati possa aver allarmato qualcuno?

«Penso di sì; ricordo quando mia figlia si accorse dei tagli ai polsi e chiese spiegazioni, la risposta di David fu "non parlare mai di questa cosa ne a casa ne fuori". Un atteggiamento che non era da lui».

Quei tagli sui polsi secondo lei se li inflisse lui stesso?

«Ma come è possibile, visto che sono stati fatti da destra a sinistra, dunque al contrario rispetto a quello che sarebbe stato normale se se li fosse inflitti lui da solo?».

Poteva essere un avvertimento?

«Non so. Ma sicuramente non se li è causati lui».

Torniamo a quella sera: dunque suo marito non rispondeva al telefono. E lei che cosa fece?

«Avvisai mia figlia, che chiamò il signor Giancarlo Filippone per avere notizie mentre si dirigeva verso Montepaschi».

Filippone è la persona che si vede nel video entrare nella strada, vedere suo marito e tornare indietro?

«È lui. Rispose a Carolina di andare verso piazza Salinbeni e di aspettarlo fuori.

Strano, no?».

Sua figlia arrivò. E poi?

«Salirono insieme nella stanza di David ed entrò solo Filippone, che guardando giù dalla finestra disse: "È successa una tragedia". Mia figlia mi avvisò e corse a casa da me. Da quel momento la mia vita, la mia bella vita con al fianco mio marito, cambiò per sempre. E cambiò anche per mia figlia, che era legatissima a lui pur non essendo suo padre».

Lei si è sempre battuta come un leone per arrivare alla verità. Mai nessuno le ha chiesto scusa per ciò che è accaduto?

«Poco tempo fa il procuratore di Siena Vitello mi ha chiesto scusa per il processo a mio carico. Da una parte mi ha fatto piacere perché è il riconoscimento di qualcosa che non ha funzionato, ma dall' altra spero che proprio per questo si possano riaprire le indagini».

Lei mi ha detto che non ha mai visto le immagini della caduta di suo marito.

«Non sono riuscita e non riuscirò mai. Credo che ci siano così tante cose che non tornano che c' è solo l' imbarazzo della scelta. Ci vorrebbe un po' di desiderio di verità».

Al di là di tutte le incongruenze e gli errori nelle indagini, perché lei è convinta che David non si sia suicidato?

«David è stato ucciso! Mai e poi mai avrebbe fatto un gesto così sapendo del dolore che mi avrebbe provocato. La nostra era una meravigliosa storia d' amore, unica e irripetibile, e lui era "l' altro padre" per mia figlia Carolina. Noi siamo una bellissima famiglia allargata, dove il mio ex marito e sua moglie mi sono stati sempre accanto. C' era una grande armonia tra di noi».

Che cosa spera che succeda adesso?

«Voglio che venga aperto un fascicolo su David con la scritta "omicidio " e non "suicidio". E sono convinta che ci riuscirò».

Non è l'arena, la figliastra di David Rossi inchioda Papa Francesco: "Parla di rivoluzioni, poi...", scrive l'8 Aprile 2019 Libero Quotidiano. A Non è l'arena di Massimo Giletti si torna a parlare della strana, stranissima, morte di David Rossi, l'ex capo della comunicazione di Mps. Il caso, come è noto, è tornato di strettissima attualità in seguito all'inchiesta de Le Iene, che ha sollevato tantissimi dubbi sull'ipotesi di suicidio. Ipotesi a cui non crede neppure la figliastra di Rossi, Carolina Orlandi, che era ospite di Giletti nello studio di La7. E dopo aver rivolto un appello a Papa Francesco proprio a Le Iene, a Non è l'arena torna a rivolgersi al Pontefice. Il punto è che l'ex presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, al programma di Italia 1 ha rilasciato una pesantissima intervista in cui spiega che in un qualche modo la morte di Rossi potrebbe essere legata proprio allo Ior e a vicende vaticane. Dunque, la Rossi da Giletti va dritta al punto: "Io chiedo a Papa Francesco di sciogliere dal segreto queste persone che potrebbero avere informazioni sulla morte di David e su quei conti". E ancora: "Papa Francesco ha parlato di Rivoluzione della Chiesa, penso sia arrivato il momento dio metterla in atto, non si può permettere un coinvolgimento del Vaticano in questa morte", ha concluso. Il Papa la ascolterà?

Le Iene, appello a Papa Francesco per la morte di David Rossi: Mps, uno scoop clamoroso, scrive il 4 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Un appello rivolto direttamente a Papa Francesco, al quale viene chiesto di sciogliere dal segreto chi, forse, potrebbe sapere qualcosa tra chi ha lavorato in Vaticano con Monte dei Paschi di Siena. L'appello, a Le Iene, lo rivolge Carolina Orlandi, figlia di David Rossi, il padrigno caduto dalla finestra dello studio di Mps a Siena nel 2013, il responsabile dell'area comunicazione la cui morte continua ad essere un mistero. La Orlandi ha infatti scritto un libro in cui sostiene una tesi differente da quella ufficiale, tesi sposata da molti e su cui indaga il programma di Italia 1: ovvero che David Rossi non si sia suicidato. Ora anche l'appello a Bergoglio, una lettera pubblica in cui gli chiederà di svincolare dal segreto chi lavorava allo Ior o in altri organismo del Vaticano e che potrebbe essere a conoscenza di fatti utili per risolvere il mistero. Il punto è che l'inviato de Le Iene, Antonino Monteleone, nel corso di uno speciale dedicato alla vicenda, ha proposto inquietanti dichiarazioni di Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior. Solo pochi giorni prima della morte di Rossi, avvenuta il 6 marzo 2013, Benedetto XVI lasciava il soglio di Pietro, le storiche "dimissioni" da Papa del 28 febbraio 2013. Secondo alcune indiscrezioni lo avrebbe fatto anche per i troppi problemi incontrati nel rendere trasparenti i conti del Vaticano. Ratzinger aveva affidato nel 2009 questo incarico, come presidente dello Ior a Ettore Gotti Tedeschi, "sfiduciato" dal Consiglio di Sovrintendenza dello Ior nove mesi prima. Sulla scrivania di Rossi, fu ritrovato un bigliettino scritto a penna con il nome e il numero di Gotti Tedeschi. Monteleone dunque ha chiesto all'ex presidente dello Ior dei chiarimenti. E ne è uscita un'intervista clamorosa in cui ha parlato anche di tangenti e omicidi. In un secondo colloquio si è parlato anche di quattro presunti conti correnti che sarebbero stati aperti presso la banca del Vaticano e che sarebbero riconducibili a uomini della Fondazione Mps. Dopo queste rivelazioni, dunque, la mossa di Carolina Orlandi: un appello al Papa per fare luce su uno dei più misteriosi casi di cronaca degli ultimi anni.

Mediaset. Le Iene il 21 maggio 2019. C’è un nuovo testimone sui presunti “festini a luci rosse” a cui secondo alcune testimonianze raccolte avrebbero partecipato anche magistrati che indagavano sulla morte di David Rossi. L’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla morte dell’allora capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi, precipitato giù da una finestra della sede della banca il 6 marzo 2013, ha fatto emergere il caso “festini”. A fare riferimento a “una villa al mare dove facevano i festini” è stato per primo l’ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, in un incontro con la Iena. “…Ci andavano anche i magistrati senesi?”, si chiede Piccini, “ci andava anche qualche personaggio nazionale? Mah…”. Ora un uomo si sarebbe presentato alle forze dell’ordine di Siena dicendo di essere a conoscenza di particolari proprio su questi festini e sarebbe disposto a parlare. Gli atti saranno trasmessi nei prossimi giorni alla procura di Genova. Antonino Monteleone, nell’approfondire la pista dei “festini”, aveva incontrato un escort che vi avrebbe partecipato. L’uomo ci ha raccontato di feste a base di sesso e droga “per intrattenere ospiti di alto profilo”.  Avrebbero partecipato, secondo i suoi racconti, esponenti di spicco del mondo senese (compresi dirigenti Mps, tra questi non c’era David Rossi) e nazionale. Antonino Monteleone gli ha mostrato alcune foto di questi personaggi e lui ha riconosciuto precisi esponenti, pur avendo dichiaratamente paura di eventuali ritorsioni. Ovviamente politici, dirigenti bancari, magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine nel privato possono fare quello che vogliono. Partecipare a festini gay a base di droga, potrebbe esporli però a ricatti. L’ipotesi di Piccini era appunto che, su David Rossi, “la magistratura potrebbe avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale”. Che possa insomma aver insabbiato tutto per evitare che scoppiasse anche questo caso. Dopo il nostro incontro con l’ex sindaco, la Procura di Genova ha aperto un fascicolo per abuso d'ufficio a carico di ignoti. Mentre i pm senesi hanno presentato querela per diffamazione per le dichiarazioni di Piccini.

David Rossi, speciale Iene/1: si tratta di suicidio o di omicidio? Scrivono Le Iene il 22 marzo 2019. Prima parte dello speciale Iene dedicato alla morte di David Rossi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi precipitato giù da una finestra della sede della banca il 6 marzo 2013. Prima parte dello Speciale Le Iene “Caso David Rossi: suicidio o omicidio?”. Torniamo a parlare, a un anno dagli ultimi servizi sul caso, con l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, di David Rossi, capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena, morto la sera del 6 marzo 2013 in circostanze che molti, a partire dalla famiglia, considerano più che misteriose. La giustizia italiana ha archiviato per due volte l’indagine su questa morte come suicidio. David Rossi muore a 51 anni nel mezzo della più grande tempesta finanziaria dal dopoguerra a oggi, che ha visto nel mondo 70 banchieri morti per ragioni non naturali. Ripartiamo da quanto ci ha detto Pierluigi Piccini, ex sindaco di Siena ed ex dirigente Mps: “La città è convinta che sia stato ucciso”. Piccini ci ha parlato anche di “una villa al mare dove facevano i festini”: “ci andavano anche i magistrati senesi? Ci andava anche qualche personaggio nazionale? Mah…”. Per queste dichiarazioni Piccini è stato indagato per diffamazione assieme a Le Iene dalla procura di Genova, competente a procedere su fatti che riguardano i magistrati toscani. A Genova è stato aperto anche un fascicolo per presunte omissioni e abusi d’ufficio commessi dai pm senesi nelle indagini sulla morte di David Rossi. Abbiamo incontrato anche un ragazzo che ci ha detto di aver partecipato a quei festini come escort “per intrattenere ospiti di alto profilo”. Il Corriere di Siena intanto riferisce che sul caso la Procura “segue un nuovo elemento”. Anche noi ne abbiamo raccolti moltissimi.

David Rossi: il video della morte e tutti i dubbi. Speciale Iene/2. Scrivono Le Iene il 22 marzo 2019. Ci concentriamo ora, nella seconda parte dello speciale Iene sulla morte di David Rossi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, su tutti i dubbi che sorgono guardando il video della sua morte. 6 marzo 2013, ore 20.45: dalla sede centrale del Monte dei Paschi di Siena, al centro da mesi di una bufera giudiziaria, mediatica e finanziaria, viene chiesta un’ambulanza perché “si è suicidata una persona”. David Rossi, da 7 anni capo della comunicazione e quindi uno dei manager più importanti della terza banca d’Italia, viene trovato riverso a terra dopo essere volato giù dalla finestra del suo ufficio al terzo piano. Eccoci alla seconda parte dello Speciale Iene su questo caso. “Quando ho visto le immagini degli ultimi minuti di vita di mio padre ho capito che forse non era stato un suicidio” ci dice Carolina Orlandi, figlia della moglie di David Rossi, Antonella Tognazzi. Anche Antonella non crede al suicidio. David Rossi due settimane prima della morte subisce una perquisizione. I magistrati stanno indagando sull’acquisto nel 2007 di Banca Antonveneta da parte di Mps per 9 miliardi di euro (invece dei 6 del suo valore). Un’operazione, che con i debiti accumulati da Antonveneta, arriverebbe a un costo di 16 miliardi. La magistratura indaga sui presunti trucchi finanziari usati per nascondere i debiti di Mps dopo quell’acquisto. Guardando le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza in vicolo Monte Pio, si vede la caduta mortale di David alle 19.43. Passano 22 minuti in cui resta agonizzante senza soccorso, poi altri 40 prima che qualcuno chiami l’ambulanza. Luca Scarselli, consulente informatico della famiglia, sostiene che la caduta diritta, senza slancio e rotazione, non è quella di un suicida. Perché nessuno interviene in un’ora in cui la zona è molto frequentata? Secondo Scarselli, l’unica ipotesi è che l’entrata del vicolo sia stata bloccata per esempio con un veicolo e delle persone che controllavano. Nel video si vedono in effetti dei fari e alle 20.11 si vede comparire un uomo con il telefono all’orecchio che si affaccia come per controllare. Perché nessuno ha cercato di sapere chi era? Nelle immagini si intravede comparire un’altra ombra, pochissimi minuti dopo la caduta, senza vederne l’uscita (qualcuno ha manomesso il video?). I primi a comparire riconoscibili nel video, un’ora dopo, sono Giancarlo Filippone, al tempo capo della segreteria di David Rossi, e Bernardo Mingrone, ex capo dell’area Finanza di Mps, quello che chiama l’ambulanza. Entrambi sembrano molto freddi, secondo Antonella Tognazzi. Carolina Orlandi ci racconta che Filippone, uno delle ultimi ad averlo visto vivo, l’aveva da poco accompagnata nell’ufficio del padre, chiedendole di restare fuori. “E’ uscito con le mani nei capelli: ‘Carolina, una tragedia: s’è ammazzato’”. Filippone, amico fin da ragazzo con David che ora ha chiuso i rapporti con la sua famiglia, si è rifiutato di parlare con noi. Mingrone parla invece con Antonino Monteleone e si dice convinto che si sia trattato di un suicidio, ma non vuole approfondire. Torniamo alle immagini della morte: David ha delle ferite sul labbro e sul naso e contusioni sul viso che non sarebbero riconducibili alla caduta. E un segno profondissimo sul polso sinistro dove portava sull’orologio. Per Paolo Pirani, avvocato del fratello maggiore di David, Ranieri, è frutto di una “presa”: “qualcuno gli ha afferrato il polso”. Ci sono lividi sul braccio destro (con quattro segni che sembrano lasciati da una mano), contusioni anche sul braccio sinistro, un ematoma sulla pancia che sembra la conseguenza di un pugno e una contusione all’inguine. Tutto questo, secondo il nuovo avvocato della vedova di David Rossi, Carmelo Miceli, vorrebbe dire che “prima di volare dalla finestra è stato picchiato”: “Autolesionismo? Anche la procura in questo caso non si spiega i segni sul volto”. “Secondo la testimonianza di una collega, Lorenza Bondi, alle 20.05 la porta dell’ufficio di David era aperta”, dice l’avvocato Pirani. “Mezz’ora dopo la porta è chiusa, David Rossi è caduto alle 19.43”. Chi ha chiuso quella porta? Lorenza Bondi non vuol parlarne però con noi di quella sua testimonianza. E Massimo Ricucci, di turno in portineria alla sorveglianza delle telecamere quella sera? Dice di non aver visto niente. Con Antonino Monteleone anche lui si rifiuta di parlare con modi molto bruschi. Altro elemento ancora senza spiegazione: nelle immagini si vede volar giù un oggetto vicino al corpo, mezz’ora dopo la caduta, alle 20.16, nella zona dove è stato ritrovato l’orologio, con la lancetta delle ore ferma tra le 20 e le 21 (quella dei minuti è staccata). “Sempre alle 20.16 qualcuno dal telefono di David mi ha risposto per tre secondi: tutti questi dettagli mi fanno pensare che c’era qualcuno nel suo ufficio a quell’ora”, ci dice Carolina Orlandi. Subito dopo, sempre dal suo telefono parte una chiamata verso un numero misterioso, il 4099009. Telecom Italia prima parla di una conversazione durata pochi secondi, poi che quel numero è quello di una “Sos ricarica per credito esaurito”. Il perito e consulente informatico Simone Bonifazi sostiene che nei tabulati non c’è quel numero, Carolina Orlandi aggiunge che David aveva un abbonamento, non una scheda ricaricabile. Prima di concentrarci, nel prossimo appuntamento, su quello che non tornerebbe nelle indagini e nelle conclusioni dei giudici, ecco i due elementi principali su cui punta chi crede al suicidio. 1. Tre fogli accartocciati ritrovati nel cestino del suo ufficio che sembrano il tentativo di scrivere una lettera d’addio (la moglie Antonella nota che le parole “Toni, amore”, lui con lei non le aveva mai usate, come “scusa”, e compaiono invece in quei fogli, che secondo una perizia calligrafica sembrerebbero scritti sotto dettatura). 2. Pochissimo tempo prima della sua morte, la figlia Carolina vede dei taglietti sul polso di David. Lui spiega di esserseli autoinflitti. Poi però chiede alla figlia, scrivendo, di non parlarne a voce alta in casa perché teme ci siano cimici in casa.

David Rossi, speciale Iene/3: i 10 errori delle indagini secondo la famiglia. Scrivono Le Iene il 21 marzo 2019. Terza parte dello Speciale Iene sulla morte di David Rossi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Vi parliamo di tutto quello che, secondo la famiglia, non torna nelle indagini. Nella terza parte dello Speciale Iene ci concentriamo su un momento cruciale (clicca qui per vedere la prima parte di presentazione e qui per la seconda dedicata ai dubbi che sorgono guardando il video della sua caduta). David Rossi, nel mezzo della bufera giudiziaria che coinvolge Mps, scrive via email all’allora amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola, che vuole andare a parlare con i pm. In questo scambio di messaggi ce n’è una scritta da David due giorni prima di morire: “Stasera mi suicidio, sul serio, Aiutatemi!!!!”. Seguono altri messaggi in cui ribadisce di voler parlare con i magistrati. Giuseppe Mussari, ex presidente della banca e dell’Associazione bancaria italiana, amico di Rossi, non ne vuole parlare con Antonino Monteleone. Poi però ci dice: “Parlarne mi fa piangere, per me David è un grande dolore”, ribadendo l’affetto per la vedova Antonella Tognazzi. “Quello che crede Antonella, lo credo io”. Un’altra pista porta a Roma, in Vaticano però. Sulla scrivania di David Rossi c’è un appunto con un nome: Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente della banca del Vaticano Ior e allora capo italiano della spagnola Banca Santader (da cui il Monte dei Paschi di Siena comprò Antonveneta nell’acquisto al centro allora delle indagini dei magistrati). Siamo andati da Gotti Tedeschi e ci ha rilasciato delle dichiarazioni esplosive che potrebbero ampliare gli scenari di quello che David Rossi voleva dire ai magistrati. Ve ne parleremo. “Chi sa parli, se no come fa a guardarsi nello specchio la mattina”: era l’appello di Carolina Orlandi. Quasi a risponderle l’ex sindaco di Siena e dirigente Mps, Pierluigi Piccini, ci dice sull’amico David: “La città è convinta che sia stato ucciso”. “David fa un errore storico, cioè dice che sarebbe andato dai magistrati a raccontare tutto". Ci parla anche di “una storia parallela”, di “una villa al mare dove facevano i festini”: “…Ci andavano anche i magistrati senesi? Ci andava anche qualche personaggio nazionale? Mah…”. Piccini parla anche di indagini fatte male. Cosa si poteva fare e non si è fatto secondo la famiglia? 1. richiedere i tabulati telefonici nella zona; 2. sequestrare e analizzare i vestiti di David; 3. analizzare le ferite sul suo corpo; 4. chiedere l’esame del dna sul suo corpo e nel suo ufficio; 5 non distruggere i fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio; 6. identificare tutte le persone presenti in banca in quel momento; 7. acquisire le immagini di tutte le video camere interne ed esterne; 8. il video della morte di David non è integrale: si poteva chiederlo; 9. aprire un’indagine per omissione di soccorso per l’uomo che si affaccia nel vicolo mentre c’era David a terra; 10. riaprire le indagini prima del 2015 e non due anni dopo la prima archiviazione del 2013, così molti elementi non sarebbero diventati forse indecifrabili.

David Rossi, speciale Iene/4: una testimonianza clamorosa. Scrivono Le Iene il 21 marzo 2019. Quarta parte dello Speciale Iene sulla morte di David Rossi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Con una testimone, che la Procura dice di aver sentito ma non ha fatto e che ci fa rivelazioni clamorose. Eccoci alla quarta parte dello Speciale Iene: “David Rossi: suicidio o omicidio?”. Dopo la prima di presentazione, la seconda dedicata ai dubbi sulla caduta mortale e la terza a quelli sulle indagini, parliamo del caso di Lorenza Pieraccini, ex segretaria dell’allora ad di Mps, Fabrizio Viola. Non è mai stata sentita dalla Procura come invece risulta agli atti. Noi ci abbiamo parlato: ha dei dubbi anche lei sulla morte di David Rossi e ci conferma di non essere mai stata sentita dagli inquirenti. Si tratta tra l’altro di una delle ultime persone che l’ha visto vivo. Come vi abbiamo detto, David Rossi scrive via email all’allora amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola, che vuole andare a parlare con i magistrati. In questo scambio di email ce n’è una molto strana scritta da David due giorni prima di morire: “Stasera mi suicidio, sul serio, Aiutatemi!!!!”. Seguono altri messaggi in cui ribadisce di voler parlare con la Procura. Lorenza Pieraccini, ex segretaria di Viola, conferma che l’ad ha letto quell’email in cui David annunciava il suicidio (ai magistrati ha detto invece di non ricordarsene). Quell’allarme l’avrebbero letto anche il capo della segreteria Valentino Fanti. Nessuno si sarebbe mosso per fermare o aiutare Rossi. E nessuno dei due vuole parlarne.

David Rossi: i festini e l'escort. Speciale Iene/5. Scrivono Le Iene il 22 marzo 2019. Un escort ci fa rivelazioni che ci lasciano senza parole sui “festini” a base di sesso e droga, quelli di cui ha parlato l’ex sindaco di Siena Piccini. Eccoci alla quinta parte dello Speciale Iene sulla morte di David Rossi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: “David Rossi: suicidio o omicidio?”. Dopo la prima di presentazione, la seconda dedicata ai dubbi sulla caduta mortale, la terza a quelli sulle indagini e la quarta al caso di Lorenza Pieraccini, ex segretaria dell’allora ad di Mps, Fabrizio Viola, torniamo a concentrarci sulle indagini e a parlare con la madre di David Rossi, la moglie (finita pure indagata per divulgazione di atti che avrebbero violato la privacy) e la figlia che chiedono giustizia. La Procura risponde con un comunicato ufficiale a tutti i dubbi della famiglia. Lo analizziamo punto per punto. In particolare ci concentriamo sui cambiamenti che ci sarebbero stati sulla “scena del crimine” e su una chiamata a cui qualcuno risponde nell’ufficio di David la mattina dopo la sua morte (mentre il suo cellulare è acceso e riceve un messaggio). Per quanto riguarda il caso “festini”, di cui ha parlato l’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini, invece, abbiamo incontrato una persona le cui dichiarazioni ci hanno lasciato senza parole. Si tratta di un escort che avrebbe partecipato a quei festini. Ci ha contattato lui e ci parla in anonimo e con un cappuccio e racconta di feste a base di sesso e droga “per intrattenere ospiti di alto profilo”. Avrebbero partecipato, secondo i racconti dell’escort, esponenti di spicco del mondo senese (compresi dirigenti Mps, tra questi non c’era David Rossi) e nazionale. Antonino Monteleone gli mostra alcune foto di questi personaggi e lui riconosce precisi esponenti, pur avendo dichiaratamente paura di eventuali ritorsioni. Stefano (il nome è di fantasia) dice di averci contattato rispondendo all’appello della figlia di David Rossi, Carolina Orlandi: “Chi sa, parli”. Ovviamente politici, dirigenti bancari, magistrati, religiosi e appartenenti alle forze dell’ordine nel privato possono fare quello che vogliono. Partecipare a festini gay a base di droga, potrebbe esporli però a ricatti. È l’ipotesi di Piccini: su David Rossi “la magistratura potrebbe avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale”, per evitare cioè che scoppiasse anche questo caso coinvolgendo “troppe” persone importanti.

Caso Rossi, Antonella Tognazzi: “Il lavoro de Le Iene ha portato a risultati eccezionali”, scrive il 22 marzo 2019 la Redazione di Radio Siena. “Le Iene ci hanno portati a risultati insperati, adesso lavoriamo per la riapertura delle indagini”. “Un lavoro enorme quello svolto dalla redazione de Le Iene, che ha portato però ad un risultato eccezionale ovvero che una Procura abbia riconosciuto un errore in un’azione intrapresa da questa stessa.” Sono queste le parole di Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi, che abbiamo raggiunto telefonicamente questa mattina, dopo la messa in onda di una puntata speciale de “Le Iene” dedicata proprio alla morte dell’ex capo comunicazione di Mps. La Tognazzi ha anche parlato dell’incontro con il Procuratore Capo Salvatore Vitello ” Ho visto in lui la disponibilità a collaborare, nell’intento di trovare risposte. Il mio avvocato intanto ha ripreso gli atti ex novo per poterle rianalizzare. Ci devono essere nuovi elementi, non ci può essere una riapertura senza nuovi quesiti.”

''POTEVO FAR SALTARE IL VATICANO''.  Scrivono Le Iene il 22 marzo 2019. Dopo la prima di presentazione, la seconda dedicata ai dubbi sulla caduta mortale, la terza a quelli sulle indagini, la quarta a una testimonianza fondamentale e la quinta al “caso escort”, siamo arrivati alla sesta e ultima parte dello Speciale Iene: “David Rossi: suicidio o omicidio?” che nel finale contiene rivelazioni veramente clamorose. Continuiamo intanto con la testimonianza dell’escort Stefano, iniziata nella quinta parte, che parla in particolare del suo dubbio che quei festini a base di sesso e droga fossero videoregistrati. Il che aumenterebbe il rischio di ricatto per gli esponenti di primo piano del mondo senese e nazionale che avrebbero partecipato. Stefano accetta di incontrare anche Carolina Orlandi e gli dice di non aver mai visto il padre David Rossi ai festini. Antonino Monteleone va poi alla ricerca anche di una villa teatro di quelle feste. Antonino Monteleone intervista anche la moglie di un uomo importante nelle istituzioni che sarebbe stato coinvolto nei festini e forse anche nelle indagini sulla morte di David Rossi. Torniamo poi a inquadrare il caso nella crisi finanziaria in cui era coinvolta Mps quando è volato giù da una finestra della sede centrale della banca. Torniamo allora al biglietto con il nome di Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, e il suo numero di cellulare trovati sulla sua scrivania quel giorno. Di viaggi frequenti a Roma per andare allo Ior di David Rossi avrebbe parlato anche un testimone misterioso a Luca Goracci, che ha seguito il caso per la famiglia. L’ex presidente di Mps Giuseppe Mussari cosa pensa del “caso Ior”? “È una bufala”. Antonino Monteleone incontra a questo punto, in un lungo colloquio, Ettore Gotti Tedeschi, già presidente dello Ior e artefice dell'acquisto per conto del Banco Santander della Banca Antonveneta, che rivendette successivamente a Monte dei Paschi innescando ripercussioni negative a catena sulla banca senese. E proprio sull'acquisto di Banca Antonveneta da parte di Mps, che costò alla banca senese nove miliardi di euro (cui però vanno sommati i miliardi di debiti che la banca aveva in pancia), Gotti Tedeschi dice: "Mussari non voleva comprare l'Antonveneta. Della vendita se ne occupò Rothschild (la banca d'affari che curava per conto di Santander la vendita di Antonveneta, ndr). Mussari era entusiasta della fusione. Non dell'acquisto. Chi volle l'acquisto era la Fondazione". "Quindi Mussari ha subito la l'acquisto?", gli chiede Monteleone. "Questa è sempre stata la mia opinione", risponde il banchiere. E la Iena gli chiede anche dei quattro conti correnti presso lo Ior che sarebbero stati aperti da uomini riconducibili alla Fondazione. Gotti Tedeschi risponde: "Credo che fosse vero. Chi si occupava di questi conti all'interno dello Ior era direttamente ***** della Fondazione. E naturalmente col presidente, ma mi tagliavano completamente fuori visto il mio ruolo con Santander nella vicenda Montepaschi. Quindi non sapevo assolutamente niente. E non ho mai visto Mussari venire in Vaticano. In realtà operava per conto di altri, diciamo per il sistema senese". E perché la fondazione Mps potrebbe avere quattro conti correnti accesi presso lo Ior?", chiede Monteleone. "Sono tangenti, mi pare evidente", risponde il banchiere. "Se dice tangenti penso alla politica", lo incalza la Iena. "È evidente! Ma nessuno le confermerà l'esistenza di quei conti, perché lì c'era di tutto! Qua si tratta della Curia vaticana. Lì dentro c'era tutto quello che lei non può immaginare. C'erano delle persone che in un secondo cambiavano le intestazioni di tutti i conti. Un sistema che non permetteva a nessuno, se non alla Cupola, di risalire ai conti. È molto probabile quindi che quei conti ci fossero. Stavo per perdere la fede". "Quando dice che la Curia vaticana le stava facendo perdere la fede...", gli fa eco Monteleone. "Anche La vita!", lo interrompe Gotti Tedeschi. "La Curia vaticana può commissionare un delitto secondo lei?". "Ci sono persone all'interno che non mi meraviglierebbe per niente se lo facessero. Dove c'è il bene c'è sempre il male. Nella Chiesa si perpetrano cose che non si dovrebbero neanche immaginare".

David Rossi/6. Gotti Tedeschi: i conti di Mps allo Ior? "Tangenti!" Scrivono Le Iene il 22 marzo 2019. Sesta e ultima parte dello speciale Iene "Caso David Rossi: suicidio o omicidio?". Rivelazioni clamorose dell'ex presidente dello Ior Gotti Tedeschi: in Vaticano possono arrivare persino a uccidere. E su David Rossi dice...Sesta e ultima parte con rivelazioni ancora più clamorose dello speciale Iene “David Rossi: suicidio o omicidio?”. Dopo la prima di presentazione, la seconda dedicata ai dubbi sulla caduta mortale, la terza a quelli sulle indagini, la quarta a una testimonianza fondamentale e la quinta al “caso escort”. Antonino Monteleone incontra in un lungo colloquio Ettore Gotti Tedeschi, già presidente dello Ior e artefice dell'acquisto per conto del Banco Santander della Banca Antonveneta, che rivendette successivamente a Monte dei Paschi innescando ripercussioni negative a catena sulla banca senese. E proprio sull'acquisto di Banca Antonveneta da parte di Mps, che costò alla banca senese nove miliardi di euro (cui però vanno sommati i miliardi di debiti che la banca aveva in pancia), Gotti Tedeschi dice: "Mussari non voleva comprare l'Antonveneta. Della vendita se ne occupò Rothschild (la banca d'affari che curava per conto di Santander la vendita di Antonveneta, ndr). Mussari era entusiasta della fusione. Non dell'acquisto. Chi volle l'acquisto era la Fondazione". "Quindi Mussari ha subito la l'acquisto?", gli chiede Monteleone. "Questa è sempre stata la mia opinione", risponde il banchiere. E la Iena gli chiede anche dei quattro conti correnti presso lo Ior che sarebbero stati aperti da uomini riconducibili alla Fondazione. Gotti Tedeschi risponde: "Credo che fosse vero. Chi si occupava di questi conti all'interno dello Ior era direttamente ***** della Fondazione. E naturalmente col presidente, ma mi tagliavano completamente fuori visto il mio ruolo con Santander nella vicenda Montepaschi. Quindi non sapevo assolutamente niente. E non ho mai visto Mussari venire in Vaticano. In realtà operava per conto di altri, diciamo per il sistema senese". E perché la fondazione Mps potrebbe avere quattro conti correnti accesi presso lo Ior?", chiede Monteleone. "Sono tangenti, mi pare evidente", risponde il banchiere. "Se dice tangenti penso alla politica", lo incalza la Iena. "È evidente! Ma nessuno le confermerà l'esistenza di quei conti, perché lì c'era di tutto! Qua si tratta della Curia vaticana. Lì dentro c'era tutto quello che lei può immaginare. C'erano delle persone che in un secondo cambiavano le intestazioni di tutti i conti. Un sistema che non permetteva a nessuno, se non alla Cupola, di risalire ai conti. È molto probabile quindi che quei conti ci fossero. Stavo per perdere la fede". "Quando dice che la Curia vaticana le stava facendo perdere la fede...", gli fa eco Monteleone. "Anche La vita!", lo interrompe Gotti Tedeschi. "La Curia vaticana può commissionare un delitto secondo lei?". "Ci sono persone all'interno che non mi meraviglierebbe per niente se lo facessero. Dove c'è il bene c'è sempre il male. Nella Chiesa si perpetrano cose che non si dovrebbero neanche immaginare".

David Rossi, Gotti Tedeschi e quei 4 conti “pericolosi” allo Ior, scrivono Le Iene il 26 marzo 2019.  Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente della banca del Vaticano, parla dei presunti quattro conti che sarebbero stati aperti allo Ior da uomini riconducibili alla Fondazione Mps. Con altri elementi che, dopo lo Speciale Iene, aprono nuovi scenari nell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. “Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti per non trovarmi un giorno in imbarazzo di fronte a un giudice che mi domanda: ‘che lei sappia ci sono questi conti’?'”. Continua l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sul caso David Rossi, dopo lo Speciale Iene di giovedì 21 marzo, con nuove eclatanti rivelazioni da parte di Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, la banca del Vaticano, tra il 2009 e 2012. David Rossi, ex capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena, vola giù dalla finestra del suo ufficio, al terzo piano della sede centrale della banca, il 6 marzo 2013. Si è trattato di suicidio, come stabilito con due archiviazioni dalla magistratura, o è stato ucciso, come sostiene la famiglia? Nello speciale, che vi riproponiamo qui sotto nelle sei parti in cui è diviso (clicca qui per vederlo integralmente), abbiamo ripercorso tutti i dubbi che avvolgono la morte di David Rossi, dai quelli sul video della sua caduta mortale ai dubbi su alcuni aspetti delle indagini, ascoltando anche la testimone Lorenza Pieraccini, che dice di non essere mai stata sentita dalla Procura, come invece risulta agli atti, e valutando la storia dei festini a base di sesso e droga raccontata da un escort. Fino alle clamorose rivelazioni fatte proprio dall’ex presidente della banca del Vaticano, che ha parlato non solo della possibile esistenza di tangenti e soldi sporchi, ma ha addirittura lasciato intendere che uomini interni alla Curia vaticana potrebbero essere capaci anche di commissionare un delitto. È proprio Gotti Tedeschi a fare nuove clamorose dichiarazioni nell’intervista che vedete qui sopra. Nel primo incontro tra la Iena e l’ex presidente dello Ior, Monteleone gli ha chiesto dei quattro conti correnti che sarebbero stati aperti presso la banca del Vaticano e che sarebbero riconducibili a uomini della Fondazione Mps. “Credo che fosse vero”, risponde l’ex presidente dello Ior sull’esistenza di questi conti. “Sono tangenti mi pare evidente”, dice, come avete visto nella sesta parte dello speciale che abbiamo dedicato al caso. Dopo la prima intervista, Antonino Monteleone è tornato da Gotti Tedeschi, per capire come fosse possibile che l’allora presidente dello Ior non sapesse nulla sulla presunta esistenza di quei conti. Le dichiarazioni di Gotti Tedeschi a riguardo sono davvero clamorose. “Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti”, dice Gotti Tedeschi alla Iena. Come faceva a non occuparsi di tutti i conti e della loro provenienza, proprio lui che, come ci ha detto nell’ultima intervista, era stato chiamato da Papa Benedetto XVI per “ripulire lo Ior”? “Io non ho mai voluto vederli. Non era il mio compito”, risponde l’ex presidente. “Il mio incarico era di attuare le necessarie procedure per fare trasparenza, e mi fu anche detto: ‘lascia proprio stare la curiosità naturale di guardare di chi sono i conti’, infatti io non volli mai sapere”. E perché non ha mai voluto sapere? “Se tu hai visto i conti e dici al giudice di chi erano i conti, quelli veri, la tua famiglia dove la metti?”, dice Gotti Tedeschi alla Iena. “A proteggerla, ci vuole il più grande sistema di protezione che si possa immaginare” e nomina il giornalista Mino Pecorelli. “Si ricorda perché è morto?”, chiede a Monteleone. “Ha messo le mani su che cosa? Sui nomi”. Monteleone gli fa notare che sapere chi ha i soldi allo Ior è un potere. “Sarei morto”, risponde l’ex presidente della banca del Vaticano. Perché le dichiarazioni di Ettore Gotti Tedeschi sono così rilevanti? Primo perché mentre era presidente dello Ior, Gotti Tedeschi era stato a capo per l’Italia di Santander e partecipò all'acquisto per conto di quell’istituto della Banca Antonveneta, che è stata poi rivenduta nel 2007 a Monte dei Paschi innescando ripercussioni negative a catena sulla banca senese che venne travolta da una bufera mediatica e finanziaria. Quella durante la quale muore David Rossi, volando giù dalla finestra del suo ufficio. L’ex presidente dello Ior, nell’ultima intervista andata in onda, ci ha detto di non ricordarsi di lui. Su una foto scattata dalla polizia scientifica il giorno del dissequestro dell’ufficio di David si vede un biglietto sulla scrivania con scritto a penna il nome "Ettore Gotti Tedeschi" e il suo numero di cellulare. I due si dovevano parlare? Nel caso, chi aveva cercato chi e, soprattutto, perché l’allora capo dell’area comunicazione di Mps doveva parlare con il presidente dello Ior? Si tratta solo di una coincidenza? Davvero Ettore Gotti Tedeschi non conosceva David Rossi? Esistevano davvero quattro conti riconducibili a uomini della Fondazione presso lo Ior? E chi poteva sapere i nomi legati a quei conti? Sono solo alcuni dei dubbi che legherebbero il Monte dei Paschi e David Rossi alla banca del Papa.

Ecco per esteso l'intervista inedita a Ettore Gotti Tedeschi.

“Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti proprio per questa ragione. Per non trovarmi un giorno in imbarazzo di fronte a un giudice che mi domanda che lei sappia ci sono questi conti? Io non ho mai voluto vederli". 

Cioè è come se lei fosse un pilota di Formula 1 che si rifiuta di guardare cosa c’è nel cofano della sua monoposto?

"Esattamente”.

È un po’ spericolata come cosa.

"Non era il mio compito. Primo perché non sono un meccanico, se anche avessi aperto il cassone, avrei dovuto avere competenza per la meccanica. Io so guidare la Formula 1. Non significa saper cambiare le gomme".

Però siccome è lei che guida...

"Ho avuto un incarico…estremamente preciso, direttamente dal Papa. Quello di attuare le necessarie procedure, per fare la trasparenza. E mi fu anche detto lascia proprio stare la curiosità naturale di guardare di chi sono i conti, infatti io non volli mai sapere".

Però c’è una cosa che lei mi ha detto, io non volevo sapere chi erano i nomi, perché…

"Su questo non deve dubitare…".

"No  no non dubito…".

"E non li so!".

Ma se io avessi avuto un mandato da Sua Santità Benedetto XVI di…

"Eh, come è stato…".

Io ho bisogno di ripulire questo istituto. Come si concilia il mandato per la trasparenza assoluta senza entrare a gamba tesa su chi ci ha messo i soldi.

"No no no… le rispondo, a poco a poco dal 2001 al 2008 sono stati chiusi tutti i paradisi fiscali nei Paesi, chiamiamoli democratici, non canaglia. va bene? si ricorda San Marino?

Certo…

"Bene. Quale era l’unico e ultimo aperto? Quello all’interno dello stato della Città del Vaticano. Benedetto dice: se noi non ottemperiamo ai criteri di massima trasparenza esemplare, mettiamo a repentaglio la credibilità della Chiesa e del Papa. Dottore. vada, faccia quello che deve fare. Santità, devo fare una legge antiriciclaggio. Sevo fare delle procedure e un’autorità di controllo che controlli che le procedure alla lettera vengano applicate. Vada! Cosa ho detto: come faccio io a evitare che ci siano dei conti intestati a chi non devono essere intestati? Transazioni che non devono essere fatte, cosa faccio? Senza voler andare a vedere chi li ha fatti fino al giorno prima. Faccio una legge che dice: da oggi chi li fa è un fuorilegge. Ma ha capito?"

In questo modo come si fa a sapere: noi abbiamo i soldi della mafia nelle casse dello Ior?

"Ma non voglio saperlo!".

Eh però se vogliamo toglierli quei soldi bisogna saperlo se ci sono, sennò ce li teniamo, è un gioco strano.

"No, lei mi sta chiedendo delle cose talmente, scusi eh, per me talmente semplici e banali. Io non dovevo guardare i conti. non dovevo".

Ma chi li guardava?

l’unica persona al mondo che io sappia che conoscesse i conti di chi erano era Cipriani, Tulli e Mattietti.

Qui Gotti Tedeschi sostiene che gli unici a sapere di chi erano i conti fossero l’ex direttore aggiunto dello Ior Giulio Mattietti, licenziato nel 2017 con l’accusa di avere tradito la fiducia del Papa. E insieme a lui Paolo Cipriani, ex direttore generale, e Massimo Tulli, il suo vice. Entrambi condannati a risarcire 47 milioni lo Ior per danni in primo grado. Mentre Gotti Tedeschi, che era il Presidente, afferma che di chi fossero quei conti non ne avrebbe saputo niente. Ma perché lei rinuncia ad avere informazioni che ha una figura all’interno dell’istituto che le è sottoposta.

"Allora stia a sentire. Lei fa il giornalista d’inchiesta, si ricorda perché è morto Mino Pecorelli? si ricorda chi era?".

Sì certo faceva…

"Si ricorda perché è morto? ha messo le mani su che cosa? sui nomi. allora..."

Cioè lei mi sta dicendo che chi mette le mani sui nomi schiatta.

"Cosa mi viene detto? me lo ricordo come se fosse adesso: non volere mai sapere, non andare a cercare... se ti vengono a dire le facciamo vedere rifiutati di vedere. Per due ragioni. La prima, che prima o poi succederà uno scandalo allo Ior, tu verresti immediatamente interrogato. Ti dicono lei ha guardato i conti? Tu dici: sì che l’ho guardati. Allora ci dica di chi sono i conti. Oppure tu dici non li ho guardati, hai mentito perché li hai guardati, in tutti e due i casi tu sei morto. se tu hai visto i conti…"

Professionalmente?

"… e dici al giudice di chi erano i conti, quelli veri, la tua famiglia dove la metti? a proteggerla. ci vuole il più grande sistema di protezione che si possa immaginare. seconda ipotesi: tu li hai visti ma dici noooo, non li ho visti, ti arrestano, perché sanno perfettamente che li hai visti!"

Tutti pensano di lei, cazzo Gotti Tedeschi sa chi c’ha i soldi allo ior. Cioè, che potenza…

"Sarei morto. non, si potrebbe aver recitato molti requiem…".

Se Gotti Tedeschi fosse stato più spericolato, lei mi dice sarebbe morto...

"Senta…"

Ma morto professionalmente o morto schiattato, cioè morto... morto

"Ehhhhhhh… lei deve riflettere sulla morte di quel giornalista".

Pecorelli.

"Vada a rileggersi i giornali dell’epoca e vada  riflettere, cioè, se lei sa dei nomi e li dice nel modo sbagliato, alla persona sbagliata e questi nomi potrebbero non gradirlo, avere un segreto è un’arma a doppio taglio. Se lei è forte le permette di influenzare gli altri. Se lei è debole o decide di essere debole... lei è morto".

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         La Regione…e la politica.

Da “la Zanzara - Radio24” il 24 ottobre 2019. “Ho avuto un rapporto sessuale con una suora, abbiamo pubblicato il video su Youporn”. “Lo abbiamo fatto per far capire la sofferenza di preti e suore…”. “Andate e cercate, andate su Google, il video si chiama Suora Scatenata-Wild Nun…”. Questa la clamorosa confessione a La Zanzara su Radio 24 di Giuseppe Cirillo, classe ’63, psicosessuologo e candidato Presidente della Regione Umbria con il Partito delle Buone Maniere. “E’ successo nove anni fa – dice Cirillo – e lo confesso. Ero in Asia, non posso dire dove né come si chiama la sorella. Abbiamo avuto una  storia e lei mi ha detto: le altre consorelle nel mondo devono sapere. Nell’abbandono è concepibile un peccato nell’incoscienza? No, non si pecca. Don Mazzi diceva: ho visto preti morire di Aids. Come l’hanno preso giocando a biliardino nell’oratorio. La suora ha deciso lei di metterlo, il video è lì da nove anni. Nel video c’è sesso orale e penetrazione, poi un balletto. Lei dice: anche le altre sorelle devono capire la sofferenza di una suora che soffre e non può esternare la sua energia che fa parte di tutti gli esseri umana. Io ho condiviso e l’ho aiutata. Mi sono messo nudo, con l’uccello di fuori…certe cose a una certa età non si dovrebbero fare. Ma finchè Dio mi dà la forza…Buone Maniere sta con le sorelle, se sarò eletto farò dei consultori per suore e preti, dei seminari d’accordo con la Chiesa…”. Che fine ha fatto la suora?: “Non la sento da anni. Siamo stati due notti insieme, la prima non ho avuto eiaculazione, la seconda sì”. Adesso però sostieni che preti e suore devono fare l’amore senza farlo. Come si fa?: “Lo spiego in un libro proprio dal titolo Come fare l’amore senza farlocon prefazione di Tinto Brass. Non si possono nemmeno baciare, pensate come soffrono…Bisogna imparare certe manovre, le carezze, la discussione, il pensiero…Ovviamente i preti hanno come tutti un’erezione. Ma quante volte noi siamo felici con la nostra donna senza eiaculare. I preti non possono farlo. Non bisogna arrivare per forza alla conclusione, non bisogna per forza segnare e fare goal. Siamo fissati con l’orgasmo, con l’eiaculazione, mettere il cazzo nel buco e così si arriva alla violenza e alla pedofilia. Nessuno mi può convincere che l’eiaculazione è il culmine del piacere”. Ma Cirillo ha in serbo altre sorprese: “Abbiamo distribuito 4500 preservativi in tutta l’Umbria, gratis. E’ possibile risollevare le sorti dell’occupazione in Umbria con una fabbrica di condoms. Si può fare tra Terni e Perugia. Dobbiamo battere l’ipocrisia”. “Purtroppo – dice - oggi solo il 23 per cento della popolazione sessualmente attiva usa il preservativo, c’è inibizione, c’è paura, la causa principale è che l’uomo ha paura di perdere l’erezione. Invece bisogna capire che grazie al condom la coppia può essere più felice perché ritarda l’eiaculazione grazie al contatto con le mucose. La donna con grande dolcezza deve mettere il preservativo all’uomo durante i preliminari…questo bisogna insegnare. E che durante un rapporto serve più di un preservativo…”. “Non immaginate – dice ancora - quanta gente non sa di avere il virus dell’Hiv quando va dal medico. Basta farsi tirare un po’ più di sangue… Abbiamo dei precedenti negativi, una volta litigai con l’allora ministro Rosy Bindi. Litigai con lei perché aveva fatto una campagna contro l’Aids prendendosela coi rapporti occasionali. La incontrai e le dissi: Caro ministro lei come cacchio crede di combattere l’Aids, in questo modo con uno slogan assurdo: evita rapporti occasionali? I rapporti sono tutti occasionali, anche tra chi poi decide di vivere una vita insieme e fanno i figli; all’inizio è certamente occasionale il rapporto. Evitare significa astieniti, ma che cazzo di modo è di affrontare questo flagello? E oggi siamo ancora a questo punto”. Perché ti chiami Dr. Seduction?: “E’ un appellativo che mi ha dato in California un giornalista del San Francisco Chronicle per la mia attività nel campo della seduzione e della sessualità…”

·         Più raccomandati che posti.

Concorsi sospetti nella sanità, arrestati assessore e segretario del Pd dell’Umbria. Pubblicato venerdì, 12 aprile 2019 su Corriere.it. Il segretario del Pd dell’Umbria Gianpiero Bocci e l’assessore regionale alla Salute e coesione sociale Luca Barberini sono stati arrestati dalla Gdf nell’ambito dell’indagine della procura di Perugia su alcune irregolarità che sarebbero state commesse in un concorso per assunzioni in ambito sanitario. Nei confronti dei due sono stati disposti i domiciliari. Stesso provvedimento per il direttore generale dell’Azienda ospedaliera Emilio Duca e per il direttore amministrativo della stessa azienda. Sempre la Guardia di Finanza ha eseguito delle perquisizioni nei confronti della presidente della Regione Catiuscia Marini. Nell’indagine sarebbero coinvolti anche 6 dirigenti di una azienda ospedaliera.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2019. Un'associazione a delinquere per truccare e condizionare le assunzioni negli ospedali, piegandole alle richieste dei politici locali. L'avevano messa in piedi, secondo l'accusa della Procura di Perugia, il direttore generale della Azienda ospedaliera umbra Emilio Duca, il direttore amministrativo Maurizio Valorosi e altri complici. Ma dietro ci sarebbero state le pressioni della presidente della Regione Catiuscia Marini, dell' assessore alla Salute Luca Barberini e del segretario del Partito democratico umbro (nonché ex deputato e sottosegretario al ministero dell' Interno) Giampiero Bocci. Barberini e Bocci sono ora agli arresti domiciliari come Duca e Valorosi, mentre la presidente Marini è indagata per concorso in abuso d' ufficio, rivelazione di segreto e falso. Un terremoto giudiziario che fa tremare il governo della Regione e la politica del Pd in Umbria. Ieri gli ufficiali della Guardia di finanza hanno perquisito gli uffici della presidente Marini che si è detta «tranquilla e fiduciosa nell' operato della magistratura». Il neo-segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ha già commissariato la federazione locale. In attesa delle versioni degli inquisiti, le carte dell' accusa raccontano di un «efficiente e solido sistema clientelare», fondato su una «prolungata e abituale attività illecita» per pilotare i concorsi dell'azienda ospedaliera. Almeno 8 sono i concorsi manipolati individuati dagli investigatori delle Fiamme gialle e dai pm guidati dal procuratore Luigi De Ficchy, che grazie a intercettazioni telefoniche e ambientali hanno seguito quasi in diretta le assegnazioni dei posti ai candidati indicati dai politici Bocci, Barberini e Marini. Grazie ai dirigenti ospedalieri che li informavano prima sul contenuto delle prove d'esame e poi aggiustavano i punteggi a loro favore. «Gli porto su le domande, sennò come fa?», diceva, prima di andare in consiglio regionale, il direttore Duca. Al quale una componente della commissione d' esame confidava: «Quelli che mi hai dato te (i nomi dei candidati, ndr) li ho dati tutti il massimo...». Dopodiché si giustificava con un primario dispiaciuto per il piazzamento di due infermiere: «Ma non te sto a dire... erano tanti da sistema'». Per l'assunzione di quattro assistenti contabili, Duca e Valorosi si sono trovati a dover assecondare le raccomandazioni dell'assessore Barberini e di Bocci, ma anche della nipote di un dirigente regionale del Pd e della presidente Marini. Dalle intercettazioni del 9 maggio 2018, infatti, risulta che il direttore abbia promesso di consegnare le tracce della prova scritta al vicepresidente del consiglio regionale Alvaro Mirabassi e a Bocci, dopodiché incontra la presidente della Regione: «Qui ce so le domande, tra quelle lì... sta tranquilla», le dice, e secondo gli inquirenti «consegna un foglio al di lei segretario, Valentino Valentini, al quale viene affidato il compito di portarlo a una donna». Era la favorita della governatrice, che assieme ai nomi dei segnalati dagli altri politici figurerà nelle prime quattro posizioni. Gli stessi aiuti vengono garantiti anche per le prove pratiche e orali, in particolari alla candidata di Bocci. «Era andato da Bocci per scrivergli un po' d' appunti per 'sta ragazza», dice Duca, mentre Valorosi riferisce: «Messaggio da Bocci: vuole gli orali, le domande orali». Alla presidente della commissione Duca raccomanda di «portare avanti le persone raccomandate da Bocci, Barberini e Marini, e dunque di "gonfiare" in particolare la valutazione di una delle candidate». Per un candidato meritevole ma «non segnalato» si riserva un posto futuro, mentre per la nomina del direttore della Struttura di anestesia vengono abbassati i punteggi di un «esterno» sperando che non si presenti (come avverrà), e alzati quelli del favorito da Bocci: «Ci puoi anche mettere mezzo punto in più per avvicinarlo a questo, che tanto non ci sarà, e dopo lo porti a 39!». Conclusione del giudice: «L' intera procedura verrà svuotata di ogni valenza in quanto gli indagati ne decideranno le sorti in maniera del tutto indipendente da ogni valutazione di merito».

Umbria, inchiesta Sanità: arrestati segretario Pd e assessore regionale. Indagata anche la presidente della Regione Catiuscia Marini nell'inchiesta su un concorso. "Massima collaborazione, sono tranquilla e fiduciosa nell'operato della magistratura", scrive La Repubblica il 12 aprile 2019. Il segretario del Pd dell'Umbria Gianpiero Bocci e l'assessore regionale alla Salute e coesione sociale Luca Barberini sono stati arrestati dalla Gdf nell'ambito dell'indagine della procura di Perugia su alcune irregolarità che sarebbero state commesse in un concorso per assunzioni in ambito sanitario. Nei confronti dei due sono stati disposti i domiciliari. Stesso provvedimento per il direttore generale dell'Azienda ospedaliera Emilio Duca e per il direttore amministrativo della stessa azienda.  Anche il presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini, Pd, è indagata nell'inchiesta. Al momento non si conoscono gli addebiti nei suoi confronti. Dall'insieme degli elementi raccolti nell'indagine sulle assunzioni all'ospedale di Perugia deriva "un chiaro quadro di prolungata e abituale attività illecita". E' quanto emerge dall'ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip di Perugia. Secondo il giudice da parte degli indagati sono state "condizionate e sostanzialmente falsate le procedure di selezione del personale dell'Azienda ospedaliera". Undici i concorsi al centro dell'inchiesta e 35 le persone indagati. La Guardia di Finanza ha eseguito decreti di perquisizione nei confronti del presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini, del segretario regionale del Pd ed ex sottosegretario all'Interno Gianpiero Bocci e dell'assessore regionale alla Sanità Luca Barberini. L'inchiesta della procura di Perugia riguarda un concorso di una delle aziende sanitarie umbre. Nell'indagine sarebbero coinvolti anche sei dirigenti dell'azienda ospedaliera. L'indagine è seguita direttamente dal procuratore Luigi De Ficchy e ipotizza, a vario titolo, i reati di abuso d'ufficio, rivelazione del segreto d'ufficio, favoreggiamento e falso. I finanzieri, secondo quanto si apprende, hanno perquisito oltre che le abitazioni e gli uffici dei destinatari dei decreti, anche la sede dell'assessorato alla Sanità. "Quest'oggi mi è stata notificata dalla procura della Repubblica di Perugia una richiesta di acquisizione di atti nell'ambito di una indagine preliminare relativa a procedure concorsuali in capo ad una Azienda sanitaria umbra": lo ha reso noto la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini. "Ho offerto la mia massima collaborazione personale e istituzionale - ha sottolineato Marini - all'attività dei rappresentanti dell'autorità giudiziaria. Sono assolutamente tranquilla e fiduciosa nell'operato della magistratura, nella certezza della mia totale estraneità ai fatti e ai reati oggetto di indagine" - Nelle carte dell'inchiesta sulla sanità umbra spunta anche Giampiero Bocci, "all'epoca dei fatti deputato e sottosegretario al ministro dell'Interno, oggi segretario regionale del Partito democratico". A lui il gip fa riferimento per due conversazioni intercettate all'indagato Duca, dg dell'ospedale di Perugia. Nella prima, del 9 maggio 2018, Duca parla con Alvaro Mirabassi, vicepresidente del Consiglio Comunale di Perugia: "Anche il Mirabassi chiede di avere le tracce della prova scritta che si terrà il 16 maggio e il Duca lo rassicura aggiungendo inoltre che avrebbe dovuto darle anche a "Giampiero" (dovendosi intendere evidentemente l'onorevole Bocci)", si legge nell'ordinanza. Nella seconda intercettazione e in altre a seguire si conferma "la necessità avvertita da entrambi di far combaciare i diversi interessi clientelari, in particolare quelli segnalati dai predetti Barberini (assessore regionale alla Salute, ndr) e Bocci, al quale, ultimo, il Duca ripromette di consegnare le tracce scritte l'indomani". Il gip riporta l'intercettazione nella quale Duca dice: "Ah, anche Bocci è a Roma, me lo ha detto lui, ora gli mando un messaggio e domani pomeriggio, quando tornava su, gli porto le domande".

Bocci, il vero influencer della Sanità in Umbria. Potere, interessi e caduta di Bocci, segretario regionale del PD personaggio centrale dell'inchiesta. Panorama 4 maggio 2019. La Chiesa del silenzio è tornata. Crollata l’Unione Sovietica, non se ne sentiva la mancanza. Ma è tornata lo stesso e lo ha fatto in Umbria, dopo che i vertici del Pd locale sono finiti agli arresti domiciliari nell’inchiesta sui concorsi truccati nella sanità, mentre la presidente Catiuscia Marini è stata costretta a dimettersi per un avviso di garanzia. Ma soprattutto, dopo che è caduto un pezzo da novanta come Giampiero Bocci, segretario regionale del Partito democratico, ex deputato di lungo corso fin dai tempi del Ppi e della Margherita, ex sottosegretario agli Interni, inamovibile, in tutti e tre i governi di centrosinistra della scorsa legislatura. In una regione come l’Umbria, dove ci sono più logge massoniche che in tutto il Piemonte, Bocci è il pupillo del cardinal Gualtiero Bassetti, che unisce alla carica di vescovo di Perugia quella di presidente della Cei, per volontà di Papa Francesco. E forse non è un caso che almeno fino alla vigilia di Pasqua, Bassetti si sia ben guardato dal dire una sola parola sugli arresti. Pecorelle smarrite, pastore muto. L’inchiesta che ha accelerato la Passione del Pd umbro conta 35 indagati e ha portato agli arresti domiciliari non solo Bocci, ma anche i suoi uomini più fedeli come Luca Barberini, rampante assessore alla sanità, Emilio Duca, direttore dell’azienda ospedaliera di Perugia e Maurizio Valorosi, responsabile amministrativo. L’indagine condotta dalla Guardia di finanza ipotizza vari reati, tra i quali il falso ideologico, la rivelazione del segreto d’ufficio, il favoreggiamento e l’abuso d’ufficio. Marini guidava l’ala rossa, ma l’ala bianca del Pd umbro era guidata da Bocci, 56 anni portati alla democristiana, cioè da nato vecchio, sindaco del suo paese, Cerreto di Spoleto, a soli 22 anni. Uno che a neppure trent’anni già si alternava tra Asl e comunità montane. Trombato alle ultime politiche, Bocci vince le primarie umbre a Natale, battendo nettamente il mite (e non clientelare) Walter Verini. E lo fa partendo proprio dal suo feudo nella sanità. Con la nomina a segretario, Bocci sigla la pace con la Marini e tutto sembrava preludere, alla scadenza naturale del 2020, alla candidatura dello stesso Bocci come nuovo presidente. Ma la magistratura locale ha scombussolato i piani. E Zingaretti ha commissariato il partito, scegliendo proprio Verini. Nelle 489 pagine della richiesta di misure cautelari ci sono vari omissis, piazzati dove l’inchiesta sembra salire di livello, dove si abbozza la descrizione di «un sistema» e probabilmente si parla anche di appalti. Un passaggio inquietante è quello che sembra confermare l’idea che l’Umbria sia un posto dove per oltre mezzo secolo hanno comandato il partitone rosso, la massoneria e, in un piccolo recinto ben delimitato e consenziente, la Chiesa cattolica. La sintesi spunta dal telefonino di Duca, il direttore degli ospedali di Perugia, in un momento di sconforto: «La gastroenterologia va chiusa tutta, vanno rinchiusi in galera tutti… (omissis)... non riesco a togliermi le sollecitazioni dei massimi vertici di questa regione a tutti i livelli... ecclesiastici (omissis) ecumenici, politici, tecnici». E dopo il misericordioso omissis, ecco come prosegue: «Se no a ’st’ora c’avevo messo le mani sulla gastro (fonetico) altro che disposizioni di servizio dell’altra volta... (omissis)...; tra la massoneria, la curia e la giunta (omissis) non me danno tregua. E la Calabria Unita..(omissis)…». Nella speranza che il riferimento alla «Calabria Unita» sia solo una battuta razzista, resta l’immagine di un Pd che dopo il bagno di sangue del 4 marzo 2018, in cui ha perso tutti i collegi uninominali della Regione a favore della Lega di Matteo Salvini, si sarebbe messo a truccare concorsi e nomine in Sanità, ultimo serbatoio di voti disponibile per frenare il Carroccio. Bocci è accusato di aver imposto propri candidati negli ospedali  perugini, dove lavorano la bellezza di 3 mila persone. Eppure, nel discorso da nuovo segretario del partito, annunciò l’intenzione di «dare vita a un vero ricambio generazionale, che si fa con i fatti, non scegliendo ciò che conviene ma esclusivamente tenendo conto di merito, competenze e studio». Negli atti d’indagine spunta anche la solita amante, o presunta tale. Il sistema Bocci-Barberini, a un certo punto, entra in collisione con una professoressa, Susanna Maria Esposito, direttrice della clinica pediatrica dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia, che si becca una sospensione di 10 giorni per una presunta omissione su un collega inadempiente. Sentita a verbale dagli inquirenti, la Esposito racconta di essere stata oggetto di una persecuzione da parte di Duca per aver chiesto lumi su un’altra sua dottoressa che era stata autorizzata ad andare un giorno a settimana a Roma. E mette a verbale che il direttore sanitario, di fronte alle sue rimostranze per l’irregolarità del comando, le disse che la dottoressa «era stata e forse era ancora l’amante dell’allora onorevole Giampiero Bocci e di conseguenza meritava un trattamento di riguardo». L’ospedale romano non era un ospedale qualsiasi, perché è il prestigioso Bambino Gesù, che è del Vaticano. Nella richiesta di arresto i pm scrivono che «la punizione della professoressa Esposito è una provata ritorsione». Bocci, del resto, fino al marzo 2018 era sempre a Roma, al Viminale, con deleghe sui Vigili del fuoco e sui prefetti. E proprio i vigili del fuoco conducono all’accusa di aver avvertito gli indagati della Sanitopoli umbra che erano intercettati e spiati. Secondo i pm, Bocci avrebbe informato (il 13 luglio 2018) Emilio Duca, per mezzo di Maurizio Valorosi, che durante un finto intervento dei Vigili del fuoco (il 17 novembre 2018) a caccia di antrace, l’ospedale di Perugia era stato riempito di microspie. Se l’accusa sarà provata, sarà sorprendente per un uomo che al Viminale aveva fama di grande lavoratore, dal profilo molto istituzionale. Insomma, «un altro Zanda», dicono al partito. Chi lo frequenta in privato, racconta che Bocci è alla mano, il tipo che se ti invita a casa a pranzo si alza da tavola per servirti, e che se arrivava tardi da Roma non lasciava ripartire l’autista, ma lo tratteneva almeno a cena. Tra i suoi amici migliori c’è il generale Tullio Del Sette, ex comandante dell’Arma, che rischia il processo per la fuga di notizie che ha danneggiato l’indagine Consip sul cerchio magico renziano. Del Sette è di Bevagna e da capitano ha comandato la compagnia di Spoleto, dove ha conosciuto il giovanissimo Bocci. Il 24 maggio 2017, quando Bassetti ottiene la nomina alla Cei, Bocci gli scrive dal Viminale: «Il Papa, chiamandoti alla guida dei vescovi italiani, ti ha affidato un compito di straordinaria responsabilità che sono certo saprai assolvere, così come hai sempre fatto in tutta la tua vita, con spirito di grande umiltà e saggezza. Tuo padre ti avrebbe voluto un campione di ciclismo e ora ti toccherà pedalare davvero per guidare la chiesa italiana nei prossimi anni». Nell’entusiasmo si dimentica che sta dando del «tu» a un principe della Chiesa, ancorché amico, e che nessun vecchio capo democristiano avrebbe diffuso la lettera ai media. Dopo gli «Anarchici informali», che da anni turbano il Viminale, ecco i «Clericali informali». Anzi, se è vera la storia delle cimici, informali e informati. 

UMBRIA: SISTEMA PD…E I GIOVANI CHE NON RIENTRANO IN QUESTO SISTEMA? Scrive il 13 Aprile 2019 Antonio Massari e Valeria Pacelli per Il Fatto Quotidiano. “Non riesco a togliermi le sollecitazioni dei massimi vertici di questa Regione a tutti i livelli. Ecclesiastici – omissis – ecumenici, politici, tecnici. Se no a st’ora c’avevo messo le mani sulla gastro… altro che disposizioni di servizio dell’altra volta (…) Tra la massoneria, la curia e la giunta (…) non me danno tregua. E la Calabria Unita”. Così il 6 giugno 2018 parlava Emilio Duca, direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Perugia, l’uomo al quale – secondo le accuse dei pm di Perugia – si rivolgono politici e non solo per segnalare persone a loro vicine da inserire nelle graduatorie di selezione del personale nella sanità umbra. Ieri Duca è finito agli arresti domiciliari insieme al direttore amministrativo Maurizio Valorosi, all’ex sottosegretario all’Interno Gianpiero Bocci e all’assessore alla Salute Luca Barberini (che annuncia le sue dimissioni). Altri sei dirigenti dell’Azienda ospedaliera sono stati invece sospesi. Sono gli esiti di un’inchiesta in cui è indagata per abuso d’ufficio e rivelazione di segreto d’ufficio anche la governatrice umbra Catiusca Marini. Procediamo con ordine. 

L’indagine, partita a fine 2017, ha svelato l’esistenza di un “sistema” clientelare in cui esisteva una “generalizzata disponibilità a commettere illeciti all’interno dell’azienda ospedaliera da parte di coloro che si occupano delle procedure di selezione”. Duca e Valorosi, in questo sistema, secondo il gip Valerio D’Andria, “interessati al soddisfacimento delle esigenze politiche”, facevano da tramite con alcuni componenti delle commissioni d’esame per ottenere le tracce che poi sarebbero state consegnate ai candidati “segnalati”. Secondo le accuse, Barberini avrebbe interferito in quattro concorsi e Bocci in tre. L’ex sottosegretario avrebbe anche passato agli altri indagati informazioni sull’indagine e per questo è accusato anche di favoreggiamento. 

Sono otto le procedure, secondo l’accusa, “condizionate ”. Tra queste anche quella per l’assunzione di quattro assistenti contabili indetta nell’aprile del 2018.” Una procedura, secondo il gip, “condizionata dalle segnalazioni provenienti da esponenti politici, Catiuscia Marini, Luca Barberini, Gianpiero Bocci e Moreno Conti”, quest’ultimo “componente della direzione regionale del Pd”. “Al fine di raggiungere il fine prefissato di garantire a quattro candidati la vittoria del concorso – continua l’ordinanza – Duca e Valorosi ottengono dalla accondiscendente presidente della commissione le tracce delle prove scritte e del questionario, nonché, le domande della prova orale. I fogli che contengono tali preziose informazioni sono poi consegnati ai politici sopra indicati affinché li facciano avere ai candidati”. Le tracce del concorso, secondo quanto dice Duca intercettato, dovevano finire anche all’ex sottosegretario: “Anche Bocci è a Roma, me lo ha detto lui, ora gli mando un messaggio e domani pomeriggio… gli porto le domande”. Il 10 maggio quindi la presidente della commissione consegna “a Duca una busta” con i contenuti della prova. Quello stesso giorno il manager sanitario va in consiglio regionale dove incontra la governatrice Marini. 

La conversazione tra i due viene intercettata: “Il Duca riferisce alla Marini di avere le ‘domande’in vista dello scritto (‘qui ce so le domande… sta tranquilla’) che ci sarà tra cinque giorni” e poi consegna un foglio al suo segretario “al quale viene affidato il compito di portarlo a una donna”, una delle “segnalate”. È poi in una intercettazione del 25 maggio che Duca “ribadisce la necessità di portare avanti le persone raccomandate da Bocci, da Barberini e dalla Marini e, dunque, di ‘gonfiare’ in particolare la valutazione di una delle candidate”. “Sono assolutamente tranquilla e fiduciosa nell’operato della magistratura – ha detto ieri la governatrice Marini –, nella certezza della mia totale estraneità ai fatti e ai reati oggetto di indagine”.

Sanità, inchiesta in Umbria: intercettati i cellulari, "Manipolata commissione a concorso". Ecco cosa si legge nell'ordinanza del gip, scrive il 12 aprile 2019 La Nazione. Telefonini intercettati e cimici negli uffici. Per captare le conversazioni tra gli indagati nell'inchiesta choc sulla sanità in Umbria la Guardia di Finanza si è avvalsa di diversi apparati tecnologici. E dei "trojan", quei "cavalli di Troia" virtuali, quei programmi-spia che captano tutte le attività di uno smartphone, compresi i messaggi. Questo emerge nell'ordinanza del gip di Perugia Valerio d'Andria riguardo agli arrestati. Il lavoro degli inquirenti  "ha consentito di documentare il significativo contenuto di alcuni colloqui tenuti dall'indagato Emilio Duca, direttore generale dell'azienda ospedaliera di Perugia, al di fuori del suo ufficio", si legge nella stessa ordinanza. Sia Emilio Duca che Maurizio Valorosi, direttore amministrativo della stessa azienda, entrambi indagati nell'inchiesta, erano anche sottoposti a intercettazione ambientale in ufficio. Nell'ordinanza d'arresto del gip di Perugia che ha portato alla luce lo scandalo della sanità umbra si legge tra l'altro di una presunta "alterazione della procedura concorsuale consistita nella manipolazione dell'esito del sorteggio dei componenti della commissione esaminatrice".

Sesso e regali in cambio delle risposte ai concorsi: così medici e infermieri ottenevano il posto fisso a Perugia, scrive Simone Gussoni il 13/04/20190 su nursetimes.org. Emergono nuovi particolari in merito allo scandalo dei concorsi truccati per assumere medici, infermieri ed altri operatori sanitari e ausiliari presso alcuni ospedali di Perugia. “Una prolungata ed abituale attività illecita (…) mediante la quale sono state condizionate e sostanzialmente falsate le procedure di selezione del personale dell’azienda ospedaliera”. Con queste poche parole si può riassumere l’inchiesta portata avanti negli ultimi anni dalla Procura della Repubblica di Perugia, che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di 35 persone. Secondo le ultime indiscrezioni vi sarebbe stata una vera e propria concorsopoli. I candidati desiderosi di ottenere un posto fisso in ospedale avrebbero offerto soldi ma anche prestazioni sessuali a favore dei politici e dei dirigenti ospedalieri arrestati.

Scandalo sanità, sesso con la candidata dopo i suggerimenti, scrive il 13.04.2019 corrieredellumbria.corr.it. Spuntano anche rapporti sessuali in ufficio con una candidata nelle carte dell’inchiesta di Perugia sulla sanità umbra. In particolare, il gip fa riferimento al caso di uno degli indagati che «incontra la candidata e le dà suggerimenti sia sul curriculum che sulle condotte da assumere dopo la nomina della commissione esaminatrice. Alla fine del secondo colloquio - scrive il gip - inoltre i due interlocutori si scambiano effusioni e hanno un rapporto sessuale». La circostanza si ripete anche in successive occasioni, riporta l’ordinanza: «Anche dopo la procedura i due si incontrano presso l’ufficio (...) consumando in ogni occasione un rapporto sessuale». Il pm evidenzia come «i convegni amorosi si tengano proprio nel periodo in cui si svolge la procedura e senza che vi siano indici apparenti di una relazione sentimentale tra i due indagati» e ciò - sostiene - «indurrebbe a ritenere presente un vero e proprio accordo corruttivo fondato su uno scambio tra le prestazioni sessuali e la nomina». Tuttavia, il gip, evidenziando come il legame tra i due «quantomeno di amicizia, era ben precedente», sottolinea come più probabilmente si tratti di «una logica tipicamente clientelare che sfugge però all’inquadramento del delitto ipotizzato».

Umbria, intercettazioni. "Ho le domande, tranquilla". Inchiesta si allargherà. «Qui ce so le domande, tra quelle lì... sta tranquilla». Diceva così il direttore dell'azienda ospedaliera alla governatrice Pd. Bufera sulla sanità in Umbria, scrive Sabato, 13 aprile 2019 Affari italiani. E' un indagine "destinata ad allargarsi" quella condotta dalla Guardia di Finanza su una decina di concorsi per assunzioni all'ospedale di Perugia che sarebbero stati pilotati, secondo l'Ansa. L'inchiesta si incentra "principalmente" sull'ospedale del capoluogo umbro. Ma potrebbe estendersi - secondo quanto si e' appreso - anche ad altri settori della sanita' e della politica legata al Pd. «Qui ce so le domande, tra quelle lì... sta tranquilla». Diceva così il direttore dell'azienda ospedaliera alla governatrice Pd. Bufera sulla sanità in Umbria. Perquisizioni, arresti e tante polemiche politiche. Ai domiciliari sono finiti il segretario regionale del Partito democratico ed ex sottosegretario all'Interno, Gianpiero Bocci, l'assessore regionale alla Sanità, Luca Barberini, e il dg dell'ospedale, Emilio Duca. Stesso provvedimento per il direttore amministrativo. Indagata la presidente della Regione, Catiuscia Marini. L'inchiesta, condotta dalla guardia di finanza e coordinata dalla Procura di Perugia, è stata aperta con ipotesi di reato che vanno dall'abuso di ufficio alla rivelazione del segreto d'ufficio, dal favoreggiamento al falso. Nel mirino è finito un concorso per dirigenti nell'Azienda sanitaria di Perugia. Se Barberini si è dichiarato estraneo ai fatti e si è autosospeso dal Pd, oltre ad aver annunciato che si dimetterà dalla carica di assessore, la governatrice in una nota ha annunciato che "mi è stata notificata dalla Procura della Repubblica di Perugia una richiesta di acquisizione di atti nell'ambito di una indagine preliminare relativa a procedure concorsuali in capo ad una Azienda sanitaria umbra. Ho offerto - ha aggiunto Marini - la mia massima collaborazione personale e istituzionale all'attività dei rappresentanti dell'autorità giudiziaria".

Umbria, scandalo sanità: le intercettazioni. In attesa delle versioni degli inquisiti, le carte dell’accusa raccontano di un «efficiente e solido sistema clientelare», fondato su una «prolungata e abituale attività illecita» per pilotare i concorsi dell’azienda ospedaliera. Il Corriere della Sera riporta alcune intercettazioni del caso. «Gli porto su le domande, sennò come fa?», diceva, prima di andare in consiglio regionale, il direttore Duca. Al quale una componente della commissione d’esame confidava: «Quelli che mi hai dato te (i nomi dei candidati, ndr) li ho dati tutti il massimo...». Dopodiché si giustificava con un primario dispiaciuto per il piazzamento di due infermiere: «Ma non te sto a dire... erano tanti da sistema’». Per l’assunzione di quattro assistenti contabili, risulta che il direttore abbia promesso di consegnare le tracce della prova scritta al vicepresidente del consiglio regionale Alvaro Mirabassi e a Bocci, dopodiché incontra la presidente della Regione: «Qui ce so le domande, tra quelle lì... sta tranquilla», le dice, e secondo gli inquirenti «consegna un foglio al di lei segretario, Valentino Valentini, al quale viene affidato il compito di portarlo a una donna». Era la favorita della governatrice, scrive il Corriere della Sera, che assieme ai nomi dei segnalati dagli altri politici figurerà nelle prime quattro posizioni. Gli stessi aiuti vengono garantiti anche per le prove pratiche e orali, in particolari alla candidata di Bocci. «Era andato da Bocci per scrivergli un po’ d’appunti per ’sta ragazza», dice Duca, mentre Valorosi riferisce: «Messaggio da Bocci: vuole gli orali, le domande orali». Alla presidente della commissione Duca raccomanda di «portare avanti le persone raccomandate da Bocci, Barberini e Marini, e dunque di “gonfiare” in particolare la valutazione di una delle candidate». Dalle carte, riportate sempre dal Corriere della Sera, risulta anche che per per la nomina del direttore della Struttura di anestesia vengono abbassati i punteggi di un «esterno» sperando che non si presenti (come avverrà), e alzati quelli del favorito da Bocci: «Ci puoi anche mettere mezzo punto in più per avvicinarlo a questo, che tanto non ci sarà, e dopo lo porti a 39!». Insomma, secondo le parole del giudice riportate sempre dal Corriere della Sera: «L’intera procedura verrà svuotata di ogni valenza in quanto gli indagati ne decideranno le sorti in maniera del tutto indipendente da ogni valutazione di merito».

Arresti sanità: Marini, assoluta estraneità ad addebiti. La presidente umbra Catiuscia Marini in una conferenza stampa ha rivendicato la sua "assoluta estraneità" rispetto alla sua posizione di indagata. "Ho appreso grazie al puntuale lavoro degli inquirenti di una situazione sconcertante - ha detto - che se sarà confermata risulta molto grave per la nostra regione". "Tutelerò anche l'integrità morale della mia persona e della figura di presidente della Regione perchè se confermato, ho il dovere di difendere non solo Catiuscia Marini ma la Regione che rappresento", ha aggiunto. 

13 Aprile 2019 Umbria On. «Gli porto su le domande sennò questo come fa?». «Quelli che mi hai dato te, li ho dati tutti il massimo». E ancora: «Erano tanti da sistema’, tanti… tanti»; «Messaggio da Bocci… vuole gli orali, le domandi orali». Sono solo alcuni frammenti, quelli più significativi, delle conversazioni captate dagli uomini della Guardia di Finanza di Perugia e contenute nelle 80 pagine dell’ordinanza del gip Valerio D’Andria che venerdì pomeriggio hanno portato ai domiciliari, nell’ambito dell’inchiesta sui concorsi ‘truccati’ all’ospedale Santa Maria della Misericordia, il segretario regionale del Pd ed ex sottosegretario al ministero dell’Interno, Gianpiero Bocci, l’assessore regionale alla sanità, Luca Barberini, il direttore generale dell’azienda ospedaliera di Perugia, Emilio Duca, e il direttore amministrativo della stessa struttura, Maurizio Valorosi. Un’inchiesta in cui è coinvolta, come indagata a piede libero, anche la presidente della Regione, Catiuscia Marini, insieme ad altre 30 persone, sei delle quali colpite da misure interdittive. Un vero e proprio terremoto giudiziario, che riguarda alti dirigenti del Santa Maria della Misericordia e dell’assessorato alla sanità, alcuni membri degli otto concorsi finiti sotto la lente, candidati e familiari, ma anche un sindacalista, un generale in congedo dell’Arma dei carabinieri e un brigadiere della Finanza. L’inchiesta non si ferma.

Il ‘sistema’. Intercettazioni telefoniche e ambientali, che hanno prodotto una grossa mole di contenuti audio-visivi, ma anche un captatore informatico (il cosiddetto trojan) inserito all’interno dell’utenza del dg Emilio Duca, hanno fatto emergere – si legge nell’ordinanza – «un chiaro quadro di una prolungata ed abituale attività illecita» (posta in essere in prima battuta dallo stesso Duca, promotore e coordinatore dell’associazione, con il direttore amministrativo Valorosi ma «unitamente agli altri»), «mediante la quale sono state condizionate e sostanzialmente falsate le procedure di selezione del personale dell’azienda ospedaliera», attraverso la comunicazione a terzi interessati delle tracce d’esame e indirizzando le varie commissioni in ordine alle valutazioni da assegnare ai candidati, in un caso – è il caso del concorso per dirigente sanitario biologo – anche attraverso la manipolazione dell’esito del sorteggio dei componenti della commissione. «Si è di fronte, senza dubbio, ad un ‘sistema’, termine che ritorna più volte nelle conversazioni intercettate» scrive ancora il gip.

Domande in ‘consiglio regionale’. Il primo a finire sotto la lente degli inquirenti è il concorso per l’assunzione a tempo determinato di collaboratore professionale sanitario-infermiere, svolto tra il gennaio e l’aprile 2018. Una conversazione tra Duca e Valorosi, intercettata il 30 gennaio 2018 (giorno precedente alla prova scritta) documenta chiaramente come «Duca avesse con sé le tracce e che fosse in procinto di consegnarle in ‘consiglio regionale’». «Gli porto su le domande se no questo come fa?» dice Duca. Qualche giorno dopo, il 13 febbraio, lo stesso dg fornisce un indizio significativo in ordine alla persona al ‘consiglio regionale’ interessata a ricevere le tracce: l’assessore alla Sanità, Luca Barberini. Dirà una delle indagate allo stesso Duca: «Quelli che mi hai dato te, li ho fati tutti il massimo», aggiungendo che «l’assessore poteva stare tranquillo».

Date di esame spostate. «Erano tanti da sistema’, tanti.. tanti». «Che bocialli, ce mancherebbe altro!…rischiamo il culo noi, eh?» è un’altra delle conversazioni captate dagli investigatori da una delle indagate, membro della commissione, che avrebbe ricevuto pressioni, nello stesso concorso, anche in merito all’assunzione di una parente del generale dei carabinieri. Una «persona dell’assessore» sarebbe stata raccomandata anche nel concorso per dirigente medico geriatria, avvenuto tra maggio e giugno 2017, durante il quale sarebbe stato addirittura deciso di spostare la data della prova orale, in maniera tale da consentire nel frattempo ad una candidata di fruire della procedure di di stabilizzazione e dunque di non partecipare alle altre prove concorsuali, a favore dei candidati che l’avrebbero seguita in graduatoria.

Gli ‘sponsor’. «Invece che 40 lo portamo a 30, per avvicinarlo a quell’altri 3 nostri… gestire un punto non è un problema» dice ancora Duca in un’intercettazione in merito ad un altro concorso, quello di direttore della struttura complessa di anestesia concluso a maggio 2018 con la nomina di uno degli indagati, concorso in cui emerge la necessità di far vincere «un candidato interno, anche per non scontentare gli interessi locali». «Ho parlato anche con l’assessore e gli ho fatto vede’ i punteggi» dice ancora Duca, parlando di assessorato come «sponsor» e riferendo di un colloquio avuto in proposito anche con la presidente della Regione, Catiuscia Marini.

Le pressioni della politica. È invece nel concorso per l’assunzione di 4 assistenti contabili, svolto nella primavera 2017, che sarebbero emersi gli interessi dell’assessore Barberini e dell’on.Giampiero Bocci, allora sottosegretario al Viminale. «Tocca farsi dare le domande» dice ancora Duca in una conversazione. Anche un politico locale chiede di avere le tracce della prova scritta e Duca lo rassicura aggiungendo inoltre che avrebbe dovuto darle «anche a ‘Gianpiero’». Duca rifersice poi alla stessa Marini di avere le ‘domande’ in vista dello scritto: «Qui ce so le domande, tra quelle lì… sta tranquilla». Per il gip è «decisiva intromissione dell’onorevole Bocci e dell’assessore Barberini», visto che Duca ribadisce la necessità di portare avanti le persone raccomandate da Bocci, Barberini e Marini, e dunque di ‘gonfiare’ in particolare la valutazione di una delle candidate. Afferma Valorosi in un’altra intercettazione: «Messaggio da Bocci… vuole gli orali, le domandi orali»). Sin dall’inizio, sempre secondo il gip, la procedura è dunque condizionata dalle segnalazioni provenienti da esponenti politici.

Tra sesso e ‘spionaggio’. Raccomandazioni in campo da Marini e Bocci sarebbero emerse anche per in un concorso da coadiutore amministrativo (cat. B). «L’altro ieri Giampiero mi ha dato due nominativi» dice ancora Valorosi in una conversazione intercettata, nel quale però una candidata ‘raccomandata’ dall’ex sottosegretario venne bocciata. Tra gli altri concorsi finiti nell’indagine, quello da dirigente medico anestesista e per collaboratore professionale (categoria D), quello da dirigente sanitario biologo – finito nelle carte dell’inchiesta per la procedura di nomina di uno dei componenti della commissione, persona «affidabile» – ed infine un concorso dirigenziale a tempo determinato in capo alla Regione: in questo caso dal capo d’imputazione emerge per Duca anche l’accusa mossa dalla procura – ma per i quali non ci sono profili da parte del gip – di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, avendo avuto rapporti sessuali con una delle candidate. C’è poi il capitolo peculato: Duca, Valorosi e Pacchiarini si erano accorti di essere intercettati – ma pensavano ad uno spionaggio ‘privato’ – e per questo hanno chiesto ad una ditta di eseguire una bonifica dei propri uffici attraverso risorse (1.342 euro) dell’azienda ospedaliera.

Gli indagati. Oltre ai nomi già emersi, risultano indagati anche Walter Orlandi (attuale dirigente responsabile regionale della Sanità), Diamante Pacchiarini (direttore sanitario), Roberto Ambrogi (responsabile Ufficio contabilità e bilancio), Domenico Barzotti (componente e segretario della commissione esaminatrice del concorso da infermiere), Lorenzina Bolli (presidente commissione di uno dei concorsi), Riccardo Brugnetta e Amato Carloni (componenti commissione riservata al personale della Regione), Gabriella Carnio (responsabile delle professioni sanitarie), Maria Cristina Conte (responsabile ufficio personale), Pasquale Coreno (generale dei carabinieri in congedo), Potito D’Errico (docente universitario e primario di Odontoiatria), Giuseppina Fontana (componente commissione riservata al personale della Regione),  Rosa Maria Franconi (dirigente Ufficio acquisti e appalti), Antonio Tamagnini (responsabile attività amministrative e sperimentazioni cliniche), Maurizio Dottorini (presidente commissione di uno dei concorsi), Patrizia Mecocci (docente e direttore scuola di specializzazione in Geriatria), Paolo Leonardi (dipendente azienda ospedaliera), Marco Cotone (segretario regionale Uil-Fpl), Eleonora Capini (candidate), Vito Aldo Peduto (direttore di Anestesia e rianimazione), Simonetta Tesoro (dirigente medico Anestesia e rianimazione), Mario Pierotti (padre di una delle candidate), Francesco Oreste Domenico Riocci (brigadiere della Guardia di Finanza), Milena Tomassini (dipendente regionale), Serena Zenzeri (componente ufficio procedimenti disciplinari), Giampiero Antonelli, Moreno Conti, Fabio Gori, Alessandro Sdoga, Domenico Oristanio.

L’unità di crisi: «Via le mele marce». La bufera ha fatto scattato la convocazione di un’unità di crisi permanente. A dare l’indicazione il ministro della Salute, Giulia Grillo: «Il quadro della vicenda – commenta il ministro – è molto grave. Per la parte che attiene al mio ministero effettueremo ogni verifica che ci compete. Quando c’è di mezzo la salute dei nostri cittadini non possiamo permettere che gli abusi di una certa politica, di un cattivo modo di amministrare la sanità sporchino il lavoro di tanti operatori che ogni giorno con sacrificio sostengono il Ssn. Cacceremo le mele marce, subito, perché non può esserci salute senza legalità». La riunione ci sarà alle 16 nella sede del dicastero di Lungotevere Ripa: l’obiettivo è accertate se, e in che misura, siano stati commessi reati contro la pubblica amministrazione e impedimenti nell’erogazione dei servizi sanitari ai cittadini.

Attesi sviluppi. Ma l’inchiesta è solo alle battute iniziali e dunque destinata ad allargarsi, visto che dagli otto concorsi al momento finiti nel mirino potrebbero aggiungersene altri, non solo relativi all’ospedale di Perugia. Tante le persone informate sui fatti – dirigenti, politici, personale sanitario, vincitori ed esclusi dalle graduatorie – che sono e saranno ascoltate dalla procura per cercare eventuali nuovi elementi. Circostanza questa confermata anche nell’ordinanza, laddove si evidenzia che per il pm «l’attivismo degli indagati e l’utilizzo spregiudicato delle relazioni di potere emerse nel corso delle indagini, costituisce un serio pericolo anche in funzione della necessaria escussione delle persone informate sui fatti, tenuto conto del concreto rischio che costoro subiscano le pressioni degli indagati». Intanto, in attesa degli interrogatori – che dovrebbero svolgersi entro martedì -, i quattro arrestati hanno avuto modo di incontrare i loro legali, David Brunelli per Barberini, Bocci e Valorosi e Francesco Maria Falcinelli per Duca. «Immaginiamo che ci saranno sviluppi investigativi e che siamo al momento solo al punto di partenza – spiega il professor Brunelli -, dunque è ancora prematuro fare valutazioni. Ma i miei assistiti sono sereni e convinti di potersi difendere agevolmente». Richiesta di revoca del provvedimento al gip e/o istanza di riesame le due ipotesi sulle quali stanno lavorando le difese.

Le deleghe post dimissioni di Barberini. La Marini ha preso atto delle dimissioni dell’ormai ex assessore alla sanità, quindi ha firmato il decreto – fino a nuove determinazioni – per la distribuzione delle deleghe: a Fabio Paparelli vanno le politiche e programmi sociali (welfare), politiche familiari, per l’infanzia e per i giovani, politiche immigrazione, cooperazione, associazionismo e volontariato sociale; ad Antonio Bartolino tutela e promozione della salute, programmazione e organizzazione sanitaria, ivi compresa la gestione del patrimonio immobiliare sanitario, sicurezza sui luoghi di lavoro e sicurezza alimentare; infine a Fernanda Cecchini vanno i rapporti con l’assemblea legislativa regionale.

L’inchiesta sui concorsi truccati in Umbria, scrive Sabato 13 aprile 2013 Il Post. Sono stati arrestati il segretario locale del PD e l’assessore alla Salute, accusati di aver favorito alcuni candidati in concorsi in ambito sanitario: è indagata anche la presidente della regione. Il segretario del PD dell’Umbria Gianpiero Bocci e l’assessore regionale alla Salute e coesione sociale Luca Barberini sono stati arrestati nell’ambito di un’inchiesta della procura di Perugia su alcune irregolarità che sarebbero state commesse in concorsi per assunzioni in ambito sanitario. Nell’inchiesta è indagata anche la presidente della regione Catiuscia Marini, del PD, ma al momento non si conoscono le accuse nei suoi confronti. In tutto i concorsi al centro dell’inchiesta sono undici, mentre sono trentacinque le persone indagate. I fatti contestati sarebbero avvenuti nel 2018, quando Bocci era deputato del PD e sottosegretario del ministero dell’Interno. Per Bocci e Barberini sono stati disposti gli arresti domiciliari e, oltre a loro, sono stati arrestati anche Emilio Duca e Maurizio Valorosi, rispettivamente direttore generale e direttore amministrativo dell’azienda ospedaliera di Perugia. Gli imputati sono accusati a vario titolo di abuso d’ufficio, rivelazione del segreto d’ufficio, favoreggiamento e falso. L’inchiesta, condotta dal procuratore Luigi De Ficchy, riguarderebbe alcuni concorsi per assumere circa trenta tra medici, infermieri e personale ausiliario nell’ospedale di Perugia. I concorsi, secondo l’accusa, sarebbero stati truccati da Bocci e Barberini per favorire alcuni candidati, anticipando loro le domande che gli sarebbero state rivolte. Nell’ordinanza del Gip di Perugia si legge che Bocci e Barberini «hanno indicato i soggetti da favorire nelle selezioni pubbliche e hanno ricevuto una pronta risposta da parte del direttore generale e del direttore amministrativo, i quali hanno garantito loro la comunicazione di notizie riservate, nonché un costante impegno volto a monitorare le procedure e ad assicurare il risultato sperato». A Bocci sono contestate alcune intercettazioni telefoniche in cui Duca dice di dovergli consegnare le tracce della prova scritta di un concorso che si è tenuto nel maggio del 2018. Il Gip dice anche che gli indagati sarebbero venuti a sapere dell’indagine nei loro confronti e di essere sottoposti a intercettazioni telefoniche, e  ha giustificato l’arresto di Bocci dicendo che l’imputato avrebbe comunicato a Valorosi l’esistenza delle indagini. Secondo il Gip ci sarebbe quindi stato un rischio elevato «che egli sfruttando conoscenze acquisite nell’ambito istituzionale e in particolare tra ufficiali di polizia giudiziaria, possa porre in essere altre condotte analoghe a quelle già approfondite con conseguente pregiudizio per le indagini». Dalle intercettazioni risulterebbe anche un video in cui Duca aveva con sé le tracce delle prove scritte del concorso da portare in consiglio regionale, per consegnarle all’assessore regionale Luca Barberini. Nell’ordinanza d’arresto si legge anche di una presunta “alterazione della procedura concorsuale consistita nella manipolazione dell’esito del sorteggio dei componenti della commissione esaminatrice” e di una presunta “alterazione della procedura concorsuale consistita nella manipolazione dell’esito del sorteggio dei componenti della commissione esaminatrice”. In un’altra intercettazione Duca, parlando degli appoggi politici che avrebbe trovato per aiutare un candidato in un concorso, avrebbe indicato un certo “assessorato”, aggiungendo che avrebbe avuto anche «un colloquio avuto in proposito con la Presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini». Marini, che è presidente della regione dal 2010, ha detto di aver ricevuto una richiesta di acquisizione di atti e di aver offerto la sua massima collaborazione nell’inchiesta. «Sono assolutamente tranquilla e fiduciosa nell’operato della magistratura, nella certezza della mia totale estraneità ai fatti e ai reati oggetto di indagine» ha detto commentando la sua iscrizione nel registro degli indagati.

L’inchiesta sui concorsi ospedalieri truccati della Regione Umbria, scrive Alessandro D'Amato il 13 Aprile 2019 su Next Quotidiano. Un “sistema che andava avanti da sempre” quello con cui sono stati “condizionati e sostanzialmente falsati”, come scrive il gip, da esponenti di primo piano del Pd umbro 11 concorsi per una trentina di assunzioni all’ospedale di Perugia per primari, medici, infermieri e ausiliari fino ad arrivare alle categorie protette. Ed Emilio Duca, direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Perugia, al telefono diceva: “Non riesco a togliermi le sollecitazioni dei massimi vertici di questa Regione a tutti i livelli. Ecclesiastici – omissis (forse si è sbianchettato il termine: Magistrati? Nda) - ecumenici, politici, tecnici. Se no a st’ora c’avevo messo le mani sulla gastro… altro che disposizioni di servizio dell’altra volta (…) Tra la massoneria, la curia e la giunta (…) non me danno tregua. E la Calabria Unita”. L’indagine ha portato agli arresti domiciliari l’assessore regionale alla Sanità Luca Barberini, il segretario regionale del Pd (ora commissariato da Nicola Zingaretti) Gianpiero Bocci, il direttore generale dell’Azienda ospedaliera Emilio Duca e quello amministrativo Maurizio Valorosi. La presidente della Regione Catiuscia Marini, anche lei del Partito democratico, è invece indagata a piede libero. Per la procura “in più occasioni” si sarebbe interessata ai concorsi. L’indagine, condotta dalla guardia di finanza, è andata avanti per mesi. Con intercettazioni telefoniche a attività d’indagine a riscontro. Complessivamente sono 35 le persone indagate. A chi doveva superare le prove – scrive ancora il gip nell’ordinanza di applicazione delle misure cautelari – venivano fornite “le tracce d’esame e gli indirizzi della commissione in ordine alle valutazioni da assegnare ai candidati”. L’accusa ritiene che Barberini abbia interferito in quattro concorsi e in tre Bocci (in passato sottosegretario all’Interno in tre Governi del Pd) che avrebbe anche passato agli altri indagati informazioni sull’indagine e per questo deve rispondere di favoreggiamento. Secondo il gip alla base delle esigenze cautelari per i due c’è “l’abile sfruttamento di un efficiente e solido sistema clientelare e la stabile utilizzazione delle funzioni e del ruolo istituzionale rivestito per finalità illecite”. Più in generale per il giudice che ha disposto le misure cautelari “dall’insieme degli elementi raccolti deriva un chiaro quadro di abituale attività illecita”. Delineato anche dalle intercettazioni agli atti. “Messaggio da Bocci… vuole gli orali, le domande orali”, dice il direttore amministrativo Valorosi al dg Duca. Quest’ultimo il 9 maggio del 2018 – scrive il gip – “si reca in consiglio regionale e ha un incontro con la presidente della regione Umbria Catiuscia Marini… il Duca riferisce alla Marini di avere le ‘domande’ in vista dello scritto (‘qui ce so le domande, tra quelle lì…sta tranquilla’)”.

Gli otto concorsi truccati. Almeno 8 sono i concorsi manipolati individuati dagli investigatori delle Fiamme gialle e dai pm guidati dal procuratore Luigi De Ficchy, che grazie a intercettazioni telefoniche e ambientali hanno seguito quasi in diretta le assegnazioni dei posti ai candidati indicati dai politici Bocci, Barberini e Marini. Grazie ai dirigenti ospedalieri che li informavano prima sul contenuto delle prove d’esame e poi aggiustavano i punteggi a loro favore. «Gli porto su le domande, sennò come fa?», diceva, prima di andare in consiglio regionale, il direttore Duca. Al quale una componente della commissione d’esame confidava: «Quelli che mi hai dato te(i nomi dei candidati, ndr)li ho dati tutti il massimo…». Scrive il Corriere: Per l’assunzione di quattro assistenti contabili, Duca e Valorosi si sono trovati a dover assecondare le raccomandazioni dell’assessore Barberini e di Bocci, ma anche della nipote di un dirigente regionale del Pd e della presidente Marini. Dalle intercettazioni del 9 maggio 2018, infatti, risulta che il direttore abbia promesso di consegnare le tracce della prova scritta al vicepresidente del consiglio regionale Alvaro Mirabassi e a Bocci, dopodiché incontra la presidente della Regione: «Qui ce so le domande, tra quelle lì… sta tranquilla», le dice, e secondo gli inquirenti «consegna un foglio al di lei segretario, Valentino Valentini, al quale viene affidato il compito di portarlo a una donna».

“Rischiamo di perdere la Regione”. Carlo Bertini sulla Stampa spiega le possibili ripercussioni dell’inchiesta sulla sanità umbra, che coglie il Partito Democratico durante la ricostruzione del neosegretario: Zingaretti si trova a gestire una forte scossa di terremoto proprio nel Day After del lancio delle liste per le europee in pompa magna. Con lo slogan del grande rinnovamento e dei nomi che parlano al paese. Un terremoto perché Bocci è stato pure sottosegretario agli interni, insomma una personalità di peso. Che alle primarie si è schierato con Martina dopo aver militato nell’area cattolica del partito fin dai tempi della Margherita. «E che evidentemente non si aspettava nulla, visto che ieri era tranquillamente in Direzione», raccontano dirigenti che erano ieri al terzo piano del Nazareno mentre parlava il segretario. Lo sconcerto insomma è grande, e sorge pure la domanda: ma non è che cade la giunta e si rischia di perdere pure l’Umbria? I renziani non aprono bocca, meno che meno la sfidante di Zingaretti in tandem con Giachetti, Anna Ascani, vicepresidente del partito eletta come capolista nella regione. «Preferisco non commentare», stop.  Anche i suoi amici renziani non speculano, ma non sono teneri su come andrà alle urne. «Al di là di quello che si dice, non ci sono aspettative di grandi masse di voti in arrivo. Perché i capilista non parlano al paese, non c’è un progetto, c’è solo un calo di gradimento per partiti di governo». Tradotto, se il Pd andrà così così Zingaretti non se la potrà prendere solo con il caso Umbria.

Perugia, l’indagine sui concorsi pilotati in ospedale. Il dg Duca: «Giunta, curia  e massoni non mi mollano». Pubblicato sabato, 13 aprile 2019 da Giovanni Bianconi Corriere.it. Nel sistema delle assunzioni pilotate, anche chi alla prova d’esame faceva «scena muta» poteva avere delle chance. Il direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera perugina Maurizio Valorosi s’era messo a disposizione del politico che aveva raccomandato la candidata da respingere, Gianpiero Bocci. «Gli ho detto “Gianpiero, io se tu dici che è una questione vitale... da quanto vedo c’ha delle difficoltà”», raccontava al direttore generale Emilio Duca. Ma Bocci non insisté: «Non è una questione di vita o di morte... Ho capito, insomma, che sì, interessava, però fino a un certo punto... e allora meglio prendere due buoni». Ora che sono tutti agli arresti domiciliari (Duca, Valorosi, l’ormai ex segretario regionale del Pd Bocci e l’altrettanto ex assessore regionale alla Sanità Luca Barberini), emergono i retroscena delle trame per truccare i concorsi raccontati dagli stessi protagonisti. Che si arrabattavano per «contemperare l’onestà intellettuale, l’attenzione ai nostri amministratori, ma anche il funzionamento dell’azienda», confidava Duca. Per il giudice che ha ordinato gli arresti è la dimostrazione di un «meccanismo clientelare diffusissimo», alimentato con «prassi illecite ben tollerate da tutto l’ambiente», del quale «gli stessi indagati sembrano essere dei semplici ingranaggi». Al punto che Duca quasi si lamentava di non riuscire a scrollarsi di dosso «le sollecitazioni dei massimi vertici di questa regione a tutti i livelli... ecclesiastici — omissis — ecumenici, politici, tecnici... Tra la massoneria, la giunta e la curia — omissis — non me danno tregua». Secondo la Procura dietro il «sistema» c’era una vera e propria associazione a delinquere, ma il giudice delle indagini preliminari non la vede allo stesso modo. Perché, sostiene, «dovrebbe ricomprendere i referenti politici, che incidono pesantemente nelle procedure di selezione sia del personale infermieristico che medico». I pubblici ministeri, invece, per ora li hanno lasciati fuori dalla presunta «consorteria criminale». Ma al di là dei reati contestati, l’indagine che scuote alle fondamenta la Giunta e il Partito democratico dell’Umbria ha scoperchiato un sistema di potere dentro il quale si specchiano due fazioni interne al Pd e al governo regionale, da sempre in lotta tra loro. Nel corso di Perugia se ne parla nei crocchi e ai tavolini dei bar. È come se la magistratura avesse gridato alla città che il re è nudo, e in questo caso la verità conosciuta da tutti ma da tutti taciuta è lo scontro intestino tra l’anima ex democristiana della Margherita (rappresentata da Bocci e Barberini) e quella ex comunista dei ds, di cui è espressione la presidente della Regione Catiuscia Marini. Con Bocci si scontrò alle primarie, lo sconfitto si trasferì alla Camera e al sottogoverno nazionale (sottosegretario all’Interno), ma qui è rimasto saldamente agganciato a un pezzo di governo e di amministrazione del consenso. Quando nel 2016 la presidente nominò Duca alla guida dell’Azienda ospedaliera di Perugia, il suo fedelissimo Barberini si dimise dall’assessorato: lui e Bocci sponsorizzavano Valorosi, rimasto nella carica di direttore amministrativo. Poi la protesta rientrò, e dalle intercettazioni sembrerebbe che la convivenza proseguì grazie alla gestione clientelare delle assunzioni, con la spartizione dei posti da assegnare grazie ai concorsi truccati. Quando s’è trattato di eleggere il segretario regionale, dopo la sconfitta alle elezioni politiche che ha contribuito a scolorire l’Umbria rendendola sempre meno rossa, Bocci s’è candidato alle primarie contro Walter Verini, il deputato scelto da Zingaretti per commissariare il partito dopo gli arresti. «Io e Bocci non siamo la stessa cosa — dichiarò Verini all’epoca —, io non ho mai avuto un candidato per una Asl, e quando sento dire “i miei” penso ai familiari, non alle truppe nel partito». Nei gazebo vinse Bocci, quattro mesi dopo è lui a guidare il Pd, ma ancora una volta sono arrivati prima i magistrati. «L’inchiesta farà il suo corso, però è chiaro che un sistema di governo che pure ha prodotto risultati positivi e importanti si mostra logoro, chiuso e autoreferenziale — dice Verini nella sede del partito dopo aver diretto la prima riunione di ciò che resta della segreteria —. Io credo che abbiamo gli anticorpi per risollevarci, ma se non lo facciamo in fretta lasceremo campo libero alla Lega, oltre che alla magistratura». Salvini ha già chiesto elezioni anticipate per la Regione, ma la ministra 5 Stelle Giulia Grillo lo ha stoppato: «Nessuno sciacallaggio». Il 26 maggio qui si voterà per il Parlamento europeo ma anche per il sindaco. Per provare a riprendersi la città ceduta cinque anni fa al candidato di Forza Italia Andrea Romizi, il Partito democratico ha evitato di dilaniarsi alle primarie scegliendo il giornalista tv Giuliano Giubilei, che ora per provare ad arrivare al ballottaggio dovrà saltare anche l’ostacolo di questa inchiesta giudiziaria. Che rischia di avere conseguenze pure su altri confronti e conflitti di potere e sottopotere, dove gli sfidanti fanno capo sempre agli stessi schieramenti. Come nella imminente scelta del rettore dell’università; i due candidati con maggiori possibilità si portano addosso le rispettive sponsorizzazioni di Bocci e Marini. Anche se c’entrano nulla con l’indagine, entrambi temono di uscirne azzoppati. Perché a prescindere dai reati, è un sistema di potere a ritrovarsi sotto accusa.

COSÌ SILURARONO LA PEDIATRA ONESTA: «A QUELLA DAREMO UNA BASTONATA». Luca Benedetti Michele Milletti per “il Messaggero” il 13 aprile 2019. Nell' inchiesta su sanità e favori che ha messo in ginocchio il Pd umbro e fatto vacillare la giunta regionale con arresti e indagati, c' erano i favoriti e i nemici. E i nemici sono quelli che si opponevano a quel sistema che per la Procura si basava su un «muro di omertà». «Una bastonata, di quelle forti, che si fa male», è l'indicazione che il direttore amministrativo dell' azienda ospedaliera perugina, Maurizio Valorosi (ai domiciliari) chiede di dare alla professoressa Susanna Esposito, primario di Clinica Pediatrica. Lo chiede a Diamante Pacchiarini (direttore sanitario, indagato). La Esposito nel maggio dell'anno scorso ha presentato un esposto in Procura per segnalare criticità e anomalie. L'anomalia era la presenza a reparto di un professore di geriatria medica parcheggiato a Pediatria dal 2015. Due anni dopo la scheda di valutazione firmata dalla Esposito è stata positiva, ma la professoressa ha spiegato in Procura che lo aveva fatto «solo perché pressata (anche con minacce di conseguenti provvedimenti disciplinari in caso contrario) dalla dirigenza amministrativa....». In effetti l'Esposito viene bastonata: sospesa per quattro mesi e multata di 350 euro. «Tu controlla i tabulati orari...Diamà, fatti mandare i tabulati orari dell' ultimo anno e mezzo», dice il direttore generale Emilio Duca (da venerdì mattina ai domiciliari) perché la Esposito viene inchiodata alla sospensione e alla multa controllando al millimetro le presenze a reparto. Ma, scrive il gip, facendo anche scadere i termini perentori di 30 giorni per iniziare il provvedimento disciplinare. Il sistema prevedeva l' aiutino ai segnalati, agli amici e anche alle amanti. Per farlo funzionare c' era un passaggio chiave: la formazione delle commissioni dei concorsi. Per esempio per il concorso di dirigente sanitario biologico un primario segnala un membro «affidabile». Il dg Duca spiega che il terzo membro della commissione va sorteggiato. E l' unica strada per mettere un amico è fare in modo che al sorteggio pubblico non si presenti nessuno. Ecco cosa ascolta da Duca la Finanza: «É stato detto che il giorno ultimo quando scade, presso i locali della Direzione del personale verrà praticato il sorteggio...di norma non viene nessuno...se non c' è nessuno e l'Ufficio personale se la sente dice: abbiamo sorteggiato...guarda caso è passato...». Anche un altro primario spinge per un membro di commissione amico. E Duca spiega: «Vediamo se io riesco, detto tra noi, a trovare una soluzione qua con l' estrattore». Il dg Duca è l'uomo chiave dell' inchiesta. Per la Procura l'uomo del sistema e l'uomo che non può dire no al sistema. C'è da scegliere il primario di Gastroenterologia e lui, al telefono, si sfoga così per una impasse ancora irrisolta: «La gastro va chiusa...vanno rinchiusi in galera tutti (omissis)...non riesco a togliermi le sollecitazioni dei massimi vertici di questa regione a tutti i livelli...ecclesiastici(omissis) ecumenici, politici, tecnici. Se no a st' ora c' avevo messo le mani sulla gastro altro che disposizioni di servizio dell' altra volta; tra la massoneria, la curia e la giunta-omissis-non me danno tregua. E la Calabria Unita...(omissis)». Duca si sfoga, ma dice di aver capito quando Valorosi lo richiama all' ordine per far ricapitare le domande per gli orali di un concorso. Valorosi: «Messaggio da Bocci...vuole gli orali, le domande orali. Duca: «Ho capito». Gianpiero Bocci al momento dell' intercettazione, maggio 2018, sta passando le ultime ore al Viminale come sottosegretario all' Interno del governo Gentiloni. Ai domiciliari finirà da segretario regionale del Pd.

«Le sistemiamo tutte e tre e abbiamo fatto tutti contenti». Pubblicato domenica, 14 aprile 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. Non soltanto gli indagati per le assunzioni pilotate negli ospedali di Perugia sapevano dell’inchiesta a loro carico, e di essere intercettati al punto di cercare e trovare le microspie in ufficio; avvertiti - secondo i pubblici ministeri - dall’ex sottosegretario al ministero dell’Interno Gianpiero Bocci. Nel «torbido sistema» messo in piedi per gestire i concorsi, potevano contare anche sulla «collaborazione» delle persone danneggiate in favore dei raccomandati, che appena interrogati come testimoni andavano a riferire agli interessati il contenuto delle loro dichiarazioni. È successo quando due donne escluse per fare posto all’amante dell’ormai ex direttore generale dell’azienda ospedaliera Emilio Duca hanno raccontato di essere state sentite dalla polizia giudiziaria proprio a Duca e alla sua amica. Per i pm si tratta di un episodio «grave e significativo», perché dimostra che due persone «penalizzate nell’ambito di una procedura selettiva per un incarico di prestigio, hanno temuto che le loro dichiarazioni fossero male accolte dal sistema di potere che gestisce con criteri non trasparenti il sistema sanitario». Nelle oltre 500 pagine dell’atto d’accusa con cui la Procura di Perugia aveva chiesto il carcere per quattro indagati e gli arresti domiciliari per altri dodici, ottenendo dal giudice solo quattro domiciliari e sei misure interdittive, è descritto «un quadro avvilente di totale condizionamento della sanità pubblica agli interessi privatistici e alle logiche clientelari politiche»; nonché «uno stabile e consolidato asservimento della dirigenza sanitaria agli interessi di parte della locale classe politica». L’obiettivo dei politici è il consenso elettorale; quello dei dirigenti «acquisire consenso presso i propri referenti politici e conseguentemente assicurarsi il mantenimento dell’attuale posizione lavorativa». Conclusione: «Il criterio della selezione per merito non esiste, o meglio è stato bandito dall’Ospedale di Perugia. E che ciò avvenga in un settore così nevralgico ed importante per la vita e la salute dei cittadini quale il servizio sanitario rende tali condotte ancora più odiose». In un colloquio registrato, Duca confessa che se fosse intercettato verrebbero fuori «cinque reati ogni ora» e gli inquirenti gli danno amaramente ragione. Hanno chiesto gli arresti alla vigilia delle elezioni, ma anche della scadenza per il rinnovo delle cariche nella Sanità umbra: secondo i pm era giunto per i dirigenti il momento «di incassare i “crediti” maturati con la politica» a suon di raccomandazioni giunte a buon fine. E dalle intercettazioni s’intuisce come il «sistema» non fosse limitato agli ospedali. Il 7 maggio 1028, Duca evocava con Moreno Conti, componente della direzione regionale del Pd e «factotum di Bocci», il «rischio di andarci a finì in galera, per cui cercamo de fà le cose prudenti». E Conti rassicura: «Io quando esco da qua manco mi ricordo di esserci venuto. Anche perché adesso devo andare all’Agenzia delle Entrate a portà a un altro... per Gianpiero (Bocci, ndr), perché c’è un concorso anche all’Agenzia delle Entrate». Duca dice che la cosa interessa pure sua figlia, «se c’ho bisogno me muovo», e Conti lo incita: «Ma tu diglielo che Gianpiero è messo bene lì... per le Entrate Gianpiero è messo molto bene».  La assunzioni pilotate avvenivano secondo rigide spartizioni tra le diverse anime del partito egemone. Nel concorso per cui è indagata la presidente della Regione Catiuscia Marini, gli investigatori della Guardia di finanza hanno ascoltato in diretta l’incontro in cui la governatrice avrebbe ricevuto le domande per l’esame da recapitare alla sua candidata (circostanza che lei nega). «Tu ce l’hai tutte?» chiede la presidente, e Duca spiega: «Ci sono tre prove. La prima sarà la più selettiva, quindi è naturale che se non ci attrezziamo...». Poi si parla di una busta, e in un’altra circostanza Duca confessa a un diverso interlocutore: «Ho portato le domande alla Marini (...) Adesso vedemo com’è la situazione... su ‘ste cose è sempre un casino... a me m’ammazza, questo è il problema». Quando capisce di poter sistemare sia la candidata della Marini che quelli di Bocci e dell’ex assessore Barberini, Duca esulta con il direttore amministrativo Maurizio Valorosi: «Le sistemamo tutte e tre così abbiamo fatto contenti tutti... tanto bene è venuta, un bijoux». Anche Valori è contento, e in un’altra circostanza aveva spiegato il diverso valore delle raccomandazioni, a seconda della provenienza: «Se me lo chiede Barberini mi pesa eccetera, e qualcosa famo. Se lo chiede Mirabassi (vicepresidente del Consiglio comunale, ndr) non me ne frega ‘na sega».

DAMMELA UT DES. Eri.P. per La Nazione il 14 aprile 2019.  «Il problema è che dico all’assessore. gli dico “guarda noi, io so’ riuscito a fa tutto sabato perché in verità mi sono dovuto anche prostituire perché, capisci anche l’imbarazzo visto dalla Mecocci (Patrizia, docente e direttore della Scuola di specializzazione in Geriatria, indagata) le ho detto “guarda è una persona dell’assessore… questa è quella che non è venuta gliè da da’ na mano». Le raccomandazioni di “Concorsopoli” viaggiavano sempre sulla direttrice politico-amministrativa. Quando era l’assessore Luca Barberini, quando l’ex sottosegretario Gianpiero Bocci, quando, ancora la presidente della Regione, Catiuscia Marini a segnalare i nominativi e a chiedere le tracce delle prove d’esame. Tutti interessati – ma non solo loro – a piazzare i propri candidati ai primi posti dei concorsi pubblici dell’Umbria. Un “sistema” ormai collaudato, secondo la procura. È l’aprile del 2018 – nel pieno di un’indagine ancora top secret –: Emilio Duca, parlando con Maurizio Valorosi chiarisce di aver avuto i temi dalla dottoressa Mecocci «la quale gestiva personalmente e direttamente il concorso con il consenso del dottor Dottorini (Maurizio, presidente della Commissione di uno dei concorsi, anche lui indagato, ndr)». Duca e Valorosi discutono addirittura – annota sempre il gip Valerio D’Andria – dell’esito della procedura, programmando quale debba essere l’ordine in modo da soddisfare tutte le esigenze in gioco: quelle della direttrice del Reparto, quelle dei medici interni che ambiscono a stabilizzare il loro rapporto di lavoro e quelle dei “raccomandati” dal politico”. In particolare l’assessore alla sanità ha condizionato quattro procedure concorsuali, l’allora onorevole, nonché sottosegrerario del Pd, Bocci è intervenuto illecitamente in tre procedure. Un «abile sfruttamento di un efficiente e solido sistema clientelare». Ma nell’inchiesta che ha provocato un terremoto politico senza precedenti spuntano anche rapporti sessuali in ufficio con una candidata poi selezionata per il posto da Dirigente a tempo determinato per il servizio programmazione Economica-finanziaria. È il capo di imputazione 28: l’unico in cui la procura contesta a Emilio Duca il reato di corruzione per aver «compiuto atti contrari ai propri doveri d’ufficio in cambio di utilità consistite in diversi rapporti sessuali. A fronte di questi ultimi Duca poneva in essere – è sempre il capo di imputazione – un’attività di intermediazione e di influenza presso i componenti della Commissione esaminatrice». Il riferimento è al caso di uno degli indagati che «incontra la candidata e le dà suggerimenti sia sul curriculum che sulle condotte da assumere dopo la nomina della commissione esaminatrice. Alla fine del secondo colloquio – scrive il gip – inoltre i due interlocutori si scambiano effusioni e hanno un rapporto sessuale». La circostanza si ripete anche in successive occasioni, riporta l’ordinanza: «Anche dopo la procedura i due si incontrano presso l’ufficio (...) consumando in ogni occasione un rapporto sessuale». Il pm evidenzia come «i convegni amorosi si tengano proprio nel periodo in cui si svolge la procedura e senza che vi siano indici apparenti di una relazione sentimentale tra i due indagati» e ciò - sostiene - «indurrebbe a ritenere presente un vero e proprio accordo corruttivo fondato su uno scambio tra le prestazioni sessuali e la nomina».

Più raccomandati che posti: «I curriculum? Strappali subito». Pubblicato lunedì, 15 aprile 2019 da Giovanni Bianconi, inviato a Perugia da Corriere.it. «E questo che è?», si domandò il 18 giugno scorso il direttore generale degli Ospedali di Perugia (da ieri dimissionario) Emilio Duca, scartabellando nel suo ufficio. «Ah, i curriculum... è meglio che li strappiamo così vengono qua e li sequestrano... fosse mai». Detto fatto. Quei fogli finirono in pezzi, ma tutto fu ascoltato e ripreso dalle microspie e telecamere della Guardia di finanza: così quel tentativo di distruzione di prove è divenuto un indizio che s’è aggiunto a quelli che hanno portato il manager agli arresti domiciliari, insieme ad altri tre dei 35 indagati dell’inchiesta sui concorsi truccati nella Sanità umbra. La paura di Duca di essere sotto inchiesta non l’ha salvato dalle sue stesse parole intercettate anche nei momenti di maggior timore. E più parlava, più forniva elementi a suo carico. Come quando, convinto di essere spiato, cercò di ricordare con il direttore amministrativo Maurizio Valorosi (arrestato anche lui) telefonate e incontri potenzialmente compromettenti: «Intanto m’ha chiamato Valentino (segretario della presidente della Regione Catiuscia Marini, ndr)... con la Marini, me ricordo... che sono andato su per tre volte... m’è toccato portare all’incontro... questa cosa mi preoccupa un po’...». Per la Procura di Perugia sono ammissioni che rafforzano il quadro accusatorio, come le altre precauzioni per cercare di sfuggire alle «cimici»: dalla ricerca di informazioni tramite lo zio medico di uno dei pubblici ministeri titolari dell’indagine (da cui non seppe nulla) alla decisione di affrontare certi argomenti fuori dall’ufficio: «Annamo sulla terrazza… che qua dentro, non so cosa sta succedendo». Ma è servito a poco, perché le carte dell’inchiesta traboccano di dialoghi registrati tra Duca, Valorosi e le altre persone coinvolte nel condizionamento delle prove d’esame in favore delle persone segnalate dai politici. A cominciare dall’ex assessore alla Sanità Luca Barberini e dall’ex segretario regionale del Partito democratico Gianpiero Bocci (finiti entrambi ai domiciliari), che fanno capo alla cordata interna al Pd avversa alla presidente della Regione Marini (indagata). Accomunati però dai magistrati, che denunciano un «consolidato e collaudato meccanismo per cui ogni singola fase concorsuale viene subordinata al soddisfacimento degli interessi della classe politica, con un’ingerenza centrale e prevalente da parte di Barberini, Marini e Bocci». Discutendo delle raccomandazioni per alcuni posti riservati alle «categoria protette» dei disabili, il 4 maggio 2018 Valorosi dice a Duca: «Devono fare un ordine di priorità». E Duca svela l’identità degli sponsor: «Io ce l’ho dentro la borsa perché c’ho anche i nomi; uno ce l’ha Barberini, ce l’ha la Marini...». Valorosi ne aggiunge altri: «Quella di Bocci, che so’ andati a cena, la nipote di Conti (esponente locale del Pd legato a Bocci, ndr)..». I due interlocutori a volte si lamentano per il numero eccessivo di richieste ricevute, e il 10 maggio 2018, parlando di Bocci, Duca sbotta ridendo: «Eh, gliel’ho detto, dico “i posti già son finiti!”». Poi aggiunge che gli stessi politici dovrebbero fare una selezione: «Anche loro devono dire “questo si e questo no!”», e riferendosi alla Marini: «Se mi chiama o mi manda giù Valentino... dopo che facemo?... Casomai tocca bocciarli! Con delle prove tocca farli fuori! Glielo dicemo!». Due mesi prima un dipendente dell’ospedale dice a Valorosi che un altro assessore — Antonio Bartolini, che non risulta indagato e ora ha avuto la delega alla Sanità — avrebbe «fatto qualche pressione» in favore di una concorrente (poi esclusa), e commenta: «Però Bartolini è al Bilancio, non ha la Sanità se Barberini dice... è un’altra cosa». E Valorosi concorda. La governatrice Marini, che si è già dichiarata estranea a ogni ipotesi di reato, oltre all’interrogatorio con i pm non ancora fissato dovrà affrontare in consiglio regionale tre mozioni di sfiducia. Il suo difensore Nicola Pepe invita alla «massima cautela e al più assoluto rispetto delle persone coinvolte e dell’autorità inquirente», mentre l’avvocato David Brunelli, che assiste Barberini, Bocci e Valorosi, esprime «forti dubbi sulla sussistenza di esigenze cautelari tali da giustificare gli arresti domiciliari».

“CE L'HAI TUTTE? HA DA FÀ LA SELEZIONE”. Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” il 16 aprile 2019. Dei quattro posti per assistenti contabili nella categoria C (le cosiddette categorie protette) messi a concorso nel 2018 dall' Azienda ospedaliera di Perugia, tre furono assegnati ai candidati segnalati da altrettanti «esponenti politici di elevata caratura», che comunicarono «tracce riservate» e poi «domande che dovevano restare segrete», e tra questi, secondo l'accusa della procura di Perugia contenuta nella richiesta dei pm, ci sarebbe stata anche la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini. Per gli altri candidati (97 le persone ammesse) nessuna chance. Ma anche il quarto fu pilotato. « Ce l' hai tutte? Ha da fà la selezione» chiede Marini, in un colloquio intercettato il 10 maggio - sei giorni prima della prova scritta - a Emilio Duca, direttore generale dell' azienda, riferendosi - scrivono i pm, - alle tracce che il manager si è appena procurato. Il dialogo è contenuto nel lungo atto d' accusa (500 pagine) firmato dal procuratore Luigi De Ficchy con i sostituti Paolo Abbritti e Mario Formisano, che il 12 aprile ha portato all' arresto di quattro persone (35 gli indagati). La persona alla quale la presidente si riferisce è A.C., nuora di un ex funzionario di rilievo della Legacoop Umbria che sarebbe stata segnalata alla governatrice dalla vedova di quest' ultimo. Duca, come documenta l'indagine con immagini riprese nel suo studio, ha ricevuto gli argomenti delle prove scritte da Rosa Maria Franconi, presidente della commissione d' esame al mattino. «La figlia di.... mettetela dentro, non lo so.» dice Marini. La presidente, sintetizzano i pm, «chiede a Duca se gli può mandare la Marisa a prendere le domande da consegnare alla candidata, ma Duca tentenna e così Marini chiama il suo consigliere politico» e gli chiede «di mettere le tracce della prova scritta in una busta e di portarle a Marisa, quella della Legacoop», in modo da farla avere alla candidata. La storia del concorso è già scritta: «I posti sono già finiti» dichiara Duca prima ancora delle prove d' esame. Un'affermazione che trova conferma nelle pagine successive. A essere nominati vincitori, il 25 giugno, saranno i candidati "sponsorizzati" secondo i pm oltre che da Marini, da Maurizio Valorosi, direttore amministrativo dell' azienda con Marco Cotone, segretario regionale Uil Fpl, da Giampiero Bocci, segretario regionale del Pd, e da Moreno Conti, componente della direzione regionale dem. «La delicatezza della vicenda induce alla massima cautela» commenta Nicola Pepe, difensore della presidente Marini, rinnovando fiducia negli inquirenti, e sottolineando che la governatrice non intende «alimentare strumentalizzazioni politiche che possano rappresentare un intralcio all' accertamento della verità, assai distante dalle rappresentazioni fornite da alcuni articoli giornalistici». La linea del Pd sull' inchiesta non cambia, ma l' imbarazzo aumenta nel timore di un allargamento dell' indagine in vista delle amministrative di maggio. Per uscire dal pantano, Catiuscia Marini lavora a tappe forzate. Ieri ha incontrato a Roma il ministro della Salute Giulia Grillo. «Abbiamo offerto alla regione Umbria la possibilità di essere appoggiati da un nucleo di esperti in questa fase delicata» ha detto Grillo al termine dell' incontro, sottolineando che per il vertice dell' azienda ospedaliera decapitata dall' inchiesta sono sul tavolo «un paio di nomi», mentre prosegue l' attività ispettiva. «Nelle prossime 24-48 ore avremo i nuovi vertici» ha annunciato Marini. Ieri il direttore generale Duca, finito ai domiciliari, si è dimesso. E a rimettere l' incarico è stato anche Bocci, anche lui agli arresti, che ha restituito la tessera «per tutelare il Pd».

Umbria, arresti nella sanità: si dimette la governatrice Marini Le intercettazioni: «Bocciali». Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 su Corriere.it. Si è dimessa la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini (Pd). L’annuncio è arrivato oggi pomeriggio al termine di una lunga riunione nel palazzo che ospita la sede della Giunta, nel centro di Perugia. Marini è indagata nell’inchiesta della procura di Perugia su alcuni concorsi per assunzioni che sarebbero stati pilotati all’ospedale del capoluogo umbro. «So così di fare la cosa più giusta e più coerente con i miei valori, quelli della mia famiglia e con quelli della comunità politica a me più vicina - scrive in una lettera inviata alla presidente dell’Assemblea Legislativa, Donatella Porzi -. Ringrazio chi in questi giorni difficili e complessi mi ha dato fiducia e attestati di stima. Mi pare importante mandare un saluto a tutti gli umbri ed alle popolazioni della Valnerina colpite dal sisma con le quali ho condiviso le fasi più difficili, ma umanamente più intense, del mio mandato istituzionale. So di fare la cosa più giusta per l’Umbria, questa mia bellissima terra, ricca di storia, cultura e valori di solidarietà», prosegue la missiva. «Io sono una persona perbene, per me la politica è sempre stata fare l’interesse generale - conclude -, da sindaco della mia Città (Todi, ndr), da europarlamentare e in questi anni da presidente di Regione: quello che sta accadendo non solo mi addolora, ma mi sconvolge e sono sicura che ne uscirò personalmente a testa alta». Nicola Zingaretti, la ringrazia del gesto: «Ha scelto di mettere al primo posto il bene della sua Regione. Sebbene in presenza di un’indagine che è ancora allo stato preliminare», il segretario del Pd plaude alla «responsabilità di fare un passo indietro proprio allo scopo di evitare imbarazzi e strumentalizzazioni. Da garantisti - dichiara in una nota -, aspetteremo che la giustizia faccia il suo corso prima di emettere giudizi definitivi. Spero lo facciano tutti».

Sanitopoli umbra, Marini si dimette: «Io, costretta a lasciare perché sono donna», scrive Mercoledì 17 Aprile 2019  Simone Canettieri su Il Messaggero. «Mi sono dimessa da presidente della Regione Umbria per tutelare le istituzioni e per difendermi. Ma il Pd non può essere così giustizialista per inseguire il M5S: siamo ancora alla fase delle indagini, non si è celebrato nemmeno il processo. Ecco, alla fine non vorrei essere l'Ignazio Marino di Zingaretti. E comunque ho un dubbio».

Quale Catiuscia Marini?

«Se fossi stato un presidente uomo il mio partito si sarebbe comportato alla stessa maniera? Ho letto brutte dichiarazioni e ho notato atteggiamenti che non mi sono piaciuti».

Come ha maturato la decisione di dimettersi?

«Dopo un confronto con la giunta, la maggioranza e il mio avvocato ho deciso di lasciare per essere libera di difendere la mia onorabilità. Rimanere in carica non me lo avrebbero permesso in pieno. E poi, con questo clima, se fossi rimasta a capo della Regione la gogna sarebbe stata continua. Questa scelta, invece, mi permette di affrontare a testa alta l'indagine: non mi voglio vergognare ad andare in giro per la mia regione, per le città. Chi mi conosce lo sa: non sono attaccata alla poltrona e la mia storia lo testimonia».

L'inchiesta sulla sanità umbra che la vede coinvolta - e che ha portato agli arresti domiciliari di un suo assessore, del segretario del Pd e di due dirigenti dell'Asl - offre però uno squarcio inquietante.

«Per quanto mi riguarda sono tranquilla. Non ho mai parlato con nessuno del mio decreto per le assunzioni».

Le ha fatto effetto rileggere la sua intercettazione, premesso che tutti noi al telefono spesso parliamo in libertà e a volte fuori registro?

«A dire il vero, vorrei capire bene i contorni dell'inchiesta. Sono tranquilla, lo dico sul serio, voglio solo che emerga tutta la verità. Ecco perché ho deciso di fare un passo indietro».

Ma si è sentita scaricata dal Pd?

«No, questo no. Di sicuro non volevo essere un ingombro, ho grande rispetto per la comunità democratica e per i candidati sindaco delle prossime amministrative. La mia permanenza, forse, avrebbe potuto danneggiarli».

Ha subito pressioni per dimettersi?

«Per la modalità mediatica con la quale è stata raccontata questa storia e per certe dichiarazioni che ho visto voglio ribadire la mia idea: il Pd non può essere giustizialista, i processi non si fanno così».

Ma ce l'ha con il segretario Zingaretti?

«Ci siamo sentiti al telefono, ci conosciamo da trent'anni, ma se fossi stata un uomo si sarebbe comportato così? Sono molto perplessa».

Perché dice che il Pd insegue i grillini sul giustizialismo?

«Ho letto le dichiarazioni di Paola De Micheli, braccio destro del segretario, che si vanta di non aver mai chiesto le dimissioni di Virginia Raggi a Roma. Ma come si fa? Che politica è questa? Non vorrei che il Pd perdesse la bussola riformista che l'ha contraddistinto finora. Detto questo, rivendico di aver preso la decisione in autonomia. Ma c'è un clima che non mi piace».

La settimana scorsa l'ex sindaco di Roma Ignazio Marino è stato assolto per la vicenda degli scontrini che gli costò la sfiducia del Pd dal notaio. Lei si è fermata prima per non fare la stessa fine?

«Diciamo che spero di non essere il Marino di Zingaretti. Un amministratore pubblico, come me, parla con tante persone, sta in mezzo alla società, non si può usare questo approccio così giustizialista, insisto. In venti anni non ho mai avuto un provvedimento giudiziario a mio carico, ho una storia specchiata».

Oggi intanto Salvini sarà a Perugia. La Regione è persa?

«Mi auguro di no, abbiamo le risorse umane e politiche per reagire».

Rimarrà nel Pd?

«Certo, la mia è stata una decisione politica anche per non inficiare le Europee. Almeno nessuno potrà dire nulla...».

Zingaretti l'ha ringraziata?

«E' stato molto carino, diciamo che si è sentito sollevato».

Ha sentito Matteo Renzi?

«Sì, mi ha mandato un messaggio che ho molto apprezzato».

Cosa c'era scritto?

«Lo tengo per me». 

“METTETELA DENTRO”. Marco Mensurati per “la Repubblica” il 17 aprile 2019. «Mettetela dentro», assumete quella ragazza. Così aveva ordinato la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini ai suoi referenti della Sanità. E quelli, senza dire una sola parola, avevano obbedito. Anche perché quella gara era già ampiamente truccata e una raccomandazione in più o una in meno, per loro, non faceva differenza. Poche cose possono spiegare meglio la vita quotidiana di certe amministrazioni pubbliche in Italia, come la cronaca del "concorso per quattro posti da assistente amministrativo di categoria C, riservato ai disabili", indetto dall' Azienda Ospedaliera di Perugia e ricostruito passo dopo passo dai pm che stanno indagando sulla sanità umbra. Il concorso, come detto, era truccato sin dall' inizio. E la Marini lo sapeva perfettamente visto che non ha avuto problemi a chiedere in prima persona a Emilio Duca e Maurizio Valorosi (direttore generale e direttore amministrativo dell' Azienda) di far arrivare le domande dello scritto alla sua protetta, Anna Cataldi, la nuora di un ex funzionario storico (deceduto) della Lega Coop. «Mettetela dentro». È il 10 maggio del 2018. Le domande vengono recapitate alla ragazza. Che però non è l' unica raccomandata di quel concorso. Duca lo spiega chiaramente a Rosi Francone, il presidente della commissione d' esame. «Cerqueglini e Pannacci (altri due candidati, ndr) sono roba di Bocci e Barberini», il segretario regionale del pd e l' assessore alla Sanità - entrambi ai domiciliari. Tifi, invece, è stato segnalato direttamente da Valorosi. Infine c' è la Cataldi. «La Presidente mi ha segnalato questa qui, sta Cataldi». Allo scritto, la prima delle tre prove, le cose vanno male, però. Spiega la Franconi: «La Cataldi ha fatto una bella prova; ma ce ne è un' altra che sta andando molto molto bene». Meglio della Cataldi. L' "altra" si chiama Cristina Saccia e, per qualche giorno, sarà l' incubo di Duca & co, preoccupati di non poter, a causa sua, accontentare i voleri della Marini. «Se non riusciamo - si sfogherà Duca con un amico - m' ammazza». Alla fine della prova pratica - la seconda in programma - il problema non è ancora risolto, la Saccia è ancora davanti alla Cataldi. Le pressioni sulla presidente Franconi aumentano e Duca cerca di rassicurarla: «Il concorso lo gestirà il sistema nel suo insieme e si cercherà di tutelare chi è dentro il sistema». Il sistema cercherà di dare il suo meglio in occasione dell' esame orale, l' ultimo, il decisivo. La situazione è disperata anche perché la Franconi ha spiegato a Duca che c' è un altro problema. Oltre ad essere più brava della candidata della Marini, la Saccia ha un' altra "colpa": «è pure laureata». Mentre la Cataldi ha un diploma all' istituto tecnico commerciale. Duca e Valorosi pensano di assumerla in un altro concorso, «ma il problema - dice sconsolato Duca - è che non c' ha una raccomandazione». La soluzione è quella di far arrivare ai quattro candidati «che devono vincere» le domande dell' esame orale. Alla Cataldi verranno inviate tramite Valentino Valentini, il consigliere politico della Presidente della Regione Umbria. A quel punto è tutto pronto. Così come ricapitola Duca a Valorosi: «Allora: alla Franconi ce sta una che l' ha segnalata la Marini e sta andando bene, poi c' è una che non è raccomandata da nessuno che però è brava e che però non c' è posto per metterla dentro, perché ci sono due persone di Bocci e quel Tifi». La prova orale nonostante i raccomandati conoscessero le domande in anticipo, riesce ugualmente ad andare male. Lo spiega la stessa Franconi. Tira fuori dalla borsa un foglio con la graduatoria finale e comincia a raccontare: «Allora: Tifi se non lo fermavo mi raccontava tutto il diritto amministrativo». Ma Duca va di fretta, a lui interessa sapere della Cataldi, la donna della Marini, ne indica il nome sul foglietto che la Franconi ha messo sul tavolo. Franconi: «La Cataldi o si è emozionata o non ho capito bene che cosa sia successo (...) Le Cerquiglini però è stata brava. (...) Invece chi è andata abbastanza bene a sto orale è stata la Saccia Ma siccome c' è la Cataldi qua, io». Il resto è tutto nel verbale n.4 della commissione esaminatrice. Al primo posto si piazza Tifi, al secondo Pannacci, al terzo Cerqueglini, al quarto la Cataldi. Il palazzo è servito. La Saccia, solo quinta. Questa la sua valutazione: «La candidata ha una sufficiente conoscenza e padronanza degli argomenti richiesti, una discreta capacità di analisi e professionalità». Nelle settimane successive, la donna decide di provare a fare ricorso e richiede l' accesso formale agli atti del concorso. Duca e Valorosi si agitano moltissimo, di tutti quelli che hanno truccato - la procura gliene contesta otto - quello era senza dubbio il più delicato, l' unico che poteva condurre direttamente alla presidente della Regione. Occorre parlarle. Promettergli un concorso tutto per lei «Effettivamente osserva Valorosi - ci sono diciassette scoperture nelle categorie protette...».

L’UMBRIA DI SE STESSA. Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 17 aprile 2019. Il destino politico della governatrice dell' Umbria s' è consumato prima di quello giudiziario. Catiuscia Marini ha provato a tenere ferma la posizione sostenendo - dopo aver saputo di essere indagata nell' inchiesta che ha travolto la Sanità regionale - di poter provare la propria «estraneità a ogni ipotesi di reato e a qualunque sistema di potere». Ma non ha fatto in tempo nemmeno a sedersi davanti ai pubblici ministeri che l' accusano, la pressione politica è stata più forte. E così s' è fatta da parte, pur ribadendo di non avere niente a che fare con gli illeciti denunciati dai magistrati: «Ne uscirò personalmente a testa alta, perché io non c' entro con pratiche di esercizio del potere che non siano rispettose delle regole e della trasparenza». I pubblici ministeri la pensano in un altro modo, e parte del reato che la coinvolgerebbe s' è consumato il 10 maggio scorso, all' interno del suo ufficio. Quel giorno, dopo aver ricevuto dalla presidente della commissione del concorso per quattro posti di assistenti contabili riservati a «categorie protette» (con 97 candidati) i test delle prove d' esame, l' allora direttore generale degli Ospedali di Perugia Emilio Duca andò dalla governatrice. Gli investigatori registrarono un colloquio dal quale hanno desunto che Duca consegnò i test alla Marini, da recapitare a una delle concorrenti. Frasi spezzettate che però, messe insieme, hanno portato i pm e il giudice che ha arrestato Duca a quella conclusione. La governatrice chiamò il suo segretario Valentino Valentini e gli disse: «La Marisa, quella della Coop... le devi portare 'sta cosa... Méttetela dentro, non lo so... méttetelo in una busta». Poco dopo Duca ribadisce: «Qui ce sò le domande, tra quelle lì... sta tranquilla». Erano i test per la prova scritta, poi arrivarono gli orali, la candidata che nella ricostruzione dell' accusa era sponsorizzata dalla governatrice ottenne il posto. Partecipò anche a un altro bando, e il 1° giugno Duca viene intercettato in un' altra conversazione con Roberto Ambrogi, responsabile della Contabilità e bilancio: «Se questa facesse bene anche lì, o piazziamo quella della Marini, che si può piazzare da tutte e due le parti e la mettiamo anche lì da te,...». Commento dei magistrati: «La conversazione è indicativa del fatto che nella selezione, l' unica aspettativa che non rimarrà delusa è quella del "palazzo", in barba al buon andamento della pubblica amministrazione». Quattro giorni dopo, la presidente della commissione parla con Ambrogi e cita il nome della donna segnalata dalla governatrice: un' altra concorrente, spiega, «ha fatto abbastanza bene a a questo orale, ma siccome c' è lei...». Sono tutti frammenti che per gli inquirenti diventano indizi di reato, contestato alla Marini come ai politici della cordata a lei avversa dentro al Pd, capeggiata dall' ex segretario regionale Gianpiero Bocci e dall' ex assessore alla Sanità Luca Barberini (entrambi agli arresti). I pm hanno messo insieme i loro tre nomi per denunciare il vertice politico responsabile dell' inquinamento dei concorsi pubblici, calpestando «ogni esigenza di "massimizzazione" dell' interesse pubblico e quindi di scelta del migliore contraente per la pubblica amministrazione». È il sistema di potere accusato di muoversi illecitamente, rispetto al quale Catiuscia Marini continua a rivendicare la propria estraneità. Pur avendo nominato i manager coinvolti: Duca e il suo predecessore Walter Orlandi, anche lui indagato, poi spostato all' assessorato regionale. Quello di cui Duca diceva: «Pensavo che con la partenza di Orlandi finivano, invece, no continuano... hanno creato questo sistema nel quale le cose si fanno soltanto su la manipolazione, pilotare, eccetera». La partita giudiziaria su queste frasi è appena cominciata; quella politica sembra già finita.

"Concorsi truccati nella sanità": arresti e indagati, ecco tutti i nomi. L'inchiesta in Umbria: un lungo elenco di dirigenti, funzionari, docenti e anche candidati, scrive Michele Nucci su La Nazione il 13 aprile 2019. La maxi indagine della Guardia di Finanza sui concorsi all’Azienda ospedaliera riguarda complessivamente 35 persone, tutte indagate, alcune agli arresti domiciliari e altre sospese dai pubblici uffici. Un elenco fatto di pagine e pagine in cui ci sono politici, dirigenti sanitari, docenti universitari, componenti delle commissioni e alcuni candidati. Tra in nomi di spicco naturalmente c’è prima di tutto la governatrice umbra, Catiuscia Marini (indagata), presidente della Giunta regionale dal 2010; l’assessore regionale alla Sanità, Luca Barberini (ai domiciliari), folignate e “bocciano doc”, titolare dell’assessorato dal 2015; Gianpiero Bocci (anche lui ai domiciliari), da poche settimane segretario regionale del Partito democratico e sottosegretario al Ministero dell’Interno fino al marzo 2018. Nell’elenco c’è poi Emilio Duca (agli arresti domiciliari), direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Perugia; Walter Orlandi, che è invece l’attuale dirigente responsabile regionale della Sanità umbra; Diamante Pacchiarini, direttore sanitario e Maurizio Valorosi (ai domiciliari), direttore amministrativo Azienda ospedaliera. Indagato anche Roberto Ambrogi, responsabile Ufficio contabilità e bilancio; Domenico Barzotti, componente e segretario della Commissione esaminatrice del concorso da infermiere; Lorenzina Bolli, presidente commissione di uno dei concorsi; Gabriella Carnio, resposabile delle professioni sanitarie; Maria Cristina Conte, reponsabile ufficio personale; Potito D’Errico, docente universitario e primairio di Odontoiatria; Rosa Maria Franconi, dirigente Ufficio acquisti e appalti; Antonio Tamagnini, responsabile attività amministrative e sperimentazioni cliniche; Maurizio Dottorini, presidente commissione di uno dei concorsi; Patrizia Mecocci, docente e direttore scuola di specializzazione in Geriatria; Paolo Leonardi, dipendente Azienda ospedaliera; Marco Cotone, segretario regionale Uil-Fpl; Eleonora Capini, una delle candidate; Vito Aldo Peduto, direttore di Anestesia e rianimazione 2; Simonetta Tesoro, dirigente medico Anestesia e rianimazione 2; Mario Pierotti, padre di una delle candidate; Milena Tomassini, dipendente regionale; Riccardo Brugnetta, Amato Carloni e Giuseppina Fontana, componenti della commissione riservata al personale della Regione. E ancora: Serena Zenzeri, componente ufficio procedimenti disciplinari; Pasquale Coreno, generale in congedo dell’Arma dei carabinieri. Gli altri indagati sono Giampiero Antonelli, Francesco Oreste Domenico Riocci, brigadiere della Guardia di Finanza; Moreno Conti, Fabio Gori, Domenico Oristanio, Alessandro Sdoga. Per i quattro agli arresti domiciliari (Barberini, Bocci, Duca e Valorosi) c’è il divieto di incontro e colloquio anche telefonico e tramite internet con persone diverse dai familiari. Per Ambrogi, Carnio, Conte, Franconi, Pacchiarini e Tamagnini è stata stabilita l’interdizione inerente l’esercizio di pubblica funzione.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Roma nelle canzoni.

Roma nelle canzoni: un sondaggio per scegliere la più bella. Da Venditti e De Gregori al Piotta, da Renato Rascel a Cranio Randagio: ecco alcune delle mille perle che compongono la collana delle più belle canzoni sulla città. Diteci quale vi piace di più. Ernesto Assante il 26 agosto 2019 su La Repubblica. Cantare Roma è tutt’altro che facile. Si, perché Roma non è solo una città, ma molte città messe insieme, a seconda del quartiere in cui si vive, alle volte a seconda della strada in cui si vive. E ci sono città diverse ad ore differenti, una Roma notturna e una solare, c’è la Capitale e la piccola città della nostra vita, c’è la città della politica e quella del cinema, c’è una Roma degli innamorati e una dei lavoratori, quella dei sognatori e quella degli studenti. E ogni Roma ha la sua canzone. Provare a creare una playlist ideale di canzoni dedicate a Roma o nelle quali Roma è personaggio principale, è difficile assai, perché non tante, tantissime, le canzoni in cui la città viene citata o è il tema della canzone stessa. Si va dalle canzoni storiche, quelle che da cento anni vengono cantate ai turisti dai pochi “posteggiatori” che ancora circolano in qualche ristorante del centro, al rap più contemporaneo e tagliente, canzoni passate alla storia e canzoni meno note ma bellissime. La scuola dei cantautori romani ha cantato la città in ogni modo, dagli anni Settanta in poi la città e le sue strade hanno conosciuto decine e decine di canzoni bellissime, mentre oggi rapper e trapper sono il cuore pulsante della nuova scena e cantano la città con rime sempre originali. C’è quindi il Renato Rascel di “Arrivederci Roma”, capolavoro della metà degli anni Cinquanta, e il Niccolò Fabi di “Lasciarsi un giorno a Roma”, c’è praticamente l’intero canzoniere di Carl Brave, che in ogni canzone ci accompagna in un angolo, in una strada, in un vicolo di Trastevere come a Corso Trieste, ci sono ci sono le canzoni di Luca Barbarossa e quelle di Gemitaiz, c’è l’Orchestraccia e Francesco De Gregori, e soprattutto c’è Antonello Venditti, che ha celebrato la città, le sue strade, i suoi abitanti, in tantissime canzoni assolutamente memorabili.

Vi proponiamo una playlist varia e “instabile”, una sorta di “guida introduttiva” che contiene solo alcune delle mille perle che compongono la collana delle più belle canzoni su Roma. Diteci qual è la vostra preferita.

Renato Rascel - Arrivederci Roma

Antonello Venditti - Roma Capoccia

Cranio Randagio - Mamma Roma addio

Luca Barbarossa - Via Margutta

Nino Manfredi - Roma nun fa la stupida stasera

Niccolò Fabi - Lasciarsi un giorno a Roma

Matia Bazar - Vacanze romane

Piotta e il Muro del Canto - Vizi Capitale

Francesco De Gregori - Per le strade di Roma

Colle der fomento – Il cielo su Roma

Ernesto Assante per roma.repubblica.it l'11 novembre 2019. La copertina l’ha disegnata Zerocalcare e c’è Pezzali con il suo cappello in mezzo a una folla di romani di ogni tipo, età e stile. La canzone “In questa città” è dedicata a Roma, una grande dichiarazione d’amore in cui Pezzali mette insieme cinghiali e Pariolini, il tappo sulla tangenziale e il derby, il meglio e il peggio di una Capitale «che riesce sempre a farsi perdonare con la sua umanità e la sua magnificenza». La nuova canzone è un altro pezzo del mosaico che Pezzali sta componendo in direzione della realizzazione di un album.

 Pezzali, cosa l’ha spinta a scriverla?

"In una delle infinite, innumerevoli volte in cui ho vestito i panni del pendolare tra Roma e una piccola realtà di provincia, perché ho mio figlio nella Capitale, mi sono scoperto a chiedermi quale fosse il motivo per cui amo questa città, perché ci ritorno sempre al di là della necessità del rapporto con mio figlio. E da questa domanda è nata tutta una serie di pensieri, un brainstorming con me stesso, una di quelle situazioni in cui risparmi i soldi dell’analista e ti autoanalizzi scrivendo una canzone. E questa autoanalisi mi ha aiutato a capire che c’è una sorta di sotto-testo in tutto quello che accade nella città, che ti permette di non abbandonarla mai".

Cioè?

"Cioè, quando arrivi al punto di saturazione, al “cacchio non ce la faccio più”, Roma ha la capacità in un attimo di mostrarsi in tutta la sua grandezza, che non è solo la “grande bellezza” estetica, ma è una vicinanza umana, una sorta di rete dei sentimenti condivisi con le persone che sono vicine a te. Voglio dire che quell’attimo arriva con una persona che sta prendendo il caffè vicino a te, o con uno sconosciuto che è bloccato con te nel traffico del Lungotevere, in un tessuto umano che quando pensi che sia sfilacciato, in realtà, si ricollega. Semplicemente mi sono reso conto che quando non sono a Roma tutto questo mi manca".

“In questa città” è un modo di celebrare la grandezza della musica pop, parlare di cose serie, importanti, vere, con leggerezza e sentimento, tutto concentrato in tre minuti…

"Mettere tutto insieme in tre minuti era difficile, vista la vastità dei temi e degli argomenti, emozioni e sentimenti. Allora ho organizzato tutto in una serie di immagini flash, per raccontare la città in tempo reale, sulla base della mia esperienza, immagini che descrivessero la gioia ma anche la fatica di vivere a Roma. I romani lo sanno, quanto è difficile fare più di una cosa in mezza giornata, tra imprevisti che bloccano tutta la città e la normalità del caos".

Certo è curioso che a celebrare Roma oggi sia uno di Pavia…

"Ma credo che questa cosa sia più evidente a noi che veniamo da fuori. I romani hanno la tendenza a difendere la propria città per appartenenza, senza capirne la forza, o a denigrarla senza se e senza ma. Non riescono a trovare un sintesi, Roma non si tocca o Roma è una merda. Per uno che viene da fuori è più facile vedere la verità, senza pregiudizi positivi o negativi".

È una grande dichiarazione d’amore, comunque.

"È una sorta di operazione a cuore aperto. Ed è una dichiarazione di amore maturo: passati tanti anni in una relazione, quando riesci a trovare ancora dentro al tuo cuore delle parole che non sono estreme e iperboliche, ebbene sono più sincere. Io mi sono reso conto di non potere fare a meno dell’emozione che mi dà questa città. Se siamo riusciti ad andare avanti insieme io e lei senza che nessuno dei due sia morto nel percorso, vuol dire che quello che provo per lei è vero. E che è destinato a durare perché è passato attraverso vicissitudini umane, personali, collettive, difficoltà oggettive, lavori in corso, cambiamenti di giunte… Se dopo tutto rimane questa cosa, allora è amore vero".

TESTO

Era meglio se scendevo prima a Tiburtina

siamo in mille e i taxi forse solo una decina

però poi trovato il tappo sulla tangenziale

a Prati fiscali ci si può pure invecchiare

e invece qui ci si taglia dentro da Villa Borghese

il taxista che mi chiede “Lei è milanese?”

certo che anche voi dell’Inter state messi male

a noi ci resta solo il Derby della capitale

però Tomba di Nerone sta proprio in culandia

“come ci è finito là, mi scusi la domanda”

gli rispondo solamente mi ci porta il cuore

sceglie tutto gioie, lacrime e pure il quartiere

chissà se stasera incontro il mio amico Cinghiale

che non è un soprannome, è proprio l’animale

che mi sta simpatico perché ha lo sguardo triste

ma mi fa le feste

In questa città

c’è qualcosa che non ti fa mai sentire solo

anche quando vorrei dare un calcio a tutto

sa farsi bella e presentarsi col vestito buono

e sussurrarmi nell’orecchio che si aggiusterà

se no anche Sticazzi che se non passerà

che se non passerà

Roma nord, Roma sud, Roma ovest est

qui si vive in macchina come a Los Angeles

si capisce sei del nord che guidi da sfigato

mentre il fiume scorre lento tra i campi di paddle

gli SH fanno a gara con le macchinetta

Suv di cinque metri in strade sempre troppo strette

meglio starsene rinchiusi nel proprio quartiere

tranne il sabato che andiamo tutti a pranzo al mare

c’ho un amico che sta all’EUR però arrivarci è un viaggio

c’ho un amico ha un bar in centro ma non c’è parcheggio

e ne ho pure uno a Trastevere ma è il varco attivo

ma mi capisce e quando arrivo, arrivo 

Pariolini alternativi, coatti ripuliti

gente che lavora duro e sola ben vestiti

tre milioni di persone in questo frullatore

che non puoi lasciare

In questa città

c’è qualcosa che non ti fa mai sentire solo

anche quando vorrei dare un calcio a tutto

sa farsi bella e presentarsi col vestito buono

e sussurrarmi nell’orecchio che si aggiusterà

se no anche Sticazzi che se non passerà

tu vieni su al Gianicolo a guardare la città

·         La maestà der Colosseo.

La maestà der Colosseo. Report Rai. PUNTATA DEL 21/10/2019. Di Giulia Presutti. Il Colosseo è la prima attrazione turistica in Italia, quarta in tutto il mondo. Con 7,7 milioni di visitatori nel 2017, ha incassato 53 milioni di euro. Ma chi gestisce i servizi di biglietteria e quelli di valorizzazione? Perché i biglietti sono spesso introvabili e i turisti si trovano a doverli comprare presso rivenditori privati, a prezzi più alti di quello standard? La sovrintendenza ha affidato tutto a un'associazione di imprese che comprende CoopCulture e Mondadori, ma gli esiti non sono sempre vantaggiosi per i visitatori...

 “LA MAESTÀ DER COLOSSEO” di Giulia Presutti.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Giri in gondola nella laguna, cene di lusso in saloni affrescati, passeggiate in piazza San Marco. Non è Venezia, ma Las Vegas. Perché la grande bellezza italiana viene riprodotta nei casino del Nevada, per attrarre i turisti al gioco d’azzardo. Al Caesar Palace hanno addirittura ricostruito il Colosseo. L’hanno dotato delle più avanzate tecnologie per mettere in scena spettacoli. La riproduzione dell’anfiteatro romano è talmente fedele che hanno ricostruito gli spalti del belvedere, l’arena e persino i sotterranei, dove venivano tenuti gladiatori e belve feroci in attesa dei combattimenti. Ma se in America utilizzano il marchio della cultura italiana per fare affari, noi che i monumenti veri li abbiamo, come li facciamo fruttare?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Noi la grande bellezza l’abbiamo, loro la riproducono, ma la fanno fruttare meglio. Buonasera. Il Colosseo, dopo la Grande Muraglia cinese, il museo nazionale a Pechino e il Louvre è il sito più visitato al mondo. Ecco, è patrimonio dell’Unesco e in un sondaggio nel 2007 a Lisbona, 100 milioni di persone hanno detto “voto il Colosseo perché venga inserito nelle sette meraviglie del mondo”. Ma questa meraviglia del mondo noi come la facciamo fruttare? Se entri al Metropolitan paghi un biglietto di 22 euro, 20 all’Acropoli, 18 a Versailles. Noi invece come la facciamo fruttare? Noi facciamo pagare di meno e consentiamo anche che dei robottini da remoto ci sfilino sotto il naso centinaia di biglietti in pochi secondi e facciano anche la cresta sul biglietto del Colosseo. La nostra Giulia Presutti.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Con oltre 53 milioni di euro incassati nel 2018 e 21mila ingressi al giorno, è una delle attrazioni culturali più ambite al mondo. Solo lo scorso anno è stato visitato da 7 milioni e 700mila persone.

TURISTA Penso che sia il primo monumento da vedere, anche se hai solo un giorno.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Su Trip Advisor le prenotazioni per l’Anfiteatro Flavio superano quelle dei Musei Vaticani e anche della Statua della Libertà. E pensare che entrare non è così semplice…

TURISTA C’è molta fila e ora stanno avvisando con gli altoparlanti che bisognerà aspettare ancora.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Il biglietto d’ingresso costa 12 euro. Con prenotazione, 14. Ma per entrare anche nell’arena il prezzo sale a 16. Per accedere al belvedere e ai sotterranei si pagano 12 euro, ma bisogna farsi accompagnare da una guida che sul sito costa altri 9 euro. A vendere i biglietti per conto dello Stato da oltre 20 anni è Coopculture, una cooperativa dal valore della produzione di quasi 70 milioni di euro, associata a LegaCoop.

ISABELLA RUGGIERO – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE GUIDE TURISTICHE ABILITATE Tutti i biglietti hanno un orario preciso che è quello in cui il visitatore deve entrare al monumento.

GIULIA PRESUTTI Quindi il visitatore non fa la fila?

ISABELLA RUGGIERO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE GUIDE TURISTICHE ABILITATE Questa doveva essere l’idea.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Ma in realtà non è così. Per motivi di sicurezza possono entrare in contemporanea solo 3000 persone. Eva Polino gestisce un piccolo tour operator. Andiamo insieme all’alba e ci spiega le regole per entrare, che cambiano se prenoti attraverso agenzia o individualmente.

EVA POLINO - THE 3OTH CENTURY FOX SRL Ci sono svariate file qui vedi? Se tu sei un individuale ovvero un gruppo al di sotto delle 14 persone il tuo ingresso è quello lì. L’ultima è per chi non ha i biglietti, entra dentro e si fa i biglietti al Colosseo.

GIULIA PRESUTTI Quindi è la fila più lunga.

EVA POLINO - THE 3OTH CENTURY FOX SRL Lunghissima.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Con Eva arriviamo alla biglietteria del Palatino: è deserta, siamo i primi. Ma quando aprono le vendite, ci rispondono così.

EVA POLINO - THE 3OTH CENTURY FOX SRL Il primo è alle 9.15? Sono la prima, come è possibile?

BIGLIETTAIA Eh… perché è collegata alle altre biglietterie.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO In 4 minuti sono spariti 400 biglietti.

ISABELLA RUGGIERO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE GUIDE TURISTICHE ABILITATE C’è una corsa da parte di tutte le grandi agenzie, i grandi tour operator, per accaparrarsi più biglietti possibile.

GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE COOPCULTURE Fa pensare all’utilizzo di sistemi di tecnologia che consentono di fare questo, cioè dei robot.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Ma chi si porta a casa i biglietti? Nessuno dei grandi acquirenti è registrato in Italia: City Wonders per esempio ha sede in Irlanda. Tiqets in Olanda. Viator, di proprietà di Trip Advisor, in Delaware. Misteriosamente, poi, parte dei biglietti riappare davanti all’entrata, dove operano agenti clandestini che offrono un servizio all inclusive: oltre all’ingresso anche l’opzione di saltare la fila. Ma l’all inclusive costa caro.

“SALTAFILA” Ti servono 7 posti per i sotterranei?

GIULIA PRESUTTI Sì.

“SALTAFILA” Facciamo il giretto giusto eh. Solo un posto, andiamo avanti. Allora, lei ha underground, però domani. 90 a persona.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Se invece riuscissimo a comprarlo sul sito di Coopculture, lo pagheremmo 16 euro. Il problema è che non li trovi perché se li sono accaparrati le società di intermediazione.

GIULIA PRESUTTI Io per comprare il biglietto devo andare per forza sul sito di City Wonders, Viator, o su Musement perché sul sito di Coopculture non lo trovo.

GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE COOPCULTURE Se City Wonders aggiunge al biglietto le visite guidate, la piazza e il web non possono essere controllate da Coopculture.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Intanto però Coopculture gestisce indisturbata gli ingressi al Colosseo dal 1997, grazie a un bando pubblico vinto e continuamente rinnovato: nel 2001, nel 2005 e dal 2010 prorogato sine die. E non è da sola: i servizi “aggiuntivi” di mostre, cataloghi e bookshop sono in mano a Mondadori Electa. Ma lo Stato sa quanto guadagna dal Colosseo?

ROSSELLA REA - RESPONSABILE MIBAC COLOSSEO ANFITEATRO FLAVIO Allora, l’incasso annuale quindi quant’è? Ce l’hai sotto mano? Quant’è l’aggio del concessionario? Mi sto perdendo, mi sto proprio perdendo su questa cosa.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Non è rassicurante che il Ministero non abbia il polso della situazione. Nel 2018 l’incasso per i biglietti è di quasi 54 milioni di euro: 46 milioni entrano nelle casse dello Stato, mentre 7 milioni e mezzo li incassa Coopculture. Invece per i servizi aggiuntivi, il parco archeologico del Colosseo totalizza oltre 16 milioni. Ma alla Sovrintendenza arriva poco più di un milione: infatti non prende un euro per audioguide, prevendite e visite guidate. Incassa tutto il concessionario.

GIULIA PRESUTTI Ma è un concessionario che sta lì da oltre vent’anni, quindi i canoni d’affitto, le quote di ripartizione tra concessionario e lo Stato non sono mai state adeguate alla situazione presente di volume di ingressi al Colosseo e di incassi, anche…

ROSSELLA REA - RESPONSABILE MIBAC COLOSSEO ANFITEATRO FLAVIO Non lo so. Un nuovo bando per l’affidamento dei servizi aggiuntivi è in corso. Bandire gare di questa caratura richiede un tempo non breve, non breve.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Tanto che fretta c’è? Il Colosseo è lì da 2000 anni. Certo che però è difficile migliorare la situazione se non hai il polso neppure di quanto incassa il Colosseo. Abbiamo visto che Coopculture gestisce la biglietteria. La gestisce nel modo che abbiamo visto e in qualche modo è possibile per i privati da remoto con un robottino sfilare sotto il naso centinaia e centinaia di biglietti in pochi secondi e farci anche la cresta. Siccome la gran parte di queste società di intermediazione poi ha la sede all’estero, ci risulta che qui in Italia neanche paghino le tasse. Ecco, poi ci sono le attività collaterali. Coopculture gestisce anche le visite guidate, le audioguide. Attraverso dei suoi fornitori, la sua socia, Mondadori Electa, gestisce mostre e cataloghi. Ci risulta, da un accertamento dell’Agenzia delle Entrate, che però è accusata di non aver pagato l’Iva sugli utili per circa un milione di euro. Ecco, Mondadori ci ha scritto e dice che “sta collaborando con chi sta indagando ed è fiduciosa che gli venga riconosciuta la correttezza del suo operato”. Lo speriamo anche noi. Però il problema è: è mai possibile che non riusciamo a far fruttare meglio una risorsa così strategica per il Paese? Il Colosseo è una gallina dalle uova d’oro solo per i privati, che riescono anche a farci la cresta.

·         Ecco, è Roma.

Da Leggo.it il 15 settembre 2019. L'autorevole Times di Londra riprende lo scoop di Leggo. L'articolo sulle buche a Trigoria che hanno messo ko le lussuose auto dei calciatori della Roma finisce Oltremanica, riportato con ampio risalto sul sito del quotidiano londinese. «Come Sarajevo ai tempi dei bombardamenti», ha commentato il bomber bosniaco Edin Dzeko, nel pezzo di Leggo di oggi. E anche il Times, glorioso quotidiano londinese, ha ripreso la nostra testata nel parlare dell'argomento: «Edin Dzeko ha avuto danni ai cerchioni del suo Suv e anche il difensore brasiliano Juan Jesus ha distrutto due pneumatici sulla strada per il campo di allenamento del club, riporta il quotidiano Leggo», si legge sul Times. Una dichiarazione impietosa quella del centravanti giallorosso, rispetto alle condizioni delle strade di Roma. Comunque, a quanto sembra, dal Campidoglio sarebbero arrivate assiccurazioni alla società giallorossa e ai giocatori della Roma: un intervento di manutenzione sulle condizioni delle strade della Laurentina è già programmato per la fine di ottobre. Un'accelerazione dei lavori dopo le polemiche dei giorni scorsi. «I calciatori dell'AS Roma sono abituati a dribblare gli avversari in campo. Le buche della capitale italiana si stanno tuttavia dimostrando un inevitabile avversario», si legge sull'articolo del Times. «Secondo quanto riporta il quotidiano Leggo Edin Dzeko, l'attaccante principale della squadra - prosegue il testo - ha danneggiato i cerchioni del suo Suv, e il difensore brasiliano Juan Jesus ha distrutto due pneumatici percorrendo strade segnate vicino al campo di allenamento del club. Preoccupato per il danno alle auto di lusso dei suoi giocatori, il club di Serie A si è lamentato con Virginia Raggi del partito del Movimento 5 Stelle, che è stato eletto sindaco della città nel 2016. Dzeko è bosniaco, ha dichiarato che mentre Roma è una città bellissima, le sue strade gli ricordano Sarajevo dopo i bombardamenti convenendo che quest'ultime somigliavano a una zona di guerra».

Striscia la Notizia, degrado alla stazione Tiburtina: a cosa si trova davanti Jimmy Ghione, da incubo. Libero Quotidiano il 25 Dicembre 2019. Un servizio inquietante, quello trasmesso da Striscia la Notizia nell'edizione in onda su Canale 5 alla vigilia di Natale, martedì 24 dicembre. Il tg satirico, infatti, ha indagato sulla stazione Tiburtina, a Roma. Nel dettaglio, a recarsi allo scalo ferroviario è stato l'inviato, Jimmy Ghione, che ha mostrato ai telespettatori una situazione allo sbando. Degrado e abbandono subito fuori dalla stazione, ma anche all'interno. La Tiburtina è meta e rifugio di senzatetto, tossici, spacciatori e abitanti di fortuna. Un nutrito gruppo di persone che vive al limite, spesso oltre la legalità, e che non ha gradito, affatto, la presenza di Ghione e delle telecamere di Striscia la Notizia.

Ilaria Del Prete per leggo.it il 23 dicembre 2019. Il Circo Massimo trasformato in un parcheggio a cielo aperto. Auto in sosta sullo sterrato, motorini e persino un minivan. Parcheggiati tra le transenne di sicurezza e il palco per il concerto di Capodanno che sta per essere montato, quei mezzi conferiscono al sito archeologico dall'inestimabile valore storico l'aria sciatta che neanche una stazione di periferia dovrebbe avere, dove tutto è concesso. E così turisti provenienti da ogni angolo del mondo, che hanno deciso di regalarsi per le feste una passeggiata nella mitica arena in cui sfrecciavano le bighe romane, sognando di rivivere una scena alla Ben-Hur, si ritrovano a fotografare moderni cavalli a due ruote. L'episodio non è passato inosservato al consigliere capitolino Davide Bordoni, che annuncia un'interrogazione alla Sindaca e al competente Assessore per sapere se le macchine parcheggiate dentro l’area del Circo Massimo abbiano o meno le dovute autorizzazioni: «A Roma tutto è permesso a causa dell’assenza di qualsiasi controllo sul territorio. Il Comune controlli a chi ha affidato l'organizzazione degli eventi». Immediato l'intervento del comando dei vigili del Primo Gruppo, che in seguito a una verifica hanno assicurato che le targhe dei veicoli parcheggiati nell'area del Circo Massimo sono tutte autorizzate alla sosta dal dipartimento Cultura del Comune di Roma. Ma come si può autorizzare tutti questi mezzi a ridosso di un tesoro archeologico come il Circo Massimo? I mezzi in sosta sono quelli degli addetti ai lavori per l'allestimento del palco dello show di fine anno, ma ciò non implica il diritto ad una sosta selvaggia. «Si potevano organizzare per tempo parcheggi idonei, dei vigili -  incalza Bordoni - e tutelare l’area invece della solita disorganizzazione generale». Il tutto proprio sotto alle finestre del comando dei vigili del Centro Storico.

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 22 dicembre 2019. Quando si dice cominciare col piede sbagliato (sull' acceleratore): al primo giorno di lavoro, due conducenti dell' Atac appena assunti, si sono presentati al volante del bus drogati. Beccati dagli ispettori dell' anti-doping della municipalizzata, sono già stati messi alla porta: contratto stracciato e tanti saluti. Uno dei due, peraltro, era appena stato graziato dalla società del Campidoglio, perché durante il concorsone bandito dall' azienda, aveva omesso di avere avuto precedenti penali, condizione che la partecipata aveva chiesto di sapere in anticipo, già nella fase di selezione. Tanta clemenza, evidentemente, non è servita: appena montato sul bestione da 12 metri e passa, fatto qualche giretto di prova, l' uomo è stato fermato dagli ispettori che si occupano dei controlli sul consumo alcol e stupefacenti. Ed è risultato positivo all' uso di droga, in buona compagnia con un collega, anche lui appena salito a bordo del colosso dei trasporti romani. Non sono casi isolati. Anche perché la società della mobilità romana, zavorrata da un debito ciclopico di 1,4 miliardi, ora faticosamente avviata sulla via del risanamento dal presidente e ad Paolo Simioni, ha optato per la linea dura, rafforzando i controlli. Basta pensare che ogni anno oltre 3mila conducenti vengono sottoposti, random, a una visita anti-doping. Tutto a sorpresa, durante il turno, per non lasciare possibilità di fuga a chi si mette alla guida dei bus dopo avere fatto uso di cocaina, hashish o marijuana. Del resto, al di là dei risvolti penali, è una questione di sicurezza: sui bisonti del trasporto pubblico romano, già alle prese coi problemi legati all' età elevatissima della flotta che ora si sta via via rinnovando, viaggiano ogni giorno centinaia di migliaia di persone. Chi si mette al volante ha la responsabilità di decine e decine di passeggeri, a volte centinaia. Non tutti però sentono sulla coscienza questo onere, evidentemente. Per fortuna ci sono i controlli: da gennaio 2018 a oggi, l' Atac ha beccato 17 autisti che si erano messi al volante dopo avere fatto uso di sostanze varie, dalla coca alla cannabis. Sono stati licenziati, come gli ultimi due, sorpresi praticamente in tandem all' inizio di dicembre, appena montati sul bus dopo il concorsone che ha reclutato 250 nuovi autisti. Proprio la selezione del 2019, la prima da anni per la municipalizzata romana, ha anche previsto per tutti i candidati un test psico-attitudinale, con tanto di colloquio con un esperto. Un faccia a faccia per capire quanto l' aspirante autista fosse in grado di reagire allo stress, di subire pressioni «in situazioni potenzialmente pericolose». Solo dopo si è proceduto con le prove di guida. Qualche comportamento però può sfuggire, ecco perché poi si è proceduto con l' anti-doping. Anche l' Ama, la società dei rifiuti che fa capo sempre al Comune di Roma, prevede controlli anti-droga sui conducenti dei mezzi pesanti. Ma tra i sindacati c' è chi racconta di soffiate sospette e di autisti che, proprio il giorno dell' ispezione, in teoria a sorpresa, si danno malati e sfuggono al test. «Nel sistema dei controlli c' è qualche falla - sostiene Alessandro Bonfigli della Uil Trasporti - ci sono conducenti che si mettono in malattia proprio nel giorno in cui sono previste le verifiche. C' è qualcuno che li avverte in anticipo? Il sospetto viene».

Bastano vento e pioggia per bloccare Roma. E arriva anche lo sfottò del sindaco di Milano. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 su Corriere.it da Goffredo Buccini. Critiche alla Raggi. Lei: la vita vale più delle polemiche. Beppe Sala: «Noi non ci fermiamo per due fiocchi di neve». Alla fine, è arrivato pure il (non troppo) bonario sfottò di Beppe Sala via Instagram: «I milanesi non si spaventano per due fiocchi di neve, dai!». A Roma invece bastano quattro gocce di pioggia per restare in trappola tra un’iperbole e un paradosso, sigillando scuole, parchi e cimiteri. L’iperbole, nel più classico esempio da manuale, è: affogare in un bicchier d’acqua. Il paradosso, nella capitale d’Italia al tempo di Virginia Raggi, è che qui un’iperbole va presa alla lettera. Noi romani anneghiamo davvero in poche sorsate di millimetri d’acqua piovana che altrove valgono una scrollatina di ombrello. Una decina di giorni fa, per effetto di caditoie e tombini cronicamente privi di manutenzione comunale, era bastato un acquazzone di stagione a trasformare piazze e vie in laghi e torrenti impossibili da guadare, col beffardo soprammercato dei sacchetti di rifiuti (mai smaltiti) a galleggiare immondi sopra le acque nere: un tale smacco al prestigio della Città eterna, e un così grave rischio per l’incolumità dei suoi cittadini, da far sembrare quasi dettato dal buonsenso il provvedimento di ieri con cui la sindaca, a fronte di previsioni del tempo nuovamente avverse, ha lasciato a casa scolari e studenti di ogni ordine e grado. Il problema sta in quel «quasi», che fa tutta la differenza del mondo per ragioni contingenti e di prassi amministrativa. La contingenza si è tradotta in una ennesima debacle della Raggi. Come quei giocatori di calcio che, presi di mira dal pubblico per un errore, cominciano a inanellare uno svarione dopo l’altro, la sindaca non ne imbrocca più una agli occhi dei romani. Così ieri è stata contestata dai presidi, dal Codacons, dalle famiglie (e a poco vale la sentita gratitudine di qualche ragazzino che avrà saltato il tema o il compito di matematica). Mario Rusconi, presidente dei presidi laziali, è andato giù duro: «Le scuole sono state chiuse per un po’ di pioggerella, con un danno di immagine gravissimo. Finirà come la favola di Esopo con il suo al lupo al lupo». Per il Codacons la scelta è «eccessiva e ingiustificata e ha gettato nel caos migliaia di famiglie». Molti genitori sono stati costretti a prendersi un giorno di permesso per stare a casa con i pargoli e non è servito a placarli l’astuta foto diffusa dallo staff del Campidoglio che ritrae la sindaca come una qualsiasi delle tante romane ieri nei guai, al lavoro in Comune assieme al figlioletto, pure lui rimasto a spasso per effetto dell’ordinanza di mammà (non molte hanno il privilegio di portarsi il bambino in ufficio, sicché la strategia della normalità s’è tramutata in un boomerang). «La vita umana vale più delle polemiche», ha dichiarato a fine giornata una Raggi indispettita. Certo, a Ostia il vento è arrivato a 100 chilometri l’ora. Certo, nel pomeriggio altri acquazzoni hanno sferzato pezzi di città, danneggiando anche il tetto dell’Auditorium di Renzo Piano. Certo, pure il sindaco di Napoli, de Magistris, ha adottato analogo provvedimento senza essere investito da critiche feroci, almeno stavolta. Perché già in altre occasioni sia lui che Raggi erano ricorsi a questo estremo rimedio che, se fosse usato con lo stesso metro nelle città dell’Italia settentrionale, lascerebbe a casa gli studenti almeno per tre mesi l’anno. Pesa, e si capisce in questa nostra repubblica giudiziaria, su tutti i primi cittadini l’angoscia da procedimento penale dopo la tragedia di Genova di otto anni fa che costò la vita a quattro donne e due bimbe e una dura condanna alla sindaca Vincenzi per non aver chiuso le scuole nonostante l’allerta meteo. Ma nel caso romano questa ritirata sul fronte della pioggia assume anche un altro sapore: quello della scelta, della prassi amministrativa che si spinge fino alla paralisi (in)felice. Se i tombini sono occlusi da fogliame e detriti, e dunque con le piogge trasformano la città in una trappola,non si puliscono i tombini: si chiudono le scuole e si ferma la città. Se l’immondizia ci sovrasta, non si costruiscono inceneritori (come ora anche l’Ama suggerisce): si punta su una differenziata che, anziché aumentare, decresce (chi volete faccia la differenziata in una città dove la spazzatura ha sommerso i cassonetti?). Se le strade sono piene di buche, si mette il limite di velocità a 30 chilometri l’ora (sulla Cristoforo Colombo!) così chi si schianta lo fa sotto la propria responsabilità. Se le opere pubbliche attirano i corrotti, non si vigila sugli appalti: si rinuncia alle Olimpiadi. Metafora vivente della paralisi pentastellata, Virginia Raggi accompagna dunque Roma verso una dimensione premoderna, in controtendenza con tutte le metropoli del globo. Atràs, Pedro, indietro, con juicio: almeno saremo originali.

Scuole chiuse a Roma, i presidi contro la Raggi: «Non ci tutela» Lo svarione nel testo dell’ordinanza. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 su Corriere.it da Goffredo Buccini. Critiche alla Raggi. Lei: la vita vale più delle polemiche. Beppe Sala: «Noi non ci fermiamo per due fiocchi di neve». Protestano, i presidi del Lazio, per l’ordinanza con cui la sindaca di Roma Virginia Raggi ha deciso ieri sera di chiudere, in via cautelare, tutte le scuole della Capitale a seguito dell’allerta meteo della Protezione Civile. Troppo alto il rischio che la «tempesta di Santa Lucia» prevista fin dalla tarda mattinata di oggi potesse abbattersi sulla città causando, come è già successo in passato, il crollo di alberi. Meglio, dunque, chiudere le scuole. Già, ma a noi presidi non ci pensate? E’ questa, in sostanza, l’0obiezione sollevata dal presidente dell’Associazione nazionale presidi del Lazio Mario Rusconi: «Appare bizzarro pensare giustamente all’incolumità degli studenti e del personale scolastico ma non a quella dei presidi che a parere del sindaco dovrebbero presidiare le scuole. Vorremmo che la sindaca chiarisse il significato di questa scelta». Ma perché, cosa prevede l’ordinanza n. 233 del 12 dicembre 2019 firmata ieri sera dalla Raggi? Come si legge nel testo scaricabile dal sito del Campidoglio, «la Sindaca ordina per la giornata di venerdì 13 dicembre 2019, la sospensione delle attività educative e didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, compresi i nidi, insistenti nel territorio cittadino, fermo restando la necessità del presidio di tutti gli edifici da parte dei dirigenti scolastici delle POSES (funzionari dei servizi educativi e scolastici) al fine di rilevare e segnalare tempestivamente eventuali criticità». Rusconi lamenta anche il fatto che la sindaca tratti i dirigenti scolastici come suoi dipendenti: «Il primo cittadino ritiene che i dirigenti scolastici siano dipendenti comunali a cui impartire ordini di servizio, quando sono invece gli uffici scolastici regionali e il Miur a poterlo fare».

P.S. E’ appena il caso di notare che, al di là delle rimostranze dei presidi, l’ordinanza tutela gli alunni ma non la lingua italiana visto che l’espressione «fermo restando» dovrebbe essere concordata con il soggetto, che non è il presidio ma la necessità dunque è femminile. Perciò non si dice: «Fermo restando la necessità del presidio», ma: «Ferma restando la necessità del presidio».

Emergenza rifiuti Roma: 1 operatore su 3 inidoneo a raccogliere la spazzatura. Le Iene il 10 dicembre 2019. Una fotografia impressionante quella che emerge dal rapporto Ama dopo il nostro servizio su fancazzisti della raccolta rifiuti. 1500 operatori hanno certificati medici che li rendono non idonei a svolgere le mansioni previste dal contratto. “Tra gli oltre 4.300 operatori ecologici di Ama, circa 1.500 risultano essere idonei parziali (in modo permanente o temporaneo) o inidonei (permanenti o temporanei) alla specifica mansione assegnata”. È quanto si legge nel rapporto dell’Ama, l’azienda municipalizzata del comune di Roma che dovrebbe occuparsi di tenere pulita la capitale. Ma se uno su tre dei suoi operatori non sono idonei, con tanto di certificato medico, a svolgere le attività previste dal contratto, ci si chiede come facciano a tenerla pulita. E infatti non solo l’emergenza rifiuti a Roma è più pressante che mai, ma alcuni operatori durante i turni fanno tutt’altro che raccogliere la spazzatura. Lo abbiamo documentato nell’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti dedicata alla “grande monnezza” romana. Abbiamo seguito i camioncini della Roma Multiservizi all’opera. Tra chi si mangiava una pizza, chi faceva la spesa e chi stava un po’ troppo al telefono, ci è sembrato che gli operatori facessero di tutto tranne che raccogliere i rifiuti! Dopo i nostri servizi Ama ha stilato un rapporto che fa davvero impressione. Sono più di uno su tre gli operatori che hanno in tasca un certificato medico che li solleva da varie mansioni, che sembrano fondamentali per tenere pulita la città. C’è chi è “allergico” allo smog (e come fa a stare ore in giro col furgoncino?), chi non può “sostenere carichi pesanti” (come fa a raccogliere i tanti sacchi sparsi per le strade?), chi soffre di vari fastidi temporanei e quindi, certificato alla mano, non può essere inserito nei turni. L’amministratore unico, Stefano Zaghis, sta prendendo provvedimenti. Ha già dato mandato al nuovo direttore del personale di riconvertire più netturbini “inidonei” possibile. 200 saranno convertiti come “spazzini da quartiere”.

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 10 dicembre 2019. Netturbini «inidonei» a fare i netturbini. Domanda: quindi come passano il turno pagato dall'Ama? «Non saprei, certo è che le cose ora dovranno cambiare», risponde il nuovo amministratore unico della municipalizzata di Roma, Stefano Zaghis, alle prese con l'emergenza rifiuti, l'assenza di impianti dove portare la spazzatura raccolta in giro per la città, un piano industriale da scrivere in tempi record e, tra i mille intralci, c'è pure questo paradosso: il battaglione di «operatori ecologici» che ha in tasca un certificato medico, temporaneo o permanente, con cui evita di fare quanto previsto dal contratto. L'assenteismo e le licenze facili sono una vecchia piaga della partecipata ambientale dell'Urbe, ma le cifre annotate in un rapporto appena consegnato al nuovo numero uno impressionano: un netturbino su 3 è inabile all'incarico. «Tra gli oltre 4.300 operatori ecologici di Ama, circa 1.500 risultano essere idonei parziali (in modo permanente o temporaneo) o inidonei (permanenti o temporanei) alla specifica mansione assegnata», si legge nel report. Insomma, non possono salire sui camion e portare via l'immondizia dalle strade. Quello per cui sarebbero stipendiati con i fondi della Tari, che per i romani è una delle più care d'Italia. Le motivazioni degli impedimenti sono varie: c'è chi è «allergico» allo smog, quindi proprio non può passare il turno al volante dei compattatori nel traffico di Roma; c'è chi invece non può sostenere «carichi pesanti», come svuotare i cassonetti che, dal centro alla periferia, tracimano di pattume da mesi. C'è anche chi soffre di fastidi temporanei e quindi, sempre col certificato firmato dal dottore, non può essere inserito nei turni. Naturalmente, tra i 1.500 inabili, c'è sicuramente chi avrà pienamente diritto alle esenzioni. Ma davanti a una percentuale così massiccia (34,9% dei netturbini), qualche dubbio viene. Gli stessi sindacati, solitamente bellicosi, riconoscono che la situazione è grottesca. Soprattutto, è un lusso impensabile per una città invasa dall'immondizia. «Sembra di stare su Marte, lo so», conviene Alessandro Bonfigli, leader della Uil Trasporti: «Bisogna ammetterlo: queste persone vanno messe nelle condizioni di fare qualcosa, tutti devono essere utili alla causa, specialmente in un frangente così difficile». Stessa domanda di prima: oggi i netturbini inabili cosa fanno? «Poco o nulla», risponde anche il sindacalista. Al nuovo au, Zaghis, nominato a inizio ottobre, va dato il merito di avere preso di petto la questione. Perché per tirare fuori Roma dall'emergenza rifiuti servono sì gli impianti - lui stesso propone alla sindaca Raggi una discarica e un termovalorizzatore, parola tabù, però, per un pezzo del M5S - ma tocca anche rendere efficiente un colosso pubblico che non brilla per rigore, anzi. Basta pensare che il tasso di assenteismo, ferie escluse, sfiora da anni il 15%. L'ultima rilevazione interna, che prende in esame il trimestre luglio-settembre, dice che il 14,7% dei dipendenti Ama non si presenta al lavoro, tra malattie (6,1%), permessi 104 e congedi di ogni risma. Zaghis ha già dato mandato al nuovo direttore del Personale, Marcello Bronzetti, di riconvertire più netturbini «inidonei» possibile. In 200 saranno spediti a fare gli «spazzini di quartiere», a stretto giro di posta. Poi toccherà agli altri essere spostati in ruoli più operativi. «Abbiamo anche chiesto di intensificare le visite mediche - conclude Zaghis - e con l'assunzione di 350 dipendenti, abbasseremo l'età media del personale sul territorio, che oggi si attesta a circa 50 anni».

La periferia avvelenata ​di Roma e quell'allarme per i morti di tumore. Il Tmb di Rocca Cencia è l’unico rimasto attivo nella Capitale, dopo che quello del Salario è stato chiuso per un incendio. I residenti denunciano un'elevata incidenza di morti per tumore. Elena Barlozzari Francesco Curridori, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. “Qui l’aria è irrespirabile, non ne possiamo più”. Sono esasperati i residenti di Rocca Cencia, il quartiere alla periferia est della Capitale dove sorge uno stabilimento che tratta rifiuti indifferenziati.

Tmb Rocca Cencia, sovraccarico e non a norma. Lo stesso che qualche settimana fa Matteo Salvini ha cercato, invano, di visitare per un controllo ispettivo. Presidiato dallo scorso giugno da una camionetta dell’esercito, il Tmb di Rocca Cencia è l’unico rimasto attivo nella Capitale, dopo che un rogo ha messo fuori uso quello di Salario. “L’Ama ci ha impedito di entrare, motivando il divieto con i lavori di manutenzione ordinaria”, spiega Maurizio Politi, capogruppo della Lega in Consiglio Comunale. Un divieto insolito, soprattutto se a farne le spese è un senatore nonché ex ministro dell’Interno come Salvini. La spiegazione di tale atteggiamento da parte dei vertici della municipalizzata romana dei rifiuti, secondo i leghisti, è da attribuire al sospetto che l’impianto non sia a norma, come lascerebbe presagire anche un’indagine della Procura di Roma. “Da quando il Tmb Salario è stato chiuso, i dipendenti di Rocca Cencia sono costretti a lavorare in condizioni da incubo: sia dal punto di vista della sicurezza che della mole di lavoro, l’impianto è sovraccarico”, rivela Politi.

I disagi per i residenti e il rischio tumori. All’odissea dei lavoratori della municipalizzata si aggiunge il dramma di chi abita il territorio, investito da odori nauseabondi e flatulenze a ogni ora del giorno e della notte. Ma secondo i residenti, dietro ai cattivi odori, si nascondono anche seri rischi per la loro salute. “Le ondate di puzza fanno lacrimare gli occhi e bruciare la gola”, denuncia una donna sulla cinquantina. “Sul mio balcone - continua - si deposita ogni mattina del pulviscolo bianco, sono parecchio preoccupata”. “L’incidenza tumorale qui è altissima”, “il Tmb ci sta avvelenando” e ancora “siamo preoccupati per i nostri figli”, sono alcune delle frasi che più spesso ricorrono negli sfoghi degli abitanti di Rocca Cencia. Tra loro c’è anche Aurelio, che vive ad appena 400 metri dall’impianto Ama. Ci accoglie nella sua casa con gli occhi velati da disperazione e paura. È appena tornato dall’ospedale, tra le mani stringe la cartella degli esami con il drammatico responso: “Mi hanno diagnosticato un tumore di Warthin”, ci dice. La vita è stata ingiusta con lui. Anni fa ha dovuto lasciare il lavoro a seguito di un brutto incidente che lo ha segnato nel fisico in modo permanente. Ma non si è dato per vinto e ha iniziato a fare sport paraolimpico, diventando campione italiano di atletica. Ora questa nuova sventura. “Tredici anni fa mi sono trasferito qua per accudire i miei genitori anziani e, ora, sono loro che devono accudire me”, racconta con amarezza. “Inizialmente i medici hanno riscontrato delle anomalie negli esami del sangue, poi ho mi hanno trovato i bronchi intasati e adesso anche un tumore”. “La certezza scientifica che dipenda dal Tmb non ce l’ho, ma il fatto che si siano ammalati anche due miei vicini di casa, madre e figlio, mi fa pensare”, chiosa il signor Aurelio.

L'inconcludenza della giunta Raggi. Pamela Strippoli, consigliera della Lega nel V Municipio, spiega: “Non abbiamo ancora dei numeri precisi, ma le testimonianze che abbiamo raccolto nel corso delle varie assemblee pubbliche sono allarmanti, dopo decenni di inquinamento indiscriminato la salute dei residenti di Rocca Cencia gli sta presentando il conto”. Un’altra piaga che affligge la zona sono le discariche abusive. Nonostante le bonifiche effettuate recentemente, strade come via di Sant’Alessio in Aspromonte, sono ancora stracolme di materiale tossico: copertoni, Eternit, amianto che spesso vengono dati alle fiamme. “Il problema è che il sindaco dice ideologicamente no a qualsiasi tipo di impianto, - denuncia Politi - anche ai termovalorizzatori, che servirebbero per dare una risposta all’emergenza sanitaria a Roma. La giunta Raggi continua a raccontare la favola dei rifiuti zero, mentre la Capitale è sommersa dall’immondizia”.

Roma, vigili urbani corrotti con i coni gelato  e le cene al ristorante. Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. «Comprato» con i gelati. Coni o coppette con cialda da assaporare davanti alla Fontana di Trevi. E in cambio della mazzetta dal sapore zuccherato ha assicurato l’assenza di controlli, da parte della polizia municipale, nella gelateria situata al civico 83 di piazza di Trevi. È l’accusa con cui è finito sotto processo il vigile urbano (sospeso) Alessandro Egidi. Il reato contestato: corruzione. Oltre alla libertà di mangiare tutti i gelati che ha voluto nei primi nove mesi del 2013 Egidi, sempre secondo la Procura, ha anche ricevuto 200 euro per consolidare l’accordo stretto con il padrone della gelateria. Sul banco degli imputati, nello stesso processo, siede Fabio Corazzini, collega di Egidi, pure lui sospeso dal servizio, che invece si è fatto corrompere, secondo l’accusa, con una cena consumata il 3 ottobre del 2013 alla Barcaccia, locale a Campo de’ Fiori, per chiudere entrambi gli occhi sulla gestione del ristorante. Secondo la Procura Corazzini avrebbe avuto «diritto», stando al patto corruttivo con il gestore, ad altre due cene, ma l’inchiesta ha fatto saltare i promessi banchetti.

Sotto processo per omissione d’atti d’ufficio c’è infine il vigile Franco Caponera, accusato di non aver svolto controlli alla Barcaccia. «Sono certo dell’assoluzione del mio assistito», dice l’avvocato Michele Gentiloni Silverj, legale di Caponera.

Lorenzo De Cicco per il Messaggero il 19 novembre 2019. Le pile d'immondizia davanti al portone di scuola. I topi che scorrazzano ai giardinetti accanto alle altalene. Le blatte e gli altri insetti che si moltiplicano nei condomìni perché i netturbini passano una volta ogni tanto (e i cortili diventano discariche in miniatura). La Capitale è sporca e i bambini si ammalano sempre di più. Infezioni, irritazioni, parassitosi. Nell'ultimo biennio, per i minori dai zero ai 6 anni, le patologie legate alla «scarsa igiene» in città sono cresciute del 20%, secondo i calcoli della Federazione Italiana Medici Pediatri. «Dietro a questo aumento c'è un mix di fattori spiega Teresa Rongai, segretaria della Fimp di Roma ma complessivamente si può dire che il problema è uno: l'igiene scadente». Una piaga che si declina in tanti, maleodoranti modi: «Non è possibile dice ancora la numero uno dei pediatri della Capitale che i bambini, per andare a lezione, in tante zone, siano costretti a superare i rifiuti come fossero ostacoli. O che debbano giocare nei parchi infestati dai ratti». Per non parlare dei palazzi, dove i condòmini hanno dovuto triplicare le disinfestazioni per disfarsi di topi e scarafaggi, come ha denunciato l'Anaci, l'associazione degli amministratori, uno scandalo finito sui giornali internazionali. I bambini «soffrono per lo stato in cui versa la Capitale», è l'allarme che arriva ora dalla federazione dei pediatri di Roma. «Gli effetti non sono sempre immediati ma le patologie legate alla scarsa igiene sono in netta crescita, dalle infezioni alle parassitosi. La verità - prosegue la segretaria della Fimp, Rongai è che oggi i genitori prestano una grande attenzione alla pulizia negli ambienti domestici. Ma è uno sforzo che rischia di essere vanificato o quantomeno compromesso se poi, quando esci, trovi i marciapiedi invasi dalla spazzatura o i roditori nelle ville pubbliche dove i bimbi vanno a divertirsi». Sui rischi per la salute dei minori si è già mossa, da tempo, l'Authority per l'infanzia e l'adolescenza della Regione Lazio. Il garante Jacopo Marzetti ha più volte scritto al Campidoglio, alla Pisana e al Ministero della Salute chiedendo di «adottare specifici provvedimenti» e «di effettuare azioni straordinarie, visto che la manutenzione ordinaria non riesce a garantire livelli di pulizia accettabili». La stessa Raggi, a fine settembre, rispondendo all'Autorità, ha ammesso «criticità igieniche» davanti alle scuole. «Il tema ha scritto la sindaca in una lettera del 24 settembre - è così rilevante che Ama ha già attuato un piano straordinario rivolto ai siti sensibili, nell'intento di porre soluzione proprio a quanto segnalato». La situazione però non sembra migliorata. «Nonostante lo sforzo dell'Ama di queste settimane, tanti istituti si ritrovano ancora oggi con i portoni lambiti dall'immondizia - denuncia Mario Rusconi, capo dell'AssoPresidi di Roma - le criticità non sono diminuite rispetto agli allarmi dei mesi scorsi e purtroppo questo può avere riflessi, in certi quadranti, anche sulle assenze tra i banchi». Che i cassonetti di Roma non siano mai stati così fetidi lo ha confermato anche il rapporto che l'Agenzia di controllo sulla qualità dei servizi ha spedito in Campidoglio il mese scorso. Gli ispettori dell'Autorità comunale hanno riscontrato un boom di miasmi provenienti dai bidoni: ancora per tutto settembre il 48% dei contenitori «emanava cattivo odore». Pensare che a gennaio i cassonetti maleodoranti erano il 16%. Va malissimo anche la pulizia delle strade: una su tre è sporca, hanno rilevato sempre i controllori dell'Agenzia comunale. L'obiettivo di pulizia fissato dal Campidoglio era del 92%. A farne le spese, a quanto pare, sono anche i bambini.

Roma, rogo al Baraka Bistrot: l'assedio criminale alla nuova movida di Centocelle. Aveva dato solidarietà alla "Pecora elettrica".  Il proprietario: "Non riaprirò più". E' il terzo locale distrutto dalle fiamme nel quartiere. Per gli investigatori le attività commerciali potrebbero essere prese di mira perchè disturberebbero lo spaccio di notte nel vicino parco. Ma i pusher potrebbero anche avere commistioni con frange dell'estrema destra e in particolare delle curve da stadio. Marino Bisso e Flaminia Savelli su La Repubblica il 9 novembre 2019. L'assedio criminale alla nuova movida di Centocelle non si ferma. Dopo "La pecora elettrica", la libreria antifascista data alle fiamme il 25 aprile scorso e obiettivo di un secondo atto doloso mercoledì notte, un altro incendio in un locale a Centocelle alle 4 di sabato mattina. Ad andare a fuoco il Baraka Bistrot in via dei Ciclamini, a due passi dal Forte Prenestino. Un locale dove si mangia, si beve e anche punto di ritrovo per i concerti. Un'atto, l'ennesimo, doloso: la serranda non sarebbe stata divelta. Il liquido infiammabile, presumibilmente benzina, sarebbe stato gettato da fuori e in pochi minuti ha distrutto tutto. Con questo sono quattro i locali andati a fuoco nel quartiere di Centocelle in pochi mesi. E prende sempre più credito l'ipotesi che dietro gli incendi ci sia la mano della criminalità interessata a controllare lo spaccio e i locali notturni del quartiere. Una malavita che sta colonizzando le borgate e che arruola tra le sue fila frequentemente personaggi immischiati anche con le tifosiere violente delle curve vicine all'estrema destra.

I proprietari. I proprietari del bistrot giorni fa avevano dato la loro solidarietà proprio alla "Pecora elettrica" che si trova a qualche centinaia di metri. Alle 4.19 di sabato notte era già tutto finito con i tavolini, le sedie e gli arredi interni ridotti a brandelli e cenere. Il Baraka Bistrot è un locale dove si mangia, si beve e anche punto di ritrovo per i concerti e di tanti ragazzi che frequentano anche il Forte Prenestino. L’allarme è scattato poco dopo le 4 del mattino ma quando i pompieri sono arrivati sul posto le fiamme avevano già distrutto gli interni del caffè di via dei Ciclamini. Evacuata a scopo precauzionale la palazzina in cui si trova il locale. L'incendio è stato poi domato ma non ha creato danni strutturali all'edificio. Sul caso indagano ora i carabinieri che stanno procedendo con vari accertamenti. Sono al vaglio anche le telecamere di sorveglianza della zona che potrebbero aver ripreso qualche movimento utile per identificare gli autori del rogo. "Avevamo chiuso alle tre di notte e alle quattro ci hanno chiamato, c'era l'incendio. Qui è tutto distrutto, è un disastro. Non c'e' un motivo per tutto questo. Mi sono venduto il taxi a luglio per aprire il locale. Nelle telecamere purtroppo si vede davvero poco, solo la porta aperta e nulla più" - spiega Marco Nacchia, proprietario del Baraka - "Abbiamo aperto da poco, a settembre. C'è poco da dire. Ripulisco tutto e basta. Non riaprirò. Non si può lottare contro una cosa che non sai cos'è. Ho appena ricevuto una telefonata della sindaca - ha aggiunto - che mi ha espresso sincera solidarietà". Lo scorso 5 novembre, il giorno prima della riapertura, un altro incendio ha distrutto la Pecora Elettrica, centro culturale e di aggregazione di via delle Palme. La libreria era già stata colpita dal fuoco doloso lo scorso aprile. Un incendio appiccato da una mano nemica ma non necessariamente esclusivamente per ragioni politiche come apparso in un primo momento. Dopo il primo incendio era scattata una gara di solidarietà per aiutare i proprietari nella ricostruzione. Con una campagna di crowdfunding, ma anche e con decine di iniziative che hanno mobilitato negozianti e gestori della zona la libreria era pronta alla riapertura. E invece  martedì notte le fiamme hanno distrutto nuovamente tutto il locale. Qualche giorno prima anche una pizzeria, sulla stessa strada, era stata bruciata.

La nuova movida di Centocelle. Il Baraka è uno dei primi locali ad aver aperto a Centocelle dando vita alla nuova stagione della movida che da qualche anno sta animando la vita notturna del quartiere. Un tempo quartiere della resistenza, ora questa zona di Centocelle è un nuovo avamposto della movida capitolina. Con la metro sono arrivati giovani e locali, tanti locali. "Ma anche lo spaccio e il racket", dicono i cittadini più anziani di Centocelle. Gli incendi degli ultimi giorni sembrano dargli ragione. I locali a Centocelle sono moltissimi, bar, enoteche, bistrot. Modaioli e pienissimi. Chi frequenta la movida alternativa a Roma sud ormai al Pigneto preferisce Centocelle dove un tempo al massimo c'erano osterie e trattorie. "Il sabato qui si riempie, pieno di giovani, i locali fanno affari. Forse anche la malavita vuole farli", dicono due signori che si definiscono vecchi abitanti di Centocelle.

L'indagine: l'ombra del racket, della droga e i legami con l'estrema destra. La piazza della nuova movida di Centocelle sarebbe al centro degli interessi di nuovi gruppi emergenti interessati ad avere un controllo del territorio. Di certo la piazza di Centocelle è ritenuta preziosa e la scelta degli obbiettivi, due su tre legati all'antifascismo, da incendiare non è casuale. Il sospetto dunque è che dietro ai fuochi ci sia la pista della droga. Un giro di spaccio “infastidito” dalle attività serali nel quartiere e che vorrebbe "governare" le attività nella nuova movida di Centocelle. Ma non ci sarebbe solo solo criminalità ma anche collusioni e simpatie con gli ambienti dell'ultra destra romana come più volte emerso in varie operazioni antidroga e inchieste che coinvolgono personaggi e frange delle tifosie violente diventate cassa di risonanza di gruppi neofascisti che si richiamano a simboli e ideologie neonaziste. Un filo conduttore collegherebbe le curve alle borgate. Ma non solo. Un squarcio di come sia mutato il controllo dello spaccio arriva da San Lorenzo, quartiere storicamente roccaforte della sinistra radicale, dove i pusher italiani hanno simpatie o collegamenti con l'estrema destra romana. E così Centocelle appare sempre più come la nuova frontiera della movida e dello spaccio da colonizzare che attira l'interesse di gruppi emergenti. Non della malavita storica del quartiere che non ha alcuno interesse a creare così tanta attenzione delle forze dell'ordine sul quartiere che ora rischia di essere "militarizzato" con danni inevitabili alle loro attività. E già nei mesi scorsi sono state diverse le operazioni portate a termine dalla polizia e dai carabinieri. A luglio 18 pusher sono stati arrestati durante una retata nella zona che ha portato al sequestro di 4,4 chili di sostanze stupefacenti, in particolare marijuana e hashish. A settembre un fruttivendolo è finito in manette: occultava le dosi tra le cassette del mercato rionale. Mentre il mese scorso 6 spacciatori sono stati fermati e sono state sequestrate centinaia di dosi pronte ad essere vendute. Tornando all'incendio del bistrot, nelle prossime ore arriverà in Procura l'informativa dei carabinieri. I magistrati apriranno un fascicolo e l'ipotesi di reato potrebbe essere quella di "incendio doloso aggravato" come nel caso del rogo di qualche giorno fa alla libreria antifascista 'Pecora Elettrica'. I fascicoli e le indagini sui roghi di centocelle potrebbero anche essere unificati. Sul nuovo rogo è intervenuta anche il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese: "Sono in corso le indagini da parte della magistratura per individuare gli autori di queste azioni criminali. L'attenzione e l'impegno del Viminale, ed in particolare del Prefetto e di tutte le Forze dell'ordine che operano nella capitale, sono al massimo".  E poi la ministra assicura: "Parteciperò al Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica che si svolgerà il prossimo 15 novembre per una attenta analisi della situazione della sicurezza a Roma ed individuare le iniziative necessarie per rafforzare l'attività di contrasto ai fenomeni di criminalità".

L'assemblea dei residenti. Tantissime persone si sono riunite in strada in via dei Ciclamini, a Centocelle, davanti alle serrande annerite del Baraka. Qui si è svolta un'assemblea all'aperto organizzata dai cittadini spaventati dagli ultimi fatti avvenuti nel quartiere in queste settimane. La riunione era stata programmata in un primo tempo nel parco di via delle Palme e poi trasferita per paura della pioggia nella sede dell'Associazione Crescendo in Libertà proprio davanti al bistrot incendiato. Forse per una coincidenza ma dato alle fiamme poche ore prima dell'appuntamento. Durante l'assemblea è stata annunciata una nuova passeggiata per la legalità o di "auto-difesa" alle 19 del prossimo giovedì 14 novembre.  "Siamo una comunità sotto attacco con interlocutori non credibili. Dobbiamo riprenderci il quartiere vivendolo e sviluppando luoghi di aggregazione e servizi. Militarizzare un quartiere non serve" hanno detto alcuni residenti e attivisti della "Rete antifascista territoriale Roma est".

Le reazioni.  "Roma è con il Baraka Bistrot e tutte le realtà che producono cultura e aggregazione a Centocelle" ha scritto sui social la sindaca Virginia Raggi che nel pomeriggio si è recata a Centocelle."Mai chiesto l'intervento dell'esercito. C'e' bisogno di tenere alta l'attenzione. Queste attività animano in quartiere che è vivo e vitale, di una vitalita' sana. Noi vogliamo assolutamente difendere e rafforzare la convinzione dei cittadini che le istituzioni ci sono - e ancora la sindaca - Dobbiamo rinforzare questa rete sociale che avete creato come esercenti. Le istituzioni devono aiutare. Cerchiamo di capire insieme quale possa essere la strada migliore". E intanto l'associazione Libera Roma lancira un appello: "Le fiamme vigliacche che hanno colpito. luoghi di cultura, di socialità e incontro, non fermeranno il percorso di crescita sociale di quel territorio. Questo percorso, ora più di prima, ha bisogno della risposta di tutti e tutte" spiega Marco Genovese. Libera e Rete dei Numeri Pari esprimono "vicinanza" alle attività colpite dagli incendi, alle persone di Centocelle, alle realtà associative e sociali del quartiere.  "L'unico antidoto agli interessi criminali e mafiosi, al loro potere violento, è l'affermazione di quei diritti sociali che da troppo tempo sono negati nella nostra citta' - continua Giuseppe De Marzo di Libera e della Rete dei Numeri Pari - diritto ad una casa, allo studio, diritto a muoversi, a curarsi, a vivere in un ambiente pulito e bello. Roma ha bisogno di essere governata dalla politica e di una visione di futuro. Quando la politica è debole, a governare sono gli interessi privati e quelli mafiosi", conclude De Marzo. Libera e Rete dei Numeri Pari invitano tutti e tutte a partecipare alla passeggiata solidale nel quartiere convocata per il 14 novembre alle prossime iniziative che si svolgeranno e coinvolgeranno Centocelle". Dopo il nuovo rogo molt altre le reazioni di indignazione. "Anche il Baraka Bistrot è stato distrutto dal fuoco doloso degli infami e dei vigliacchi. E' un attacco che non può vedere la comunità di Centocelle sola. I criminali che vogliono decidere le sorti del territorio vanno sconfitti, insieme. Nessuno deve restare indietro e ognuno, a partire dalle istituzioni, deve fare la sua parte con coraggio" commenta Gianluca Peciola, Movimento Civico per Roma. "L'attacco criminale al quartiere di Centocelle deve trovare nelle istituzioni una risposta durissima. Nell'esprimere solidarietà e vicinanza agli esercenti vittime di questo nuovo rogo diciamo da subito che non lasceremo nulla d'intentato per contrastare con tutti i mezzi a disposizione i delinquenti che vorrebbero la morte di una intera comunità - attacca il gruppo capitolino del Pd - Istituzioni e cittadini sono uniti contro criminalità e degrado. Sostenere ed incentivare chi vuole tenere vivo, attivo e vitale il quartiere e' un imperativo inderogabile. Come misura iniziale chiediamo alla sindaca Raggi di aiutare fattivamente gli esercenti colpiti dai roghi e incentivare la presenza della società civile organizzata in quei luoghi". E ancora Daniele Ognibene, capogruppo LeU in Consiglio Regionale del Lazio: "E'  necessario tornare in Piazza e difendere i valori della democrazia che vengono quotidianamente calpestati. E' l'ora della mobilitazione generale a fianco della cultura e dei luoghi di pluralismo dei nostri quartieri”.

«Spaccio e coprifuoco»: la bomba sociale nell’ex borgata Centocelle. Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 da Corriere.it. Una Roma dove tira «un’aria fetida e pericolosa», come dice Fiorella Mannoia, consuma il proprio autodafé nel quarto rogo di Centocelle. Tre da inizio ottobre più uno, il primo, in una data che è difficile ritenere casuale, il 25 aprile, su un bersaglio ancora meno casuale, la «Pecora elettrica», libreria e caffetteria dichiaratamente antifascista, all’angolo di via delle Palme: cuore di un’ex borgata un tempo rossa e pasoliniana, coatta e criminale, coraggiosa e partigiana (medaglia d’oro della Resistenza), adesso in bilico tra una gentrificazione stile Pigneto (movida e localini, apericene e caro affitti) e un balzo indietro verso il buio, forse voluto da padroni emergenti del narcotraffico benedetti dalla camorra. È difficile spiegare altrimenti l’ultimo incendio, quello dell’altra notte, nel pub «Baraka Bistrot», via dei Ciclamini 105, a forse cinquecento metri da «La Pecora Elettrica». Allarme alle 4, fiamme che divorano tutto in fretta: tavoli, bancone e sogni del nuovo gestore, un ragazzo dall’aria perbene, Marco Nacchia, che al mattino sta davanti alla saracinesca abbrustolita, con la moglie Marina piangente sottobraccio, senza futuro: «Avevo venduto la licenza del taxi per prendere questo posto a settembre... mi sono fatto un giro di un mese e mezzo ed è finita. Sì, sono assicurato, ma non riapro più. No, nessuno mi vuole male, ma no, niente nemici, macché, niente minacce». Naturalmente tutto è possibile. La stessa mano o mani diverse, l’unica certezza è il dolo. I primi incendi avevano un plausibile legame logistico. La «Pecora elettrica», bruciata per la seconda volta tra martedì e mercoledì notte, alla vigilia di una riapertura frutto di collette di quartiere, e la pizzeria «Cento 55», incendiata l’8 ottobre, sono dirimpettaie su via delle Palme e strategiche rispetto al parco Biavati, qui uno dei supermercati dello spaccio. La prima ipotesi porta dunque agli spacciatori, decisi a spaventare e oscurare la zona per prenderne il controllo (nel vicino Quarticciolo ci sarebbero bande attrezzate al salto di confine). Lo grida con efficacia Paolo Divetta, uno dei leader dei movimenti per la casa, nell’assemblea di ieri mattina, davanti al «Baraka» ancora fumante: «È il tentativo paradossale delle organizzazioni criminali di ripristinare la loro “legalità”. Ci dicono “giratevi dall’altra parte, fatevi gli affari vostri!”. Ma noi non possiamo essere governati da spaccio o coprifuoco alle otto di sera». Dopo il secondo rogo alla «Pecora Elettrica», sono scesi in piazza in duemila per riprendersi queste strade. «Abbiamo colto alla sprovvista gli spacciatori», dicono. L’incendio al «Baraka» però incrina in parte l’ipotesi logistica, il locale non affaccia sul parco dei narcos e comunque ha accanto un altro bar (più grande e più illuminato) aperto 24 ore al giorno (il padrone, romano di origine indiana, si appella alla «grazia della Madonna» per essere ancora indenne). Si riaffaccia dunque la pista politica, in fondo Marco Nacchia aveva espresso solidarietà alla «Pecora Elettrica»: che l’abbiano punito per questo? O, ancora, che tutto o quasi si risolva nel lavoro di un piromane seriale? Dopo l’incendio alla pizzeria «Cento 55» la polizia ha quasi colto sul fatto (e denunciato a piede libero) un tunisino non molto in sé, con addosso due accendini, una bottiglia di alcol, carta igienica e bruciature sparse. La verità, al netto delle sacrosante attese di giustizia delle vittime, è che in questo giallo conta poco chi sia il colpevole. Perché il vero rogo non divampa, ciclicamente, nei locali di Centocelle ma, già da un pezzo, nell’anima profonda dell’ex borgata dove Accattone dichiarò il suo amore a Stella davanti alla chiesa di San Felice da Cantalice. Gli attentati di questi mesi sono stati innesco e benzina di una bomba sociale. Basta fermarsi dall’altro lato di via dei Ciclamini ad ascoltare le voci e la rabbia dell’assemblea di quartiere improvvisata all’aperto da movimenti, comitati e collettivi che qui sono ancora, come quarant’anni fa, duri e radicati. Voci di dentro che diventano voci di fuori ora che, finalmente, Roma si accorge di queste strade. «Dobbiamo farci forza, nessuno ci aiuta». «Nemmeno il giorno dopo il rogo della “Pecora Elettrica” era illuminata via delle Palme, vergogna!». «Ci chiedono di andare a fare consegne in risciò ma nessuno toglie quell’albero abbattuto da settimane tra i due locali bruciati, vergogna!». «Raggi dov’è? Perché non è qui? Vergogna!». La sindaca deve aver fatto tesoro dell’esperienza toccata al suo predecessore Ignazio Marino, travolto dai fischi quando tentò di domare la rivolta di Tor Sapienza a novembre 2014. Si mantiene alla larga per tutta la mattina. «Avevo impegni istituzionali», dirà, piccata, comparendo alle quattro del pomeriggio, scortata dal presidente pentastellato del municipio. Ormai sono rimasti solo i giornalisti, la scena sarebbe surreale. Così le rintracciano in fretta e furia Flavia, proprietaria delle mura del «Baraka», che compare terrorizzata e piangente. In favore di telecamera Raggi mormora un «non vi lasceremo soli». La pioggia lava via con le promesse le ultime lacrime di Flavia. La spianata dove Pasolini in giacca e cravatta fu immortalato mentre giocava a palla coi pischelletti della borgata («buttarono le cartelle sopra un montarozzetto...») da un pezzo è cemento ed eroina.

Giancarlo Dotto per Dagospia l'8 novembre 2019. Cronache dal manicomio criminale di Roma. Questo non è il diario di un anno e nemmeno di un mese, ma di due giorni, uno e mezzo per l’esattezza. Tutto vero, giuro sull’unica testa di cui dispongo, che sia recisa da una scimitarra. Arrivo a Termini. Una traboccante discarica. Fai lo slalom tra i rifiuti e ti senti uno di loro, un rifiuto, una calpestabile cartaccia unta. “Sciopero dei netturbini, non prendono la paga da due mesi”, m’informano. M’infilo in un taxi dopo venti minuti di fila. L’uomo al volante non parla, non saluta, apprende quello che gli dici e va. Avesse ospitato un pinguino non sarebbe diverso. Non ha bisogno di un motivo per detestarti, basta che respiri. Non capisci se è laziale, se gli stai sul cazzo a prescindere, o se ce l’ha con la vita e lo capisco. Pago, scendo, lo saluto sapendo che non mi saluterà. Casa. Oasi. Ridiscendo. Appuntamento all’Eur. Lungotevere, direzione Roma sud. Mucchio selvaggio. Si procede a passo di mostro. Nella fiumana di macchine, gli scooter sono attentati alle coronarie. Schizzano negli interstizi, a decine, fanno la gimkana, ovunque, a sinistra, a destra, sopra e sotto, alcuni di loro bestemmiando e gesticolando. C’è qualcosa di feroce sotto quei caschi. Dentro le auto sudano claustrofobici testicoli e ovaie. Gli ergastolani al volante sono diventati zen senza saperlo, gli altri, la maggioranza, schiumano rabbia. Potenziali omicidi e potenziali suicidi. I pedoni sono il bersaglio da abbattere. Meglio se sulle strisce pedonali, sono più visibili. Un tassista senza cliente a bordo mi taglia la strada da sinistra a destra e, nel farlo, mentre inchiodo per evitarlo, estrae alla Stranamore un braccio dal finestrino e aziona la freccia. Nel farlo, vedo il suo faccione rabbioso che si sporge e mi urla cose truci. Lo affianco, mentre cerca d’infilarsi in una corsia non sua, abbasso il vetro e gli faccio con calma glaciale: “Perché fai l’isterico? Mi hai appena tagliato la strada”. Lui digrigna i denti, scuote la testa come un pugile suonato, si capisce che nel suo spartito non è previsto uno che ti affronta con lo stile di Gandhi ma potrebbe essere anche un serial killer o le due cose insieme. “Avevo messo la freccia…”, balbetta lui come uno scolaretto. “Devi essere più calmo…” gli faccio, in stile Don Matteo, come un buon padre a un figlio irreversibilmente idiota. Lui trova un pertugio e sgasa via. Da lunedì a oggi non escludo abbia ucciso la madre o una coppia di giapponesi che attraversavano sulle strisce pedonali. Il tutto dura non più di venti secondi. Dopo cinque secondi ho già un clacson dietro che mi strepita e mi sfonda la nuca. Cerco un coltello a serramanico in tasca. Non lo trovo. Non più di un chilometro dopo. Sto ancora smaltendo l’energumeno isterico di prima e un Suv dai vetri oscurati mi suona come se gli stessi pestando i genitali. Mi sta sorpassando a destra e credo voglia così censurare un mio impercettibile movimento che andrebbe a intralciare la sua volontà di potenza. Lascio stare. Ho esaurito Gandhi e non ho il coltello a serramanico. Vado oltre. Duecento metri e volto a destra, avendo segnalato con la freccia (una vecchia abitudine di cui non riesco a liberarmi). Quello di prima, il Suv, incollato alle mie terga, mi passa oltre con uno scarto da psicopatico e mi ristampa un’altra botta di clacson, il prolungamento del suo orribile cazzo tumefatto dall’odio. Non so decidere se sono più incredulo o più smanioso di uccidere. Faccio le mie cose. Ho una visita al “Fatebenefratelli”, un nome che suona improprio nella Roma di questi tempi. Ho appena spedito musicalmente a fanculo una specie di nazista in camice da dottore alla quale dovevo consegnare un’ampolla della mia sacra urina. “Posso farle una domanda?”, le chiedo con educazione oxfordiana. “No!”, mi risponde brutalmente. Penso tra me, giusto per darmi una spiegazione qualsiasi, di averla stuprata o di averle rubato l’argenteria di casa in una vita precedente. Esco dalla porta principale ancora scosso, attraverso il breve tratto di asfalto. Dalla curva arriva uno in auto che mi urla dal finestrino: “Che cazzo fai?!”. Cerco scampo. Non so cosa, ma devo averla combinata grossa. Un signore vicino che ha assistito alla scena mi fa, allibito: “Cosa voleva?”. Non lo so, vado a chiederglielo. È il mio istinto suicida. Lo riconosco. Ha appena parcheggiato. Mi avvicino e gli faccio: “Nel lontano 2001 una chiromante del luna-park all’Eur mi predisse che sarei morto un giorno per mano di un coglione. Ecco, mi sa che è arrivato il mio momento…”. Lui mi guarda come si guarda un esquimese sbucato da un igloo. È un signore non di primo pelo, dalla mascella suina. Mi ricorda qualcuno. Tace qualche secondo. Nel dubbio mi grida, con una piccola variante: “Che cazzo vuoi?!”. Una mano caritatevole di donna mi porta via. Non è arrivato il mio momento. Mi sento sotto assedio. È una comunità intera sotto assedio. L’orribile videogame di una città che ha smesso di rispettare se stessa. Decido di tornare a casa. Per oggi può bastare. Riesco la mattina dopo, solo perché non posso farne a meno. Infilo una strada alle spalle di piazza Mazzini, decido di girare a destra e dimentico per una volta di azionare la freccia. Dalla stessa strada, curvando a sinistra, una signora elegante apre il finestrino e mi urla incazzata come una iena a cui hanno appena divorato i cuccioli: “La freccia!!!!”. Stampato in faccia il manifesto dell’odio. Mi fermo. Per un attimo penso di fare dietro front e inseguirla. Non se più se sono Gandhi o Donato Bilancia. Nel dubbio, rinuncio. Sto diventando uno di loro?

Elena Panarella per ilmessaggero.it il 19 ottobre 2019. Largo Passamonti, parcheggio del Verano, lato scalo San Lorenzo. È qui che da mesi ormai c’è un vero e proprio “camping” che costeggia il muro del camposanto. Un popolo di vivi che abita accanto ai morti. All’inizio erano spuntate solo quattro-cinque roulotte. Con il passare del tempo se ne sono aggiunte molte altre, ora se contano almeno 35 intervallate da tende da campeggio e giacigli di cartone. Tutte posizionate una in fila all’altra, con alle spalle il muro che li separa dalle prime tombe dello storico cimitero della Capitale. Residence viaggianti e persone in abiti adamitici appena svegli. Questo è quello che vedono ogni giorno gli automobilisti che, una volta usciti dalla Tangenziale (direzione San Giovanni), escono all’uscita scalo di San Lorenzo. Subito dopo la prima curva, ecco il degrado: panni stesi, latrine a cielo aperto. Ma anche rifiuti, teli, ombrelloni, pezzi di mobilia varia. «Ma come è possibile aver lasciato crescere a dismisura una situazione simile - raccontano alcune studentesse che abitano in via dei Reti - nessuno parcheggia più l’auto in quello spazio: abbiamo paura». Venerdì alcuni uomini della Polizia locale sono stati minacciati con tanto di accetta alla mano, da un 27enne del Mali. Gli era stato chiesto di spegnere un falò e di esibire i documenti, ma il giovane, che bivaccava sotto il cavalcavia davanti al cimitero, nell’area del camping, più verso i giardinetti, non solo si è rifiutato, ma ha minacciato tre agenti del Pics (Pronto intervento centro storico) con un’accetta lunga almeno 30 centimetri. A quel punto è stato bloccato e tratto in arresto per minacce aggravate, resistenza, rifiuto di generalità e porto d’armi abusivo. Trovati in suo possesso anche alcuni oggetti, sui quali sono state avviate ulteriori indagini per stabilirne la provenienza. L’arresto è stato convalidato ieri mattina durante il processo per direttissima. Insomma, che la situazione in quell’area sia fuori controllo lo sanno bene da tempo i residenti. «Basta farsi un giro per rendersi conto della situazione, non ci sono troppe parole da aggiungere», dice seccato un anziano. E in effetti sullo spiazzo in bella mostra c’è di tutto e di più: tavolini, sedie, poltrone, fornelletti. «Io abito a San Giovanni - racconta la signora Marina - per venire a trovare i miei cari al cimitero parcheggiavo qui, era più facile anche perché sono sepolti poco dopo gli uffici dell’Ama. Ora è da mesi che non mi azzardo a venire con la macchina. Vengo con il tram, supero velocemente il cancello, porto un fiore, dico una preghiera e vado via. Ogni volta mi chiedo come sia possibile una cosa del genere, non c’è rispetto nemmeno per il luogo. Ma dove siamo arrivati...». Pensare che prima di questo accampamento, l’invasione di tende e casette di cartone era dall’altro lato della strada, più precisamente sulla collina del parco intitolato a Sante de Sanctis, padre della neuropsichiatria infantile italiana. Tra la vegetazione spuntavano giacigli di ogni genere: materassi, sacchi a pelo, lamiere. Qui camper e roulotte non potevano di certo entrare. Poi sono stati sgomberati e l’area è stata liberata. Dopo qualche tempo è stata occupata la zona davanti al cimitero. «È una situazione che abbiamo affrontato anche lo scorso martedì durante l’osservatorio territoriale per la sicurezza- spiega il presidente del II Municipio, Francesca Del Bello - Lunedì invierò una nota al Questore è una questione di ordine pubblico. Da soli non possiamo intervenire. Oggi si contano almeno 35 tra camper e roulotte. Ho parlato con la sala operativa sociale del Comune per intervenire in aiuto di alcune persone che hanno un disagio reale o comunque problemi di salute. Per il resto c’è molta gente che delinque, che vive al limite. E comunque la situazione è già grave».

Alessandro Fulloni per corriere.it il 19 ottobre 2019. Scene insolite alla periferia di Roma dove su un bus che fa servizio lungo una linea di periferia gestita da un consorzio privato il conducente ha caricato il suo scooter, un ingombrante Honda Silver Wing 400, sul torpedone. La segnalazione, con tanto di foto eloquenti, è stata fatta venerdì sera da Rinaldo Sidoli, ambientalista e portavoce di Alleanza Popolare Ecologista. Sul suo profilo Facebook Sidoli scrive che «un autista della linea bus 982 ha fatto scendere tutti i passeggeri seduti al capolinea Stazione Quattro Venti perché doveva caricare il suo maxi-scooter».

La testimonianza. Tutto è successo alle 17. «Il mezzo è ripartito con lo stesso autista — prosegue Sidoli — che addirittura non indossava una divisa. I passeggeri, dopo aver atteso circa 10 minuti la partenza del mezzo pubblico, sono stati costretti a scendere e prendere un altro mezzo di trasporto».

«Era agitato». «L’autista dell’autobus in stato di agitazione ha liquidato le persone che si trovavano a bordo con un laconico “l’autobus non parte” indicando l’uscita per poi occuparsi unicamente dello scooter», Il mezzo pubblico è poi ripartito nel senso di marcia della fermata, direzione viale dei Quattro Venti. Secondo altre fonti, il mezzo sarebbe stato a fine-servizio e per questo l’autista, diretto al deposito, avrebbe deciso di caricarsi l’Honda sul torpedone.

Rinaldo Frignani per il “Corriere della sera” il 20 ottobre 2019. Rischia il posto, oltre a una denuncia per interruzione di pubblico servizio e peculato. Prima però l' azienda per la quale lavora - la Roma Tpl - lo ha sospeso in via cautelativa e potrebbe anche ridurgli lo stipendio. «Ma io non ho ricevuto il cambio, ero a fine turno e non certo per colpa mia, mi hanno ordinato di riportare il bus al deposito in via della Maglianella. Avevo fretta, però, e soprattutto: chi mi avrebbe riportato a Monteverde a riprendere la moto?». È questa la giustificazione dell' autista del 982, ora finito sotto inchiesta. Le foto del suo scooterone Honda Silver Wing 400 caricato a bordo del bus al capolinea in viale dei Quattro Venti, con le porte automatiche aperte, ha fatto il giro del web e indignato. L' ultima testimonianza dello sfacelo del trasporto pubblico romano. «Non è vero che ho fatto scendere i passeggeri, ho solo detto loro che la vettura non sarebbe partita e che ne avrebbero mandata un' altra, visto che il collega che avrebbe dovuto darmi il cambio ha comunicato che era malato solo all' ultimo momento», dice ancora il conducente. Per i colleghi l' autista-motociclista ha commesso «una leggerezza», che peraltro non sarebbe la prima a Roma, dal momento che la Rete è piena di foto di moto e scooter caricati sui bus dagli autisti. Situazioni ormai abituali, tanto che a Monteverde nessuno fra i passeggeri arrabbiati, nemmeno l' autrice di quegli scatti, ha ritenuto di dover telefonare a polizia e carabinieri per denunciare l' assurdità della situazione, limitandosi invece a inviarli all' Alleanza popolare ecologista che ha poi reso nota la vicenda. E ora il Campidoglio, con l' assessorato ai Trasporti, sollecita la Tpl a effettuare «verifiche urgenti» sull' episodio e «adottare immediati provvedimenti».

Michela Allegri e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 18 ottobre 2019. Poco prima di quel boato tremendo, stava armeggiando con il cellulare, tenendolo con entrambe le mani: per qualche secondo, Misael Vecchiato aveva lasciato il volante del bus 301, diretto in centro. Poi, un grido e, alla fine, lo schianto contro un albero in via Cassia, con un autobus stracolmo di passeggeri. O almeno, è la ricostruzione dell'incidente avvenuto due mattine fa - i feriti sono una sessantina, nove sono in condizioni serie, ma non in pericolo di vita - fatta da un testimone ascoltato dagli inquirenti, che ieri hanno iscritto sul registro degli indagati il conducente Atac, 40 anni, con l'accusa di lesioni colpose aggravate. Circostanze e dichiarazioni sempre smentite dall'autista, ma che ora dovranno essere verificate dal procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e dal pm Gennaro Varone.

I TELEFONI. Ma le indagini si concentrano anche su un altro dettaglio. «Controllino pure tutto, l'ultima chiamata l'ho fatta a mia moglie un'ora prima», avrebbe infatti detto l'autista. Mentre suo padre ha dichiarato che Misael gli aveva detto di essere rimasto con un solo telefonino: quello personale, visto che quello aziendale lo aveva perso, o gli era stato rubato, «ha anche fatto denuncia ai carabinieri». Ma i telefoni sequestrati all'indagato sono due: li hanno trovati a bordo del bus gli agenti della polizia locale, gruppo Cassia, che stanno conducendo le indagini e che ieri hanno depositato in Procura una prima informativa sulla vicenda, quella che ha poi portato a formalizzare l'iscrizione sul registro degli indagati. Ora, quei telefoni dovranno essere ispezionati. Non solo controllando chat e tabulati telefonici, ma anche verificando gli ultimi accessi ad applicazioni e social network.

IL COLPO DI SONNO. Ma c'è anche un'altra possibilità: Vecchiato potrebbe avere avuto un colpo di sonno, un improvviso blackout, come lui stesso ha raccontato a un amico subito dopo l'incidente e come dichiarato da un testimone: «Prima di farci finire tutti contro l'albero si è addormentato. L'ho visto reclinare la testa di lato e chiudere gli occhi.  È per questo che il bus ha sbandato contro il pino», ha raccontato il passeggero del 301. Un passaggio che lo stesso autista potrà chiarire davanti agli inquirenti quando verrà ascoltato in qualità di indagato: l'interrogatorio è previsto nei prossimi giorni, visto che per il momento Vecchiato è ricoverato in ospedale.

LA PERIZIA. Ma c'è pure un terzo fronte di indagine: gli inquirenti hanno disposto una perizia sul mezzo, per verificare l'esistenza di eventuali guasti, o di anomalie di manutenzione. Un accertamento necessario, soprattutto dopo i risultati choc emersi da altre inchieste sulla municipalizzata dei trasporti: dagli interventi fantasma per aggiustare le scale mobili nelle stazioni delle metro A e B, fino ai pezzi di ricambio vecchi e usurati utilizzati per riparare i vecchi autobus che, poi, hanno preso fuoco.

Roma, la giornata a ostacoli di un romano tra borseggi e rifiuti, roghi e gabbiani. Pubblicato domenica, 13 ottobre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Roncone. Per i medici, l’immondizia è un pericolo: «Rischio concreto di emergenza sanitaria». Il centro è un suk di abusivi (davanti ai vigili). E le buche non risparmiano il suv di Dzeko. Il cielo, molto alto. La luce del mattino che timbra ogni oggetto. Al mattino presto Roma è ancora una città bellissima. Poi però la giornata comincia. Seguiteci.

Ecco la fermata Anagnina, capolinea della metropolitana-linea A. Luogo di cinque crimini recenti. Ma tanto una fermata vale l’altra: sensazione di pericolo imminente. Ogni passeggero è un bersaglio designato: 8 mila borseggi l’anno, ventidue al giorno. Bande di bambine nomadi veloci come locuste. E poi temute, eleganti coppie di sudamericani: lei appariscente, avanti, che distrae; e lui dietro, con dita di velluto. Da qualche settimana è tornato al lavoro anche un giapponese dall’aria innocua, soprannominato “Ninja”: appare e scompare, e tu sei ancora lì a cercare di capire come abbia fatto a sfilarti il telefonino dalla tasca interna della giacca. Possono aggredirti in qualsiasi istante. Anche adesso. In questa scena di folla biblica sulla banchina. Nel tanfo di muffa, di urina, di qualcosa andato a male.

Comunque: occhio a quella coppia di punkabbestia, attenti al loro Rottweiler senza museruola.

Fate piano, non spingete. Dentro il vagone l’aria condizionata è rotta. Tutto è sudicio. Sarebbe anche vietato fumare. Due criminali casertani di passaggio in città spaccarono il cranio a un povero cristo che aveva provato a dirglielo. Infatti, la regola è: fai finta di niente (la presenza dei vigilantes è impalpabile). E, se ci credi, prega. I guasti ai convogli sono quotidiani. E gravi. Un mese fa, un convoglio rimase bloccato tra le stazioni di Circo Massimo e Colosseo. Passeggeri costretti a scendere e camminare, in fila indiana, nel buio della galleria. Un anno fa, altri passeggeri, tra cui alcuni tifosi del Cska di Mosca, furono inghiottiti dalla scala mobile della stazione di piazza della Repubblica. Quella di piazza Barberini è chiusa dal marzo scorso. Venerdì hanno bloccato quella di Baldo degli Ubaldi.

Turisti increduli, negozianti furiosi. Fuori dalla pancia fetida di Roma. Cielo sempre alto, sempre azzurro. Ora però vengono giù in picchiata gabbiani grandi come avvoltoi. Gli uccelli atterrano sui cassonetti colmi di immondizia, e con i becchi aprono le buste. Se non sono sazi, iniziano la caccia a piccioni e topi. Topi enormi, spaventosi. I gabbiani attaccano anche gli esseri umani. Attaccarono Matteo Salvini, che sulla terrazza di un albergo si stava facendo uno dei suoi soliti video-selfie, e che provò a buttarla sul ridere, perché a quei tempi era ancora alleato di Virginia Raggi.

La sindaca grillina. Divenuta tragica metafora vivente, con la sua plastica incapacità di gestire la città, con dieci assessori cambiati in tre anni e mezzo più uno sempre in bilico, anni trascorsi entrando e uscendo dalla Procura di Roma, un interrogatorio dietro l’altro, un dossier dietro l’altro, per poi finire a riunirsi con i fedelissimi sui tetti - esatto: sui tetti - del Campidoglio e a evitare di commentare cronache zoologiche così: scrofa uccide un uomo di 50 anni, a Corcolle, periferia Sud-Est; a Ottavia, periferia Nord, i lupi sbranano due pecore; branchi di cinghiali avvistati nei vicoli di Trastevere; in via Ostiense, un motociclista muore schiantandosi contro un cavallo; volpe in piazza Cavour; nel quartiere di Bravetta, un toro a passeggio tra i negozi; un pitone attraversa, indisturbato, via Cipro. In via Cipro, a mezzogiorno, nessuno è ancora passato a raccogliere i rifiuti. L’odore prende allo stomaco. E’ così in ogni zona della città, dal centro storico fino in periferia.

Roma è una città infetta. Due settimane fa, ad appena tre mesi e mezzo dalla nomina, e in aperta polemica con la sindaca, accusata di “inerzia e mancata collaborazione”, si è dimesso il consiglio di amministrazione dell’Ama, l’azienda che si occupa - meglio: dovrebbe occuparsi - dei rifiuti. Per cercare di gestire l’emergenza, in novanta giorni, sono stati spesi 5 milioni di euro. Una cifra che non ha bisogno di commento. Come anche quest’altra: tra i 7800 dipendenti di Ama, il tasso di assenze è stabilmente sopra il 14%, ferie escluse. Significa che ogni giorno, nelle strade di Roma, ci sono oltre mille netturbini meno del previsto. Quelli che lavorano, di solito, hanno però l’aria stanca. Se li osservi attentamente, sembra ti stiano facendo un favore. Tra un cassonetto e l’altro, poi, si fermano al bar. Un caffè, due chiacchiere. I presidi: “Le Asl devono fare controlli e valutare la possibilità di chiudere gli istituti più a rischio”. L’Ordine dei medici: “Concreto rischio emergenza sanitaria”.

E’ così che muore il decoro della Capitale d’Italia. Anche esteticamente. Da quando Virginia Raggi è salita al Campidoglio, sono stati abbattuti oltre 10 mila alberi considerati malati o pericolosi e quasi nessuno di loro è stato sostituito. Gli alberi che resistono sono giganteschi, piegati dal peso di rami centenari: e ai primi temporali autunnali verranno giù, spezzandosi, crollando sulle macchine, sulle strade, e ostruendo i tombini. Roma si allaga come nemmeno più Bombay. Bombay, o a Maputo, ci sono certamente anche meno buche. Le ultime stime: sono circa 55 mila, dieci per ogni chilometro quadrato della rete stradale cittadina. I romani hanno imparato a guidare cercando di evitarle. I calciatori della Roma, ancora no. A metà settembre si sono lamentati ufficialmente: perché i suv di Dzeko, Perotti e Juan Jesus, ci finivano dentro regolarmente. Ora vederli arrivare per l’allenamento pomeridiano delle 15 è abbastanza comico: tutti ormai preferiscono viaggiare in utilitaria. La denuncia, infatti, non è servita. Giusto un paio di rattoppi. La strada continua a sembrare una strada bombardata Dzeko dice che gli sembra di stare a Sarajevo, però subito dopo la guerra. (Racconta Fabio Mazzarini, dell’omonima officina: “Ogni dieci minuti, entra un automobilista a chiedere aiuto”. Tipo di guasti? “Pneumatici bucati, cerchioni ammaccati…”. Per lei, quasi un business. “No, guardi: per me, è una pena. Io sono romano, e voglio bene alla mia città. E questa delle buche è una vergogna assoluta”). In alcune zone, per evitare di sprofondarci la notte, si sono organizzati cerchiando le buche con la vernice fosforescente. Alla Raggi è venuta un’idea geniale: invece che rifare il manto stradale, ha deciso di prevedere, in molte strade, il limite orario di 30 chilometri orari. A Roma ci si muove comunque molto lentamente. Il traffico strangola, pullman turistici fermi ovunque, taxi introvabili. Il centro storico è diventato un posto inaccessibile. E ostile. I motorini sono parcheggiati sui marciapiedi. Le automobili sostano regolarmente anche nelle zone pedonali. Il colpo d’occhio, in piazza Farnese, giusto davanti l’ambasciata di Francia, è mortificante. Come chiedere spiegazioni ai vigili urbani. (Buongiorno. “Serve qualcosa?”. Una curiosità: perché quelle auto sono parcheggiate lì, intorno alla fontana? “Quali auto?”. Quelle. “E che ne so, io? Boh”. Non è area pedonale? “Avranno un permesso…”. No, non hanno alcun permesso. “Ma lei che vuole?”. Vorrei capire perché non le multate, e non chiamate il carro-attrezzi. “Ah bello… ma che niente niente voi fa’ er lavoro mio, eh?… ‘anvedi questo. Ma chi sei? Ma che vvvoi? Ma vedi de fatte un giro, va”). Piazza del Pantheon: altra coppia di vigili urbani. Uno fuma. L’altro manda messaggi con il cellulare. Intorno, qualcosa di simile tra un suk e la pista di un circo. Giocolieri, acrobati, due tipi che avanzano sui trampoli, e poi venditori ambulanti di borse e collane, uno che vende bottiglie d’acqua su un banchetto da picnic. I fotoreporter Giuliano Benvegnù e Claudio Guaitoli fermano le stesse scene a piazza Navona e al Colosseo (qui, anche l’abominevole presenza di ceffi travestiti da centurioni, che quasi taglieggiano i turisti). Nessuno interviene.

Città fuori controllo. Infatti poi all’Antico Caffè di Marte, vicino San Pietro, a una coppia di turisti giapponesi hanno fatto pagare un conto di 430 euro per due piatti di spaghetti e una bottiglia d’acqua. A quest’ora, le fermate dei bus, senza pensiline, sono affollate da una umanità dolente. Sotto il sole a picco d’estate, al gelo d’inverno. Tornare a casa è un’avventura. Il ritardo è solo una variabile. L’altra, sono gli incendi. L’anno scorso, 21 bus in fiamme. Quest’anno, siamo già a 22. (Conducente linea 628. «Circoliamo su delle bombe. Un occhio al traffico, uno al fumo che può uscire dal motore. Ad agosto sono dovuto scendere con l’estintore. L’azienda è allo sbando»). S’intuisce da un dettaglio: ormai molti autisti non indossano più la divisa. Chi guida in maglione, chi con la felpa della Lazio. Compaiono all’improvviso. Un cartone, una coperta. Costruiscono le loro tane fuori dalle stazioni, nei controviali, davanti l’ingresso della sala stampa vaticana. I senza dimora, a Roma, sono 8 mila. («Una situazione drammatica che però sarebbe persino risolvibile, nel lungo termine, se solo si rifiutasse l’idea di affrontare tutto sempre e solo nell’emergenza», dice Augusto D’Angelo, uno dei responsabili della Comunità di Sant’Egidio). La sindaca Virginia Raggi, come sempre, a quest’ora sarà già nel suo letto. Da qualche giorno, raccontano, ha ripreso a dormire serenamente tra due guanciali caldi. Il suo. E quello che le ha regalato il Pd, nuovo e inatteso alleato

L. De Cic. per “il Messaggero” il 4 novembre 2019. Tre hot dog e un panino prosciutto e formaggio, più 4 lattine di Coca Cola e un'acqua. Totale: 119 euro e 34 centesimi. Quasi venti euro (17,34) solo per il «servizio». È il conto che si è vista recapitare una famigliola di turisti pugliesi in gita nell'Urbe. Mamma, papà, due figli di 11 e 15 anni al seguito. Uno spuntino salato non tanto per gli ingredienti, ma per il portafogli del babbo. Un'altra stangata Capitale ai turisti, stavolta in via della Conciliazione, dopo lo scontrino da 430 euro a due giapponesi sempre in zona Castel Sant'Angelo, caso che ha fatto discutere parecchio a fine settembre, con tanto di blitz della Municipale nel ristorante. Dopo quell'episodio, il Campidoglio ha promesso una stretta: una sorta di bollino «anti-frode» per aiutare i turisti a schivare i locali che calcano la mano sui prezzi. La proposta, però, non è ancora diventata operativa. Spiega Carlo Cafarotti, assessore al Commercio della Capitale: «Ogni strategia a tutela della qualità per i turisti sarà declinata a Futuroma, il 13 novembre». Insomma tocca pazientare. E a chi va in giro per monumenti non resta che consigliare di controllare sempre il menù, per evitare spiacevoli sorprese a fine pasto. Racconta Leo Recchia, 47 anni, il papà che ha pagato 120 euro per i 4 panini e le bibite: «Sabato, il 2 novembre, avevamo appena finito di vedere i Musei Vaticani e la Cappella Sistina, fuori aveva iniziato a piovere, quindi ci siamo infilati in questo caffè. Ci siamo seduti, mio figlio ha scelto l'hot dog sul menù. Sono sincero, non ci ho badato molto, ne abbiamo ordinati altri due, più un panino». Poi è arrivato il cameriere, con lo scontrino. «Ventidue euro per ogni hot dog. Un würstel con le patatine... Quasi 20 euro di servizio. Pensare che la sera prima eravamo andati a un ristorante dietro al Pantheon: abbiamo speso lo stesso, ma per una cena completa». Il direttore di sala di questo caffè in via della Conciliazione, non sembra stupito quando gli si chiede conto della ricevuta: «Abbiamo avuto altri casi del genere, altre lamentele - racconta - ma i prezzi stanno sul menù, potete controllare, poi siamo vicini al Vaticano, costa». Centoventi euro per 4 panini e qualche bibita? «Non possiamo dire che sono prezzi popolari. Il caro o non caro, però, è una questione soggettiva».

Buche di Roma: morire in strada a 20 anni e la Raggi cosa fa? Le Iene il 9 novembre 2019. Luca Tosi Brandi come Elena Aubry. Due giovani 20enni morti per le buche di Roma. Perché i soldi destinati alla manutenzione delle strade finirebbero spesi in altro? Cristiano Pasca è andato a chiederlo alla sindaca Virginia Raggi, come potrete vedere nel servizio che andrà in onda a Le Iene domenica dalle 21.15 su Italia1. Le buche di Roma continuano a uccidere. E i soldi destinati alla sistemazione delle strade verrebbero spesi per altri acquisti. Cristiano Pasca è andato a chiedere conto alla sindaca Virginia Raggi. Qui sopra vi proponiamo un’anticipazione del servizio completo che andrà in onda domenica sera dalle 21.15 su Italia1. Il 6 maggio 2018 per una maledettissima buca è morta Elena Aubry (clicca qui per il servizio di Cristiano Pasca). Lo stesso destino è toccato il 12 dicembre 2018, Luca Tosi Brandi aveva 20 anni e quel giorno stava tornando a casa dopo aver preso un bel voto a un esame all’università. A un certo punto forse proprio una buca gli avrebbe fatto perdere il controllo della sua moto. “Si vede il ragazzo che arriva in motorino, entra in una buca al centro della strada. E in quel momento inizia a perdere il controllo del mezzo e va purtroppo a schiantarsi contro lo spigolo di una villa”, ricostruisce Domenico Musicco, il legale della famiglia di Luca. Effettivamente guardando il video sembrerebbe che il ragazzo avrebbe perso il controllo del mezzo subito dopo che la ruota anteriore è entrata in una buca: “La colpa è dell’Amministrazione”, conclude il legale. “Io non ho più riabbracciato mio figlio, l’ho visto poi dentro a un sacco”, dicono i genitori. Intanto sulle strade di Roma si continua a morire. Cristiano Pasca chiede alla sindaca Virginia Raggi perché questi soldi verrebbero spesi in altro.

Buche di Roma, un altro morto a 20 anni. La Raggi cosa fa? Le Iene il 13 Novembre 2019. La Procura di Roma indaga sui soldi provenienti dalle multe mentre nella Capitale si continua a morire per le buche. Con Cristiano Pasca vi raccontiamo dove vanno a finire questi fondi che dovrebbero servire alla manutenzione stradale. Nonostante le infinite promesse, la gente di Roma continua a morire per le buche nelle strade. Vi avevamo già parlato di Elena Aubry, motociclista 25enne morta per una maledettissima buca in strada. Siamo a Novembre 2019 e i morti causati dagli incidenti aumentano. Tra questi ci sono 80 motociclisti (uno ogni 4 giorni), 20 di loro sarebbero scomparsi per problemi nella manutenzione stradale. Per buche, tombini, radici. Vogliamo fare qualcosa? “La capitale europea degli incidenti stradali è Roma”, dice l’avvocato Domenico Musicco, legale della famiglia di Luca, morto così. I problemi della manutenzione stradale intanto sono stati risolti solo parzialmente, con interventi che limitano i danni, invece di lavori definitivi. E non solo, ci sono decine di vite perse per assurdità: Elena e Luca sono testimonianze tragiche. Vi facciamo vedere il video nel momento della morte di Luca. Il ragazzo arriva in motorino, entra in una buca al centro della strada, dove perde il controllo del mezzo. Va a schiantarsi contro lo spigolo di una villa ed è lì che cade a terra morendo. Di chi è la colpa? “La colpa è dell’amministrazione”, dice Domenico Musicco, da legale le famiglie di Luca e Elena. Ci sarebbe anche un risarcimento per la famiglia della vittima. “Del risarcimento non ci interessa. Il comune però, per una rosa poteva trovare 1 euro perché è morto per una buca”, ci dicono i genitori di Luca. “Non auguro a nessuna mamma un dolore del genere, voglio solo che non succeda più con gli altri”. E invece, succede ancora… L’ultimo caso è quello di Edoardo morto sulla tangenziale. Sarebbe stato ucciso anche lui da una buca. Torna con gli amici, perde il controllo del mezzo e sbatte contro un palo: aveva solo 23 anni. Le foto riportate da tutti i giornali fanno vedere la striscia fresca di asfalto esattamente nel posto in cui è morto. E proprio su quel “lavoro fresco" sono già presenti degli avvallamenti. Ma è davvero impossibile trovare fondi per la manutenzione stradale? Una legge indirizza il 50% proventi delle multe alla manutenzione delle strade. Negli ultimi anni sono stati raccolti 890 milioni di euro: non bastano per coprire le buche? Carlo Rienzi, presidente dell'associazione di consumatori Codacons, ci presenta il conto di alcune spese: 267 mila euro per il vestiario della polizia di Roma, 27mila euro per accessori di ufficio, 121mila per armi e munizioni e 45mila per musei e pinacoteche.  Cristiano Pasca va a parlarne con la sindaca Virginia Raggi. "Quanti ne devono morire prima che qualcuno faccia quello che deve fare?", chiede la mamma di Luca.

Roma buca aperta. E' la città più pericolosa d'Italia per morti ed incidenti causa manto stradale dissestato. Ed ora indaga la Magistratura. Carlo Puca il 4 ottobre 2019 su Panorama. «Con la macchina sono entrato in una voragine a Piazza Venezia e sono risbucato direttamente a San Pietro…». C’era una volta l’ironia sulle buche di Roma, quando freddure memorabili gigioneggiavano sulla sindaca Virginia Raggi e l’incapacità della sua giunta a riparare il manto stradale più dissestato d’Europa. Ora, però, il politicamente corretto imposto dal nuovo governo nazionale (altrimenti detto «giallorosso») ha diramato i suoi effetti pure sul governo locale «giallo e basta». Tuttavia, non è un male. Perché per anni battute, frizzi e lazzi sono serviti a occultare un effetto tragico, il record italiano di incidenti e una strage quotidiana. Sulla mancata manutenzione delle strade della Capitale, la magistratura ha aperto un’inchiesta che invece di pedoni, automobilisti e motociclisti potrebbe stavolta travolgere il Campidoglio. Prima i dati, impietosi. Nel primo semestre del 2019 si sono verificati in città 15 mila sinistri: il 67 per cento degli incidenti riguarda le auto, il 20 moto o scooter, il resto pedoni e ciclisti. Soltanto fino alla metà di settembre del 2019 Panorama ha contato 103 «morti di strada» nell’area metropolitana di Roma. Non dipendono tutti dalle buche, ma almeno il 30 per cento sì. Quanto al 2018, il conteggio di Aci-Istat indica Roma come la città più pericolosa d’Italia con 143 morti, un dato inconcepibile se confrontato con le 49 vittime di Milano, le 33 di Torino, le 32 di Napoli. Dunque, un terzo degli impatti più devastanti nelle metropoli italiane avviene a Roma (143 su 445 in totale). Tra l’altro, rispetto al 2017, a Roma i decessi sono cresciuti da 129 a 143 ed è grave anche la situazione dei pedoni: nelle 14 metropoli, le vittime sono state 152 in tutto il 2018, e oltre un terzo sono nella Capitale. «Le strade romane non solo hanno bisogno di asfalto, ma anche di una riprogettazione con elementi fisici che rallentino le velocità e proteggano pedoni e ciclisti. Altrimenti la Polizia locale interverrà sempre dopo gli eventi e mai prima» denuncia Stefano Giannini, segretario romano del Sulpl Diccap, il sindacato degli agenti delle municipali: «L’amministrazione si riempie bocca e social con le strade nuove, ma sono sempre le stesse con un po’ di maquillage, una semplice aggiunta d’asfalto». Giannini ha ragione da vendere, il «maquillage» può uccidere, anzi lo ha già fatto. Il caso più eclatante è del 24 luglio 2019. Edoardo Giannini, un ragazzo di 23 anni omonimo del sindacalista, si è schiantato dopo aver perso il controllo del suo scooter, per colpa di una buca, rattoppata per tre volte nelle settimane precedenti l’incidente. Insomma, nonostante l’intervento degli operai, la strada si è poi crepata più volte. Fino all’impatto in cui è morto Edoardo. A proposito di maquillage, l’inchiesta aperta dalla Procura di Roma per omicidio colposo (dopo la denuncia depositata dai familiari del ragazzo) chiarirà la qualità dei rattoppi e il fatto, grave, che per 72 ore nessuno sia intervenuto a sistemare l’ultima voragine apertasi sul selciato. Tra l’altro al centro delle indagini c’è un’arteria fondamentale, la Tangenziale est, all’altezza dello svincolo di viale Somalia, una delle strade cruciali per la viabilità. Ecco, in quel tratto la gestione spetta a un dipartimento del Campidoglio che si chiama «Simu» (Sviluppo infrastrutture e manutenzione urbana). Proprio come nel caso della via Ostiense, sulla quale è morta Elena Aubry. Elena era una bella ragazza di 25 anni. Studiava da avvocato e ha avuto l’incidente il 6 maggio 2018, tra la stazione di Ostia Antica e quella di Lido Nord, un tratto tormentato da abnormi rigonfiamenti per le radici degli alberi che, in molti casi, spaccano l’asfalto. Le sue spoglie, tuttavia, hanno trovato pace solo il 12 maggio 2019, a più di un anno dalla morte, quando i magistrati ne hanno autorizzato la sepoltura. In questo giorno malinconico sua madre Graziella ha trovato l’affetto spontaneo di centinaia di motociclisti sconosciuti ma accorsi per abbracciarla. «Guardando quella folla di ragazzi mi è venuto da chiedermi» ha detto in lacrime Graziella «come fare per impedire che altri muoiano per motivi tanto banali? Chi li proteggerà?». Appello più che mai opportuno. Troppi giovani muoiono con facilità sulle strade di Roma. Come Luca Tosi Brandi, appena vent’anni d’età e già una persona speciale. Fin da bambino, infatti, aveva imparato a prendersi cura del fratello maggiore, colpito da una grave malattia. Proprio per questo aveva maturato un obiettivo: aiutare le persone in difficoltà, come se il mondo dei disabili fosse una grande famiglia allargata. Si era quindi iscritto a Scienze infermieristiche e dava gli esami da studente modello. Quel mercoledì di dicembre del 2018 saluta la fidanzata e i professori, monta in sella alla sua Yamaha, imbocca via di Labaro a Roma Nord e si va a schiantare. Una testimone, una badante sudamericana, lo vede sbandare paurosamente su una serie di avvallamenti dell’asfalto prima del numero civico 125. «Andava a zig zag, non riusciva a riprendere l’equilibrio della moto, mi sono scansata per evitarlo, poi è andato a sbattere contro un muro» ha raccontato alla mamma del ragazzo, Antonella Grenga, che per rintracciarla ha bussato a tutte le porte del quartiere. «Non riesco a darmi pace: non si può perdere un figlio per colpa di una buca. Anche se vai piano in moto, su un asfalto disastrato, non c’è scampo. Quanti altri ragazzi dovranno morire? E quante altre mamme moriranno di dolore con loro?», si chiede oggi Antonella. Le due donne, Antonella e Graziella, si sono unite nel dolore e nella guerra alla sciatteria del Campidoglio e hanno preso come avvocato Domenico Musicco, presidente dell’Associazione nazionale vittime incidenti stradali. Musicco ha le idee chiare sull’argomento, maturate con l’esperienza: «Le carenze infrastrutturali causano il 30 per cento degli schianti mortali. Buche ovunque, strisce che si cancellano, segnaletica carente». E Roma, aggiunge, «è in pole position». Parallela corre la battaglia dei consumatori del Codacons. Il suo presidente, Carlo Rienzi, considera «il bilancio delle vittime sulle strade di Roma un bollettino di guerra». È evidente, aggiunge «che esiste un problema di sicurezza stradale nella Capitale, causato sia dalla carenza di controlli da parte delle forze dell’ordine sia dalla drammatica manutenzione delle strade, con buche e voragini che rendono sempre più insicuro l’asfalto». Per ora, purtoppo, la strage va avanti.

Stefania Piras per ilmessaggero.it il 4 ottobre 2019. Alla manifestazione di Matteo Salvini, il Campidoglio ha risposto con un vassoio... di mojito. In cima alla scalinata dell'ingresso di Palazzo Senatorio il nuovo capo staff di Virginia Raggi, Massimo Bugani, l'assessore al Personale Antonio De Santis e il capogruppo M5S  Giuliano Pacetti si sono muniti di menta e zucchero di canna per preparare dei pestati accompagnati da cartelli con su scritto: "Questo non è il Papeete", "Non era un mojito ma un Moscow Mule", "Dal mojito al white russian è un sorso", "Salvini chiacchierone Roma non ti vuole". «Alla politica dell'arroganza rispondiamo con il sorriso. Avevamo preparato anche il white russian e il moscow mule, ma un buon mojito non si nega a nessuno», dice Massimo Bugani che reggeva il vassoio. L'assessore De Santis, immortalato mentre agguanta il tumblerone di mojito, scrive sulla sua bacheca social: «Oggi abbiamo rivissuto l’ebbrezza estiva del Papeete grazie alla visita di Matteo Salvini in Campidoglio». «Poco fa Salvini è arrivato in Piazza del Campidoglio accompagnato da qualche leghista convinto di essere al Papeete. Basta chiacchiere da Ministro non hai fatto nulla. Roma aspetta ancora i poliziotti che avevi promesso», dice invece il capogruppo Pacetti. Insieme a lui c'erano diversi consiglieri della maggioranza pentastellata: da Angelo Diario a Carlo Chiossi. I leghisti per tutta risposta hanno replicato in coro: «Giggino portaci da bere».

Da “Circo Massimo - Radio Capital” il 4 ottobre 2019. L'emergenza rifiuti di Roma continua. E il consiglio di amministrazione della municipalizzata Ama si è dimesso pochi giorni fa. "Dei sei consigli di amministrazione che si sono succeduti l'uno dopo l'altro, noi siamo i primi che si sono dimessi revocando la fiducia al socio, mentre tutti gli altri sono stati revocati dal socio. C'è una differenza fondamentale", dice a Circo Massimo, su Radio Capital, l'ad dimissionario Paolo Longoni. Come si risolve il problema dei rifiuti a Roma? "Facendo impianti. Ma dalla sindaca abbiamo avuto come risposta no agli inceneritori, no alle discariche, solo raccolta differenziata, e in più ci ha detto che devono diminuire i rifiuti. Tre di queste quattro cose", spiega il manager, "non sono nella possibilità di Ama, perché gli impianti non può farli Ama - potrebbe se fosse destinataria di risorse per gli investimenti - e perché far diminuire i rifiuti non è un'attività che può svolgere la società che fa la raccolta". Però si possono togliere i rifiuti dalle strade: "Sì, e metterli dove?" "Il problema si risolve nel breve termine continuando a operare sotto emergenza, cioè costringendo gli impianti ad accettare rifiuti anche in maniera coercitiva", continua Longoni, "Ci sono state ordinanze della regione Lazio che ci hanno consentito a luglio e ad agosto di ripulire per intero la città nel giro di 4 giorni. E nel medio termine bisogna incentivare il più possibile e portare la differenziata ai livelli massimi possibili delle grandi città - Milano e Venezia sono virtuose e sono al 56%, Roma è attorno al 40 - e poi dotare la città e la regione di impianti. Non c'è una strada terza. E Ama deve al suo interno diventare efficiente, perché non lo è, visto che ha una serie di problemi interni consolidati di inefficienza e malfunzionamenti che derivano da trascuratezze del passato, derivate anche dalle gestioni". Dopo questa esperienza, il giudizio sulla sindaca di Roma non è positivo: "Se Raggi è all'altezza del ruolo? Non sono in grado di rispondere. So che noi abbiamo tolto la fiducia al socio perché non sapeva fare il socio", chiude Longoni.

 Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 16 ottobre 2019. Multate o sarete multati. Mentre i cassonetti continuano a sputare immondizia su strade e marciapiedi dell'Urbe perché i camion dei netturbini non passano, l'Ama, la municipalizzata dei rifiuti, ha deciso di spedire 300 dipendenti a fare sanzioni. Non si tratta degli ispettori in forza alla società del Campidoglio, quelli che da contratto devono far questo, controllare e punire, ma di capi-squadra di netturbini e spazzini, impiegati, perfino qualche dirigente. Insomma, gente assunta per altri incarichi - per esempio gestire la raccolta della spazzatura... - e che come extra, d'ora in poi, darà la caccia a chi lascia i sacchetti fuori dai bidoni, anche se spesso sono stracolmi e non ci sono alternative. L'ordine di servizio sfornato poche settimane fa dall'azienda comunale mette in chiaro che chi non staccherà le multe, sarà a sua volta multato: «Il mancato esercizio dell'attività di controllo/repressione - si legge nella circolare - sarà considerato infrazione disciplinare e come tale sanzionato». La misura sembra andare contro le indicazioni arrivate nelle ultime settimane dal Campidoglio. Dopo il caso delle multe beffa a pensionati e casalinghe, colpevoli in tanti casi di avere lasciato soltanto una busta accanto ai contenitori traboccanti di pattume, la giunta di Virginia Raggi aveva schiacciato sul freno, chiedendo ai vigili e agli accertatori dell'Ama di verificare che i cassonetti siano effettivamente «disponibili e fruibili» prima di procedere con le sanzioni. Perché cosa sacrosanta è punire gli incivili che sporcano e oltraggiano Roma - la propaganda social di Raggi li chiama #zozzoni - ma fino a quando la crisi non sarà rientrata, con tanti bidoni di fatto inservibili, rischia di essere colpito dalle multe anche chi non può fare altro che lasciare i sacchetti a terra. L'Ama però sembra tirare dritto. E ha deciso di «potenziare le attività di controllo e repressione dei comportamenti costituenti violazione ai divieti previsti dal Regolamento comunale sul corretto conferimento dei rifiuti», come si legge nell'ordine di servizio. Va detto che la decisione risale a prima che l'ultimo Cda si dimettesse, a inizio ottobre - è il settimo cambio ai vertici di Ama in 3 anni di giunta grillina - quindi tocca capire cosa pensa dell'iniziativa il nuovo amministratore unico, il manager Stefano Zaghis. Si vedrà. Per il momento sono già stati consegnati i blocchetti dei verbali a 300 dipendenti che, come detto, di norma dovrebbero svolgere altre mansioni, ma che hanno in tasca da tempo l'abilitazione per far multe. E l'ordine è chiaro: o sanzionate o sarete sanzionati. Un passaggio, tutto evidenziato in grassetto, che sembra spingere i dipendenti a fare più contravvenzioni possibile, pur di evitare la contestazione disciplinare. «Finora gli accertatori dell'Ama erano solo 38 - dice Alessandro Bonfigli della Uil - ma ormai 1 su 5 si assenta, quasi tutti per stress: non è facile sanzionare i cittadini, in questa situazione». Viene da chiedersi: ma è il caso di accelerare sulle multe con la città ridotta così? Miglioramenti in vista non se ne vedono, anzi. La Capitale, già in sofferenza, si appresta a vivere un periodo ancora più tribolato, dato che ieri è scaduta l'ordinanza della Regione che obbligava tutti gli impianti del Lazio ad accettare gli scarti di Roma. Ora questa rete di sicurezza non c'è più. Anche se il piano con le alternative - come i rifiuti all'estero - non è ancora partito. Il rischio è che le strade diventino ancora più sporche e i cassonetti sempre più pieni. Le multe a chi lascia una busta a terra accanto a montagne di sacchetti non raccolti e ai contenitori inutilizzabili, intanto, «continuano ad arrivare», come racconta Olga Mannarino, 67 anni, pensionata de La Storta, la prima a far partire i ricorsi contro il Campidoglio. «Qui nel quartiere le notifiche dei vigili non si sono fermate, nonostante le promesse del Comune. Abbiamo dovuto pagarci un avvocato. Un'altra spesa, dopo la Tari che qui a Roma è tra le più alte d'Italia...».

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 16 ottobre 2019. Se vuoi fare la iena, beh, allora fai la iena e non il coyote con la coda tra le gambe. Se vuoi atteggiarti a giornalista - che è cosa diversa da una iena televisiva - allora fa' il giornalista e mantieni la schiena dritta, cioè difendi il tuo lavoro senza caracollare penosamente e senza farti sballonzolare come un turacciolo nell' oceano. Insomma, ne abbiamo di tempo per sparlare del gregge grillino ignorante e vigliacco, lo facciamo da anni: per intanto mettiamo in chiaro che Filippo Roma, professione Iena, non ci fa particolare pena, anzi, non merita solidarietà più di tanto: perché se vai a palesemente a cercartela, va a finire - tu guarda - che la trovi, e che le tue pose vittimistiche sembrano solo patetiche.

Riassunto: un inviato della trasmissione Le Iene (gente che di mestiere, anzitutto, disturba) sabato si è appalesato durante la festa grillina alla Mostra d' Oltremare di Napoli, e ha quindi cercato di fare il suo discutibile ma lecito lavoro (disturbare, appunto, e fare domande fuori luogo e senza vergogna) e ovviamente alla festa dei Cinque stelle era pieno di militanti dei Cinque Stelle, e pure dei più fanatici: altrimenti quel giorno avrebbero fatto di meglio. Quello che è accaduto, oltretutto, sarebbe accaduto se la Iena fosse andata a Pontida a rompere le palle a Salvini o a una festa dell' Unità a rompere le palle a Zingaretti o persino a casa mia a rompere le palle a me. Cioè: tu vedi una Iena, cioè un intruso che non è neppure un già detestato giornalista - formalmente e praticamente, Le Iene non lo sono - e, anche se sei stupido, capisci che può solo venirne del male: che fai, gli stendi passatoie?

Non ne avevano stese neppure ai giornalisti normali che si erano ammassati attorno a Virginia Raggi (sindaco di Roma, dicono) per raccogliere qualche sua dichiarazione: ai grillini i cronisti davano fastidio, erano sgraditi, i militanti cercavano spazio per stringere la mano e scattare una foto con la sindaca, contenti loro. E allora «Buffoni», «Via i giornalisti» e solito teatrino, ma quando hanno visto l' archetipo del teppismo giornalistico, l' inviato Filippo Roma, che è successo? Anche qui: niente di che, a guardare il video. Anzitutto il più violento è stato dapprima Filippo Roma (che ha fatto l' ariete per aprirsi un varco nel canaio) dopodiché gli uomini del servizio d' ordine più un paio di ragazzotti l' hanno sospinto via, mentre qualcuno gli urlava «venduto» (ma non faceva male) e un cerebroleso cercava di dargli una specie di sberla andata clamorosamente fuori bersaglio, ma inquadrata e ri-inquadrata al rallentatore dai vittimisti professionali delle Iene.

Poi? In pratica basta, finita lì, anzi neppure iniziata: il servizio d' ordine l' ha accompagnato in un recinto riservato anche ad altri animali e, da dietro, il nostro coyote ha sporto il microfono verso la folla insultante mentre un vecchio stempiato ha cercato di dargli una pacca sul microfono. Di che stiamo parlando? Risposta: di codardi e di coyote da entrambe le parti. Perché, se vuoi menare uno, lo meni e basta: ma quello era solo un drappello di poveracci e bastava vederli, sono gli stessi che in genere picchiano solo da dietro una tastiera; d' altra parte, se non vuoi farti maltrattare, beh, non farti maltrattare, non fare il cedevole e patetico, opponi il tuo corpo ben piantato (sei alto uno e 90, Filippo) senza assumere quella postura lagnosa alla Corrado Formigli.

Bene: ora siete pronti per sentire la versione della nostra Iena. Eccola. «Quando mi hanno visto è scattato il tentativo di linciaggio sono impazziti... so bene che mi odiano per le inchieste che ho fatto sui Cinque Stelle Se non fosse intervenuta la Polizia a salvarmi, non sarei qui a raccontarla. Ero circondato da 100 persone, chi si faceva sotto con pugni È stato davvero incredibile, io sto bene, solo un cazzotto mi ha sfiorato... nella storia politica italiana non c' è mai stato questo atteggiamento, neanche nei momenti più bui».

Caro omonimo, fìdati: tu le botte non sai neanche che cosa sono, non le hai mai date, non le hai mai prese, soprattutto non ce le hai mostrate, né le hai rischiate. Forse prima di fare la Iena, quando ti occupavi della riscossione dei crediti per una piccola società del gas, te la sei vista molto peggio. Forse, nonostante una certa tua professionalità nel rompere il cazzo, devi farti ancora le ossa possibilmente senza fartele spaccare. Prova così: vai in Turchia alla festa del Partito Islamico a cercare di rompere le palle a Recep Erdogan. Poi riparleremo del linciaggio e dei tempi bui.

Ps: il 24 marzo 2010, quando ero già un nemico dei grillini e in tv, in mia presenza, ritiravano gli ospiti, andai a un comizio milanese di Beppe Grillo in Piazza Duomo; raggiunsi la prima fila nonostante insulti e spintoni; e, l' indomani, l' incipit del mio articolo fu questo: «Buffone», «giornalista servo», «vai dal tuo padrone», «se ti metto una mano addosso...». Inventarsi un articolo su «l' Italia che odia», ora, non sarebbe difficile. Ma non darebbe un quadro veritiero».

Lo strano caso delle Iene e degli spazzini romani scomparsi (mai che ci sia un pm quando serve...). Perché l'inchiesta sulla monnezza è così ignorata? Libero Quotidiano il 16 Ottobre 2019. La grande monnezza. D’accordo, le Iene a volte esagerano ad aggirarsi attorno alle carcasse dei nemici, quando questi magari sono ancora vivi. E, d’accordo, per cercare il colpo ad effetto, le iene diventano degli inarrivabili rompicoglioni. Ma davvero non capisco come, oggi, un’inchiesta pazzesca come quella di Filippo Roma sui rifiuti della Capitale (Le iene, Italiauno) non solo passi inosservata da tutti i media; ma non mi capacito perfino, di come, quando lo stesso Roma -il rompicoglioni- si avvicina a Virginia Raggi durante il conclave dei 5 Stelle a Napoli, be’, lì la farsa assuma i contorni di tragedia, con un branco di ultrà grillini inferociti che spingono il cronista verso il linciaggio. Il sottofondo era un mantra di delicatezze: una rapsodia di “merda, buffone, leccaculo, torna da tuo padrone”, che esalava la rabbia al cielo come nella miglior tradizione dei 5 Stelle cattivi. Ora l’inchiesta in questione verteva su un’intervista penitenziale -e in forma anonima- rilasciata da un operatore della Roma Multiservizi – società che raccoglie i rifiuti per conto dell’Ama. E dall’intervista si scopre che gli addetti, indottrinati dai loro capi,  non solo non raccolgono la spazzatura di notte a negozi chiusi; ma fingono di raccoglierla e “baggiano” forsennatamente sui negozi e se ne vanno ingoiati dalla notte. Le iene hanno documentato tutto, con tanto di riprese dei truffatori e delle targhe dei camioncini delle spazzatura. E, voilà, ecco svelato perché a Roma la monnezza si accumula ed è “tutta una merda” come riconosce, intercettata, la Raggi. A quel punto, per Filippo Roma io m’aspettavo una medaglia, un’encomio, una lupetta capitolina in similoro. Invece non solo il collega s’è scontrato con la faccia di bronzo del presidente di Multiservizi, tra l’altro un ex generale della Finanza; ma pure è stato abbondantemente perculato dalla Raggi stessa. La quale, prima, davanti alle telecamere, ha richiesto le prove del servizio per armare la Procura; ma dopo, dietro le telecamere, non si è più fatta trovare. Certo, Filippone Roma magari in Comune poteva presentarsi direttamente con i dvd della truffa invece che con un ‘enorme sacco di pattume che macchia le istituzioni romane peraltro già abbondantemente insozzate di loro. Ora mi aspetto che, oltre ai cinghiali, topi e gabbiani, vicino ai cassonetti, si palesi qualche pure pm…

Raccolta differenziata a Roma: i video che raccontano il caos. Le Iene il 18 novembre 2019. Filippo Roma e Marco Occhipinti, nella nuova puntata della loro inchiesta “La Grande Monnezza”, mostrano alcuni video registrati da cittadini romani, che confermano una storia che vi avevamo già fatto vedere: la raccolta differenziata nella Capitale ha più di un problema. Nelle precedenti puntate dell’inchiesta “La Grande Monnezza”, che potete vedere qui sotto, Filippo Roma e Marco Occhipinti ci hanno mostrato il caos che esiste a Roma nel settore della raccolta differenziata. Dopo avervi mostrato la presunta truffa dei “furbetti del badge” di Roma Multiservizi, che passavano i propri dispositivi facendo risultare una raccolta notturna non effettuata, abbiamo installato alcune telecamere a Campo Boario, uno dei più grandi centri di raccolta dei rifiuti della Capitale. E qui abbiamo mostrato come carta, plastica e vetro siano raccolte e mischiate senza alcun criterio, vanificando completamente gli sforzi dei cittadini e i vantaggi della raccolta differenziata. In questa nuova puntata  Filippo Roma e Marco Occhipinti ci mostrano alcune riprese video fatte da cittadini romani, che confermerebbero che Ama talvolta mischia i rifiuti tutti insieme, anziché raccoglierli separatamente. Come quello girato da un cittadino del quartiere di Montesacro. A un certo punto durante la notte arriva il camion dell’Ama che svuota il secchione con il coperchio bianco dedicato alla carta. Poco dopo il braccio meccanico riporta lentamente il cassonetto al suo posto e il furgone sembra ripartire. Passano però solo pochi metri e il camion si ferma di nuovo,  per svuotare il cassonetto grigio dell’indifferenziata proprio dove pochi istanti prima aveva scaricato quello della carta. Subito dopo l’ultima nostra inchiesta, Ama aveva reagito con un comunicato, in cui negava tutto ciò che vi avevamo mostrato. Per Ama Campo Boario non è dedicato alla raccolta differenziata e i compattatori presenti nell’area sono destinati esclusivamente ai rifiuti indifferenziati. Nel comunicato Ama aggiunge che nella struttura è presente un container blu che accoglie i materiali misti ancora recuperabili come cartoni, plastica, metalli. Ma non è la verità e infatti vi abbiamo mostrato che a campo Boario i cassoni blu per la raccolta differenziata sono due, e non uno solo. Ma se, come dice Ama, Campo Boario è destinato esclusivamente ai rifiuti indifferenziati perché allora ci sarebbero due container blu per plastica, carta e vetro? Lo abbiamo chiesto a un dipendente Ama, che quel centro lo conosce molto bene e che ci ha detto: “Hanno scritto che il Campo Boario è per l’indifferenziata, ma mica è vero, cioè io tante volte vado a buttarci pure la carta, ce stanno i due camion quelli blu no? Uno per la carta, uno per il vetro… Possono andarci a butta’ pure il vetro di là. E quand’è pieno tante volte l’ho… ho buttato pure nell’indifferenziata. Quei due cassoni blu, so’ sempre quasi rotti”. Abbiamo allora deciso di incontrare Vanessa Ranieri, una ex consigliera d’amministrazione di Ama spa, in carica per circa un anno e poi revocata dalla sindaca a febbraio 2018. “Quello che so è che Campo Boario era un centro che raccoglieva tutti i tipi di rifiuto, in attesa che poi le varie tipologie, plastica, carta, metalli, venissero poi raccolti dal camion più grande e portati nei vari consorzi. Se è avvenuto quello che ho visto è una cosa molto grave, non sono i dipendenti che possono decidere se la carta è bagnata, unta o quant’altro”. Vi facciamo vedere un nuovo video, girato a Casal Palocco, un’area residenziale della capitale dove vivono calciatori e liberi professionisti. Si tratta di una zona in cui è attiva la raccolta porta a porta, che dovrebbe rendere ancora più efficiente la differenziata. E invece quello che accade ce lo documentano le immagini mandate da una cittadina, che spiega: “Noi dobbiamo esporre i secchi con la spazzatura dentro indifferenziato, umido, carta o plastica, in giorni prestabiliti. qualche giorno fa avevo messo il sacco della plastica e non è stato raccolto. Poi sono passati ancora dei giorni, ho messo l’indifferenziata e la mattina successiva quando stavo uscendo di casa c’era il camioncino dell’Ama che raccoglieva tanto l’indifferenziata quanto la plastica, mischiando tutto insieme. Io in realtà ho delle telecamere, da lì si vede ancora meglio quello che è successo”. E allora le vediamo le immagini di quella telecamera. Ecco che arriva il camioncino dell’operatore ecologico dell’Ama con tanto di divisa arancione. Scende dal mezzo, si dirige verso il secchio dell’indifferenziata da cui tira fuori un sacchetto che lancia nel vasca del furgoncino. Poi, anziché ripartire, prende il sacchetto nero in cui c’è plastica e lancia anche questo e poi di seguito anche la busta azzurra anch’essa con i rifiuti di plastica dentro. Questa raccolta mischiata, racconta ancora quella cittadina, succederebbe anche in altri civici. “Io ero con la macchina e ho visto il camioncino che si fermava a dei secchi successivi insomma rispetto ai miei e mischiavano tutto… era sempre indifferenziato e plastica, evidentemente quel giorno funzionava così, raccoglievano tutto insieme… Erano 15 giorni che tenevo questo sacco di plastica qui e nessuno passava”. Una differenziata, racconta ancora la donna, per la quale paga circa 800 euro l’anno. Decidiamo di andare proprio nei due centri Ama che raccolgono i rifiuti di Montesacro e di Casal Palocco ma i lavoratori si rifiutano di rispondere e quando lo fanno è per dire laconicamente che la differenziata “funziona benissimo”. Ma c’è una questione forse ancora più importante: mentre tutti noi paghiamo milioni di euro in più di quanto dovremmo per il mancato riciclaggio dei rifiuti come carta plastica e vetro, chi è che ci guadagnerebbe? Ci risponde Vanessa Ranieri: “È un dato di fatto che più raccolta differenziata si fa e più ricava la collettività, meno raccolta differenziata si fa, questi soldi inevitabilmente finiscono nelle tasche dei privati che gestiscono impianti di smaltimento legati alla raccolta indifferenziata”. Privati come Manlio Cerroni, che si definisce “signore della monnezza” e che si occupa di gran parte dello smaltimento dei rifiuti della capitale . Un’attività che l’imprenditore definisce “una missione per la salvezza di Roma”, per la quale però è stato indagato e poi assolto dall’accusa di reati gravi (è comunque ancora oggi è sotto inchiesta per disastro ambientale). Al di là dei guadagni dei privati che sono l’effetto, quale potrebbe essere la causa di tutta questa inefficienza? L’ex consigliera di Ama dice la sua: “È inevitabile, mancando l’approvazione del bilancio del 2017, del 2018 e fra un po’ anche del 2019. Ama non ha più soldi nelle casse, non ha più liquidità necessaria per fare i servizi..” Filippo Roma le chiede: “Perché è dal 2017 che l’Ama non approva il bilancio?”.  L’ex consigliera risponde: “Ce lo chiediamo anche noi, perché noi abbiamo presentato un progetto di bilancio corretto, certificato dal revisore dei conti e non comprendiamo perché non sia stato approvato. Era in attivo di 516mila euro”. “Quando avete presentato questo bilancio alla sindaca Raggi lei che vi ha risposto?”, chiede Filippo Roma. “Intanto non si è presentata in assemblea per 9 mesi, che è una cosa gravissima, causa di scioglimento della società, quindi noi ci siamo preoccupati immediatamente… L’Ama sono soldi dei cittadini, lei rappresenta i cittadini, quindi noi siamo rimasti veramente sorpresi”. Non ci rimane che provare a parlare di tutte queste cose con la stessa sindaca Raggi, ma lei ribadisce che dobbiamo leggere il comunicato di Ama: “Non so se hai letto... non so se hai letto il comunicato di Ama che è anche molto lungo ed era molto, insomma mi sembra che spiegava bene quindi ama” . E se ne va senza risponderci.

Roma, i furbetti della raccolta rifiuti: nessun controllo su Ama? Le Iene il 15 ottobre 2019. Filippo Roma viene aggredito dai militanti dei Cinque Stelle. Voleva solo chiedere spiegazioni alla sindaca Raggi sulla commissione tecnica che avrebbe dovuto verificare l’operato di Ama sulla gestione dei rifiuti. Ecco la nuova puntata dell’inchiesta della Iena e di Marco Occhipinti sui furbetti della mancata raccolta dei rifiuti a Roma. Domenica scorsa 13 ottobre si è tenuta a Napoli “Italia a Cinque Stelle”, il raduno nazionale del movimento pentastellato. Filippo Roma è andato là per cercare di parlare con la sindaca Virginia Raggi della grave situazione della spazzatura non raccolta per le strade di Roma. Volevamo segnalare alla sindaca le novità che abbiamo scoperto in questi giorni sui furbetti della mancata raccolta dei rifiuti nella Capitale, un tema che abbiamo affrontato nei due precedenti capitoli dell’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti.

LA DENUNCIA DI UN OPERATORE. Tutto è cominciato con la denuncia di un operatore della Roma Multiservizi, una delle quattro ditte che dovrebbe raccogliere i rifiuti delle utenze non domestiche (come bar, negozi, ristoranti) per conto di Ama, l’azienda municipalizzata del Comune che dovrebbe tenere pulita la città. “Voglio denunciare una truffa che avviene ai danni dei cittadini romani per quanto riguarda la raccolta differenziata dell’immondizia”, ci ha detto la fonte nel primo servizio. “Noi usciamo per la Roma multiservizi come operatori, per raccogliere la differenziata all’interno delle utenze non domestiche, ma questo non avviene perché uscendo di notte molte utenze sono chiuse”. Nonostante i negozi siano chiusi, la fonte ha raccontato che gli operatori passano comunque il badge sul codice a barre posto fuori dall’utenza “come se avessimo raccolto la spazzatura, ma l’utenza è chiusa fisicamente, quindi non raccogliamo”. Questa cattiva abitudine di beggiare senza raccogliere i rifiuti non sembra essere un’iniziativa isolata di qualche operatore furbetto. La fonte infatti ci ha letto alcuni messaggi su WhatsApp in cui i dirigenti direbbero agli operatori di “sparare e scappare”, ovvero di passare il badge e andare all’utenza successiva il più velocemente possibile. Il giorno dopo il nostro servizio Virginia Raggi ha avviato un’inchiesta interna, mentre risulta che il presidente della Roma Multiservizi sia indagato dalla procura di Roma per ipotesi di omessa attività di raccolta rifiuti e frode nell’esecuzione di obblighi contrattuali.

LA SINDACA SAPEVA? Nel secondo servizio siamo tornati dalla sindaca per chiedere spiegazioni in merito a quanto raccontato da Alessandro Onorato un ristoratore di Largo Argentina che è anche consigliere comunale. “Ho avuto modo tre settimane fa di incontrare la sindaca e le ho detto che non funziona nulla e abbiamo un servizio che non esiste”. Ma la Raggi ci ha ribadito di non essere a conoscenza del problema. A questo punto ci siamo chiesti se i diffusi disservizi riscontrati in primo Municipio e riguardanti la Roma Multiservizi siano gli unici o se a beggiare senza raccogliere siano anche gli operatori di altre ditte vincitrici dell’appalto. Il consigliere Onorato ci aveva infatti detto di aver fatto svariati reclami, ignorati, alla Avr, altra ditta che ha vinto l’appalto. Filippo Roma è così andato nel centro storico di Roma per capire se gli altri negozianti della zona, che dovrebbero essere serviti da questa ditta, siano soddisfatti del servizio. “Per mesi non vediamo nessuno, dobbiamo chiamare l’Ama. Io il sacco nero me lo porto a casa in motorino e fortunatamente non ne faccio tanto!”, ci dice un negoziante. E racconta di aver cercato in tutti i modi di far presente la situazione all’Ama: “Penso di aver fatto una trentina di telefonate negli ultimi sei mesi e di aver mandato tre pec. Ho anche mandato delle mail alla sindaca Raggi”. La sua situazione sembra essere comune tra i negozianti di via dei Banchi Vecchi, nel centro storico della città. Tra i tanti negozianti disperati ne abbiamo incontrato uno che si è fatto più furbo dei furbetti! Un negoziante ci racconta di aver staccato il badge da fuori la sua utenza, “così se devono passare devono entrare da me e glielo faccio badgiare io. Vedevo che passavano e se ne andavano, una volta, due volte, il terzo giorno l’ho preso e l’ho staccato”. Filippo Roma è tornato da Onorato per chiedere aggiornamenti sui reclami fatti alla ditta Avr. “Non ho sentito nessuno di Avr”, ci ha detto il consigliere. “Però guarda caso il giorno dopo il vostro servizio c’era un loro furgone davanti al nostro locale”. Siamo andati a chiedere spiegazioni e a portare l’immancabile sacco dell’immondizia. “Ci saranno e ci sono sicuramente delle inadempienze”, ha detto a Filippo Roma il responsabile dei rifiuti dell’Avr. “Magari se abbiamo i camion pieni non riescono a scaricare”. Quando gli raccontiamo dei negozianti disperati e delle chiamate che questi avrebbero fatto più volte alla ditta, risponde: “Noi abbiamo un registro dove ci sono tutte le inadempienze. Ci dia queste immagini e queste persone e noi prenderemo provvedimenti perché è inammissibile una cosa del genere”.

NESSUNA COMMISSIONE TECNICA DI CONTROLLO? Ma non è finita qui. Il consigliere Onorato infatti ci racconta di aver scoperto una cosa ancora più assurda. “Il 31 maggio 2019 la giunta comunale ha approvato il contratto di servizio dell’Ama”. In base a questo contratto, ci spiega il consigliere, l’Ama riceve i soldi che arrivano al Comune di Roma attraverso i cittadini e le imprese. “La cosa assurda è che dopo aver approvato il contratto di servizio, il comune di Roma aveva 30 giorni per nominare una commissione tecnica per la verifica della qualità dei servizi erogati da parte Ama”. Il consigliere ci racconta di essere andato a controllare se questa commissione era stata nominata o meno. “Sono passati più di sei mesi e questa commissione tecnica non c’è!”. Così Onorato ha preso il contratto di servizio, nel quale si legge che “l’Ama può ricevere i soldi soltanto dopo che questa commissione tecnica è andata a fare una reportistica, una rendicontazione puntuale di quello che l’Ama ha fatto per la città. Quindi la prima domanda che io ho presentato oggi alla Raggi attraverso una interrogazione è: uno, perché questa commissione tecnica non è stata ancora nominata e sono passati oltre sei mesi? E poi perché l’Ama continua a ricevere i soldi se questa commissione tecnica non va a fare la reportistica? Questi soldi all’Ama possono andare o meno? Ma soprattutto la cosa incredibile è che quando è stato approvato questo contratto di servizio dell’Ama, il 31 maggio, e nei trenta giorni successivi, l’assessore all’Ambiente non c’era. La delega era in capo alla sindaca Raggi, quindi doveva essere la sindaca stessa a stimolare il dipartimento e dire di  nominare la commissione tecnica”. Secondo il consigliere comunale Alessandro Onorato il Comune quindi avrebbe dovuto nominare una commissione di controllo indispensabile per valutare l’operato dell’Ama e quanto dovrebbe essere pagata.

L’AGGRESSIONE A FILIPPO ROMA. Filippo Roma è andato dalla sindaca durante il raduno dei pentastellati proprio per chiedere spiegazioni su quanto racconta Onorato e per chiederle se era a conoscenza di tutto ciò. Ma i militanti dei Cinque Stelle non hanno preso bene la nostra presenza. Anzi, ci hanno trattato come fossimo dei criminali, più che inviati di un programma che ha scoperto e segnalato alla sindaca quella che lei stessa ha chiamato truffa ai danni di migliaia di cittadini. Mentre cercava di parlare con la sindaca, la Iena è stata travolta da spintoni e insulti. Non siamo riusciti a intervistare Virginia Raggi, che sembrava invece disponibile ad ascoltare le nostre domande. I cori e gli insulti sono continuati fino a che un militante non è passato dalle parole ai fatti sferrando un pugno che è arrivato dritto in faccia a Filippo Roma. E per fortuna il secondo tiro non è andato a segno. Ma poco dopo la consigliera comunale del M5s di Roma, Cristiana Paciocco ha fatto un cenno col dito a Filippo Roma, come se volesse dirgli qualcosa. Ma quando la Iena si è avvicinata per capire cosa volesse dargli, dalle spalle della consigliera è partito un pugno, che per fortuna è andato a vuoto. La consigliera Paciocco, forse avendo capito che è tutto ripreso dalla telecamera, ha allontanato l’aggressore, il quale anche da altre immagini è sembrato essere un suo conoscente. Insomma, a Italia 5 Stelle è stato impossibile fare domande alla sindaca.

LA VERSIONE DELLA RAGGI. Abbiamo rincontrato Virginia Raggi in un contesto più tranquillo. Le abbiamo spiegato che oltre alla Roma Multiservizi, sembra che anche la Avr spesso non raccoglie i rifiuti dei commercianti. “Subito dopo la vostra segnalazione ho scritto all’Ama”, risponde la sindaca a Filippo Roma. “Abbiamo depositato un esposto alla procura. Ho chiesto di verificare se i fatti che avete mostrato con quel video e riferiti a una specifica ditta, la Multiservizi, fossero replicati anche da altre ditte. L’Ama ha avviato le ispezioni. Adesso mi segnalate questo caso di Avr, quindi segnalerò specificamente all’Ama di procedere a fare indagini su questo e lo farò anche con la mia polizia”. La Iena chiede alla sindaca anche come stanno le cose a proposito della formazione di una commissione di controllo sull’efficienza del servizio svolto da ama prevista dal contratto di servizio tra Ama e Comune. “Credo che la commissione sia stata istituita”, risponde la Raggi. “È una commissione che devono istituire gli uffici e Ama, quindi immagino che sia stata istituita e stia lavorando”. Dal momento che era proprio la Raggi la delegata ai rifiuti in tutti questi mesi di emergenza immondizia a Roma, dovrebbe saperlo se la commissione è stata istituita o no. Insomma, questa importante commissione di controllo non è mai stata nominata come sostiene il consigliere Alessandro Onorato o è stata nominata e sta già lavorando come pensa Virginia Raggi? E se non ha ancora preso vita, come risulta anche a noi, perché il Comune ha pagato l’Ama lo stesso?

Aggressione a Filippo Roma: il pugno e la consigliera M5S. Le Iene il 15 ottobre 2019. Abbiamo scoperto che tra gli aggressori del nostro Filippo Roma, che era andato alla festa per i 10 anni del Movimento Cinque Stelle, c'è anche la consigliera comunale di Roma Cristiana Paciocco. La donna ha attirato la Iena verso di sè, mentre un uomo alle sue spalle, con cui poi si è allontanata, ha cercato di colpirlo. “Con il Movimento ho capito che anche una sola persona può fare la differenza, e che se ci si appella sempre a quei semplici e pochi principi e valori di convivenza pacifica e democratica, in maniera naturale le persone e le idee convergeranno, e il cambiamento sarà possibile”. Letto così, il principio che ispira l’azione politica della consigliera comunale romana M5S Cristiana Paciocco è assolutamente condivisibile. Il problema è però quando si passa dalle parole ai fatti e si prova a esprimere il dissenso usando le mani. È quanto successo due giorni fa a Napoli, nel corso dei festeggiamenti per i 10 anni del Movimento Cinque Stelle (e che potete rivedere nel video sopra). A finire nel mirino dei facinorosi il nostro Filippo Roma, aggredito da alcuni militanti mentre prova a rivolgere alcune domande alla sindaca Virginia Raggi sulla truffa dei “furbetti dei rifiuti” di cui vi abbiamo parlato in questo servizio. Ad aggredirlo, in combutta con un uomo che è proprio dietro di lei e con il quale poi va via insieme, è la stessa consigliera Paciocco. Proprio quella che dalle pagine del sito di Rousseau pontificava sulla politica basata sulla “convivenza pacifica e democratica”. Le immagini parlano chiaro e potete vederlo voi stessi andando direttamente al minuto 2.50: Filippo Roma e il cameraman Mattia Migliori, che pochi istanti prima erano già stati allontanati con violenza al grido di “merda, buffone, leccaculo, torna dal tuo padrone”, si avvicinano alla grata dietro la quale si assiepano i facinorosi. La consigliera Paciocco, da dietro quelle recinzioni, chiama con una scusa il nostro Filippo Roma e quando lui si avvicina con il volto e il microfono, dalle spalle della consigliera comunale parte un pugno. L’uomo che sferra quel pugno, per fortuna andato a vuoto, è lì insieme alla consigliera, tanto che subito dopo (accortisi della telecamera che si avvicina e li inquadra) i due si allontanano insieme. Un agguato probabilmente premeditato, che davvero poco si sposa con quelle belle parole scritte sulla sua pagina all’interno del sito della piattaforma Rousseau (e che potete leggere nello screenshot qui sotto). La consigliera Paciocco, intervistata dal quotidiano Il Messaggero, respinge nettamente le accuse. Ma c’è davvero poco da dire, perché a parlare sono le immagini. “Sono la persona più pacifica che esista", ha dichiarato. "A un certo punto ho visto Roma e l’ho chiamato: giuro, volevo solo confrontarmi con lui”. E poi dice di non ricordare chi fosse l’uomo dietro di lei. Una posizione difficile da sostenere, perché i due, subito dopo quel pugno, si allontanano insieme. L’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti, comunque, non si ferma: martedì alle 21.15 su Italia1 non perdetevi il nuovo servizio sui “furbetti” della raccolta dei rifiuti nella Capitale. Con una domanda importante: quali sono le possibili responsabilità della sindaca Virginia Raggi?

La Iena Filippo Roma aggredito a Italia 5 Stelle: “Volevano linciarci”. le Iene il 13 ottobre 2019. Filippo Roma era a Napoli alla convention del Movimento 5 Stelle per intervistare Virginia Raggi sulla nostra inchiesta dei rifiuti. “La folla ha iniziato a urlarci di tutto, cercavano di metterci le mani addosso: ci ha salvato l’intervento della polizia”, racconta la Iena. “Volevano linciarci, ci hanno salvato i poliziotti”: Filippo Roma è stato aggredito a Napoli durante Italia 5 stelle. La Iena era alla convention del M5s per cercare di parlare con il sindaco di Roma Virginia Raggi, dopo la nostra inchiesta sui rifiuti della Capitale che potete vedere sopra: “Con il cameraman abbiamo cercato di avvicinarla in una zona comune, ed è scoppiato il pandemonio”. “La folla ha iniziato a urlarci di tutto: bastardi, figli di puttana, venduti”, racconta la Iena. “Hanno cercato di metterci le mani addosso: il cameramen è stato spintonato, io ho schivato un pugno. Siamo stati salvati dai poliziotti perché la folla voleva linciarci: ci hanno portato in una zona di sicurezza, solo così abbiamo evitato problemi più grossi”. Proprio con Filippo Roma e Marco Occhipinti abbiamo svelato un possibile scandalo sulla gestione dei rifiuti a Roma, nel servizio che potete vedere sopra: secondo quanto denunciato da alcuni operatori la raccolta dei rifiuti degli esercizi commerciali avviene nelle ore notturne, quando le attività sono chiuse: questo rende impossibile raccogliere la differenziata. Nonostante questo alcuni dipendenti strisciano con il palmare dell'azienda un codice a barre presente all'esterno dell'utenza e in questo modo risulta che la spazzatura è stata raccolta regolarmente, quando invece rimane in strada. Ora anche la procura di Roma sta indagando su questi presunti “furbetti” della raccolta dei rifiuti.

Furbetti dei rifiuti: “Sindaca Raggi, qual è la verità?” Le Iene il 21 ottobre 2019. Torniamo sul caso furbetti della raccolta dei rifiuti di Roma sollevato dall’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti. Lo facciamo perché la sindaca Virginia Raggi continua a dare versioni diverse, sia sull’utilità della nostra segnalazione sia sulla commissione di controllo di Ama che avrebbe dovuto vigilare sugli operatori della raccolta. E crediamo che adesso la capitale meriti risposte definitive. Signora sindaca di Roma, ma allora le abbiamo segnalato “una presunta truffa” che non conosceva, un disservizio diffusissimo di cui sembrava non essere consapevole o abbiamo fatto "l'ennesimo servizio diffamatorio"? E la commissione tecnica di controllo di Ama, sulla raccolta dei rifiuti, c’era come ci ha detto lei o non c’era, come abbiamo sostenuto noi? Torniamo a parlare del caso dei furbetti della raccolta dei rifiuti delle utenze non domestiche nella capitale, di cui vi abbiamo raccontato nelle inchieste di Filippo Roma e Marco Occhipinti (l'ultimo servizio lo potete rivedere qui sopra). Alcuni operatori dell’azienda Roma Multiservizi, che raccoglie i rifiuti per conto dell'Ama, azienda municipalizzata, sono stati filmati, mentre passano presso bar, negozi, ristoranti, sempre di notte, mentre sono chiusi. Dalle immagini si vede chiaramente che questi addetti alla raccolta “beggiano” con il loro palmarino il codice a barre posto fuori le attività commerciali, facendo risultare di essere passati, però non ritirano i rifiuti prodotti dagli esercizi commerciali. In primo luogo ci concentriamo sulla commissione tecnica di controllo, che deve essere nominata dal Comune di Roma e che avrebbe dovuto vigilare nel complesso sul servizio assicurato dall'Ama, (l’azienda pubblica, controllata dal Comune di Roma, che gestisce tutta la raccolta dei rifiuti a Roma). Di questa commissione di controllo ci aveva parlato Alessandro Onorato, che oltre ad essere un ristoratore è anche un consigliere comunale di Roma: “Il 31 maggio 2019 la giunta comunale ha approvato il contratto di servizio dell’Ama. La cosa assurda è che dopo aver approvato il contratto di servizio, il comune di Roma aveva 30 giorni per nominare una commissione tecnica per la verifica della qualità dei servizi erogati da parte Ama. Sono passati più di sei mesi e questa commissione tecnica non c’è!”. Onorato, contratto di servizio di Ama alla mano, ci legge un passaggio che sembra inequivocabile: “L’Ama può ricevere i soldi soltanto dopo che questa commissione tecnica è andata a fare una reportistica, una rendicontazione puntuale di quello che l’Ama ha fatto per la città”. “La prima domanda che io ho presentato oggi alla Raggi attraverso una interrogazione è: uno, perché questa commissione tecnica non è stata ancora nominata e sono passati oltre sei mesi? E poi perché l’Ama continua a ricevere i soldi se questa commissione tecnica non va a fare la reportistica?”, aggiunge il consigliere comunale. “Questi soldi all’Ama possono andare o meno? Ma soprattutto la cosa incredibile è che quando è stato approvato questo contratto di servizio dell’Ama, il 31 maggio, e nei trenta giorni successivi, l’assessore all’Ambiente non c’era”. La delega, sostiene ancora Onorato, era in capo proprio alla sindaca Raggi che quindi “doveva stimolare il dipartimento e dire di nominare la commissione tecnica”. Secondo il consigliere comunale Alessandro Onorato dunque, il Comune guidato da Virginia Raggi avrebbe dovuto nominare una commissione di controllo indispensabile per valutare l’operato dell’Ama e per decidere sull’importo del pagamento. Quando eravamo tornati dalla sindaca Raggi, il giorno dopo la turbolenta manifestazione “Italia 5 Stelle” a Napoli (con tanto di aggressione a Filippo Roma e al suo operatore per impedirgli di fare poche semplici domande alla sindaca Raggi) lei ci aveva risposto: “credo di sì, perché è una... commissione che devono istituire gli uffici e ama quindi immagino che sia stata istituita e stia lavorando”. Come sindaca, Raggi, non era la delegata ai rifiuti in tutti questi mesi di emergenza immondizia a Roma? Non dovrebbe dunque saperlo con certezza? Insomma, questa importante commissione di controllo non è mai stata nominata, come sostiene il consigliere Alessandro Onorato o è stata nominata e sta già lavorando come pensa Virginia Raggi? E se non ha ancora preso vita, come risulta anche a noi, perché il Comune ha pagato Ama lo stesso? Come per magia il giorno dopo la nostra intervista, con data 15 ottobre, il Dipartimento della Tutela ambientale ha nominato la tanto discussa Commissione, che quindi fino a quel momento non esisteva e sopratutto non stava già lavorando, come sostenuto da Virginia Raggi. La sindaca interviene oggi su questo tema con un lungo post pubblicato sua pagina Facebook, in cui dà una nuova versione dei fatti: “Roma Capitale ha avviato il procedimento di nomina il 20 giugno del 2019, quindi perfettamente nei termini previsti dal contratto. Da allora, prima il mancato accordo di Ama sul nome del presidente individuato, poi il successivo ritardo di Ama per la designazione dei suoi componenti e, infine, in data 11 ottobre, la rinuncia, per sopraggiunti motivi personali, del nuovo presidente esterno individuato il 26 settembre, ha fatto sì che la commissione si sia insediata solo con il nuovo Cda. La mia presunta colpa? Non aver avuto aggiornamenti tra l'11 ottobre e il 14 ottobre (intervista de Le Iene) e aver ritenuto che la commissione stesse operando regolarmente”. Per riassumere: anche lei conferma che la Commissione il 14 ottobre, giorno dell'intervista, ancora non era stata nominata e non era funzionante. Nonostante ciò la sindaca aggiunge:  “Preciso che comunque tutti i controlli sulla regolarità del servizio sono stati disposti, senza soluzioni di continuità, attraverso l’incarico all'Agenzia per la qualità il controllo dei servizi di Roma Capitale e che, come previsto dal contratto, Ama a oggi non ha percepito il 3% residuo mensile che è soggetto a trattenute sulla base della regolarità del servizio. Quindi il fatto che Roma Capitale abbia corrisposto ad Ama importi non dovuti perché soggetti a controllo da parte della Commissione non corrisponde al vero”. Anche sul tema dei furbetti della raccolta dei rifiuti delle utenze non domestiche, la sindaca Raggi sembra dare una versione diversa rispetto a quella iniziale. Quando l’avevamo incontrata la prima volta, aveva detto al nostro Filippo Roma: “Questa segnalazione la prendo e la approfondisco. Questa è una truffa. Siccome sta denunciando una truffa, se ci date qualche documento o materiale ci vediamo e possiamo approfondire”. E sulla sua pagina Facebook aveva scritto: “Andavano in giro per Roma per raccogliere i rifiuti di ristoranti, bar e negozi ma non ritiravano nulla. E per di più segnavano sui loro palmari di aver svolto il lavoro. È quanto emerso dal servizio mandato in onda ieri sera dalla trasmissione tv Le Iene a proposito di una presunta truffa sulla raccolta dei rifiuti delle cosiddette utenze non domestiche”. E aveva chiuso il post ringraziandoci: “Ringrazio Le Iene per la segnalazione e tutti i cittadini che ci indicano anomalie e irregolarità”. Qualche giorno dopo però, nel post di Facebook odierno, quel ringraziamento pubblico è diventato un’accusa diretta, parlando dell’“ennesimo servizio evidentemente diffamatorio e falso de Le Iene”. Signora sindaca, siamo sicuri che questa sia la sua risposta definitiva?

Da radiocusanocampus.it il 15 ottobre 2019. Filippo Roma, inviato del programma Le Iene, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.

Sulla tentata aggressione degli attivisti 5 Stelle nei suoi confronti. “Non ci rimango male, so benissimo che quando vado a fare un servizio a sorpresa, in cui vai a fare domande scomode a qualcuno, può capitare che poi qualcuno si incazzi. Noi mettiamo in preventivo che 4 schiaffi o un calcione lo puoi prendere. E’ una cosa che fa parte anche del racconto. Certo, rischiare di essere linciato come a Napoli non mi era mai capitato. Sicuramente è stata la situazione più pericolosa in cui mi sono trovato ultimamente”.

Sul tifo politico. “Secondo me il M5S ha intercettato una fascia sociale frustrata dal punto di vista esistenziale, dal punto di vista lavorativo. In qualche modo anche la classe dirigente del M5S ci ha messo del suo nell’inculcare in questa gente ulteriore rabbia. Se tu racconti un misfatto che racconta il M5S, anziché prendersela con l’esponente del M5S che ha tradito i propri valori se la prendono col giornalista. Io non ce l’ho con la Raggi. Sono equidistante rispetto alle forze politiche, cerco di essere imparziale, il mio punto di partenza è sempre la buona fede”.

Sull’accusa di non fare servizi su Berlusconi. “Questo è un grande classico. Di Battista, per cui ho stima personale, mi ha chiesto proprio questo. La risposta è molto semplice: un giornalista di Repubblica farebbe un’inchiesta su De Benedetti? Io posso andare una mattina a intervistare Berlusconi, ma nel momento in cui faccio una cosa del genere quella cosa non va in onda. E’ come se venissi a casa tua e iniziassi a sputare per terra nel tuo salotto, tu mi cacceresti via. Detto ciò, io Berlusconi non l’ho mai votato in mia, non m’è mai piaciuto, però se c’è un editore liberale è proprio lui. Non è che la sera Berlusconi mi chiama e mi dice: vai a rompere le palle ai 5 Stelle. Noi non conosciamo lui e lui non conosce noi, ci ignoriamo. Questo ci permette di fare inchieste su tutti i partiti, io sono andato a rompere le scatole anche a Barbareschi che era un esponente del PDL. Chiaramente non potrei andare a fare un’inchiesta sulle olgettine”.

Sul Filippo Roma fuori dalle Iene. “Quando mi tolgo il vestito delle Iene divento un’altra persona. Nella vita reale sono molto diverso rispetto a quello che vedete alle Iene. Se con Le Iene si acchiappa? La tv ti fa acchiappare anche se sei un cesso. Una cosa pesante è quanto ti fermano per strada e ti raccontano della fontanella di casa che non funziona o del vicino rumoroso. Perché Blasi e Mammucari non hanno partecipato alla reunion per Nadia Toffa? Credo che Mammucari avesse un impegno lavorativo e la Blasi fosse all’estero con Totti”.

A Roma la «truffa»  della finta raccolta dei rifiuti in bar e ristoranti. Pubblicato mercoledì, 09 ottobre 2019 da Corriere.it. Il titolo è d’impatto: «La Grande Monnezza: i furbetti della raccolta dei rifiuti». Le Iene raccontano di quella che, spiegano, «ha tutta l’aria di essere una truffa» e riguarda la raccolta dei rifiuti, chiamando in ballo direttamente la sindaca Virginia Raggi. Gli inviati della trasmissione di Italia 1 hanno scoperto che alcuni operatori di Roma Multiservizi — una delle ditte che ha in appalto il servizio da parte dell’Ama, l’azienda dei rifiuti del Comune di Roma — fingerebbero di effettuare la raccolta differenziata delle utenze non domestiche (ristoranti e locali). Il meccanismo è semplice: gli operatori escono di sera tarda, quando i locali sono chiusi, «badgiano» (identificano) con il palmare il codice a barre dell’utenza e trasmettono l’impulso, come se avessero effettuato la raccolta. Ma i rifiuti non vengono toccati, per risparmiare tempo e fare più operazioni. L’Ama, spiega una fonte, viene pagata per tutte le volte che viene effettuata l’operazione, con un sovrapprezzo per il lavoro notturno. Secondo gli intervistati dalle Iene, sarebbero stati gli stessi dirigenti a chiedere di intervenire di notte, in un gruppo whatsapp chiamato «spara e scappa». Gli inviati seguono alcuni furgoncini e documentano la prassi, nel centro storico e a Trastevere. Conseguenza: i ristoratori si trovano sommersi di rifiuti e per rimediare devono gettarli nei contenitori delle case, rischiando multe salate. Oltre il danno, la beffa. Il presidente di Roma Multiservizi, intervistato, nega disservizi. Filippo Roma raggiunge anche la sindaca. Virginia Raggi dice di non saperne nulla e spiega: «Vi aspetto in Campidoglio, mi portate tutto il materiale, perché se quello che dite corrisponde al vero sono io la prima ad andare in procura e denunciare». «Quando ci possiamo sentire?», chiede Roma. «Quando vuoi, senti i miei, concordate un appuntamento e ci sono». Ma dopo oltre dieci giorni, nessuna notizia dalla Raggi. Le Iene non demordono e rimandano alla prossima puntata. Intanto oggi i tecnici del ministero dell’Ambiente, l’assessore regionale ai Rifiuti, Massimiliano Valeriani, e l’assessore al Bilancio del Campidoglio, Gianni Lemmetti (affiancato dal dg del Comune Franco Giampaoletti), si riuniscono negli uffici del dicastero, guidato da Sergio Costa, per fare il punto sulla situazione dell’emergenza rifiuti nella Capitale. Nel frattempo arrivano i primi risultati positivi dalle operazioni di pulizia e sanificazione, a ciclo continuo, vicino a scuole, ospedali, stazioni della metro e altre aree «sensibili». Gli operatori dell’Ama si sono rimboccati le maniche per affrontare il caos scoppiato nelle ultime settimane: grande attenzione viene rivolta soprattutto per svuotare i cassonetti nei pressi delle scuole.

Vincenzo Bisbiglia per ilfattoquotidiano.it l'11 ottobre 2019. Tutti gli oltre 3.000 lavoratori della Roma Multiservizi il 15 ottobre riceveranno lo stipendio decurtato del 30 per cento. È l’effetto, secondo una comunicazione dell’ufficio risorse umane della stessa società partecipata capitolina, del servizio della trasmissione tv Le Iene, secondo cui diversi operatori addetti alla raccolta dei rifiuti presso le utenze commerciali eludono il servizio, segnando il passaggio ma non recuperando quanto lasciato dai negozianti.  Secondo Le Iene, va detto, sarebbe un modus operandi deciso dai dirigenti e non dai singoli operatori. Multiservizi, va ricordato, è una società partecipata al 51% da Ama (a sua volta detenuta al 100% dal Comune di Roma) e al 49% da Manutencoop e La Veneta. Giovedì sera è emerso, intanto, che il presidente Maurizio Raponi è indagato dai pm di Roma per l’ipotesi di truffa e frode nelle pubbliche forniture. “Pagamenti bloccati”, ma gli stipendi erano pronti – A rimetterci saranno i dipendenti della partecipata. Anche chi di raccolta rifiuti non si è mai occupato e lavora in tutt’altre commesse. “I committenti pubblici – si legge nella missiva inviata ai sindacati, con riferimento a Roma Capitale – hanno sospeso immediatamente i pagamenti verso la Roma Multiservizi Spa, alcuni dei quali relativi ad attività risalenti anche allo scorso aprile”. Dunque “in ragione di quanto esposto, la nostra società dovrà procedere al pagamento dei prossimi stipendi, fermo restando la data del 15 ottobre, nel limite del 70% di quanto computato”. Qualcosa però non torna. In Campidoglio confermano che le erogazioni vengono fatte a 60 giorni mentre da fonti interne a Multiservizi spiegano a Ilfattoquotidiano.it che le buste paga erano già state lavorate e le somme in corso di erogazione. L’eventuale ammanco di cassa, dunque, avrebbe dovuto pesare sugli stipendi di novembre (da pagare a dicembre). L’appalto ereditato dalla 29 Giugno – Roma Multiservizi conta circa 3.200 dipendenti, la gran parte dei quali impiegati nell’appalto global service nelle scuole: pulizia delle aule, bidellaggio, sfalcio del verde e mense. Per la maggior parte gli stipendi vanno, a seconda delle ore lavorate, da 300 a un massimo di 900-1000 euro al mese. Diversa la situazione relativa all’appalto di raccolta per i rifiuti non domestici, che è un appalto nuovo, di cui prima si occupata la Cooperativa 29 Giugno, fino al 2014 gestita da Salvatore Buzzi, fra i principali protagonisti insieme a Massimo Carminati dell’inchiesta sul Mondo di Mezzo. Proprio i 260 lavoratori della 29 giugno, a fine 2018, sono passati in Roma Multiservizi grazie alla clausola di salvaguardia sociale, e con la società capitolina avevano sottoscritto un contratto diverso, con somme superiori, rispetto ai “colleghi” del global service. Il consigliere comunale e deputato di Leu, Stefano Fassina, se la prende con l’assessore capitolino al Bilancio, Gianni Lemmetti: “Ha deciso di accanirsi contro i lavoratori, la sindaca Virginia Raggi intervenga con urgenza”. La replica di Roma Multiservizi: “Denunciamo Le Iene” – Sul tema Roma Multiservizi non parla. La partecipata ha diramato nella mattinata di giovedì un duro comunicato annunciando di adire alle vie legali contro la troupe di Italia 1 per essere entrata “senza autorizzazione negli uffici della società”. La società, in particolare, precisa che “le riprese si riferiscono, innanzitutto, al secondo giro notturno effettuato dagli operatori nel centro storico di Roma, un turno aggiuntivo richiesto da Ama proprio in tale fascia notturna per potenziare il servizio che già avviene in quelle stesse aree in orario diurno”. Inoltre “il corrispettivo che Roma Multiservizi riceve da Ama non è legato al numero di ‘badgiate’. Il badge serve per tracciare il passaggio presso tutti i punti di ritiro previsti. Da qui anche l’invito agli operatori a registrare sempre il passaggio da parte dei coordinatori del servizio, anche in caso di assenza di rifiuto, così come previsto dai documenti di gara”. Infine, “non corrisponde al vero che gli operatori non raccolgono i rifiuti, i dati ufficiali di raccolta nei 10 mesi di servizio riportano dati importanti e certificati”. Attesa per il Consiglio di Stato sulla gara a doppio oggetto – Roma Multiservizi è una delle società municipalizzate che il Comune sta cercando di riorganizzare. Il dg del Campidoglio, Franco Giampaoletti, da circa 2 anni sta cercando di dare il via a una cosiddetta “gara a doppio oggetto” che permetta alla società di sostituire i suoi soci privati, senza erogare somme “illegittime” agli stessi, così da evitare richiami della Corte dei Conti. Un appalto complesso fin qui una volta bocciato dall’antitrust e un’altra volta andato deserto. La situazione tiene in apprensione i lavoratori, visto che l’operazione probabilmente non riuscirà a garantire il rispetto dei livelli occupazionali. Proprio in questi giorni è in attesa dal Consiglio di Stato la sentenza che darebbe la possibilità alla stessa Roma Multiservizi di partecipare in Ati con Rekeep Spa.

Roma Multiservizi: dopo l'inchiesta sui furbetti arrivano i licenziamenti. Le Iene il 24 ottobre 2019. Qualche giorno fa Roma Multiservizi, al 51% di Ama, aveva annunciato di voler tagliare del 70% gli stipendi degli addetti alla raccolta dei rifiuti non domestici, come conseguenza dell’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti sui “furbetti” del badge. Ora l’azienda torna a far parlare di sé, annunciando l’invio di 3500 lettere di licenziamento per i dipendenti che puliscono le scuole, per i bidelli e gli autisti degli scuolabus. Roma Multiservizi torna a far parlare di sé e annuncia 3500 lettere di licenziamento. La procedura di mobilità, riguarderà il personale addetto ai servizi di pulizia nelle scuole, gli addetti alla guida degli scuolabus e i bidelli della capitale, nell’ambito dell’appalto pubblico denominato “Global”. Esclusi dai licenziamenti gli addetti alla raccolta dei rifiuti delle utenze commerciali di Roma, su cui però pesa come un’ombra gravissima il caso dei furbetti di cui vi abbiamo parlato nel corso delle inchieste di Filippo Roma e Marco Occhipinti. Per questi ultimi lavoratori, come vi abbiamo raccontato qualche giorno fa in questo articolo, era scattata una misura altrettanto punitiva, la riduzione degli stipendi al 70%. L’azienda, al 51% di proprietà di Ama, aveva mandato una lettera al suo personale: "Dopo l’inchiesta de Le Iene i committenti pubblici hanno sospeso immediatamente i pagamenti verso la Roma Multiservizi, alcuni dei quali relativi ad attività risalenti allo scorso aprile. La nostra società dovrà procedere al pagamento dei prossimi stipendi nel limite del 70% di quanto computato". Pochi giorni dopo l’invio delle lettere, però, era intervenuto lo stesso comune di Roma, minacciando di togliere a Roma Multiservizi i bandi già assegnati, se non avessero ritirato la decisione. La sortita dell’amministrazione Raggi deve avere avuto l’effetto sperato, perché poco dopo l’amministratore delegato di Roma Multiservizi ha annunciato che il taglio non sarà più del 30% ma del 9%. Una vittoria di Pirro. Ora però per i dipendenti di Roma Multiservizi, al 51% di proprietà di Ama, c’è questa nuova drammatica minaccia: il licenziamento. L’azienda si è difesa spiegando che al 31 dicembre scadrà l’affidamento dei servizi scolastici da parte del comune di Roma e che non verrà prorogato: i licenziamenti, dunque, sarebbero una misura inevitabile. Su questo bando è ora in corso una battaglia legale, con il Consiglio di stato che si pronuncerà a febbraio, e nel frattempo Roma Multiservizi sta lavorando in proroga. Ma comunque, come detto, solo fino al 31 dicembre. La sindaca Virginia Raggi ha reagito alla comunicazione di Roma Multiservizi spiegando che è una misura inaccettabile e  ha fatto partire una diffida ufficiale.  Con Filippo Roma e Marco Occhipinti vi abbiamo svelato  l’esistenza di una presunta truffa nel servizio di raccolta dei rifiuti di Roma: gli operatori della società la effettuano nelle ore notturne, quando gli esercizi commerciali sono chiusi, limitandosi a beggiare con i propri dispositivi e facendosi poi pagare da Ama (cioè dalle tasse dei romani) per una raccolta di fatto non eseguita. Avevamo raccolto la testimonianza esclusiva di uno di quegli operatori, che ci ha spiegato come funzionava la presunta truffa. Alcuni dipendenti striscerebbero con il palmare dell'azienda un codice a barre presente all'esterno dei negozi, bar, ristoranti, facendo così risultare il loro regolare passaggio e relativa raccolta. E incassando così da Ama il corrispettivo previsto per il lavoro, circa 150 milioni di euro per tre anni di servizio. E questo comportamento, ci ha raccontato il testimone, sarebbe una precisa direttiva dell’azienda. “I dirigenti di Roma Multiservizi hanno fatto una riunione agli inizi dicendoci: attaccate più tardi, e attaccare più tardi significa non raccogliere perché i negozi sono chiusi, e ce lo dicono loro, i dirigenti. I dirigenti hanno addirittura creato un gruppo su WhatsApp chiamato ‘Spara e scappa’”. E quando Filippo Roma gli chiede il perché di quel nome, l’operatore risponde: “Perché dobbiamo passare il badge veloce e per andare veloce non dobbiamo raccogliere. Senza raccogliere i rifiuti ci hanno chiamato cosi”. Dopo il nostro servizio la Procura ha aperto un’indagine nei confronti del presidente di Roma Multiservizi, l’ex generale della Guardia di finanza Maurizio Raponi, ipotizzando i reati di truffa e frode nelle pubbliche forniture. Ci siamo allora chiesti se la sindaca di Roma Virginia Raggi sapesse di quanto accadeva nella raccolta dei rifiuti romani. Alla Iena, in un primo momento, aveva detto: “Prima che lei mi dicesse e mi segnalasse un caso molto specifico chiaramente non lo sapevo”. Alessandro Onorato però, un ristoratore che è anche consigliere del municipio di Roma, aveva raccontato a Filippo Roma una versione molto diversa:  “Ho avuto modo tre settimane fa di incontrarla e gliel’ho detto, ho detto 'non funziona nulla, uno ha un servizio che non esiste'. E lei ha preso appunti”. Ma dopo tre settimane dalla segnalazione, ci racconta ancora Onorato, la sindaca non si sarebbe fatta viva: “No, non l’ho più sentita, da noi il servizio sta così”. E quando il nostro Filippo Roma aveva provato a chiedere alla Raggi di questa incongruenza, alla festa napoletana per i dieci anni del Movimento, era stato letteralmente aggredito dai militanti, che gli avevano anche sferrato alcuni pugni. E lei ha poi attaccato Le Iene su Facebook, accusandoci di servizi falsi e diffamatori.

Furbetti della raccolta rifiuti: Le Iene “salvano” gli stipendi di Roma Multiservizi. Le Iene il 27 ottobre 2019. Torniamo a parlare dello scandalo dei furbetti della raccolta rifiuti nella Capitale. Filippo Roma e Marco Occhipinti vi raccontano delle numerose novità successe subito dopo la nostra inchiesta. Alcune molto positive, come la ripresa con regolarità della raccolta, altre molto meno: Roma Multiservizi ha annunciato di voler tagliare del 30% gli stipendi del personale, anche quello non addetto al servizio. E così Filippo Roma è dovuto tornare dal suo Presidente, Maurizio Raponi. Dopo l’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti sui furbetti della raccolta rifiuti a Roma, sono successe tante cose. A partire dall’indagine per truffa e frode delle forniture pubbliche che ha colpito Maurizio Raponi, l’ex generale della guardia di finanza a capo di Roma Multiservizi. Avevamo scoperto come alcuni operatori della società, che per conto di Ama raccolgono i rifiuti delle utenze non domestiche, avevano la brutta abitudine di passare a negozi chiusi, beggiando con i loro palmarini e facendo risultare una raccolta che in realtà non avveniva. E permettendo comunque all’azienda di incassare i corrispettivi pagati da Ama per il servizio. Dopo la nostra inchiesta, oltre all’indagine a carico di Raponi, Roma Multiservizi ha dovuto anche assistere al taglio degli stipendi del 30% per i suoi dipendenti, anche quelli non coinvolti affatto nella raccolta dei rifiuti. Filippo Roma è andato a chiedere spiegazioni proprio all’ex generale della guardia di finanza Maurizio Raponi, che si è difeso con una argomentazione del tutto inaspettata: “Se ci fosse stata un’intervista fatta in tutti… secondo i crismi, questo sarebbe successo? Lei è venuto nel mio ufficio, ha fatto una pseudo intervista, la poteva fare?”. Insomma, se i dipendenti di Roma Multiservizi hanno ricevuto la lettera che li informava della decurtazione dello stipendio sarebbe colpa della nostra intervista…. Per fortuna però, forse proprio per il nostro pressing al Presidente, l’allarme è rientrato e ai lavoratori è arrivato il 21 per cento della parte di stipendio di settembre che era stata tagliata. Non solo: Roma Multiservizi ha assicurato ai sindacati che arriverà anche quel 9% che ancora manca. Seguite questa sera il nuovo capitolo dell’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti sui furbetti della raccolta dei rifiuti. Nel servizio torniamo anche sul ruolo della sindaca Virginia Raggi e sul “mistero” della commissione di controllo di Ama che avrebbe dovuto vigilare sui furbetti.

Raccolta rifiuti a Roma: dopo le truffe, ecco i fancazzisti. Le Iene il 24 novembre 2019. Filippo Roma e Marco Occhipinti tornano a occuparsi dei rifiuti a Roma, questa volta dei fancazzisti, con delle immagini clamorose. Dopo averci parlato della presunta truffa dei badge e il "mischione" della raccolta differenziata, seguono alcuni operatori Ama e li scoprono durante il lavoro al telefono, a fare la spesa, a mangiare…Torniamo a occuparci di raccolta dei rifiuti a Roma. Filippo Roma e Marco Occhipinti, nelle scorse puntate della loro inchiesta “La Grande Monnezza”, ci hanno mostrato tutte le cose che sembrano proprio non tornare. A partire dai presunti furbetti che beggiano due volte fuori dai negozi del centro e che non raccolgono porta a porta, come dovrebbero, l’immondizia dei commercianti. Poi vi abbiamo fatto entrare dentro un centro di Ama, per vedere i rifiuti che andrebbero differenziati, ma che poi sembrano essere buttati tutti insieme nello stesso compattatore destinato alla sola spazzatura indifferenziata. Infine vi abbiamo mostrato i mezzi dell’Ama che scaricano direttamente i diversi cassonetti di carta e indifferenziata tutti insieme nello stesso camion di raccolta. Ma quello che vi documentiamo adesso, francamente, è ancora più clamoroso: alcuni di quegli uomini e quelle donne che dovrebbero raccogliere la spazzatura romana, in piena emergenza rifiuti e durante le ore di lavoro perdono tempo in questioni del tutto personali? Ci siamo piazzati davanti a Campo Boario, il centro dell’Ama che avevamo già monitorato per capire se la differenziata venisse rispettata oppure no. Ecco cosa abbiamo documentato. È venerdì pomeriggio: dal cancello del centro Ama esce un furgoncino con due operatori a bordo. La squadra dovrebbe iniziare il suo turno di raccolta che dura sei ore, ma gli operatori dell’Ama si mettono a girare per circa 45 minuti, apparentemente senza mai fermarsi a raccogliere nulla. La strada che fanno è parecchia, li vediamo passare davanti a secchioni pieni di spazzatura e a un certo punto addirittura il camioncino inizia a tornare indietro, in direzione del centro Ama. Il mezzo si ferma e uno dei due operatori scende, per mettersi al telefono, a cui resta per diversi minuti. Dopo un po’ la coppia di operatori dell’Ama riparte, ma ecco che non passano 100 metri e si fermano di nuovo: tappa in pasticceria. Da quando gli operatori sono usciti da campo Boario, sarà passata più di un’ora, intanto il furgoncino non l’abbiamo visto raccogliere nulla! Si è fatto buio nel mentre e gli operatori di Ama si fermano davanti a un punto vendita di un operatore telefonico: uno dei due scende, entra nel negozio di telefonia e si mette a parlare con la commessa, mentre il suo collega lo aspetta sul camioncino. Quando ha finito risale sul furgoncino e ripartono: pochi metri e accostano di nuovo, questa volta davanti a un alimentari. Ci avviciniamo agli operatori, per capirne di più del loro comportamento: “Scusi, una domanda, come sta andando oggi la raccolta dei rifiuti?”, chiede Filippo Roma. Ma l’accoglienza non è, ovviamente, delle migliori: ”Dai non posso parlare. Aò, te ne devi andare”. Forse siamo stati solo sfortunati, così nei giorni seguenti facciamo qualche altro piccolo controllo. Ci spostiamo a pochi passi dal Circo Massimo. Vediamo un operatore dell’Ama entrare in una pizzeria al taglio e pochi secondi dopo eccone uscire un altro, con un trancio di pizza in mano. Insomma quegli operatori di Ama li abbiamo visti fare proprio di tutto, da  quello che dorme sul furgoncino a quella al telefono, fino a chi fa la spesa in un alimentari e a chi prova addirittura a rimorchiare una collega. C’è poi anche chi non compera nulla e si “limita” a starsene al calduccio nel furgoncino. Filippo Roma lo avvicina: “Buonasera, che sta guardando di bello sul cellulare? un bel film? Quanta immondizia avete raccolto fino ad adesso?”. Ma dall’altra parte negano categoricamente: ”Niente niente, non vediamo niente. Non stavo a vede’ niente”. E qualcuno lo becchiamo anche più volte. Come un operatore che sta nel suo camioncino tranquillamente a guardare il cellulare e che il giorno troviamo in compagnia di un collega. Il loro turno pomeridiano inizia con un po’ di giri a vuoto e poi si fermano davanti a una ferramenta, dove uno dei due va a farsi fare un duplicato di una chiave. Poco tempo dopo quello stesso furgoncino si ferma davanti a un supermercato: uno dei due entra, si fa un giro tra gli scaffali e poi fa alcuni acquisti. Ci sembra abbastanza: andiamo a  parlare con un responsabile di Campo Boario. Ma dal campo ci rispondono così: “Non possiamo essere noi a darvi una risposta! Noi stiamo lavorando come tutti i giorni, tutti i turni, su tutto il lavoro che facciamo, non possiamo dare risposte in merito al servizio per una disposizione nostra interna, di Ama”.

La differenziata non può salvare il mondo: serve una politica sui rifiuti. Eugenio Scarpelli il 5 ottobre 2019 su Il Dubbio. Ogni anno a Roma si producono 1 milione e 700 mila tonnellate di rifiuti con il 45% differenziato. Per i rifiuti organici se ne producono 400mila tonnellate l’anno e l’unico impianto esistente, Ama di Maccarese, ne può trattare 30mila l’anno. Alla fine lo show- down è arrivato: dimesso l’ultimo Consiglio di amministrazione di Ama, il sindaco di Roma, Virginia Raggi, ha nominato un superfedelissimo, Stefano Zaghis, come amministratore unico dell’azienda che si occupa dei rifiuti nella Capitale e, in Consiglio Comunale, ha cercato di spiegare il caos. L’Ordinanza Zingaretti – quella emanata a inizio giugno scorso e che obbliga tutti gli impianti del Lazio ad accettare i rifiuti romani anche in deroga a norme e autorizzazioni – è stata prorogata fino a metà ottobre. Sono stati conclusi accordi con la Regione Marche che accoglierà 5mila tonnellate al mese e che, sommati alle intese con l’Abruzzo, porta il totale dei rifiuti capitolini trattati fuori Roma a 9.500 tonnellate. Il tutto fino a fine anno. Quando poi, però, chiuderà per esaurimento la discarica di Colleferro che oggi accoglie già i residui dei trattamenti delle 3000 tonnellate di rifiuti che giornalmente si producono nella Capitale. E a gennaio ricomincerà con ancor maggior gravità di oggi il problema: non basterà trovare semplicemente chi lavora la mondezza di Roma per poi scaricarla a Colleferro ma occorrerà trovare anche qualche discarica pronta ad accogliere questi rifiuti. Per inciso e chiarezza: quando si parla di discarica e rifiuti in discarica, ci si riferisce al rifiuto lavorato, trattato e separato. Va rimossa l’idea che la discarica accolga il sacchetto dei rifiuti come se lo portassimo noi direttamente. In Consiglio Comunale la Raggi, di fronte a un’opposizione scatenata, ha spiegato la sua versione dei fatti e la sua visione del futuro. Secondo il Sindaco di Roma, in sintesi, la colpa è delle passate Amministrazioni. Vero. Avevamo già ricordato come l’Amministrazione Marino procedette alla chiusura di Malagrotta senza avere un piano alternativo, attirandoci una precisazione dell’ex Sindaco che, dagli Stati Uniti, ha parlato di «piano investimenti per una serie di impianti che stabilimmo nel 2014- 2015». Sommessamente ci permettiamo di evidenziare a Marino, il quale ci ha accusato di non documentarci, che lui chiuse Malagrotta a settembre 2013 e che il suo “piano” venne presentato ad aprile 2015. E che lui venne “dimesso” dal suo partito ad ottobre di quell’anno. E che l’allora suo assessore all’Ambiente, Estella Marino, dei 4 ecodistretti che facevano parte originaria di quel piano Ponte Malnome, Via Salaria, Rocca Cencia più un quarto mai individuato – già due erano stati depennati ancor prima di essere formalizzati dalla stessa Amministrazione Marino ( Ponte Malnome e Via Salaria). Ma, tornando alla Raggi, se è vero che chi ha preceduto i grillini a Palazzo Senatorio non ha messo mano concreta al problema facendo i nomi: Walter Veltroni, Gianni Alemanno, Ignazio Marino – è pur vero che da tre anni il Movimento 5Stelle governa Roma. In tre anni, siamo al settimo management di Ama: Daniele Fortini, ereditato da Marino, può essere il CdA zero, ma poi ci sono stati: Alessandro Solidoro, Stefano Bina, Antonella Giglio, Lorenzo Bagnacani e Luisa Melara, prima di Stefano Zaghis. E due assessori ( e mezzo) ai rifiuti: Paola Muraro e Pinuccia Montanari prima che la delega rimanesse in capo direttamente alla Raggi. Ed è vero che in tre anni non è stato avanzato un solo progetto reale per affrontare in modo strutturale il nodo dell’impiantistica. Due progetti per due impianti per il trattamento del rifiuto organico sono stati bocciati in Conferenza di Servizi regionale proprio dagli uffici comunali. E il resto è solo una sfilza di no. Con la Raggi, a dire il vero, che è parzialmente anche in compagnia del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Due numeri: ogni anno a Roma si producono 1 milione e 700 mila tonnellate di rifiuti con il 45% differenziato. Per i rifiuti organici se ne producono 400mila tonnellate l’anno e l’unico impianto esistente, Ama di Maccarese, ne può trattare 30mila l’anno. Il resto, prende la strada del Veneto e del Friuli. Per inciso, recentemente, l’impianto di Maccarese ha iniziato a respingere i rifiuti perché, complice la mancata raccolta in strada delle altre frazioni, molta gente ha iniziato a inserire nell’organico anche altre frazioni. L’indifferenziato giornaliero di Roma è pari a 3mila tonnellate e gli impianti esistenti – due privati a Malagrotta e uno di Ama a Rocca Cencia – possono arrivare a smaltire un paio di migliaia di tonnellate al giorno. Il resto, va trattato altrove. Roma spedisce queste circa mille tonnellate giornaliere ovunque: in provincia di Roma a Pomezia, Civitavecchia, poi a Viterbo, Frosinone, Latina, Abruzzo, Marche. Questi impianti – quasi tutti di società private – trattano i rifiuti indifferenziati e li trasformano in combustibile da rifiuto, il “cdr”, che poi viene bruciato. Non a Roma: il Campidoglio nelle sue varie livree politiche, non ha mai voluto impianti di nessun genere sul proprio territorio. Quindi, i termovalorizzatori sono nel resto della Regione: Acea ne possiede uno a San Vittore e tratta 350mila tonnellate annue di cdr. Il Lazio ne produce ogni anno 800 mila. Le 450mila tonnellate di cdr prodotte in più rendono fondamentale la presenza di impianti di combustione – termovalorizzatori, gassificati, inceneritori – in Regione e di questi almeno uno a Roma. In realtà, a Roma due già pronti ci sarebbero pure: un gassificatore a Malagrotta ma, appartenendo a Manlio Cerroni il “ras” degli ultimi trent’anni dell’immondizia a Roma – non viene preso in considerazione. Poi ci sarebbe quello di Colleferro, di proprietà della Regione che, però, Zingaretti ha chiuso per accomodarsi con la protesta locale. E ci sarebbe stato anche quello di Albano, da costruire, ma, anch’esso, bloccato dai veti incrociati del Pd locale prima e dei 5Selle poi. E quando il decreto “sblocca impianti” varato dal Governo Renzi a agosto 2016 indicò che nel Lazio servivano 4 termovalorizzatori, ci fu la gara fra Raggi e Zingaretti a dire che no, non ce n’era bisogno. Che i CdA di Ama si dimettano è un problema gestionale. Il vero problema è la non politica sui rifiuti sin qui seguita: la differenziata, da sola, non salverà il mondo.

Castel Sant'Angelo è assediato da rifiuti, degrado e clandestini. Il ponte che conduce a Castel Sant'Angelo assomiglia ormai ad un suk, mentre i giardini della fortezza sono diventati un dormitorio per decine di clochard. Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. Orde di clochard e venditori abusivi assediano l'antica fortezza dei Papi. E così persino passeggiare lungo il ponte che conduce a Castel Sant'Angelo è diventata una vera e propria via Crucis. Non solo perché le statue degli angeli che lo adornano portano i simboli della Passione. Per raggiungere i cancelli del castello, infatti, bisogna destreggiarsi in una giungla di paccottiglia e merce contraffatta, cercando di schivare le decine di vucumprà che avanzano tra la folla per vendere i loro gadget con insistenza. Ma questo è solo l'inizio. Il parco che circonda la roccaforte medioevale è diventato un porto di mare. Fanno rotta qui i clochard che la gendarmeria vaticana allontana alle prime luci dell'alba dai portici di via della Conciliazione. Circa una ventina di persone, che approfittano delle panchine del viale superiore per dormire qualche ora in più. Ma c'è anche chi viene a passarci la notte. "Il custode mi ha detto che se voglio restare all'interno devo tornare entro una cert'ora", ci racconta uno dei senzatetto, mentre sta lavando alcuni scarti del mercato rionale in una delle fontane. Un altro clochard che si è sistemato su una panchina pochi metri più avanti elenca le principali nazionalità dei senzatetto che affollano la villa: "Romeni, bulgari, moldavi, ucraini, nordafricani". Lui, invece, è bosniaco e ci spiega che preferisce la strada ai dormitori messi a disposizione dal Comune. Da qualche mese, anche la terrazza che dà sul lato di via della Conciliazione è abitata. Tre romeni l'hanno trasformata in una specie di dependance, allestendo persino una piccola cucina, con tanto di angolo cottura e scorte di vino e vodka. "Riducono i giardini in condizioni pietose", denuncia un'habitué della villa. Non è difficile, in effetti, imbattersi in situazioni estreme. Come quella in cui si trova un magrebino, accasciato su un muretto a diversi metri da terra. È stordito, forse dalla droga o dall'alcol. Nella parte bassa del giardino, invece, un migrante si è sistemato su una panchina circondata di immondizia. Ha accumulato fogli, cartoni e cianfrusaglie di ogni genere. Tanto che l'erba ormai non si vede neanche più. Discariche e piccole favelas attirano anche i topi, vera e propria piaga del parco. "Si vedono anche di giorno, qui attorno all'area giochi", ci racconta una mamma della zona che porta qui suo figlio a giocare. "Avevano fatto una derattizzazione l'anno scorso, ma non è servita a nulla", spiega un'altra signora che viene ad allenarsi nei giardini. "Qui dopo le sei di sera non si può più entrare – continua – perché i ratti spuntano da ogni angolo". Lo testimoniano anche le immagini pubblicate ciclicamente sui social network da associazioni e comitati di quartiere. "Tra sporcizia e accampamenti, la situazione è peggiorata, soprattutto negli ultimi anni", aggiunge la donna. "La trascuratezza è palese – commenta – e danneggia tutti".

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 2 ottobre 2019. Il romanzo di Aldo Cazzullo e Fabrizio Roncone mi ha riconciliato con l' idea di Padania. Una bella secessione, e via. Infatti il loro splendido giallo, scintillante di vocaboli che se li usassi su Libero sarei arrestato, è una introduzione del lettore nel corpo vivo di Roma, anima no, perché Roma è la dimostrazione che l' anima non esiste. L' Urbe in questo testo che si beve come un Negroni (i Mojito portano male) è viva, nel senso che è carne marcia che respira. Perché Roma è eterna non per meriti o grande bellezza, ma perché è in stato di putrefazione immortale. Il thriller si intitola appunto Peccati immortali (Mondadori, pag. 260, 18). Sono peccati che spaziano da quelli sotto la cintura, e perciò veniali, agli omicidi con killer prezzolati, ai tradimenti degli amici e all' uso di santi e madonne per scopi di potere più schifosi di quelli che immaginate. Non è vero come alcuni dicono che non esista sotto il Cupolone e presso il Colosseo il senso del peccato. Esiste ma è rovesciato, rispetto alla giansenista Torino e alla calvinista Milano. Il fatto è che Roma non crede che il male sia poi così male come dicono, anzi esiste, ma fa bene. In fondo pure il diavolo è uno dei nostri, è romano, e deve mangiare anche lui alla tavolata con la pajata. Insomma, la lettura è alquanto istruttiva. Mi conferma nella mia determinazione di stare il più lontano possibile da quella che Gianfranco Miglio, buon' anima, chiamava "palude tiberina". Qui - come dimostrano i due autori - si ruba e si corrompe con animo sereno. Il problema è che a essere derubati e vittime dei corrotti siamo noialtri di fuori. I protagonisti non ce l' hanno con Dio, di cui non temono i fulmini anche perché i cardinali lo hanno coinvolto come complice, ma con i nordici. Non tutti. Ci sono lombardi e veneti che si trasformano in cittadini onorari più intrisi dello spirito della Bestia di quanto non siano gli autoctoni. Tali e quali i gabbiani emigrati qui e cresciuti, fino a essere il perfetto simbolo della Babilonia italica. Non più la Lupa ma il Gabbiano: «(I gabbiani) bestiacce ancora sporche del sangue dei piccioni predati in strada e degli avanzi rubati - con tecnica davvero pregevole - dai sacchi dell' immondizia». Si salvano in questa orgia di sesso, denaro e potere soltanto una prostituta a nome Emmanuelle e una suorina colombiana chiamata Remedios. Sono entrambe diversamente purissime. Ci sarebbe anche un eroe-non-eroe,l' antiquario-agente-segreto-in-sonno Gricia, «ciccione di merda» e in fondo buono, proprio come la pasta che adora e gli ha dato il nomignolo: quella con il guanciale, gli spaghettoni e il pecorino, di cui viene fornita la ricetta, e che alla fine è la sola cosa onesta e pulita dei banchetti satrapeschi e satrapreteschi in cui il romanzo ci avviluppa. Capita che un cardinale sia trovato morto, dopo una notte di bagordi con un telefonino in tasca. Il porporato fa in tempo a dire solo una frase prima di morire, e che me lo ha reso subito simpatico: «I poveri hanno rotto i coglioni». Il telefonino viene recuperato dalla suorina Remedios, che curò da vivo, e ora cura da morto, con amore devoto e casto (sul serio) il prelato di cui conosceva le debolezze esagerate della carne. Non resiste. Apre il telefonino. Nella galleria di fotografie dell' iPhone c' è quello che immaginate: l' orgia. Si vede lui e si nota anche l' inconfondibile tatuaggio di cui va orgoglioso il ministro plenipotenziario del "Partito dell' Onestà", ora al governo con il Pd (l' ambientazione è tra il 2020-2022). Questo telefonino passa dalle mani di una zingara ladra, che evita le grinfie del suo padre-padrone parente degli Spada. E lo vende a un "negro" (si scrive così nel libro, e usano tutti questa parola), che è un capo della mafia nigeriana, a sua volta braccio destro di un losco figuro amatissimo dal Papa perché dirige la Onlus "Fratello Migrante" da cui spreme denaro a gogo. Remedios corre dal suo padre spirituale a confidarsi, un cardinale di sinistra che scrive per Micromega e tiene una corrispondenza altissima e progressista con padre Enzo Bianchi, il frate più amato da Gad Lerner e da papa Bergoglio. Anche il cardinale santo è in realtà un satanasso dalla doppia vita: vuole anche lui il telefonino, così come lo desidera un vecchio democristiano, il quale si allea con una corrente del Partito dell' Onestà, e con un cardinale reazionario, mascalzone ma saggio. Insomma. Un libro magnifico. Con spunti filosofici su cui rimarrete una mezzoretta a riflettere. Tipo questa frase detta da Gricia a Remedios: «L'uomo è sempre sostanzialmente incolpevole, ma solo perché mai è all' altezza della sua colpa». La trama è intessuta con penna doppia e leggerissima. Siccome sono estimatore di entrambi gli autori, ciascuno dotato di una cifra inconfondibile e rara nel panorama giornalistico italiano (sono inviati del Corriere della Sera, capaci però di formidabili guizzi fuori dai ranghi del conformismo), mi sono stupito della loro capacità di mimetizzarsi uno nella scrittura dell' altro. Certo i riferimenti a Beppe Fenoglio e una certa competenza ecclesiastica sono di Cazzullo, così come certi scorci crudamente poetici del male romano, mentre il linguaggio di certi dialoghi di cardinali e politici sembra trasferito direttamente dalle interviste e dalle cronache a volte surreali di Roncone. Ma i due sono riusciti a unirsi e fondersi senza omogeneizzare i sapori, un po' come Fruttero e Lucentini, di cui sono persino più disincantati.  Questo libro va letto. Dimostra con arte finissimamente greve che i luoghi comuni su zingari, negri, cardinali, politici sono proprio veri, per scorgerli basta uscire dai quartieri dei signorini, i quali tra l' altro sono in gran parte froci, come pure in Vaticano. Insomma. In ordine. Gli zingari qui sono tutti ladri e avvelenatori e perseguitano le donne. I negri sono violentatori, assassini arrivati con il barcone per fotterci, oppure finti sagrestani chierichetti ricattatore e pure peggio (non rovino il finale). I cardinali sono spietati criminali disposti a tutto per fare il bene, ovvio. I politici sono tutti uguali, ammorbati con i servizi segreti, con sottopanza manipolatori, ignoranti o sapienti, ma comunque tutti, vecchi o nuovi, pelosi di dentro. Da questo quadro infame, si stacca Gricia: con tutti i suoi vizi, difetti, antichi delitti, compromessi, arrotondamenti amorosi, rappresenta misteriosamente quell' aspetto di Roma che non si tira fuori del tutto dalla melma, ma la rende odiosamente simpatica. Remedios è invece la figlia che vorremmo avere, e l' idea che in fondo la Chiesa è sì prostituta (come Emmanuelle) ma anche casta. I giornalisti sono gli unici della cloaca trattati abbastanza bene. Capisco Aldo e Fabrizio: in fondo cane non mangia mai del tutto cane, magari lo mozzica ma appena appena. Sono persino coraggiosi. Memorabile la stroncatura morale di uno che io ho capito benissimo chi sia, ma non lo dico: «L' ex presidente del Consiglio, che tutti consideravano e considerano un santo, l' emiliano, scriveva su giornali americani articoli a favore del leader ucraino, quello amico di Putin...». Ma sì, oso: sarà mica Romano Prodi? Di "Peccati immortali" dovrebbe farne un film Pupi Avati. Sorrentino no, lo rovinerebbe come già fece con Andreotti.

Laura Larcan per “il Messaggero” il 27 settembre 2019. Quando si dice un conto salato. La bellezza di 429 euro e 80 centesimi per due piatti di spaghetti al cartoccio di pesce e acqua. Un maxi scontrino che si sono trovate di fronte due turiste giapponesi a Roma per un pranzo in un ristorante in pieno centro storico. Siamo in via Banco di Santo Spirito, nel ristorante Antico Caffè di Marte. Indubbiamente la mole di Castel Sant'Angelo che si gode alla fine della deliziosa stradina pedonale ha il suo peso. Ma a sfamare le ragazze sarebbero stati solo due piatti di pasta a base di pesce. Neanche il vino. Lo scontrino fiscale, datato al 4 settembre scorso, è stato postato su Facebook ed è diventato un caso social, condiviso e commentato amaramente, tra connazionali giapponesi e italiani. A sorprendere è il dettaglio del conto: l'importo complessivo è di 349,80 euro, cui si aggiunge una mancia di ben 80 euro, per un totale di 429,80 euro. Tu chiamale, se vuoi, vacanze romane da urlo. Da choc, più che altro. Le stesse guide turistiche professioniste sbuffano e storcono il naso di fronte al caso del maxi-scontrino. «Episodi simili causano un danno di immagine alla città di Roma - commentano da Federagit - Guide Turistiche di Roma - Noi desideriamo una città più accogliente e chiediamo che le forze dell'ordine controllino se c'è stato un abuso nei confronti delle due giovani giapponesi». Lo scontrino postato ha innescato commenti e persino altre testimonianze: altri scontrini salati emessi dallo stesso ristorante. «Ho mangiato qui il 27 agosto e siamo stati derubati. Sul menu scrivono 6,5 euro per etto di pesce, ma quando abbiamo finito il pranzo, abbiamo pagato 476,4 euro...». Il personale del ristorante prova a fare chiarezza: «Il nostro menu è chiaro, tutto è scritto nel dettaglio, basta guardare i prezzi: massimo 16 euro per uno spaghetto allo scoglio - dichiara Giacomo Jin, ristoratore - Per pagare quella cifra le ragazze non avranno preso solo gli spaghetti, ma anche pesce. D'altronde, da noi il pesce è fresco: il cliente lo sceglie al bancone, noi lo pesiamo e lo cuciniamo». Fatto sta che quando si va a pagare, c'è il rischio del mal di pancia. E la mancia? 80 euro di mancia, perché? È autorizzata? «Per noi non è obbligatoria - replicano i camerieri al Messaggero - Al momento di pagare chiediamo al cliente se vuole dare la mancia, e può scegliere tra il 10 e il 20 per cento dell'importo, tutto liberamente», assicurano. Anche qui i conti non tornano, perché il 20 per cento di 349 euro è 69 euro. E non 80. Insomma, le due ragazze giapponesi hanno pagato («transazione eseguita», recita lo scontrino), ma quel pranzo non sembra un bel ricordo. I precedenti d'altronde non mancano a Roma. Come gli spaghetti d'oro da 695 euro del ristorante Il Passetto dietro piazza Navona, o lo scontrino pazzo da 81 euro per due hamburger e due caffè vicino San Pietro, o ancora i 204 euro per alette di pollo e patatine fritte, sempre in zona Vaticano.

Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica”il 25 settembre 2019. C'erano le sentinelle e i pusher. E c' erano le mamme e i ragazzini che lanciavano la droga dai balconi. Primavalle come Scampia. Con le case popolari trasformate in un' azienda per la vendita della droga dove ognuno aveva il suo compito, ognuno il suo stipendio, ognuno il suo turno di lavoro. Lo spaccio in questa zona soprannominata Bronx, compresa tra via di Torrevecchia, via Sfondrati, via Azzolino e via Calcagnini, era «ininterrotto », per usare le parole del gip Vilma Passamonti. «È emersa nel dettaglio - si legge nell' ordinanza - una precisa organizzazione della piazza di spaccio con " turni lavorativi", aventi, di massima, orario 14-20 e 20-02, e ancora come, al termine di ogni " turno", si proceda alla consegna del denaro e a un rendiconto dell' attività svolta, al conteggio del contante guadagnato e della residua disponibilità di droga, da destinare al turno seguente di spaccio o alla giornata successiva » . Un sistema perfetto in cui, ogni membro che veniva fermato ( i carabinieri sono intervenuti più volte durante l' indagine per arresti in flagranza) veniva rimpiazzato da un altro. Salvo poi tornare "al lavoro" una volta rilasciato ( i capi dell' associazione si occupavano anche dall' assistenza legale). Le indagini dei carabinieri di Trastevere coordinati dal procuratore facente funzioni Michele Prestipino e dal pm Margherita Pinto hanno rivelato che «il turno lavorativo di 6 ore veniva retribuito 60 euro circa, mentre in caso di prestazione resa per l' intera giornata di spaccio, che i sodali chiamavano volgarmente "lunga", l' importo era di circa 120 euro, " tariffe" che tuttavia variavano a seconda della funzione svolta, in considerazione del fatto che l'attività di spacciatore veniva retribuita in maniera più consistente rispetto a quella di singola vedetta». A capo dell' associazione, Manuel Fusiello e Alessio Salvatori, entrambi 26enni: erano loro a procacciare la droga e a gestire il personale. Mentre a custodire la roba era, fino al momento del suo arresto, Samantha Cavicchia che dal suo balcone, e spesso con l' aiuto della figlia tredicenne, lanciava la sostanza alla " rete commerciale" che provvedeva allo smercio, controllata dalle vedette. Per garantire che non ci fossero forze di polizia, il quartiere veniva anche presidiato con staffette che lo controllavano costantemente a bordo di un motorino. Poi c' era la droga. Confezionata in maniera scientifica. Sia per eludere le intercettazioni sia per questioni organizzative. La cocaina veniva preparata con fiocchi bianchi e blu, a seconda che fosse una singola dose o un grammo. Mentre il crack, o la « cotta » come la chiamavano loro, aveva un fiocchetto rosso o nero, a seconda del peso. Agli atti dell' inchiesta ci sono centinaia di telefonate in cui i pusher chiedono « rosse » , « blu » , « bianche » e «nere» che, come per magia, scendono dal cielo. Per gli inquirenti, quella di Primavalle era una piazza importante. I proventi giornalieri erano di circa 3.500 euro con un giro d' affari mensile da 180mila euro. L' ordinanza, eseguita ieri mattina, ha portato in carcere 22 persone, altre 7 ai domiciliari, mentre 6 sono state colpite dal divieto di dimora a Roma. Coinvolti anche due ragazzini per i quali il tribunale dei Minori ha disposto il trasferimento in istituto penale e comunità.

Carmelo Caruso per Il Foglio il 23 settembre 2019. Non corre quanto Milano ed è più lenta di Cosenza. “E come ogni cosa che si arresta e che smette di progredire anche una città finisce così per diventare mediocre”. E dunque per Giuseppe De Rita, che è il padre della nostra sociologia, a Roma “in avanzamento c’è solo la mediocrità della classe politica, della sua borghesia, perfino nel turismo che infatti è straccione e low cost, un’attrazione simbolica anziché razionale come avviene nelle grandi città del mondo”. Insomma, anche lui, che insieme ad altri intellettuali è stato chiamato a disegnare Roma nel 2030, dice che al momento a mancare è proprio un disegno “guasto, catastrofico, perfino cretino”, ma pur sempre residuato di un pensiero. “E invece credo che ormai anche la stravaganza in questa città difetti e che mediocri siano anche i corpi intermedi”. Non è abbastanza mediocre e inadeguata la giunta che la amministra? “Nelle sciagure occorre un disegno. Nell’inadeguatezza dell’amministrazione non c’è disegno, ma ancora una volta mediocrità che è una cosa diversa. Un disegno lo aveva l’impero, lo aveva Mussolini e lo aveva anche Sisto V che voleva demolire il Colosseo per costruire una strada dritta che andava da San Pietro a piazza San Giovanni. Un progetto di enorme bruttezza, ma pur sempre un progetto”. E infatti, secondo De Rita, uno degli ultimi progetti organici di Roma rimane l’Eur, un quartiere che mai si sarebbe pensato di vivere come tale, un progetto frutto dell’ambizione di un dittatore. Qual è allora oggi l’ambizione di Roma? “Innanzitutto bisogna lasciare perdere la corsa su Milano. Non c’entra nulla. Oggi più dinamica di Roma è perfino Cosenza. L’ambizione di Roma è la paralisi che gli impedisce di modificare il tessuto urbano e che alla fine non fa altro che impigrire anche la vita collettiva. Da qui la mediocrità che a mio parere è la sola caratteristica che continua nel tempo e che ha effetti anche nello spazio”. E però, tutti vogliono modificare, riprogettare, ricostruire questa città che di eterno ha la sua capacità di trascinarsi. “E’ vero che tutti hanno annunciato di modificarla, ma l’unico tentativo autentico risale alle Olimpiadi del 1960. Pure con le giunte di Rutelli e Veltroni non si è mai davvero pensato di ridisegnare la sua pianta”. Anche lei è a favore del commissariamento? “Magari bastasse. A Roma non può farcela il comune e non servono manifesti pubblici. Le buche di Roma non sono altro che una metafora di un buco nel tessuto sociale. A Roma tutto è basso, per questo non si può che ripartire dai fondamentali, appunto dal sottosuolo. Buche ed erbacce sono il grado zero”. Chiamiamo l’esercito per riparare il suo tessuto? “No, ma servono aziende a partecipazione statale che se ne facciano carico. Roma non la riconoscono più neppure quelli che ci sono nati”. E non si riconosce neppure De Rita che a Roma è nato 87 anni fa e che in questi giorni si è messo a girare l’Italia per il suo Censis. “Bisognerebbe dibattere dei mali di Roma come una grande questione nazionale un po’ come avvenne nel 1974. Per giorni, ricordo, insieme alla chiesa organizzammo un convegno sui mali della Capitale. Per uscire dalla sua mediocrità, a Roma, serve una responsabilità collettiva”, dice De Rita che pensa quasi a un concilio e dunque a un quasi miracolo.

IL BIGLIETTO DA VISITA DI ROMA? I CLOCHARD. Claudio Rinaldi per il “Corriere della sera - Edizione Roma” il 20 settembre 2019. Arrivano due vigili in divisa: il piazzale viene sgomberato. I senzatetto accampati ormai da giorni sulle ringhiere davanti all'ingresso principale di Termini prendono le loro cose e vanno via. La stazione riscopre un volto normale. Ma solo per qualche ora. Perché alle sei di mattina del giorno dopo, il risveglio dello scalo più grande d' Italia torna ad essere quello di sempre. Dopo avere trascorso la nottata, i «cartoni viventi» sono di nuovo lì mentre i primi viaggiatori sono pronti a partire. Tra loro si riconoscono subito i turisti: si fermano all' esterno prima di raggiungere i binari e, increduli, tirano fuori i telefonini. Fotografano tende, casette di cartone, brandine, coperte e sacchi a pelo. Esattamente tutto quello che i vigili 24 ore prima avevano ordinato di sgomberare. Così le memorie digitali dei passeggeri come Mario, avvocato di Torino, un giorno nella Capitale per lavoro, si arricchiscono di immagini: il degrado di Termini viaggia assieme a chi sale sul treno in direzione di altre città. «Avevo sentito delle difficoltà che sta vivendo Roma, ma non pensavo di trovare una situazione così anche alla stazione», confida dopo aver immortalato sul suo smartphone una piramide di scatoloni. I senza fissa dimora occupano di nuovo gran parte del piazzale. Nel dettaglio, il corridoio dedicato alla tradizionale fila per i taxi, all' alba ancora in fase embrionale, è invaso dai clochard. «Anche se li fai spostare, poi ritornano», commenta infastidito un tassista. «Non c' è nulla da fare», risponde un altro che aggiunge: «Un paio di mattine fa la gente per scansare i cartoni e le coperte si è dovuta disporre ad arco». Verso il parcheggio delle auto, la situazione non cambia. Altri senzatetto continuano a dormire nonostante sia ormai mattina, mentre un uomo sceglie un angolo per espletare i suoi bisogni fisiologici. Non è l' unico però, perché pochi minuti dopo un altro lo imita. D' altronde il tanfo che si respira un po' ovunque è davvero insopportabile. In ogni anfratto poi si vede spazzatura accumulata, in attesa forse che qualcuno la rimuova. Bottiglie di vetro, indumenti sporchi e residui di cibo. Stessa scena in altre due zone all' esterno dello scalo: in via Gaeta e vicino al sottopasso Turbigo. All' interno di quest' ultimo si trova davvero di tutto. Durante il giorno infatti il tunnel di collegamento tra via Giolitti e via Marsala diventa per gli abitanti di Termini il deposito degli effetti personali. Ma non basta. C' è infatti chi, con le nottate via via più fredde, preferisce dormire lì e chi invece lo utilizza come bagno pubblico per defecare. «Durante il giorno sembra tutto apparentemente normale», commenta un cameriere di un bar all' interno della stazione. «Ma la mattina presto e la sera tardi i controlli scarseggiano e i senzatetto si sentono in diritto di fare quello che vogliono. La verità è che ad oggi sono loro i veri padroni dell' area». E allora forse è per questo che un uomo si aggira liberamente con un cartone di vino in mano e un altro occupa gran parte del marciapiede per la preghiera del mattino. «Abbiamo chiesto alle autorità di intervenire, effettivamente lo hanno fatto. Ma non basta, passano poche ore e si rivede lo stesso degrado», commenta un residente che però, per paura di ritorsioni, preferisce rimanere anonimo. «Non vorrei francamente essere aggredito. Da qui ci passo ogni giorno per tornare a casa. Termini deve essere una priorità dell' amministrazione comunale. Non sono sufficienti interventi sporadici - conclude - serve una presenza costante e quotidiana». Anche perché altrimenti, il giorno dopo, tutto torna esattamente come 24 ore prima.

Roma, destino di una capitale magnifica e umiliata. Pubblicato venerdì, 13 settembre 2019 su Corriere.it da Goffredo Buccini. I paradossi di una città-mondo sospesa tra grandezza e bancarotta nel lavoro del sociologo Domenico De Masi (Einaudi). La ricerca ci proietta nell’Urbe del 2030. Cosa sarà domani? Segregata per censo, tra enclave di ricchi e ghetti di poveri. E percorsa da bande giovanili, suprematisti bianchi di qua, migranti radicalizzati di là. Oppure salvata dai suoi stessi ragazzi, dalla loro street art sui muri di periferia e dalle loro start up nelle officine abbandonate, uniti nella sfida del futuro senza distinzioni di etnia o religione. Quasi in bancarotta eppure seduta sull’oro della sua storia. Sospesa tra una missione universale ritrovata e l’eternità della sua morte sempre annunciata, in bilico tra utopia e distopia. La ricerca «Roma 2030. Il destino della capitale nel prossimo futuro», condotta da Domenico De Masi e coadiuvata da un gruppo di esperti, è pubblicata da Einaudi (pp. XIV-448, euro 20)Ecco la Roma 2030 proiettata dal caleidoscopio del sociologo Domenico De Masi in una ricerca previsionale (edita da Einaudi) commissionata dalla Camera di commercio e realizzata secondo il metodo Delphi, importato dall’America nel ’77: doppio questionario incrociato e votazione prima del rapporto finale su dodici discipline con la collaborazione di altrettanti esperti di chiara fama (qualche nome: da Enrico Giovannini a Innocenzo Cipolletta, da Michel Martone a Giuseppe Roma, da Walter Tocci a Francesco Karrer). Domenico De Masi (1938) è docente emerito di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma, dove è stato preside della facoltà di Scienze della ComunicazioneEpicentro mondiale dell’ozio creativo per Goethe, lenta e senza energia per Stendhal, ammantata di «divina indifferenza» per Matilde Serao, vivibile solo con «propositi cosmopoliti» per Mommsen, Roma è un infinito ossimoro; è una e trina — metropoli, capitale e città-mondo — e questo volume ce ne restituisce la meravigliosa complessità come esito d’un passato che non passa (per Joyce i romani campavano mostrando ai visitatori «il cadavere della nonna in cantina») e premessa di un futuro appena dietro l’angolo. De Masi, prima di dare la parola ai suoi aruspici 2.0, si diverte ad accompagnarci nella storia e nelle storie. Nell’umiliante confronto tra la sbrindellata Roma capitale dei giorni nostri e quella imperiale, capace di gestire gloriosamente un personale sedici volte più numeroso su un territorio 350 mila volte più grande. Nella (controversa) invenzione medievale del Purgatorio così come sostenuta da Jacques Le Goff: fonte, con le sue indulgenze non gratuite, di accumulazione primitiva della ricchezza ecclesiastica più tardi riversatasi a cornucopia nella città rinascimentale e barocca. Nel mito cavouriano di Roma capitale (unica città italiana che non avesse «memorie esclusivamente municipali») e nel modernista «cozzo delle idee» di Quintino Sella, fino al suo straordinario paradosso: perché la Roma preunitaria serbava una visione universalistica di sé (faro della cristianità) applicabile oggi al mondo globalizzato proprio ove coniugata con l’utopia scientista del ministro sabaudo noto per il pareggio di Bilancio (e, dunque, con la Roma «colonizzata» dai piemontesi). E del resto Roma senza una missione che ne tenga insieme il glamour di ossa millenarie e anime dannatamente pie diventa una summa di povere rogne quotidiane. «Una capitale, tra le tante cose, è o dovrebbe essere un modello per l’intera nazione. In una capitale tutto ciò che è particolare diventa universale», osservava Moravia. Ma a Roma ogni universalità è sospettabile di compromissione col particulare o forse ne è foriera. Si pensi ai suoi atenei, 44. Una cifra enorme e dunque una pletora familistica o forse una miniera culturale a seconda di quale sarà il rapporto con il lavoro. L’universalistica rinuncia alle Olimpiadi decisa da Virginia Raggi (verso cui De Masi è politicamente piuttosto generoso) ha assai a che fare col particulare dei Cinque Stelle terrorizzati da scandali (poi non mancati in altri dossier) e quella è stata la condanna di Roma almeno fino alle prossime occasioni universalistiche: i 150 anni di Roma capitale e il Giubileo 2025 in cui di sicuro qualcuno attingerà il proprio particulare, ma tant’è. Esagerata per natura, Roma tutto esaspera. La questione abitativa, pur grave sul piano nazionale, diventa epocale, una bomba, con 90 occupazioni di palazzi, 12 mila famiglie in attesa di casa e «ritardi concettuali nella formazione delle graduatorie»: sì, gli italiani sono effettivamente penalizzati e vanno studiati rimedi per evitare altre cento Casal Bruciato con annessa caccia ai rom. Le seconde e terze generazioni di migranti avranno curricula scolastici pari ai ragazzi di famiglie italiane: ottima cosa che, in assenza di ius soli, potrebbe però trasformarne l’entusiasmo in frustrazione, fino a mutare le nostre periferie in nervose banlieue (nemmeno l’ethos fatto di «ironia e accoglienza» citato da uno degli esperti con qualche ottimismo, allora, ci salverebbe). Estesa quanto le altre otto maggiori città italiane messe assieme, Roma contiene due città, quella della grandezza e quella della necessità: la capitale che parla al mondo e la metropoli che dovrebbe parlare al proprio popolo, ma questa duplicità non trova corrispondenza né in termini di finanziamento né di governance. E dunque l’Urbe del 2030 dovrebbe essere duale, governare la «necessità» col potere dei municipi (popolosi come medie città italiane) e la «grandezza» con quello di una città-stato o perlomeno di una Roma-Regione padrona del proprio destino (e dei propri quattrini). Il futuro ci aspetta in una mappauncharted, ignota al di là delle previsioni. Perché alle pagine che immaginano un «flaneur postindustriale» che vada gironzolando felice in una Roma che abbia recuperato «il lusso della pausa, lo scambio gratuito di reciproche simpatie e l’arte sublime dell’ozio creativo» (otium, alla latina) si oppongono, ahinoi, quelle (di scuola Censis) che immaginano «cicli conflittuali» animati da cittadini esasperati: «trasporti e rifiuti possono portare a situazioni di dissenso e di lotta». Insomma il famoso flaneur baudeleriano che voglia tuffare il proprio cuore in una sì grande bellezza dovrebbe, zigzagando tra cassonetti maleolenti, correre a prendere la metro Barberini. Per scoprire che è chiusa: oggi, domani e forse anche nel 2030.

LA CASA CON VISTA SU FONTANA DI TREVI? “È UMIDA!”. Lorenzo De Cicco per Il Messaggero il 21 agosto 2019. «Che effetto fa? Direi normale», risponde Emilio De Lipsis, 74 anni, mentre schiude le persiane della casa che ha in affitto dal Comune e spunta il torso marmoreo del dio Oceano, che troneggia tra i flutti disegnati da Nicola Salvi.

Normale aprire la finestra e vedere Fontana di Trevi?

«Viviamo qui da tanti anni, ci siamo abituati. Pensi che quando abbiamo ospiti, qualcuno si lamenta del rumore dell'acqua, ci dicono: sembra che piove. A noi non dà fastidio, però certo, l'umidità a volte si sente, è molto forte».

Pecca sopportabile, c'è da immaginare, per chi paga 286 euro al mese per vivere in 90 metri quadri con doppio affaccio - dal salone e dalla camera da letto - su uno dei monumenti più belli al mondo, simbolo della Roma barocca riprodotto perfino a Las Vegas. De Lipsis mostra l'ultima bolletta pagata al Campidoglio, datata 5 luglio 2019: due fogli, col versamento di 215 euro più un'altra settantina. Fino al 2015 pagava 207 euro al mese. Poi i canoni sono stati adeguati, come ha rivelato ieri Il Messaggero, e si è arrivati alla cifra di 286 euro, tutto annotato nel rapporto del 2019 sfornato dal Comune.

Domanda d'obbligo: si renderà conto che la cifra è clamorosamente al di sotto dei prezzi di mercato, anche dopo il minuscolo rincaro, o no?

«Certo, ma la cifra non l'ho decisa io. E nemmeno mia moglie. Il Comune non ci ha mai fatto un contratto, per anni non si sono fatti sentire».

Quindi paghereste di più?

«Sì, certo. A settembre dovremmo incontrare Aequa Roma (l'Equitalia del Comune, ndr) proprio per parlarne».

E quanto sareste disposti a pagare?

«Magari 600 euro, anche 700».

È comunque pochissimo, per una casa così.

«Questo possiamo permetterci».

Perdoni l'invadenza, ma più o meno quanto guadagna al mese, di pensione?

«Tra la mia e quella di mia moglie, circa 3mila euro. Ma a lei ora stanno togliendo alcuni soldi, per un problema con la liquidazione, è stata dirigente in Regione».

E lei, che lavoro faceva?

«Funzionario del Comune».

Ah, ecco. La casa del Comune come l'avete avuta?

«Ci viveva mia moglie. Suo zio era segretario generale dell'Eca, l'Ente comunale di assistenza, a cui venne dato questo appartamento, che poi è diventato del Comune di Roma. Lo zio ci abitava gratis, poi quando è morto sono arrivate le bollette, che peraltro all'inizio erano intestate a lui».

Allo zio defunto?

«Esatto».

Con 3mila euro al mese o anche meno, potreste tranquillamente permettervi l'affitto di una casa a prezzo pieno, magari non questa...

«Ma abbiamo tante spese, dobbiamo aiutare i nostri figli, uno è disoccupato, prende il reddito di cittadinanza».

Davvero?

«È anche invalido, ha la dislessia. È domiciliato qui, ma ha la residenza in una casa dell'Ater».

Il Comune sostiene di aver mandato le disdette per case come la sua, che tocca solo aspettare.

«Qui non è arrivato nulla».

Ma avete mai pensato di trasferirvi e di lasciare al Comune questo immobile che, in fin dei conti, è di tutti i romani?

«Potremmo andare in un'altra zona, ma siamo qui da trent'anni. Ci piacerebbe comprare la casa».

Servirebbero svariati milioni...

«Mah, in realtà qui ci sono molti problemi».

Davvero? Entrando dal portone si vedono statue di marmo, decorazioni alle pareti, mosaici. Qui ha abitato Pertini..

«Ma non si faccia ingannare, alcune pareti sono scrostate, diversi punti luce sulle scale non funzionano e non ci mandano l'elettricista.

Pensi che proprio oggi ho dovuto cambiare una lampadina. Poi non abbiamo più le chiavi per la terrazza, non possiamo andarci, sarebbe un diritto condominiale».

Alla fine della chiacchierata, sull'uscio sbuca un gatto. «Si chiama Orfeo, lui non paga neanche un euro di affitto».

ANSA il 7 agosto 2019. "Salvate Roma, salvate le nostre città, non riducetele a uno sfondo di cartone". L'appello arriva dall'Osservatore Romano che, partendo dall'omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, e dal fenomeno della cosiddetta movida romana, sottolinea nella rubrica Cronache Romane: "I romani stanno fuggendo da Roma. I rioni, i quartieri, si stanno progressivamente svuotando di residenti".

Da Il Messaggero l'8 agosto 2019. Giro di vite contro i panni stesi alla finestra a Roma. Se lenzuola e t-shirt sono visibili dalla strada o dalle piazze si rischiano fino a 100 euro di multa. È una delle misure previste dal nuovo Regolamento di polizia urbana diventato esecutivo a luglio e che tra le altre cose prevede il divieto di sedersi sulla scalinata di Trinità dei Monti. Il nuovo Regolamento non tutela solo il centro storico e i monumenti ma si occupa anche di piccoli maleducati gesti che, nelle intenzioni degli estensori, incidono sul decoro urbano. E così. nel dettaglio, è vietato «esporre o stendere all'aperto» in aree, recinti o spazi privati, esclusi i «balconi aggettanti», sia biancheria che qualunque altro oggetto «visibile dalle vie e piazze pubbliche». Insomma: chi stende i panni, peggio ancora la biancheria intima, sui classici fili alla finestra rischia di essere sanzionato. Massima attenzione anche quando si annaffiano le piante. «Nel procedere all'annaffiatura di vasi di fiori o piante, collocate all'esterno delle abitazioni, deve essere evitato lo stillicidio sulla strada o sulle aree aperte al pubblico transito» stabilisce il Regolamento. Prevista una sanzione di 100 euro per chi non rispetta queste norme. Spazio inoltre alla pulizia dei marciapiedi e degli «ambiti di pertinenza privati». Nel periodo di massima pericolosità del rischio di incendi nell'ambito del territorio capitolino «tutti i proprietari, conduttori o utilizzatori di aree private destinate anche a giardino, sono tenuti a mantenerle costantemente pulite da sterpaglie, fogliame ed ogni altro materiale, al fine di evitare rischi di incendio». Ma anche durante e dopo «le precipitazioni atmosferiche e in caso di eventi atmosferici eccezionali che comportino accumulo di neve, grandine, acque meteoriche o fango» i proprietari, gli amministratori o gli utilizzatori di immobili sono obbligati a «tenere sgomberi», dalle ore 8 alle ore 20, i marciapiedi fino alla larghezza di 2 metri in corrispondenza degli accessi. E anche il rumore 'molestò viene regolamentato. Gli antifurti delle abitazioni devono essere dotati di un «dispositivo temporizzatore che ne limiti il tempo di emissione sonora ad un massimo di cinque minuti complessivi». Chiunque utilizzi antifurti acustici in edifici, per impedire che il malfunzionamento del sistema d'allarme possa arrecare disturbo, è obbligato a esporre all'esterno e in modo visibile una targhetta con i riferimenti e il recapito telefonico di una persona «reperibile» che possa «far cessare immediatamente il disturbo». Come anche dalle 22 alle 8 i servizi di nettezza urbana e il carico e scarico di cose, nell'abitato e nelle zone limitrofe, «devono effettuarsi in modo da non disturbare il riposo delle persone». E, per chi ha sete, guai ad attaccarsi ai classici nasoni, ovvero le fontane di Roma: anche qui è prevista la sanzione. Meglio affidarsi allo zampillo o avere un bicchiere. Per non pagare carissimo un semplice sorso d'acqua.

Virginia Raggi, decrescita capitale. Nell'era grillina Roma è una città ferma, senza progetti, senza scenari per il futuro, senza Olimpiadi ma con mille problemi. Francesco Bonazzi il 7 agosto 2019 su Panorama. Sì, va bene, il debito soffocante e gli autobus che vanno a fuoco. E poi i cassonetti dell’immondizia che si espandono in verticale con sacchi e sacchetti colorati di rifiuti. La risposta romana a quelli che invece hanno Gaudì. E su tutto, il regno animale del gabbiano oversize, la nuova Lupa, l’unico che fa veramente la raccolta differenziata in questa città meravigliosa, insieme a migliaia di rom con carrello e rastrello e a centinaia di trentenni africani ben vestiti e con il cappello in mano, piazzati di fronte a ogni bar e a ogni supermercato, a chiedere l’elemosina o a spazzare cinque metri quadri di marciapiede. Due eserciti alternativi che ogni mattina s’irraggiano per la capitale da punti misteriosi e spiegano meglio di mille studi che cosa succede quando il controllo del territorio ce l’hanno gli altri. Per contemplare il ritardo della capitale, basta salire su un qualunque colle e guadarsi intorno: non si vede una gru. Non si costruisce niente, non si progetta nulla, non s’immagina nulla a parte convertire la casa dei genitori in un bed&breakfast. Si vive di rendita. Amen. Il medesimo sguardo dall’alto su Berlino, Parigi, Londra, Madrid, Barcellona e perfino su Vienna, consegna impressioni diametralmente opposte: le capitali vivono, osano, sperimentano, si rinnovano continuamente. Non puntano su un turismo di seconda categoria, al quale offrire solo il colore del cielo, ruderi e vestigia, una cucina saporita ma greve e sempre eguale a sé stessa, ex galeotti vestiti da centurioni e negozietti indiani a tutela del made in Italy. La Roma di Virginia Raggi forse non è peggio di quella che le è stata lasciata dall’inchiesta su Mafia capitale, ma è un inno alla paralisi. «Dobbiamo fare solo cose che siano pronte per la fine del mandato», ovvero per la primavera 2021, ripete costantemente ai propri collaboratori più stretti l’avvocatina di Ottavia, la borgata senz’arte né anima cresciuta a casaccio lungo il lembo nord occidentale del Gra. Il pomeriggio di mercoledì 24 luglio, la Raggi ha l’umore sotto i tacchi per colpa di Luigi Di Maio, che con la riforma interna del «mandato zero» l’ha appena accompagnata alla porta, perché le verrà cumulato il mandato di consigliere comunale di opposizione con quello di sindaco e così tra due anni dovrà tornare a fare l’avvocato. In ogni caso, il suo bel nastrino lo taglia anche la Raggi, camicetta arancione e fascia tricolore a tracolla, in sella a una bicicletta che legittima il suo soprannome nei salotti della Capitale: «la Bambolina». C’è da inaugurare un tratto di pista ciclabile di appena tre chilometri neppure consecutivi, sulla via Nomentana, tra piazza Sempione e Porta Pia. E in un bollente pomeriggio di fine luglio Donna Virginia si presenta alla cerimonia in versione Greta de’ noantri, come se stesse offrendo alla città un nuovo impianto di trattamento dei rifiuti. Quello che Nicola Zingaretti, furbetto, non le fa fare e sul quale la impicca da tre anni. Per altro, con onestà, la sindaca ammette che anche la mini-ciclabile era farina del sacco di Ignazio Marino, giustiziato dal Pd. Ok, assicurati alla giustizia i Carminati e i Buzzi, qui forse si ruba e s’intrallazza di meno, ma dopo tre anni di non-governo si può continuare a rispondere alle critiche con il solito: «E allora, quando c’era il Pd?». Quando non c’è un progetto urbanistico, ma neppure un’idea di sviluppo economico, «l’evento sportivo», diventa misura di tutto. Ma questa Roma senza gru e senza progetti ambiziosi è il simbolo di una certa mentalità grillina, una decrescita magari onesta, ma fondamentalmente gretta e infelice. Poi, da zero, la voglia improvvisa di ospitare gli Europei di nuoto. Eppure la Raggi esordì facendo di tutto perché Roma non si candidasse ad accogliere le Olimpiadi 2024. Anche Matteo Salvini, va detto, definì il progetto una follia, mentre l’allora premier Matteo Renzi aveva deciso di appoggiare la candidatura facendola gestire ai soliti noti dei circoletti sul Tevere, quelli dove un paio di scarpe inglesi ai piedi e il collettone a punta della camicia fanno subito «classe dirigente». Ma nulla è stato pensato in alternativa, dalla Raggi. E allora in quest’estate nella quale i mezzi dell’Atac continuano ad andare a fuoco come monaci buddhisti al ritmo di due al mese, il 17 luglio la Raggi sale sul trampolino e si lancia in un doppio carpiato: «Roma vuole confermarsi protagonista delle rassegne internazionali. Ci candidiamo per ospitare gli Europei di nuoto del 2022». Ma come, fiumi di retorica grillina contro i «grandi eventi», le ruberie dei predecessori, le tirate contro il Coni di Giovanni Malagò, le piscine bucate, i «circoli esclusivi» che si sono rifatti gli impianti «con i soldi del contribuente» in occasione dei Mondiali del 2009? Ma gli uomini della Raggi si aspettano 100 mila spettatori sulle gradinate tra Ostia e Foro Italico, 200 milioni di telespettatori e un incasso di almeno 100 milioni di euro. Eppure i «migliori Mondiali nella storia del nuoto», come disse un sobrio Gianni Alemanno dieci anni fa chiudendo Roma 2009, hanno lasciato un buco da 9,7 milioni di euro, coperto dal solito Milleproroghe del governo, l’anno seguente. Colpa delle stime: a tre mesi dall’inizio dei Mondiali, il comitato organizzatore straparlava di 1 milione e 600 mila biglietti già venduti. Ma dopo 17 giorni di gare i biglietti venduti si erano fermati a quota 124 mila, per un incasso di 3,9 milioni. I grillini hanno campato su storie così, ma ora scoprono anche loro la retorica del «Grande evento». Non è sbagliata, per carità, a patto che oltre che onesti si sia anche un minimo capaci. E umili, ovvero disposti a confrontarsi con gli architetti e non solo con quattro geometri del proprio meetup grillino. Così dopo l’ennesimo Salva-Roma, ecco che la Raggi scopre il fascino tardivo del «Grande diversivo». Eppure ci sarebbero servizi da garantire ai cittadini, cose semplici che fanno tutte le amministrazioni in tutto il mondo, come raccogliere la spazzatura e smaltirla, oppure tenere bene le strade. Il problema delle municipalizzate capitoline è sempre il solito micidiale impasto di clientele, sindacalizzazione deteriore a scapito del più elementare rispetto dei diritti dei cittadini, e un disservizio cronico che a sua volta alimenta nella comunità una già spiccata carenza di senso civico. Ama, la società che dovrebbe tenere pulita questa città di soli 2,8 milioni di abitanti che però a volte sembra già Città del Messico, dà lavoro a ben 7.800 persone. Nel 2015 (con Marino) aveva il bilancio in utile per 900 mila euro e l’anno seguente per 626 mila. Il bilancio 2017 non è stato approvato, ma sarà certamente in perdita, come quello dell’anno scorso. L’Atac, con i suoi scenografici roghi, tre anni fa aveva annunciato il famoso pareggio di bilancio e invece ha bruciato 325 milioni di euro nel biennio 2016-2017. I conti del 2018 non sono ancora stati approvati e il preconsuntivo è in attivo, ma solo perché anche gli interessi sui debiti, grazie al concordato fallimentare, sono congelati da più di un anno. Il Comune riesce a perdere denari perfino sulle farmacie, dove ci vuole davvero uno scienziato, e la Farmacap (con 45 negozi) è in rosso da anni, al pari di Roma Metropolitane, che non approva il bilancio dal 2016 a seguito di varie contestazioni. Al di là delle chiacchiere e dei sorrisi, qui la Bambolina non paga nessuno. Nel 2018 sono esplosi i debiti commerciali del Comune, schizzati da 1,14 miliardi di euro a 1,5 miliardi, per un balzo del 32 per cento in un anno soltanto. Anche questo modo di finanziarsi sulle spalle dei fornitori «è colpa del Pd» e degli amichetti di spranga di Alemanno? Ad agosto del 2019, terzo anno dell’Era grillina, è una tesi dura da sostenere. Specie con questo skyline senza gru, piatto come l’encefalogramma di chi lo ha prodotto, di diniego in diniego. L’unica opera che alla Raggi sembrava piacere era il nuovo stadio della Roma, da costruire a Tor di Valle in una zona scelta con il lanternino tra le più alluvionali e scollegate della città, ma che era di proprietà del costruttore Luca Parnasi, a sua volta pesantemente indebitato con la ex Banca di Roma, oggi Unicredit. Due anni fa la Procura di Roma ha fatto una bella retata in stile Prima Repubblica, con i grillini in veste di nuovi socialisti, e ora è tutto fermo. Come le dimissioni di Marcello De Vito, il presidente pentastellato del consiglio comunale, arrestato il 20 marzo con l’accusa di corruzione e che tutti hanno il terrore di rimuovere. La realtà è che a parte il viaggiatore low cost Alessandro Di Battista, Raggi non ha più alleati nel Movimento. La deputata Roberta Lombardi, candidata mancata al Campidoglio, non perde occasione per commentare i suoi insuccessi, e la vicepresidente del Senato Paola Taverna ha il dente avvelenato con lei per lo sfratto della madre da una casa popolare. E si sono chiusi in un silenzio che non promette nulla di buono per la Bambolina Carla Ruocco, avvocato anch’essa ma di tutt’altra tempra, Carlo Sibillia e Nicola Morra. Non le perdonano gli inciampi giudiziari come il caso di Raffaele Marra, e non capiscono il suo immobilismo. Questa Roma che ha appena elemosinato l’ennesimo decretino governativo, ottenendo 300 milioni di contributo annuo, è seduta su un debito di 12 miliardi, tre quarti dei quali finanziari e lascito dei sindaci precedenti, di ogni colore e valore. Alcuni, però, almeno hanno lasciato qualcosa ai romani, mentre la Raggi che vuole solo opere da giocarsi in campagna elettorale è il mesto gestore di una città che ogni giorno si allontana dalle capitali d’Europa. Un nientino che alla fine ti rade al suolo più di un Nerone, ma senza un solo lampo di grandezza.     

Domenico De Masi per il “Fatto quotidiano”l'8 luglio 2019. É la prima volta in vita mia che sono stato invitato alla serata conclusiva del premio Strega e ne ho riportato la convinzione che il luogo, la cosa e il modo siano una compiuta metafora di Roma: una mousse di pressappochismo organizzativo, pasticcio familistico, assenza di stile che poi, solo per miracolo, sono riusciti a indicare in misura inequivocabile un' opera e un autore di altissima qualità: Antonio Scurati e il suo libro su Benito Mussolini hanno vinto con 228 voti, centouno più di Benedetta Cibrario, seconda classificata. La serata finale voleva essere chic ma gli invitati in overbooking e la confusione erano tali e tanti che ogni cosa - pranzo, interviste, diretta televisiva, comunicazione dei risultati, proclamazione del vincitore - tutto, dentro il Ninfeo, degenerava in un' approssimazione simmetrica alle buche stradali e ai cassonetti ridondanti fuori del Ninfeo. Lo Strega è il premio letterario più ambito in Italia; la sua vittoria consacra uno scrittore e gratifica una casa editrice; dopo la fuga da Roma della moda, del design, delle case editrici, resta una delle ultime eccellenze culturali della capitale. Perché non farne un evento organizzativamente e mediaticamente impeccabile come avviene a Milano con le prime alla Scala o come avviene a Venezia con il Campiello? La sciattezza a Roma è di casa e la sua attuale epifania scandalizza solo gli sprovveduti di memoria storica. Ne abbiamo una ininterrotta testimonianza da parte degli intellettuali che solo raramente hanno espresso rispetto, amore o sogno; molto più spesso sono stati spietati nella critica e perfino nell' arroganza. Testimoniano rispetto le pagine di un poeta come Goethe o di un premio Nobel come Mommsen. C' è affetto in Palazzeschi che chiude il suo romanzo invocando: "Roma, Roma, Roma, Roma. Giovane e decrepita, povera e miliardaria, intima e spampanata, angusta e infinita". L' orologio di Carlo Levi ha un incipit sognante: "La notte, a Roma, par di sentire ruggire i leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell' ombra qua e là scintillante". Per il resto, è quasi tutta indignazione, o critica corrosiva, o sprezzante superiorità. Nel Settecento Vittorio Alfieri scrisse che la città eterna "ogni lustro cangiar vede, ma in peggio". Nel secolo successivo, il primo gennaio 1817, Sthendal annotò nel suo diario: "Questo soggiorno tende a infiacchire lo spirito, a gettarlo in una sorta di stupore. Mai uno sforzo, mai un po' d' energia: niente che vada di fretta". Il 4 gennaio: "Ho passato venticinque giorni ad ammirare e a indignarmi". Nel primo Novecento Matilde Serao colse nel segno: "L' attitudine di Roma è in una virtù quasi divina: l' indifferenza". Nel secondo Novecento Andy Warhol disse che "Roma è un esempio di quello che succede quando i monumenti di una città durano troppo a lungo"; e Gaetano Afeltra, dall' alto del suo Corriere della Sera, tagliò netto e truce: "Roma è un troiaio". Nel 1975 l' editore Bompiani pubblicò un libro collettivo, non a caso intitolato Contro Roma, in cui erano raccolte illustri invettive contro la capitale. Eugenio Montale scriveva: "Io so che a Roma tutto diventa un baraccone [] È una città provvisoria, vive sul provvisorio: però questo provvisorio è costituzionale, eterno e probabilmente non finirà mai". Per Goffredo Parise Roma "è un souk. Nei souk calano i mercanti e i cammellieri, trafficano, commerciano con gli sceicchi al potere". Per Guido Piovene, "Roma, si sa, è teatro Tra Roma e le diverse parti d' Italia non si sa quale sia più attiva nel corrompere l' altra. L' Italia è tutta e quasi egualmente mafiosa, la periferia guasta il centro e il centro la periferia". Secondo Moravia, "la cultura, che è altrove scambio e inquietudine, a Roma non è che passatempo e vacuità. Il popolo romano si direbbe oggi composto in prevalenza di teppisti che decapitano le statue, riempiono strade, piazze e giardini di immondezze, coprono i monumenti di scritte oscene e cretine, distruggono, insomma, tutto quello che possono con un vandalismo che sembra addirittura premeditato e pianificato". Per Dario Bellezza Roma era una "città che puzza e dove non c' è spazio né per l' amore ucciso dal cinismo né per l' amicizia uccisa dalla superficialità e dalla volgarità Roma è nel caos metropolitano, nella polvere, nella sporcizia immonda dei suoi rifiuti depositati per le strade strette, nella fame antica e inquieta degli inurbati di fresco, nella facile, corruttrice ricchezza del cinema di Cinecittà". Per Raffaele La Capria: "Roma è prevalentemente una città di impiegati che non hanno trovato un lavoro e che lo Stato mantiene in cambio di prestazioni incontrollabili". Dacia Maraini confessa: "Non credo di poter dire niente di originale sulle ragioni passate e politiche che hanno reso Roma quella città brutta e sgangherata e inefficiente che è oggi". Dunque, la Roma di Virginia Raggi è iniziata ben prima della Raggi. E, se si vuole risalire la china, occorre fare uno sforzo organizzativo che a Roma risulta contro natura, ma è tuttavia imprescindibile. A cominciare dai suoi punti di forza: come il premio Strega.

IL SALOTTO DI ROMA? SOLO PIZZERIE AL TAGLIO E AFFITTACAMERE. Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” l'1 luglio 2019. Il cuore dell'Urbe, quello che per Goethe riallacciava l'intera storia del mondo, rischia di ridursi a una successione di pizzerie al taglio & mini-market h24, pub con lo shottino a 3 euro e appartamenti convertiti in affittacamere buoni per i turisti low budget capitati qui cavalcando l'onda dell'ultima offerta su internet. Mentre i residenti storici, stritolati dalla movida chiassosa e sciatta, si rifugiano altrove. E le serrande nei negozi di pregio si abbassano a un ritmo mai visto prima, una resa davanti alle lenzuolate di paccottiglia e merce contraffatta che gli abusivi srotolano nelle piazze più visitate dai nuovi turisti, in vena di compere contingentate. Nel 2006, nel centro di Roma abitavano in 194.362. Nel 2015 i residenti, a leggere i dati ufficiali, erano già crollati a 186.802. Nel 2016, altra flessione: 185.435 residenti. Nel 2017, ancora più giù: si scivola a 180.606 abitanti. Una discesa verticale, annotata nell'ultimo rapporto dell'Ufficio Statistica del Comune di Roma. Senza contare che il numero dei residenti «effettivi», secondo il I Municipio, è ancora più basso. E di parecchio. «Siamo ampiamente sotto ai 165mila abitanti reali stima la presidente della circoscrizione del Centro storico, Sabrina Alfonsi Molti figurano come residenti solo sulla carta, ma di fatto non abitano qui. La causa principale è proprio la crescita esponenziale delle strutture extra alberghiere. Complice la crisi, conviene a tanti affittare l'appartamento in centro, per fare affari coi turisti, e spostarsi anche di pochi chilometri, nelle zone semicentrali. È un trend che si può invertire solo con scelte politiche forti». Per esempio? «In altre capitali sono state introdotte restrizioni molto severe per aprire affittacamere e bed & breakfast». Solo sulla piattaforma di Airbnb a Roma oggi si contano 29.436 annunci (cinque anni fa erano 13.500, l'aumento è del 118%). La metà, 14.943, sono in Centro storico. E 10.497 (il 70.2%) sono appartamenti interi. Dove cioè non abita nessuno in modo stanziale. I dati li ha elaborati InsideAirbnb, un sito indipendente che analizza i flussi del più importante portale di affittacamere al mondo. Il Centro storico è anche il municipio di Roma col più alto indice di vecchiaia: 234 ultra 65enni ogni cento under 14. Cinque anziani per ogni bimbo con meno di 6 anni. Anche l'età media è tra le più alte della città, più di 47 anni. Mentre si gonfia la bolla degli affittacamere, la rete delle imprese si rimpicciolisce. Dati della Camera di Commercio: dal 2013 al 2018 in tutti i quartieri del Centro hanno aperto 8.354 imprese ma 8.619 hanno chiuso. Il saldo negativo è di 265 attività. Le statistiche dicono che negli ultimi sei anni sono esplose le attività di ristorazione e dei servizi di alloggio: 1.872 aperture contro 707 chiusure. Male tutto il resto o quasi. Nel settore dell'artigianato hanno chiuso 388 imprese e 322 hanno aperto. Nel commercio, 1.703 nuove iscrizioni contro 1.977 chiusure. Altro distacco, in negativo, per il comparto dei servizi alle imprese, dei noleggi e delle agenzie di viaggio: 621 nuove iscrizioni e 939 cessazioni. L'avanzata del turismo a basso costo produce un impoverimento del Centro. «Chi sceglie l'affittacamere, in genere spende poco su tutto. Non solo nel tipo di alloggio: nei negozi, nei mezzi di trasporto, nei posti in cui cenare. Difatti aprono kebab e pizzerie e chiudono i ristoranti di qualità. E diminuiscono i volumi d'affari di chi lavora nel cuore della città, l'impoverimento è generale», racconta Giuseppe Roscioli, presidente della Federalberghi di Roma. Una corsa al risparmio alimentata dall'appeal Capitale svigorito dai disagi continui, raccontati in tutto il mondo. «Se la stampa estera - conclude Roscioli - parla solo dei bus a fuoco, dei rifiuti, delle stazioni del metrò chiuse in centro, poi è difficile puntare sul turismo di alta fascia. E la Capitale va indietro».

Paolo Di Paolo per “la Repubblica” il 7 luglio 2019. È probabile che, se avessero un portavoce - un parente capitolino del vecchio Jonathan Livingston - si dichiarerebbe offeso. Nel racconto di questa Roma inselvatichita, il grande spazio dato ai topi rischia di sminuire i gabbiani? Tanto per cominciare, nel trono di spade della fauna urbana i più potenti restano loro. Uccelli di mare, di lago, di fiume, storicamente legati all' acqua, nel ventunesimo secolo passeggiano accanto ai turisti in piazza Navona. Anzi, a tarda sera se ne impossessano indisturbati, in barba agli ormai sottomessi e umilissimi piccioni. Il tessuto sonoro della città la fa ormai somigliare a un luogo di costa: i versi mattutini e serali «richiamano scogliere e mari profondi, fino a quando all' inganno si sostituisce la sveglia di casa e inizia un nuovo giorno». Scrive così Antonio Canu nelle pagine di Roma selvatica (Laterza), una coinvolgente esplorazione delle specie animali "gentrificate". Non si contano più, e la Capitale somiglia a un' Arca di Noè malmessa. Volpi, cinghiali che arrivano fino a Trastevere, lupi ai margini del Grande raccordo anulare. Racconto a Canu, ambientalista, presidente di Wwf Oasi, l' episodio freschissimo dell' amica in vacanza a Roma che fa colazione sul terrazzino di un hotel in pieno centro storico. Si prepara a gustare una invitante brioche, non fa in tempo ad afferrarla che plana un grosso gabbiano - gagliardo, preciso - la addenta lui, e la porta via. «Questo è ormai all' ordine del giorno - risponde Canu, senza scomporsi - ed è il segno di una confidenza dei gabbiani anche un po' eccessiva e invadente». La definizione esatta?

Cleptoparassitismo. Me la fornisce l' etologo Enrico Alleva, tenendo a precisare che fa parte per statuto delle caratteristiche di una specie «predisposta allo scippo». Il problema - concordano Canu e Alleva - siamo noi. Negli anni Settanta e Ottanta sarebbe stata impensabile tale promiscuità. La grande disponibilità di cibo, anche e soprattutto in forma di spazzatura, «ha fatto naturalmente la differenza. Il gabbiano reale, così, non ha più nessun timore. E ha cominciato a nidificare anche in città, dando vita a una vera e propria generazione urbana ». Piero Genovesi, zoologo, evoca l' aggressività delle cornacchie, che ancora poche settimane fa, all' Eur, attaccavano i passanti. Si tratta di "mamme" che, nel periodo della nidificazione, diventano più sospettose e nervose. Svuotare i cassonetti terrebbe più lontane anche loro? «Sì, l' interazione delle specie selvatiche con l' uomo dipende dal cibo. Se non lo trovano, si spostano». Rischi igienici? Sono limitati, e più che il guano può allarmare la presenza di carcasse sui tetti, dove i gabbiani, che non temono nemmeno le cornacchie, hanno cominciato a nidificare. «Il gabbiano è il predatore più potente in città, attacca spesso anche ratti e piccioni». Dello spadroneggiare dei gabbiani a Roma si è accorto il New York Times , che ironizza: «Il loro tonante rituale al tramonto non è di buon auspicio per Roma». Censirli non è semplice, ma siamo di sicuro intorno alle quattro decine di migliaia. «Cinciallegre e pettirossi sono spariti, c' è stato un esodo di animali più sensibili. Quelli che restano, restano perché li abbiamo viziati, loro se ne approfittano. Al punto da sottometterci», mi spiega Francesca Manzia, responsabile del centro di recupero fauna selvatica Lipu a Roma. In quella che, senza mezzi termini, Canu definisce un' immensa discarica. «Nessun animale è di per sé pericoloso, ma costruire una convivenza sensata fra noi e loro in un paesaggio sempre più urbanizzato è una preoccupazione opportuna». Nel frattempo, i pennuti prepotenti se la spassano - meno romantici che in certe cartoline turistiche o nelle poesie di Cardarelli. E se, a proposito di letterati, Calvino restava ipnotizzato - erano gli anni Ottanta - dalla geometria degli storni nel cielo di Roma («un pulviscolo minutissimo, una nuvola d' ali che volano»), Nanni Moretti, quindici anni dopo, manifestava qualche perplessità.

E chiamava in aiuto - in un episodio poi tagliato dal film Aprile - un improbabile esperto, interpretato dal regista Carlo Mazzacurati. Armato di megafono, prova ad allontanare i volatili, emettendo un suono inquietante, con risultati modesti. E senza poesia, ma con molta preoccupazione per le conseguenze più concrete che letteralmente piovono sui balconi, sulle strade, sulle teste dei romani. Il titolo di quell' episodio? Il grido d' angoscia dell' uccello predatore .

La Raggi trasforma Saxa Rubra da "gioiello" a quartiere discarica. Roma è in emergenza rifiuti e il sindaco Virginia Raggi, dopo l’incendio del Tmb Salario, ha deciso che a Saxa Rubra sorgerà un nuovo centro di trasbordo dell’Ama. Francesco Curridori, Lunedì 01/07/2019, su Il Giornale. Ormai il dado è tratto. A Saxa Rubra sorgerà un nuovo centro di trasbordo dell’Ama. Roma è in emergenza rifiuti e il sindaco Virginia Raggi, dopo l’incendio del Tmb Salario, era messa alle stretta. Doveva agire in fretta e ha inevitabilmente scontentato qualcuno. In primis ha messo in difficoltà il grillino Stefano Simonelli, presidente del Municipio XV dove ricade la stazione di Saxa Rubra, l’area scelta per il centro di trasbordo. Simonelli, in una recente audizione, ha, suo malgrado, dovuto confermare che nel piazzale dove prima sorgeva il Gran Teatro, per i prossimi sei mesi arriveranno circa 300 tonnellate di rifiuti al giorno. Un annuncio che, come si può leggere su Romatoday, Simonelli ha fatto dopo aver espresso la sua “assoluta contrarietà” in un lettera inviata al Campidoglio e votata all’unanimità da tutto il Consiglio del Municipio XV. La proposta della Raggi ha unito tutti, politici locali e comitati di residenti, in un coro unanime di no.

Centro di trasbordo dei rifiuti, i residenti di Saxa Rubra dicono no. “Questa è un’area trafficatissima, vicina al centro Rai Saxa Rubra, e fare un’area di trasbordo con 300 tonnellate di rifiuti creerebbe molti disagi per i residenti e i lavoratori pendolari ma persino problematiche di ordine sanitario”, dice al giornale.it il giovane Leonardo Gabrielli del Comitato Vigna Clara. E aggiunge: “Fare qui un centro di trasbordo significa che questa diventerà un’area in cui mezzi piccoli dell’Ama trasferiranno i rifiuti su mezzi più grandi e sarà molto più trafficata, creando altri disagi considerata la vicinanza della stazione dei treni e dei bus del Cotral”. L’assurdità è che l’area scelta per questo centro Ama è quella dell’ex Gran Teatro che è stato smantellato qualche anno per far posto a un parcheggio abbandonato e che non è mai stato usato. La zona residenziale del quartiere dista appena qualche centinaia di metri e, a preoccupare, è anche la vicinanza con un parco giochi per bambini e l’istituto di scuola superiore Calamandrei. La zona di Saxa Rubra è, inoltre, di notevole interesse paesaggistico per la presenza di una pista ciclabile di circa 15 km che è quotidianamente frequentata da residenti e turisti. Ma non solo. Proprio a Saxa Rubra ebbero luogo nel 477 A.C. la battaglia del Cremera e nel 312 la battaglia di Ponte Milvio. A tal proposito Michele Carosella del Comitato Cittadini di Saxa Rubra, si domanda perché il Comune abbia avuto la brillante idea di mettere i rifiuti in questa zona anziché valorizzare i suoi reperti archeologici e ci rivela che “nel 1990 quando fecero gli scavi per costruire il centro Rai scoprirono un mausoleo, nei pressi del lastricato originale di via Flaminia che congiungeva Roma fino al Nord Italia”.

La contrarietà della Rai e del mondo politico. Anche da parte dei giornalisti della tivù di Stato arriva una netta contrarietà al progetto che intaserebbe ulteriormente la viabilità. “Non capiamo come si possa pensare di destinare i rifiuti urbani in quell’area dove sono presenti giornalmente diecimila persone tra residenti e lavoratori, studenti e pendolari”, dice Dante Iannuzzi, giornalista Rai rappresentante sindacale Ugl che aggiunge: “Se il sindaco ha bisogno di individuare quattro aree di trasbordo dei rifiuti per essere poi trasportate all’esterno della Capitale vanno individuate all’interno del Raccordo Anulare, in punti isolati e ben distanti dai centri abitati” come l’area della Bufalotta in direzione Nomentana. Daniele Torquati, consigliere Pd, invece, rilancia una proposta ormai già accantonata: “Giovanni Caudo, presidente del Municipio III, ha individuato un’area di Anas in via Cisternina, uno snodo del raccordo, quindi vicino a una via di fuga molto importante. Come opposizione abbiamo presentato un ordine del giorno per appoggiare questa proposta”. Giorgio Mori, consigliere di Fratelli d’Italia, invece, attacca la Raggi e lancia l’allarme: “Siamo preoccupati perché non ci sarà un controllo dello spostamento dei rifiuti e, dal momento che manca il cosiddetto “fascicolo dei rifiuti” rischiamo una sorta di terra dei fuochi nella Capitale”.

Rifiuti, mobilità, innovazione: Roma è una città ferma (e senza sogni). Pubblicato domenica, 30 giugno 2019 da Goffredo Buccini su Corriere.it. Cent’anni dopo, la «nonna di Joyce» rischia di restare sola, giù nel seminterrato della storia. In una città buia e senza trasporti, fagocitata da buche e immondizia, insidiata da gabbiani feroci e cinghiali temerari, senza soldi né visione, suona più che mai beffarda l’antica invettiva del grande irlandese contro i romani che campano sulle glorie del passato, «mostrando ai viaggiatori il cadavere della nonna in cantina». Arrivarci, oggi, in cantina. Con le più centrali stazioni della sua metropolitana chiuse per mesi senza una ragione plausibile agli occhi del mondo, persino Stoccolma e Copenaghen scavalcano sul mercato turistico una Roma che sta trasfigurando la grande bellezza dei suoi tesori millenari in grande amarezza quotidiana: quella che, malmostosa, accompagna ogni mattina i romani «prigionieri senza diritti di cittadinanza», pendolari disperati in una metropoli slabbrata e condannata a battere in Europa soltanto Atene sui tassi di crescita del Pil. Quel mugugno da bus che non arriva, quell’improperio da posto di lavoro fuori portata trovano adesso un perché in due studi sistematici in possesso del Corriere, due ricerche imparziali che fotografano la vita agra della capitale d’Italia e spiegano il paradosso di una leadership rovesciata: la maglia nera tra le grandi città proprio a quella che, in fondo, le ha tutte ispirate con la sua grandezza. Non solo dunque il morbo delle periferie, con le bombe sociali del quadrante sud-est come Casal Bruciato, Torre Maura o Tor Sapienza, ma i vicoli del centro storico degradati, i quartieri residenziali in declino e, infine, la paralisi che avviluppa e isola tre milioni di residenti in un unico, angoscioso Caso Roma. Eppure il futuro si gioca su questi tavoli. Entro 30 anni, secondo l’Onu, l’87% della vita si svolgerà nei centri urbani. Uno stratega della geopolitica come l’indiano Parag Khanna immagina la «rinascita delle città-stato» quale soluzione ai problemi di dimensione dell’autorità e della rappresentanza. Le città competeranno sempre più in attrattività, parola chiave del domani «che si traduce non soltanto in più beni e servizi ma anche in più richiamo di risorse umane e finanziarie, sviluppo più equilibrato del territorio, migliori condizioni di vita»: tutto questo spiega il Cresme, nel suo rapporto «Roma 2040 per una nuova civitas». Il centro studi romano ha così misurato la competitività della capitale d’Italia nel contesto europeo, su un ventaglio di 274 aree metropolitane e su uno più ristretto di 44 città con più di un milione e mezzo di abitanti, basandosi su sei parametri, uno generale (diciamo riassuntivo) e cinque specifici: capacità innovativa, turismo, mercato abitativo, demografia, sviluppo economico. Il risultato, pur prevedibile, è sconcertante: Roma è quasi sempre in coda alle graduatorie, vecchia, immiserita, senza inventiva. E persino dove fa ovviamente eccezione, come nel turismo, non svetta, è solo decima su 44, guardata dall’alto da Barcellona e Madrid, Parigi e Londra ma anche dalle grandi città scandinave. Nella classifica generale di competitività, guidata da una Londra ovviamente pre-Brexit e poi da Monaco e Stoccolma, Roma è 34 esima sulle 44 maggiori (10 gradini sotto Milano, che si conferma nostra sola area metropolitana in grado di gareggiare, sia pure con qualche fatica, nel continente). «Roma non è banale, è straordinaria», dice Amedeo Schiattarella, presidente laziale dell’Inarch, l’istituto nazionale di architettura committente del Cresme: «E quindi si è sempre assegnata un compito nel mondo, da capitale del cristianesimo a capitale universale della cultura. Poi s’è persa la capacità di sognare». Testimone privilegiato di mezzo secolo di progetti, cantonate e miraggi della politica capitolina, Schiattarella traccia un confine: «Argan, Petroselli e Rutelli avevano l’ambizione di recuperare una dimensione di capitale internazionale; anche Veltroni ha continuato a inseguire il sogno e, benché nel secondo mandato avesse perso un po’ di continuità, ci sentivamo città del mondo. Poi, una sorta di... realismo politico, che ormai contraddistingue le nostre attività, ha portato gli amministratori a concentrarsi più su problemi spiccioli che sul senso della città nella storia». E però non vuole buttarla in politica l’architetto, sarebbe facile ma controproducente anche per la ricerca del Cresme: «Partendo da questi dati, cerchiamo soluzioni insieme. Vogliamo un confronto super partes che discenda dal grande amore per Roma». Ed è onesto ammettere che il limite dei dieci anni a ritroso, pur sanzionando i sindaci più controversi della storia recente (Raggi, Marino e Alemanno) non spiega certo un gap che tocca progetti, infrastrutture, rapporti normativi col governo centrale, bilanci allegri; come vedremo, inoltre, lo scollamento tra evoluzione urbana e trasporto pubblico, fonte di tanti guai, risale a oltre mezzo secolo fa. Non bastano tre capri espiatori a spiegare il disastro nazionale di una capitale fallita. Per il presidente dei costruttori, Nicolò Rebecchini, c’è un problema di governance: «Dagli inizi del 2000 a oggi, i contributi statali a Roma sono diminuiti del 75%. Così non si ripartirà mai». Se la capacità di innovazione è la porta d’accesso del millennio appena iniziato, Roma insomma non ha ancora trovato la serratura. E’ quartultima sulle 44 città maggiori (ma preceduta da Milano di appena sei posizioni, a dimostrare come questo ritardo sia purtroppo un denominatore comune italiano). La classifica generale è corretta in meglio da due voci, il turismo e le potenzialità del mercato immobiliare (i prezzi, crollati nell’ultimo decennio, ne fanno possibile terra di espansione anche per molte società che dovessero lasciare Londra dopo la Brexit e la collocano al 64 esimo posto quanto a opportunità di mercato). Nonostante ciò, Roma è 168 esima sul campione totale delle 274 città, assai al di sotto della linea mediana europea, tirata giù da economia e demografia, oltre che dall’allergia al nuovo. La città avrà presto i capelli sempre più grigi: su uno scenario trentennale l’indice di crescita è negativo, con un meno 6,1 per cento, e Roma è 199 esima su 274, «una delle realtà meno brillanti dal punto di vista demografico». L’economia è la vera croce. Certo non solo romana ma nazionale. E tuttavia la capitale rappresenta in pieno la drammaticità del quadro italiano in Europa. Nella crescita del prodotto interno lordo è penultima sulle 44 big (solo Atene sta peggio) e 264 esima sul campione più largo delle 274, con tassi pesanti di (non) sviluppo tra il 2012 e il 2016. Alta la disoccupazione (al 40% quella giovanile), Roma è 222 esima su 274. Solo il 28 per cento dei romani in età lavorativa ha una laurea (la città è 231 esima) ed è questo forse il fardello più gravoso per le chance di innovazione. Lo sguardo del Cresme si allarga ancora e lo studio dà anche conto di indici mondiali e di classifiche in cui talvolta Roma neppure compare: valga per tutti il Gpci (Global power city index) che, elaborato a Tokio, valuta le prime 44 città del mondo secondo il loro grado di magnetismo, ovvero capacità di attrarre persone, danaro e imprese: la capitale è assente in una classifica dove la prima italiana è Milano, 31 esima, e che vede in testa Londra (sempre pre-Brexit, ovviamente) poi New York, Tokio, Parigi. A misurare la retrocessione basta la classifica più ristretta delle 16 città europee di questo indice, da cui pure Roma è esclusa: tiene dentro Milano in terzultima piazza e si conclude con... Istanbul, evidentemente più giovane, mobile e magnetica. Il Cresme prova anche a suggerire qualche ricetta e identifica sei aree di intervento: igiene e decoro, rifiuti, manutenzioni, visione strategica, processo decisionale amministrativo, mobilità. «Basterebbe incidere su un paio di questi punti e la città ripartirebbe: sono convinto che per Roma possa aprirsi un’età felice se solo lo vogliamo», sostiene con un certo ottimismo Lorenzo Bellicini, direttore del Cresme e regista di questo studio. Sembrano due le infezioni da curare più in fretta. La brutta farsa dei rifiuti affossa ciclicamente Roma sui media internazionali, attirandole scherno globale: la città è ultima tra le 28 capitali europee nella gestione della spazzatura e non riesce a chiudere il ciclo di smaltimento, continuando ad aggrapparsi a un irrealistico obiettivo di raccolta differenziata. Da un punto di vista di immagine è il danno più grave, Virginia Raggi ci ha perso la faccia. Ma è la mobilità impossibile l’handicap più insidioso, perché di più lungo periodo e di più profondo effetto: sequestra sogni e bisogni di un’intera comunità e rallenta il settore turistico, scoraggiando persino i visitatori più motivati. E qui, se Roma è collocata dal Cresme a un tredicesimo posto sul ventaglio ristretto delle 44 città, il raffronto per lei più devastante viene dal secondo studio che anticipiamo sul Corriere, frutto di cinque anni di ricerca sui trasporti: un dossier che la pone in comparazione con le metropoli europee sue omologhe e descrive gli effetti di esclusione sociale derivanti da un ritardo forse incolmabile. Si chiama «Roma in movimento» (con un ossimoro irridente e probabilmente involontario) il volume del dipartimento di Architettura e Progetto della Sapienza che, firmato dai professori Lucina Caravaggi e Orazio Carpenzano, è in uscita per Quodlibet. Mentre l’Onu stabilisce tra gli obiettivi del millennio di implementare trasporti pubblici sicuri e sostenibili entro il 2030, la capitale d’Italia è il fanalino di coda quanto a infrastrutture ferroviarie e metropolitane. Roma conta 3 linee di metro e 73 stazioni per complessivi 59 chilometri. Londra 12 linee, 422 stazioni, 433 chilometri. Parigi 16 linee, 302 stazioni, 219 chilometri. Berlino 25 linee, 306 stazioni, 402 chilometri. Una distanza siderale. L’Italia postunitaria e persino l’Italia fascista avevano accompagnato lo sviluppo urbanistico con quello delle infrastrutture su rotaia. Il divorzio avviene nel secondo dopoguerra con il «sacco» della città e la sbornia per l’auto, lo iato s’allarga negli anni Sessanta e Settanta per farsi poi assai profondo dalla metà degli anni Novanta a oggi, con la crescita disorganizzata dei quartieri popolari attorno e oltre il Raccordo e la chiusura delle tramvie a vantaggio dell’asfalto. Una tendenza pericolosa per il tessuto urbano, come dimostra l’incrocio dei dati sulla criticità idrogeologica: i nubifragi dell’autunno 2017 e 2018 che hanno messo Roma in ginocchio dicono che la città costruita negli anni ‘50 è meno sicura di quella storica (suoli impermeabilizzati ed edifici sovradimensionati nei grandi piani di edilizia economica e popolare stravolgono i sistemi di drenaggio). Ma i trasporti impossibili hanno soprattutto una grave ricaduta sociale, perché revocano in dubbio il diritto di cittadinanza dei romani: specie di alcuni. Il tempo medio di percorrenza con un mezzo pubblico va dai 18 ai 30 minuti in centro ma può impennarsi tra i 69 e gli 80 minuti andando verso Pomezia a sud o verso la Romanina a est. Il seme della rivolta sta su un bus, il Raccordo è la trincea della rabbia. Lucina Caravaggi spiega che «i nuovi prigionieri urbani sono i soggetti più fragili e privi di un mezzo di spostamento, esclusi dalle opportunità della città... in particolare anziani, malati cronici, donne, bambini, oltre a coloro che non possono permettersi i costi dell’auto». Le cause? «Il vuoto di progetti porta alla mancanza di fondi e viceversa. Con un’aggravante: dopo vari episodi di malgoverno s’è diffusa l’idea sbagliata di una città non migliorabile e ognuno ha teso a farsi una nicchia». Parole diverse ma analisi coincidenti con quelle di Schiattarella: sogno smarrito, visione perduta. I professori della Sapienza pensano che una rete di pontili leggeri possa ricucire un giorno quartieri strappati e riconnettere cittadini imprigionati, magari dando nuova vita alla «cura del ferro» che Rutelli tentò da sindaco. Funzioni o meno, il bello dei pontili sta soprattutto nel loro messaggio simbolico. Bauman credeva ci potessimo salvare solo prendendoci per mano, in quanto esseri umani. I pontili sono in fondo lunghe mani che s’intrecciano dentro la città, a rammendare anche lo strappo tra chi governa e chi è governato, tra chi ha e chi non ha: che sarà pure finanziario o urbanistico, sociale o antropologico ma, a Roma più che altrove, è soprattutto emotivo e sentimentale.

·         Concorsi ed assegnazioni di incarichi truccati.

Sanità Lazio, candidato escluso “indovina” 16 vincitori su 20 del concorso al San Camillo. L’Asl si difende: “Tutto regolare”. Uno dei partecipanti al concorso per dirigenti ha inviato a se stesso una pec con i nomi di coloro che, secondo lui, sarebbero entrati fra i primi 20 in graduatoria. Un mese e mezzo dopo, alla pubblicazione, i primi due sono esattamente quelli pronosticati dal candidato, mentre nelle altre 18 posizioni ci sono 14 dei 20 nomi inseriti in elenco. Fra loro ci sono ex candidati e il coordinatore del comitato a sostegno della rielezione di Nicola Zingaretti a governatore del Lazio. Alla selezione hanno partecipato 160 persone. Luca Teolato il 28 agosto 2019 su Il Fatto Quotidiano. Ha indovinato 16 dei 20 vincitori di un concorso per dirigenti di un concorso per dirigenti delle professioni tecniche sanitarie all’ospedale San Camillo di Roma. Addirittura centrando i primi due nominativi in graduatoria. Tutto ciò un mese e mezzo prima della proclamazione dei vincitori. È riuscito a Antonio Di Nicola, uno dei candidati che ha partecipato alla selezione, alla quale hanno partecipato in totale 160 persone. Nella graduatoria ufficiale stilata lo scorso metà giugno dall’azienda ospedaliera San Camillo di Roma, luogo dove si è svolto il concorso, i primi due classificati coincidono esattamente con i primi due vincitori previsti dal concorrente. Le altre 18 posizioni sono state conquistate, in ordine non esattamente coincidente con le previsioni del candidato, da altri 14 esaminandi che risultano anche nella classifica dei primi 20 stilata a fine aprile da Di Nicola. Nello specifico il terzo previsto da Di Nicola si è piazzato al 12° posto, il quarto all’ottavo, il quinto al settimo, il sesto al quinto e via discorrendo. “Parliamo di incarichi dirigenziali con stipendi di circa 130 mila euro lordi cadauno”, sottolinea il candidato ‘medium’ che ora sta preparando due esposti che depositerà alla Procura di Roma e al Tar del Lazio. “Non sto accusando nessuno – ci tiene a sottolineare Di Nicola – ma esigo quantomeno che venga fatta piena luce su questa vicenda”. L’ospedale San Camillo ha ribadito al Ilfattoquotidiano.it che “il concorso si è svolto correttamente”. La speciale top 20 è stata compilata dal candidato perché “durante le prove scritte – spiega Di Nicola – ho notato degli episodi che mi hanno insospettito. Uno su tutti quello di un concorrente trovato con foglietti di carta che anziché essere allontanato è stato spostato in prima fila davanti alla commissione d’esame. Oltre ad alcune modalità anomale, inerenti le prove scritte, ho trovato inusuale anche il fatto che la presidente della commissione del nostro concorso inizialmente era stata nominata membro di altre due commissioni d’esame per incarichi simili”. “A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina”, avrà pensato Di Nicola, che in attesa dell’ultima prova orale prevista per fine maggio, ha iniziato ad informarsi sugli altri candidati per cercare di capire quali sarebbero stati i vincitori del concorso. E la pec che lui stesso si è inviato il 2 maggio, con i nominativi dei primi 20 in graduatoria, è quasi coerente con il risultato finale. “Tramite le notizie recuperate sui circa 60 candidati ammessi all’ultima prova orale – dice Di Nicola – ho stilato la mia personale classifica dei vincitori del concorso. I posti a disposizione erano 14, ma visto che gli istituti sanitari del Lazio in futuro potranno attingere dalla graduatoria, in caso di necessità, per ricoprire i posti vacanti, mi sono spinto fino al 20° classificato, dato che anche arrivare a ridosso del 14° classificato sarebbe stato comunque molto importante”. Ed in base ad “appartenenze partitiche o sindacali dei candidati”, ed anche “in relazione a presunti rapporti con membri della commissione d’esame di altri concorrenti”, Di Nicola dice di essere arrivato vicino alla perfezione nella sua previsione. I primi due nominativi in graduatoria coincidono esattamente con i due previsti dal candidato. “La prima classificata era alle dirette dipendenze del presidente di commissione” evidenzia Di Nicola. Poi andando avanti tra i vincitori ci sono “ex candidati del Pd alle amministrative passate – racconta il candidato – alcuni eletti altri no, un ex presidente di municipio, un coordinatore del comitato per ‘Zingaretti presidente‘, rappresentanti sindacali vari e membri di primo piano dell’ordine professionale della nostra categoria”.

Regione Lazio, debiti per 26 milioni verso legali esterni. Il capo dell’Avvocatura: “Assegnazioni clientelari”. Attive 1156 cause. Rodolfo Murra riferisce al governatore una situazione "disastrosa" all'interno dell'ufficio legale dell'Ente, con molti avvocati "reclutati secondo modalità singolari" senza "il superamento di un concorso bandito ad hoc", quadro che ha determinato negli anni il "conferimento di incarichi professionali all'esterno". E ora i professionisti esterni cui sono state girate le pratiche interne, attendono il pagamento di oltre 26 milioni di euro. La Corte dei Conti chiede di rimediare, mentre la Regione replica: "Abbiamo già posto dei paletti agli incarichi". Vincenzo Bisbiglia il 2 agosto 2019 su Il Fatto Quotidiano. Gli avvocati della Regione Lazio sono stati “reclutati secondo modalità piuttosto singolari“, senza “il superamento di un concorso bandito ad hoc” e “non tutti” sono dotati di “concreta esperienza nel campo forense”. Situazione che ha determinato negli anni il “conferimento di incarichi professionali all’esterno” a legali “individuati a volte per soddisfare esigenze clientelari” oppure grazie “a mere conoscenze personali“. A questi avvocati esterni la Regione deve ancora versare parcelle per oltre 26 milioni di euro. Lo mette nero su bianco il capo dell’Avvocatura regionale, Rodolfo Murra, in una missiva protocollata il 28 dicembre scorso e inviata al governatore Nicola Zingaretti. La lettera è giunta agli atti della Corte dei Conti, da cui ha preso spunto il procuratore generale del Lazio, Andrea Lupi, che martedì scorso ha criticato – sotto questo aspetto – la gestione dell’Ente sottolineando una “scollatura fra l’avvocatura e gli uffici”. Anche se proprio dall’arrivo di Murra – nel giugno 2017 – le assegnazioni sono drasticamente calate. Il problema del debito, però, rimane. Murra è arrivato a via Cristoforo Colombo dopo l’esperienza a capo dell’Avvocatura capitolina iniziata con Ignazio Marino e conclusasi a pochi mesi dall’elezione di Virginia Raggi. A dicembre 2018, il legale restituiva a Zingaretti un quadro dell’ufficio legale definito “disastroso“, con l’assenza di un “ruolo” (una normativa interna, ndr) che “rende pericolosamente permeabile la struttura destinata allo svolgimento delle attività forensi”. I 19 legali, come si legge nel documento, sono stati reclutati secondo modalità “singolari” e “senza un concorso ad hoc“, situazione che ha creato una “disomogenea preparazione ed attitudine”. La condizione descritta dall’attuale capo dell’avvocatura ha portato all’esterno numerosi fascicoli, “una pratica che ha determinato conseguenze per certi versi disastrose, a partire dal profilo del rispetto delle procedure selettive” e “di controllo successivo sul relativo operato” fino a “squilibri evidentissimi sul piano economico finanziario”. Ad oggi, si legge nella nota allegata “l’esposizione debitoria che l’Amministrazione ha maturato, come somme non ancora pagate e reclamate a titolo di compensi professionali, ammonta a 26.314.101 euro“. Senza contare, scrive ancora Murra “che questi massicci affidamenti hanno prodotto disfunzioni anche in ambito amministrativo”. Non solo. “V’è da dire che le esternalizzazioni non sono state affatto avversate dai legali interni” i quali “si sono visti sgravati di consistente lavoro”. Un carico “che può dirsi significativo ma giammai eccezionale“. Il procuratore regionale della Corte dei Conti del Lazio, Andrea Lupi, nella requisitoria sul rendiconto generale dell’Ente ha rilevato che “nel passato il ricorso all’esternalizzazione degli incarichi legali aveva grande diffusione. Ne costituiscono testimonianza le moltissime parcelle presentate da un cospicuo numero di legali che chiedono il pagamento di crediti professionali“. E ancora: “Sono ancora molti gli incarichi di domiciliazione presso legali di altri fori. Si concorda con la sezione circa la necessità di regolamentare il fenomeno costituendo un albo di fiduciari“. Gli incarichi esterni sono stati assegnati nel corso degli ultimi 20 anni e sono drasticamente calati dopo il 2017, con l’arrivo proprio di Murra in Regione Lazio. Secondo i dati forniti dall’ufficio stampa di via Cristoforo Colombo, nel 2012 gli affidamenti esterni erano ancora 477 e nel 2015 circa 200. Nel 2019 sono stati appena 4. Sempre la Regione precisa che il costo delle parcelle è basato inevitabilmente sul tabellare ministeriale” e “quelle che pervengono con riferimento agli incarichi assegnati dalle gestioni precedenti vengono vagliate secondo un parametro di congruità“. Andando a spulciare la sezione “trasparenza” del sito dell’Ente, troviamo l’elenco completo degli incarichi ancora attivi. Si tratta di 1.156 assegnazioni, in gran parte avvenute dal 2012 in poi – ma ce ne sono anche del 2009 e del 2006 – per l’ammontare di circa 4,7 milioni di euro. Un importo monstre se si pensa che la Regione Lombardia, ad esempio, nel 2017 ha assegnato un solo caso all’esterno. E per essere ricorso a un patrocinio presso un legale non presente nell’avvocatura pubblica, l’ex governatore lombardo Roberto Formigoni sempre nel 2017 fu condannato dalla Corte dei Conti. E pensare che la sede dell’Avvocatura, ha rilevato Murra, non prevedeva nemmeno l’ingresso con cartellino. “Nei prossimi giorni – scriveva il coordinatore a dicembre – vedrà la collocazione del cosiddetto ‘tornello’ all’ingresso, dispositivo che a quanto è dato sapere l’amministrazione non è mai riuscita ad installare prima, sebbene tutte le altre sedi decentrate lo prevedano ed in effetti lo abbiano come perfettamente funzionante“, tutto ciò per far sì che “l’ufficio legale inizi a somigliare sempre di più alle altre strutture regionali”. La requisitoria di Lupi ha messo sul chi va là la Lega in Regione. “Zingaretti si attivi per dare mandato agli uffici di mettere in atto quanto indicato dalla magistratura contabile“, hanno affermato i consiglieri Orlando Tripodi, Laura Corrotti e Daniele Giannini. “Questo modus operandi – hanno detto – non è accettabile, a meno che non si voglia favorire qualche amico dell’amico”.

·         Luca Sacchi, Manuel Bortuzzo e gli altri… A Roma si muore anche così.

Roma, libreria incendiata due volte. «Dà fastidio alle bande di pusher». Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 da Corriere.it. La serranda abbassata porta ancora i segni delle fiamme che, l’atra notte, hanno distrutto il caffè-libreria «La pecora elettrica» (il nome è un omaggio al romanzo di fantascienza Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick) a Centocelle, periferia est della Capitale. È il secondo rogo doloso in sei mesi: il primo risale allo scorso 25 aprile quando lo spazio, che avrebbe dovuto riaprire oggi, fu devastato dal lancio di un petardo. Diverso il metodo del nuovo blitz: la saracinesca è stata forzata, la vetrina è stata fracassata e all’interno è stato introdotto uno scooter rubato, trasformato in miccia utilizzando del liquido incendiario. Gli inquilini del piano di sopra avrebbero sentito uno scoppio, forse degli pneumatici. Disattivate le telecamere all’interno del locale mentre quelle puntate sulla strada, nella vicina armeria, sono state manomesse. A chiamare i Vigili del fuoco è stato Danilo Ruggeri, uno dei due proprietari, svegliato dal sistema d’allarme. Il giovane è sotto choc, atterrito dopo che il quartiere si era mobilitato con una raccolta di fondi per aiutarlo a risollevarsi. Luogo di ritrovo per i giovani della zona, «La pecora elettrica» viene considerata vicina alla galassia di sinistra sebbene, come sottolinea uno dei dipendenti, Valerio Marinelli, 24 anni, «non ci siamo mai dichiarati antifascisti». Apprendista libraio, il ragazzo ribadisce: «Abbiamo dato spazio a temi trasversali dal buddhismo alla pace, alla geopolitica. Certo, giorni prima del rogo del 25 aprile abbiamo ospitato uno spettacolo teatrale sulle partigiane». Marinelli non sembra credere all’intimidazione di matrice politica — nessun agguato è stato rivendicato — ed è convinto che, «nonostante la gentrificazione del quartiere abbia un po’ intaccato la coesione sociale», nel Municipio a guida M5S l’estrema destra non abbia attecchito. Ma i carabinieri che indagano su entrambi gli episodi non escludono la pista politica, tanto più in considerazione del forte valore simbolico di una data come il 25 aprile. Residenti e commercianti sono invece convinti che a sabotare gli esercizi aperti fino a tardi — il 9 novembre è stata devastata da un incendio anche una pizzeria nella stessa via — siano gli spacciatori. Favoriti dal buio, dopo il tramonto, avrebbero campo libero all’interno del parco lì vicino. Raccontano di luci rubate e distrutte fuori dalla pizzeria al taglio «Pachino e bufala» i titolari bengalesi, Fardous Shagor e Ferdous Hossen, che ora dicono: «Abbiamo paura». Massiccia ieri l’adesione del quartiere al presidio di solidarietà, con oltre 3 mila persone. In mattinata il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, in visita alla libreria ha detto: «Il ministro dell’interno Lamorgese mi ha assicurato che il 15 verrà convocata una riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza su Centocelle». Il presidente del Lazio e segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ha esortato i proprietari «a tenere duro e lottare per restituire a Roma la passione del loro impegno sociale». Sul posto anche il vicesindaco Luca Bergamo.Virginia Raggi, indignata per «l’inquietante ennesimo rogo», ha chiesto di fare subito chiarezza. «Vicinanza» anche dal leghista Roberto Calderoli che non ha mancato di «rilevare il problema della sicurezza nelle periferie di Roma».

Roma, a fuoco la libreria "Pecora elettrica" alla vigilia della riapertura. Gli inquirenti: "Ritorsione degli spacciatori". E' il  secondo attacco dopo quello del 25 aprile scorso. Nei locali trovati liquidi infiammabili e la carcassa di un motorino usata come miccia. "Forse disturbava lo spaccio". Decine di messaggi di solidarietà. Da Franceschini a Gipi a Michela Murgia. Rabbia nel quartiere: "E' un punto di riferimento". Raggi: "Inquietante". Zingaretti: "Ai proprietari dico di tenere duro". E in serata in 2 mila alla marcia di solidarietà con i cartelli a forma di pecora. Emanuela Del Frate il 6 novembre 2019. Una ritorsione per "disturbo" allo spaccio. È questa l'ipotesi, oltre alla pista politica, seguita dagli investigatori alle prese con i due incendi, il secondo questa notte alle 3, appiccati alla libreria Pecora Elettrica, in via delle Palme, nel quartiere di Centocelle. Un'ipotesi che ricollegherebbe il rogo a quello, di poco meno di un mese fa, appiccato alla pizzeria antistante. I due locali sono, infatti, gli unici aperti fino a tarda sera e, secondo gli inquirenti, potrebbero infastidire i pusher locali che non gradirebbero il via vai in ore cruciali per lo smercio di sostanze. Le fiamme sono divampate alle 3 circa di questa mattina danneggiando completamente gli interni della libreria. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della compagnia Casilina e i vigili del fuoco che hanno rinvenuto liquido infiammabile nei locali e, qualche ora dopo, la carcassa carbonizzata di un motorino trovato in mezzo alla sala, tra libri in cenere e condizionatore squagliato, probabilmente usato come miccia dopo aver forzato la saracinesca e la vetrata. La libreria avrebbe riaperto i battenti domani, dopo mesi di chiusura dovuti a un altro incendio di origine dolosa avvenuto il 25 aprile scorso. Indagini in corso. E il 9 ottobre era stata data alle fiamme Cento55, la pizzeria di fronte. Oscurando, di fatto, le uniche due luci accese di sera in quel tratto di via. "Ci sentiamo abbandonati dalle istituzioni - ha detto a Repubblica, il titolare Valerio Pasqualucci. "Sembra che aspettino solo che ci sia un morto. Quando ci sarà, interverranno". Contestato, dal proprietario della libreria e dai cittadini presenti, il minisindaco del Municipio V di Roma, Giovanni Boccuzzi, arrivato davanti alle serrande bruciate della libreria. Sul posto anche il Ministro alla cultura Dario Franceschini e il vice sindaco Luca Bergamo che hanno assicurato l'impegno delle istituzioni. "È un fatto di una gravità assoluta che richiede che le istituzioni, Comune e Stato, siano non solo vicine, ma diano un impegno assoluto perché non succeda mai più". Sui social non si arresta l'onda lunga di solidarietà e in serata circa duemila residenti hanno sfilato a una "marcia di solidarietà e di autodifesa" da piazza dei Mirti, con i cartelli a forma di pecora: "Da stasera ci mettiamo per strada perché ci pensano i cittadini, non le istituzioni o i politicanti, a fare la difesa del nostro quartiere". La Pecora elettrica, incastonata tra il parco del Forte Prenestino e la Palmiro Togliatti, è diventata un punto riferimento per tutti i residenti anche per il lavoro svolto con il comitato di quartiere nella riqualificazione del parco antistante. E per essersi posto come luogo sempre aperto e pieno di vivacità culturale. Capace di offrirsi come spazio libero di coworking, così come di organizzare centinaia di eventi. Dalle presentazioni di libri per bambini agli spettacoli teatrali dedicati alla Resistenza, incontri dedicati a tematiche di genere e all'antifascismo. Tanto che, dopo il primo incendio doloso, avvenuto nella notte tra il 24 e il 25 aprile, era scattata una vera e propria gara di solidarietà per aiutare i proprietari nella ricostruzione. Con una campagna di crowdfunding, ma anche e, soprattutto, con decine di iniziative, che hanno visto mobilitarsi anche i negozianti e gestori di locali della zona, diffuse nel quartiere e non solo. "È commovente, aveva raccontato a Repubblica, uno dei due proprietari, Danilo Ruggeri. "Ci stanno trasmettendo la carica per tornare più forti di prima". E, ora, alla vigilia della riapertura, ancora un dramma. "L'incendio di stanotte l'ha distrutta di nuovo. Sono entrati e hanno dato fuoco a tutto". Tantissimi gli attestati di solidarietà del mondo della cultura, da Gipi a Michela Murgia che, del rogo di libri, ha parlato anche durante l'ultima, contestatissima, edizione del Salone di Torino. Passando per il Premio Strega Helena Janeczek. Come quello di Mauro Berruto che agli scrittori, da Nicola La Gioia a Roberto Saviano, lancia un appello: "Scriviamo una pagina, un racconto, troviamo un editore e finanziamo la ri-riapertura de la #pecoraelettrica?". Non tardano ad arrivare reazioni nel mondo politico. A partire dallo stesso Nicola Zingaretti che si affida a twitter "La Pecora Elettrica è un luogo di cultura e aggregazione. Ai proprietari dico di tenere duro e lottare per restituire a Roma la bellezza e la passione del loro impegno sociale". A cui fa eco, sempre sui social, la sindaca Virginia Raggi: "Inquietante l'ennesimo rogo alla libreria. Se fosse confermato l'atto doloso sarebbe estremamente grave. Vicina ai proprietari, si faccia subito chiarezza". Solidarietà che arriva anche da Andrea Martella, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all'editoria: "Tanto nobile la visione ed il progetto di chi anima La Pecora Elettrica, quanto vile chi mette al rogo libri, idee ed impegno sociale". Solidarietà anche da Laura Boldrini e Italia Viva, Stefano Fassina non ha indugi: "Bruciare libri è un atto di squadrismo" mentre Matteo Orfini punta il dito contro: "Estrema destra e criminalità organizzata" che "spesso a Roma hanno camminato a braccetto attaccando spazi di cultura e libertà". "La cultura è l'unico vero antidoto a tutti i fascismi. Non passeranno", così la senatrice del Pd Monica Cirinnà. Dello stesso avviso Cecilia Strada: "La violenza fascista attacca i luoghi di cultura perché la cultura rende gli uomini liberi". Così come Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia: "Libro rinvia a #libertà. E chi ha paura della libertà incendia le librerie", scrive su twitter. E i Verdi: "È spegnendo le uniche luci della strada che, a Roma, si spengono anche legalità e sicurezza dei cittadini". Così come il Movimento 5 stelle che, dalla voce di Devid Porrello, chiede una risposta univoca da parte delle istituzioni. "Non possiamo non notare come si scelga di intimidire delle persone che fanno attività proprio in quella parte di Centocelle che sta vivendo il maggior momento di sviluppo, sia culturale che economico", scrivono  la consigliera del Pd alla Regione Lazio Marta Leonori, la consigliera capitolina Ilaria Piccolo. Durissimo Gianluca Peciola, Movimento Civico per Roma: "È urgente un vertice sulla criminalità e la mafia a Roma". Così come Cristian Raimo, assessore alla cultura del III Municipio: "Dove sono il sindaco, il prefetto, il Municipio? Qui non c'è nessuno. Così hanno vinto le mafie. Mi piange il cuore. Bruciare i libri un posto per famiglie, se non lo vedessi qui sembrerebbe un film". 

Da repubblica.it il 6 novembre 2019. Lo scontro a fuoco in un locale di via Ciamarra, a Roma Est. In due, Ennio Proietti, poi deceduto e il suo complice, Enrico Antonelli, di 58 anni, con vari precedenti, hanno fatto irruzione armati e col volto coperto. Ne è nata una colluttazione e, da una prima ricostruzione, il titolare, un commerciante cinese, sarebbe riuscito a impossessarsi della pistola di Proietti. Sono partiti dei colpi, uno dei quali ha colpito mortalmente il rapinatore. Rapina con colpi di pistola in un bar-tabaccheria di viale Antonio Ciamarra 186, tra la Romanina e Cinecittà, a Roma est. A perdere la vita uno dei due rapinatori che hanno fatto irruzione nell'attività commerciale. Ferito, oltre al secondo rapinatore, anche il titolare del bar. Sul posto i poliziotti del commissariato Romanina. È intervenuto anche il 118. Ancora Roma violenta e tutto è accaduto poco dopo le 19. Il rapinatore che è stato ucciso si chiama Ennio Proietti, 69 anni, e il suo complice, ferito, Enrico Antonelli, di 58 anni. Arrivati su uno scooter, i due, armati e col volto coperto, hanno fatto irruzione dentro il bar gestito da un commerciante cinese. Ne sarebbe nata una colluttazione e, da una prima ricostruzione degli investigatori, il commerciante sarebbe riuscito ad agguantare la pistola di Ennio Proietti, sono partiti dei colpi, uno dei quali ha colpito mortalmente il rapinatore. Il titolare, Zu, 56 anni, sarebbe stato colpito al fianco e a una gamba: è in codice rosso al Policlinico Umberto I. Sono in corso ulteriori accertamenti per stabilire chi ha premuto il grilletto e se i colpi, come sembra, siano stati esplosi da un'unica pistola. In quel momento nel bar tabacchi c'era anche un poliziotto libero dal servizio che sarebbe intervenuto bloccando l'altro rapinatore. La polizia, una volta giunta sul posto, ha trovato fuori dal locale uno scooter ancora acceso che probabilmente i rapinatori avrebbero usato per fuggire. Enrico Antonelli ha precedenti penali, tra i quali spaccio di droga e ricettazione. In passato sarebbe stato sottoposto anche a sorveglianza speciale e agli arresti domiciliari.

Mario Fabbroni per leggo.it il 6 novembre 2019. Freddato con un proiettile partito nel corso di una violenta quanto concitata e drammatica colluttazione ingaggiata con l'ennesima vittima dei suoi colpi criminali. È finita così, all'età in cui normalmente le persone sono già in pensione, la carriera da malvivente incallito di Ennio Proietti. Fu condannato a 30 anni di carcere in quanto componente di una delle più sanguinose bande della malavita romana, quella di Lallo lo Zoppo: sequestri con l'eliminazione sistematica degli ostaggi, violente aggressioni, furti, saccheggi, rapine, traffico d'armi i settori dove i malviventi compirono orrori e misfatti. Una banda apparsa sulla scena della malavita romana sul finire del 1975. Oltre al carcere, Proietti subì pure l'interdizione dai pubblici uffici: tra le accuse più gravi, quella del coinvolgimento nel sequestro e dell'uccisione del re del caffè Palombini. Ma le rapine con sequestro non finiscono certo con le immagini in bianco e nero che ritraggono l'arresto dello stesso Proietti. Anni e anni dopo, le cronache riferiscono di un colpo da Arancia meccanica in pieno giorno in via Aristofane a Casalpalocco. Revolver alla mano, i criminali sequestrano la domestica di un imprenditore, entrano in villa e immobilizzano il figlio del proprietario. Ennio Proietti, allora 50enne, era persino agli arresti domiciliari. Ad essere legati e costretti a rivelare il nascondiglio di denaro ed oggetti preziosi sotto la minaccia della fredda canna di una pistola furono infatti una donna filippina di 40 anni (la domestica) e Francesco Cauli di 19 anni, rimasto in casa per un contrattempo. Le vittime furono liberate nel corso di un blitz dei carabinieri di Ostia. Negli anni successivi si rese latitante per un periodo ma fu nuovamente fermato a un posto di blocco.

Federica Angeli per “la Repubblica” il 6 novembre 2019. «Ma dimmi te, anche i vecchietti si sono messi a fare rapine ora». Alcune ragazze del quartiere, saputa l' età dei rapinatori del "Caffè Europeo", sorridono. Non sanno che l' uomo immobile in una pozza di sangue è quell' Ennio Proietti del clan dei Pesciaroli che, ai tempi d' oro della banda della Magliana, aveva terrorizzato Roma e innescato una feroce guerra fatta di omicidi e vendette. Furono due degli undici fratelli Proietti, Fernando "il Pugile" e Maurizio "il pescetto", a uccidere il boss Franco Giuseppucci, detto "il negro", con un colpo al fianco in piazza San Cosimato, per poi fuggire in sella a una Honda. Era il 13 settembre del 1980. Pescetto venne poi ucciso insieme a un altro fratello, Mario "palle d' oro", l' anno successivo, mentre insieme alle famiglie rientravano a casa in via Donna Olimpia, dopo un lungo inseguimento tra i palazzi e sui tetti del quartiere, da Antonio Mancini e Marcello Colafigli della Banda. E nell' 82 anche "il Pugile", appena uscito dal carcere, venne assassinato. Ennio ha una condanna per 416, associazione a delinquere, furti, spaccio e di sicuro il suo ruolo è minore rispetto a quello dei suoi familiari. E malgrado gli anni trascorsi nelle patrie galere, a 69 anni, era ancora in strada, arma in pugno, a rapinare attività commerciali, proprio come ieri sera, insieme al complice che lo ha ucciso. Anche Antonelli ha un passato criminale importante. Nel 1990 anche lui, con i suoi due fratelli, viene arrestato per il tentato omicidio del maresciallo dei carabinieri Marco Coira, ferito con due colpi di rivoltella e preso a calci, il 5 gennaio, per aver tentato di impedire la rapina in un supermercato della catena "Plus", nel quartiere Giardinetti. Cresciuto in via Palmiro Togliatti, quadrante est della città, Antonelli, allora 30enne, non esitò ad aprire il fuoco contro il comandante. Coira, della stazione carabinieri Giardinetti, era al supermercato con la moglie, disarmato. Steso a terra e preso a calci, fu ferito all' addome e alle gambe. Antonelli e i suoi fratelli erano esperti in rapine a portavalori con la tecnica del parabrezza fracassato. Si piazzavano armati al centro della strada e aprivano il fuoco contro la camionetta. Durante la perquisizione, all' indomani del ferimento del militare, a casa di Antonelli, nelle intercapedini in corrispondenza dei soffitti, vennero ritrovati assegni e contanti per 480 milioni di lire. La maggior parte risultò essere il ricavato di una rapina proprio a un portavalori compiuta l'estate precedente a Ciampino. Fu ritrovato un vero e proprio arsenale, con una mazza ferrata e diversi giubbotti antiproiettile. Cresciuti in una Roma criminale dove il sangue scorreva a fiumi, e dove e imporre il proprio potere attraverso armi e violenze era la quotidianità, i due in tarda età si sono messi insieme per continuare la loro "carriera" nell' unico modo che conoscevano. E ieri Proietti ha finito la sua vita nel sangue, ucciso proprio dal suo complice e amico.

Michela Allegri e Camilla Mozzetti per il Messaggero il 7 novembre 2019. Non è stato lasciato da solo a vedersela con quei due malviventi che martedì sera hanno fatto irruzione nel suo bar con l’intento di rapinarlo. Chaokang Zhou, 56 anni, titolare dell’“Europeo” in viale Antonio Ciamarra – quartiere Cinecittà Est di Roma – ha potuto contare sul coraggio di alcuni clienti, compresa una donna, che hanno braccato uno dei due rapinatori, Enrico Antonelli, mentre l’uomo, entrato per primo nel locale e armato di una pistola, ha preteso che gli fosse consegnato l’incasso della giornata. Uno di loro l’ha atterrato con un colpo di karate, mentre la signora si sarebbe praticamente seduta su di lui, impedendogli di muoversi mentre gli altri clienti lo disarmavano. È tutto ripreso dalle telecamere di sorveglianza del locale. Ma la traiettoria del colpo che ha ucciso il secondo rapinatore, Ennio Proietti, 69 anni, non è chiara. Proietti, infatti, è stato ripreso mentre interviene in soccorso dell’amico, ma poi esce dal raggio delle telecamere. Per il momento, Antonelli, che è in ospedale, è stato fermato per tentata rapina. Mentre il fronte dell’omicidio resta ancora incerto. I fotogrammi della rapina sono chiari solo in parte. Zhou appena vede uno dei due rapinatori, trova il coraggio di balzare fuori dal bancone e assalire Antonelli che viene braccato anche da due clienti e da una donna, moglie di uno dei due. Proietti, che morirà dopo esser stato raggiunto all’addome da uno dei diversi colpi esplosi (se ne sentiranno almeno 4), si ferma all’ingresso dell’“Europeo” a fare la guardia. Alle spalle ha una condanna scontata a 30 anni per il rapimento e l’assassinio di Giovanni Palombini ed era legato anche alla famiglia dei cosiddetti “pesciaroli”, branchia iniziale della banda della Magliana, entrati poi in rotta di collisione con l’organizzazione criminale, perché ritenuti responsabili della morte del “Negro”, al secolo Franco Giuseppucci. Sono attimi concitati quelli di martedì sera, poco dopo le 18.30. I due malviventi arrivano di fronte al locale in sella a un motorino, che verrà parcheggiato a qualche metro di distanza dal bar e che sarà lasciato acceso. Il primo a entrare armato è Antonelli, pure lui con un excursus di primo piano nella mala romana: coinvolto, nel 1999, nel ferimento del maresciallo dei carabinieri Marco Coira. Proietti, qualche metro indietro, resterà sull’uscio a fare il “palo”. Quando il titolare del bar assale Antonelli, a dargli una mano sono anche alcuni clienti e una donna. «L’ho atterrato con un colpo di karate» dirà uno di loro, «ci siamo spaventati però non potevamo non intervenire». Sua moglie, quando il rapinatore sarà spinto a terra, gli si siederà anche sopra per fermarlo. Ma in questa concitazione partono anche diversi colpi di pistola. Sul posto, gli agenti di polizia della Squadra Mobile e gli uomini della Scientifica troveranno un proiettile a terra. Un secondo è stato tolto dalla gamba del titolare del locale all’ospedale Umberto I, mentre un terzo è ancora conficcato nel corpo di Proietti. Oggi la Procura nominerà il medico legale per l’autopsia. Formalmente, il procuratore aggiunto Nunzia D’Elia ha aperto un secondo fascicolo per tentato omicidio (il cinese non risulta indagato) disponendo inoltre una consulenza balistica per chiarire la dinamica della sparatoria. Nelle mani degli inquirenti ci sono già le immagini del circuito interno di videosorveglianza che hanno cristallizzato solo l’aggressione ad Antonelli. Proietti entra per un attimo in una delle inquadrature ma poi sparisce. Le riprese non chiariscono quale sia stato il colpo che ha ucciso l’uomo e da quale pistola – un revolver e una semiautomatica – sia partito. La Mobile ha ricostruito una scena verosimile: il proiettile è stato esploso da Antonelli che, armato, al momento della colluttazione con il proprietario del bar e con i clienti, nel tentativo di liberarsi, avrebbe sparato inavvertitamente contro il complice. Il cinese non può aver sparato anche se sul suo profilo Facebook ci sono tracce di esercitazioni in un poligono. Non dispone di un’arma né risulta possessore di un permesso. Gli inquirenti escludono che possa aver usato una delle due pistole dei rapinatori per difendersi. Sul perché Proietti e Antonelli (che non risulta avessero rapporti) abbiano puntato proprio quel bar si è fatta luce quasi subito. Solo per un istante gli inquirenti hanno preso in considerazione l’ipotesi che si fosse trattato di un tentativo di estorsione, ma la supposizione è tramontata: probabilmente i due hanno preso di mira un bar-tabacchi ampio che è anche ricevitoria. 

Incidente Roma, Pietro Genovese alla guida dell’auto che ha ucciso Gaia e Camilla sotto shock: «Non le ho viste». Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. La sua famiglia: «Tragedia immensa, siamo distrutti». La sera con la comitiva in un locale lì vicino per festeggiare il ritorno a Roma di un amico, poi l’investimento mortale delle due 16enni guidando, da solo in auto, la sua Renault Koleos a una velocità almeno doppia rispetto al consentito. Si è fermato a soccorrere le giovani. Di fronte al pm Roberto Felici, che lo interroga nel pomeriggio, Pietro Genovese, 20 anni, è ancora sotto choc. Sguardo nel vuoto, poche parole pronunciate a fatica. Ripete: «Non le ho viste». «Un ragazzo distrutto», lo descrive l’avvocato Gianluca Tognozzi. Sua sorella Emma lo difende d’istinto su Instagram: «È stata colpa loro» (il riferimento è all’attraversamento, forse azzardato, delle due vittime, al buio e con la pioggia forte, su una strada a scorrimento veloce), mentre il padre si affida a un comunicato: «Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta, è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre». Come regista, Paolo Genovese ha diretto anche un spot per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sindrome (in alcun modo inabilitante alla guida) da cui è affetto il figlio. Attorno alla loro abitazione, nel quartiere Coppedè, c’è il silenzio di una domenica piovosa. Fino a sera non rientra nessuno. Diplomato al liceo classico Mameli, ai Parioli, Pietro ha sempre avuto una predilezione per i motori.

Pietro Genovese, la sorella Emma: "Siamo distrutti, ma la colpa è stata di Gaia e Camilla". Libero Quotidiano il 23 Dicembre 2019. "È stata colpa loro". Lo scrive così Emma Genovese, sorella di Pietro Genovese, il 20enne figlio del regista Paolo che sabato sera in corso Francia ha travolto e ucciso alla guida del suo Suv le 16enni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Il post su Instagram è un misto di dolore per un tragico incidente e rabbia per la accuse al fratello, a suo dire immotivate anche se sul suo conto pesa anche la positività al test su droga e alcol alla guida (la sorella, a caldo, nega tutto). La dinamica dello schianto però non è ancora chiara: secondo un testimone oculare le due giovanissime avrebbero attraversato la strada di scorrimento veloce con il semaforo pedonale rosso (ipotesi confermata dallo stesso Genovese, pur sotto choc) scavalcando un guard rail. "Vorrei dire una cosa - le parole di Emma Genovese -, non lo dico perché è mio fratello ma lo direi per chiunque, tutta la gente che sta dando la colpa a lui dovrebbe vergognarsi. Sono davvero distrutta per quelle due povere ragazze che hanno perso la vita ieri notte" ma "non accusate se non sapete come sono andate le cose". "La colpa è stata loro che per non fare 5 metri a piedi sono passate in mezzo alla strada (ovviamente non pensando che potesse succedere il peggio) con le macchine sfrecciavano su Corso Francia". Poi un pensiero al fratello, "rimasto sotto la pioggia in lacrime, aspettando i soccorsi e i miei genitori. Siamo distrutti per quelle povere ragazze". 

Roma, Camilla e Gaia falciate e uccise. Il testimone: "Cosa ha fatto il figlio di Paolo Genovese". Libero Quotidiano il 22 Dicembre 2019. Sono Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann le due sedicenni morte a Roma, travolte in zona Ponte Milvio da Pietro Genovese, il figlio del celebre regista Paolo Genovese. Dopo la mezzanotte sono state falciate, le due sono morte sul colpo: Pietro, 20 anni, si è fermato ma ogni soccorso era inutile. Una scena terrificante, straziante, sconvolgente. E ora, riportata da Dagospia, emerge anche una testimonianza impressionante circa quello che è successo questa maledetta notte. Il racconto di un testimone che spiega: "Ero lì e ho visto tutto. Una scena che una persona non deve mai vedere, figuriamoci vivere. Le ragazze volevano attraversare la strada a tutti i costi nonostante il semaforo fosse VERDE per le macchine, NON ERA ROSSO come tutti credono. Volevano attraversare in un punto senza strisce. dove all'altro Iato c'era il guardrail", scrive a Dago il testimone. E ancora, aggiunge: "La macchina della corsia centrale di corso Francia ha rallentato per far passare le ragazze, le quali hanno attraversato correndo, mano nella mano, senza vedere se passavano macchine nella corsia di sinistra, quella vicina al guard rail. La macchina che le ha travolte andava sicuramente veloce, ma la macchina centrale copriva la visuale e quella macchina non poteva vedere che le ragazze stavano attraversando. Sono state catapultate per aria e investite una seconda ed una terza volta da macchine che arrivavano da dietro...", conclude la sua drammatica testimonianza. 

Veronica Cursi e Mauro Evangelisti per il Messaggero il 23 dicembre 2019. «Non le ho viste, sono passato con il verde». Il tonfo, i due corpi delle ragazzine sbalzate in aria dal Suv che aveva appena sterzato e superato un'altra auto che aveva rallentato. Subito dopo Pietro si è fermato, ha pianto, disperato. Aveva investito due ragazzine in corso Francia, arteria irrinunciabile di Roma Nord. È rimasto sotto la pioggia, in attesa dell'ambulanza, della polizia, dei genitori, mentre la sua vita stava cambiando, forse per sempre. Era diretto ad una festa e guidava un Suv della Renault, semidistrutto dopo l'impatto, violento. Ha urlato che non le ha viste, che c'era il semaforo che segnava il verde mentre stava passando.

OSPEDALE. Sotto choc, è stato accompagnato al Policlinico Umberto I, per essere sottoposto ai test di alcol e droga, mentre altre urla si udivano in corso Francia, quelle delle madri delle due sedicenni. In passato Pietro Genovese, 20 anni e il peso che ti porti dietro a causa del cognome celebre di uno dei più importanti registi italiani insieme alle possibilità e a qualche privilegio, era stato fermato e segnalato alla Prefettura per consumo di sostanze stupefacenti. Poco più di una sciocchezza, come succede a tanti ragazzi a quell'età, anche se non dovrebbe accadere. Ma nel tardo pomeriggio, è stato ascoltato dalla Polizia locale dei Parioli, ma ha scelto di non rispondere. Poi, la doccia fredda, la notizia che si comincia a diffondere: dai test, Pietro risulta positivo sia all'alcol, sia agli stupefacenti. Va detto che ancora non si conoscono i valori, solo gli esami oggi preciseranno quantità e sostanze. Ma Pietro ha meno di 21 anni e con i neopatentati il codice della strada è molto più severo, il livello di alcolici deve, ad esempio, essere uguale a zero. Racconta un esperto: se venisse confermato l'uso di droga e alcol, rischia da 8 a 12 anni di reclusione, che potrebbero diventare 18 poiché le vittime sono due. Sono ipotesi, però, che non tengono conto dell'eventuale dimostrazione che le ragazze hanno attraversato con il rosso.

L'INCHIESTA. Pietro Genovese ora è indagato per omicidio stradale, il suo smartphone è stato sequestrato per verificare che non stesse chiamando o messaggiando mentre era alla guida. Ha frequentato il Liceo Mameli ed è un appassionato di musica elettronica, in passato ha anche giocato a rugby nell'Us Primavera. La sua pagina Facebook, aperta, racconta una vita normale, le passioni per le feste in discoteca (i post sul Goa, uno dei club romani più famosi), i viaggi a Cuba e a Mykonos, le foto scherzose con gli amici e anche una, molto bella, che ha scelto anche per il suo profilo su Ask (un altro social popolare tra i giovanissimi): al Museum of Modern Art di New York insieme al padre Paolo, su una iconica scala. «Pietro è un ragazzo molto intelligente, molto in gamba ed esperto di musica elettronica, è stato sfortunato» dicono gli amici che lo difendono. La sorella riassume, probabilmente, ciò che Pietro ha detto ai familiari: «Non aveva bevuto, non aveva fumato, non era al telefono. C'era il verde, ed è passato come è giusto che sia». Ancora: «Stare sotto la pioggia, in lacrime, per strada, su corso Francia, con due ragazze senza vita sull'asfalto, ad aspettare la polizia, l'ambulanza e i miei genitori che sono corsi, è una cosa che distrugge. Siamo distrutti per quelle povere ragazze». Come è arrivato Pietro, che in macchina era da solo, a quel frammento di secondo poco dopo la mezzanotte che è coinciso con lo stesso frammento di secondo, in cui Gaia e Camilla hanno deciso di attraversare, nel buio e nella pioggia battente di corso Francia?

LA CENA. Il ragazzo era stato a una cena a collina Fleming, sempre Roma nord. Se i test saranno confermati, mentre con gli amici ha ascoltato della musica, deve avere bevuto qualcosa e - ma solo i test definitivi potranno confermarlo - fatto uso di sostanze stupefacenti. Come molti a quell'età, quando se ne è andato ha fatto la scelta sbagliata, è salito sul Suv, un Renault Koleos. Era diretto al Treebar, racconta qualche amico, un locale molto frequentato al quartiere Flaminio che da corso Francia dista poco più di due chilometri. È sceso da collina Fleming e si è immesso su quello stradone diviso dal guard raill e caratterizzato da una serie di semafori e pochi attraversamenti pedonali. All'incrocio prima del ponte, è passato, ha premuto il piede sull'acceleratore. Secondo alcuni testimoni c'era il verde per le auto. 

IL REGISTA. M.Ev. per il Messaggero il 23 dicembre 2019. «Un dolore insopportabile» ripete Paolo Genovese, il regista romano che, come pochi altri, nei suoi film sa raccontare storie e ora si ritrova al centro di un dramma. Sa bene che la sua angoscia di padre di un ragazzo che guidava il Suv che ha travolto e ucciso due sedicenni, per quanto profonda, non è paragonabile a quella dei genitori delle vittime. Racconta Genovese, dosando le parole, perché sa anche che è difficile, in tragedie come questa, trovare quelle giuste: «Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta, è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre». Nel suo ultimo romanzo, Il Colibrì, lo scrittore Sandro Veronesi descrive la telefonata nella notte che nessun genitore vorrebbe mai ricevere, quella che ti fa pregare «non a me» mentre continuano gli squilli, se rispondi saprai di avere perso un figlio, trovandoti in una condizione per la quale, in italiano, neppure esiste la parola che la definisca. Ecco, nella notte tra sabato e domenica, la condanna di quella telefonata è toccata ai genitori di Gaia e Camilla, mentre Paolo Genovese e la moglie Federica sono stati raggiunti da un'altra comunicazione che ha scosso le loro vite a pochi giorni dal Natale: Pietro racconta di avere avuto un incidente, Pietro è in corso Francia sotto la pioggia in lacrime. Pietro ha travolto e ucciso due ragazze. Sono corsi, sono andati al fianco del figlio, hanno chiamato l'avvocato, hanno cercato di capirci qualcosa. Quel figlio appassionato di viaggi, musica elettronica e rugby, aveva anche convinto Paolo Genovese a girare uno spot di una campagna sociale sul morbo di Crohn, una malattia dell'intestino. Aveva raccontato il regista in un'intervista: «Mio figlio Pietro soffre di Crohn. Sono sensibile in primis come padre. Quando mi hanno chiesto di poter fare qualcosa a favore delle persone affette da Crohn, ho accolto immediatamente questa richiesta». L'obiettivo era spiegare che comunque si può avere una buona qualità della vita, ma è giusto farsi seguire dai medici. Paolo Genovese, ha 53 anni, è autore di film di grandissimo successo come Perfetti sconosciuti in cui ha raccontato come la tecnologia e gli smartphone hanno cambiato le nostre vite (in tutto il mondo ha avuto un record di remake). Regista di successo già con Immaturi, negli ultimi anni la sua carriera ha raggiunto il culmine. Ha altri due figli, un maschio e una femmina. Proprio la ragazza, sui social, con la generosità di una sorella ha difeso Pietro, raccontato la disperazione della famiglia e il dolore per la morte di Gaia e Camilla, detto che il giovane non aveva bevuto o usato stupefacenti. Pietro ieri è tornato a casa con i genitori, ad attendere le decisioni del pubblico ministero e le controanalisi dei test su alcol e droghe. Sui social, però, come sempre succede, sono spuntati anche i primi haters feroci, qualcuno è andato a scrivere sulla pagina ufficiale di Paolo Genovese: «Tuo figlio ha fatto un bel regalo di Natale a due famiglie». Un altro, impietoso, ha condiviso nei commenti lo screenshot della notizia di un sito sui test del figlio, positivi per alcol e droga. E altri, livorosi, sostengono sbagliando che si stiano coprendo le notizie perché Pietro è il figlio di un personaggio famoso. Altri ancora sono andati sul profilo del figlio scrivendo insulti senza senso come «assassino».

Lorenzo De Cicco per il Messaggero il 23 dicembre 2019. Se avesse potuto scegliere un super-potere, Gaia non avrebbe avuto dubbi: «Cambiare il passato». Così scriveva su Ask.fm, il social che spopola tra i ragazzini, dove si mettono un po' a nudo pensieri e dubbi dell'adolescenza, una domanda alla volta. Ma riavvolgere il nastro non si può. Non può lei, non può chi l'ha investita, non può il papà Edward, carabiniere in congedo ora intermediario assicurativo, che alle quattro di notte, dopo avere riconosciuto la figlia, ha avvisato il resto della famiglia con un sms: «La nostra piccola è volata in cielo». Finlandese, arrivato a Roma a 5 anni da Helsinki, Edward nel 2011 ha perso l'uso delle gambe dopo un incidente in moto. «Queste strade maledette, forse è il karma della famiglia, due incidenti così...», le parole col groppo in gola che riporta la sorella Patricia, la zia di Gaia, mentre varca il portone di via Città di Cascia, Collina Fleming, zona elegante di Roma Nord, dove la ragazza viveva con la mamma. A un chilometro, nemmeno, dalla corsia dello schianto fatale.

I BAGAGLI NELLA CAMERETTA. Racconta la zia Patricia: «Gaia aveva già la valigia pronta, nella sua cameretta, stava per partire con la mamma per le vacanze. Questione di giorni, un viaggio in Europa, per riposarsi, approfittando della pausa dalle lezioni». Il sogno di una vacanza spazzato via a mezzanotte di un sabato prenatalizio, dopo l'ultimo giorno di scuola, tra le pozzanghere e l'asfalto fangoso di Corso Francia. Un guardrail, un Suv che sbuca a tutta velocità, l'impatto, la fine. Niente vacanze, niente di niente. Resta una valigia piena di sogni stroncati. La zia è ancora sconvolta. «Ricordo di avere ricevuto un messaggio alle 4 di notte da mio fratello. Gaia è andata in cielo, c'era scritto. Nella confusione, data l'ora, ho pensato fosse un modo per dire che era partita in aereo, un modo un po' melodrammatico magari. Poi ci siamo sentiti con Edward. E ho capito tutto». Gaia, racconta la famiglia, era una ragazza forte, forte nonostante un vissuto non facile. «I genitori si erano separati quando era ancora piccola - ricorda zia Patricia - poi l'incidente in moto del padre, otto anni fa. Cose che segnano. Lei viveva con la mamma, ma ha sempre avuto la forza di reagire, di trovare il sorriso anche nei momenti più duri». 

«LE DOMENICHE A CASA». Il posto più lontano che aveva visitato, scriveva un anno fa, era Berlino. Ma sognava una vacanza a Miami. Il luogo dove pensava il suo futuro, la sua vita dopo la scuola e forse l'università, però, era un altro: Londra. Anche se «per i prossimi cinque anni penso di restare ancora a Roma». Una vita, per ora, tutta in questo spicchio residenziale della Capitale, quadrante Nord, ma verso il Centro: la scuola al linguistico Gaetano De Sanctis, nella sede di via Antonio Serra, sempre a due passi da Corso Francia, le serate tra i locali chic di Ponte Milvio, la comitiva in zona. Aveva un fidanzatino, Edoardo, diceva di «credere nell'amore a prima vista».

CANOTTAGGIO E PALLAVOLO. Venerdì, la sera prima dell'incidente, era a cena col papà e la nuova compagna di lui al circolo Canottieri Aniene. Lei invece fino all'anno scorso faceva canottaggio per la Tevere Remo, altro circolo storico dell'Urbe. Ora giocava a pallavolo. La sua domenica ideale, raccontava Gaia agli amici dei social, era stare «tutto il giorno a letto». Ieri invece, non c'è potuta stare. Travolta coi suoi sogni da un'auto a mezzanotte. Mano nella mano con la compagna di banco. Lei che scriveva di amare le «corse sotto la pioggia con gli amici».

Alessia Marani per il Messaggero il 23 dicembre 2019. «Prima di domani», scriveva Camilla Romagnoli sui social, era il suo film preferito. La storia racconta di un gruppo di amiche giovanissime che trascorrono una serata di festa insieme ma che poi muoiono in un incidente d'auto. La protagonista, però, l'indomani mattina si risveglia come se nulla fosse, pensando a un brutto sogno. Invece, era solo l'opportunità di rivivere gli ultimi istanti per fare del bene agli altri. Un triste presentimento per Camilla, una delle due sedicenni investite e uccise sabato notte a Corso Francia. Il suo sogno era viaggiare, vedere più posti possibile. «Ricordati di sorridere sempre», ha lasciato scritto su Instagram.

BATACLAN. Dublino le era rimasta nel cuore, Venezia forse era stata la gita più bella, una decina di giorni fa era stata a Firenze. Erano i suoi viaggi del cuore, quelli con la sorella più grande Giorgia, che ha 22 anni, e con mamma Cristina. I viaggi delle «piccole donne» di casa che ogni tanto lasciavano papà Marino a Roma, impegnato nel lavoro di consegne con il furgone, per staccare dalla routine e scoprire insieme luoghi sempre nuovi. Per questo dopo le medie alla Nitti, Camilla aveva deciso di studiare lingue al liceo De Sanctis sulla stessa strada di casa: immaginava un futuro sempre in giro per il mondo e a contatto con persone diverse. Lei che, pure, era timida e riservata, e che raramente usciva per fare tardi la sera. Che aveva l'Iphone accoppiato con quello della sorella maggiore perché a casa sapessero sempre dove si trovasse. Mamma Cristina è una donna apprensiva. Sabato a mezzanotte le aveva mandato un messaggio: «Ma hai visto che ora è?» e lei l'aveva subito tranquillizzata, rispondendole, alla mezzanotte e dieci minuti, che «sto tornando». Poi il silenzio. Cristina chiama la figlia Giorgia che è anche lei in giro con le amiche: «Tua sorella non si vede ancora, ho provato a chiamarla più volte, il telefono squilla ma resta muto. Mi localizzi dov'è?». Giorgia controlla subito: «Mi segnala la posizione a Corso Francia». Poi le balena subito qualcosa per la testa: «Mamma, so che c'è stato un incidente, vai a vedere». Cristina non se lo fa dire due volte. Lei e il marito avevano vissuto altri momenti terribili quando la figlia più grande si trovò a Parigi nella notte della strage al Bataclan. Per un momento avevano temuto il peggio. Poi per fortuna Giorgia stava bene. Invece l'altra notte, Cristina si infila veloce la giacca, esce di casa e sotto la pioggia percorre le poche centinaia di metri che da casa conducono fino a Corso Francia e si ritrova davanti i lampeggianti della polizia locale, il capannello di gente, cerca di farsi largo. «Sono la mamma di Camilla Romagnoli», dice a un vigile che si guarda con un collega e le risponde: «Signora aspetti qua, non si muova». Cristina scopre da sola che la figlia è morta e vuole guardarla per un'ultima volta. Poi con Marino e Giorgia trova ristoro dentro il ristorante T-Bone all'angolo. Il gestore Alessio si accorge di conoscere bene Marino, è l'uomo che consegna loro il salmone la mattina. Lo abbraccia. 

THE E CIOCCOLATO. Il mondo di Camilla che sognava di viaggiare, a sedici anni, in fondo, era ancora tutto là, racchiuso nel reticolo di viuzze tra il quartiere Fleming e Ponte Milvio. Nell'ultimo periodo aveva un fidanzatino, Edoardo. Si era vista anche con lui sabato sera a Ponte Milvio. Una pizza, un gelato in comitiva con gli amici di scuola, senza pensieri, con la scuola appena chiusa per le vacanze di Natale e davanti altri giorni di festa. Invece, ora, mamma Cristina apre la porta di casa per accogliere il viavai di amici e parenti increduli e disperati per l'accaduto: «Lei non c'è più, non è giusto. Dovevo morire io, doveva investire me, non lei a sedici anni. Una vita spezzata, avevamo tanti progetti». 

Incidente Roma, l’ultima serata di Gaia e Camilla. Travolte e uccise sulla strada per casa. Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 da Fabrizio Roncone su Corriere.it.. Camilla e Gaia erano felici. Avevano progetti. Avevano 16 anni. A Natale bisognerebbe raccontare solo storie belle. Ma questa scena è delimitata da un nastro di plastica bianco e rosso. Argani, carri attrezzi, traffico deviato. Venti minuti dopo la mezzanotte di sabato. Ai vigili urbani è arrivata una chiamata generica: «Incidente a Corso di Francia». La strada che attraversa Roma Nord. Comincia dove c’è il distributore dell’Agip che il camerata Massimo Carminati, detto «er cecato», aveva trasformato nel suo ufficio e finisce ai Parioli. Due colline ai lati: Vigna Clara e Fleming. Tre semafori e una stradina sulla destra, sotto al cavalcavia dell’Olimpica: trecento metri e sei a Ponte Milvio. Rumore di movida, alcol, droga, luci forti. Qui invece è quasi buio, gran parte della città ormai è sempre più buia, dai lampioni solo un riverbero giallognolo e piove piano, però fino a poco fa pioveva forte: nessun segno di frenata sull’asfalto bagnato, nessun vetro rotto. Solo una Renault Koleos grigio metallizzato con due ammaccature profonde sul cofano, la targa schizzata sul marciapiede, le quattro frecce accese: e — laggiù — due teli bianchi stesi su due corpi. Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann avevano 16 anni e tornavano a casa. Probabile fossero un po’ in ritardo: ma tutti, alla loro età, siamo stati in ritardo. Probabile avessero fretta e fossero distratte: ma tutti, alla loro età, siamo stati distratti. Bisogna stabilire se abbiano attraversato sulle strisce o, piuttosto, come sembra da una prima ricostruzione, abbiano scavalcato il guardrail. C’è un semaforo: e non si capisce se, quando hanno attraversato, fosse verde. Testimonianze confuse, verbali, lampeggianti, arriva il magistrato di turno, arrivano gli amici. Il ragazzo che stanno facendo salire sull’ambulanza è il conducente della Renault: Pietro Genovese, 20 anni; ex studente del liceo Mameli, giocatore di rugby, figlio di Paolo, il regista (due David di Donatello per il film Perfetti sconosciuti). Il ragazzo è sotto shock, gli hanno sequestrato il telefonino per capire se stesse telefonando o spedendo sms, e adesso lo portano al Policlinico Umberto I, dove verrà sottoposto al test che stabilisce se ha bevuto troppo e fatto uso di droga. All’angolo, un famoso ristorante della zona: T-Bone Station. Testimonianza di Alessio Ottaviano, il direttore: «Poco dopo la mezzanotte, abbiamo sentito un grande frastuono. Pensavamo a un tamponamento, in questo tratto di strada corrono sempre tutti. E invece a terra c’erano quelle due ragazze. Un medico di passaggio è sceso dal suo scooter. Poi è arrivata anche l’ambulanza. Tutto inutile». Dicono che Gaia si fosse fermata a mangiare un panino proprio in questo locale con Edoardo, il suo nuovo fidanzatino, dopo una serata trascorsa a pattinare all’Auditorium, e che qui si sia unita a Camilla. Dicono che con loro ci sarebbe dovuta essere anche la loro terza amica, Isabella. In verità dicono tutti un sacco di cose. Albeggia così: tra un certo dolore atroce e quel senso di paura tremendo, perché a quelli che hanno una figlia capita sempre di guardare l’orologio e pensare: ma quando torna? Adesso, in una mattina livida, di vento freddo, i compagni del liceo linguistico De Sanctis portano mazzi di fiori e ricordi. Gaia viveva con la madre Gabriella; il padre Edward, di origini finlandesi, fa il broker assicurativo ed è disabile, per colpa di un incidente con la moto. Camilla viveva a un isolato di distanza. Un’altra famiglia normale, media borghesia: la sorella, raccontano, è disperata e ha come perso la parola. A metà pomeriggio arriva la notizia che Pietro Genovese sarebbe risultato positivo ai primi test alcolici e tossicologici, e saranno perciò necessari ulteriori esami. Il padre Paolo — «Siamo una famiglia distrutta» — si è visto girare la vita con uno squillo di cellulare. È tutto particolarmente agghiacciante: perché quei cellulari che squillavano pieni di segreti e verità terribili erano lo strepitoso plot del film che lo ha reso celebre in tutto il mondo.Comincia la sarabanda degli avvocati. Forse qualche certezza sull’esatta dinamica dell’investimento potrebbe arrivare dalle telecamere del magazzino Standa, che domina quel tratto di strada. Un testimone scrive al sito Dagospia: «Ero lì e ho visto tutto. Le ragazze, mano nella mano, volevano attraversare la strada a tutti i costi, nonostante il semaforo fosse verde, in un punto senza strisce. La macchina della corsia centrale ha rallentato per farle passare, ma ha coperto la visuale a quella che sopraggiungeva nella corsia accanto. Sono state catapultate per aria e investite una seconda ed una terza volta da macchine che arrivavano da dietro...». Dettagli utili per l’inchiesta. Gli amici di Camilla e Gaia hanno però altri dubbi. «Ma secondo te, ora, dove saranno?», chiede Luca. «Forse in cielo, forse no. Però, fidati: sono di certo in un posto fico». Poi Luca comincia a singhiozzare. Sono venuti a legare un Babbo Natale di peluche al guardrail. Ma non è Natale così.

Roma, tragedia a Ponte Milvio: due ragazze di 16 anni investite e uccise da un'auto: l'investitore positivo ad alcol e droga. Si chiamavano Gaia e Camilla. Alla guida della vettura il figlio ventenne del regista Paolo Genovese, che si è fermato a prestare soccorso. E' indagato per duplice omicidio stradale. Sequestrato il cellulare. La madre di una delle vittime: "Doveva uccidere me". Il regista nel pomeriggio: "Dolore insopportabile per loro e i genitori". La testimonianza di un giovane: "Prima frenata, poi sbalzate in aria". Flaminia Savelli il 22 dicembre 2019 su La Repubblica. Stavano attraversando la strada, quando una macchina le ha travolte e uccise. Sono morte cosi Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, due ragazze di appena 16 anni. Il dramma si è consumato ieri notte poco dopo l'una, in pochissimi secondi a Ponte Milvio, lungo corso Francia, tra via Flaminia Vecchia e la rampa di accesso all'Olimpica. Le ragazze sono morte sul colpo: inutili i soccorsi, i medici del 118 infatti non hanno potuto far altro che constatare il decesso. Sul caso indagano ora i vigili urbani del gruppo Parioli. Secondo una prima ricostruzione, le giovani stavano attraversando, per raggiungere un gruppo di amici dall'altra parte della strada quando una Renault le ha investite. I periti e i tecnici della polizia Locale dovranno ora stabilire a che velocità stava viaggiando Pietro Genovese, 20 anni, figlio del regista Paolo, alla guida dell'auto, che sarebbe risultato positivo agli esami alcolemici e tossicologici. Lo si apprende da fonti della polizia locale. A quanto riferito solo ulteriori esami, i cui esiti arriveranno nei prossimi giorni, potranno stabilire i parametri ed il livello di sostanze rinvenute. Il giovane, che si è fermato a prestare soccorso è stato già indagato per duplice omicidio stradale. Sequestrata l'auto e il cellulare. Verranno effettuati accertamenti per stabilire se al momento dell'impatto, il ragazzo stesse utilizzando il telefono. La polizia locale sta ascoltando in queste ore diversi testimoni per cercare di ricostruire con esattezza la dinamica dell'investimento. Al vaglio anche le immagini delle telecamere di zona. Nel pomeriggio arriva anche una dicharazione del regista Paolo Genovese alle agenzie di stampa: "Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre". "Avevamo fatto tanti progetti con Camilla. Non è giusto. Non doveva andare così". A dirlo la mamma di Camilla Romagnoli a chi ha avuto modo di incontrarla dopo l'incidente. Ad andare sul posto nella notte anche il papà e la sorella di Camilla come anche i genitori di Gaia, che era figlia unica. "E' stato il papà, costretto su una sedia a rotelle per un incidente stradale, a riconoscere la figlia", racconta un amico di Gaia.

La testimonianza di un ragazzo. "Ho assistito all'incidente. E' una scena che non dimenticherò mai". A dirlo un ragazzo che è ritornato sul luogo in cui la scorsa notte sono state investite le due ragazze di 16 anni. "Erano al centro della strada, Gaia si è girata verso Camilla e poi è arrivata quella macchina - ricorda - c'è stata la frenata fortissima e l'impatto che le ha sbalzate; l'auto è andata avanti. Poi sono arrivate altre macchine, penso che almeno tre le abbiano colpite". Al momento sembrerebbe tuttavia che ci sia il coinvolgimento di un unico veicolo, guidato dal ventenne Pietro Genovese. "Le ho viste pochi minuti prima dell'incidente. Ci siamo incontrati a ponte Milvio. Erano felici come si sta al primo giorno di vacanza". A raccontarlo un altro amico delle due ragazze. "Erano con degli altri amici ieri sera - ricorda il ragazzo, con le lacrime agli occhi mentre cammina sotto casa di Gaia - era la mia migliore amica, una ragazza splendida, sorridente e sempre pronta ad aiutare gli altri. Camilla era più timida. Si volevano molto bene".

La disperazione dei genitori delle vittime. "Doveva investire me. Non è giusto",  avrebbe ripetuto tra le lacrime la mamma di una delle ragazze, arrivando sul luogo dell'incidente. A riferire queste parole un testimone che aggiunge: "I genitori erano sconvolti". Intanto mazzi di fiori sono stati lasciati su corso Francia, nel punto in cui nella notte sono state investite Camilla e Gaia.  Diverse rose, di colore rosa, sono state adagiate sotto il cavalcavia di via Flaminia Vecchia. Già questa notte poco dopo l'incidente, gli amici delle vittime si erano ritrovate sul luogo dell'incidente.  "Gaia e Camilla erano delle mie compagne di classe. Frequentiamo il liceo classico De Santis. Quando stamattina ho saputo mi sono precipitato qui. E' una tragedia enorme". A parlare un amico delle due ragazze. "Ieri - ha aggiunto - era la prima serata di vacanza vera. Gaia faceva sport, giocava a pallavolo, erano due bravissime ragazze, erano molto amiche. Ieri tornavano a casa dopo aver passato la serata in giro. Qui a corso Francia corrono tutti e spesso passano col semaforo rosso". "Poco dopo la mezzanotte abbiamo sentito un grande frastuono e come me sono usciti anche alcuni clienti dal locale. Pensavamo ad un tamponamento, poi abbiamo visto le due ragazze per terra. La polizia è arrivata dopo pochi minuti, poi è sopraggiunta l'ambulanza ma non c'è stato nulla da fare. Anche un paramedico con lo scooter che passava per caso si è fermato per dare una mano. Sulle dinamiche non possiamo dire nulla, non ho visto. Quella è una strada larga, dritta, dove di notte tutti corrono e che per questo può diventare pericolosa. Bisognerebbe fare qualcosa per obbligare la gente a mantenere una velocità adeguata" racconta Alessio Ottaviano manager del ristorante T-Bone Station a ridosso di corso Francia. "I corpi delle due ragazze erano distanti qualche metro tra loro e lontani dalle strisce". A raccontarlo un residente di Corso Francia che stanotte è arrivato sul luogo dell'investimento in cui sono morte le due sedicenni. "Dalle prime informazioni erano dirette verso Collina Fleming - aggiunge - probabilmente volevano scavalcare il guardrail". "Profondo dolore per la tragica morte di due ragazze, investite questa notte a Corso Francia. Roma si stringe alle famiglie colpite da questa tragedia. È inaccettabile morire così. Aspettiamo che si faccia chiarezza ma guidare in modo responsabile è un dovere". Così su Twitter la sindaca di Roma Virginia Raggi.

Il dolore dei compagni di scuola. La morte delle due ragazze ha lasciato sgomenta la comunità del liceo classico Gaetano De Sanctis. Su Facebook la preside scrive: "Questa notte Camilla e Gaia del 3 CL della sede di Via Serra sono morte in un assurdo incidente. Si tratta di uno tragico shock per le famiglie e per tutta la comunità del De Sanctis. La preside, il Consiglio di Istituto, i professori, il personale Ata e tutti gli studenti abbracciano, addolorati e attoniti, le famiglie delle due ragazze. Siamo vicini con tutto il nostro affetto anche agli amici e ai compagni di Gaia e Camilla. Non ci sono parole per spiegare quello che stiamo vivendo. Rimangono solo il nostro silenzio e il nostro pianto disperato".

Giovane morto in via Marco Polo. E c'è un'altra vittima della strada: si tratta di un 24enne che all'alba di questa mattina viaggiava a bordo di un motorino quando in via Marco Polo è stato travolto da una macchina. Il conducente, un uomo di 79 anni, si è fermato e ha chiamato i soccorsi ma per il giovane non c'è stato nulla da fare: arrivato in codice rosso al pronto soccorso del Sant'Eugenio è morto poco dopo. I vigili urbani di zona stanno ora indagando per ricostruire la dinamica dell'incidente: hanno già disposto il sequestro della macchina, una Ford Fusion, e del motorino. L'automobilista, già indagato per omicidio stradale, è stato sottoposto ai test di alcol e droga. Sono stati 612 i pedoni morti sulle strade italiane nel 2018, circa due al giorno, con un incremento del 2% rispetto al 2017 e del 7,4% rispetto al 2016. E' il dato dell'Osservatorio Asaps, l'Associazione Sostenitori ed Amici della Polizia Stradale secondo cui, lo scorso anno, i feriti sono stati 20.700: 9.465 uomini e 11.235 donne. La categoria più colpita, quella degli ultra 65enni con 364 vittime mentre la città che ha registrato il maggior numero di decessi è risultata Roma con 59, dieci in più rispetto ai 49 del 2017.

Alcol e guida, l'esperto: “Con un tasso all'1,4 non si è in grado di guidare in sicurezza”. Cosa dice la legge, quali sono i limiti e cosa succede quando si beve troppo. Irma D'Aria il 23 dicembre 2019 su La Repubblica. Quanto si può bere prima di mettersi alla guida? Dopo l'incidente di Roma, in cui sono rimaste uccise due ragazze sedicenni investite da un ventenne con un tasso alcolemico pari a 1,4 grammi per litro, è bene fare chiarezza sulle leggi e ricordare quanto siano importanti il rispetto delle regole e la prudenza soprattutto in vista delle festività natalizie e del Capodanno in cui per festeggiare si beve un po' di più.

Che cos'è il tasso alcolemico. Quando si parla di tasso alcolemico si intende la concentrazione di etanolo presente nel sangue. Finché si beve a casa propria, è una scelta personale che ricade sulla propria salute, ma quando si beve e poi ci si mette alla guida, allora è diverso perché le conseguenze ricadono anche su altre persone. Si stima, infatti, che in Italia il 40% degli incidenti su strada sia legato all'assunzione di alcol o droghe.

Cosa dice la legge per i giovani e gli adulti. Attualmente la legge stabilisce delle differenze in base all'età. "Al di sotto dei 21 anni e nei neopatentati - spiega Gianni Testino, presidente della Società Italiana di Alcologia e direttore SC Patologia delle Dipendenze ed Epatologia ASL3 - Ospedale San Martino, Genova - la legge prevede che il tasso alcolico alla guida sia zero per cui se un giovane viene intercettato dalle forze dell'ordine anche con concentrazioni molto basse di alcol nel sangue scattano delle sanzioni". Al di sopra dei 21 anni, il limite è 0,5 grammi per litro.

Quantità di alcol e tasso alcolemico. Il tasso alcolemico viene valutato attraverso l'utilizzo dell'etilometro, un apparecchio che attraverso l'espirazione 'misura' indirettamente la quantità di alcol che un soggetto ha nel sangue. La domanda che molti si pongono è quanto si può bere per rimanere al di sotto del valore soglia consentito dalla legge. "Scientificamente - spiega il presidente della Sia - è impossibile rispondere a questa domanda perché ci sono molte variabili ma per avere un'idea basti sapere che ogni unità alcolica contiene circa 12 grammi di etanolo che ritroviamo in media in un bicchiere di birra da 330 ml a 5°, in un bicchiere da vino da 125 ml da 12° oppure in un cocktail da bar o ancora in circa 40 ml di superalcolico. Possiamo stimare che anche con 2-3 bevande alcoliche come quelle che si bevono durante una cena tra aperitivo e vino si possa arrivare a 0,5 grammi per litro".

Cosa succede quando si assume alcol. I 12 grammi di etanolo vengono distribuiti nel sangue: "Una piccola parte viene espulsa con il respiro, un'altra piccola parte viene eliminata con le urine ma la maggior parte viene eliminata attraverso il fegato", spiega Testino. "Un fegato sano impiega quasi un'ora per smaltirli. Se, invece, ci sono problemi come fegato grasso o altre patologie, il tempo di eliminazione aumenta e può essere superiore a 90 minuti". Non tutti sanno, poi, che per legge i bar sono tenuti all'affissione della tabella con i tassi alcolemici: "E' obbligatorio ma spesso si affigge in formato A4 e in bianco e nero e quasi nessuno la nota", avverte Scafato.

Età, peso e cibo: le variabili in gioco. Ma a fare la differenza nell'assorbimento dell'alcol sono anche altre variabili. "Se questi dodici grammi vengono bevuti a stomaco pieno e se si è sovrappeso - precisa Testino - l'assorbimento sarà più lento e si raggiunge il picco di alcolemico in un periodo più lungo. Nelle donne, poi, la capacità del fegato di eliminare l'alcol è del 50% in meno rispetto all'uomo mentre al di sotto dei 20 anni i vari sistemi di eliminazione dell'alcol da parte del fegato sono ancora immaturi e quindi nei giovani anche basse concentrazioni di alcol rimangono in circolo per molto più tempo". 

I sintomi. Al di là dei limiti di sicurezza previsti dalla legge, cosa succede quando si beve e ci si mette alla guida? "Quando si consuma alcol - spiega Emanuele Scafato, Direttore Osservatorio nazionale alcol, Istituto superiore di Sanità e Centro Oms per la ricerca sull'alcol - c'è un'alterazione psico-fisica che è dose-dipendente. In genere, già a bassi dosaggi aumenta la sensazione delle proprie capacità e si riduce la percezione del rischio. Per esempio, già al di sotto degli 0,5 grammi per litro c'è una riduzione della visione laterale di circa il 20%, perdiamo qualche centesimo di secondo nella frenata e quando si imbocca un incrocio non si vede lateralmente proprio perché c'è il campo della visione ridotto anche in funzione dell'età perché al di sotto dei 20 anni l'organismo non è in grado di 'smontare l'alcol'. Questo significa che sarebbe meglio non guidare".

Se si supera il livello di 1,4 grammi/litro. Cosa succede, invece, quando il tasso alcolemico arriva a 1,4 grammi/litro come quello del ventenne che ha travolto le due ragazze di Roma? "E' un tasso molto alto: 1,4 grammi/litro sono all'incirca otto-nove bicchieri di bevande alcoliche e a quell'età crea conseguenze serie perché non si valuta correttamente la distanza, si perde la visione laterale e il coordinamento motorio specie se c'è stata anche l'assunzione di un cannabinoide. Insomma, un tasso alcolemico così rende incapaci di guidare in modo corretto e fa aumentare la probabilità di incidente", commenta Scafato. Cosa consigliare allora ai ragazzi ma anche agli adulti in vista dei brindisi di fine anno? "Se avete bevuto anche solo tre bevande alcoliche - suggerisce l'esperto dell'Iss - aspettate almeno un'ora per bevanda prima di mettervi alla guida oppure se non potete attendere tutto questo tempo, fate guidare qualcun altro". 

Ragazze uccise, lo strazio dei genitori. La madre di Camilla: "Giustizia non vendetta". Il papà di Gaia: "Non ho più ragioni per vivere". Fiori e messaggi per Gaia e Camilla, le due sedicenni investite e uccise nella notte di sabato a corso Francia. E la mamma di Gaia lancia un appello pubblico: "Chiunque abbia ritrovato il cellulare di mia figlia lo consegni alle forze dell'ordine". La Repubblica il 23 dicembre 2019. "Voglio giustizia, non vendetta". E' quanto ha riferito la mamma di Camilla Romagnoli, una delle due sedicenni investite a Roma nella notte tra sabato e domenica in corso Francia a Roma, al suo legale, l'avvocato Cesare Piraino. "Il padre, la madre e la sorella di Camilla  sono distrutti per quanto accaduto - spiega il penalista -. Una famiglia unita, colpita in modo tragico da questa vicenda. Attendiamo i risultati dell'esame autoptico, verrà svolto un esame esterno delle salme per accertare la dinamica di quanto accaduto". E lo strazio accomuna più famiglie. "Adesso non ho ragioni per andare avanti, lei era la mia forza dopo l'incidente che avevo subito". Così il padre di Gaia Von Freymann, come riferisce il suo legale, l'avvocato Giovanni Maria Giaquinto. "E' molto provato, nel 2011 ha subito un grave incidente in moto, all'Eur, che lo ha costretto sulla sedia a rotelle - spiega il legale - Questa tragedia ha un risvolto ancora più drammatico perché colpisce un uomo già provato duramente. Questa mattina l'ho sentito, gli ho comunicato che oggi pomeriggio verrà svolto l'esame del corpo di Gaia. Questa notte non ha chiuso occhio, è distrutto per quanto accaduto". E la mamma di Gaia lancia un appello pubblico: "Chiunque abbia ritrovato il cellulare di mia figlia lo consegni alle forze dell'ordine". La donna si era recata subito sul luogo dell'incidente. "E' un iphone 8 rosso, con la cover rossa - ha aggiunto - Gaia quella sera non aveva con sè la borsa, ma aveva tutto in tasca. Chiunque abbia ritrovato effetti personali delle ragazze per favore li riconsegni". Con i volti segnati dalle lacrime e gli occhi nascosti dietro grossi occhiali da sole la mamma di Gaia e i genitori di Camilla anche oggi si sono fermati a lungo a pochi metri dal punto in cui le ragazze sono state travolte.

Pietro Genovese, non solo alcol e cannabis: l'ultimo pesantissimo risultato delle analisi. Libero Quotidiano il 24 Dicembre 2019. Con il passare delle ore emergono con maggiore chiarezza i dettagli delle analisi su Pietro Genovese, il 20enne che ha travolto e ucciso a Roma le due 16enni, Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Prima si è appreso che il tasso alcolemico era di 1,4 grammi per litro, quasi tre volte la soglia massima di 0,5 grammi litro, che però per i neopatentati come lui è a zro assoluto. Per spiegarla in termini pratici è come se avesse bevuto un litro e mezzo di vino, o tre litri di birra o mezzo litro di limoncello. Ma nelle ultime ore si apprende anche che il ragazzo è risultato positivo al test della cocaina e della cannabis. Ancora non è però chiaro se fosse sotto l'effetto delle sostanze stupefacenti o se le avesse assunte nei giorni precedenti, per stabilirlo sono necessarie ulteriori verifiche. Per certo, ora, Pietro Genovese rischia l'arresto. La sua vettura, la Reanult Koleos, secondo i rilievi di indagine viaggiava attorno agli 80 chilometri orari.

Da it.notizie.yahoo.it il 23 dicembre 2019. Pietro Genovese, il conducente alla guida della Renault che ha investito le due 16enne in Corso Francia è risultato positivo al test di alcol e droga. Nella tragedia di Ponte Milvio che ha scosso la città di Roma sono morte due giovani ragazze: Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Gli inquirenti stanno ancora cercando di ricostruire l’esatta dinamica di quanto accaduto, ma sono già emersi nuovi dettagli. Il conducente della vettura aveva 20 anni e attualmente è indagato per omicidio stradale. Il suo cellulare, inoltre, è stato sequestrato. Nella notte fra sabato 21 e domenica 22 dicembre due ragazze sono state investite lungo Corso Francia, una strada di scorrimento nota per la movida romana. La tragedia di Ponte Milvio è avvenuto intorno a mezzanotte/l’una tra via Flaminia Vecchia e la rampa di accesso all’Olimpica. Le giovani 16enne stavano attraversando la strada per raggiungere un gruppo di amici, quando la vettura le ha colpite. Soccorse immediatamente dal conducente dell’auto, le due ragazze non ce l’hanno fatta. Camilla e Gaia hanno perso la vita sul colpo e i soccorsi del 118 hanno potuto soltanto constatarne il decesso. Toccherà agli inquirenti stabilire a quale velocità viaggiava Pietro, che è risultato positivo ai test di alcol e droga. Al momento il 20enne sotto choc è indagato per omicidio stradale. Nei prossimi gironi, inoltre, arriveranno i parametri esatti sul livello di sostanze rinvenute nel corpo del ragazzo. Nel frattempo, però, l’auto e il cellulare dik pietro sono stati sequestrati. La Polizia sta analizzando le immagini delle telecamere di sicurezza e sta ascoltando le testimonianze dei passanti per ricostruire i fatti. Inoltre, Paolo Genovese, padre del 20enne alla guida della Renault ha dichiarato: “Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre”.

Sulla terribile vicenda è intervenuta anche Emma Genovese, figlia del regista Paolo e sorella di Pietro, al volante dell’auto che ha investito e ucciso Gaia e Camilla. Proprio la giovane avrebbe postato su Instagram un durissimo sfogo di rabbia per le accuse rivolte al fratello mettendo in dubbio anche le notizie relative alla positività del fratello ad alcol e droga: “Vorrei dire una cosa: tutta la gente che sta dando la colpa a lui dovrebbe vergognarsi. Sono davvero distrutta per quelle due povere ragazze che hanno perso la vita ma non accusate se non sapete come sono andate le cose. La colpa è stata loro che per non fare 5 metri a piedi sono passate in mezzo alla strada con le macchine che sfrecciavano“. Il riferimento di Emma è ovviamente alla versione rilasciata da un testimone, il quale ha riferito che le due amiche avrebbero attraversato la strada con il semaforo pedonale rosso.

Un testimone dell’incidente avrebbe riferito agli inquirenti quando constatato dai suoi occhi: “Ho assistito all’incidente – ha detto il giovane -. Una scena che non dimenticherò mai”. “Erano al centro della strada, Gaia si è girata verso Camilla e poi è arrivata quella macchina – ricorda il ragazzo -. C’è stata la frenata fortissima e l’impatto che le ha sbalzate; l’auto è andata avanti. Poi sono arrivate altre macchine, penso che almeno tre le abbiano colpite”. Un amico delle vittime, invece, ha raccontato: “Le ho viste pochi minuti prima dell’incidente. Ci siamo incontrati a ponte Milvio. Erano felici come si sta al primo giorno di vacanza”. “Erano con degli altri amici ieri sera – ricorda ancora il ragazzo, con le lacrime agli occhi -. Era la mia migliore amica, una ragazza splendida, sorridente e sempre pronta ad aiutare gli altri. Camilla era più timida. Si volevano molto bene”. 

Da ilmessaggero.it il 23 dicembre 2019. Novità sull'incidente di Corso Francia dove hanno perso la vita le sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Un tasso alcolemico dell'1,4 ed esito non negativo per altre varie sostanze stupefacenti: sono i risultati dei test compiuti su Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, indagato a piede libero con l'accusa di omicidio stradale per aver investito e ucciso le due 16enni nella notte tra sabato e domenica a Corso Francia a Roma. Sul passato del 20enne ci sarebbero anche due casi di possesso di droga. Nel pomeriggio intanto, all'istituto di medicina legale dell'università della Sapienza è fissata l'autopsia delle due giovani vittime. Striscione a Corso Francia. «Gaia e Camilla sempre con noi»: è quanto si legge su uno striscione che è stato appeso sul ponte dell'Olimpica a pochi metri dal punto di Corso Francia, a Roma, dove la notte tra sabato e domenica sono state investite e uccise le due ragazze di 16 anni. Ieri c'era stata una processione di amici delle due ragazze, che avevano lasciato fiori e oggetti in ricordo delle vittime.

Liberoquotidiano.it il 24 dicembre 2019. Viene giudicato dagli inquirenti il "testimone chiave" dell'incidente in cui sono morte Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, le 16enne travolte e uccise da Pietro Genovese sabato sera a Roma. Si tratta di un ragazzo di 16 anni, T.O., che si trovava alla guida di una minicar al momento dell'impatto su quel maledetto vialone. Sarà presto riconvocato per essere nuovamente ascoltato. Il ragazzo ha però detto chiaro e tondo: "L'uomo alla guida del Suv non poteva evitare le due ragazze, erano fuori dalla sua visuale". T.O. era fermo al semaforo, ma dal lato opposto rispetto al ristorante T-Bone: "Non so perché ma lo sguardo mi è caduto proprio su quelle due ragazzine che all'improvviso - dice -, nonostante il semaforo fosse rosso per i pedoni, hanno cominciato a correre mano nella mano sotto la pioggia per attraversare la strada". Testimonianza che potrebbe un poco alleggerire la posizione di Genovese, già gravemente compromessa: è risultato positivo al test alcolemico e vi sono riscontri positivi circa l'uso di cocaina e cannabis. Il ragazzo ha aggiunto: "L'auto che si era fermata nel tratto centrale copriva completamente la vista al Suv che sopraggiungeva alla sua sinistra, lui è arrivato veloce e quelle due ragazze che correvano gli sono sbucate davanti, non poteva vederle". Una tragedia che si è consumata in pochi, drammatici, istanti: "Non so perché ma, mentre ero fermo, lo sguardo mi era caduto proprio sulle due ragazze, io le ho viste sulle strisce pedonali, le guardavo stringersi la mano e lanciarsi nella corsa e mi chiedevo: ma che fanno, è rosso? Poi la prima auto che frena e il Suv che le ha centrate in pieno e scaraventate a molti metri di distanza. Le ho viste volare via, è stato terribile", ha rimarcato. E ancora: "Molti dicono che non erano sulle strisce perché i corpi erano molto distanti, vicino ai guard-rail, ma per me erano sull'attraversamento pedonale e per loro era rosso, mentre per le auto che andavano verso il Centro, quindi anche per il Suv, era verde", ha concluso. 

Massimo Gramellini per il ''Corriere della Sera'' il 24 dicembre 2019. Abito non lontano dall' autostrada cittadina in cui le adolescenti Gaia e Camilla sono state investite da un ragazzo poco più grande. Ho attraversato decine di volte quell' incrocio: a piedi come loro, o in auto come lui. E mi sono sempre chiesto perché un punto tanto pericoloso, posto al fondo di un lungo rettilineo (quando si trova il semaforo verde sembra di fare il chilometro lanciato), la sera fosse così poco illuminato. Adesso ci si domanda se i riflessi del pilota fossero annebbiati dall' alcol e se le due vittime avessero attraversato fuori dalle strisce e col rosso. Si scoprono echi crudeli del destino nelle storie di famiglia: il padre di una delle adolescenti vive sulla sedia a rotelle dopo un incidente in moto, e quello del ragazzo al volante è il regista del film italiano più premiato del decennio, «Perfetti sconosciuti», in cui una coppia nasconde agli amici la verità su un omicidio stradale. Ma alla fine delle chiacchiere, e delle lacrime, resta la consapevolezza che a evitare l' ennesima tragedia del sabato sera sarebbe bastato un lampione nel posto giusto. Mentre la classe dirigente discorre di macro-riforme e maxi-scenari, io mi accontenterei di vivere in un Paese dove quando un ponte traballa, un argine vacilla o un incrocio trafficato piomba nell' oscurità, il responsabile se ne accorge e provvede. Per migliorare la vita dei cittadini, o almeno per proteggerla, non sempre serve una rivoluzione parolaia al giorno, a volte basterebbe accendere una luce.

Luca Bottura per ''la Repubblica'' il 24 dicembre 2019. Ho pensato ai due corpi che volano per aria. Ho pensato ai genitori, svegliati nel cuore della notte. Ho pensato che la morte in diretta, così esemplare, così a portata di racconto, avrebbe trasformato le vite spezzate in filone giornalistico, ed è normale, ma anche e soprattutto in detonatore dell' odio social. Ho pensato all' altra telefonata, all' altro padre, all' altra madre, che vengono a sapere di loro figlio che cancella altre vite. Ho pensato a quel padre famoso, che mentre realizza la tragedia sa già che i giornali di cui si cibava diventeranno veleno per l' anima. Ho pensato a mia figlia, se fosse successo a lei...Ho pensato a mio figlio, se fosse successo a lui. Ho pensato a tutte le volte che senza alcool in corpo ho percorso quel tratto in auto, convinto a correre dalla strada che ti accoglie, ti chiede di spingere. Ho pensato che poteva capitare a me, di restare piangente al bordo della strada aspettando un' ambulanza che non serviva a niente. Ho pensato che poteva capitare a me, di dovermi fare una ragione di un' ingiustizia così palmare. Ho pensato a tutto questo e mi è venuto da piangere. E non avevo ancora letto i social.

Michela Allegri e Alessia Marani per il Messaggero il 24 dicembre 2019. Pietro Genovese è indagato per omicidio stradale e potrebbe anche rischiare l'arresto. Il suo tasso alcolemico è risultato superiore al limite consentito dalla legge - 1,4 - e il ragazzo è anche risultato positivo all'assunzione di sostanze stupefacenti: oppiacei e cocaina. Se il livello di alcol nel sangue è un dato certo, non è invece sicuro quando il giovane abbia assunto le sostanze, che restano in circolo nel corpo anche per diversi giorni: il ventenne potrebbe averle prese anche molto prima di mettersi al volante sabato notte su Corso Francia. Proprio per avere dati più certi, la Procura ha disposto un supplemento di indagini. Bisogna anche considerare il fatto che dalle prime ricostruzioni effettuate dalla Polizia locale di Roma, Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, le due amiche sedicenni di terza liceo, travolte dal Suv guidato dal figlio del regista Paolo, avrebbero avuto un comportamento gravemente colposo, attraversando la strada con il semaforo rosso, in orario notturno, con la visibilità resa ancora più precaria dalla pioggia e in una delle strade più pericolose della Capitale. 

LA RICOSTRUZIONE. Secondo alcuni testimoni avrebbero tentato di scavalcare il guard-rail correndo mano nella mano per darsi velocità e slancio. Stavano facendo tardi e volevano rientrare a casa. Una prima auto che viaggiava sulla centrale delle tre corsie in direzione Parioli ha fatto in tempo a frenare e ad evitarle, ma la Renault Koleos guidata da Genovese, che avanzava alla sinistra della macchina che si era bloccata e le copriva la visuale, se le sarebbe trovate davanti e le ha travolte facendole letteralmente volare via sull'asfalto. Al ragazzo, difeso dall'avvocato Gianluca Tognozzi, la Guardia di Finanza aveva ritirato la patente il primo ottobre perché trovato in possesso di stupefacenti. Gli era stata restituita il 3 dicembre scorso. A suo carico ci sarebbero altre due segnalazioni negli anni precedenti. «Voglio giustizia, non vendetta» ha detto ieri la mamma di Camilla al suo legale, l'avvocato Cesare Piraino. Con i volti segnati dalle lacrime e gli occhi nascosti dietro grossi occhiali da sole la mamma di Gaia Von Freymann e i genitori di Camilla, ieri, si sono fermati a lungo a pochi metri dal punto in cui le ragazze sono state investite. Davanti a loro un grande striscione «Gaia e Camilla sempre con noi» affisso al ponte della tangenziale e decine di mazzi di fiori, stelle di Natale, biglietti e anche un cuscino di peluche a forma di cuore con su scritto «Tvtb». Ora cercano di darsi forza e chiedono giustizia. Disperato il papà di Gaia, Edward, costretto sulla sedia a rotelle da quando ebbe un incidente in moto. «Adesso non ho più ragione di andare avanti nella vita, lei era la mia forza», ha scritto in un messaggio all'avvocato Giovanni Maria Giaquinto. L'uomo è molto provato ed è seguito costantemente dagli psicologi. 

LE PERIZIE. Fondamentali per ricostruire l'esatta dinamica dell'impatto e il luogo dove è avvenuto - se sulle strisce pedonali precedenti i guard-rail o in corrispondenza di essi - saranno gli esami tecnici che dovranno stabilire la velocità a cui viaggiava il Suv di Genovese, valutando anche le posizioni dei corpi sull'asfalto. Le testimonianze sono discordanti. Intanto, due donne avrebbero riferito ai vigili il timore di avere urtato anche loro le ragazze quando erano già a terra passando in auto sul vialone subito dopo l'incidente. La Procura, ieri, ha affidato l'incarico per effettuare l'autopsia sui corpi di Camilla e Gaia. L'atto istruttorio è stato disposto dal pm Roberto Felici, titolare del fascicolo in cui Genovese è indagato per omicidio stradale. L'esame esterno è stato eseguito dal dottor Luigi Cipolloni, ma anche la difesa e le famiglie delle due ragazze - la mamma di Gaia è seguita dall'avvocato Andrea Cavallaro - hanno nominato consulenti di parte. Oggi, i legali delle famiglie chiederanno ai pm il nullaosta per avere le salme e poter quindi fare i funerali. Un Natale dolorosamente listato a lutto. «Non siamo solo agenti ma anche genitori e queste tragedie inevitabilmente ci toccano da vicino ancora di più in un periodo dell'anno che dovrebbe essere di gioia e serenità», ha commentato ieri il comandante della Polizia locale di Roma Antonio Di Maggio invitando a una maggiore prudenza e al rispetto delle regole. 

Michela Allegri e Alessia Marani per il Messaggero il 24 dicembre 2019. Gaia e Camilla sono morte sul colpo: un impatto atroce, che ha causato lo sfondamento del cranio e diverse fratture. Ma anche se dal primo esame esterno effettuato dal medico legale non emergono «segni di trascinamento» provocati da altre auto, agli atti dell'inchiesta ci sono le dichiarazioni di due donne che hanno raccontato alla polizia locale di avere investito pure loro le ragazze, mentre erano stese sull'asfalto di Corso Francia dopo essere state travolte dall'auto guidata da Pietro Genovese. L'impatto con il Suv le ha fatte volare via, sbalzando i corpi a diversi metri di distanza. E, secondo il dottor Luigi Cipolloni, medico legale nominato dalla Procura, potrebbe essere stato proprio questo l'unico colpo fatale. Ma serviranno esami più approfonditi, che verranno effettuati nei prossimi giorni. Perché agli atti del fascicolo coordinato dal procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e dal pm Roberto Felici ci sono anche racconti che rimescolano le carte dell'inchiesta e che forniscono una versione alternativa della dinamica. Un testimone avrebbe detto di avere avuto l'impressione che una delle due ragazze respirasse ancora prima dell'arrivo dei sanitari in ambulanza, che hanno sentito il polso e poi constatato il decesso di entrambe le sedicenni. Ma c'è altro: sui corpi di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann potrebbero essere passate almeno altre due macchine, dopo l'impatto con la Renault Koleos guidata da Genovese. Alcuni testimoni parlano di altre tre, se non cinque auto.

LE CONFESSIONI. Le dichiarazioni più importanti sono quelle di due conducenti, due donne, che sono state già individuate e ascoltate dalla polizia locale. La prima si è fermata subito in strada, la notte stessa dell'incidente. La signora si è accorta di essere passata sopra uno dei due corpi: «Non volevo, mi sono resa conto dopo, non ho capito cosa fossero», ha detto sotto choc ai vigili fermi su Corso Francia per effettuare i primi rilievi sull'asfalto bagnato da ore di pioggia. Un'altra giovane, accompagnata dalla mamma, si sarebbe invece costituita ieri mattina al comando dei vigili del II Gruppo, ai Parioli. Nemmeno lei si era accorta di essere passata con l'auto sopra i corpi ed è andata dritta a casa. Ma ieri, dopo avere letto i giornali, ha capito che sabato notte, attraversando in macchina Corso Francia, forse poteva avere urtato una delle due ragazze. E quindi si è sentita in dovere di raccontarlo agli investigatori, pensando che potesse trattarsi di un'informazione utile. Un dettaglio che potrà aiutare gli inquirenti a chiarire la dinamica dell'impatto, anche se al momento l'unico nome iscritto sul registro degli indagati è quello di Genovese, 20 anni, figlio del regista di Perfetti sconosciuti.

IL CELLULARE. Intanto ieri le madri di Gaia e Camilla sono tornate a Corso Francia, nel luogo dell'incidente. «Voglio giustizia, non vendetta», ha detto mamma Romagnoli. E a due giorni dalla tragedia spunta pure l'incubo degli sciacalli: qualcuno potrebbe avere rubato gli effetti personali delle adolescenti, persi in strada nell'incidente. Di Gaia la famiglia non ha più nulla, neanche lo smarphone rosso che teneva sempre in tasca: dall'altra notte è sparito insieme al portafoglio della ragazza, che conteneva soldi e documenti. E la madre della sedicenne ha fatto un appello: «Chiunque abbia ritrovato il cellulare di mia figlia lo consegni per favore alle forze dell'ordine. È un Iphone 8 rosso, con la cover rossa, purtroppo Gaia quella sera non aveva con sé la borsa, ma aveva tutto in tasca. Chiunque abbia ritrovato effetti personali delle ragazze per favore li riconsegni».

Roma, ragazze investite a Corso Francia: l'investitore rischia l'arresto. Gaia e Camilla morte sul colpo. Il ragazzo alla guida positivo a cocaina e cannabis. Tasso alcolico oltre i limiti. Federica Angeli il 24 dicembre 2019 su La Repubblica. Gli inquirenti hanno ancora 24 ore di tempo per decidere se arrestare con custodia in carcere oppure mettere ai domiciliari Pietro Genovese, il ventenne che sabato notte, al volante della sua auto, ha travolto e ucciso le due adolescenti romane Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Tertium non datur. Il figlio del noto regista infatti, iscritto nel registro degli indagati per duplice omicidio stradale, non ha superato i test di alcol e droga. Il suo tasso alcolemico è di 1.4: come se avesse bevuto un litro e mezzo di vino o tre litri di birra o mezzo di limoncello. Di più: anche il test della cocaina e quello della cannabis sono risultati positivi. Un neopatentato non può superare il livello 0 e, se avviene, è prevista appunto la misura degli arresti. Sta ora al giudice decidere se disporli a casa oppure in un carcere. Questo a prescindere dalla dinamica che, grazie alla relazione consegnata in procura dai vigili urbani di Roma Capitale, sembra ormai lasciare piccoli margini di dubbio. Gaia e Camilla, sabato notte, hanno attraversato la strada, corso Francia (uno stradone a scorrimento veloce nel cuore di Roma nord), fuori dalle strisce pedonali e a semaforo verde per gli automobilisti. Il suv Renault Koleos di Pietro Genovese arrivava a 80 km orari. "Non mi sono proprio accorto di loro, non le ho viste", ha dichiarato al pm. "La velocità è stata calcolata sulla base del ritrovamento dei corpi delle due vittime sull'asfalto", si legge nella relazione della Municipale. Le due sedicenni vengono travolte e l'impatto le sbalza una a 20 metri e l'altra a 25 dal punto in cui si trovavano per attraversare. Se fosse andato più veloce i corpi delle giovani sarebbero finiti prima sul cofano, poi sul tettino e infine sull'asfalto. "Dalle posizioni dei corpi delle giovani", si ritiene la dinamica essere questa, ribadiscono i vigili. Tanto che, la dichiarazione del giovane investitore di non essersi accorto di loro, conferma la ricostruzione. Così come l'esito dell'autopsia avvenuta ieri pomeriggio sui corpi delle studentesse: "Le ragazze sono morte sul colpo. Non ci sono segni di schiacciamento o trascinamento". Gaia e Camilla non sarebbero quindi state investite da altre auto, ma solo dal suv di Genovese. E la morte è stata provocata proprio dall'impatto violento con l'auto di Pietro. Che trecento metri dopo si ferma. Il cofano è accartocciato e il motore andato in blocco. Lui chiama il padre che lo raggiunge immediatamente sul posto e via via comincia a mettere a fuoco quanto accaduto. "Voglio giustizia, non vendetta" ha detto la mamma di Camilla al suo legale, l'avvocato Cesare Piraino. "Sono distrutti - ha dichiarato il penalista - . Una famiglia unita, colpita in modo tragico da questa vicenda". Così come la famiglia di Gaia e quella di Pietro, il cui padre ieri si è detto affranto per la morte delle ragazze, prima ancora che preoccupato per le sorti giudiziarie del figlio. Al giovane era stata sospesa per 15 giorni la patente lo scorso ottobre per un cumulo punti che aveva sommato (in negativo) con comportamenti alla guida poco corretti: multe per eccesso di velocità, sorpassi quando non era consentito, soste selvagge. Era anche segnalato come "assuntore" di droghe leggere: per tre volte era stato fermato, nel 2016, 2017 e 2019 dalle forze dell'ordine che lo avevano trovato con piccoli quantitativi di stupefacenti per uso personale, durante controlli avvenuti mentre era in strada a piedi. Sabato scorso però le negligenze stradali si sono sommate al consumo di droga. Un mix che ha generato una tragedia indelebile.

Pietro Genovese, indiscrezioni: "Ha lasciato Roma". Ma la posizione si aggrava: le voci dalla procura. Libero Quotidiano il 25 Dicembre 2019. La posizione di Pietro Genovese, il 20enne che ha travolto e ucciso Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann a Roma, si aggrava. Non solo il tasso alcolemico pari a 1,4, ma anche tracce di numerosi stupefacenti nel suo sangue, in attesa che nuovi test ne stabiliscano l'entità e il momento dell'assunzione. Il ragazzo rischia l'arresto: ora, si apprende, avrebbe lasciato Roma. L'agenzia di stampa Ansa fa poi sapere che l'atto istruttorio è stato disposto dal pm Roberto Felici, titolare del fascicolo in cui risulta indagato il figlio del regista Paolo Genovese. Nel frattempo la procura di Roma ha affidato l'incarico per effettuare un'autopsia sul corpo delle due sedicenni morte in zona Ponte Milvio. Numerosi i mazzi di fiori lasciati sul punto in cui le ragazze hanno perso la vita. Il padre di Gaia Von Freymann, assistito dall'avvocato Giovanni Maria Giaquinto, ha dichiarato mestamente: "Adesso non ho ragioni per andare avanti, Gaia era la mia forza dopo l'incidente che avevo subito".

Roma, «ho sognato mio figlio Luca: mamma non deve piangere più». Pubblicato giovedì, 21 novembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. I legali della famiglia: «Forse aveva scoperto qualcosa di losco che non poteva sopportare». L’appello a Anastasiya: «È il momento di parlare». Il padre Alfonso lo ha sognato. Uno degli avvocati di famiglia, Paolo Salice, che assiste i Sacchi con la collega Armida Decina, ipotizza invece che «Luca potrebbe aver scoperto qualcosa di losco, qualcosa che non gli andava giù». A quasi un mese dall’omicidio del personal trainer 24enne, assassinato con un colpo di pistola alla testa in via Franco Bartoloni, all’Appio Latino, da Valerio Del Grosso, 21 anni, pasticcere di Casal Monastero, davanti a San Basilio, con precedenti di polizia, il genitore della vittima ricorda quella drammatica sera del 23 ottobre scorso e rivela dettagli degli ultimi giorni. Lo fa nel corso di «Porta a Porta». «Ho sognato Luca questa notte. Ne parlavo con mia madre qualche giorno fa, le ho chiesto perché non riuscissi a sognarlo. Mi ha detto: “Dicono che debba passare un mese perché diventi angelo poi si sogna”. Pensavo fossero dicerie del nostro paese, in Abruzzo, ma stamattina alle 10 mi sono svegliato piangendo. L’ho visto nella stanza, gli ho chiesto che facesse lì, se non gli facessero male le braccia per i colpi ricevuti. Mi ha detto che stava bene, che si sentiva sollevato. “Voglio stare qua, non so se andrò in cielo”, mi ha detto, “ma fammi una cortesia: dì a mamma che non pianga più”». Un ricordo struggente come un altro aspetto della vita attuale nella casa di Luca che il ristoratore di via delle Coppelle, in centro, ha voluto rendere pubblico: «Le ceneri sono nella sua stanza, è giusto che sia così. Lui è stato sempre con noi, lo abbiamo messo dentro un vaso di porcellana. Lo abbracciamo e ce lo baciamo. E un po’ sembra come se sia tornato a casa». Ricordando ancora la sera del 23 ottobre, Alfonso Sacchi racconta che «Luca è sceso da casa, Federico (il fratello minore, ndr) stava provando in strada uno scooter. E uscito da solo, a piedi. Anastasia non c’era. Alle 23, ero al ristorante, mi ha chiamato un amico dicendomi che c’era stato un incidente, che Luca era caduto da un muretto. Non mi poteva dire che gli avevano sparato in testa. Non so perché sia successo - continua il padre del personal trainer -. Anastasiya è stata con noi, solo la prima sera è andata a dormire a casa, poi la mattina è venuta da noi, è uscita alle 8, è tornata ancora una volta dopo un’oretta, e non l’ho più vista». Poi l’appello alla giovane: «Luca non può più dirci cosa sia successo, aveva già dato la vita per difenderla nel terremoto di Amatrice, portandola in salvo. Lo ha rifatto. Adesso, se sa qualcosa, e nutro ancora un filo speranza, è il momento di parlare. Così non è possibile». Secondo gli avvocati della famiglia Sacchi, però, «Luca poteva aver scoperto qualcosa». «Le indagini vanno un pochino a rilento - dicono -, abbiamo due ipotesi: che si tratti di un errore di persona o che lui quella sera abbia scoperto qualcosa di losco, che non gli andava giù. E poi, se Luca è stato colpito da una mazza da baseball e ha diversi lividi, perché Anastasia non ha nemmeno un graffio? Chiediamo venga prelevato un campione genetico alla ragazza».

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per il Messaggero il 22 novembre 2019. «Luca poteva avere scoperto qualcosa e per questo è stato ammazzato». Così i legali della famiglia di Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni ucciso il 23 ottobre con un colpo di revolver alla nuca, accompagnando il padre del ragazzo, Alfonso, ieri negli studi di Porta a Porta. I due legali, Armida Decina e Paolo Salice, sono convinti che il giovane dell' Appio Latino sia stato eliminato da Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i pusher con amici tra i ras dello spaccio di San Basilio e Tor Bella Monaca, ora in carcere per l' omicidio, perché ritenuto «scomodo». L' ipotesi («non potrebbe essere altrimenti, a meno che non ci sia stato un errore di persona», dicono) spiegherebbe il perché dell' accanimento sul giovane, sul cui corpo l' autopsia ha riscontrato numerose lesioni compatibili con i colpi sferrati da una mazza. E avvalorerebbe lo scenario preso in considerazione dagli inquirenti secondo cui in via Latina si sarebbe consumata una lite antecedente di un' ora l' uccisione. «Le immagini della telecamera che avrebbe potuto riprendere la scena, quella di un market all' angolo, però, non sono state acquisite», puntualizzano i difensori. I Sacchi stanno ascoltando altri amici di Luca per arrivare alla verità. E gli indizi raccolti combacerebbero con quanto testimoniato da un giovane che era dal tabaccaio al momento del delitto (alle 23) e dall' inquilino di un palazzo di fronte. Il primo aveva detto di avere visto un giovane (Del Grosso) «scendere dalla Smart e camminare con un braccio teso lungo il corpo come se impugnasse qualcosa» e che «giunto all' altezza dell' incrocio, alzava il braccio...Ho sentito un forte fragore e un lampo di luce provenire dalle sue mani». Insomma, Del Grosso sarebbe sceso dall' auto per sparare a Luca. Il secondo teste giura di non avere sentito urla. «Solo dopo un po' è arrivata una ragazza bionda (Anastasia, la fidanzata di Luca, ndr) da via Latina». Un' altra telecamera riprende la Smart di Del Grosso e Pirino fare due giri dell' isolato contromano a caccia di qualcuno, prima di farsi incontro a Sacchi e ripartire dopo 30 secondi. Insomma, troppo poco tempo per accanirsi su Luca con la mazza (circostanza non riferita da Anastasia a carabinieri e polizia) e anche sulla ragazza stessa. Anastasia, al contrario, ha detto di essere stata colpita con la mazza dietro la testa per rubarle lo zainetto. A tale proposito Decina e Salice sollevano un altro dubbio: «Se Luca è stato colpito da una mazza da baseball e ha vari lividi, perché Anastasia non ha un graffio?».

LA VERITÀ. Davvero Luca poteva avere scoperto o disturbato la trattativa per l' acquisto della droga rivelata dagli intermediari di Del Grosso mandati alle 21 in via Latina a controllare che Giovanni Princi, l' amico di Luca con precedenti per droga, avesse i soldi per l' affare? Denaro - 60mila euro - che sarebbe stato mostrato nello zaino di Anastasia. Dall' esame sul telefono di Luca disposto dalla Procura non sono emersi contatti con i pusher. Fondamentali, dunque, sono i ruoli di Princi e Anastasia: nascondevano traffici illegali a Luca? Oppure lo avevano coinvolto, anche in modo indiretto, e i pusher hanno decretato, a un certo punto, che il giovane, forte con le arti marziali e alto 1,90, fosse diventato scomodo e da eliminare? Papà Alfonso ha rilanciato l' appello: «Anastasia parla», ricordando che il figlio l' aveva già salvata dal terremoto di Amatrice. Poi ha detto di avere sognato il figlio. «Gli chiedevo se gli facessero male le braccia per i colpi. Di' a mamma che non pianga più, si raccomandava».

Luca Sacchi, il padre e i gravi dubbi su Anastasiya: "Nasconde qualcosa. Perché hanno spostato l'auto?" Libero Quotidiano il 25 Novembre 2019. Dell'omicidio di Luca Sacchi, il giovane ucciso davanti a un locale di Roma mentre era in compagnia della fidanzata, ci sono solo due certezze: chi è la vittima e chi è l'assassino. Di quella notte, infatti, si sa solo che a sparare e uccidere il giovane è stato Valerio Del Grosso. Il resto invece è tutto un punto di domanda a cui il padre Alfonso non riesce ancora a dare spiegazioni. Con Luca quella tragica serata c'era Anastasiya Kylemnyk, nel cui zainetto, secondo gli intermediari di Del Grosso, c'era il denaro per acquistare marijuana o cocaina e "che forse nasconde qualcosa", dice papà Alfonso in una lunga intervista al Messaggero. D'altronde "i comportamenti della giovane - come una figlia in casa Sacchi - non escludono che c'entri qualcosa". Poi c'è un'altra incognita: il ruolo dell'amico di Luca, Giovanni Princi, e la trattativa per l'acquisto di droga da lui pilotata. "Si è scoperto che, dopo l'omicidio di mio figlio, Princi ha spostato l'auto di Anastasiya. Probabilmente doveva nascondere qualcosa, è l'unica spiegazione. Anche perché, in quel contesto, avrebbe dovuto pensare a Luca e non a spostare una macchina". I misteri di questa vicenda per Alfonso Sacchi si fanno sempre più oscuri, soprattutto se torna ai giorni prima della morte del figlio, "quando Anastasiya si era allontanata da noi e si comportava in maniera più distaccata". 

Camilla Mozzetti per il Messaggero il 25 novembre 2019. Il tempo si è fermato mentre i giorni corrono via veloci e lui, Alfonso Sacchi, è rimasto immobile: «Perché mio figlio è stato ammazzato?». Un mese fa, ormai, dal proiettile di un revolver calibro 38 esploso alla nuca. Se lo domanda di giorno, appena apre gli occhi, di notte quando prova a riposarsi. Ma non c' è alcun ristoro. Nulla che possa mitigare il suo dolore e acquietare l'animo di un padre che sembra quello di un animale chiuso in gabbia. Lui sa che c' è una vittima suo figlio Luca e un carnefice Valerio Del Grosso, pasticcere 21enne di Casal Monastero che ha premuto il grilletto. Ma le dicotomie non bastano a spiegare l'assurdità di una tragedia consumata in una Roma che, la sera del 23 ottobre scorso, odorava ancora di estate. Ad Alfonso Sacchi non basta una sola verità, che è quella oggettiva, con due ragazzi appena ventenni Del Grosso e il suo complice Paolo Pirino , rinchiusi in carcere con l' accusa di omicidio. Vuole sapere il perché Luca è morto. Non basta dire che è accaduto. Ci sono persone che erano lì e che sono rimaste in silenzio. Ragazzi che, stando alle indagini, si sono comportati in modo «anomalo». E non erano dei passanti o degli emeriti sconosciuti. C'era Anastasia, la fidanzata di Luca, nel cui zainetto, secondo gli intermediari di Del Grosso, c'era il denaro per acquistare marijuana o cocaina e «che forse nasconde qualcosa», dice papà Alfonso. E Giovanni Princi ex compagno di scuola del figlio «che se fosse stato un amico si sarebbe dovuto comportare diversamente». Non punta il dito e non cerca dei colpevoli morali. Vuole solo sapere se suo figlio, il suo «orgoglio», è morto come pensa da innocente o se invece era coinvolto in una presunta trattativa per l' acquisto di una partita di droga. Ma nessuno finora lo ha aiutato a capire.

Signor Alfonso un mese fa suo figlio Luca veniva ucciso da un colpo di revolver alla testa. Il suo assassino e il complice sono in carcere ma lei cerca ancora delle risposte.

«Certo, è normale, ci sono troppi lati oscuri».

Anastasia, che lei considerava una figlia, non ha mai spiegato puntualmente cosa è accaduto quella sera del 23 ottobre di fronte al John Cabot pub.

Crede stia nascondendo qualcosa?

«Probabilmente sì, visti i suoi comportamenti».

Dietro l' omicidio di Luca si è scoperta una trattativa per l'acquisto di droga pilotata forse da un amico di suo figlio: Giovanni Princi. Cosa sa e cosa pensa di questo ragazzo?

«Vorrei saperlo anche io cosa è successo. Riguardo Princi, penso che un amico si sarebbe comportato diversamente. L'amicizia è un' altra cosa».

È emerso che Princi abbia spostato, dopo il ferimento di Luca, l'auto di Anastasia. Secondo lei perché lo ha fatto?

«Probabilmente doveva nascondere qualcosa, è l'unica spiegazione. Anche perché, in quel contesto, avrebbe dovuto pensare a Luca e non a spostare una macchina».

Quella sera lei stesso aveva fatto un' iniezione di antidolorifico a suo figlio per il mal di schiena. Poi Luca è uscito dopo aver ricevuto una telefonata. Lei era a lavoro, sua moglie cosa le disse?

«Che sarebbe tornato da lì a poco. Ogni tanto lui ed Anastasia prima di pranzo o cena si vedevano per un aperitivo».

Nelle ultime settimane avevate percepito qualcosa, lei o sua moglie, che vi aveva insospettito? Un cambio di atteggiamento di Luca verso Anastasia, ad esempio, o un suo particolare nervosismo?

«Forse un atteggiamento più distaccato si era avvertito, ma più che altro nei nostri confronti».

Si dice che i genitori sappiano leggere negli sguardi dei figli la verità e la menzogna. Chi era Luca ai suoi occhi?

«Il mio orgoglio».

La madre di Valerio Del Grosso si è scusata, ha denunciato il figlio. Lei crede nel perdono?

«No».

Alessia Marani e Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 25 novembre 2019. C'era anche Luca Sacchi in un incontro tra Giovanni Princi e un pluripregiudicato avvenuto un mese prima del delitto, sempre in zona Appio Latino. Il nome del personal trainer ucciso il 23 ottobre con un colpo alla testa davanti a un pub di via Bartoloni compare tra gli identificati in quell' occasione dalle forze dell' ordine. Gli inquirenti erano sulle tracce di Princi già prima dell' omicidio e, ricevuta la soffiata che potesse trovarsi con un personaggio pericoloso, lo fermano per un controllo. Ma non è solo, con lui ci sono altri amici, tra cui lo stesso Luca Sacchi che viene identificato. Forse Luca è solo nei dintorni e nemmeno sa che quell' uomo ha precedenti, ma il suo nome finisce comunque a verbale.

TELEFONO MUTO. Luca e Giovanni erano amici dai tempi della scuola e negli ultimi mesi avevano ripreso a frequentarsi assiduamente, condividendo la passione per la palestra e le corse in moto sulla pista di Aprilia, appena fuori Roma. Negli stessi giorni del controllo, le forze dell' ordine fanno irruzione in un box nei garage delle palazzine sulla Tuscolana in cui abita la famiglia di Princi, convinti di trovare della droga. E infatti la trovano, ma il box non appartiene ai Princi e risulta abbandonato da tempo. Sarà un caso, ma stando a indiscrezioni, il telefono di Giovanni, da allora smette di parlare.

I DUBBI. Secondo la famiglia Sacchi, Anastasia, la fidanzata di Luca, e Giovanni nascondono qualcosa e forse Luca aveva scoperto qualcosa di losco. Per questo potrebbe essere stato fatto fuori. Ma davvero Luca era all' oscuro di tutto, oppure, che cosa avrebbe scoperto? Secondo gli emissari di Valerio Del Grosso - colui che ha sparato - mandati all' Appio Latino in avanscoperta un paio d' ore prima del delitto per sincerarsi che la comitiva di Princi avesse i soldi per comprare la marijuana (nello zaino rubato ad Anastasia ci sarebbero stati 60mila euro), la trattativa a un certo punto sarebbe saltata per trasformarsi in rapina, per prendersi i soldi e basta senza più portare la droga. Insomma, l' intento era dare una sola ai ragazzi dell' Appio. Perché? C'erano, forse, dei conti in sospeso da saldare? Fatto sta che la comitiva dell' Appio, come testimoniato dal controllo di polizia giudiziaria avvenuto il mese prima, non era nuova a incontri con persone sospette. Forse Princi si sentiva più sicuro vicino a Luca, alto 1,90 ed esperto di arti marziali?

Camilla Mozzetti e Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 26 novembre 2019. Potenzialmente iscrivibile nel registro degli indagati. Resta attenzionata dalla Procura di Roma la posizione di Anastasia Kylemnyk, la 25enne ucraina fidanzata di Luca Sacchi che la notte del 23 ottobre scorso era con lui in via Latina quando il ragazzo fu colpito alla testa dal proiettile di un revolver calibro 38. Fino ad oggi la ragazza, come più volte ha sottolineato il suo avvocato Giuseppe Cincioni risulta «parte lesa» all'interno della vicenda sull'omicidio del personal trainer. Non è stata ascoltata dai magistrati né dal pm titolare dell'inchiesta Nadia Plastina. Ma la sua posizione potrebbe cambiare. La sera stessa dell'aggressione compiuta da Valerio Del Grosso e dal complice Paolo Pirino, ora in carcere con l'accusa di omicidio la Kylemnyk fu condotta negli uffici del Nucleo investigativo dei carabinieri di via In Selci dove raccontò di esser rimasta vittima insieme al suo fidanzato di una rapina, che nello zainetto aveva pochi soldi e che la droga non c'entrava nulla. La sua deposizione è stata ritenuta inattendibile anche a fronte di quanto emerso a poche ore dalla morte di Sacchi. Con l'arresto di Del Grosso e Pirino, infatti, gli inquirenti hanno fatto luce su una trattativa per l'acquisto di una partita di droga. Marijuana verosimilmente anche se non si può escludere che si trattasse di cocaina. Da un mese i magistrati di piazzale Clodio stanno ricostruendo i vari ruoli e le seguenti posizioni di chi, quella sera di un mese fa, si trovava di fronte al pub John Cabot. A partire proprio dalla giovane baby-sitter ucraina. La ragazza potrebbe forse «nascondere qualcosa» come ha sospettato il padre della vittima, Alfonso Sacchi, che non è mai riuscito a chiarire con Anastasia i particolari di quella notte. A rafforzare questo sospetto anche le dichiarazioni (messe poi a verbale) dei due intermediari di Valerio Del Grosso Valerio Rispoli e Simone Piromalli sulle ore precedenti al ferimento di Sacchi. I due hanno ricostruito in Questura la dinamica di una trattativa per l'acquisto di droga e si sarebbero recati all'Appio per verificare la presenza del denaro. A mostrarlo loro, Giovanni Princi, ex compagno di liceo di Sacchi e ritenuto ponte nella trattativa perché conoscente di Rispoli. I soldi forse 60 mila euro in mazzette da 20 e 50 euro erano dentro lo zainetto rosa di Anastasia che in quel momento si trovava lì. Non è escluso, dunque, che la Procura decida di procedere nei confronti della Kylemnyk con una formale iscrizione nel registro degli indagati. Ma non è soltanto su di lei che si concentra l'attenzione dei magistrati. Anche la figura e la posizione di Princi dovrà essere chiarita. Giacché il ragazzo, come ricostruito da alcuni amici della vittima, con Sacchi agonizzante al pronto soccorso dell'ospedale San Giovanni si sarebbe preoccupato di spostare l'auto una Citroen C1 di Anastasia regolarmente parcheggiata nei pressi del pub. C'era forse in quell'auto qualcosa da nascondere od occultare? Sono intanto in corso le verifiche sui cellulari sequestrati, compreso quello di Luca.

Omicidio Luca Sacchi, inchiesta su Anastasiya Kylemnyk: la convinzione degli inquirenti. Libero Quotidiano il 26 Novembre 2019. Dopo l'intervista al padre di Luca Sacchi, il quale mostra di nutrire più di un sospetto nei confronti di Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata del ragazzo ucciso con un colpo di pistola, una svolta in procura. Il Messaggero infatti fa sapere che la ragazza è "potenzialmente iscrivibile nel registro degli indagati". La 25enne ucraina, insomma, nel mirino degli inquirenti. Fino ad oggi la ragazza, ha spiegato il suo avvocato Giuseppe Cincioni, risulta "parte lesa" all'interno della vicenda. Ma presto la posizione potrebbe cambiare: come è noto, sin dal principio, la sua deposizione non è stata ritenuta attendibile. La convinzione è che la ragazza potrebbe "nascondere qualcosa", come detto dal padre nell'intervista. E a rafforzare il sospetto ecco anche le dichiarazioni messe a verbale dagli intermediari dei due assassini nelle ore precedenti all'agguato. Il quotidiano capitolino ribadisce che "non è escluso che la procura decida di procedere nei confronti della Kylemnyk con una formale iscrizione nel registro degli indagati. Un'inchiesta sul suo ruolo, seppur non da un punto di vista formale, è già comunque avviata, e da tempo, sulla bionda Anastasiya, la ragazza dei misteri.

Flaminia Savelli e Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica - Edizione Roma” il 27 novembre 2019. Sono due i filoni di indagine ai quali lavora la procura per il caso di Luca Sacchi, il personal trainer ucciso il 23 ottobre scorso davanti a un pub a Colli Albani. Da un lato la vicenda omicidio che sembra essere piuttosto chiara: i due accusati, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, sono in carcere da un mese. Dall' altro, quella sulla droga, per chiarire i retroscena, per capire per quale motivo i due ragazzi quella sera si trovassero lì. Ed è in questo secondo rivolo che la posizione della fidanzata di Luca, Anastasiya Kylemnyk, è centrale: i pm e i carabinieri del nucleo investigativo sospettano che la ragazza non abbia detto la verità. In particolare sui soldi che aveva, arrotolati in mazzette da 20 e 50 euro, nello zaino e sui rapporti con i pusher di San Basilio. Ma non c'è solo quel filone. Anche gli avvocati della famiglia di Luca stanno facendo indagini difensive: tre ragazzi sono stati individuati e chiamati dai legali della famiglia Sacchi. Secondo quanto emerso, il gruppetto sarebbe arrivato mentre Luca era ancora steso a terra, in via Teodoro Mommsen. I tre sono poi stati visti ancora nella sala d'aspetto dell' ospedale dove la vittima era stata trasportata in condizioni disperate. E contro di loro ci sarebbe più di un sospetto perché nessuno dei testimoni ricorda di averli visti nel pub. Ma soprattutto: non rientrano nel gruppo di amicizie della vittima o della sua fidanzata, unica testimone del delitto. Già nei giorni scorsi la famiglia Sacchi, tramite gli avvocati Armida Decina e Paolo Salice, aveva chiesto il prelievo del dna della venticinquenne. Lo scopo era confrontarlo con i campioni della mazza da baseball utilizzata da Pirino per picchiare la vittima prima che Del Grosso facesse partire il colpo di pistola: «A oggi l'unico elemento certo della morte di Luca - sottolineano i legali - è chi ha sparato. Resta da capire perchè». Secondo gli investigatori, il proiettile è partito durante uno scambio di soldi e droga tra due diverse compagnie di ragazzi. L' appuntamento era nel parco di fronte al pub: da un lato Anastasiya e Luca, dall'altro i pusher diventati assassini. Da chiarire anche la posizione dell' amico di Luca Giovanni Princi che ha contattato i due spacciatori attraverso Valerio Rispoli e Simone Piromalli, concordando la cessione della droga e garantendo per gli acquirenti. Rispoli ha verificato che Anastasiya avesse i soldi. Ma quanti? Quello che si sa è che poco dopo davanti al John Cabot sono arrivati Del Grosso e Pirino. Non avevano la droga ma volevano lo zainetto. Forse una rapina finita male o, forse, una spedizione punitiva. Ordinata da qualcuno che sta ben al di sopra degli assassini. Ma su tutto questo Anastasiya non ha saputo fornire alcun dettaglio.

Delitto Luca Sacchi. Ora Anastasiya è tra gli indagati. Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. Per la giovane l’obbligo di firma. Notificate 5 ordinanze. Tra questi anche il 22enne che fornì le armi ai killer. Svolta nelle indagini sulla morte di Luca Sacchi, il 24enne ucciso nella notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso davanti al John Cabot, pub in zona Appio, nella Capitale. I carabinieri del Comando Provinciale di Roma hanno notificato 5 ordinanze di custodia cautelare ad altrettanti indagati. Destinatari del provvedimento restrittivo, per concorso in omicidio pluriaggravato, rapina aggravata, detenzione illegale e porto in luogo pubblico di un’arma comune da sparo sono anzitutto Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, già detenuti dopo essere stati fermati nei giorni immediatamente successivi al delitto. Poi i carabinieri del Nucleo Investigativo hanno arrestato all’alba di venerdì 29 novembre, un ragazzo di 22 anni, considerato colui che materialmente ha armato i due. A carico del giovane la procura della Capitale contesta i reati di omicidio pluriaggravato, rapina aggravata, detenzione illegale e porto in luogo pubblico di un’arma comune da sparo. I militari hanno notificato anche un provvedimento di custodia cautelare in carcere a carico di un 24enne accusato, assieme ad Anastasia, la ragazza di Luca, colpita invece dalla misura dell’obbligo di presentazione in caserma, di aver tentato di acquistare un ingente quantitativo di droga dagli altri tre indagati sopra indicati. La posizione di Anastasiya Klyemnyk 25enne ucraina, fin dal primo momento al centro di dubbi sui fatti di quella sera davanti al John Cabot Pub all’Appio Latino, è precipitata negli ultimi giorni, quando le prove raccolte dal pm Nadia Plastina incrociando tabulati telefonici e testimonianze hanno fatto emergere una volta di più le contraddizioni del suo racconto. Nell’unica versione fornita agli inquirenti aveva assicurato che non si trattasse di una storia di droga e che niente sapeva dei soldi nel suo zaino, dei quali invece parlano i mediatori dei pusher Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, oggi detenuti per omicidio volontario. Ma quello del 24enne personal trainer è solo l’ultimo di una lunga serie di delitti legati alla droga, pur se diversi tra loro. I numeri sulla criminalità legata allo spaccio sono impressionanti: 179 arresti (solo tra affiliati ad associazioni a delinquere, senza contare dunque piccoli pusher o clienti), quattordici operazioni (con quella di ieri) in meno di 12 mesi, nessun quartiere ne esce pulito. «Roma fa gola a tutti», ha ripetuto anche ieri il procuratore Prestipino. La ricchezza e l’ampiezza del mercato attraggono le grandi famiglie criminali, offrono guadagni vertiginosi ad associazioni a loro collegate e lasciano sostanziose briciole anche a bande minori. Nel solo quartiere di Montespaccato sono state disarticolate due diverse famiglie criminali. A maggio quella dei Bellocco di Rosarno, attiva tramite l’affiliato Costantino Sgambato (un maxi sequestro da 100 chili di cocaina, 143 di hashish e 20 armi da fuoco), a luglio i Gambacurta, autoctoni ma con alleanze d’affari ad alto livello. Ma se alcune zone sono ormai equiparate a roccaforti (San Basilio, Tor Bella Monaca), anche in quartieri «insospettabili» come il benestante Salario/Trieste o il più anonimo Marconi operano bande strutturate sul territorio. E ogni luogo di movida si trasforma in piazza di spaccio: le droghe «tradizionali» come cocaina, eroina e hashish si trovano ovunque.

Anastasiya. Arrestato 22enne per concorso in omicidio: fornì armi ai killer. Obbligo di firma per la fidanzata del personal trainer ucciso davanti a un pub a Roma: avrebbe inventato la rapina per coprire la droga. In manette anche l'amico d'infanzia di Luca, Giovanni Princi. La Repubblica il 29 novembre 2019. Svolta nelle indagini sulla morte di Luca Sacchi. Indagata Anastasia Kylemnyk, la fidanzata del personal trainer 24enne ucciso nella notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso a Roma, per detenzione di droga ai fini dello spaccio. La versione della rapina finita male fornita dalla giovane non ha convinto gli investigatori che hanno invece puntato, per descrivere il contesto in cui è avvenuto l'uccisione, su una compravendita di droga precedente allo sparo. I carabinieri del Comando Provinciale di Roma hanno notificato cinque ordinanze di custodia cautelare ad altrettanti indagati. Destinatari del provvedimento restrittivo, per concorso in omicidio pluriaggravato, rapina aggravata, detenzione illegale e porto in luogo pubblico di un'arma comune da sparo sono anzitutto Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, già detenuti dopo essere stati fermati nei giorni immediatamente successivi al delitto. In manette finisce anche Giovanni Princi, un pregiudicato 24enne amico d'infanzia di Luca Sacchi. Il ragazzo è accusato, assieme ad Anastasiya, di aver tentato di acquistare un ingente quantitativo di droga da Del Grosso, Pirino e un altro indagato. Arrestato anche un ragazzo di 22 anni, considerato colui che materialmente ha armato i due. A carico del giovane la procura della Capitale contesta i reati di omicidio pluriaggravato, rapina aggravata, detenzione illegale e porto in luogo pubblico di un'arma comune da sparo.

Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 28 novembre 2019. Da «parte lesa» a «potenzialmente iscrivibile nel registro degli indagati» a «indagata». A poco più di un mese dall' omicidio di Luca Sacchi, la posizione della fidanzata Anastasya Kylemnyk appare decisamente cambiata. Sebbene non vi sia stata una comunicazione ufficiale da parte dei pm che indagano sulla triste fine del personal trainer 24enne di Roma, da più fonti trapela che l' inchiesta si è ormai sdoppiata: da una parte c' è il filone sull' omicidio del ragazzo che insegnava in palestra, conduceva una vita sana ed era innamorato della sua fidanzata e attaccatissimo alla sua famiglia, dall' altra il filone relativo alla droga con la guerra tra bande di pusher titolari delle varie piazze dello spaccio romano. Una guerra di cui forse qualcuno conosce i dettagli ma non intende svelarli. Anastasya ha assistito all' omicidio del suo ragazzo, ha di sicuro subìto lo choc di un agguato compiuto da due giovanissimi spacciatori armati di mazza da baseball e di pistola (la prima è stata ritrovata, la seconda no); è stata sotto pressione, distrutta dal dolore, braccata, mediaticamente ricercata, ma da povera e innocente vittima che piange il fidanzato ucciso da due balordi di periferia, è passata ad essere più che una semplice persona informata sui fatti. Secondo il settimanale Giallo, specializzato in cronaca nera e giudiziaria, la bionda baby sitter di origini ucraine è stata iscritta nel registro degli indagati. Non certo per concorso nell' omicidio di Luca, visto che i due responsabili, Valerio Del Grosso, esecutore materiale del delitto, e Paolo Pirino sono in cella con accuse precise e avrebbero confessato i rispettivi ruoli tenuti quel giorno, quanto per spaccio di sostanze stupefacenti. E i suoi silenzi non aiutano a cercare la verità. Com' è noto, del resto, fin dall' inizio la versione di Anastasya non è stata ritenuta attendibile dagli inquirenti. La 25enne ha negato con fermezza ogni ipotesi relativa a un presunto giro di spaccio: «La droga non c' entra», ha detto a caldo, ma nel suo zainetto, ritrovato e posto sotto sequestro, ci sarebbero state parecchie banconote da 50 e da 20 euro per un totale, si dice, di 70mila euro: troppo per far credere che fosse solo per comprare un po' di fumo da consumare in solitudine. Più probabile che quella somma fosse destinata per altro, un giro molto più grande di lei. Ma in che situazione si era ficcata Anastasya? Perché nella sua borsa c' erano così tanti soldi su cui, infatti, si sono avventati Del Grosso e Pirino? Che cosa è accaduto davvero in via Teodoro Mommsen, quartiere Appio Latino, la sera del 23 ottobre, dove Luca è stato colpito a morte? Anastasya ha negato di conoscere i due assassini, mentre resta il mistero sul rapporto con Giovanni Princi, amico e compagno di liceo di Luca Sacchi, presente la sera del delitto al pub e fuori dove, presumibilmente, sarebbe dovuto avvenire lo scambio droga in cambio di denaro. Anche la posizione di Princi deve essere approfondita, così come resta da chiarire il ruolo del gruppetto di giovani arrivato mentre il 24enne istruttore di arti marziali era steso a terra in via Mommsen gravissimo. Lo stesso gruppetto avvistato nella sala d' attesa dell' ospedale dove i medici hanno tentato di tutto per salvare la vita a Luca, ma invano. Si tratta di 3 ragazzi che non rientrano nella cerchia di amici della vittima né della fidanzata. E allora perché stavano lì, a chi dovevano riferire? Secondo gli investigatori non vi è dubbio che il delitto sia avvenuto in conseguenza di uno scambio tra bande di pusher. Uno scambio finito malissimo per il giovane romano che le analisi hanno rivelato essere pulito, come confermato più volte dai genitori. Mamma Tina e papà Alfonso tramite i loro legali, Armida Decina e Paolo Salice, fanno sapere di avere chiesto un prelievo del campione biologico del Dna di Anastasya da comparare con quelli eventualmente trovati sulla mazza da baseball, visto che la 25enne aveva dichiarato di essere stata picchiata in testa con la mazza e per questo difesa da Luca che poi sarebbe stato freddato da un colpo alla nuca. «Se Luca è stato colpito a bastonate e ha vari lividi sul corpo, perché la ragazza non ha neanche un segno?», chiedono gli avvocati dei Sacchi. «La mia assistita parlerà quando le sarà richiesto di parlare dal suo unico interlocutore naturale, ovvero il pubblico ministero», ha replicato l' avvocato Giuseppe Cincioni, legale della Kylemnyk, al quale non risulta che la ragazza sia indagata. Intanto proseguono gli accertamenti degli investigatori: ieri sono state analizzate le autovetture usate la notte dell' omicidio. La prossima settimana sarà la volta dell' analisi sulla mazza a caccia di impronte e di materiale biologico. Il cerchio si stringe e molte risposte arriveranno anche dai tabulati telefonici dei soggetti coinvolti. Sempre che Anastasya non si decida a raccontare ciò che sa. «Se davvero amava Luca, allora dica tutta la verità», la implorano i genitori del fidanzato.

Alessia Marani, Camilla Mozzetti e Giuseppe Scarpa per ilmessaggero.it il 29 novembre 2019. Altri arresti per l'omicidio di Luca Sacchi, ucciso con un colpo di pistola alla testa il 23 ottobre scorso a via Latina a Roma. Dalle prime luci dell’alba, i Carabinieri del Comando Provinciale di Roma stanno dando esecuzione ad un’ordinanza emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Roma, su richiesta della Procura che dispone misure cautelati nei confronti di 5 persone, per le indagini relative all’omicidio del personal trainer 24enne. C'è anche Giovanni Princi, l'amico di Luca Sacchi, tra i destinatari delle misure cautelari. Al ventiquatrenne, ex compagno di scuola di Sacchi, finito in carcere viene contestato insieme ad Anastasia Kylemnyk, per la quale è stato disposto invece l'obbligo di presentazione in caserma, il tentativo di acquisto di un ingente quantitativo di droga. Luce anche sull'affare che i ragazzi dovevano portare a termine: 70mila euro (probabilmente nello zaino di Anastasia) per acquistare 15 chili di marijuana. Destinatari della misura della custodia cautelare in carcere, per concorso in omicidio pluriaggravato, rapina aggravata, detenzione illegale e porto in luogo pubblico di un’arma comune da sparo sono già i due reclusi nel carcere di Regina Coeli - Valerio Del Grosso, pasticcere di Casal Monastero e Paolo Pirino suo complice con diversi precedenti alle spalle per rapina e spaccio - perché fermati nei giorni successivi all’omicidio e un terzo ragazzo 22enne considerato colui che materialmente li ha armati di un revolver calibro 38. L'operazione di questa mattina arriva a sorpresa mentre da giorni sono in corso gli accertamenti irripetibili disposti dalla Procura su telefoni, mazza da baseball, zainetto di Anastasia. Ed è proprio la figura di questa giovane 25enne quella che fin dall'inizio è apparsa tra le meno chiare nell'omicidio di Sacchi. La Kylemnyk la sera dell'omicidio si trovava in via Latina con la vittima. Quando i carabinieri dall'ospedale San Giovanni l'hanno condotta al Nucleo investigativo di via In Selci per ascoltarla in merito alla dinamica, ha dichiarato di avere pochi soldi nello zaino e che la droga non c'entrava nulla. La sua versione fu ritenuta inattendibile anche a fronte di quanto avvenne dopo poco: l'arresto di Del Grosso e Pirino e le deposizioni rese in Questura da alcuni testimoni e dagli intermediari del pasticcere di Casal Monastero, Valerio Rispoli e Simone Piromalli, che parlarono di una ragazza (Anastasia) che prese parte alla trattativa per l'acquisto di droga. Trattativa che, stando alle prime ricostruzioni fu avviata da un ex compagno di scuola di Sacchi, Giovanni Princi, già alcuni giorni prima dell'aggressione grazie alla conoscenza di quest'ultimo con il Rispoli. Questa mattina l'abitazione della fidanzata di Luca è stata perquisita. L'attività istruttoria rientra nell'operazione che ha portato oggi all'emissione di cinque provvedimenti cautelari nell'ambito dell'indagine sull'omicidio del giovane personal trainer ucciso il 23 ottobre scorso. Per Anastasia, che risulta indagata, è stata applicata la misura dell'obbligo di firma: è accusata di avere tentato di acquistare un ingente quantitativo di droga la sera dell'omicidio. 

Luca Sacchi, l’omicidio in diretta nelle intercettazioni: «Voglio fa’ un casino, voglio tutti». Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 da Corriere.it. «Ascoltami, ma se famo invece comeeee… sentime, a parte i scherzi, sto con un amico mio che conosci, bello fulminato! Ma se invece io vengo a prendeme quella cosa che mi hai detto ieri e glieli levo tutti e settanta? Vengo da te… te faccio un bel re…»: come avvenuto forse mai, l’omicidio di Luca Sacchi viene intercettato in diretta dagli investigatori. Chi pronuncia la frase sopra riportata è infatti Valerio Del Grosso, il 21enne che poi farà fuoco con un revolver calibro 38 contro il personal trainer, e sta annunciando a Marcello De Propris, che gli deve fornire i 15 chili di marijuana per concludere lo scambio, la sua intenzione di prendere lo zaino di Anastasiya con i settantamila euro («Glieli levo tutti e settanta...») senza consegnare la merce. Una circostanza, assieme al fatto di aver fornito a Del Grosso e Pirino l’arma poi usata contro il 24enne, che vale per De Propris l’accusa di concorso in omicidio. Dall’analisi delle intercettazioni, spiega il gip Costantino De Robbio, «è evidente che l’incontro programmato tra Del Grosso e De Propris interessa il primo più che il secondo, poiché è Del Grosso a contattare più volte il suo interlocutore per ricordargli, quasi ossessivamente, l’incontro». Del Grosso si “raccomanda” di avere quello che ha chiesto (la droga e la pistola): «Te amo! Me raccomando» e poi lo richiama essere sicuro che l’amico non si tiri indietro «Aho! Me raccomanno, eh? Non famo scherzi eh?». I due si risentono poco prima dello scambio: «Stamo a pijà… sto a imballà», gli dice De Propris , usando la parola Gameboy come sinonimo di droga. Ancora una volta Del Grosso reitera le sue raccomandazioni: «Ok però mi ascolti un attimo? Nun famo cazzate eh? Nun famo cazzate!». Alle 21,30, 10 minuti più tardi, e in quella circostanza Del Grosso gli annuncia il suo piano che sfocerà nell’omicidio. L’«amico bello fulminato» a cui fa riferimento è Pirino, che scende dalla Smart e colpisce Anastasiya e Luca con la mazza da baseball. A ulteriore conferma c’è un’altra telefonata di Del Grosso a De Propris: «È un po’ ambigua la situazione, lo sai? Non poi capì Marcè quanti so… non poi capiiii…. Me sta a partì la brocca proprio de brutto…». De Propris lo schernisce, annota il gip, dichiarandosi sicuro che il Del Grosso non sarà capace di portare a termine il piano: «Te stai a cagà sotto… te stai a cagà stto…», ottenendo la reazione del killer che ribatte: «Io invece voglio fa un casino».

Omicidio Sacchi, le intercettazioni: "Ho fatto una cazzata, ho sparato a una persona: scappo in Brasile". Lo dice Del Grosso il giorno dopo il delitto del personal trainer. "Tanto c'abbiamo 70mila euro" aggiunge il giovane, arrestato poco dopo assieme a Paolo Pirino perché ritenuti autori dell'omicidio. La Repubblica il 29 novembre 2019. "Ho fatto una cazzata, ti devo parlare. Ieri sera verso le 23 ho sparato a una persona dalle parti di via Latina". Queste le parole di Valerio Del Grosso, in carcere con Paolo Pirino, per concorso nell'omicidio del personal trainer Luca Sacchi, avvenuto il 23 ottobre nella zona di Colli Albani, a Roma. La conversazione viene intercettata il giorno dopo i fatti, quando Del Grosso, accusato di aver materialmente sparato a Sacchi, si sfoga con il suo datore di lavoro: "Stavamo facendo uno scambio di marijuana di quindici chili in cambio di settantamila euro, poi qualcosa è andato storto ed è iniziata la colluttazione prima con la ragazza presente e poi con gli altri, poi ho notato uno dei presenti mettere la mano nei pantaloni come per estrarre un'arma quindi, visto che anche io avevo con me una pistola, l'ho estratta e ho sparato nella sua direzione. Ti giuro che non volevo colpirlo. Poi ho preso da terra lo zaino contenente il denaro e insieme a Paolo siamo scappati. Scappo in Brasile, tanto abbiamo settantamila euro".

Alle 21:20 del 23 ottobre scorso (poche ore prima dell'omicidio, ndr) Del Grosso chiama De Propris, che era intercettato perché coinvolto in un'indagine di droga -  che gli comunica che sta andando a prendere e confezionare la marijuana, che indica in modo convenzionale con il termine "gameboy". "A frà... a frate'... stamo a pija... stamo a far er gameboy e te dico... aspetta n'attimo... te chiamo io ... sto andà là", dice Marcello De Propris a Valerio Del Grosso secondo quanto risulta dalla richiesta di applicazione di misure cautelari avanzata dal Pm. "Sto a imballà (a confezionare la marijuana, ndr) - dice ancora De Propris - e je scrivo... damme er tempo che te chiamo dopo". "Nun famo cazzate eh? - gli dice Del Grosso prima di chiudere la chiamata - Non famo cazzate!". Ma sempre la sera del delitto, Del Grosso dice a De Propris:  "Sentime, a parte i scherzi, sto con un amico mio che conosci, bello fulminato! Ma se invece io vengo a prendeme quella cosa che mi hai detto ieri e glieli levo tutti e settanta? vengo da te... Te faccio un bel re...". riferendosi ai soldi visti nella zaino di Anastasiya e che sarebbero serviti all'acquisto droga. "Non puoi capire Marcè quanti sono... Mi sta a partì la brocca di brutto", conclude nell'intercettazione. Un importante contributo alle indagini è arrivato anche grazie a un'altra indagine della Squadra Mobile sullo spaccio di droga, sempre coordinata dai magistrati di piazzale Clodio. Grazie ai dialoghi intercettati tra Marcello De Propris e Valerio Del Grosso e al lavoro dei carabinieri del Nucleo Investigativo, con acquisizione di immagini di videosorveglianza, pedinamenti e di escussioni di testimoni, si è arrivati all'operazione di questa mattina.

Omicidio Sacchi, Anastasiya indagata: "Nello zaino 70 mila euro per la droga". La famiglia di Luca: "Ora paghi". Obbligo di firma per la fidanzata del personal trainer ucciso davanti a un pub a Roma: avrebbe inventato la storia dell'aggressione per coprire la droga. Il gip: "Ha avuto ruolo centrale nella trattativa, non collabora per proteggere i suoi legami criminali". In manette Giovanni Princi, Marcello De Propris che avrebbe fornito le armi e il padre Armando. La Repubblica il 29 novembre 2019. Svolta nelle indagini sulla morte di Luca Sacchi. Indagata Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata del personal trainer 24enne ucciso nella notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso a Roma, per detenzione di droga ai fini dello spaccio. La versione dell'aggressione finita male fornita dalla giovane non ha convinto gli investigatori che hanno invece puntato, per descrivere il contesto in cui è avvenuto l'uccisione, su una compravendita di droga precedente allo sparo. Gli investigatori hanno perquisito la casa dove la ragazza vive a Roma con i genitori. Nello zainetto di Anastasiya ci sarebbero stati 70 mila euro per l'acquisto di 15 chili di droga. La ragazza verrà ascoltata dal gip entro la fine della prossima settima. I carabinieri del Comando Provinciale di Roma hanno notificato cinque ordinanze di custodia cautelare ad altrettanti indagati. Destinatari del provvedimento restrittivo, per concorso in omicidio pluriaggravato, rapina aggravata, detenzione illegale e porto in luogo pubblico di un'arma comune da sparo sono anzitutto Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, già detenuti dopo essere stati fermati nei giorni immediatamente successivi al delitto. In manette finisce anche Giovanni Princi, un pregiudicato 24enne amico d'infanzia di Luca Sacchi. Il ragazzo è accusato, assieme ad Anastasiya, di aver tentato di acquistare un ingente quantitativo di droga da Del Grosso, Pirino e un altro indagato. Arrestato anche Marcello De Propris il ragazzo di 22 anni finito in carcere con l'accusa di detenzione, cessione di sostanza stupefacente e concorso nell'omicidio di Luca Sacchi. In manette anche il padre, Armando De Propris. L'arresto è scattato questa mattina, in flagranza di reato, a seguito della perquisizione nella sua abitazione dove è stato trovato un chilo di droga. Per l'uomo i pm avevano chiesto una misura cautelare per la detenzione dell'arma usata per l'omicidio di Luca Sacchi ma il gip non ha accolto l'impostazione della procura. "Allo stato non ci sono elementi per dire se Luca Sacchi fosse coinvolto, partecipe e consapevole della compravendita della droga". Così il procuratore facente funzioni Michele Prestipino nel corso di una conferenza stampa sulle 5 misure cautelari eseguite questa mattina dai carabinieri. "Non ci sono dubbi in ordine alla dinamica dei fatti che hanno portato alla morte di Luca Sacchi, sopravvenuta in seguito ad un colpo di arma da fuoco alla testa esplosogli da distanza di due metri da uno dei due giovani che, pochi istanti prima, erano sopraggiunti a bordo di un'autovettura per aggredirli". Lo scrive il gip Costantino De Robbio, secondo il quale a riferire in maniera concordante la stessa versione ai carabinieri del Nucleo Investigativo sono stati ben quattro testimoni oculari. "Del Grosso e Pirino sono scesi e si sono diretti verso la coppia (Luca e Anastasiya, ndr), armati uno di una mazza di ferro e l'altro di una pistola". Subito dopo, Pirino, ha colpito alla nuca "con una mazza di ferro" la ragazza "intimandole di dargli lo zaino". Questo ha scatenato la reazione di Sacchi che "ha atterrato l'aggressore". Qui è intervenuto Del Grosso che "ha estratto la pistola e lo ha ucciso". I due si sono dunque allontanati portando con sé lo zaino, definito dagli inquirenti "ciò che evidentemente costituiva il fine a cui tutta la loro azione era stata preordinata". "La scena descritta - si legge nel provvedimento restrittivo - è dunque indubitabilmente quella di una rapina sfociata in un omicidio". Per il gip "Anastasiya ha un ruolo centrale nel l'acquisto degli stupefacenti" e "ha agito con freddezza e professionalità nella gestione della trattativa dell'incarico affidatole di detenzione del denaro e di partecipazione alla delicata fase dello scambi". Per la procura Anastasiya "non collabora per preservare le relazioni criminali". Intercettato Valerio Del Grosso poco prima dell'aggressione a Luca Sacchi diceva a Marcello De Propris che gli ha fornito l'arma: "Sentime, a parte i scherzi, sto con un amico mio che conosci, bello fulminato! Ma se invece io vengo a prendeme quella cosa che mi hai detto ieri e glieli levo tutti e settanta? Vengo da te; te faccio un bel re...". Il riferimento è per gli inquirenti ai soldi visti nella zaino di Anastasiya. "Non puoi capire Marcè quanti sono...mi sta a partì la brocca di brutto", dice ancora. Amareggiati i genitori del ragazzo ucciso. "Anastasiya ci ha mentito su quanto avvenuto quella tragica sera e adesso è chiaro il motivo del suo strano allontanamento. Se ha sbagliato è giusto che paghi", fanno sapere attraverso i loro avvocati. "Non abbiamo mai avuto dubbi su nostro figlio, lui non c'entra assolutamente nulla con il mondo della droga".

Omicidio Sacchi, Prestipino: "Anastasiya aveva i soldi per la droga. Nessun elemento su coinvolgimento Luca". Svolta nell'omicidio del personal trainer. Nello zaino della ragazza 70mila euro per comprare 15 chili di marijuana". In manette anche Princi, l'amico della vittima. La Repubblica il 29 novembre 2019. Settantamila euro per l'acquisto di 15 chili di droga, in particolare marijuana. E' questa la quantità di denaro che si trovava  all'interno dello zaino di Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata di Luca Sacchi, ucciso con un colpo di pistola alla testa nella notte del 23 ottobre scorso davanti a un pub, in zona Colli Albani, a Roma.  Era tutto pronto per la vendita dello stupefacente che era già stato confezionato in balle. La ragazza  aveva mostrato a un emissario di Valerio Del Grosso il denaro, ma la cessione non si realizzò perchè i fornitori, pur raggiunto l'accordo, decidevano di rapinare gli acquirenti della grossa somma senza consegnare la droga. In questo scenario maturò l'uccisione di Luca. Ma "allo stato non ci sono elementi per dire se il giovane fosse coinvolto, partecipe e consapevole della compravendita" spiega il procuratore Michele Prestipino nel corso della conferenza stampa sulle 5 misure cautelari eseguite questa mattina dai carabinieri. "Non ci sono dubbi in ordine alla dinamica dei fatti che hanno portato alla morte di Luca Sacchi, sopravvenuta in seguito ad un colpo di arma da fuoco alla testa esplosogli da distanza di due metri da uno dei due giovani che, pochi istanti prima, erano sopraggiunti a bordo di un'autovettura per aggredirli". Scrive il gip Costantino De Robbio, secondo il quale a riferire in maniera concordante la stessa versione ai carabinieri del Nucleo Investigativo sono stati ben quattro testimoni oculari. "Del Grosso e Pirino sono scesi e si sono diretti verso la coppia (Luca e Anastasia, ndr), armati uno di una mazza di ferro e l'altro di una pistola". Subito dopo, Pirino, ha colpito alla nuca "con una mazza di ferro" la ragazza "intimandole di dargli lo zaino". Questo ha scatenato la reazione di Sacchi che "ha atterrato l'aggressore". Qui e' intervenuto Del Grosso che "ha estratto la pistola e lo ha ucciso". I due si sono dunque allontanati portando con se' lo zaino, definito dagli inquirenti "cio' che evidentemente costituiva il fine a cui tutta la loro azione era stata preordinato". "La scena descritta - si legge nel provvedimento restrittivo - e' dunque indubitabilmente quella di una rapina sfociata in un omicidio". E' dunque di questa mattina l'ulteriore svolta sull'uccisione del 24enne. Le ordinanze eseguite oggi riguardano Anastasiya per detenzione di droga ai fini dello spaccio. La casa dove la ragazza vive a Roma con i genitori è stata perquisita. I carabinieri, sempre questa mattina, hanno notificato cinque ordinanze di custodia cautelare ad altrettanti indagati. Destinatari del provvedimento restrittivo, per concorso in omicidio pluriaggravato, rapina aggravata, detenzione illegale e porto in luogo pubblico di un'arma comune da sparo sono anzitutto Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, già in carcere perché ritenuti gli autori del delitto.  Arrestato con l'accusa di concorso in omicidio e detenzione e cessione di sostanza stupefacente Marcello De Propris, il 22enne di San Basilio: ha fornito la pistola utilizzata da Del Grosso e Pirino. L'arma non è stata ancora trovata. In manette è finito anche Giovanni Princi, un pregiudicato 24enne amico d'infanzia di Luca Sacchi. Il ragazzo è accusato, assieme ad Anastasiya, di aver tentato di acquistare un ingente quantitativo di droga da Del Grosso, Pirino. Arrestato  anche il padre di De Propris, Armando. L'arresto è scattato questa mattina, in flagranza di reato, a seguito della perquisizione nella sua abitazione dove è stato trovato un chilo di droga. Per l'uomo, i pm avevano chiesto una misura cautelare per la detenzione dell'arma usata per l'omicidio di Luca Sacchi ma il gip non ha accolto l'impostazione della procura. "Non so se tra Anastasia e Princi ci fosse qualcosa, però potrebbe essere. Sono sensazioni di un papà, di una mamma. Di persone che hanno perso un figlio. Io Anastasia non la conosco più", ha detto all'AGI Alfonso Sacchi, papà di Luca.  "Princi non è amico di infanzia di mio figlio. Sono amici dall'ultimo ultimo anno di liceo. Poi, questa estate si è ripresentato e si sono frequentati vista anche la grande passione per le moto che avevano in comune. Ma non sono amici di infanzia, ci tengo a sottolinearlo", ha concluso Sacchi. 

Roma, «quel sospetto su Anastasiya, mio figlio disse che era tutto a posto». Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Il padre del ragazzo: «Quest’estate in vacanza abbiamo notato una strana intesa fra lei e Giovanni Princi. Lui non mi è mai piaciuto, troppo sfacciato». La madre del 24enne: Nastia mi dica in faccia perché mio figlio non c’è più. Una sensazione, quasi un presentimento. Forse qualcosa di più. Alfonso Sacchi, il papà di Luca Sacchi —il 24enne ucciso nella notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso a Roma —, ricorda bene quell’attimo e ciò che ha pensato in quel momento.

«Quest’estate, in vacanza ad Auronzo di Cadore, Giovanni Princi si è presentato da noi con la fidanzata. Stavano anche loro in Veneto, in un paese vicino, così almeno ci hanno detto. Con i miei figli Luca e Federico ci siamo frequentati qualche giorno per fare sport, andare in bicicletta, arrampicarci con le funi. A un certo punto però con mia moglie Tina abbiamo avuto l’impressione che fra lui e Anastasiya, che stava sempre con noi, ci fosse un’intesa particolare».

A vostro figlio lo avete fatto presente?

«Sì, certo. Subito. Ma Luca era un ragazzo meraviglioso, che si fidava dei suoi amici e di chi aveva vicino. Mai avrebbe avuto un sospetto. Tanto che ci ha risposto: “Ma chi Anastasiya? Con Giovanni? Ma che davvero credete a una cosa del genere?”. Per lui era già finita lì».

Cosa pensa di Princi?

«Mai piaciuto. Troppo sfacciato, con un’educazione diversa da quella che ha avuto Luca. E mi raccomando, lo scriva: non era un amico d’infanzia di mio figlio. Si sono conosciuti all’ultimo anno di liceo al Kennedy e lui a scuola già veniva descritto come una testa calda. Poi si sono persi di vista e si sono ritrovati per caso in birreria, prima dell’estate. Non piaceva nemmeno agli amici di Luca: “Si sente tutto lui — dicevano —, come fosse un dio”».

E Luca, invece, come lo considerava?

«Avevano la passione per le moto. Quando gli ho fatto presente che quel ragazzo non andava bene, lui mi ha rassicurato: “Papà, non ti preoccupare, andiamo solo a correre in pista”. Non ho mai influenzato le sue scelte, sapeva badare a se stesso».

E amava Anastasiya.

«Tantissimo. Ora non so più chi sia. Abbiamo sperato fino all’ultimo, ma vederla fuori dalla caserma ci ha sconvolto. Se è colpevole, è giusto che paghi. L’abbiamo accolta in casa come una figlia. Luca l’amava e quindi l’amavamo anche noi. Già dopo pochi mesi si è trasferita a casa nostra, dormiva in camera con Luca».

Si sente tradito?

«Non so se lo ha fatto per raggirarci, ma ci ha raccontato che il patrigno la maltrattava, così abbiamo detto a Luca di farla venire a vivere a casa nostra. Non sappiamo più cosa pensare».

In tv la mamma di Luca accusa senza mezzi termini la 25enne ucraina: «Ti ho chiesto più volte se c’entravi qualcosa con questa storia, hai sempre detto di no. Ora vieni a dirmelo in faccia — dice la signora Tina —. Luca non ha mai avuto a che fare con questi delinquenti, voglio sapere perché non c’è più».

«Così ho capito che a sparare era stato il mio ragazzo». Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. Giorgia D’Ambrosio è tornata dai carabinieri una settimana dopo l’omicidio. Prima del delitto Valerio Del Grosso le aveva prospettato una vacanza alle Maldive. «Sono qui per raccontarvi la verità sull’omicidio di Luca Sacchi. Nel mio interrogatorio non vi ho detto tutto perché avevo paura, ma la mia coscienza mi ha spinto a tornare». Il 31 ottobre, a una settimana dall’omicidio, Giorgia D’Ambrosio, amica da tempo ma da poco fidanzata del killer Valerio Del Grosso (che è sposato), torna dai carabinieri e con le sue dichiarazioni (aveva già raccontato la fuga del 21enne) aiuta gli investigatori a chiudere il cerchio. La ragazza parte dalla sera del delitto quando Del Grosso le prospetta in chat un viaggio alle Maldive. È la fase che precede la rapina dello zaino di Anastasiya e il 21enne è certo di poter contare sui 70 mila euro. Alle 23.15 Del Grosso la contatta di nuovo, le chiede se ha l’auto, arriva a bordo della Smart guidata da Pirino nella fuga e le chiede di accompagnarlo in un posto. Ha appuntamento con Marcello De Propris a Tor Bella Monaca. Così la ragazza descrive quel giovane: «Alto, corpulento, con barba lunga pettinata a punta, capelli rasati di lato e un po’ lunghi sopra. Ho notato una parola tatuata sulla parte rasata sopra l’orecchio». È l’identikit del 22enne accusato di concorso in omicidio. Giorgia ascolta delle frasi: «Che ha detto tuo padre?», chiede Del Grosso. «Che sei un coglione», risponde De Propris. Il riferimento è all’arma di Armando De Propris, usata per l’omicidio, che bisogna far sparire. Il giorno dopo la ragazza accompagna Del Grosso ancora da De Propris (a casa della zia). Lei resta fuori, mentre Valerio viene avvertito di stare attento ai pitbull (tanto che De Propris uscirà con una ferita al tendine d’Achille). Dopo questo incontro Valerio le chiede di memorizzare sul suo telefono il numero della persona che ha visto, identificandola solo con la lettera «M». Poi Giorgia e Valeria incontrano altri amici a Tor Sapienza: «Tutti rinfacciavano a Valerio lo sbaglio che aveva fatto giungendo a dirgli, con le lacrime agli occhi, che faceva schifo». È qui, dice Giorgia, che ho capito cosa era successo.

Per i pm c'era un finanziatore. Omicidio Luca Sacchi, la fake dei 70mila euro per 15 chili di marijuana. Il Riformista il 30 Novembre 2019. Un finanziatore dietro i 70mila euro che Anastasia custodiva in uno zaino la sera in cui venne ferito con un colpo di pistola alla testa Luca Sacchi, 24 anni, morto poi nelle prime ore del 24 ottobre in ospedale a Roma. E’ l’ipotesi formulata dai magistrati nella richiesta di misure cautelari trasmessa al Gip nei giorni scorsi. “Da dove venisse il denaro, se raccolto dai giovani o proveniente da un finanziatore che li aveva assoldati (come più probabile), non si può affermare con certezza”, scrive il Pm. “Di sicuro – aggiunge – essi avrebbero dovuto trasportare le balle con l’auto della Kylemnyk con le quali la coppia si era portata al pub benché la casa di Sacchi fosse nei pressi”.

GLI INTERROGATORI – Intanto è potrebbe tenersi già mercoledì 4 dicembre l’interrogatorio di garanzia di Anastasia Kylemnyk, 25 anni, fidanzata di Luca, indagata per il tentato acquisto di droga e raggiunta venerdì 29 novembre dal provvedimento dell’obbligo di firma. L’atto istruttorio avverrà sicuramente dopo che il giudice avrà ascoltato i soggetti raggiunti da ordinanza cautelare in carcere. Si tratta di Marcello De Propris, il 22enne accusato, tra l’altro, di concorso in omicidio per avere fornito a Valerio Del Grosso e Paolo Pirino la pistola utilizzata per uccidere Sacchi, e Giovanni Princi, il pregiudicato amico intimo del personal trainer che secondo l’accusa avrebbe condotto la trattativa con i pusher per l’acquisto di 15 chili di hashish. I due saranno interrogati martedì. Secondo la ricostruzione della procura di Roma, nella trattativa Anastasia “ha avuto un ruolo centrale”. Sia lei che Princi “dimostrano, seppur con gradi diversi, di essere pienamente inseriti nel circuito della compravendita di stupefacenti”. L’indagine è condotta dai carabinieri del Nucleo Investigativo, coordinati dal procuratore facente funzioni Michele Prestipino, dall’aggiunto Nunzia D’Elia e dal pm Nadia Plastina.

IL GIALLO DELLO ZAINO E DEI SOLDI – Secondo gli investigatori “Anastasia non parla per proteggere i suoi legami criminali”. Resta però il giallo dello zaino che aveva quella sera. E’ stato ritrovato senza l’ingente cifra all’interno. Tuttavia 70mila euro per circa 15 chili di marijuana resta una cifra sproposita e fuori mercato. Stando a questa ricostruzione, i presunti pusher avrebbero pagato un grammo di ‘erba’ oltre 20 euro. La verità sembra ancora lontana e decisive potrebbero rivelarsi le parole della fidanzata di Luca.

Caccia al finanziatore che ha dato ad Anastasiya e a Princi i soldi per la droga. Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 da Corriere.it. Potrebbe esserci un finanziatore, una terza persona, che ha fornito a Giovanni Princi e Anastasiya i 70 mila euro che sarebbero dovuti servire all’acquisto di 15 chilogrammi di droga. Per i pm della procura di Roma che indagano sul contesto in cui si è consumato l’omicidio di Luca Sacchi questa è una pista. I magistrati lo scrivono nella richiesta delle cinque misure cautelari rilasciate venerdì 29 novembre. Anche su questo potrebbero concentrarsi ora le indagini. Anche se gli inquirenti non escludono che la grossa somma di denaro contante potrebbe, invece, essere il provento della vendita di altre partite di droga, reinvestito da Princi e Nastia, nel nuovo acquisto. Sarà interrogata mercoledì Anastasia Kylemnyk, la fidanzata di Luca Sacchi. La 25enne ucraina, indagata per il tentato acquisto di droga e venerdì raggiunta dal provvedimento dell’obbligo di firma, potrebbe essere convocata dal gip già mercoledì, o al massimo venerdì, per essere ascoltata nell’ambito dell’interrogatorio di garanzia. L’atto istruttorio avverrà sicuramente dopo che il giudice avrà ascoltato gli altri indagati raggiunti da ordinanza cautelare in carcere. Martedì, toccherà a Marcello De Propris, il 22enne accusato, tra l’altro, di concorso in omicidio per avere fornito a Valerio Del Grosso e Paolo Pirino la pistola utilizzata per uccidere il personal trainer 25enne, e a Giovanni Princi, il pregiudicato amico intimo del Luca Sacchi che secondo l’accusa avrebbe condotto la trattativa con i pusher per l’acquisto dei 15 chili di hashish. Una trattativa in cui Anastasiya «ha avuto un ruolo centrale». Per chi indaga lei e Princi «dimostrano, seppur con gradi diversi, di essere pienamente inseriti nel circuito della compravendita di stupefacenti». L’indagine è condotta dai carabinieri del Nucleo Investigativo, coordinati dal procuratore facente funzioni Michele Prestipino, dall’aggiunto Nunzia D’Elia e dal pm Nadia Plastina.

Da ilmessaggero.it il 30 novembre 2019. Nuovi elementi legati all'omicidio di Luca Sacchi. Potrebbe esserci un finanziatore, una 'terza persona' che ha fornito a Giovanni Princi e Anastasia i 70 mila euro che sarebbero dovuti servire all'acquisto di 15 chilogrammi di droga. Ne sono convinti i pm della Procura di Roma che indagano sul contesto in cui si è consumato l'omicidio di Luca Sacchi. I magistrati lo scrivono nella richiesta delle cinque misure cautelari di ieri. E su questo potrebbero concentrarsi ora le indagini sull'omicidio avvenuto a Roma durante una compravendita di droga. Anastasia, interrogatorio mercoledì. Potrebbe avvenire mercoledì, al più tardi venerdì, il primo confronto tra i magistrati che indagano sull'omicidio di Luca Sacchi e Anastasia, la fidanzata del 24enne indagata per il tentato acquisto di droga e ieri raggiunta dal provvedimento dell'obbligo di firma. La giovane potrebbe essere convocata in procura dal gip per essere ascoltata nell'ambito dell'interrogatorio di garanzia. L'atto istruttorio avverrà sicuramente dopo che il giudice avrà ascoltato i soggetti raggiunti da ordinanza cautelare in carcere. Martedì, infatti, sono fissati gli interrogatori di Marcello De Propris, il 22enne accusato, tra l'altro, di concorso in omicidio per avere fornito ai killer la pistola utilizzata per uccidere Sacchi, e Giovanni Princi, il pregiudicato amico intimo del personal trainer che secondo l'accusa avrebbe condotto la trattativa con i pusher per l'acquisto di 15 chili di hashish. Una trattativa in cui Anastasia «ha avuto un ruolo centrale». Per i pm lei e Princi «dimostrano, seppur con gradi diversi, di essere pienamente inseriti nel circuito della compravendita di stupefacenti». «Da dove venisse, poi, il denaro, se raccolto dai giovani - mettono nero su bianco i pm - o proveniente da un finanziatore che li aveva assoldati (come più probabile), non si può affermare con certezza». Princi comunque «non è alla prima esperienza». Per gli inquirenti «è inserito stabilmente in contesti criminali, in passato aveva concluso altri acquisti - si legge nella richiesta della Procura - si da essere definibile cliente degli spacciatori indagati, preserva le sue relazioni criminali non offrendo alcun contributo alle indagini benché l'ucciso fosse un suo amico dai tempi del liceo».

Michela Allegri e Giuseppe Scarpa per ilmessaggero.it il 30 novembre 2019. Dolce, solare e mite oppure cinica e spregiudicata, affascinata dal sogno di fare una montagna di quattrini vendendo la droga, fino al punto di mentire spudoratamente agli investigatori quando le chiedono chi ha sparato al suo Luca. Per gli inquirenti, di fronte alla tragedia, Anastasia Kyleminyk fa una scelta spietata: «Preservare le relazioni criminali», non aiutare i carabinieri ad «assicurare alla giustizia - si legge nelle carte della procura - gli autori del delitto del fidanzato». È inafferrabile la personalità della 25enne ucraina. Compare nelle foto mentre sorride felice con il fidanzato. Per chi l’ha avuta alle sue dipendenze è la lavoratrice affidabile e seria ed anche, all’inizio, la vittima innocente: la ragazza che piange piegata sul corpo del fidanzato disteso sul selciato in agonia la notte del 24 ottobre freddato da un rapinatore. A leggere le carte dell’inchiesta emerge, però, dell’altro. Il lato oscuro della ragazza ucraina, che appare omertosa, fredda e smisuratamente ambiziosa. Stregata dalla «prospettiva di facile arricchimento» attratta anche lei, come il resto della banda di cui fa parte, dal «mondo della malavita», sottolineano gli inquirenti. Vuole incamerare una fetta importante di soldi dalla compravendita di una partita di stupefacenti. L’acquisto di marijuana a cui si adopera - emerge dalle carte dell’indagine - in prima persona. Mostra il suo zaino ai mediatori dei pusher, all’interno ci sono 70mila euro. Tanto che il magistrato la descrive in questo modo: «Ha agito con freddezza e professionalità nella gestione della trattativa». Il pm fa riferimento «all’incarico affidatole di detenzione del denaro ed anche alla «partecipazione alla delicata fase dello scambio» denaro - droga. La sua «freddezza» affiora anche quando gli investigatori la pressano, poche ore dopo la morte di Luca. Per lei si è trattata di una rapina. Fino ad oggi non ha fornito una versione differente e non si è mai presentata di fronte ai magistrati per raccontare quello che è realmente accaduto quella notte. Ci hanno pensato altri testimoni a demolire la sua versione. Tanto che gli investigatori sottolineano come il suo atteggiamento sia stato «sorprendente»: non ha collaborato «con gli organi investigativi» per «assicurare alla giustizia gli autori del delitto». Avrebbe tenuto questa condotta omertosa - ed è questa una tesi descritta nelle carte - per «preservare le relazioni criminali acquisite nel mondo della droga con il quale, dunque, non intende recidere i legami». Tanto che alla fine il gip decide di infliggere la misura richiesta dal pm Nadia Plastina. L’obbligo di firma con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio perché «appare il rischio di reiterazione di delitti della stessa specie - sostiene la procura - di quelli per cui si procede». Infine l’ultimo colpo di teatro di Anastasia. Ieri, il giorno in cui i carabinieri bussano alla porta di casa sua e l’accompagnano in caserma. Qui incrocia Giovanni Princi, l’amico di Luca, regista dell’acquisto della partita di droga. Lei lo vede, vuole aggredirlo ma non ci riesce: «Sei un maledetto è tutta quanta colpa tua», gli urla. Per la procura non è così. Anche lei ha la sua quota di responsabilità. D’altro canto anche la madre di Luca Sacchi è dello stesso avviso: «Vedendoti mentre ti portavano via - ha detto ieri la donna - pensavo a quanto ti amava Luca. Tu me lo hai fatto portare via. Devi dirmi quello che è successo».

Luca Sacchi, parla l'ex fidanzato di Anastasya Kylemkyn: "Lei e la droga", sconcertante cambio di personalità. Libero Quotidiano l'1 Dicembre 2019. Oggi Anastasiya Kylemkyn "sembra un'altra". In tutti i sensi. La fidanzata di Luca Sacchi, indagata per spaccio di droga e coinvolta nell'omicidio del ragazzo lo scorso ottobre a Roma, si è presentata in caserma quasi irriconoscibile nel look, "capelli più corti, rossi mogano, niente felpa ma un giaccone a quadri". Ma il Messaggero sottolinea soprattutto la sua metamorfosi emotiva, un cambio di personalità inquietante. A confermarlo l'ex fidanzato della 25enne ucraina, un parrucchiere che preferisce restare anonimo. "Ho conosciuto un'altra Anastasia io. Una ragazza tranquilla, senza grilli per la testa, lontana anni luce dal mostro che ora viene tratteggiato. Sono sconcertato". Viene descritta dagli inquirenti come una persona "fredda e professionale" persino nella trattativa con i pusher. "Anastasia si spaventava se solo qualcuno si faceva una canna vicino a lei e ora pensarla come a una narcotrafficante proprio non ci riesco", spiega il ragazzo.

Camilla Mozzetti per ''Il Messaggero'' l'1 dicembre 2019. La sua verità non la potrà mai raccontare così come non potrà mai difendersi dalle accuse che molto probabilmente nei prossimi giorni gli verranno rivolte. Né potrà confermare o smentire le ricostruzioni sulla sua partecipazione alla trattativa per l' acquisto di 15 chili di marijuana. I morti non parlano. Luca Sacchi è stato ucciso dal proiettile di un revolver calibro 38 esploso a bruciapelo la sera del 23 ottobre scorso da Valerio Del Grosso, pasticcere 21enne di Casal Monastero. Ma alcune delle sue parole, pronunciate pochi giorni prima della tragedia, e raccolte da chi questo ragazzo con la passione per le arti marziali e le motociclette l' ha visto crescere, sono conservate gelosamente. Sono parole che inquadrano lo stato d' animo di un giovane di 24 anni afflitto nell' ultimo periodo da molti dubbi e altrettante perplessità. Non è il papà Alfonso o la mamma Tina o ancora il fratello Federico, il custode delle sue affermazioni che, in un contesto diverso da quello attuale, avrebbero senz' altro trovato una più facile spiegazione. Ma ora è diverso. Luca se lo domandava da un po': «Perché vedo Anastasia cambiata? Forse non sono più felice con lei». Con la ragazza che qualche anno fa gli aveva rubato il cuore e che oggi è stata sottoposta per volere del gip Costantino De Robbio all' obbligo di firma dopo che le indagini sull' omicidio di Luca hanno per il momento accertato la sua partecipazione nella trattativa propedeutica all' acquisto di droga. Lei, babysitter e cameriera che impartiva ripetizioni a domicilio. E sempre lei che si trasforma secondo quanto ricostruito dagli inquirenti nella cassiera di Giovanni Princi e custodisce nello zainetto la sera dell' omicidio 70 mila euro, necessari all' acquisto della marijuana. Il 23 ottobre Luca è uscito di casa pur avendo un terribile mal di schiena dopo aver ricevuto una telefonata. Da quello che ricordano in famiglia, sarebbe rientrato di lì a poco e invece Sacchi a casa non è più tornato. È stato visto uscire a piedi ed era solo. Anastasia non c' era. Poi i due si sono trovati al pub. La ragazza, invece, ha messo a verbale di aver raggiunto il John Cabot a piedi quella sera con il fidanzato, eppure la sua auto, una Citroen C1 parcheggiata regolarmente nelle vicinanze, è stata poi spostata dopo la sparatoria da Giovanni Princi. Chi ce l' ha portata lì prima della tragedia? Se non è stata lei, potrebbe essere stato l' amico di scuola di Luca. Ma perché Princi ora in carcere aveva l' auto della ragazza? Luca e Anastasia erano una cosa sola, così apparivano nelle foto scattate in vacanze solo un paio di anni fa. E poi? Qualcuno sostiene che i due si fossero allontanati nell' ultimo periodo. Per quale motivo? Perché Luca aveva scoperto come sostiene la famiglia qualcosa che non andava nel comportamento della fidanzata e dell' ex compagno di liceo ritrovato solo da qualche mese? Interrogativi, questi, che proprio i genitori di Sacchi continuano a porsi. E non sono gli unici. Tante le domande che ancora aspettano risposta. Tra cui quella sul ruolo del ragazzo all' interno della trattativa per l' acquisto di droga. Il procuratore Michele Prestipino ha detto che «Non ci sono elementi per dire che Sacchi fosse coinvolto, partecipe o consapevole della compravendita di sostanza stupefacente». Gli intermediari di Valerio Del Grosso, Valerio Rispoli e Simone Piromalli, mandati all' Appio a visionare la presenza di denaro per l' acquisto della marijuana hanno, tuttavia, messo a verbale due dichiarazioni contrastanti. Il primo ha raccontato di essere uscito dopo la sparatoria dal pub e di aver visto una ragazza china su un giovane da lui «non incontrato in precedenza» mentre Piromalli «il più sincero con ogni evidenza» scrive il gip De Robbio nell' ordinanza nel ricostruire i momenti successivi al ferimento di Sacchi ha detto, negli uffici della Squadra Mobile di fronte anche ai carabinieri, che «il ragazzo disteso a terra faceva parte del gruppo con i quali lui e Rispoli si erano in precedenza incontrati».

 Anastasiya, sullo smartphone chat e contatti segreti: ha cancellato tutti i messaggi. Pubblicato domenica, 01 dicembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. Sequestrato il telefonino della 25enne accusata di spaccio. Gli smartphone degli altri indagati intestati a parenti o stranieri. Marcello De Propris smerciava droga da un’utenza telefonica intestata a un cittadino del Bangladesh. Giovanni Princi ha consegnato ai carabinieri, sul luogo del delitto, solo uno dei due telefoni in suo possesso. Anastasiya Kylemnyk era solita chattare sul Signal, così da non lasciare traccia dei messaggi compromettenti. Dal sequestro dei loro smartphone le indagini sul delitto di Luca Sacchi potrebbero ora avere l’impulso decisivo per risalire, tramite i contatti rimasti finora segreti, i gradini mancanti nella gerarchia di spacciatori e finanziatori all’interno della quale si muovevano i tre. E definire a quanto tempo prima risalgano accordi che, venuti alla luce, appaiono già consolidati. Il rapporto con questi strumenti è già indicativo, secondo gli inquirenti, della loro condotta criminale. Colpisce ad esempio la lucidità di Giovanni Princi, del quale il gip, nell’ordinanza di arresto, sottolinea «la sicurezza e professionalità con cui ha portato avanti la trattativa con soggetti di un diverso contesto criminale (quello di San Basilio) per l’acquisto di una ingente partita di marijuana destinata al mercato locale» e «la predisposizione di accorgimenti per portarle a buon fine». È lui a tenere i rapporti con i pusher, ma evita di comparire in loro presenza dopo l’iniziale contatto con i mediatori: «La sua capacità organizzativa e la sua professionalità nella gestione delle condotte illecite risaltano altresì dal fatto che risulta potersi servire di soggetti a lui sottoposti (tra i quali Anastasiya) cui delegare i momenti più pericolosi ed a rischio di intervento della Polizia Giudiziaria (ciò che spiega il motivo per cui ha consegnato alla donna il denaro ed ha atteso a distanza la conclusione della consegna». Princi, inoltre, a differenza di altri testimoni e dei mediatori dei pusher (Valerio Rispoli e Simone Piromalli) si allontana dal luogo del delitto prima che arrivino i carabinieri e ricompare solo quando ha capito come muoversi. Lo stesso si può dire della 25enne ucraina, «che ha agito con freddezza e professionalità nella gestione della trattativa nell’incarico affidatole di detenzione del denaro e di partecipazione alla delicata fase dello scambio». Il suo telefono l’aveva già indirettamente coinvolta nelle indagini delegate dal pm Nadia Plastina ai carabinieri del Nucleo investigativo perché dalle oltre 70 utenze di cui sono stati acquisiti ed esaminati i tabulati il suo numero non compare mai. Segno di particolare accortezza nelle comunicazioni, effettuate esclusivamente con strumenti che non lasciassero traccia. La memoria dello smartphone può rivelare però quello che la baby sitter ha provato a tenere segreto. Infine il 22enne De Propris, che «ha mostrato di essere pronto con disinvoltura a fornire in breve tempo un ingente quantitativo di stupefacente (a “prima richiesta”, segno della possibilità di approvvigionarsi con sicurezza e rapidità ad alti livelli e di contatti con veri e propri grossisti della droga operanti nella Capitale)». «’Sto ca... de Marcello ha fatto un macello», commenta un amico dopo l’omicidio rivelandone il coinvolgimento.

Anche Luca aveva dubbi su Anastasyia: "È cambiata". La famiglia del giovane ucciso fuori da un pub ha sempre più domande: "Se Anastasia sa qualcosa parli". L'ipotesi: "Luca aveva scoperto qualcosa di losco che non gli andava giù"

Francesca Bernasconi, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. "Se Anastasia sa qualcosa è il momento di parlare". A chiederlo era stato Alfonso Sacchi, il papà di Luca, il giovane ucciso con un colpo alla testa, la sera del 23 ottobre, fuori da un pub a Roma. Sono tanti i dubbi che girano intorno alla fidanzata del giovane, finita nel mirino degli inquirenti fin da subito e indagata ufficialmente qualche giorno fa, per il tentato acquisto di droga. Secondo l'accusa, infatti, Anastasia, aiutata da Giovanni Princi, avrebbe contattato dei pusher, con i quali aveva concordato la vendita di droga. Nello zainetto della ragazza, infatti, c'erano 70mila euro. È mistero sul presunto finanziatore, che avrebbe dato tutto quel denaro ai giovani. Ma ora la chiave potrebbe nascondersi nei contatti dei cellulari di Anastasia e di Giovanni Princi, entrambi sequestrati oggi dagli inquirenti. Ma sono ancora troppe le domande che affollano la mente dei carabinieri, che cercano di far luce sull'inchiesta, e dei parenti di Luca Sacchi che, distrutti dal dolore, non si accontentano di conoscere i volti dei killer, ma vogliono capire anche il motivo di quell'omicidio. Il padre ha ripercorso i momenti precedenti la tragedia: "Quella sera Luca è sceso di casa. E uscito da solo, a piedi. Anastasia non c'era". I due fidanzati, quindi, si sarebbero incontrati direttamente al pub, ma la ragazza aveva detto di aver raggiunto il John Cabot a piedi insieme a Luca. La sua auto, però, sarebbe stata notata, parcheggiata nelle vicinanze. "Non so perché sia successo", insiete il padre di Luca, che ricorda come "Anastasia è stata con noi, solo la prima sera è andata a dormire a casa, poi la mattina è venuta a casa, è uscita alle 8, è tornata ancora una volta dopo un'oretta, e non l'ho più vista". E così aumentano i dubbi verso la fidanzata anche da parte della famiglia Sacchi: "Se Luca è stato colpito da una mazza da baseball e ha diversi lividi- fanno notare i legali- perché Anastasia non ha nemmeno un graffio? Chiediamo venga prelevato un campione genetico alla ragazza". L'ipotesi è che Luca potesse avere "scoperto qualcosa di losco, che non gli andava giù". Infatti, secondo Dagospia, prima di morire, Luca avrebbe iniziato ad avere qualche dubbio sulla fidanzata, confidando agli amici di vederla cambiata, tanto che qualcuno avrebbe notato un allontanamento tra i due nell'ultimo periodo. Anche se fosse vero, i motivi di questo allontanamento potrebbero essere molti, ma su Anastasia rimane un'ombra misteriosa, che sembra difficile da mandare via.

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 3 dicembre 2019. Dove ha nascosto i soldi e in che modo si è disfatto del revolver. Nel carcere di Regina Coeli, chiuso in cella, Valerio Del Grosso pasticcere 21enne di Casal Monastero, accusato dell'omicidio di Luca Sacchi ha avuto il tempo di pensare e scegliere, alla fine, di parlare. Dopo quaranta giorni di silenzio e un primo interrogatorio nel quale ha fatto scena muta, avvalendosi della facoltà di non rispondere. Ma ora è diverso perché in quaranta giorni le cose sono cambiate e dietro le sbarre, oltre a lui e al suo complice Paolo Pirino, ci sono finiti senza che collaborasse con gli inquirenti altri due personaggi chiave dell'inchiesta sull'omicidio del personal trainer 24enne, freddato da un colpo di revolver alla testa la sera del 23 ottobre. Si tratta di Marcello De Propris, che ha consegnato a Del Grosso l'arma usata contro Sacchi e che gli avrebbe dovuto fornire 15 chili di marijuana, e di Giovanni Princi, l'amico di Luca che ha portato avanti la trattativa tra il gruppo di Casal Monastero e quello dell'Appio per l'acquisto della droga. Gli inquirenti sono riusciti a cristallizzare lo scenario nel quale è maturato l'omicidio di Sacchi senza l'aiuto di Del Grosso. Tuttavia, lui, assistito dall'avvocato Alessandro Marcucci, ha ancora molte cose da raccontare. A partire dalla fine che ha fatto fare ai 70 mila euro rubati ad Anastasia Kylemnyk, con i quali progettava una fuga in Brasile, e al modo con cui si è disfatto dell'arma: se l'ha davvero riconsegnata a De Propris, a un'altra persona, o se l'ha invece distrutta. E intende farlo oggi quando di fronte a lui siederanno il gip Costantino De Robbio e la pm Nadia Plastina. Il silenzio sarà messo da parte e lui risponderà alle domande nel secondo interrogatorio che sosterrà nel pomeriggio dopo gli ultimi arresti compiuti dai carabinieri del Nucleo investigativo venerdì scorso. Non solo. Il ragazzo, che in queste settimane ha espresso anche la volontà di essere impiegato nelle cucine del carcere, potrebbe fornire elementi utili a capire chi c'era dietro il suo giro e quello di De Propris e se il gruppo di Princi, la vittima, la sua fidanzata, erano persone con cui aveva già trattato in passato. Dall'ordinanza firmata dal gip, dopo gli ultimi arresti di quattro giorni fa che hanno seguito le indagini già di Squadra mobile e carabinieri, emergono inoltre altri interrogativi che potrebbero essere chiariti. Del Grosso il giorno dopo l'omicidio ha incontrato, oltre a De Propris, un misterioso uomo non identificato al Burger king nei pressi di Tor Sapienza. Un uomo che forse potrebbe essere legato in qualche modo ai 15 chili di marijuana che De Propris stava lavorando e impacchettando la sera del 23 ottobre. È lui il fornitore della partita di droga? Di sicuro lo cerca in un momento molto delicato, mentre cerca di organizzare la latitanza dell'amico che ha sparato e gli si rivolge con rispetto: «Scusame», gli dice al telefono a un certo punto. Nel pomeriggio del 24, poi, Del Grosso si è fatto accompagnare dalla fidanzata Giorgia al Celio, in via Claudia, non distante dal commissariato di polizia e nei pressi del bar Propaganda, dicendo alla ragazza di tornare a prenderlo alle 20. A quell'ora la giovane è stata costretta ad aspettarlo per svariati minuti. E quando Del Grosso torna si è cambiato d'abito. «Indossava una tuta grigia che aveva preso prima». Per i pm Del Grosso e De Propris potrebbero avere usato la parola tuta al telefono per depistare l'occultamento del revolver. Con chi era Del Grosso? Perché ritardava? Cosa stava facendo? È forse qui che ha nascosto il denaro?

I GRAMMI DI COCA. Oggi a presentarsi di fronte al gip, sarà anche Paolo Pirino. Quest'ultimo, quasi certamente, si avvarrà della facoltà di non rispondere, anche se dovrebbe, invece, spiegare come e da chi ha avuto i 31 grammi di cocaina che i carabinieri hanno rinvenuto sulla Smart Fourfour durante le perizie sul veicolo condotte il 27 novembre. La droga era stata divisa in bustine e nascosta nel passaruota anteriore destro dell'auto. Che non è la stessa usata nella notte dell'omicidio. Il mattino seguente alla sparatoria, infatti, Pirino è andato a sostituire la Smart che era stata presa a noleggio millantando dei falsi problemi, prendendone un'altra uguale su cui ha caricato poi la droga e continuato le sue consegne mentre Sacchi moriva in ospedale.

IL CONTATTO. Di chi era però quella cocaina? Sempre di De Propris che al Collatino aveva allestito in un appartamento una base di stoccaggio di coca e hashish confezionate con il padre Armando, pregiudicato di livello e con contatti nella mala di San Basilio? Oppure il contatto con De Propris era soltanto di Del Grosso e Pirino risponde ad altri gruppi criminali? A far luce su questo potrebbe essere lo stesso De Propris che sarà interrogato anche lui oggi, insieme a Giovanni Princi. Domani, invece, sarà il turno di Anastasia, ascoltata anche lei dal gip De Robbio. Sia lei che Princi, chiamati anche spiegare se lavoravano per una terza persona come ipotizzato dalla pm Plastina potrebbero avvalersi della facoltà di non rispondere. In mano agli inquirenti, tuttavia, ci sono i loro cellulari (quello di Princi intestato a uno straniero, come quello di De Propris, modus operandi di gruppi criminali strutturati) dai quali potrebbero emergere contatti e rapporti anche con altre persone, mentre oggi si terranno le perizie irripetibili sulla mazza da baseball usata nell'aggressione, sullo zainetto rosa e su altri effetti personali.

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per il Messaggero il 3 dicembre 2019. Due grandi occhi castani, capelli marroni lunghi sulle spalle. Cameriera in un bar all'Appio Latino fino a qualche tempo fa prima che il locale chiudesse per ristrutturazione. C'è un'altra donna forse complementare oppure subalterna alla figura di Anastasia Kylemnyk. Si chiama Clementina. Ed è la fidanzata di Giovanni Princi, l'ex compagno di scuola di Luca Sacchi, tratto in arresto venerdì scorso dai carabinieri del Nucleo investigativo con l'accusa di avere tentato di acquistare un'ingente partita ben 15 chili di marijuana da Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, in carcere per la morte di Luca, ucciso la sera del 23 ottobre davanti a un pub di via Bartoloni. Secondo la Procura Princi studente di Psicologia e già con precedenti di polizia per droga alle spalle , era il ponte nella trattativa tra il gruppo dell'Appio Latino e quello di Casal Monastero.

IL RUOLO. La sua fidanzata, amica della vittima e della Kylemnyk, finora, non ha rilasciato dichiarazioni spontanee agli inquirenti né è stata formalmente convocata ma potrebbe essere a conoscenza di elementi utili per chiarire il contesto in cui ha preso forma la trattativa per l'acquisto di droga sfociata nel delitto del personal trainer di 24 anni. La giovane conosce e frequenta Princi da diversi anni e con la coppia Sacchi-Kylemnyk ha trascorso anche una settimana di vacanza, quest'estate, nelle montagne del Veneto. Chi frequentava entrambe le coppie prima della tragedia ha il ricordo di quattro ragazzi molto affiatati soprattutto negli ultimi mesi, dopo che Luca aveva ripreso i contatti con Princi, in primavera. Fino a oggi, però, la figura di Clementina è rimasta sempre dietro le quinte anche se la notte in cui è stato ferito Luca, è stata al fianco di Anastasia, anche quando è stata ascoltata dai carabinieri. Diversi amici che trascorsero la notte del 23 ottobre all'ospedale San Giovanni mentre Luca stava morendo, ricordano un passaggio importante.

LA NOTTE DELLA SPARATORIA. Intorno alle due del mattino i carabinieri del Nucleo investigativo convocarono la Kylemnyk per riascoltarla nella caserma di via In Selci dopo che i colleghi del nucleo Radiomobile e della compagnia di piazza Dante aveva acquisito una sua prima deposizione di fronte al John Cabot pub, subito dopo la sparatoria. «Posso farmi accompagnare da qualcuno?», chiese la baby-sitter ucraina ai militari. La sua richiesta fu accolta, Anastasia si mise a parlare con Clementina per circa dieci minuti prima di dirigersi, con lei al fianco, in via In Selci dove dichiarò di essere stata vittima di una rapina da parte di due sconosciuti, che non sapeva nulla di droga o stupefacenti e di non avere molto denaro nello zainetto, solo pochi euro e una bottiglietta d'acqua. Che cosa si sono dette le ragazze? E perché Clementina ha deciso di accompagnarla? Pura amicizia oppure, essendo quest'ultima la fidanzata di Princi e per questo forse a conoscenza di quello che il ragazzo faceva, aveva ricevuto il compito specifico di controllare la Kylemnyk ed essere sicura che Anastasia non rivelasse verità scomode o che potessero mettere nei guai Giovanni? Proprio la baby-sitter, che sarà interrogata domani dal gip Costantino De Robbio, si legge nell'ordinanza di custodia cautelare, risulta in posizione subalterna, come sottoposta, a Giovanni Princi che le aveva delegato «i momenti più pericolosi» della trattativa, tra cui il compito di custodire nello zainetto i 70 mila necessari ad acquistare la droga. Oggi saranno ascoltati, intanto, lo stesso Princi, Valerio Del Grosso, Paolo Pirino e Marcello De Propris, il ragazzo che avrebbe dovuto fornire i 15 chili di marijuana al gruppo di Casal Monastero, nonché colui che armò la mano di Del Grosso. Quest'ultimo sarà chiamato a spiegare diverse cose. Tra cui i suoi spostamenti dopo il delitto, utili a fare capire come si sia disfatto del revolver e dei 70 mila euro che erano nello zainetto di Anastasia. Non è chiaro chi abbia visto e cosa abbia fatto il 24 pomeriggio dopo essersi fatto lasciare dalla fidanzata Giorgia nei pressi del bar Propaganda vicino al Colosseo. Le disse di tornare a prenderlo alle 20, ma lui «arrivò almeno dopo un quarto d'ora e si era cambiato d'abito, mettendo una tuta grigia che aveva preso prima da Simone Piromalli».

 (ANSA il 4 dicembre 2019) - "Il comportamento di Anastasia durante l'interrogatorio ha dato atto della sua estraneità sull'ipotizzato traffico di stupefacenti". Lo afferma l'avvocato Giuseppe Concioni, difensore di Anastasia, al termine dell'interrogatorio di garanzia davanti al gip di Roma. "Prima di quel momento Giovanni Princi era un grandissimo amico di Luca". E' quanto afferma l'avvocato Giuseppe Cincioni, riferendo parole di Anastasia, al termine dell'interrogatorio di garanzia davanti al gip.

Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani per corriere.it il 4 dicembre 2019. «Non sapevo di avere i soldi nello zaino», è la difesa di Anastasiya Kylemnyk nel suo interrogatorio di garanzia. La 25enne ucraina per circa mezz’ora ha risposto alle domande del gip Costantino De Robbio, alla presenza dell’avvocato Giuseppe Cincioni e del pm Nadia Plastina. Cappello rosa e occhiali scuri a coprire il volto, la ragazza ha lasciato in fretta piazzale Clodio per sfuggire alle decine di telecamere in attesa. Duecento tra cameramen, fotografi e giornalisti hanno chiesto un pass per la cittadella giudiziaria. «Ero davanti a quel pub con Luca come mille altre volte era capitato - ha detto sempre al gip Nastia - Io e Luca siamo assolutamente estranei a questa vicenda».

Misteri e bugie. Sono tanti i misteri nell’intricata uccisione di Luca, che mercoledì 4 dicembre saranno affrontati ancora una volta a piazzale Clodio a Roma, con l’interrogatorio della sua fidanzata, accusata di spaccio di droga, dopo che martedì gli altri cinque indagati - fra loro anche il killer del giovane, Valerio Del Grosso - sono comparsi davanti al gip avvalendosi in quattro della facoltà di non parlare. L’unico che lo ha fatto è stato proprio Del Grosso: «Non volevo ucciderlo, non avevo mai impugnato una pistola prima di quella sera». La comparsa di Anastasiya davanti al gip Costantino De Robbio è l’appuntamento forse più atteso dal giorno del delitto: la giovane non ha più parlato dopo le bugie iniziali dette agli inquirenti la notte dell’omicidio.

La bocca cucita degli altri indagati. Dunque, a parte Del Grosso, Pirino, Princi, Marcello De Propris e suo padre Armando (questi ultimi due accusati di aver fornito la droga e la pistola ai pusher) nessuno di loro ha aperto bocca davanti al gip, modulando però il proprio silenzio in modo diverso. Del Grosso, rasato per l’occasione, ha ripetuto di essere dispiaciuto, di aver fatto un errore e di non aver mai usato una pistola prima di quella sera. Sostiene inoltre di averla poi distrutta, rifiutando così di fornire l’unico contributo alle indagini ancora possibile da parte sua: dov’è l’arma e dove sono i 70mila euro presi dallo zaino di Nastia? Pirino, a differenza del precedente interrogatorio, non ha neanche accennato a discolparsi, mentre Princi, che sempre più appare come il vero organizzatore del fallito affare, si è mostrato freddo come la foto che lo ritrae al momento dell’arresto e come le sue mosse dopo il delitto confermano. Vestito in completo nero, ha spiegato in modo asciutto e in prima persona di non aver letto ancora gli atti per motivare il suo rifiuto a rispondere. Al pm, che assisteva all’interrogatorio, ha rivolto solo sguardi, senza darle la mano a differenza delle altre persone presenti ma inchinandosi per salutarla. Ieri in tv, la mamma di Luca, Tina Galati, è tornata a ripetere: «Princi non mi è mai piaciuto, era maleducato. Mi era accorta di sguardi strani tra lui e Anastasiya, dissi a mio figlio di stare attento, ma i figli non sempre ti ascoltano».

Rory Cappelli e Francesco Salvatore per “la Repubblica” il 4 dicembre 2019. Valerio Del Grosso si è presentato sbarbato, con i capelli corti. Paolo Pirino pieno di tatuaggi, l' aria tetra. Marcello De Propris barba lunga e capelli rasati. Giovanni Princi, vestito di nero, ossequioso e rispettoso con i giudici, unico laureato del gruppo come ha tenuto a sottolineare declinando le generalità, ha dato la mano a tutti tranne che alla pm e ha detto: «Mi scuso di non poter rispondere: ma non abbiamo avuto il tempo di leggere le carte». Tutti e quattro gli arrestati con varie accuse nell' ambito dell' indagine per l' omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer ucciso con un colpo di pistola alla tempia il 23 ottobre all' Appio Latino, si sono avvalsi ieri, davanti al giudice Costantino De Robbio e alla pm Nadia Plastina, della facoltà di non rispondere. Del Grosso è stato l' unico a rendere dichiarazioni spontanee dicendo: «Non volevo uccidere nessuno, era la prima volta che prendevo un' arma in mano». A parlare per loro, fuori dal carcere Regina Coeli dove si sono ( o meglio non si sono) svolti gli interrogatori di garanzia, i rispettivi avvocati. «Princi - ha detto il suo difensore Massimo Pineschi - è addolorato per la morte del suo amico al quale era legatissimo. Per lui è stata una vicenda dolorosissima. Anche i genitori di Princi, con i quali ho parlato, sono sconvolti. Il mio assistito è scosso, è alla sua prima esperienza detentiva, potete immaginare come sta. Valuteremo il ricorso al Riesame dopo avere letto tutti gli atti». L' avvocato di Valerio Del Grosso ha detto che il suo assistito « non si sa dare una spiegazione a quello che è successo quella sera ed è da un mese che non pensa ad altro». Intanto nell' informativa depositata dai carabinieri in procura a corredo dell' ordinanza cautelare, si trova l' interessante verbale reso poche ore dopo l' agguato all' Appio Latino da Domenico Costanzo Marino Munoz, studente cileno e amico di Luca, con il quale condivideva la passione per le moto. Luca, ha fatto mettere a verbale Munoz, usava l' applicazione Signal, servizio di messaggistica criptato. Si tratta della stessa app di cui si serviva la fidanzata Anastasiya. «Alle ore 22,30 del 23 ottobre - afferma l'amico di Sacchi - ho ricevuto, tramite Signal, un messaggio da parte di Luca, il quale mi comunicava che era in compagnia della sua fidanzata Anastasiya e mi invitava a raggiungerlo per bere una birra al pub di via Bartoloni». Altri particolari emergono dall' informativa dei carabinieri. Come quello della sparizione del bancomat di Luca, denunciata dal padre. O come il fatto che Simone Piromalli, uno dei due mediatori di Del Grosso mandati a controllare che gli acquirenti avessero il denaro, afferma che Princi era già un cliente di Valerio Rispoli, l' altro mediatore. Un testimone sostiene che a essere colpito con la mazza da baseball sia stato Luca Sacchi: « Ho visto arrivare alle spalle del ragazzo due persone, entrambe di sesso maschile. Ho visto la donna fare un movimento di scatto mentre, in contemporanea, una delle due persone impugnando qualcosa di metallico con entrambe le mani, colpiva il ragazzo che era in compagnia della donna » racconta Alessandro C. «Da come l' oggetto veniva maneggiato doveva essere pesante. Il ragazzo, sorpreso alle spalle, veniva violentemente colpito alla nuca dalla persona che impugnava l' oggetto metallico. Dopo aver ricevuto il colpo il ragazzo si è piegato in avanti, poi è stato colpito nuovamente, questa volta al centro della schiena». Poi il colpo di pistola. Ieri sera, poi, a Porta a Porta, la madre di Luca Sacchi, Tina Galati, ha parlato di Anastasiya: « Per me era come una figlia. Ricordo come stavamo insieme, ci divertivamo e scherzavamo sempre. Oltre a Luca, mi manca quel periodo». Oggi alle 11 Anastasiya ( indagata per droga e sottoposta all' obbligo di firma) sarà sentita dal giudice per l' interrogatorio di garanzia.

Da ilmessaggero.it il 4 dicembre 2019. Messaggi criptati. Non erano solo Valerio del Grosso e Paolo Pirino, i due pusher accusati dell'omicidio di Luca Sacchi, a utilizzare canali di comunicazione non intercettabili. Anche Luca Sacchi comunicava attraverso Signal. Era successo anche il 23 ottobre, poche ore prima dell'omicidio, quando aveva comunicato l'appuntamento al pub John Cabot, al terzo amico, che insieme ad Anastasia e a Giovanni Princi (finito in carcere) avrebbe assistito alla trattativa per la droga finita male. Ieri, intanto, tutti gli indagati sono rimasti in silenzio davanti al giudice. Hanno scelto di non dissipare le ombre che ancora si addensano intorno a questa vicenda. Oggi, invece, toccherà ad Anastasia presentarsi davanti al giudice Costantino de Robbio. La giovane compagna della vittima potrebbe chiarire i punti oscuri che hanno segnato l'omicidio di Luca. Ma è dagli atti che, invece, emergono altri dettagli che contribuiscono a rendere il quadro più confuso: è sparito il bancomat di Luca. A denunciarne la scomparsa il padre. A quattro giorni dall'omicidio. Il fatto che Luca utilizzasse Signal una chat che prevede la cancellazione automatica dei messaggi emerge dal verbale di Domenico Marino Munoz presente la sera del 23 ottobre in via Bartoloni. «Alle ore 22,30 di quella sera - dichiara a vernbale ai carabinieri - ho ricevuto sul mio telefonino cellulare, tramite applicazione Signal, un messaggio da parte di Luca, il quale mi comunicava che era in compagnia della sua fidanzata Anastasia e che mi invitava a raggiungerlo per bere una birra al pub». L'amico assicura, inoltre, che «Luca non gli ha mai raccontato di liti, timori o minacce ricevute da terze persone: mi ha sempre detto che andava tutto bene e che l'unica cosa a cui mirava era di organizzare una gara in moto su pista». Nel verbale Munoz fa mettere nero su bianco che Sacchi pochi giorni prima della tragica morte «non sembrava affatto preoccupato: non mi risulta che Luca facesse uso di sostanze stupefacenti né che frequentasse persone poco raccomandabili». Marcello De Propris e Giovanni Princi, così come avevano fatto (e continuano a fare) Del Grosso e Pirino si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Del Grosso si è limitato a una breve dichiarazione spontanea ribadendo che «non voleva uccidere nessuno» e che quella sera «era la prima volta che prendeva un'arma in mano». Nessuna reazione e nessuna dichiarazione da parte di Princi, laureato in lingue e amico storico di Sacchi. Dagli atti risulta che fino a due giorni prima dell'omicidio erano insieme in palestra. È Princi, per il pm Nadia Plastina, che fa da tramite con Del Grosso per l'acquisto di una grossa partita di droga. Il suo difensore lasciando il carcere ha affermato che Princi «è addolorato per la morte del suo amico a cui era molto legato. Per lui è stata una vicenda dolorosissima. So che anche i genitori di Giovanni sono sconvolti per quanto accaduto - aggiunge il penalista -. Il mio assistito è scosso, è alla sua prima esperienza detentiva, potete immaginare come sta». È il papà di Luca, Alfonso Sacchi a presentare una denuncia ai carabinieri, lo scorso 28 ottobre. Il bancomat di suo figlio, ucciso quattro giorni prima è scomparso. Il 21 ottobre Luca si era fatto male in palestra era insieme a Princi e lui ed Anastasia lo avevano accompagnato. Racconta il padre a verbale: «Ad oggi, però degli effetti personali presenti in quell'armadietto ho a disposizione soltanto le chiavi del motorino di Luca ed altri documenti che al momento sono sotto sequestro. A seguito della tragedia. La carta bancomat, diversamente non è stata più ritrovata, ho cercato in casa e non la ho trovata e anche su indicazione dell'avvocato che ci sta seguendo con la presente sporgo denuncia di smarrimento. Il bancomat era intestato a mio figlio Luca».

Genitori di Luca Sacchi a Chi l’ha visto: “Anastasiya? Mai più vista”. Debora Faravelli il 04/12/2019 su Notizie.it.  I genitori di Luca Sacchi hanno commentato a Chi l'ha visto ciò che la fidanzata del figlio ha dichiarato al gip durante il suo interrogatorio. La puntata di Chi l’ha visto di mercoledì 4 dicembre 2019 ha dato spazio ai genitori di Luca Sacchi per intervenire dopo l’interrogatorio della fidanzata Anastasiya, indagata per tentato acquisto di droga. A differenza di altri imputati nel processo per la morte di Luca che si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, Anastasiya ha risposto al gip durante l’interrogatorio di garanzia. Ha affermato di non sapere di avere nello zaino 70 mila euro e di essere andata davanti al pub con il fidanzato per tenere d’occhio suo fratello. Ha dunque ribadito la loro estraneità a tutto ciò che ha a che fare con la droga. Poi ha aggiunto che Giovanni Princi, il ragazzo che la sera del 23 ottobre 2019 aveva contattato gli spacciatori per acquistare la droga e attualmente in carcere, era un grande amico di Luca. I genitori del giovane hanno espresso dei dubbi soprattutto su quest’ultima parte, ricordando come Giovanni il giorno del decesso aveva proposto di prendere un panino, “tanto ormai è fatta“. “Un amico non dice così, un amico piange“, ha affermato il padre. Costui ha anche ricordato di non aver più visto Anastasiya dopo la morte del figlio, spiegando che quel giorno le avevano chiesto di stare con loro ma lei aveva preferito stare a casa sua. Soltanto il giorno dopo era andata a casa di Luca per dormire nella sua stanza, per poi abbandonarla, non farvici più ritorno e perdere ogni contatto con i genitori. Non senza prima aver chiesto loro la macchina del figlio, che infatti continua ad utilizzare come si nota da un video mostrato in puntata in cui chiede ai giornalisti di non farle domande. Il legale della famiglia ha messo in evidenza in particolare due punti che non tornano nella testimonianza della ragazza. In primis il fatto che lei abbia affermato di non sapere di avere 70 mila euro, non di non avere dei soldi. E poi il fatto che il giorno dopo la morte del fidanzato lei abbia detto “Se solo si fosse nascosto“. La domanda sorge spontanea: perché avrebbe dovuto nascondersi e da chi?

Michela Allegri e Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 5 dicembre 2019. I capelli biondi e il viso nascosti da un cappello rosa e da una sciarpa. Gli occhi azzurri coperti da un paio di occhiali da sole giganti. Anastasia Kylemnyk li toglierà solo davanti al gip Costantino De Robbio, per raccontare la sua verità: «Non sapevo che nello zaino ci fossero settantamila euro, io e Luca non sapevamo nulla nemmeno della droga». Si ferma per asciugare le lacrime, parlando della notte del 23 ottobre, quando il suo fidanzato Luca Sacchi è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa sparato da Valerio Del Grosso, in carcere per omicidio insieme a Paolo Pirino e a Marcello De Propris. Poi, scarica la responsabilità su Giovanni Princi, l' ex compagno di scuola di Sacchi, che si trova a Regina Coeli con l' accusa di detenzione di stupefacenti ai fini di spaccio, la stessa contestazione mossa ad Anastasia, che ha l' obbligo di firma alla polizia giudiziaria. «Io e Luca non sapevamo nulla - avrebbe ribadito - Giovanni Princi mi ha dato una busta e mi ha detto di tenerla nello zaino». Proprio in quella busta, secondo la ragazza, ci potrebbero essere stati i 70mila euro in contanti, divisi in due mazzette, che sarebbero dovuti servire per acquistare droga: 15 chili di marijuana che Princi aveva commissionato ai pusher di San Basilio, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. Intanto dai cellulari di Princi e Anastasia potrebbero emergere novità importanti. I 4 smartphone, due a testa, verranno analizzati dagli specialisti nominati dalla procura il 9 dicembre. L' obiettivo è estrapolare conversazioni ed sms. Il giorno successivo verranno analizzati il portafoglio dell' ucraina e il suo zaino. Infine, l' 11, l' auto in uso ad Anastasia, la Citroen C1 spostata da Princi in fretta e furia il giorno del delitto, mentre Luca era agonizzante in ospedale.

LO ZAINO. Il giorno dell' omicidio Del Grosso aveva mandato in avanscoperta due intermediari, Simone Piromalli e Valerio Rispoli, per controllare se i ragazzi dell' Appio Tuscolano, che avevano appuntamento con lui davanti al pub John Cabot, avessero abbastanza denaro per l' acquisto. E proprio a Rispoli, secondo l' accusa, Princi, Anastasia e Sacchi avrebbero mostrato le mazzette di banconote, che erano dentro allo zaino della ragazza. Sempre lui aveva avvisato Del Grosso, che si era subito attivato per reperire la droga. L' aveva trovata da Marcello De Propris. Era quindi andato al pub per portare avanti in prima persona la trattativa e per controllare la presenza dei soldi. Anche Del Grosso aveva parlato con Princi, che era contrariato perché pensava di effettuare subito lo scambio. «Ma come frà avevi detto che facevamo qua», è la frase che Princi, sentito da Rispoli, aveva detto al pusher. E lui: «Vado, prendo l' erba e te la porto qua».

LA PISTOLA. Poi, però, Del Grosso aveva deciso di cambiare piano: «Me sta a partì la brocca, non puoi capì quanti sono», aveva detto a De Propris, riferendosi ai soldi. Quindi, la decisione di farsi dare dal fornitore una pistola e «sfilarglieli tutti e settanta», senza procedere allo scambio. Poi, Pirino che colpisce Anastasia con una mazza, Sacchi che reagisce e Del Grosso che gli spara, prende lo zaino e scappa. La ricostruzione della pm Nadia Plastina - che ha chiesto e ottenuto gli arresti - è lineare. Manca un dettaglio: i soldi sono spariti, così come l' arma usata per uccidere Luca. E, almeno per il momento, nessuno degli indagati ha chiarito questi interrogativi. In sede di interrogatorio di garanzia, due giorni fa, Del Grosso, Pirino, De Propris e Princi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. L' unica che ha deciso di rispondere alle domande del giudice è stata Anastasia. Ha respinto le accuse, ha negato di essere coinvolta nel giro di spaccio. «Io e Luca siamo andati lì come spesso facevamo io e lui, come sarà capitato altre mille volte. In questa vicenda di droga noi non c' entriamo nulla». (...)

Val. Err. Per il Messaggero il 5 dicembre 2019. Le ombre non sono state dissipate. Sulla ricostruzione delle ore precedenti all' incontro che ha portato alla morte di Luca Sacchi, i dubbi restano. Ed è ancora la versione di Anastasia, la fidanzata di Luca, ad essere contraddetta. Le testimonianze sembrano smentire la sua versione: è lei che poggia lo zaino con i soldi accanto al pusher. Lei che lo riprende. Almeno secondo il verbale di Valerio Rispoli, emissario di Del Grosso che si presenta al pub per controllare se i clienti abbiano denaro sufficiente per comprare droga. Mentre Simone Piromalli racconta di avere notato che «tre ragazzi e una ragazza» erano interessati ad acquistare. Ma è il silenzio, che si protrae per oltre un mese dopo la morte del fidanzato, a rendere, anche agli occhi degli inquirenti, la posizione della ragazza più che ambigua. Sentita subito dopo il delitto, Nastja non parla di soldi né di una busta nascosta all' interno della borsa che Paolo Pirino e Valerio Del Grosso le hanno rubato. Né alla luce degli arresti e della ricostruzione successiva sente l' esigenza di presentarsi in procura per collaborare alle indagini. (...)

L' INCONTRO. Per gli inquirenti la conversazione delle 22,48 tra Del Grosso e Marcello De Propris, suo fornitore, che gli presterà la pistola usata per l' omicidio, è significativa: «Sto n attimo a perde tempo... è un po' ambigua la situazione, sai? Non poi capì Marcè quanti so', non poi capiì... me sta a partì la brocca proprio de brutto». Annotano gli investigatori: «Del Grosso, dopo aver incontrato Pinci e Anastasia (così come indicato dalle dichiarazioni di Rispoli e Piromalli) e aver constatato la presenza di molte più persone di quanto preventivato, spiegava di essersi innervosito aDe Propris». Sentita a verbale dopo i fatti Anastasia non parla del contenuto dello zaino. Ma nulla aggiunge neppure nelle settimane successive, con grande sorpresa degli inquirenti non sceglie di presentarsi per fornire elementi utili. Non è lei a fare il nome di Princi. Ma gli amici di Del Grosso. Eppure, quando l' amico di Luca viene arrestato e anche a lei viene notificata la misura cautelare in caserma gli urla contro: «È colpa tua».

Alessia marani e Camilla Mozzetti per il Messaggero - Roma il 5 dicembre 2019. Credeva di aver agguantato 70 mila euro, Valerio Del Grosso, perché i suoi intermediari Simone Piromalli e Valerio Rispoli avevano visto mazzette da 20 e 50 euro. Ma nessuno del gruppo di Casal Monastero la sera del 23 ottobre quando la trattativa per l' acquisto di 15 chili di marijuana è degenerata nell' omicidio di Luca Sacchi ha tirato fuori i soldi dallo zaino di Anastasia Kylemnyk, mettendosi a contarli. E se una parte fosse stata nascosta nella Citroen C1 della baby-sitter ucraina che dopo la sparatoria è stata spostata in fretta e furia da Giovanni Princi, considerato dagli inquirenti il ponte nella trattativa per l' acquisto di droga tra i due gruppi di giovani? Il ragazzo, arrestato dai carabinieri del Nucleo investigativo che stanno portando avanti le indagini per conto della Procura, si è avvalso della facoltà di non rispondere nell' interrogatorio di garanzia. Per il momento è soltanto un'ipotesi su cui potrebbe far chiarezza, proprio Del Grosso, quando deciderà di parlare con gli inquirenti. Ieri, interrogata dal pm Nadia Plastina e dal gip Costantino De Robbio, la Kylemnyk ha negato di sapere che dentro il suo zaino ci fosse una cifra simile. Nelle varie audizioni degli intermediari di Del Grosso, nelle parole di quest' ultimo proferite agli amici, alla fidanzata Giorgia, al datore di lavoro nella pasticceria dove era stato assunto lo scorso marzo, non si fa mai cenno al conteggio del denaro. Come se questo passaggio seppur essenziale non ci fosse mai stato nelle ore precedenti al ferimento mortale di Sacchi. Non si può escludere che lo stesso Del Grosso, trovandosi all' Appio al momento della verifica fatta dai suoi intermediari, abbia creduto in un importo simile perché assicurato da Princi e mostrato solo in minima parte.

SPOSTAMENTI SOSPETTI. Così come non si può non valutare in maniera sospetta l' atteggiamento di Princi che, con Sacchi agonizzante in ospedale, si è preoccupato di spostare l' auto di Anastasia regolarmente parcheggiata nei pressi del pub e di condurla in una strada vicina alla sua abitazione. Perché farlo se dentro non c' era nulla da nascondere e soprattutto da rimuovere dalla scena del delitto che si era riempita di carabinieri e poliziotti? Del Grosso e Pirino arrivano per fregare il gruppo di Sacchi, rubano lo zaino ma il personal trainer si difende. Parte il colpo di revolver, apparentemente non previsto, che manda in tilt i due di Casal Monastero. Del Grosso e Pirino scappano con lo zaino e magari dentro ci trovano una busta o un marsupio che non aprono nell' immediato, preoccupandosi soltanto di nasconderlo in un posto sicuro o, più probabilmente, di affidarlo a qualcuno. Tanto sono convinti che dentro ci sia il bottino da 70 mila euro e loro devono pensare a come nascondersi dopo la sparatoria. Forse Del Grosso capirà di aver sparato contro un uomo per 70 mila euro che alla fine non si ritroverà nelle mani. Potrebbe averlo capito quando si è messo a contare i soldi o quando è stato informato da chi li aveva avuti in custodia soltanto poche ore prima di esser scovato dagli agenti della Squadra Mobile in un hotel di Tor Cervara. Mentre Princi, con l' auto di Anastasia, potrebbe aver fatto sparire la restante parte la sera stessa dell'omicidio. Intanto la prossima settimana verranno analizzati i due cellulari sequestrati a lui e ad Anastasia, passata al setaccio la Citroen C1 e analizzati i Dna dei campioni biologici rinvenuti sotto le unghie di Sacchi.

Omicidio Sacchi, dal gip Anastasiya risponde alle domande: "Non sapevo di avere 70mila euro nello zaino". La giovane è indagata per il tentato acquisto di un carico da 70 mila euro di droga nell'ambito dell'inchiesta sulla morte del giovane. Interrogatorio iniziato intorno alle 11 e terminato dopo circa mezz'ora. Il legale della giovane: "Lei estranea al traffico di stupefacenti". Maria Elena Vincenzi il 04 dicembre 2019 su La Repubblica. "Non sapevo di avere i 70mila euro nello zaino". Si è difesa così Anastasiya Kylemnyk davanti al gip nell'interrogatorio di garanzia. La giovane ha risposto per circa mezz'ora negli uffici del gip di Roma all'interrogatorio dopo la misura cautelare dell'obbligo di firma scattata nell'indagine sull'omicidio del suo fidanzato Luca Sacchi, ucciso lo scorso 23 ottobre con un colpo di pistola alla testa davanti a un pub in zona Colli Albani. E ancora:  "Io e Luca siamo assolutamente estranei alla vicenda". Berretto rosa e occhiali da sole Anastasiya, accompagnata dal suo avvocato Giuseppe Cincioni, ha risposto  alle domande di Costantino De Robbio. La giovane era visibilmente provata ed è uscita poco dopo le 11,30 da piazzale Clodio tra un assedio di giornalisti e fotografi.  Era la prima volta che veniva ascoltata dagli inquirenti. Lei, poche ore dopo il delitto, aveva parlato in tv raccontando però, a detta degli inquirenti, molte bugie. La giovane è indagata per il tentato acquisto di un carico da 70 mila euro di droga nell'ambito dell'inchiesta sulla morte del giovane, ucciso in strada con un colpo di pistola alla nuca. I magistrati contestano alla venticinquenne il tentativo di acquisto di un grosso quantitativo di sostanza stupefacente insieme a Giovanni Princi, ex compagno di scuola di Sacchi. Princi finito invece in carcere, ieri davanti al gip si era avvalso della facoltà di non rispondere così come gli altri arrestati Marcello De Propris, accusato di concorso in omicidio per aver fornito l'arma ai killer, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, già in carcere dal 25 ottobre scorso. Del Grosso, esecutore materiale dell'omicidio, con una dichiarazione spontanea ha però ribadito che "non voleva uccidere". "Il comportamento di Anastasiya durante l'interrogatorio ha dato atto della sua estraneità sull'ipotizzato traffico di stupefacenti", così ha affermato l'avvocato Giuseppe Cincioni, difensore di Anastasia, al termine dell'interrogatorio di garanzia davanti al gip di Roma. E ancora il legale: "Giovanni Princi prima di quel momento era un carissimo amico di Luca".

Raffaele Angius per agi.it il 6 dicembre 2019. Luca Sacchi e la fidanzata Anastasiya Kylemnyk comunicavano usando Signal, l’app sicura e cifrata per scambiare messaggi e telefonate. Questo è il dettaglio emerso il 4 dicembre dalle carte dell’inchiesta sull’omicidio del 24enne, la cui morte ha svelato un retroscena di traffici illeciti e minacce nella Capitale. E come spesso succede in questi casi, il mezzo diventa bersaglio di critiche e speculazioni, alimentando l’indignazione dei commentatori e dei salotti televisivi. L’equazione sembra semplice ed efficace: se hai bisogno di inviare messaggi cifrati devi avere qualcosa da nascondere. Ma davvero l’utilizzo di Signal dovrebbe essere automaticamente causa di sospetti verso chi lo utilizza? Per prima cosa, è necessario capire di cosa si tratta. Lanciata nel 2014, l’app offre un sistema di messaggistica del tutto simile nelle sue funzioni di base a quello di Whatsapp e Telegram, di cui è il meno fortunato concorrente. Se infatti è nota la quantità di utenti che usano i due celebri servizi - rispettivamente 1,6 miliardi e 200 milioni di utenti (fonte: Statista) -, Signal scompare addirittura dai radar delle app di messaggistica più quotate, tra le quali si annoverano anche Facebook Messenger, WeChat e Snapchat. Tuttavia, il successo di Signal non è da trascurare, soprattutto da quando è diventato celebre grazie all’endorsement pubblico del whistleblower Edward Snowden, noto per aver rivelato la macchina globale di sorveglianza del governo statunitense. Delle sue prese di posizione pubbliche, la più memorabile è probabilmente un tweet pubblicato nel novembre del 2015, nel quale l’informatico e attivista per la privacy ha dichiarato: “Uso Signal tutti i giorni. #AppuntiperlFbi (Spoiler: loro ne sono già al corrente”). Messaggio che mal cela una sfida all’agenzia investigativa federale statunitense e ai loro tentativi di intercettare le comunicazioni dell’attivista, che vive in Russia dal 2013 in conseguenza alle sue rivelazioni. Se una lista di persone che hanno qualcosa da nascondere dev’essere fatta, senz’altro in questa figurerebbe proprio Snowden, i cui contatti potrebbero esporre le persone con cui comunica e che potrebbero essere oggetto di sorveglianza per il solo fatto di averci parlato. Ma circoscrivere il bisogno di privacy alle esigenze di attivisti e giornalisti - così come a quelle di spacciatori e criminalità organizzata - potrebbe essere un grave errore. “Sostenere che non ti importi del diritto alla privacy solo perché non hai nulla da nascondere non è diverso da dire che non ti importa della libertà di espressione perché non hai nulla da dire”, argomentava Snowden a riguardo.

Le app a protocollo end-to-end encryption. Contrariamente a quanto hanno pensato molti commentatori, Signal non è l’unica app che fornisce la possibilità di proteggere una conversazione. Il riferimento è ai protocolli di “end-to-end encryption”, ovvero di cifratura del messaggio da un dispositivo mittente a uno ricevente. Questo tipo di protocollo fa sì che il messaggio venga cifrato - reso non intelligibile - al momento dell’invio, utilizzando una chiave che lo rende decifrabile solo dal dispositivo ricevente. Chiunque intercetti il contenuto della comunicazione, senza essere in possesso delle chiavi dei due dispositivi, non può conoscerne il contenuto. Ed è esattamente la stessa procedura che utilizzano Whatsapp e Telegram (quest’ultimo solo nella sua funzione di chat privata e non di default). Dunque perché attaccare Signal e non le altre due, peraltro molto più utilizzate? La maggiore garanzia fornita da Signal risiede nel modo in cui è prodotta e sviluppata la app. A differenza di Whatsapp - di proprietà di Facebook - e di Telegram, il codice sorgente di Signal è interamente pubblico e consultabile da chiunque. Questo vuol dire che non solo Signal garantisce un meccanismo di cifratura end-to-end, ma che permette a chiunque di verificare che all’interno del software non siano nascoste delle backdoor, cioè degli errori di codice (voluti o meno) che potrebbero permettere a un attaccante di aggirarne le funzioni di sicurezza. Inoltre, due dispositivi connessi tramite Signal hanno la possibilità di confrontare i rispettivi codici: un meccanismo che permette di fare una seconda verifica sul fatto che il sistema di cifratura stia effettivamente lavorando nel modo corretto.

Perché usare Signal. Sono state numerose le prese di posizione pubbliche e televisive contro l’uso di Signal in relazione all’omicidio di Luca Sacchi. Alcuni hanno fatto riferimento al fatto che l’uso di un meccanismo che impedisce di intercettare le conversazioni dovrebbe essere fuori legge in un Paese civile, dal momento che impedirebbe di condurre indagini serie. Tuttavia, questo tipo di considerazioni arrivano proprio in seguito alla pubblicazione del contenuto di quelle chat: evidentemente la procura è riuscita a leggerle nonostante fossero assicurate al servizio di messaggistica. In questo caso il bilanciamento tra il diritto alla privacy e il dovere di condurre un’indagine trova il suo naturale equilibrio nella facoltà dell’autorità giudiziaria - e solo in questo caso - di disporre una verifica sul telefono, dal quale è possibile estrarre le informazioni. Pratica che peraltro avviene sia avendo accesso fisico al dispositivo, come nel caso di Luca Sacchi, sia tramite l’utilizzo dei cosiddetti captatori informatici, cioè di software a disposizione delle procure che permettono di estrarre il contenuto di un dispositivo o di porlo sotto intercettazione attivandone microfoni e videocamere. Strumenti delicati, il cui utilizzo è permesso legalmente solo dalla magistratura inquirente o dai servizi segreti. Contestualmente, alcuni sono convinti che le chat criptate servano solo a chi ha qualcosa da nascondere. Eppure, argomentava Snowden, la privacy non è legata solo al bisogno di celare, quanto al diritto di essere padroni della propria sfera personale. Ambito che negli ultimi quindici anni si è legato sempre di più alla convivenza con il mondo dei dati. Cifrare una comunicazione permette di mettere al sicuro le proprie credenziali bancarie o di non far sapere all’operatore e al fornitore di un servizio il contenuto delle nostre comunicazioni. Esattamente come abbassare una serranda impedisce a una persona non autorizzata di sapere cosa succede dentro la nostra abitazione. Ma si tratta di limiti aggirabili, purché questo avvenga con le garanzie previste dalla legge: una perquisizione in casa o l’utilizzo di un software d’intercettazione. Meno garantisti sono i regimi che impediscono l’esercizio della privacy come diritto: è il caso degli Emirati Arabi Uniti, citati nei salotti televisivi quale esempio di buon governo in quanto impediscono l’accesso a Whatsapp o ad altre app che garantiscono la cifratura end-to-end. Eppure la monarchia assoluta non manca mai nei rapporti di Amnesty International sulle violazioni dei Diritti Umani. E proprio a Dubai, come in Egitto, Oman e Qatar, la fondazione che sviluppa Signal ha dovuto predisporre dei sistemi in grado di aggirare il blocco al download dell’app, dopo che ne è stato vietato l’utilizzo. Alla diffusione della cifratura end-to-end si oppone con maggior successo l’Iran, nel quale neanche la buona volontà della fondazione che sviluppa Signal ha ancora potuto far nulla. Ma come sempre, è questione di tempo.

Dallo zaino con i 70 mila euro ai depistaggi: i quattro  misteri di Anastasiya. Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 da Corriere.it.

1 Dov’è il bancomat? È l’elemento nuovo che emerge dall’informativa finale dei carabinieri. Il padre di Luca ne ha denunciato la scomparsa quattro giorni dopo il delitto, quando gli hanno restituito gli effetti personali di suo figlio. Pensava fosse in un armadietto della palestra che il 24enne frequentava, ma poi ha scoperto che nella struttura non ce ne sono. Le telecamere interne al centro mostrano inoltre che il 21 ottobre, due giorni prima del delitto, Luca ne esce dolorante accompagnato da Giovanni Princi e si sa che poi non ci è più tornato. Gli approfondimenti sono in corso ma non è escluso che la tessera del Credit Agricole sia collegata alla vicenda.

2 Perché erano soli? Luca e Anastasiya erano da soli quando sono arrivati i due pusher-killer, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. I loro intermediari però, le cui testimonianze sono ritenute pienamente credibili per i riscontri avuti, parlano di un acquisto che coinvolgeva tre ragazzi e una ragazza. Oltre ai due fidanzati c’era sicuramente Princi, vera mente dell’affare, che con scaltrezza si defila nel momento decisivo forse conoscendo i rischi impliciti in quella situazione e poi manda qualcuno a recuperare il suo giubbino e l’auto di Anastasiya . L’altro acquirente è il cileno Domenico Munoz (non è indagato), che sostiene di essersi allontanato per parlare al telefono mentre arrivava la Smart dei killer. È possibile che Luca e Nastia siano stati mandati allo sbaraglio e non se ne siano resi conto?

3 Chi protegge Anastasiya? Invano, per oltre un mese, il pm ha atteso che la 25enne, superato lo choc dell’uccisione del fidanzato, si presentasse a raccontare la verità o almeno a chiarire i passaggi poco chiari del suo primo racconto che potevano essere attribuiti all’emozione. Invece non solo la baby sitter è rimasta in silenzio - così come i suoi coindagati - mentre su di lei si addensavano sospetti sempre più grossi, ma quando ha parlato, ieri davanti al gip, ha ripetuto la versione della sua totale inconsapevolezza, senza però fornire spiegazioni alle bugie già smascherate. Secondo il pm Nadia Plastina «ha preferito tutelare i suoi legami criminali». Anastasiya ha paura di rivelare il vero committente di quell’affare?

4 Di chi erano i soldi? L’entità della cifra contenuta nello zaino (70mila euro) accantona definitivamente l’ipotesi di una colletta di gruppo per una quantità di erba da consumare tra amici e avvalora sempre più il sospetto che quella partita di marijuana (15 chili) dovesse essere una sorta di esordio nella gestione dello spaccio all’Appio Latino. Restando all’ipotesi che Princi fosse la mente dell’affare, gli si può attribuire uno spessore criminale di questo livello e dunque anche la disponibilità di tanti soldi? Oppure agiva per conto di qualcuno che ha finanziato l’acquisto? Il discorso vale anche a ritroso: la droga che Marcello De Propris (accusato di concorso in omicidio) forniva a Del Grosso e Pirino stoccandola nel garage di casa, da dove veniva? Chi è che in poche ore riusciva a mettergli a disposizione un quantitativo così rilevante di erba?

Camilla Mozzetti per “il Messaggero - Cronaca di Roma” il 6 dicembre 2019. Nel linguaggio del carcere c'è quasi sempre una domanda che ogni detenuto sente rivolgersi quando varca l'ingresso di una cella da chi la occupa già da tempo: «Come ci sei finito qui dentro?». Anche a Giovanni Princi, l'amico di Luca Sacchi, arrestato all'alba di una settimana fa dai carabinieri del Nucleo investigativo, è stata fatta da un suo compagno di cella rinchiuso a Rebibbia con l'accusa di spaccio. E Princi che secondo la Procura ha ricoperto il ruolo di ponte tra il gruppo dell'Appio e quello di Casal Monastero durante la trattativa per l'acquisto di 15 chili di marijuana ha risposto. Senza abbassare lo sguardo. Al suo interlocutore avrebbe replicato: «Non mi hai visto in televisione?». Con gli occhi alti ai fotografi e una parte del viso coperta da una sciarpa mentre all'alba di venerdì scorso entrava al nucleo dell'Arma di via In Selci dopo esser stato arrestato con l'accusa di aver tentato di acquistare un ingente quantitativo di droga la notte in cui Sacchi è stato colpito dal proiettile del revolver calibro 38 impugnato da Valerio Del Grosso. Nel corso di quella breve conversazione sarebbero state descritte due batterie: quella dei buoni e quella dei cattivi, quest'ultima composta dal pasticcere di Casal Monastero e dai suoi sodali. Poi è sceso il silenzio e ognuno ha continuato a farsi i fatti propri. Di fronte al gip Costantino De Robbio e alla pm Nadia Plastina, Princi si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il suo avvocato, Massimo Pineschi, uscendo da Regina Coeli ha descritto un ragazzo provato che chiede sempre del suo amico Sacchi. Poi c'è l'altro Giovanni, quello descritto da coloro i quali questo ragazzo di buona famiglia, senza fratelli né sorelle, lo hanno frequentato in tante occasioni. Serate, feste, uscite collettive in giro per Roma e soprattutto tra gli angoli dell'Appio-Tuscolano. Un profilo forte di un ragazzo che punta a primeggiare all'interno di un gruppo senza usare la violenza o il turpiloquio ma facendo leva sulle «proprie abilità», confida un amico. «Giovanni sa convincere gli altri, li sa ammaliare prosegue il ragazzo sfoggiando i suoi studi in Psicologia che gli permettevano, diceva, di capire subito le persone». E forse, per questo, di saperle anche conquistare o manipolare all'occorrenza. Che ci abbia tentato con Sacchi riuscendoci poi con la sua fidanzata o con entrambi? Anastasia Kylemnyk di fronte alla pm Plastina mercoledì ha detto di non sapere di avere 70 mila euro nello zaino la notte dell'aggressione e che «Giovanni Princi mi ha dato una busta e mi ha detto di tenerla nello zaino». Chi li conosce entrambi da anni non esclude che proprio le abilità persuasive di Princi abbiano attecchito su una ragazza che potrebbe aver subito il suo fascino. Princi sa essere convincente: il giorno dopo la sparatoria di fronte al pronto soccorso del San Giovanni ha messo in fila alcuni dettagli della sparatoria. Senza esitare un solo secondo, senza alzare il tono della voce, mostrandosi come un malcapitato spettatore di una tragedia senza senso. «Non li ho visti perché era buio diceva Princi al fianco della madre di Nastja ma sono scesi due tizi da un'auto armati, ma come si fa ad andare in giro così? Solo dei folli possono farlo».

Omicidio Luca Sacchi, testimone: “Ho provato a fermare aggressore”. Debora Faravelli l'08/12/2019 su Notizie.it. Un testimone dell'omicidio di Luca Sacchi ha scelto di collaborare con i pm e confermato la pista della trattativa per droga. Emergono nuovi elementi nell’indagine sull’omicidio di Luca Sacchi: se in un primo momento un testimone, Domenico Marino Munoz, aveva spiegato di aver incontrato la vittima e Anastasyia per una birra al pub senza menzionare una trattativa per la droga, la sua posizione ha ora trovato delle modifiche. Date le lacune, secondo le forze dell’ordine, nel suo racconto, la Procura ha convocato Munoz per essere riascoltato dalla pm Nadia Plastina. All’inizio aveva infatti spiegato di aver sempre trovato l’amico Luca tranquillo e che diceva che andava tutto bene. “Non mi risulta che Luca facesse uso di sostanze stupefacenti né che frequentasse persone poco raccomandabili“, aveva detto. Per la prima volta però, riconvocato dagli investigatori, ha deciso di collaborare e aiutare gli inquirenti a ricostruire le tappe della contrattazione tra i ragazzi dell’Appio e i due pusher di San Basilio. Vale a dire Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. Nella sua nuova testimonianza ha ripercorso i momenti in cui è avvenuto l’omicidio. Ha spiegato di aver tentato di fermare l’aggressore di Anastasyia che Luca aveva spinto a terra (Pirino). Ha però desistito nel momento in cui alla sua destra ha visto arrivare un ragazzo che aveva la mano destra lungo il fianco (Del Grosso).Mentre camminava avvicinandosi a Luca, che in quel momento stava soccorrendo Anastasia, ha affermato di averlo visto puntare una pistola verso Sacchi. Spaventato e temendo per la sua incolumità, è quindi fuggito per nascondersi dietro un’auto. Una volta avvenuta l’uccisione, una telecamera l’ha ripreso mentre parla con Princi e con un’altra ragazza non ancora identificata.

Pino Corrias per “la Repubblica” il 9 dicembre 2019. La scena del delitto è un vetro andato in pezzi. Quando nella notte dell' Appio Latino si accendono le luci blu dell' allarme e dei soccorsi, al centro della scena c' è il corpo di Luca, 24 anni, steso obliquo sull' asfalto. E lì accanto, c' è il viso bianco di Anastasiya, 25 anni, con due lacrime incastonate negli occhi azzurri, ancora spalancati dallo spavento. È bionda e fragile anche di voce. Piangendo dice: «Ci hanno assaltato. Volevano il mio zainetto. Luca mi ha difeso. Lo hanno ucciso». Sembrava una storia semplice. Una rapina da 30 euro, quello che secondo Anastasiya conteneva il suo zainetto, finita con un colpo calibro 38 in testa al suo ragazzo, e i cattivi in fuga. Un delitto insensatamente atroce, ma per lo meno con la soluzione incorporata. E una commozione collettiva che prometteva di consolarci dalle nere nuvole che si erano addensate sulla loro storia di giovinezza in fiore e amore spezzato: Lancillotto è morto, Ginevra piange. Invece, da quella notte del 23 ottobre a oggi, accade l' impensabile. I pezzi della storia non si mettono insieme. Gli angoli non combaciano. Le immagini registrate dalle telecamere, gli indizi, i testimoni, non quadrano con le lacrime di Anastasiya. Rivelano che lei e Luca non erano soli davanti al pub John Cabot. Con loro c' è un tale Giovanni Princi, amico d' infanzia di Luca, ma con vita perigliosa e qualche precedente per droga. Lui e Anastasiya incontrano un paio di tizi, confabulano. Lei va e viene dall' inquadratura con lo zainetto. Poi entra in scena una Smart bianca. E dopo la reazione di Luca, il colpo di pistola. Sembra un appuntamento finito male, non un assalto. Per trovare il primo pezzo di questa storia che si incastri alla tragedia, bisogna aspettare che gli investigatori rintraccino due balordi di San Basilio, Valerio Del Grosso, e Paolo Pirino, 21 anni a testa, due «fulminati » che confessano già al primo interrogatorio. Del Grosso, denunciato dalla madre in lacrime, ha sparato a Luca «non per ucciderlo», ma solo «per mettergli paura». Pirino, che i carabinieri catturano mentre prova a nascondersi sul terrazzo condominiale di un palazzone di Tor Pignattara, è la spalla e guidava. Confessano che non stavano improvvisando una rapina da due lire, ma stavano trattando la vendita di 15 chili di marijuana, al prezzo concordato di 70 mila euro, con dei ragazzi da nulla, fuori dal giro, degli improvvisati. E perciò, all' ultimo, si erano inventati che sarebbe stato facile attirarli e rapinarli. «Gli portiamo via i settanta e ce ne andiamo». E Del Grosso: «Me ne vado in Brasile!». Così si scopre che lo zainetto di Anastasiya è il tesoro in palio. Un tesoro sparito, volatilizzato. Anche se lei dice di non saperne nulla, e dice che se c' erano davvero 70 mila euro, in quella notte di ombre, non se n' è accorta, non ce li ha messi né lei, né Luca. Forse Giovanni Princi, l' amico. Perché lei fa la baby-sitter e Luca l' insegnante in palestra, mai visti così tanti soldi. Mai immaginata una vita diversa dal loro quotidiano amore che durava da cinque anni, con piccole vacanze, l' ultima in aprile a Eurodisney, a Parigi, sognando di far famiglia in un futuro prossimo venturo. Eppure non torna quasi nulla di quello che racconta. Non dice niente ai carabinieri della presenza di Giovanni Princi. E quando le rivelano che lo hanno appena arrestato, dice che era un vecchio amico di Luca, ma non si frequentavano. Salvo che nelle schede dei loro telefonini gli investigatori scoprono che si parlavano usando Signal, un' applicazione che manda e riceve messaggi criptati. Aveva detto di essere andata a piedi al pub, mentre la sua Citroen C1 era posteggiata lì, accanto al Cabot, ed è stato proprio Princi, che l' ha spostata di corsa quella notte. Era lì dentro lo zainetto sparito? A chi apparteneva il tesoro? A un finanziatore ancora sconosciuto, o era il frutto di una colletta, un investimento da moltiplicare nella facile magia dello spaccio in proprio? E Luca, la vittima, era coinvolto o all' oscuro dei soldi, della droga, dell' amico e della fidanzata? Il vetro esploso di quella notte l' ha pagato più di tutti e per sempre. Toccherà a Anastasiya raccogliere le ultime schegge e spiegarci dove vanno messe. Sembrava una storia semplice. Ma del racconto della ragazza non torna quasi nulla.

Emilio Orlando per leggo.it il 10 dicembre 2019. Mentre continua la caccia al finanziatore di Anastasiya emergono nuovi elementi nelle indagini sull’omicidio di Luca Sacchi. Dettagli che potrebbero riscrivere l’intera vicenda e mettere in dubbio alcune deposizioni della fidanzata di Valerio del Grosso. Una corsa a tutta velocità di due Smart guidate l’una da Valerio del Grosso e l’altra da Paolo Pirino, non era sfuggita, il giorno dopo la feroce esecuzione, alla polizia stradale. Le due macchine erano state bloccate il pomeriggio del 24 ottobre sulla corsia d’emergenza al chilometro del Grande Raccordo Anulare, mentre sfrecciavano in direzione Roma sud. Gli agenti della Polstrada, del tutto ignari che i due occupanti erano coinvolti nel fattaccio della sera prima, si erano limitati a sanzionare i due giovani ritirando loro la patente di guida. Entrambi i fermati sono in carcere con l’accusa di essere del Grosso l’esecutore materiale del delitto e Pirino suo complice. Quel pomeriggio, secondo gli inquirenti, i due stavano probabilmente trasportando qualcosa di scottante: il denaro o l’arma. Oppure, ipotesi più probabile, fuggivano da qualcuno che li inseguiva. Questo particolare collocherebbe altrove i due indagati, che in quel frangente di “latitanza” hanno avuto contatti con personaggi legati al narcotraffico per occultare le prove importanti. Sono al vaglio della procura le immagini di videosorveglianza delle telecamere dell’Anas che controllano i flussi di traffico sul Gra che hanno immortalato la “staffetta” di del Grosso e Prino. Sono in corso le indagini per risalire al ristorante di Trastevere, dove l’assassino ha pranzato con la fidanzata dopo l’omicidio e dove del Grosso era in confidenza con in proprietario, tanto che quel giorno ebbero un lungo colloquio in privato nel sottoscala. Ieri mattina, sono stati effettuati gli accertamenti irripetibili sui telefonini cellulari di Anastasiya Kylemnyk e di Giovanni Princi, entrambi accusati di aver preso parte alla trattativa per acquisto della droga con i 70 mila euro che la ragazza portava nello zainetto rosa. I periti dovranno estrapolare i messaggi e le conversazioni dove ci sono le parole chiave droga, soldi, armi. Oggi gli esperti del reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri, analizzeranno le impronte digitali repertate sulla Citroen C1 di Anastasiya, mentre domani verranno estratti i materiali organici ritrovati sotto le unghie di Luca che potrebbero aprire nuovi scenari d’indagine.

Omicidio Luca Sacchi: «Vado, prendo l’erba e la porto». Così è scattata la trappola. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. Cominciati gli esami del Ris su reperti sequestrati dopo l’omicidio del 24enne. A cominciare dallo zainetto rosa di Anastasiya, mazza da baseball e automobile. Giovanni Princi trattava alla pari con il pusher Valerio Del Grosso, che pochi minuti dopo avrebbe ucciso il suo amico Luca Sacchi. La conferma alle accuse del pm Nadia Plastina arriva da una frase riferita ai carabinieri del Nucleo investigativo dagli intermediari del pusher, Valerio Rispoli e Simone Piromalli, nella loro testimonianza sui fatti del 23 ottobre. Siamo davanti al John Cabot pub, i contatti per concludere l’affare dei 15 chili di erba al prezzo di 70 mila euro sono già ben avviati, Anastasiya Kylemnik ha già mostrato ai due mandati sul posto dal 21enne di Casal Monastero le mazzette di banconote da 20 e 50 euro nel suo zaino di simil pelle rosa e Del Grosso, accompagnato da Paolo Pirino, compare sulla scena, ma senza marijuana. È qui che Rispoli lo sente parlare con Princi, che chiede al pusher: «Ma come, frà, avevamo detto che facevamo qua?». E Del Grosso: «Vado, prendo l’erba e te la porto qua». In realtà tornerà a mani vuote e armato per prendere i soldi in cambio di niente, ma a quel punto Princi si era già allontanato, forse fiutando qualcosa di strano, lasciando Nastia e Sacchi da soli e di fatto esponendoli alla rapina di Del Grosso, che in sua presenza forse non avrebbe tentato il colpo. Di fronte al silenzio di tutti gli indagati, gli inquirenti contano ora di chiudere il cerchio con il riascolto di tutti i testimoni della vicenda, a partire da Piromalli e Rispoli. È già stato interrogato anche Domenico Costanzo Martino Munoz, l’ultimo componente del gruppo di quattro (con Luca, Princi e Nastia) che secondo le indagini partecipava all’acquisto. A sul carico non ci sono al momento contestazioni formali e questo lo obbliga a dire la verità. Le sue parole vengono vagliate in queste ore. Intanto sono cominciati ieri mattina nella caserma dei carabinieri a Tor di Quinto gli accertamenti del Ris dell’Arma su alcuni reperti sequestrati dopo l’omicidio del 24enne. A cominciare dallo zainetto rosa di Anastasiya sul quale sono stati effettuati esami tecnici per individuare non soltanto impronte digitali ma anche sostanze biologiche per capire quella notte chi lo abbia toccato. Presenti alla apertura dei plichi sigillati gli avvocati della famiglia Sacchi. Oltre allo zainetto è stato esaminato anche il portafoglio della baby sitter fidanzata con Luca, che si trovava all’interno dello zaino insieme con i documenti d’identità e altri effetti personali. È stata poi la volta della mazza da baseball nera e argento impugnata da Pirino e con la quale sarebbero stati colpiti sia il personal trainer sia Anastasiya. Sull’attrezzo, così come dal materiale recuperato sotto le unghie della vittima (sulla mano destra e su due dita di quella sinistra), gli specialisti cercano le tracce di dna degli aggressori, con i quali Luca avrebbe avuto una colluttazione prima di essere ferito a morte. Infine oggi si cercheranno tracce di polvere da sparo sulla Citroen C1 di Anastasiya, sulla Smart ForFour usata dai killer nella fuga e su quella presa in sostituzione della prima il 24 ottobre, dopo un incidente. Su questa seconda Smart, Pirino fu anche fermato sul Gra dalla Polstrada prima che diventasse un sospettato. Gli venne ritirata la patente.

Anastasiya e i soldi nella busta del pane «doveva pagare una moto rubata». Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Il gip respinge la richiesta di revoca dell’obbligo di firma: dichiarazioni lacunose e poco plausibili. Il timbro della smentita del giudice per le indagini preliminari certifica quelle che già apparivano come mezze bugie se non piene falsità: «Le dichiarazioni di Anastasiya Kylemnyk nel corso del suo interrogatorio — scrive il gip Costantino De Robbio — si presentano lacunose e in più punti scarsamente plausibili». È un passaggio del provvedimento con cui il magistrato respinge l’istanza di revoca dell’obbligo di firma presentata dalla 25enne, che è indagata per detenzione e spaccio nell’inchiesta sull’omicidio del suo fidanzato Luca Sacchi avvenuto il 23 ottobre nel quartiere dell’Appio Latino. Il 4 dicembre, dopo un silenzio durato oltre un mese, la babysitter aveva fornito la sua versione alla presenza del pm Nadia Plastina. Il gip spiega nel merito perché non crede alla ragazza, a partire dalla sostenuta inconsapevolezza di avere nel proprio zaino 70 mila euro destinati all’acquisto di 15 chili di marijuana. «Davanti al John Cabot pub — ha detto la 25enne —, Giovanni Princi (amico della coppia, presunta mente dell’affare, arrestato per spaccio, ndr) mi ha consegnato un sacchetto di carta marrone, di quelli per contenere il pane, dicendomi che c’erano dei soldi destinati a un amico con cui aveva appuntamento per un “impiccio” con le moto e chiedendomi di tenere il sacchetto nello zaino». «Tale dichiarazione — spiega il gip — appare inverosimile; se infatti Princi non voleva tenere la busta con i soldi in mano per paura di essere trovato a un eventuale controllo con il corrispettivo di una transazione illecita, non si spiega come mai sia giunto al pub e abbia atteso Sacchi e Anastasiya con il sacchetto in mano». Anastasiya riferisce inoltre che il denaro «era contenuto in una busta di piccole dimensioni», una circostanza che, secondo il giudice, è smentita dalle «plurime e convergenti risultanze» raccolte nelle indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo e dai testimoni. «Il pacco con il denaro — scrive il gip — era talmente vistoso e voluminoso da avere impressionato lo stesso Valerio Del Grosso (il pusher accusato di omicidio in concorso con altri due, ndr), che pure ne conosceva il contenuto, tanto da spingerlo a modificare il suo piano». Ossia rapinare la coppia anziché consegnare loro la droga. «Del tutto inverosimile» viene ritenuta anche la spiegazione data da Nastia del perché Princi avesse le chiavi della sua auto: «Me le aveva chieste per metterci il denaro che mi aveva dato da custodire nello zaino». Alla domanda del perché Princi avrebbe dovuto spostare i soldi in auto dopo l’incontro con i venditori della moto rubata, visto che a loro doveva consegnare la somma, «la ragazza non ha saputo rispondere». La stessa ragazza aveva inizialmente detto di essere arrivata a piedi al pub. «Ci troviamo di fronte — conclude il giudice —, a due versioni inconciliabili: quella dei testimoni che non hanno interesse a mentire e quella della ragazza che vuole invece sminuire le sue responsabilità». Le dichiarazioni di Kylemnyk «appaiono dunque del tutto inidonee a scalfire il quadro indiziario». 

Alessia Marani e Giuseppe Scarpa per il Messaggero l'11 dicembre 2019. Apre nuovi scenari Domenico Munoz. L' amico di Luca Sacchi, Anastasia Kylemnyk e Giovanni Princi, ha descritto, davanti agli investigatori, i dettagli di quel fatidico 23 ottobre all' Appio Latino. Definendo per la prima volta i ruoli esatti assunti dai protagonisti della vicenda, ponendo la baby sitter e Princi in posizioni di prima linea nella trattativa con i pusher di Casal Monastero che hanno sparato al personal trainer di 24 anni. Il giovane studente di Biotecnologia ha, dunque, raccontato agli inquirenti, nell' interrogatorio del sei dicembre scorso, i particolari di quella serata, rendendo una cronologia esaustiva della partita per l' acquisto della marijuana. Una serata in cui lo stesso Munoz era presente fuori dal John Cabot Pub, in compagnia di Sacchi e Anastasia, quando Valerio Del Grosso e Paolo Pirino sono scesi dalla Smart per strappare lo zaino alla ragazza, sparando in testa a Luca. La sua è la prima testimonianza ritenuta attendibile dalla procura, sul fronte interno al gruppo di amici di Sacchi, freddato per avere cercato di difendere la sua ragazza dall' aggressione, ma anche per non farle portare via lo zaino con all' interno una montagna di quattrini.

I RUOLI. Perciò Sacchi sarebbe stato consapevole di quello che stava succedendo. Ma fine a che punto? Ha avuto un ruolo secondario - ha sottolineato lo stesso Munoz agli investigatori - nella trattativa relativa allo stupefacente rispetto a Princi e a Nastja. Entrambi, quindi, con compiti diversi, sarebbero stati in prima linea e in piena sintonia per l' acquisto della marijuana, secondo la versione del cileno. Ciò che Munoz ha rappresentato ai carabinieri del Nucleo Investigativo di via In Selci e al pm Nadia Plastina è quindi utile agli inquirenti per puntellare l' accusa nei confronti della stessa Kylemnyk e di Princi. I due, in sostanza, avrebbero avuto un ruolo attivo. Erano ben coscienti di quello che stavano facendo. Si tratta di una versione che, ovviamente, rende meno credibili le affermazioni della venticinquenne di origine ucraina che ancora il 4 dicembre, durante l' interrogatorio di garanzia di fronte al gip Costantino De Robbio, sosteneva che: «Non sapevo di avere 70 mila euro nello zaino. Io e Luca siamo totalmente estranei a questa vicenda». Affermazioni che ricalcano la prime sommarie informazioni di Nastja che, nelle ore successive alla rapina del suo zaino e soprattutto all' assassinio del suo Luca, raccontava di essere stata vittima inconsapevole. Omettendo, in pratica, tutti i fatti antecedenti al terribile epilogo. Una verità di comodo che non aveva, fin da subito, convinto gli inquirenti i quali, infatti, l' hanno indagata per detenzione ai fini di spaccio. Una versione decisamente lacunosa, se non mendace, su cui, sulle prime, si era accomodato anche lo stesso Munoz. Il ragazzo cileno a oggi non risulta essere indagato, ma il suo destino giudiziario è ancora appeso, tutto da scrivere insomma. In Procura dovrebbe essere sentito presto anche Valerio Rispoli, l' intermediario dei pusher con il quale Princi avrebbe avuto già contatti precedenti.

PERIZIE E VERIFICHE BANCARIE. Ad ogni modo, dopo essere stato reticente nei giorni successivi al delitto dell' amico, Munoz si è poi redento. In una deposizione fiume ha riferito i dettagli dell' acquisto della marijuana. I primi contatti di quella serata. Una ricostruzione, con dovizie di particolari, che ha sorpreso gli stessi investigatori. Intanto, anche su Princi, emergono nuovi elementi. Il ragazzo avrebbe cercato in passato sim anonime, intestate a sconosciuti. Una delle ultime in suo possesso risulta appartenere a uno straniero. Un modo, insomma, per avere numeri di cellulare non riconducibili a lui. È questo il comportamento tipico di chi vuole parlare in assoluta libertà senza il pericolo di essere intercettato. Ebbene un episodio sarebbe indicativo dell' ossessione del ragazzo di cercare questa eccessiva riservatezza. Princi avrebbe visto una sim buttata per terra, in strada. L' avrebbe presa. Un gesto che non sarebbe sfuggito ai genitori che poi avevano imposto al figlio di buttarla via. Intanto, le indagini proseguono. Sono in corso accertamenti bancari per capire i prelievi effettuati dagli amici dell' Appio Latino nelle ore e nei giorni precedenti al delitto; infine, oggi, verrà effettuata una perizia sulla Citroen C1 sequestrata ad Anastasia.

COSI' SCATTO' LA TRAPPOLA PER LUCA. Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani per il Corriere della Sera – Roma l'11 dicembre 2019. Giovanni Princi trattava alla pari con il pusher Valerio Del Grosso, che pochi minuti dopo avrebbe ucciso il suo amico Luca Sacchi. La conferma alle accuse del pm Nadia Plastina arriva da una frase riferita ai carabinieri del Nucleo investigativo dagli intermediari del pusher, Valerio Rispoli e Simone Piromalli, nella loro testimonianza sui fatti del 23 ottobre. Siamo davanti al John Cabot pub, i contatti per concludere l' affare dei 15 chili di erba al prezzo di 70 mila euro sono già ben avviati, Anastasiya Kylemnik ha già mostrato ai due mandati sul posto dal 21enne di Casal Monastero le mazzette di banconote da 20 e 50 euro nel suo zaino di simil pelle rosa e Del Grosso, accompagnato da Paolo Pirino, compare sulla scena, ma senza marijuana. È qui che Rispoli lo sente parlare con Princi, che chiede al pusher: «Ma come, frà, avevamo detto che facevamo qua?». E Del Grosso: «Vado, prendo l' erba e te la porto qua». In realtà tornerà a mani vuote e armato per prendere i soldi in cambio di niente, ma a quel punto Princi si era già allontanato, forse fiutando qualcosa di strano, lasciando Nastia e Sacchi da soli e di fatto esponendoli alla rapina di Del Grosso, che in sua presenza forse non avrebbe tentato il colpo. Di fronte al silenzio di tutti gli indagati, gli inquirenti contano ora di chiudere il cerchio con il riascolto di tutti i testimoni della vicenda, a partire da Piromalli e Rispoli. È già stato interrogato anche Domenico Costanzo Martino Munoz, l' ultimo componente del gruppo di quattro (con Luca, Princi e Nastia) che secondo le indagini partecipava all' acquisto. A sul carico non ci sono al momento contestazioni formali e questo lo obbliga a dire la verità. Le sue parole vengono vagliate in queste ore. Intanto sono cominciati ieri mattina nella caserma dei carabinieri a Tor di Quinto gli accertamenti del Ris dell' Arma su alcuni reperti sequestrati dopo l' omicidio del 24enne. A cominciare dallo zainetto rosa di Anastasiya sul quale sono stati effettuati esami tecnici per individuare non soltanto impronte digitali ma anche sostanze biologiche per capire quella notte chi lo abbia toccato. Presenti alla apertura dei plichi sigillati gli avvocati della famiglia Sacchi. Oltre allo zainetto è stato esaminato anche il portafoglio della baby sitter fidanzata con Luca, che si trovava all' interno dello zaino insieme con i documenti d' identità e altri effetti personali. È stata poi la volta della mazza da baseball nera e argento impugnata da Pirino e con la quale sarebbero stati colpiti sia il personal trainer sia Anastasiya. Sull' attrezzo, così come dal materiale recuperato sotto le unghie della vittima (sulla mano destra e su due dita di quella sinistra), gli specialisti cercano le tracce di dna degli aggressori, con i quali Luca avrebbe avuto una colluttazione prima di essere ferito a morte. Infine oggi si cercheranno tracce di polvere da sparo sulla Citroen C1 di Anastasiya, sulla Smart ForFour usata dai killer nella fuga e su quella presa in sostituzione della prima il 24 ottobre, dopo un incidente. Su questa seconda Smart, Pirino fu anche fermato sul Gra dalla Polstrada prima che diventasse un sospettato. Gli venne ritirata la patente.

Michela Allegri per ilmessaggero.it il 12 dicembre 2019. Il giudice di Roma non crede alle parole di Anastasia. La versione data dalla ragazza sui fatti del 23 ottobre, sulle vicende che hanno portato all'omicidio del fidanzato Luca Sacchi, è giudicata «lacunosa, inverosimile e in più punti scarsamente plausibile». Un giudizio che il gip Costantino De Robbio mette nero su bianco nel provvedimento con cui ha respinto la richiesta di revoca dell'obbligo di firma chiesta dai difensori di Anastasia al termine dell'interrogatorio di garanzia svolto il 4 dicembre scorso a piazzale Clodio. Un atto istruttorio durato una ventina di minuti durante il quale la 25enne ucraina rispose alle domande del gip sostenendo, in primo luogo, di non essere a conoscenza del fatto che nel suo zaino, da lei mostrato ai pusher di San Basilio nella fase della trattativa per l'acquisto di 15 chilogrammi di droga, fossero stati «stipati» 70 mila euro. Per De Robbio le dichiarazione di Anastasia «appaiono del tutto inidonee a scalfire il quadro indiziario» e arrivano da un sogetto «interessato e non obbligato a rispondere dicendo la verità». Nel corso dell'interrogatorio Anastasia ha fornito una sua ricostruzione su cosa avvenne quella sera fuori ad un pub, nella zona dei Colli Albani. La baby sitter ha riferito che Giovanni Princi, l'amico di infanzia di Sacchi attualmente in carcere con l'accusa di avere tentato di acquistare droga, gli consegnò dei soldi in un «sacchetto di carta marrone» dicendogli che sarebbero serviti per comprare una motocicletta «di provenienza illecita». «Quella sera - ha sostanzialmente detto Anastasia - sono andata con Luca al pub perché avevo appuntamento con Princi». Una volta giunta sul posto «Princi le avrebbe consegnato un sacchetto di carta marrone di piccole dimensioni, di quelli per contenere il pane, dicendole che c'erano i soldi destinati ad essere consegnati ad un amico con cui aveva appuntamento per un 'impicciò con le moto, con ciò intendendo che Princi avrebbe dovuto acquistare una motocicletta di provenienza illecita e chiedendole di tenere il sacchetto nello zaino in attesa dell'amico». La ragazza ha inoltre detto che Princi gli ha chiesto le chiavi della sua auto «per metterci il denaro che le aveva appena dato da custodire nello zaino». L'indagine, intanto, va avanti e oggi ha fatto segnare un nuovo colpo di acceleratore. È stata, infatti, notificata in carcere una nuova ordinanza cautelare nei confronti di Armando De Propris, padre di Marcello, il giovane di San Basilio che ha dato l'arma a Valerio Del Grosso, autore materiale dello sparo. A De Propris senior, che si trovava già in carcere dal 29 novembre perché trovato in possesso di un chilo di droga, i pm di piazzale Clodio contestano ora anche il reato di detenzione illegale di arma da fuoco. In sostanza sarebbe stato lui a fornire al figlio la calibro 38, ancora non trovata, utilizzata per uccidere Sacchi.

Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 12 dicembre 2019. «Mi sono pentito», ripete senza sosta Valerio Del Grosso in una cella del carcere di Regina Coeli. Il 21enne pusher, che ha sulla coscienza la vita di Luca Sacchi, dice di non darsi pace. Lo ha freddato con un colpo di pistola alla testa il 23 ottobre, fuori da un locale a Roma nel quartiere dell' Appio Latino. Del Grosso da 50 giorni è in isolamento, osservato da un poliziotto della penitenziaria perché non compia gesti inconsulti. Il ragazzo prova a fare i conti con la sua colpa immergendosi nei testi sacri. Sfoglia i Vangeli, più di ogni altra cosa. E si sofferma, soprattutto, sui versi dell' apostolo Matteo in cui viene narrato (26,47-56) l' arresto di Gesù. Alle sue letture impegnate aggiunge anche due opere della mistica - ascetica cristiana ortodossa, Filocalia e Racconti di un pellegrino russo. Ogni giorno, inoltre, chiede di poter incontrare un sacerdote mentre i genitori lo vanno a trovare una volta alla settimana. Chi non potrà più abbracciare il proprio figlio è invece la madre di Luca Sacchi, Tina Galati. La donna, sentita in procura il sei dicembre con il marito, ha contribuito a delineare un quadro sui rapporti del suo ragazzo con la fidanzata Anastasia Kylemnyk e Giovanni Princi. Particolari che rifiniscono l' indagine, soprattutto se accostati ai dettagli forniti da Domenico Munoz. Il cileno, l' altro amico che fa parte della comitiva di Sacchi, presente il 23 ottobre (la sera dell' omicidio) fuori dal pub John Cabot, all' Appio Latino.

L'INDAGINE. «Sacchi è stato trascinato dentro la partita di spaccio da Anastasia», sostengono gli inquirenti. Gli investigatori si sono perciò convinti di una mansione subalterna affidata al personal trainer. Il 24enne sarebbe stato persuaso a far parte della compravendita della marijuana dalla sua fidanzata Nastja e in seconda battuta dall' amico, Princi. Sarebbe lui il regista dell' operazione, colui che aveva agganciato i due spacciatori di Casal Monastero, Del Grosso e Paolo Pirino. I genitori di Luca nulla sapevano della compravendita di droga. Ma qualcosa di strano, ultimamente, avevano fiutato. A partire dall' estate, in casa Sacchi, la tensione sarebbe lievitata. Dopo diversi anni di fidanzamento i genitori di Luca avrebbero espresso delle perplessità, al loro figlio, sulla baby sitter ucraina. Inizialmente accolta in casa come una figlia, negli ultimi mesi, avrebbe mostrato un atteggiamento del tutto nuovo, quasi sconosciuto. Il personal trainer, innamorato della Kylemnyk, si sarebbe però buttato sulla ragazza senza ascoltare gli allarmi che lanciavano il padre e la madre. Il resto della storia sta emergendo grazie a Munoz che, sentito dagli inquirenti, ha puntato anche lui il dito proprio sul duo Kylemnyk - Princi. Smentendo categoricamente la versione dell' ucraina che ha continuato, fino al quattro dicembre, a sostenere di fronte al gip che: «Non sapevo di avere nello zaino 70mila euro. Io e Luca - aveva spiegato di fronte al magistrato Costantino De Robbio - siamo totalmente estranei alla vicenda». Affermazioni che ricalcano le prime sommarie informazioni di Nastja che, nelle ore successive alla rapina del suo zainoe soprattutto all' assassinio del suo Luca, raccontava di essere stata vittima inconsapevole. Omettendo, in pratica, tutti i fatti antecedenti al terribile epilogo. Una verità di comodo che non aveva, fin da subito, convinto i carabinieri di via In Selci e il pubblico ministero Nadia Plastina i quali, infatti, l' hanno indagata per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. L' inchiesta, quindi, galoppa. Giorno dopo giorno si compongono le tessere di un puzzle complicato. In attesa di nuovi importanti colpi di scena. 

Perché Google dice che  i servizi segreti vogliono che si parli di Anastasiya. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 su Corriere.it da Alessio Lana. L'applicazione consente di visualizzare tutti i posti in cui siamo stati fin dal 2009. Ma in pochi passaggi si elimina la cronologia: come fare. Chi è Anastasiya Kylemnyk? Secondo Google, è «nata in Ucraina e finita nelle cronache italiane per un caso di omicidio, i servizi segreti hanno detto al sistema mass mediale italiano di renderla protagonista in televisione e sui giornali allo scopo di distrarre il popolo italiano dai loro problemi economici e sociali». Mancano le scie chimiche e il terrapiattismo, ma la teoria complottistica c’è tutta. E mancano le informazioni essenziali, tipo che era la fidanzata del personal trainer Luca Sacchi, ucciso a Roma il 23 ottobre o che, nelle indagini sull’omicidio è indagata per detenzione di stupefacenti finalizzata allo spaccio, e non sono omissioni da poco, considerato che la fake news compare nel cosiddetto «snippet in primo piano», il riquadro che Google compila in automatico per dare risposte agli utenti senza obbligarli a cliccare sui link. Nello snippet in questione, viene indicata come fonte Wikipedia, ma cliccando sul relativo link, l’enciclopedia online informa che sull’argomento non esiste ancora una voce. Dunque, Google dove ha preso le informazioni su Anastasiya? E perché, pur disponendo di oltre 50mila link, ha scelto di selezionare la risposta forse più assurda e anzi all’apparenza inesistente? E ancora: quante volte potrebbe ripetersi un caso come questo? Dopo le segnalazioni del Corriere, lo snippet che compariva sia se si digitavano solo nome e cognome della ragazza sia se si chiedeva al motore di ricerca «Chi è Anastasiya Kylemnyk?» è stato cancellato. L’informazione è però rimasta per 43 giorni in bella vista nella parte alta della schermata di Google, incorniciata come se fosse corretta, certificata, esaustiva, come se indicasse in sintesi tutto quello che c’era da sapere su una giovane donna sulla quale, in realtà, né la cronaca né la giustizia sono ancora in grado di dare una risposta definitiva. Da Google Italia per ora non rilasciano dichiarazioni, in attesa di un report dai loro ingegneri in California. La responsabile della comunicazione di Wikimedia Italia premette: «Le voci di Wikipedia sono compilate da volontari che devono rispettare le nostre linee guida, ma siamo spesso oggetto di vandali che inseriscono informazioni false o promozionali. La comunità di controllo interviene di solito in pochi minuti, rimuove le informazioni non conformi o cancella intere pagine». Nel caso di Anastasiya Kylemnyk, spiega, «la pagina era stata effettivamente creata, poi, il 27 ottobre scorso è stata cancellata ”causa contenuto non enciclopedico o promozionale”». Questo però non è bastato a Google per smettere di leggerla, pescarla e proporne una sintesi ai suoi utenti. In teoria, l’algoritmo segue la fonte che ha scelto e, se viene modificata, aggiorna la risposta. Dovrebbe trattarsi di un automatismo che si attiva in tempi brevi, ma per più di un mese non è accaduto niente. Il caso ricorda quello di Giovanni Buttarelli, il Garante Europeo per la privacy beffato nel giorno della morte: nell’agosto scorso, lo snippet sbandierava dando per certa, e senza citare alcuna fonte, la malattia che ne aveva causato il decesso, informazione che non era pubblica. L’episodio, segnalato per primo dal Corriere, poneva già tutti i temi che si ripropongono oggi. Google da dove prende le informazioni? Basta un algoritmo a distinguere fra notizie vere e fake news e dare una sintesi attendibile? Ora, a queste, si aggiunge un’altra domanda: premesso che la stessa Wikipedia ammette di essere spesso vittima di vandalismi, se Google cattura risposte anche fra le pagine cancellate di Wikipedia, che fine fa la verità? (E scusate se la domanda vi sembra dettata dai servizi segreti per distrarre il popolo dalla crisi economica).

Michela Allegri per il Messaggero il 13 dicembre 2019. La versione di Anastasia Kylemnyk sulle circostanze che hanno portato alla morte del suo fidanzato Luca Sacchi non è credibile. Di più: per il gip Costantino De Robbio è «lacunosa, inverosimile e in più punti scarsamente plausibile». Per questo motivo, il giudice ha rigettato la richiesta della difesa della ragazza che, dopo l' interrogatorio di garanzia dello scorso 4 dicembre, aveva chiesto che le venisse revocata la misura cautelare dell' obbligo di firma. Anastasia è indagata per detenzione di stupefacenti ai fini di spaccio, insieme all' amico di Luca, Giovanni Princi, che si trova in carcere. Dalle indagini dei carabinieri, coordinate dalla pm Nadia Plastina, è emerso che la ragazza avrebbe preso parte alla trattativa per la compravendita di 15 chili di marijuana. Il gruppo composto da Princi, Anastasia e Sacchi aveva a disposizione 70mila euro da investire. E Princi si era rivolto ai pusher di San Basilio Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, poi arrestati per omicidio. L'appuntamento per lo scambio era il 23 ottobre davanti al pub John Cabot, nel quartiere Appio Latino. Quando Del Grosso aveva saputo che i ragazzi avevano i soldi, aveva contattato il suo fornitore, Marcello De Propris - pure lui in carcere per omicidio -, si era fatto prestare la pistola del padre, Armando, e si era presentato all' incontro. Lì, aveva sparato a Sacchi. Poi, aveva preso lo zaino di Anastasia, pieno di banconote, ed era fuggito.

LA PISTOLA. Ieri c' è stata anche un' altra svolta nelle indagini: è stata notificata una nuova ordinanza di arresto ad Armando De Propris - giù detenuto per droga - per porto abusivo di arma: la pistola usata per l' omicidio. Anastasia ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento in questioni di droga. Ha raccontato al gip che era stato Princi a consegnarle il denaro dicendole di nasconderlo nello zaino. Ha detto di non sapere che si trattasse di 70mila euro e che il ragazzo le aveva dato una busta di carta che lei non aveva aperto. Ma il gip ha sottolineato che era stata proprio lei a mostrare lo zaino ai pusher. La venticinquenne ha replicato che Princi le aveva detto di tenere i soldi in attesa di un amico con cui doveva fare «un impiccio con le moto: avrebbe dovuto acquistare una motocicletta di provenienza illecita», sottolinea il giudice. La ragazza ha inoltre detto che Princi le aveva chiesto le chiavi della sua auto «per metterci il denaro». Una versione che non torna, per il gip Costantino De Robbio. La ragazza ha anche specificato che si trattava di una busta piccola, mentre dalle indagini è emerso che «il denaro era talmente vistoso da avere impressionato Del Grosso», tanto da spingerlo a modificare il piano originario perché «gli era partita la brocca» e voleva i soldi.

Delitto Luca Sacchi,  il bancomat e la casa vacanza: «Anastasiya nascose i codici». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Il racconto dei genitori dopo il delitto del personal trainer. Il giallo dei soldi spariti dalla cassaforte. Il pm: «Accertamenti sui conti correnti». Da «ragazzina timida» ad astiosa nuora. Che insulta la suocera dopo la morte del figlio e restituisce sbagliati i codici dei conti online. Nella parabola di Anastasiya Kylemnyk è racchiusa l’ultima verità sul delitto di Luca Sacchi. Verbali e nuovi riscontri depositati al Riesame dal pm Nadia Plastina gettano ulteriori ombre su di lei. «Sembrava una brava ragazza — ricorda Alfonso Sacchi, il padre di Luca — Ci raccontò che il patrigno la trattava male perché voleva più bene alla sorellina». «C’era un rapporto sereno fino alla morte di mio figlio», aggiunge Concetta Galati, la mamma. In realtà la relazione si è già irrigidita dopo l’estate per la presenza sempre più costante di Giovanni Princi nella vita dei fidanzati: è scostumato, sembra in intimità con Nastia, organizza una festa dove gira molta erba di cui i genitori del 24enne verranno a sapere. Così Luca, coinvolto forse suo malgrado negli affari dell’amico che allettano la 25enne ucraina, si trova combattuto tra la paura di perdere la fidanzata e la lealtà verso la famiglia. Non dice ai genitori di essere stato fermato a metà ottobre con Princi e un narcotrafficante e quando il pm chiede se l’amico lo usasse come guardaspalle, il padre di Luca risponde: «Penso di sì». In quel periodo Anastasiya si allontana da casa Sacchi, lei e Luca si vedono in strada dopo cena ma cominciano a cercare casa. Prima da soli, poi con Princi e la sua fidanzata Clementina Burcea, che al momento di versare la caparra da 900 euro si presenta come una cugina di Luca, l’unico a fornire garanzie economiche con i 500 euro mensili del lavoro in palestra e i 1800 circa della casa del nonno fittata ai turisti. «Luca — ricorda la signora Concetta — mi disse che non voleva andare a vivere lontano da noi. Erano Anastasiya e Clementina che prendevano casa e lui, al più, poteva dormirci ogni tanto. Dissi ironicamente: “Devo farti la valigia?”. Lui mi rassicurò ma Anastasiya non mi parlò più». Le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo puntano ora a capire se Anastasiya abbia usato i soldi del fidanzato per operazioni illecite. Alfonso Sacchi denuncia la scomparsa del bancomat del figlio due giorni dopo il delitto, bloccandolo. Sul conto ci sono 20mila euro circa e il 10 ottobre Luca ne ha prelevati 4000 «per i ricambi della moto». La notte tra il 25 e il 26 ottobre Nastia resta a dormire lì un’ultima volta. Ma la mattina successiva, alle sette, esce ancora in pigiama senza dire nulla. Torna più tardi con la madre, ma trova in casa l’avvocato dei Sacchi e se ne va di nuovo. La sera scriverà alla suocera per dire che è con il patrigno malato di cuore. Una patologia alla quale mai aveva fatto cenno. È lo stesso patrigno che in questi giorni la accompagna in scooter a firmare in caserma, dribblando i fotografi. «Non l’abbiamo più vista — dice papà Sacchi —. Le abbiamo chiesto i codici per l’home banking e la gestione online della casa vacanza ma ci ha dato codici che non funzionavano. Li abbiamo dovuti cambiare». Il pm chiede anche della cassaforte di Luca: «Quando l’abbiamo aperta non c’era nulla. Non so se i soldi li ha presi lui». Per oltre un mese Anastasiya resta in silenzio e quando compare davanti al pm da indagata piange, ripete la parte della ragazza inconsapevole. «Anche Princi dormiva a casa Sacchi», dice mostrando una foto che lo ritrae assieme a Luca. Ma è alla luce giorno. Due settimane prima viene intercettata con un’amica mentre insulta pesantemente la suocera.

Luca Sacchi, la terrificante conversazione di Anastasiya e l'amica: "La madre di lui? 'Na cozza". Libero Quotidiano il 17 Dicembre 2019. Anche prima dell'omicidio di Luca Sacchi, i rapporti tra la fidanzata Anastasia Kylemnyk e i genitori di lui erano notevolmente peggiorati. A confermarlo una terrificante conversazione tra la 25enne e una sua amica, resa nota dal Nucleo Investigativo della Capitale. "Stai dalla famiglia di lui?" chiede la giovane ad una Anastasia che senza filtri risponde: "No, io ho scritto al fratello tutti questi giorni, non mi ha mai risposto". Ma non è finita qui, perché nella lunga conversazione - secondo i carabinieri - appare evidente che Anastasia prova un forte astio verso tutti i familiari di Luca. "Poi quella c'ha una famiglia piena di calabresi ignoranti, non si sa da dove vengono - aggiunge -. La madre di Luca non ha mai lavorato, non ha mai fatto nulla". E ancora sulla famiglia del giovane ucciso a Roma durante una compravendita di droga: "Sò tutte carucce, tutti carini, pure il padre de Luca è carino....lei è 'na cozza, 'na botte, dò cazzo va". Dall'informativa degli investigatori in Procura emerge anche - come spiega Il Giorno - che Luca litigava spesso con la fidanzata perché "fumava le canne". "In vacanza Concetta Galati (madre di Sacchi) e il marito Alfonso Sacchi erano andati a prendere il figlio Federico in un appartamento in uso a Giovanni Princi (amico di vecchia data della vittima e coinvolto nell'inchiesta sul delitto, ndr). Al loro arrivo si era affacciato solo il figlio Luca. Poi, dal figlio Federico la Galati apprese che quella sera Anastasia, Giovanni Princi e un'altra ragazza stavano fumando canne e per questo il figlio Luca si arrabbiava con loro". 

Omicidio Sacchi, la madre di Luca: "Rimproverava Anastasiya per la droga". Dall''informativa dei carabinieri emergono dissidi tra la famiglia del personal trainer ucciso il 23 ottobre e la fidanzata. La deposizione di Domenico Costanzo Marino Munoz, amico della vittima: "Ho percepito che Princi aveva avuto un ruolo nella vicenda criminale". La Repubblica il 16 dicembre 2019. I rapporti tra la famiglia di Luca Sacchi e Anastasia Kylemnyk erano degenerati negli ultimi mesi. E ancora di più, dopo l'omicidio. È quanto emerge dalla nuova informativa dei carabinieri del Nucleo Investigativo sull'omicidio del giovane personal trainer ucciso il 23 ottobre davanti al pub John Cabot nel quartiere Colli Albani di Roma depositata oggi dal pm Nadia Plastina al tribunale del Riesame. In particolare, il quadro teso, emerge da un'intercettazione del 3 novembre scorso tra la 25enne e una sua amica. L'amica le chiede: "Stai dalla famiglia di lui" e Anastasia risponde: "No, no io ho scritto al fratello tutti questi giorni, non mi ha mai risposto". "Nella lunga conversazione - si legge nell'informativa - appare evidente che Anastasia prova un forte astio verso tutti i familiari di Luca. "Poi quella c'ha una famiglia piena di calabresi ignoranti, non si sa da dove vengono". "La madre di Luca non ha mai lavorato, non ha mai fatto nulla". Nella conversazione con l'amica Anastasia, riferendosi al ristorante della famiglia Sacchi, aggiunge: "Sò tutte carucce comunque tutti carini, pure il padre de Luca è carino lei è 'na cozza, 'na botte dò cazzo va". Il dialogo, scrivono i carabinieri, "di nessun interesse per le indagini, evidenzia i degenerati rapporti tra Anastasia e la famiglia Sacchi. Verosimilmente peggiorati ulteriormente dopo la morte di Luca Sacchi". Dall'informativa emerge anche che Luca litigava con la fidanzata Anastasiya Kylemnyk perché questa "fumava le canne". "In vacanza Concetta Galati (madre di Sacchi) e il marito Alfonso Sacchi erano andati a prendere il figlio Federico Sacchi presso un appartamento in uso a Giovanni Princi. Al loro arrivo si era affacciato solo il figlio Luca. Poi, dal figlio Federico la Galati aveva appreso che quella sera Anastasia, Giovanni Princi e Clementina Florentina Burcea stavano fumando canne e per tale ragione il figlio Luca si arrabbiava con loro". "Poi, in un'altra occasione, - si legge nelle pagine dell'informativa - sempre in vacanza, andammo a prendere mio figlio Federico lì dove abita Princi e si affacciò solo Luca. Mi raccontò poi mio figlio Federico che Anastasia, Princi e la fidanzata fumavano canne e Luca si era arrabbiato". E, a causa dei suoi comportamenti, Anastasiya non frequentava più la casa della famiglia Sacchi dal mese precedente all'omicidio. "Concetta Galati - scrivono ancora i carabinieri - ha riferito al figlio Luca quanto appreso da Federico e, probabilmente a causa di cio', Anastasiya si era risentita. La teste associa quest'ultimo episodio al fatto che da settembre scorso Anastasia non ha più frequentato la loro casa. Infatti, il figlio Luca per incontrare la fidanzata, usciva dopo cena, contrariamente alla loro abitudine di restare in casa. Aggiunge poi che alla sua richiesta di chiarimenti il figlio Luca le aveva risposto 'mamma tu sei sempre nervosa ecco perché non viene'". "Anastasiya ha detto a Luca: 'tutto a posto'. Luca non ha detto nulla ma ha annuito con la testa. Io non ho chiesto nulla". È quanto ha raccontato Domenico Costanzo Marino Munoz, amico di Luca Sacchi, sentito come persona informata sui fatti nell'ambito dell'indagine. Il verbale dell'audizione è stato depositato dalla Procura di Roma nell'ambito dell'udienza davanti al tribunale del Riesame. Munoz ha raccontato quanto avvenuto prima e dopo lo sparo con cui il 23 ottobre scorso Valerio Del Grosso ha ucciso Sacchi. "Giovanni Princi (amico di Luca e arrestato per il tentativo di acquisto di droga ndr) ci ha salutato sul marciapiede di via Bartoloni mentre eravamo presenti io, Luca ed Anastasiya". Munoz racconta, quindi, che Anastasia "si è allontanata. Non  ho visto cosa facesse perché si trovava alle nostre spalle e avrà detto qualcosa a Luca che io non ho percepito. Anastasiya aveva lo zaino in spalla e credo che sia tornata indietro verso via Latina, ma non l'ho vista perché io e Luca avevamo già svoltato l'angolo su via Mommsen. La fidanzata di Luca dopo circa due minuti ci ha raggiunti e ha detto a lui: 'tutto a posto!". "Dopo la morte di Luca ho deciso di allontanarmi dagli amici perché, una sera dopo, Giovanni Princi mi ha detto di voler passare la serata con me per 'soffrirè la morte di Luca insieme, ma io palesando la voglia di stare solo con la mia fidanzata, ho declinato l'invito. La verità è che avevo intenzione di non incontrare Princi perché ho percepito che lui aveva avuto un ruolo nella vicenda criminale che ha portato alla morte di Luca", ha raccontato Munoz. "So che Luca ed Anastasiya avevano intenzione di convivere in un appartamento con Princi e la sua fidanzata. Ricordo che loro avevano visto già qualche appartamento. Che io sappia non lo avevano ancora trovato" ha concluso.

Delitto Sacchi, «Nel portafogli di Anastasiya dosi di drogagià confezionate». Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 su Corriere.it daFulvio Fiano, Rinaldo Frignani. Le nuove testimonianze depositate al tribunale del Riesame. «Nastia disse a Luca “Tutto ok”, lui annuì ed ebbi l’impressione che fosse. Anastasiya Kylemnyk custodiva dosi di erba già confezionate e diverse schede telefoniche nel portafogli che le è stato rapinato dai killer del suo fidanzato Luca Sacchi. E, secondo gli inquirenti, con i soldi della compravendita di droga puntava a prendere una casa in affitto. Sono alcuni dei nuovi elementi di prova depositati dal pm Nadia Plastina al tribunale del Riesame, al quale la 25enne ucraina si è rivolta per chiedere la revoca del suo obbligo di firma. I giudici si sono riservati la decisione. Il contenuto del portafogli, che era nello zainetto rosa assieme alle mazzette di soldi (70 mila euro), lo rivela il verbale de-omissato di Giorgia D’Ambrosio, la fidanzata di Valerio Del Grosso, il 21enne che ha fatto fuoco contro Sacchi il 23 ottobre: «All’interno — ha raccontato la ragazza ai carabinieri del Nucleo investigativo — vi erano degli involucri del diametro di circa un paio di centimetri, forse uno o due, che loro (Del Grosso e il complice Paolo Pirino, ndr) hanno in parte aperto. Vi era molto cellophane e conteneva hashish o marijuana, credo quest’ultima». La sua testimonianza viene ritenuta credibile perché trova riscontri in altre prove ed è l’ennesima conferma che Anastasiya ha mentito fin dall’inizio. Un altro testimone, Domenico Munoz, amico della coppia e presente quella sera al pub, aggiunge: «Nastia disse a Luca “Tutto ok”, lui annuì ed ebbi l’impressione che fosse qualcosa di illecito». Anastasiya dichiara al fisco un reddito da 290 euro mensili ma era pronta a prendere con Luca una casa in affitto in via Baronio a 900 euro mensili, anche se il fidanzato diceva alla mamma: «Ci andrò solo qualche volta». Lo rivela il titolare dell’agenzia immobiliare al quale la coppia si era rivolta, aggiungendo un particolare forse decisivo. Il 17 ottobre, una settimana prima della compravendita di 15 chili di erba, Nastia era tornata con una ragazza spacciata per la cugina di Sacchi e aveva versato la caparra. Si trattava in realtà di Clementina Burcea, fidanzata di Giovanni Princi, l’amico di Luca, il vero organizzatore dell’affare illecito, oggi detenuto. A suo carico, è stato svelato al Riesame, ci sono altre due inchieste per droga. E lui, assieme alla fidanzata, stava anche per comprare un B&B a Perugia a conferma della ampia disponibilità economica. Attorno alla figura di Princi, il rapporto tra Nastia e Luca si stava deteriorando. I due avevano litigato a una festa perché lei, assieme alla coppia di amici, fumava canne. Dopo questo episodio, raccontato ai Sacchi dal fratello di Luca, Federico, Nastia aveva smesso già da settembre di frequentare la casa del fidanzato dove pure era stata accolta come una figlia. «Sei sempre nervosa, ecco perché non viene», aveva detto Luca alla mamma. In una intercettazione del 3 novembre, annotano i carabinieri, si evidenziano «i degenerati rapporti». Anastasiya, parlando con una amica, afferma: «Io ho scritto al fratello (di Luca ndr) tutti questi giorni, non mi ha mai risposto». E ancora: «Quella (la signora, ndr) starà fuori di testa, c’ha una famiglia piena di ignoranti... ». E aggiunge commenti assai offensivi.

Valentina Errante e Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 17 dicembre 2019. Soldi, droga e morte. Si racchiude in tre parole la parabola che ha risucchiato Luca Sacchi in una strada senza uscita. Un epilogo in cui ha giocato un ruolo decisivo Anastasia Kylemnyk. La fidanzata ucraina accolta in casa Sacchi come una figlia. Di certo con i suoi 290 euro al mese, compenso che incassava in qualità di babysitter, non poteva permettersi di vivere da sola con il suo Luca. Eppure il 17 ottobre, una settimana prima dell'omicidio del personal trainer, la 25enne versa ad un agente immobiliare una caparra da 900 euro per l'affitto di un appartamento in zona Appio Latino. Da dove avrebbe ricavato questi soldi? Per i pm è possibile che la 25enne avesse intrapreso una nuova attività, lo spaccio. Di fatto dosi di marijuana, divise in involucri, e diverse sim per cellulare erano nel portafoglio di Anastasia. Il dato emerge dall'interrogatorio di Giorgia, la fidanzata di Valerio Del Grosso, che la sera del 23 ottobre (giorno dell'omicidio di Luca) ha visto il borsello rubato alla ragazza dal compagno e killer di Sacchi. Il verbale è stato depositato ieri al Riesame, proprio per puntellare l'accusa di detenzione ai fini di spaccio che pende sulla testa della giovane babysitter: «All'interno vi erano degli involucri di un paio di centimetri, uno o due e contenevano marijuana». Tutto ciò va ad intrecciarsi con una serie di dati che gli inquirenti, carabinieri e pm Nadia Plastina, hanno ricostruito. L'inizio di questa storia parte ad aprile. Nella vita di Sacchi irrompe la figura del 24enne Giovanni Princi. L'idea di incassare soldi facili avrebbe affascinato l'ucraina, con Sacchi che si sarebbe fatto risucchiare in questo affare. Il bancomat di Luca (che non si ritrova più) sarebbe stato utilizzato per finanziare alcuni acquisti. La stessa madre avrebbe chiesto al figlio conto di una serie di spese: «Mamma acquisto pezzi per la moto», la giustificazione. Mentre la Kylemnyk sarebbe riuscita, in questo modo, a sganciarsi dall'opprimente, per lei, casa Sacchi e trasferirsi, senza poterselo permettere, in una casa da 900 euro al mese: «La madre di Luca non ha mai fatto un c....», afferma astiosa la babysitter in una conversazione intercettata dopo il funerale del suo fidanzato. Ma il regista di tutto, come si è detto, sarebbe Princi. Un ragazzo che conta altre due indagini per spaccio. Il 24enne era uno che trattava con grossi fornitori di droga. A settembre la polizia aveva arrestato un suo grossista. Il ragazzo, però, non voleva uscire dal business. Perciò, il 13 ottobre, aveva incontrato, assieme a Sacchi, Fabio Casale, già condannato a 16 anni per stupefacenti. Casale, tuttavia, era reso conto che Princi era monitorato dalla polizia. Per questo aveva deciso di non averci più a che fare. E l'amico di Luca era finito a cercare marijuana a San Basilio, quartiere dove a Roma si trova droga senza problemi. Così aveva incontrato Del Grosso, innescando una serie di avvenimenti che porteranno ai fatti del 23 ottobre fuori dal pub John Cabot. Un luogo scelto non a caso da Princi per l'acquisto all'ingrosso di marijuana. Era qui, infatti, che vendeva droga al dettaglio. È stato un cliente dello stesso Princi ad indicare agli investigatori il dato. Un 20enne che, nelle ultime settimane, non era più riuscito a comprare dal suo storico spacciatore. Princi si sarebbe giustificato così: «Non hai visto alla tv (con riferimento a Sacchi) cosa è successo?». Gli affari però non si sarebbero interrotti, l'11 novembre scorso con la sua ragazza, Clementina Burcea, Princi chiama un agente immobiliare. La coppia è interessata all'acquisto di un b&b a Perugia. Con quali soldi hanno intenzione di comprare l'appartamento in Umbria? È questa la domanda che si fanno gli inquirenti.

Val. err. Per il Messaggero il 16 dicembre 2019. «Tutto a posto», così Anastasia aveva rassicurato Luca il 23ottobre dopo essersi allontanata dal gruppo e avere mostrato ai pusher i soldi che nascondeva nello zaino. È dal verbale di Domenico Costanzo Marino Munoz, l’amico di Luca Sacchi, che emerge come il personal trainer sapesse dell’affare in corso con gli spacciatori. «La sera dell’aggressione - si legge ancora - ho percepito che Luca, Anastasia, Giovanni Princi e le persone notate in via Latina stavano facendo qualcosa di poco lecito e, come da mia abitudine, ho preferito farmi i fatti miei». Tra gli atti depositati alRiesame ci sono anche le intercettazioni successive al delitto che raccontano i pessimi rapporti tra Anastasia e la famiglia di Luca.La ragazza parla con un’amica di Concetta Galati, madre del personal trainer. «Io ho scritto al fratello (di Lucandr) tutti questi giorni,non mi ha mai risposto», dice il 3 novembre, poi riferendosi alla donna aggiunge: «Quella c’ha una famiglia piena di calabresi ignoranti, non si sa da dove vengono. Non ha mai lavorato, non ha mai fatto nulla…lei è ‘nacozza,‘nabotte».

PRIMA DEL DELITTO. È Munoz invece a descrivere gli istanti che hanno preceduto il delitto di Sacchi: «Giovanni Princi (amico di Luca e arrestato per il tentativo di acquisto di droga ndr) ci ha salutato sul marciapiede di via Bartoloni mentre eravamo presenti io, Luca ed Anastasia». Anastasia «si è allontanata. Non ho visto  cosa facesse perché si trovava alle nostre spalle e avrà detto qualcosa a Luca che io non ho percepito. Anastasia aveva lo zaino in spalla e credo che sia tornata indietro verso via Latina, ma non l’ho vista perché io e Luca avevamo già svoltato l’angolo su via Mommsen». Poi aggiunge: «Dopo circa due minuti ci ha raggiunti e ha detto a lui: ‘tutto a posto!» E ancora: «Ritengo molto verosimile che avessero concordato una cessione o  l’acquisto di sostanze stupefacenti».

Da ilmessaggero.it il 16 dicembre 2019. Poco prima dell'omicidio Anastasia si rivolse a Luca dicendogli che era «tutto a posto». Lo ha raccontato Domenico Costanzo Marino Munoz, amico di Luca Sacchi, sentito come persona informata sui fatti nell'ambito dell'indagine sull'omicidio del giovane personal trainer avvenuto a Roma. «Anastasia ha detto a Luca: "tutto a posto". Luca non ha detto nulla ma ha annuito con la testa. Io non ho chiesto nulla», ha spiegato Munoz. Il verbale dell'audizione è stato depositato dalla Procura di Roma nell'ambito dell'udienza davanti al tribunale del Riesame. Munoz ha raccontato quanto avvenuto prima e dopo lo sparo con cui il 23 ottobre scorso Valerio Del Grosso ha ucciso Sacchi. «Giovanni Princi (amico di Luca e arrestato per il tentativo di acquisto di drog,a ndr) ci ha salutato sul marciapiede di via Bartoloni mentre eravamo presenti io, Luca ed Anastasia». Munoz racconta, quindi, che Anastasia «si è allontanata. Non ho visto cosa facesse perché si trovava alle nostre spalle e avrà detto qualcosa a Luca che io non ho percepito. Anastasia aveva lo zaino in spalla e credo che sia tornata indietro verso via Latina, ma non l'ho vista perché io e Luca avevamo già svoltato l'angolo su via Mommsen. La fidanzata di Luca dopo circa due minuti ci ha raggiunti e ha detto a lui: "tutto a posto"!».

Omicidio Sacchi a Roma, "Princi disse, 'Luca è morta facciamoci una birra e un panino'". Lo racconta il  padre del giovane ucciso a Colli Albani, ascoltato come testimone. "Anastasiya ci diede i codici dei conti di mio figlio sbagliati".  Gli audio delle telefonate tra il killer e De Propris per accordarsi sulla consegna della pistola del delitto. Rory Cappelli il 17 dicembre 2019 su La Repubblica. "Mio cugino Massimo mi ha raccontato che quando ho dato la notizia della morte di Luca, Giovanni Princi (l'uomo finito in carcere perché accusato del tentativo di acquisto di droga - ndr) ha detto: 'vabbè allora se è morto andiamo a farci una birra e un panino, che sto morendo di fame'". Lo racconta Alfonso Sacchi, padre di Luca, sentito come testimone dai pm di Roma che indagano sull'omicidio del figlio avvenuto davanti a un pub ai Colli Albani lo scorso 23 ottobre. Il verbale è stato depositato dalla Procura in occasione dell'udienza davanti al Riesame. "Penso che Princi portasse Luca con se per farsi sicurezza - aggiunge il padre -. Luca era molto alto, in perfetta forma fisica, inoltre era un patito di arti marziali, ciò non di meno, gli ho sempre insegnato la pazienza e l'autocontrollo". E a proposito della fidanzata del figlio, aggiunge: "Il conto di Luca non era cointestato, ma Anastasiya aveva i codici e poteva operare tranquillamente. Quando Luca è deceduto le abbiamo chiesto i codici, ma lei me ne ha mandato solo alcuni che non funzionavano. Anche quando abbiamo chiesto i codici per l'home banking e la gestione online della casa vacanza ci ha dato codici che non funzionavano. Tant'è che gli abbiamo dovuti cambiare tutti".  Parlando del conto corrente del figlio, Sacchi afferma: "Io penso che vi fossero tra i 15 ed i 20 mila euro. Ora ce ne dovrebbero essere circa 16 mila, ma non ho notato movimenti particolari, sospetti o ingenti. L'unico movimento un pò più grande è stato un prelievo di 4 mila euro il 10 ottobre. Ma quel giorno mi servivano duemila euro liquidi per coprire la rata del mutuo e li ho chiesti temporaneamente a Luca, che di fatto ne ha prelevati quattro mila". Il quadro di quella sera maledetta si completa ulteriormente con l'audio delle intercettazioni in cui Valerio del Grosso, il 21enne arrestato con l'accusa di aver ucciso Luca, parla con l'amico Marcello De Propris, anche lui in carcere. "Ascoltami, sto con un amico mio che conosci, bello fulminato...ma se invece io vengo a prendermi quella 'cosa' che mi hai detto ieri e glieli levo tutti e settanta? Poi ti faccio un bel regalo...".  La "cosa" a cui si riferisce, secondo gli investigatori, sarebbe la pistola che De Propris gli avrebbe poi consegnato. I "70" di cui parla, sarebbero, secondo la procura, i 70mila euro che Anastasya avrebbe avuto con sè nello zainetto poi rapinatole quella sera davanti al pub in zona Colli Albani, dove si trovava con il fidanzato Luca Sacchi e a un altro amico di lui, Giovanni Princi. Finito a Regina Coeli per una compravendita, poi finita tragicamente, di una ingente quantità di droga. Continuano intanto le polemiche tra i legali della famiglia di Luca Sacchi, Armida Decina e Paolo Salice, e uno dei testimoni chiave degli attimi che hanno precedeto l'uccisione del giovane personal trainer, Domenico Costanzo Marino Munoz, "alla sua terza dichiarazione". "Il testimone Munoz riferisce esclusivamente proprie impressioni non indicando alcun elemento concreto da cui poter desumere un eventuale e presunto coinvolgimento di Luca Sacchi nella vicenda. Questa è la terza dichiarazione diversa rilasciata da Munoz. Ciò che emerge, invece, in maniera inequivocabile, è che è stato lui a ritardare l'ingresso di Luca nel pub per via di una sigaretta, senza la quale il giovane Sacchi sarebbe entrato all'interno del locale e quasi certamente non si sarebbe imbattuto in Del Grosso". Munoz è stato nuovamente ascoltato come persona informata dei fatti il 6 dicembre scorso a piazzale Clodio dalla pm Nadia Plastina, titolare dell'inchiesta sulla morte del giovane avvenuta nella notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso davanti al John Cabot, pub in zona Appio, nella Capitale. "Nei giorni scorsi - spiegano ancora i legali della famiglia Sacchi - abbiamo convocato Munoz per essere ascoltato mediante indagini difensive, ma egli ha preferito non presentarsi senza addurre alcuna giustificazione".

Caso Sacchi, l'audio dell'intercettazione di Del Grosso: "Prendo quella cosa e glieli levo tutti e settanta". Repubblica tv il 17 dicembre 2019. "Ascoltami, sto con un amico mio che conosci, bello fulminato... ma se invece io vengo a prendermi quella 'cosa' che mi hai detto ieri e glieli levo tutti e settanta? Poi ti faccio un bel regalo…". E' stato diffuso dal Gr Rai l'audio dell'intercettazione in cui Valerio del Grosso, il giovane arrestato con l'accusa di aver ucciso Luca Sacchi, dialoga con l'amico Marcello De Propris, anche lui finito in cella. La 'cosa' di cui parla Del Grosso è la pistola che gli avrebbe dato De Propris.

Caso Sacchi, l'audio dell'intercettazione di Del Grosso: "Prendo quella cosa e glieli levo tutti e settanta". Repubblica tv il 17 dicembre 2019. "Ascoltami, sto con un amico mio che conosci, bello fulminato... ma se invece io vengo a prendermi quella 'cosa' che mi hai detto ieri e glieli levo tutti e settanta? Poi ti faccio un bel regalo…". E' stato diffuso dal Gr Rai l'audio dell'intercettazione in cui Valerio del Grosso, il giovane arrestato con l'accusa di aver ucciso Luca Sacchi, dialoga con l'amico Marcello De Propris, anche lui finito in cella. La 'cosa' di cui parla Del Grosso è la pistola che gli avrebbe dato De Propris.

Omicidio Sacchi, la madre di Luca: "Rimproverava Anastasiya per la droga". Dall''informativa dei carabinieri emergono dissidi tra la famiglia del personal trainer ucciso il 23 ottobre e la fidanzata. La deposizione di Domenico Costanzo Marino Munoz, amico della vittima: "Ho percepito che Princi aveva avuto un ruolo nella vicenda criminale". La Repubblica il 16 dicembre 2019. I rapporti tra la famiglia di Luca Sacchie Anastasia Kylemnyk erano degenerati negli ultimi mesi. E ancora di più, dopo l'omicidio. È quanto emerge dalla nuova informativa dei carabinieri del Nucleo Investigativo sull'omicidio del giovane personal trainer ucciso il 23 ottobre davanti al pub John Cabot nel quartiere Colli Albani di Roma depositata oggi dal pm Nadia Plastina al tribunale del Riesame. In particolare, il quadro teso, emerge da un'intercettazione del 3 novembre scorso tra la 25enne e una sua amica. L'amica le chiede: "Stai dalla famiglia di lui" e Anastasia risponde: "No, no io ho scritto al fratello tutti questi giorni, non mi ha mai risposto". "Nella lunga conversazione - si legge nell'informativa - appare evidente che Anastasia prova un forte astio verso tutti i familiari di Luca. "Poi quella c'ha una famiglia piena di calabresi ignoranti, non si sa da dove vengono". "La madre di Luca non ha mai lavorato, non ha mai fatto nulla". Nella conversazione con l'amica Anastasia, riferendosi al ristorante della famiglia Sacchi, aggiunge: "Sò tutte carucce comunque tutti carini, pure il padre de Luca è carino lei è 'na cozza, 'na botte dò cazzo va". Il dialogo, scrivono i carabinieri, "di nessun interesse per le indagini, evidenzia i degenerati rapporti tra Anastasia e la famiglia Sacchi. Verosimilmente peggiorati ulteriormente dopo la morte di Luca Sacchi". Dall'informativa emerge anche che Luca litigava con la fidanzata Anastasiya Kylemnyk perché questa "fumava le canne". "In vacanza Concetta Galati (madre di Sacchi) e il marito Alfonso Sacchi erano andati a prendere il figlio Federico Sacchi presso un appartamento in uso a Giovanni Princi. Al loro arrivo - si legge nell'informativa - si era affacciato solo il figlio Luca. Poi, dal figlio Federico la Galati aveva appreso che quella sera Anastasia, Giovanni Princi e Clementina Florentina Burcea stavano fumando canne e per tale ragione il figlio Luca si arrabbiava con loro". E, a causa dei suoi comportamenti, Anastasiya non frequentava più la casa della famiglia Sacchi dal mese precedente all'omicidio. "Concetta Galati - scrivono ancora i carabinieri - ha riferito al figlio Luca quanto appreso da Federico e, probabilmente a causa di ciò, Anastasiya si era risentita. La teste associa quest'ultimo episodio al fatto che da settembre scorso Anastasia non ha più frequentato la loro casa. Infatti, il figlio Luca per incontrare la fidanzata, usciva dopo cena, contrariamente alla loro abitudine di restare in casa. Aggiunge poi che alla sua richiesta di chiarimenti il figlio Luca le aveva risposto 'mamma tu sei sempre nervosa ecco perché non viene'". "Anastasiya ha detto a Luca: 'tutto a posto'. Luca non ha detto nulla ma ha annuito con la testa. Io non ho chiesto nulla". È quanto ha raccontato Domenico Costanzo Marino Munoz, amico di Luca Sacchi, sentito come persona informata sui fatti nell'ambito dell'indagine. Il verbale dell'audizione è stato depositato dalla Procura di Roma nell'ambito dell'udienza davanti al tribunale del Riesame. Munoz ha raccontato quanto avvenuto prima e dopo lo sparo con cui il 23 ottobre scorso Valerio Del Grosso ha ucciso Sacchi. "Giovanni Princi (amico di Luca e arrestato per il tentativo di acquisto di droga ndr) ci ha salutato sul marciapiede di via Bartoloni mentre eravamo presenti io, Luca ed Anastasiya". Munoz racconta, quindi, che Anastasia "si è allontanata. Non  ho visto cosa facesse perché si trovava alle nostre spalle e avrà detto qualcosa a Luca che io non ho percepito. Anastasiya aveva lo zaino in spalla e credo che sia tornata indietro verso via Latina, ma non l'ho vista perché io e Luca avevamo già svoltato l'angolo su via Mommsen. La fidanzata di Luca dopo circa due minuti ci ha raggiunti e ha detto a lui: 'tutto a posto!". "Dopo la morte di Luca ho deciso di allontanarmi dagli amici perché, una sera dopo, Giovanni Princi mi ha detto di voler passare la serata con me per 'soffrirè la morte di Luca insieme, ma io palesando la voglia di stare solo con la mia fidanzata, ho declinato l'invito. La verità è che avevo intenzione di non incontrare Princi perché ho percepito che lui aveva avuto un ruolo nella vicenda criminale che ha portato alla morte di Luca", ha raccontato Munoz. "So che Luca ed Anastasiya avevano intenzione di convivere in un appartamento con Princi e la sua fidanzata. Ricordo che loro avevano visto già qualche appartamento. Che io sappia non lo avevano ancora trovato" ha concluso.

Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 18 dicembre 2019. «Se Luca è morto andiamo a farci una birra e un panino che sto morendo di fame». È la notte del 23 ottobre. In parametri vitali di Luca Sacchi non rispondono più. Tuttavia l'amico Giovanni Princi, regista della compravendita di marijuana che ha generato una catena di avvenimenti che hanno condotto all'assassinio del personal trainer pensa ad altro. Questa frase l'avrebbe pronunciata in ospedale. L'affermazione raccolta da un testimone è stata poi riportata agli investigatori. Mentre l'indagine avanza spedita i genitori di Luca Sacchi si chiedono chi sia Anastasia Kylemnyk. La ragazza che per 5 anni ha vissuto sotto il loro tetto. Dalla morte del figlio, Alfonso e Concetta Galati correggono una serie di precedenti considerazioni sulla baby sitter 25enne. L'analisi adesso diventa critica, mentre sono ormai crollate le più solide giustificazioni a favore dell'ucraina. Ciò che all'inizio poteva sembrare un gesto dettato dalla disattenzione e dal dolore, adesso si trasforma in un comportamento sospetto. È Sacchi senior a spiegarlo al pm Nadia Plastina, e ai carabinieri di via In Selci, lo scorso sei dicembre. Il nodo della vicenda ruota attorno a dei codici che permettono di gestire un b&b, di proprietà della famiglia del personal trainer. Dati di cui disponeva, per volontà del ragazzo, anche Nastja. Un'attività che garantiva un reddito mensile intorno 1800 euro. La 25enne, sollecitata dai genitori del fidanzato a consegnarli, li avrebbe forniti sbagliati: «Quando Luca è deceduto le abbiamo chiesto i codici dell'home banking e la gestione on-line della casa vacanza, Anastasia ci ha dato codici che non funzionavano. Io penso che vi fossero tra i 15 e i 16 mila euro», sottolinea il padre di Luca. «Tant'è che li abbiamo dovuti cambiare tutti». I giorni successivi alla morte del figlio sono avvolti da altre condotte singolari. Il 25 e 26 ottobre l'ucraina, per volontà della Galati, dorme a casa dei Sacchi. Nel letto del suo Luca. «Ho tentato di averla vicina a me, per farci forza», ha spiegato la madre del ragazzo. Tuttavia «la mattina seguente, dopo le 7.00, Anastasia ancora in pigiama, è uscita da casa senza dire niente. È ritornata a casa qualche ora dopo, intorno alle 11.30». Ma i conti, per i Sacchi, non tornano anche su altre reazioni della 25enne. La giovane, dopo l'assassinio del fidanzato, è di nuovo fuori dal pub John Cabot, in compagnia di Giovanni Princi, l'amico di Sacchi che secondo gli inquirenti è il regista dell'acquisto della partita di droga. «Il tatuatore che ha il negozio di fianco al luogo dell'omicidio - spiega il padre della vittima - mi ha riferito che un'ora dopo la morte di Luca, Anastasia era lì insieme a una ragazza, che dalla descrizione penso fosse Clementina (fidanzata di Giovanni Princi, ndr), a parlare tra loro. Poi è arrivato un ragazzo, con uno scooter, che dalla descrizione mi è sembrato potesse essere Princi, ha caricato Anastasia ed il cagnolino e sono andati via». Ma ci sono altri conciliaboli tra Nastja e Clementina che innervosiscono perfino gli investigatori. A ricordare l'episodio è sempre Alfonso Sacchi: «I carabinieri avevano chiesto ad Anastasia di andare con loro. Anastasia e Clementina si sono fermate fuori dal pronto soccorso (dopo la morte di Luca, ndr) a parlare per più di un quarto d'ora, tant'è che il carabiniere ha dovuto cercarla e non trovandola si era anche un pò stranito». Ci sono poi i movimenti sul conto corrente di Luca del 10 ottobre. Due settimane prima dell'omicidio. Il pm insiste su questo dato. Perché, in sostanza il ragazzo preleva 4mila euro. Il padre fornisce questa spiegazione agli inquirenti: «L'unico movimento un po' più grande è stato un prelievo di 4 mila euro. Ma quel giorno mi servivano 2 mila euro liquidi per coprire la rata del mutuo e li ho chiesti temporaneamente a Luca, che difatti li ha prelevati 4 mila. Alla fine della giornata me ne sono serviti solo mille che Luca mi ha dato», sottolinea il padre. Resta l'interrogativo sui tremila euro, e su come il giovane li abbia spesi. Inoltre Luca e il fratello avevano in casa un cassaforte. «L'avete aperta? Vi erano soldi? Avete notati ammanchi?», domandano i carabinieri. «Quando l'abbiamo aperta non c'era nulla», rispondono i genitori in coro. Padre e madre che, tuttavia, non erano stati informati dal figlio di un controllo che aveva subito il 13 ottobre dalle forze dell'ordine, in un'inchiesta della Dda. Aveva accompagnato Princi da Fabio Casale (precedenti per spaccio), probabilmente per parlare di droga. 

Tutte le bugie dietro la morte di Luca Sacchi. Le bugie di Anastasiya, le giravolte, le imprecisioni, le fantomatiche ricostruzioni, le rivelazioni poi smentite dai fatti. Ecco i punti che non tornano. Michele Di Lollo, Giovedì 19/12/2019, su Il Giornale. In principio fu una ragazza e bella e dannata dell’est Europa. Bionda e con gli occhi di ghiaccio. Picchiata con una mazza da baseball davanti a un pub. Il suo ragazzo si chiama Luca, Luca Sacchi. È un eroe. È morto per salvarla da due aggressori maledetti che provengono dalla periferia della capitale. Roma piange l’ennesimo atto violento avvenuto in piena notte il 23 ottobre del 2019. Lei sarebbe viva solo grazie al suo fidanzato, e provata dai terribili fatti, esce in tutte le tv straziata, piangente e dolorante per quanto avvenuto. “Ci hanno aggredito, mi hanno rapinato dello zaino e Luca è intervenuto per proteggermi”. Si chiama Anastasiya Kylemnyk e quello che afferma sarà smontato giorno dopo giorno, ora dopo ora, dagli inquirenti. Ma andiamo con ordine. Un colpo di pistola viene esploso e ad avere la pistola fumante in mano è Valerio Del Grosso. È sua madre a decidere di presentarsi al commissariato di polizia di San Basilio, perché stavolta il figlio ventunenne ha compiuto un gesto irreparabile, dal quale è impossibile tornare indietro: sparare contro un giovane a sangue freddo per una vendita di droga andata male. La frase con cui si presenta al commissariato è questa: “Credo che mio figlio c’entri con la morte di quel ragazzo dell’Appio Latino. Ha fatto una cazzata”. Questo non è il primo errore. Da tempo Valerio frequenta giri poco raccomandabili. Paolo Pirino, del resto, l’altro fermato pure lui ventunenne, è noto per aver precedenti per droga e spaccio. Interrogato, Del Grosso spiega di non aver voluto uccidere Luca, di non aver mai impugnato una pistola prima di quella sera, di aver sparato solo per spaventare il 24enne. Le prime dichiarazioni di Anastasiya non convincono gli inquirenti, dicevamo. Sentono il cattivo odore della bugia. Per smentire l’ipotesi del fidanzato-eroe giustiziato da un bandito scende in campo addirittura il capo della polizia Franco Gabrielli, rivelando a poche ore dall'omicidio che si tratta di tutt’altra storia. A quasi due mesi, sono ancora numerosi i misteri sulla vicenda. Nastia (così la chiamano gli amici) è protagonista di troppe incongruenze: ecco cosa non torna nel racconto della giovane. Afferma fin da subito di essere stata vittima di una rapina per poche decine di euro. Questo, secondo la giovane, sarebbe la cifra contenuta nel suo zaino. La storia colpisce per la sua crudeltà: un ragazzo ammazzato con un colpo di pistola alla testa per poche centinaia di euro. Ma il trascorrere delle ore lascia emergere un’altra verità. Le telecamere della zona evidenziano che Anastasiya e Luca non sono soli quella notte. Insieme a loro, infatti, c’è anche Giovanni Princi, amico del liceo della vittima con precedenti per droga. Insieme incontrano un paio di persone che si scopriranno essere i mediatori dei pusher Simone Piromalli e Valerio Rispoli. Confabulano qualcosa, mentre lei, Anastasiya, entra ed esce dalle inquadrature, sempre con il suo zaino sulle spalle. L’arresto dei due colpevoli, i pusher Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, chiarisce un aspetto fondamentale: quella sera, davanti il pub John Cabot, è in atto una trattativa per una compravendita di droga: 15 chili di marijuana in cambio di 70mila euro in contanti. I due pusher, però, all’ultimo momento decidono di far saltare la compravendita, rubando i soldi ai ragazzi senza vendere loro l'erba. Così viene fuori che nello zaino di Anastasiya non si trovano ammassati poche decine di euro, ma migliaia di euro. Una cifra che lei afferma di non aver mai avuto e che potrebbe essere finita nel suo zaino perché messa lì da Giovanni Princi. Eppure non è la sola cosa che non torna nel racconto della ragazza. La giovane, infatti, racconta di essere arrivata al pub a piedi quella sera, mentre la sua automobile, una Citroen C1, risulta parcheggiata proprio accanto al John Cabot. Perché mentire? Tante le questioni aperte. Perché lo ha fatto? Forse i soldi che servivano ad acquistare la droga e che non sono mai stati ritrovati, si trovavano dentro la macchina di Anastasiya? E dove hanno raccolto quella cifra? C’era un finanziatore oscuro o si tratta di una colletta da moltiplicare attraverso lo spaccio? Nastia e Princi stanno coprendo qualcuno? Ma soprattutto, perché lei (donna dal sangue freddo) non dice ai magistrati quello che sa? Ha forse paura? Interrogata in procura lei sostiene che probabilmente quella sera i soldi che le vengono sottratti da Valerio Del Grosso e Paolo Pirino servono per comprare una moto rubata. Ennesima dichiarazione smentita dai fatti. Poi un altro interrogativo importante. Che fine ha fatto la pistola? Del Grosso, autore dello sparo, fa ritrovare alcuni oggetti legati all’indagine: lo zainetto rosa e il portafoglio di Nastia, un bossolo di proiettile, la spranga usata da Pirino. Ma annuncia di aver polverizzato l’arma, un revolver calibro 38, con un frullino. Versione poco credibile secondo i carabinieri che ancora cercano la pistola dopo aver arrestato chi l’ha fornita, ovvero Armando e Marcello De Propis, in carcere con i due killer e con Giovanni Princi. Ma se padre e figlio finora non parlano, quest’ultimo rilascia qualche dichiarazione. Per chi indaga Princi è il committente della partita di droga, complice di Nastia e forse anche di Luca, secondo l’amico comune Costanzo Domenico Marino Munoz (testimone chiave). Quest’ultimo accusa i due giovani fidanzati di aver partecipato a una compravendita di droga con Princi e altri due personaggi. Princi, fuggito subito dopo l’agguato, incastrato da recenti testimonianze che lo indicano come pusher, afferma di essersi trovato nel pub al momento dello sparo. Le telecamere lo filmano invece all’esterno, con Piromalli e Rispoli, quando Del Grosso apre il fuoco. Resta un solo decisivo nodo da chiarire. E riguarda la figura di Luca che dalle analisi tossicologiche non era assuntore abituale di sostanze stupefacenti. È davvero un bravo ragazzo finito nei guai senza volerlo veramente? Era al corrente dell’attività della fidanzata? La famiglia del personal trainer ucciso attende giustizia. E questa è l’unica verità, per ora accertata, sulla scena del crimine.

Il Riesame respinge i ricorsi di Anastasiya  e Princi. Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 da Corriere.it. Il tribunale del Riesame ha respinto i ricorsi presentati da Anastasiya Kylemnyk e Giovanni Princi per le misure cautelari alle quali sono sottoposti dal 29 novembre in relazione alle indagini sull’omicidio di Luca Sacchi. La 25enne ucraina è sottoposta all’obbligo di firma tre giorni a settimana, mentre Princi è in carcere. Per entrambi l’accusa è detenzione e spaccio di droga. La fidanzata della vittima si è fatta interrogare dopo l’ordinanza del gip ma non è apparsa convincente, anzi le sue affermazioni vengono giudicate «lacunose e inverosimili». Princi invece si è avvalso della facoltà di non rispondere. Anche uno dei killer, Valerio Del Grosso, aveva fatto ricorso al Riesame, ma poi ha rinunciato. Assieme a Paolo Pirino è detenuto dal 24 ottobre con l’accusa di omicidio e rapina, reati ai quali si è aggiunto lo spaccio successivamente. Detenuti anche Marcello De Propris per il concorso in omicidio e suo padre Armando per spaccio e detenzione di arma illegale.

Camilla Mozzetti per il Messaggero il 19 dicembre 2019. Potrebbe apparire come l'estremo e irrazionale tentativo di un padre, dilaniato dal dolore, che spinge la difesa oltre la ragione per non macchiare la memoria di un figlio morto ammazzato dal colpo di un revolver calibro 38. Potrebbe esser questo Alfonso Sacchi: un uomo che continua a parlare di Luca come di una persona che con la droga «Non aveva nulla a che fare», accecato dalla sola e unica esigenza di difenderne il ricordo adesso che il ragazzo non può più spiegare cosa si nasconde dietro il suo omicidio. Eppure Alfonso che venerdì sarà alla testa di una fiaccolata in ricordo di Luca , parla con lucidità, ricostruendo momenti ed episodi, negli stessi giorni in cui i principali protagonisti della tragedia Anastasia Kylemnyk, fidanzata del figlio, Giovanni Princi, suo ex compagno di scuola, e Domenico Munoz, amico di tutti restano in silenzio o chiamano in causa Luca o cambiano versione di fronte agli inquirenti. Parole che si sommano a parole mentre mancano riscontri oggettivi per poter davvero inserire il personal trainer nel novero dei colpevoli che avevano orchestrato la trattativa per l'acquisto di droga a 70 mila euro. Signor Sacchi partiamo dal rapporto che aveva suo figlio con Giovanni Princi e soprattutto da quello tra Anastasia e l'ex compagno di scuola di Luca. «Dai tabulati telefonici sembrerebbe che siano emerse telefonate notturne tra Anastasia e Princi. Per quale motivo si sentivano di notte? Quest'estate, quando eravamo in vacanza in Veneto e Princi con la fidanzata Clementina si sono uniti a noi, Anastasia e Giovanni furono trovati da Luca mentre fumavano dell'erba. Mio figlio si arrabbiò e le disse: Non mi interessa cosa fa Giovanni ma tu non devi fumare. Credo che tra i due ci fosse una sorta di complicità, percepita anche da mia moglie».

Quindi suo figlio non avrebbe mai partecipato a una trattativa per l'acquisto di marijuana o cocaina?

«Luca era lontano da queste cose, ma credo che non potesse controllare altre persone e obbligarle a usare un determinato comportamento».

La sera dell'omicidio dopo la trattativa con gli intermediari di Valerio Del Grosso, Anastasia, che avrebbe mostrato loro il denaro per la droga, si è riavvicinata a Luca e a Domenico Munoz dicendo È tutto ok.

«A chi l'ha detta questa frase? A Luca o a Domenico? Munoz, sia chiaro è stato presentato a mio figlio da Giovanni, ed ha cambiato versione più volte di fronte agli inquirenti».

E questo le fa credere che abbia mentito?

«Se non mentissero tutti, la sera stessa avrebbero detto come sono andate le cose che stanno emergendo».

Lei non prende in considerazione l'ipotesi che Luca fosse coinvolto?

«Conoscevo mio figlio, al massimo penso che forse per il bene che voleva ad Anastasia quella sera sia uscito nonostante il mal di schiena per capire cosa stesse succedendo». 

Suo figlio fu fermato per un controllo con Princi e un pregiudicato per droga, Fabio Casale.

«Non mi risulta ci sia stato altro rispetto a un'identificazione».

Nei giorni dopo l'omicidio avete avuto dei problemi ad accedere al conto bancario di suo figlio.

«Anastasia aveva tutte le credenziali sia dell'home-banking sia della casa vacanze, le abbiamo chiesto i codici e ce li ha dati sbagliati».

Quando gliel'avete chiesti?

«Dopo qualche giorno».

Non può essere che avete digitato male o vi siete confusi?

«Li abbiamo provati tutti, erano sbagliati».

Quanto denaro c'era sul conto?

«Tra i 15 e i 18 mila euro. La cifra che mi disse Luca prima di morire».

L'ultima transazione eseguita?

«Qualche giorno prima Luca prelevò 4 mila euro. Mille me li diede per la rata del mutuo del ristorante, con il resto ha acquistato uno scooter di seconda mano di cui sono intestatario dell'assicurazione». 

Giovanni Princi, appresa la morte di Luca, pare abbia detto: «Se è morto andiamo a farci una birra e un panino che sto morendo di fame». Come giudica questo comportamento?

«Sono stato io a uscire dalla terapia intensiva e a comunicare a tutti la morte di mio figlio. In una saletta lì vicino c'erano Giovanni, Clementina, Domenico e Anastasia. Chi era lì di fronte ha sentito Princi pronunciare quella frase che non è commentabile».

E Anastasia la notte della sparatoria come si è comportata?

«È arrivata tardi in ospedale, diceva che era trattenuta dai carabinieri. L'ho chiamata tre volte perché ero preoccupato, se uno ti ha colpito in testa puoi avere una commozione, poi è arrivata in ambulanza dopo più di un'ora ma chi era al pub non ne ha vista una seconda dopo quella che ha portato via Luca. Dove l'ha presa?».

Le parole di Anastasiya al telefono: «Luca aveva parenti ignoranti». Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. È una lunga conversazione telefonica, ripresa dai carabinieri del Nucleo investigativo lo scorso 3 novembre. I carabinieri? «Venduti»; i giornalisti? «Dei rompicoglioni»; l’Italia?: «Un paese con leggi di m...». Dietro le bugie disseminate fin dalle prime ore sull’omicidio del suo fidanzato Luca Sacchi c’è un unico momento in cui Anastasiya sembra emergere davvero per come è e per ciò che pensa. Accade il 3 novembre nel corso di una lunga conversazione telefonica, intercettata da carabinieri del Nucleo investigativo, tra la 25enne ucraina, chiusa in casa da una settimana per evitare i giornalisti (non andrà neanche al funerale del personal trainer né tantomeno si presenterà dal pm a dire ciò che sa) e una sua amica. Sono le 15.52 e dopo i convenevoli l’amica chiede ad Anastasiya se è a casa o da parenti della madre. La 25enne, che parla in romanesco, ribatte: «No, stiamo un po’ fuori, vicino a Rocca Priora». Il motivo? L’insistenza di fotografi e cameramen sotto l’abitazione della mamma e del patrigno, dove è tornata a dormire per i dissidi nati dopo l’estate con i genitori di Luca: «Stanno là sotto, attaccati al citofono...». «Tua madre che dice del fatto che vengono a rompere i coglioni?», chiede l’amica. «E niente, non ce la faceva più manco lei. Stavano a esagera’, sempre là sotto, nessuno se poteva move (muovere, ndr). Finché stanno per strada non possono fa’ niente. Le classiche leggi di m... italiane, no?». Il riferimento è agli eventuali strumenti per allontanare i giornalisti. Nastia si sente sotto assedio. «Non ce la faccio a usci’, c’ho paura che me li trovo pure qua, che ne so... i carabinieri tanto so’ i primi venduti, che ne so, me geolocalizzano, capito, dicono... So’ stati loro a di’ tutto...». La conversazione si sposta sui funerali di Luca. Anastasiya non ha notizie né intende chiederle alla famiglia Sacchi: «Non so manco come chiamarli, boh, non c’ho idea, cioè visto come se sta a mette tutto, anzi come gliel’ha messo l’avvocato loro». È l’unico passaggio in cui fa cenno all’inchiesta e sembra non riuscire a spiegarsi i dubbi che montano sempre più attorno al suo ruolo. «La madre sta incazzata? - chiede quasi incredula -. Con chi, con me?». Dopo alcuni apprezzamenti pesanti sui coniugi Sacchi e il consiglio dell’amica di vedere come evolve la situazione, Anastasiya le confessa di temere l’incontro con la mamma di Luca: «Viene da una famiglia di calabresi ignoranti». Dopo altre malignità sulla famiglia della vittima, alle 16.11 le due si salutano. In mezz’ora nessun cenno al delitto o al dolore per la morte di Luca. Nastia torna a parlare il 3 dicembre davanti al pm Nadia Plastina quando ormai la sua posizione è compromessa. È sottoposta all’obbligo di firma e al magistrato che ormai non ha più nulla da chiederle date le prove raccolte, racconta di nuovo che quella sera era lì a piedi con Luca solo per vigilare sul fratello minore di quest’ultimo. Di non sapere dei soldi nel suo zaino né tantomeno della droga. Insinua però che i genitori di Luca mentono, soprattutto riguardo ai loro dubbi sulla figura di Giovanni Princi. «Era di casa anche lui e alle volte si fermava a dormire lì», dice la 25enne, che produce una foto come teorica prova di quello che dice. Ci sono Luca e Princi assieme nella camera del primo, ma lo scatto è di giorno e non dimostra niente. Secondo i genitori di Luca, la ragazza che oltre quattro anni prima avevano accolto in casa, mentirebbe anche su altri punti. Intanto, come riferito loro da un testimone presente sulla scena del delitto, non sarebbe vero che lei è salita sull’ambulanza che ha portato il 24enne ormai in fin di vita all’ospedale San Giovanni. Qui la ragazza sarebbe arrivata, come riferiscono altre persone presenti davanti al pronto soccorso, solo un’ora dopo, accompagnata in scooter da Giovanni Princi e già con il collarino indossato. Va detto che in quelle fasi concitate i ricordi di chi era coinvolto emotivamente nella vicenda possono essere confusi ed è un fatto che poi la ragazza è stata refertata lì al San Giovanni per le bastonate subite nella rapina. L’altra circostanza portata all’attenzione del pm dai genitori di Luca sono i movimenti di Nastia la mattina successiva al delitto. «Ci chiese di poter usare la nostra Panda, sembrava agitata». Sono le ore in cui il cerchio si stringe sugli assassini e le bugie cominciano a cadere.

Camilla Mozzetti e Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 20 dicembre 2019. Sicuramente amici. Forse complici nella trattativa per l'acquisto di droga. Di certo affiatati. È ancora avvolto dalla penombra il rapporto tra Anastasia Kylemnyk e Giovanni Princi, rispettivamente fidanzata ed ex compagno di scuola di Luca Sacchi, freddato la sera del 23 ottobre dal proiettile di un revolver calibro 38. I genitori del personal trainer in questi giorni, anche di fronte alla pm Nadia Plastina, hanno raccontato diversi episodi che lascerebbero intendere una singolare sintonia tra i due per i quali ieri il Riesame ha respinto la richiesta di scarcerazione, presentata dall'avvocato di Giovanni Princi, e quella relativa al ritiro dell'obbligo di firma per Nastja. La baby-sitter ucraina e lo studente di Psicologia la notte prima del delitto hanno trascorso diverse ore insieme senza spiegare cosa hanno fatto e perché. È la madre di Sacchi, Tina Galati, a raccontarlo negli uffici del Nucleo investigativo dei carabinieri di via In Selci: «Il 22 ottobre mi accorsi che Luca aveva preso dalla finestra il cane di Anastasia e mi colpì il fatto che la ragazza non mi avesse nemmeno salutata». Anastasia prende e va via. Lascia il cane e sparisce. «Luca prosegue la madre mi disse che sarebbe tornata ma aveva da fare». È quasi l'ora di cena ma di Nastja non c'è traccia. Né una telefonata per avvisare di un possibile ritardo, né un messaggio. «Dopo due ore chiesi ancora a mio figlio dove fosse Anastasia e lui mi disse che era andata a prendere Giovanni Princi, che avrebbero cenato a casa». Luca era rimasto da solo e si preoccupava di chiedere alla madre se ci fossero in frigo le uova perché Giovanni non mangia la carne. E nonostante la tavola fosse apparecchiata e le uova pronte a essere rotte in padella, dei due non si è saputo nulla. La signora Tina vede l'orologio e si accorge che il tempo continua a passare. «Visto che era quasi mezzanotte prosegue la madre di Sacchi ho ironizzato sul fatto che era passato molto tempo e ho chiesto dove abitasse (Princi ndr), venendo a sapere che era lì vicino». Da casa di Luca a quella di Princi, passando per viale Furio Camillo, ci vogliono in macchina meno di dieci minuti. Luca percepisce il motivo di quella domanda rivolta dalla madre che già in estate l'aveva messo in guardia raccontandogli una strana sintonia tra Anastasia e Giovanni, percepita quando tutti erano in vacanza in Veneto. E il personal trainer le risponde: «Guarda che io so quello che faccio». La madre di Luca decide di andare a dormire «Mi sono disinteressata della cena, salvo alzarmi perché non vedevo Luca che era giù in garage e che mi ha detto che stava ritornando». Riappare anche Nastja. Ma era con Princi e Luca nel garage o i due sono arrivati subito dopo? «La ragazza mi ha bussato alla porta per salutarmi dicendo che aveva fatto tardi per l'arrivo di clienti alla casa vacanze. Dietro c'era Princi». La signora Tina spegne la luce e si addormenta mentre i ragazzi iniziano a cenare. Ma non lascia cadere la cosa e punta a verificare se la giustificazione di Anastasia è credibile. «In realtà abbiamo controllato, ma dopo il fatto, che non era vero. I clienti erano arrivati di pomeriggio». E non in tarda serata come raccontato dalla baby-sitter. Intanto in fase di accertamenti irripetibili è spuntata una chiave nel portafogli di Nastja avvolta in un fazzoletto. Una chiave che per forma, potrebbe aprire un mobile, un cassetto ma anche la porta di un ripostiglio o di una cantina. Perché custodirla così accuratamente?

Delitto Sacchi, i pm:  «Princi aveva i soldi per poter acquistare la droga». Pubblicato sabato, 21 dicembre 2019 su Corriere.it da Giulio De Santis. Fiaccolata della famiglia di Luca. La mamma: «Tutti i responsabili adesso vadano in galera». I settantamila euro necessari a chiudere l’affare per l’acquisto di 15 chili di marijuana la sera della morte di Luca Sacchi, sono stati finanziati da Giovanni Princi. Sarebbero pertanto del 24enne laureato in psicologia i soldi finiti nello zainetto di Anastasiya, la fidanzata di Luca, poco prima dell’omicidio del personal trainer. La procura ritiene che Princi avrebbe accumulato le risorse economiche per investire in prima persona nella trattiva, senza il sostegno di una terza persona. La conclusione degli inquirenti, che ancora stanno vagliando i conti del ragazzo, nasce dall’incrocio con un’altra indagine, sempre inerente al traffico di stupefacenti, in cui è indagato Princi, in carcere dallo scorso 29 novembre per l’affare tragicamente fallito due mesi fa. Se, in questa fase, Princi emerge come il kingmaker dell’intero negoziato intrecciato con il killer di Sacchi, Valerio Del Grosso e il suo braccio destro Paolo Pirino, più nebuloso e sfumato appare il ruolo di Anastasiya, che resta indagata come lui per detenzione e spaccio. Non avrebbe però partecipato economicamente all’affare. Cosi come pertanto la procura esclude allo stato delle indagini che dietro l’operazione ci sia un finanziatore occulto, in parallelo non risulta che la fidanzata di Luca abbia consegnato, o promesso di consegnare in una seconda fase, soldi a Princi per comprare la droga. Certo la situazione è fluida. Per ora va sottolineato come Princi, prima del tragico 23 ottobre quando Luca Sacchi è stato ucciso, stava progettando di comprare un B&B in Umbria, a conferma delle risorse economiche di cui sarebbe stato in possesso. Sul versante di Anastasiya, il pm Nadia Plastina sta svolgendo accertamenti intorno ai punti interrogativi sollevati dai genitori di Luca. Perché Anastasiya avrebbe dato – come sostiene il padre di Sacchi, Alfonso - i codici sbagliati per l’home banking e la gestione online della casa vacanza gestita da Luca, quando gli sono stati chiesti dai genitori del 24enne? Dalla cassaforte del ragazzo, i soldi sarebbero spariti, come hanno raccontato il papà e la mamma di Luca: li avrebbe presi Luca, oppure Anastasiya? Ancora: il bancomat di Sacchi è scomparso casualmente nelle ore concitate seguite all’omicidio? Oppure la sparizione è un altro dei misteri? Le indagini dei carabinieri mirano a chiarire se Nastia abbia compiuto degli accessi sul conto di Luca per prendere il denaro e poi utilizzarlo in operazioni illecite. Intanto ieri pomeriggio si sono ritrovate in via Macedonia, quartiere Appio Latino, circa cento persone per la fiaccolata in ricordo di Luca. Concetta Galati, la mamma di Luca, ha detto: «Tutti i responsabili della morte di Luca paghino il loro conto con la giustizia».

Delitto Sacchi, «Anastasiya e Princi insieme la sera prima della morte di Luca». Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 su Corriere.it da F. Fiano. Da «ragazzina timida» ad astiosa nuora. Che insulta la suocera dopo la morte del figlio e restituisce sbagliati i codici dei conti online. Nella parabola di Anastasiya Kylemnyk è racchiusa l’ultima verità sul delitto di Luca Sacchi. Verbali e nuovi riscontri depositati al Riesame dal pm Nadia Plastina gettano ulteriori ombre su di lei. La mamma di Luca riferisce infatti che la sera prima della morte del fidanzato, Ansatasiya si vide con Princi. Fatto, questo, che la insospettì e sul quale non hanno ancora dato spiegazioni. «Il 22 ottobre mi accorsi che era uscita senza nemmeno salutarmi e lasciando a Luca il suo cane - ha spiegato Concetta Galati ai carabinieri del Nucleo investigativo - Alla mia richiesta di spiegazioni sull’assenza anche a cena di Nastia (che con Princi si è vista negare dal Riesame il ricorso contro l’obbligo della firma e lui, per la scarcerazione), Luca mi disse che era andata a prendere Giovanni Princi e sarebbero arrivati insieme, ma a mezzanotte ancora non si vedevano e quindi ho ironizzato sul fatto che l’amico abitasse molto lontano». Luca sapeva dei sospetti della madre che lo aveva già messo in guardia sulla “sintonia” che aveva notato tra i due, al rientro dalle vacanze estive, tanto che il 24enne si era difeso dicendole «io so quello che faccio». La signora Tina fa mettere agli atti che dopo molte ore «la ragazza venne a bussare alla mia porta per salutarmi dicendo che aveva fatto tardi per l’arrivo di clienti alla casa vacanze. Dietro c’era Princi». La scusa di Nastia non la convince e quindi fa quello che molte mamme davanti alle fastidiose sensazioni di dubbio e sospetto fanno, quindi verifica. «In realtà abbiamo controllato, ma dopo il fatto, e non era vero. I clienti erano arrivati nel pomeriggio». «Sembrava una brava ragazza — ricorda Alfonso Sacchi, il padre di Luca — Ci raccontò che il patrigno la trattava male perché voleva più bene alla sorellina». «C’era un rapporto sereno fino alla morte di mio figlio», aggiunge Concetta Galati, la mamma. In realtà la relazione si è già irrigidita dopo l’estate per la presenza sempre più costante di Giovanni Princi nella vita dei fidanzati: è scostumato, sembra in intimità con Nastia, organizza una festa dove gira molta erba di cui i genitori del 24enne verranno a sapere. Così Luca, coinvolto forse suo malgrado negli affari dell’amico che allettano la 25enne ucraina, si trova combattuto tra la paura di perdere la fidanzata e la lealtà verso la famiglia. Non dice ai genitori di essere stato fermato a metà ottobre con Princi e un narcotrafficante e quando il pm chiede se l’amico lo usasse come guardaspalle, il padre di Luca risponde: «Penso di sì». In quel periodo Anastasiya si allontana da casa Sacchi, lei e Luca si vedono in strada dopo cena ma cominciano a cercare casa. Prima da soli, poi con Princi e la sua fidanzata Clementina Burcea, che al momento di versare la caparra da 900 euro si presenta come una cugina di Luca, l’unico a fornire garanzie economiche con i 500 euro mensili del lavoro in palestra e i 1800 circa della casa del nonno fittata ai turisti. «Luca — ricorda la signora Concetta — mi disse che non voleva andare a vivere lontano da noi. Erano Anastasiya e Clementina che prendevano casa e lui, al più, poteva dormirci ogni tanto. Dissi ironicamente: “Devo farti la valigia?”. Lui mi rassicurò ma Anastasiya non mi parlò più». Le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo puntano ora a capire se Anastasiya abbia usato i soldi del fidanzato per operazioni illecite. Alfonso Sacchi denuncia la scomparsa del bancomat del figlio due giorni dopo il delitto, bloccandolo. Sul conto ci sono 20mila euro circa e il 10 ottobre Luca ne ha prelevati 4000 «per i ricambi della moto». La notte tra il 25 e il 26 ottobre Nastia resta a dormire lì un’ultima volta. Ma la mattina successiva, alle sette, esce ancora in pigiama senza dire nulla. Torna più tardi con la madre, ma trova in casa l’avvocato dei Sacchi e se ne va di nuovo. La sera scriverà alla suocera per dire che è con il patrigno malato di cuore. Una patologia alla quale mai aveva fatto cenno. È lo stesso patrigno che in questi giorni la accompagna in scooter a firmare in caserma, dribblando i fotografi. «Non l’abbiamo più vista — dice papà Sacchi —. Le abbiamo chiesto i codici per l’home banking e la gestione online della casa vacanza ma ci ha dato codici che non funzionavano. Li abbiamo dovuti cambiare». Il pm chiede anche della cassaforte di Luca: «Quando l’abbiamo aperta non c’era nulla. Non so se i soldi li ha presi lui».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 21 dicembre 2019. Settantamila euro si sarebbero trasformati ben presto in 150 mila euro. Avrebbero più che raddoppiato il capitale di partenza. Dai soldi investiti per comprare all' ingrosso i 15 chilogrammi di marijuana, il gruppo guidato da Giovanni Princi, avrebbe potuto incassare un bel gruzzolo piazzando la merce al dettaglio. Magari da reinvestire nuovamente, così come forse è avvenuto con quegli stessi 70 mila euro che sono costati la vita a Luca Sacchi. L' epilogo tragico del 23 ottobre culminato con l' assassinio del personal trainer, da parte dei due fornitori della droga, ha mandato all' aria un business redditizio. Un affare lucroso di cui il grande regista, Princi, 24 anni, studente di psicologia, sarebbe stato bene al corrente. Non sarebbe stata questa, infatti, l' unica importante trattativa di stupefacenti gestita dal ragazzo. Troppi indizi, e altre due inchieste della magistratura, dimostrerebbero una certa dimestichezza di Princi nel maneggiare soldi e marijuana. Per questo motivo gli inquirenti sono convinti che non esista nessun finanziatore occulto. E più l' inchiesta avanza e più l' ipotesi di un misterioso sponsorizzatore, disposto a mettere 70 mila euro nelle mani di un gruppo di ingenui 20enni, perde quota. Innanzitutto quei 20enni così ingenui non erano. E non lo era soprattutto Princi. Perciò gli investigatori iniziano a sostenere la tesi che lo stesso studente universitario fosse il più grande sovvenzionatore di sé stesso. I soldi per finanziare la compravendita del 23 ottobre li avrebbe guadagnati (è un' ipotesi investigativa) spacciando, reinvestendo e accumulando. Con quegli introiti che solo gli stupefacenti sono in grado di garantire. Soldi facili e con grandi rischi. Magari mandando avanti qualcuno con la faccia pulita. Perciò in parte calcolati. Ma non fino alla fine, vista la morte tragica dell' amico Sacchi. Quest' ultimo sarebbe stato coinvolto assieme alla fidanzata ucraina, la baby sitter Anastasia Kylemnyk. Di fatto, nei mesi precedenti allo scorso ottobre, erano emerse attività sospette di Princi. Un tentativo di acquistare droga era stato monitorato dalla polizia, nell' ambito di un' indagine coordinata dalla direzione distrettuale antimafia. Gli inquirenti, intercettando delle conversazioni telefoniche, erano arrivati sul luogo in cui Princi si era incontrato a Roma con un fornitore, per poi pianificare l' acquisto di una partita di stupefacenti. Il 12 ottobre, dieci giorni prima del suo assassinio, ad accompagnare lo studente di psicologia c' era anche Sacchi. Il venditore all' ingrosso di stupefacenti era Fabio Casale, uno con «pregiudizi penali per traffico internazionale di droga». Tuttavia, e questo dimostra lo spessore che stava raggiungendo Princi, si scopre oggi che il telefonino intercettato da parte della Dda non era quello di Casale. Bensì lo smartphone dell' universitario. Quel fatidico incontro verrà poi interrotto dagli agenti. Poliziotti che non trovarono droga addosso ai tre ragazzi. Ad ogni modo quel blitz convinse Casale a non voler chiudere nessun affare con Princi. Mentre quest' ultimo, desideroso di investire un piccolo capitale, contatterà successivamente Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. I due pusher che poi si trasformeranno negli assassini di Luca Sacchi, nel tentativo di non cedere i 15 chilogrammi di marijuana e rubare lo zaino di Anastasia con i 70 mila euro. Gli investigatori, però, al fine di puntellare la loro tesi hanno individuato, oltre ai fornitori di Princi, anche i clienti. Un ragazzino sentito in procura, quale abituale acquirente dello studente universitario, ne ha lodato l' efficienza. Il primo incontro avvenne in un locale. «Probabilmente - ha spiegato il giovane- era in cerca di clienti. Mi disse che vendeva marijuana e mi disse di scaricare l' applicazione Wicr per scambiare messaggi che poi si cancellano dopo la lettura». Infine il ragazzino diventa un cliente «da lui compravo 5 grammi due volte al mese, pagando 50 euro ogni volta» Ma soprattutto: «Ogni volta che chiamavo Princi aveva la disponibilità della droga». Come un pusher di buon livello.

Alessia Marani per “il Messaggero – Cronaca di Roma” il 21 dicembre 2019. «Spero che anche Anastasia vada in carcere. Lei e quel Princi mi hanno portato via mio figlio. Luca era un ragazzo buono, che si fidava. Solo ora ho capito chi fosse veramente quella ragazza che dopo la morte di Luca ho fatto dormire ancora una volta nel suo letto, in casa nostra. Invece le indagini stanno svelando il suo vero volto. Luca con tutto questo schifo non c' entra niente». Mamma Tina Galati stringe in mano la torcia rossa accesa per Luca. Un grande striscione biancoceleste esposto dagli amici dice «Ciao Luca» con un grande cuore. Alla fiaccolata di ieri in via Macedonia, a due passi da casa Sacchi, davanti all' ingresso del Parco della Caffarella dove il personal trainer di 24 anni andava a correre e ad allenarsi - non lontano da dove è stato assassinato il 23 ottobre da Valerio del Grosso, uno dei pusher di Casal Monastero - c' erano gli amici, gli zii e i cugini, chi a Luca voleva bene. Al fianco di Tina, papà Alfonso, poi Federico, l' altro figlio di 19 anni che quella sera era dentro al John Cabot Pub mentre fuori sparavano a Luca, gli avvocati Armida Decina e Paolo Salice, e nonna Margherita che racconta: «Ho sognato mio nipote vestito di bianco avvolto da una luce splendente. Gli dicevo: Luca perché sali così in alto, attento che cadi. E lui mi rispondeva: nonna sono le ali che mi spingono su. Un angelo». Mauro Deliso è arrivato da Tivoli per abbracciate l' amico Alfonso: «Luca e mio figlio giocavano insieme nella Juniores della Lodigiani. Luca faceva la punta. Un mese prima del delitto ero stato a cena nel ristorante di Alfonso - ricorda - Lui mi disse: Mauro io conosco tuo figlio Simone e tu conosci il mio Luca. Siamo davvero fortunati ad avere due ragazzi così. Luca non meritava quella fine e questa famiglia tanto dolore». Dalla Spagna è tornato anche Nicholas l' amico del cuore di Luca che i carabinieri di via In Selci hanno convocato per acquisire ulteriori informazioni sulla vita e le frequentazioni del ragazzo. Per la compravendita di marijuana messa in piedi con i pusher la sera dell' omicidio, Giovanni Princi è in galera. Anastasia Kylemnyk, nel cui zainetto c' erano i 70mila euro necessari per l' acquisto, ha l' obbligo di firma. Ha evitato il carcere perché incensurata ma la sua posizione potrebbe aggravarsi se dovesse venire fuori una rete non occasionale ma ben strutturata e dedita al traffico di stupefacenti. In quel caso gli inquirenti potrebbero contestarle l' associazione e anche lei potrebbe finire dietro le sbarre. C' è di più. Se fosse provato che quella sera, in via Latina, dopo avere mostrato lo zaino ai pusher, Anastasia fosse stata presente anche al colloquio tra Princi e Del Grosso, i carabinieri potrebbero contestarle di avere favorito al fuga dei killer visto che a loro giurò di non avere mai visto Del Grosso e Pirino. Alfonso Sacchi è convinto che Luca, che non fumava marijuana a differenza di Princi e Anastasia, si sia trovato coinvolto per non lasciare sola la fidanzata. «Forse aveva provato ad allontanarla da quei giri. Un anno fa - spiega - litigarono, Luca voleva lasciarla ma poi mi disse: se io la lascio, lei che fa, dove va? Se solo l' avesse fatto, sarebbe ancora vivo». Sarà lo stesso Del Grosso quando parlerà alla pm (l' avvocato Alessandro Marcucci ha fatto sapere che il suo assistito «non ha intenzione di sottrarsi a un interrogatorio») a chiarire altre circostanze. 

Alessia Marani per “il Messaggero – Cronaca di Roma” il 22 dicembre 2019. C'è stato un momento in cui il rapporto tra Luca Sacchi e Anastasia Kylemnyk stava per chiudersi una volta per tutte. A Luca certi comportamenti della sua ragazza evidentemente non andavano più giù, ma le voleva bene, «aveva un gran senso di protezione verso di lei e probabilmente certi atteggiamenti non lo convincevano appieno», dice Alfonso Sacchi, il papà. Avevano litigato Luca e Anastasia qualche tempo prima del delitto. Bisticci che non erano passati inosservati in casa Sacchi, dove la baby sitter 25enne di origine ucraina era ormai ospite fissa. Lei che nella sua casa all' Alberone dove vivono anche la mamma con il compagno, la sorellina più piccola e uno zio, sembrava non volesse restarci troppo. Aveva già provato una volta a condividere un appartamento con un' amica ma poi avevano discusso e lei se ne era andata. Era il periodo in cui i ragazzi avevano cominciato a frequentarsi e per questo Luca chiese il permesso ai genitori di accoglierla in casa. L' idillio, però, a un certo punto sembra spezzarsi. «Luca la voleva lasciare - spiega Alfonso - era deciso. Ma poi un giorno mi disse: a pa' ma se la lascio dove va? Che fa? Luca era troppo buono, non aveva cuore per lasciarla in difficoltà e, forse, anche se non era troppo convinto, continuava a volerle bene, anche per quello spirito di protezione che lo ha sempre contraddistinto». Alfonso ricorda il figlio come una sorta di gigante buono. Forse anche un po' ingenuo. «Una montagna di muscoli, alto 1,90 magari proprio per evitare che Anastasia finisse in qualche guaio più grosso, le è rimasto accanto», dice Alfonso. Che ora ha un cruccio: «Se solo avesse preso quella decisione, di chiudere la storia, forse Luca sarebbe ancora vivo». La sera prima dell' omicidio, avvenuto al termine di una trattativa per la compravendita di marijuana, Anastasia e Giovanni Princi, il loro amico che aveva preso contatti con i pusher di Casal Monastero, avevano trascorso del tempo insieme. Per due ore Luca e mamma Tina l' avevano aspettata a casa, ma lei era ancora con lo studente di psicologia, figlio di un medico e di una insegnante. Una intesa tra i due che aveva insospettito Tina nel corso di una vacanza in montagna. Possibile che Anastasia - che aveva i 70mila euro necessari per acquistare la droga nello zainetto rapinato dai pusher - e Princi avessero messo in piedi l' affare all' insaputa di Luca Sacchi? Possibile che Nastia abbia usato il suo forte ascendente sul ragazzo per averlo vicino a se - proprio in virtù della sua stazza - nei momenti più delicati della nuova attività intrapresa di corriere della droga? Nel corso di un' altra indagine, una decina di giorni prima che Valerio Del Grosso ha sparato in testa a Luca, il personal trainer era stato identificato durante un controllo nei pressi della Coin insieme a Princi che aveva appuntamento con un pregiudicato per droga. Una casualità? Sempre nella vacanza in montagna Federico, il fratello più piccolo di Luca, racconterà ai genitori che aveva visto Princi e la fidanzata Clementina, farsi le canne con Anastasia, mentre Luca si arrabbiò molto per questo. Al ritorno a Roma la presenza di Anastasia in casa Sacchi si diradò. Tanto che proprio alla vigilia del delitto, Nastia aveva lasciato una caparra da 900 euro per l' affitto di un seminterrato in via Baronio, nonostante non avesse un reddito sufficiente. Luca con il papà aveva messo le mani avanti: «Io ci andrò poco...». Che quell' appartamentino potesse servire, in realtà, per fare quella che in gergo chiamano la retta? Ovvero tenere droga o soldi all' occorrenza? Lo chiariranno le indagini dei carabinieri che proseguono per capire se la trattativa del 23 ottobre, in cui i ruoli di Anastasia e Princi sarebbero definiti, non sia un caso isolato ma nasconda un giro molto più ampio e collaudato.

I funerali di Luca Sacchi:  la fidanzata Anastasiya non c’è, l’omaggio degli amici in moto. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 su Corriere.it da Valeria Costantini e Rinaldo Frignani. Le esequie del personal trainer 24enne ucciso in strada. È cominciato con qualche minuto di ritardo nella chiesa del Santissimo Nome di Maria, all’Appio, il funerale di Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni ucciso in quello che per chi indaga è un regolamento di conti per droga la sera del 23 ottobre scorso vicino al parco del Caffarella. Centinaia di persone affollano la chiesa mentre fotografi e cameramen sono stati tenuti fuori dal cancello. Fra i presenti non c’è la fidanzata del ragazzo,Anastasiya Kylemnyk, la cui figura appare centrale nelle indagini: dopo la morte del 24enne la giovane sembra aver interrotto i rapporti con la famiglia della vittima. In concomitanza con l’inizio delle esequie sette amici di Luca hanno fatto un passaggio con le moto da enduro, una passione del personal trainer, davanti alla chiesa con i motori imballati. Il rombo - in omaggio al ragazzo assassinato - si è udito in tutto il quartiere. «Non ci sono parole, solo tanta rabbia. Ora Luca mi raccomando, te lo dico da cugino maggiore, da lassù fai sentire la tua presenza alla tua famiglia»: lo dice dal pulpito con la voce incrinata Roberto, cugino di Luca. Prosegue: «È inaccettabile che tragedie del genere capitino alle persone buone. E tu lo sei stato Luca, un ragazzo d’oro che tutti i genitori vorrebbero». Il giovane ha anche dedicato all’amico e cugino una citazione dal film «Il Signore degli anelli», che si riferisce all’immortalità dell’amore. Prima della fine della cerimonia alcuni amici della vittima hanno preso la parola. Le loro testimonianze sono state accompagnate da applausi e commozione da parte dei presenti. Il feretro è quindi uscito dalla chiesa fra due ali di folla che anche in questo caso ha applaudito a lungo. Nel corso della sua omelia don Mario, il parroco amico di Luca, ha più volte ripetuto e chiesto ai fedeli il perché di una tragedia come questa, concludendo che la risposta la devono dare proprio i giovani seguendo la via della legalità.

Omicidio Sacchi, l'addio a Luca: "La sua morte ha ucciso anche noi". Manca Anastasiya. I funerali del 24enne ucciso da un colpo di pistola alla testa lo scorso 23 ottobre. Una folla di amici commossi ha assistito alla cerimonia, assente la fidanzata che sarà sentita a breve dagli inquirenti. La Repubblica il 6 novembre 2019. La salma di Luca Sacchi è entrata accompagnata da un cuscino di rose bianche. Nella chiesa del Santo Nome della beata Vergine Maria nel quartiere Appio di Roma, è stato celebrato il funerale di Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni ucciso con un colpo di pistola alla testa lo scorso 23 ottobre, davanti a un pub nel quartiere di Colli Albani.  Nessun applauso e un gruppo di motociclisti, oltre ai familiari, hanno atteso la bara. Assente alla funzione religiosa la fidanzata di Luca, Anastasiya, che era con lui la notte dell'omicidio e che sarà probabilmente ascoltata nei prossimi giorni dai pm. "Siete meravigliosi, questo silenzio lo è". E' iniziata così l'omelia del  sacerdote che ha officiato il rito. "Non ci sono parole per colmare il vuoto di una persona cara che ci lascia soprattutto per i genitori. Solo il silenzio. La morte di Luca ci ha colpito, in un certo senso ci ha fatto morire. Nel mondo in cui viviamo a volte ci sentiamo scoraggiati", ha aggiunto il sacerdote. "Non ho ancora realizzato quello che è successo. È Inaccettabile che le tragedia accada sempre alle persone buone. Luca era un ragazzo buono, l'orgoglio dei genitori e nostro. Spero sempre che questo sia un brutto sogno, ma non è così". Sono le parole di un amico di Luca. "Sono sempre più convinto che il paradiso sia un posto eccezionale - ha aggiunto - e con il tuo sorriso lo sarà ancora di più. Sarai il nostro angelo. Ora il compito difficile è il nostro: restare e mettere in pratica i tuoi insegnamenti, stare vicino a tuo papà, a tua mamma e a tuo fratello Federico". "Non avrei mai pensato di doverti salutare così, come si può realizzare ciò che è successo?". A parlare, dal pulpito della chiesa è il cugino Roberto. "Ora c'è solo tanta rabbia - dice - non è possibile e non è giusto quanto capitato in questo mondo allo sbando, ma le tragedie toccano sempre alle persone buone e Luca era uno di queste. Un ragazzo d'oro che tutti genitori avrebbero voluto come figlio. Sempre col sorriso, pronto alla battuta". "Spero sempre non sia vero e se è vero che il destino è scritto, questo è troppo. Mi consolo pensando che il paradiso avesse bisogno di persone come te o che forse questo mondo è troppo stretto per te. Gli angeli, vedendoti arrivare, avranno gridato che è finita la pace, mi piace immaginarti con nonno che ti protegge. A noi resta il compito più difficile, andare avanti ricordandoti e trasmettendo i tuoi insegnamenti. Da cugino maggiore ti chiedo di proteggere tuo papà, tua mamma e tuo fratello, noi faremo lo stesso". "Voglio salutarti citando una frase dal Signore degli anelli: "È finita? No, il viaggio non finisce qui. La morte è solo un'altra via. Dovremo prenderla tutti. La grande cortina di pioggia di questo mondo si apre e tutto si trasforma in vetro argentato. E poi lo vedi. Bianche sponde e, al di là di queste, un verde paesaggio sotto una lesta aurora". Voglio immaginarti sotto la lesta aurora, sulla tua moto. Sarai sempre il nostro orgoglio", conclude. Applausi e lacrime alla fine hanno accompagnato l'uscita del feretro del giovane al termine della celebrazione. All'uscita della chiesa Santissimo Nome di Maria la mamma Concetta ha abbracciato a lungo la bara con sopra una grande corona di rose bianche e la fascia "mamma, papà e Federico". L'ultimo strazio prima dell'avvio del carro funebre verso il cimitero di Prima Porta dove Luca verrà seppellito. 

Maria Elena Vincenzi per la Repubblica l'8 novembre 2019. Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata di Luca Sacchi, il 24enne rimasto ucciso il 23 ottobre a Colli Albani, è chiusa nel suo dolore. Lo stesso che la fa rimanere in casa da settimane, da quando Luca è morto. Lo stesso che le ha fatto decidere di non andare alle esequie del suo ragazzo. Da due giorni dopo la morte di Luca ha scelto il silenzio. Lo ha fatto lei e lo ha fatto l' avvocato alla quale la ragazza si è rivolta, Giuseppe Cincioni. Ma ieri, dopo le polemiche per la sua assenza al funerale di Luca che si è tenuto mercoledì, il legale ha deciso di parlare. « Ho trovato strumentali e inconcepibili le polemiche sulla sua assenza al funerale » . La scelta di non partecipare è stata un decisione sofferta e condivisa. « Lei era intenzionata ad andare, siamo stati noi, la sua famiglia ed io, a dirle che non era il caso. A cercare di farle capire che era meglio evitare che la sua presenza potesse rappresentare un ulteriore elemento di confusione » . E Anastasiya alla fine si è convinta. « Lo ha fatto innanzitutto per rispetto alla famiglia di Luca: doveva essere un momento di preghiera, di ricordo. In secondo luogo, la sua famiglia che è semplice ma perbene, ha pensato che fosse meglio non esporla, in un momento già così delicato » . Non andare a dire addio al suo fidanzato le è costato molto. Per questo ha deciso di scrivere un sms alla famiglia Sacchi per spiegare le ragioni dell' assenza. « Era un messaggio affettuosissimo: quella famiglia l' ha accolta e trattata sempre con grande affetto. Il papà di Luca le ha risposto. Noi rispettiamo ogni esternazione della famiglia di Luca perché è una famiglia distrutta». « Anastasiya vive segregata in casa perché uscire significa sottoporsi all' attenzione della stampa» spiega l' avvocato. In casa, protetta dalla mamma e dal papà. « Non ha ricominciato a lavorare. Non ce la fa». Poi il legale torna sulla posizione della sua assistita che si è complicata quando sulla vicenda della morte di Luca ha fatto irruzione la questione della droga. «Vorrei ribadire che assisto una persona offesa, che è stata vittima di una grave aggressione. Bisognerebbe apprezzare e valutare lo stato d' animo di questa ragazza che si è vista morire il fidanzato praticamente tra le braccia. Il loro non era un amore giovanile, progettavano una vita insieme e lo facevano seriamente. È un dolore immenso ». Eppure c' è la vicenda degli stupefacenti della quale la ragazza, sentita dai carabinieri quella notte, non ha parlato in alcun modo. Non allora, non dopo. «Sono fatti oggetto ancora di indagine. E l' unico interlocutore è il pubblico ministero». Ma se Anastasiya parlasse, forse, aiuterebbe Luca ad avere giustizia. « È a disposizione dell' autorità giudiziaria. Aspetta di essere chiamata. È venuta da me per costituirsi parte civile perché è una vittima».

Da liberoquotidiano.it l'8 novembre 2019. Si fa sempre più complessa la posizione di Anastasiya Kylemnik, la fidanzata di Luca Sacchi, il ragazzo ucciso a Roma con un colpo di pistola in una vicenda dai contorni ancora tutt'altro che chiari. Il punto è che ora sono emersi i risultati del referto stilato dai medici dell'ospedale San Giovanni di Roma: nessuna escoriazione, nemmeno un ematoma, un graffio. Ma Anastasiya aveva riferito e continua a sostenere che nella notte dell'omicidio era stata aggredita da Valerio del Grosso e Paolo Pirino, aggressione con tanto di mazza da baseball. Tanto che la ragazza parlava di un dolore all'altezza delle vertebre cervicali e la madre, intervistata dal Messaggero, aveva aggiunto che "Anastasiya ha un ematoma dietro la testa e le ginocchia ancora sbucciate". Evidenze che però non risultano nel referto medico: i dottori non hanno riscontrato lesioni riconducibili alle percosse che sostiene di aver subito quella maledetta sera di fronte al pub John Cabot. Ovvio, dunque, che la posizione della ragazza, alla cui ricostruzione gli inquirenti non hanno mai di fatto creduto, si faccia sempre più delicata. Perché ha mentito, se ha mentito? Cosa è accaduto davvero mentre Luca Sacchi moriva? Domande che, per ora, non hanno risposte sufficientemente chiare.

Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani per il ''Corriere della Sera'' l'8 novembre 2019. Tutto cancellato. Nessuna traccia di conversazioni. Tanto che adesso sarà necessario forse una rogatoria internazionale per leggere quello che c’è scritto sulle piattaforme di messaggistica dei cinque cellulari acquisiti nel corso delle indagini sull’omicidio di Luca Sacchi e su altri apparecchi di persone che sono state identificate durante le indagini. Gli smartphone saranno probabilmente sottoposti a perizia da parte di chi indaga, con sistemi tecnologici capaci di riportare sullo schermo messaggi cancellati, ma nel caso non si raggiungessero i risultati sperati, allora sarà necessario rivolgersi alle società che gestiscono questi sistemi, come è più volte accaduto in passato. E di conseguenza potrebbe esserci un allungamento dei tempi per scoprire cosa, quando e con chi i protagonisti della vicenda che ruota attorno al delitto dell’Appio Latino del 23 ottobre scorso si siano scambiati informazioni, contatti, magari anche fissato appuntamenti, come quello nella serata dell’omicidio in via Latina, a due passi dal luogo in cui il 24enne personal trainer è stato colpito a morte da un proiettile esploso da Valerio Del Grosso, ora in carcere per concorso in omicidio con Paolo Pirino.

Le verità nascoste. Gli accertamenti dei carabinieri del Nucleo investigativo di via In Selci e dei poliziotti della Squadra mobile proseguono intanto senza sosta. L’analisi dei video acquisiti nel corso delle indagini continua per identificare tutte le persone che sono comparse sia sulla scena della trattativa per l’acquisto della droga sia su quella dello sparo fatale, davanti al «John Cabot Pub» di via Franco Bartoloni. Poca voglia di parlare fra gli abitanti di via Latina, che dista poche decine di metri dal locale frequentato da Luca Sacchi e dalla sua comitiva di amici: qualcuno nega, altri non hanno voglia di ricordare quello che è accaduto la sera del 23 ottobre prima del delitto. Quindi non si può escludere che qualcuno abbia udito le grida di un litigio che potrebbe essere scoppiato fra i cinque-sei giovani, forse anche di più, che secondo Valerio Rispoli e Simone Piromalli ruotavano attorno a quell’incontro. Loro erano gli emissari di Del Grosso per controllare se nello zainetto della fidanzata di Luca, Anastasiya, mostrato loro da un amico del 24enne, Giovanni Princi, ci fossero davvero i soldi necessari per l’acquisto di una partita di marijuana, così come era stato concordato giorni prima da qualcuno ancora da identificare con il killer del personal trainer. Un servizio per il quale i due contatti sono stati ricompensati proprio dal 21enne di Casal Monastero. Nel frattempo Anastasiya continua a essere blindata nella sua abitazione vicino via Appia. Poche uscite negli ultimi giorni, assente ai funerali di Luca. Il suo avvocato Giuseppe Cincioni spiega che la decisione è stata presa per il «timore che la sua presenza, per la morbosa attenzione mediatica nei suoi confronti, potesse diventare occasione di turbamento in un momento dedicato alla preghiera, al raccoglimento e al ricordo. Una decisione sofferta che era stata comunicata al padre di Luca».

Perizia sul telefono di Luca Sacchi. Spariti pure i suoi messaggi? Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 su Corriere.it da Giulio De Santis. La Procura nel buio, continua a non sentire i testimoni-chiave. In alcuni dei cinque telefonini dei giovani legati in qualche modo alla tragica notte dell’omicidio sono state cancellate le conversazioni. Anche il cellulare di Luca Sacchi potrebbe essere «muto». Nei giorni scorsi gli investigatori hanno acquisito cinque telefonini di giovani legati in qualche modo alla tragica notte dell’omicidio - anche soltanto come testimoni - e hanno scoperto che, in alcuni casi, gli apparecchi non hanno conservato alcuna traccia di conversazioni. Zero. Il vuoto. Ora la novità è che pure dal cellulare della vittima i messaggi potrebbero essere stati cancellati. Ma quando? E da chi? Quel telefonino è stato subito sequestrato dagli investigatori appena arrivati sulla scena del delitto, davanti al pub John Cabot, lo scorso 23 ottobre. Le conversazioni erano state già eliminate, magari solo da qualche ora? Dal personal trainer ucciso o da qualcun altro? Per trovare risposta a tutte queste domande la Procura ha disposto una consulenza. Che punta, soprattutto, ad accertare se siano stati cancellati messaggi che collegherebbero Sacchi alla presunta trattativa sulla droga. Ma le conversazioni sparite non sono l’unico mistero nell’inchiesta. La fidanzata da quattro anni, Anastasiya Kylemnyk. L’amico dei tempi del liceo, Giovanni Princi. E Domenico Costanzo Marino Munoz, l’amico più recente. Sono i tre testimoni diretti dell’omicidio eppure, a distanza di 19 giorni dalla tragedia, nessuno di loro, nonostante il profondo legame affettivo con il 24enne, ha bussato alla porta del pm Nadia Plastina, Né d’altra parte il magistrato li ha convocati, anche se gli inquirenti sono (quasi) certi che i tre dovrebbero conoscere i tasselli che mancano per illuminare le zone d’ombra intorno alla morte di Luca. La Procura così ignora ciò che potrebbe raccontare la fidanzata Nastia, che non ha neppure partecipato al funerale, le cui uniche parole sono quelle pronunciate il giorno dopo l’omicidio davanti alle telecamere del Tg1: «Luca ha protetto me. La droga? Eravamo lì per il fratello più piccolo». Sia Anastasiya, sia Giovanni e Domenico, dovrebbero conoscere l’esatta entità della cifra nello zainetto. C’è chi ha parlato di duemila euro, chi di una somma molto superiore. Nell’ordine di custodia cautelare che ha portato in carcere Valerio Del Grosso e Paolo Pirino la cifra non è indicata proprio perché nessuno la conosce, ad eccezione dei tre testimoni. L’altro lato oscuro dell’inchiesta è la droga: neanche di questo nell’ordinanza c’è alcun cenno. C’è chi ha parlato di marijuana. E se invece si fosse trattato di cocaina, eroina o altro? E poi solo Nastia potrebbe dare una risposta a questa domanda: lei e Luca erano consapevoli dell’affare? Per quanto riguarda Princi, perché è sparito pochi attimi prima della morte dell’amico? Un comportamento che senz’altro dovrà spiegare agli inquirenti. Anche Domenico, presente sulla scena, potrebbe aiutare gli investigatori raccontando il corso della serata. Infine i due indagati: per loro dire la verità farebbe la differenza tra l’ergastolo o una condanna 30 anni di reclusione - o forse meno - con il riconoscimento delle attenuanti generiche.

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 14 novembre 2019. Potrebbe essere stato protagonista di una storia che alla fine l'ha trasformato in vittima ignara o nella quale non era pienamente coinvolto. Le analisi parziali finora condotte sui tabulati e sui telefoni sequestrati dai carabinieri del Nucleo investigativo di via In Selci escludono che Luca Sacchi il personal trainer freddato da un colpo di revolver calibro 38, la sera del 23 ottobre scorso di fronte il John Cabot pub nel quartiere Appio Latino avesse contattato i suoi killer, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. Con il passare dei giorni, il profilo del giovane diventa sempre più chiaro agli inquirenti che indagano sul contesto in cui ha preso forma il suo omicidio. Per la Procura di Roma, tuttavia, il quadro non è ancora chiaro: dalle prime verifiche non emergono contatti diretti o recenti tra la vittima e i due giovani arrivati all'Appio a bordo di una smart fourFour. Luca, inoltre, come poi hanno confermato gli esami tossicologici in sede di autopsia, non faceva uso di droghe. «Luca non faceva uso di stupefacenti e non spacciava», spiega l'avvocato della famiglia Sacchi, Armida Decina. E la sua non è un'affermazione dettata dal ruolo che ricopre. Quel che manca però è delineare con esattezza il ruolo del personal trainer durante quel terribile mercoledì sera. Luca è stato plagiato dai suoi amici? Era a conoscenza della presunta compravendita di droga (mai portata a termine)? Si era prestato, per via del suo aspetto, la sua passione per le arti marziali a proteggere come bodyguard la fidanzata e il suo amico di scuola Giovanni Princi che pare avesse attivato il canale per l'acquisto di droga o ne era completamente ignaro? Ad oggi le certezze ancora troppo poche escludono contatti tra lui e i due giovani di Casal Monastero rinchiusi nel carcere di Regina Coeli. Ci sarebbe una copia forense del cellulare della vittima e dei contatti (tra chiamate, messaggi e numeri salvati in rubrica) nelle mani dei magistrati a dirlo. Ma l'assenza di contatti telefonici tra Sacchi, Del Grosso e Pirino non risolve il caso.

LE ANALISI. Intanto le analisi vanno avanti. Nei prossimi giorni saranno svolte delle perizie irripetibili, affidate ai Ris dell'Arma, su alcuni oggetti rinvenuti sul posto e dopo l'omicidio. La mazza da baseball, il bossolo rinvenuto dentro un guanto di lattice blu, lo zaino che avrebbe indossato Anastasia Kylemnyk, la fidanzata di Luca, che avrebbe contenuto i soldi per l'acquisto di marijuana e che è stato gettato poi da Del Grosso e Pirino in un area incolta di Tor Bella Monaca. A questi esami i legali della famiglia Sacchi hanno chiesto di partecipare mentre hanno nominato due super consulenti per delineare con esattezza il delitto in cui ha perso la vita il personal trainer. Le nomine sono state depositate dagli avvocati di parte, Armida Decina e Paolo Salice, in Procura e a far luce sul caso quando arriverà il momento di analizzare i reperti saranno i criminologi Nicola Caprioli e Ilaria Magnanti. Il primo in passato, tra i tanti casi, ha lavorato nell'omicidio della sedicenne Noemi Durini, pugnalata e sepolta viva sotto le pietre dal fidanzato in provincia di Lecce. La Magnanti dal centro studi di criminologia di Viterbo annovera nel suo trascorso il recupero di Rudy Guede.

LA VERITÀ. Il signor Alfonso e la signora Tina, genitori di Luca, vogliono solo una cosa: conoscere la verità che si cela dietro quella sera. Dopo la morte di Luca, ripetono i familiari, Anastasia a distanza di qualche giorno non si è più vista. Non ha preso parte al funerale inviando, su consiglio del suo avvocato e dei genitori, un solo messaggio al padre del suo fidanzato: «Ho appreso dai giornali la notizia dei funerali e ci avevo pensato molto ma con tutto il clamore mediatico che si è creato intorno a questa tragedia, ho valutato di non venire». Quando l'uomo le ha risposto chiedendole il motivo del suo silenzio, la ragazza non ha più risposto. Mentre Giovanni Princi pare abbia preso parte al rito a bordo di una delle moto che hanno sfilato di fronte la chiesa prima dell'inizio della cerimonia. La madre di Luca lo ha riconosciuto perché il ragazzo indossava un giubbotto che il figlio gli aveva prestato.

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per ilmessaggero.it il 16 Novembre 2019. Altro che pochi spicci o al massimo 2mila euro. Lo zainetto di Anastasia Kylemnyk era pieno di soldi. Circa 60mila euro per l’acquisto – mai portato a termine – di una partita ingente di marijuana, che senza ombra di dubbio era destinata allo spaccio. Perché una cifra del genere non viene messa insieme per comprare un po’ di erba da fumare con la comitiva di amici. Le indagini sull’omicidio di Luca Sacchi fanno emergere nuovi dettagli in merito alla trattativa che è partita prima del ferimento mortale del personal trainer 24enne. Gli ultimi dettagli acquisiti dagli investigatori sembrano delineare un quadro ben più ampio – e articolato – su come sia nata la compravendita e non è escluso, a questo punto, che sia dietro al gruppo di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, che dietro a quello della vittima possano esserci state altre mani e altri interessi. Tutto da verificare ancora. Per il momento c’è solo una somma ingente di denaro che un gruppo di ragazzi appena ventenni non potrebbe aver messo insieme solo per trascorrere una serata al di sopra delle righe. Chi sta portando avanti le indagini è abbastanza convinto di arrivare a sciogliere il nodo in tempi brevi. Nei prossimi giorni saranno condotti dai carabinieri del Ris degli esami irripetibili sui reperti rinvenuti non sul luogo del delitto: la mazza da baseball, lo zainetto di Anastasia che la Squadra Mobile ha trovato tra le sterpaglie a Tor Bella Monaca, il bossolo nascosto in un guanto di lattice blu. Anche se potranno raccontare poco sull’omicidio potrebbero rivelare altri dettagli utili alle indagini e sul contesto nel quale è maturato l’agguato. Il pm Nadia Plastina, titolare del fascicolo, non esclude che Luca, Giovanni Princi, Anastasia, individuati dai testimoni amici del pasticcere di Casal Monastero come i «quattro interessati a comprare droga», potessero agire per conto di terze persone. Princi avrebbe ricoperto il ruolo di “ponte” per la trattativa, conoscendo almeno uno degli intermediari di Del Grosso, Valerio Rispoli. Proprio l’entità della cifra ha fatto sorgere negli inquirenti il sospetto che i ragazzi potessero essere stati dei mediatori che avrebbero dovuto essere ricompensati, anche perché sono incensurati. Finiti al centro di un affare ben più grande di loro e del quale, probabilmente, non avevano neppure ben chiare le proporzioni. Per il momento Del Grosso e Pirino non sono ancora stati interrogati dai magistrati. In sede di interrogatorio di garanzia, subito dopo il fermo, avevano deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Tanti i punti da chiarire: che fine hanno fatto i soldi? Ma soprattutto il revolver calibro 38 usato da Del Grosso contro Sacchi?

Omicidio Luca Sacchi, fermati due sospettati: denunciati dai genitori? La pista: precedenti per droga. Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Due persone sono state fermate: sono i sospettati dell'omicidio di Luca Sacchi, il ragazzo ucciso con un colpo di pistola alla nuca a Roma dopo aver cercato di difendere la sua ragazza da una rapina. I due uomini sono stati individuati dalla squadra mobile della polizia e, stando a quanto si apprende, sono interrogate in questura. I due sono stati fermati alle 2.45 di venerdì 25 ottobre, al termine di una lunga e serrata giornata di indagini. Pare che i due si siano costituiti: uno dei due sarebbe stato denunciato dai genitori, i quali dopo aver saputo dell'accaduto si sarebbero recati al commissariato di zona. Luca Sacchi, personal trainer, è stato ucciso fuori dal pub Jhon Cabot di via Mommsen, in zona Appio, a Roma. Il Messaggero fa sapere come gli investigatori non stiano lasciando nulla al caso. E una circostanza ha destato la loro attenzione. Il padre di Luca, Alfonso, è proprietario della taverna delle Coppelle, in zona Pantheon, vicino a un locale di Tiberio Simmi, fratello di Roberto: questi ultimi due furono indagati e assolti nel processo Colosseo alla Banda della Magliana. Roberto Simmi era il padre di Flavio Simmi, trucidato a 33 anni con 9 colpi di pistola nel 2011. Elementi finiti sotto la lente degli inquirenti, che stanno scavando nel passato di Luca per non lasciare nulla al caso. Ma non è tutto. Dalla questura filtra l'indiscrezione che uno dei due sospettati avrebbe precedenti per droga, l’altro invece per reati più lievi. Tra le varie ipotesi si sta valutando se oltre alla rapina, come riferito dalla fidanzata della vittima, ci possa essere anche un movente legato agli stupefacenti. Le ricerche dei militari avrebbero avuto successo grazie anche alla verifica sulle immagini delle telecamere di sorveglianza nella zona dell’omicidio. Esulta un comitato di quartiere di Ponte di Nona che sulla sua pagina Facebook ha annunciato la cattura dei presunti killer di Luca (probabilmente uno dei due fermati abita nel quartiere). Già dall’alba, davanti alla questura, c’erano anche alcuni parenti delle persona sotto interrogatorio.

I soldi, la droga e la pistola: ecco come è morto Luca. Secondo gli investigatori, Luca e Anastasia avrebbero voluto acquistare della droga quella notte. Ma lo scambio sarebbe finito male. Francesca Bernasconi, Venerdì 25/10/2019 su Il Giornale. Volevano acquistare della droga la sera dell'omicidio. È quanto riferisco ad AdnKronos alcune fonti investigative, che indagano sulla morte di Luca Sacchi, il giovane 24enne ucciso da un colpo di pistola alla nuca. Inizia così a delinearsi una dinamica diversa, rispetto a quella emersa nei primi momenti dopo il delitto, quando si era pensato che Luca fosse morto a causa di una rapina finita male. La verità, invece, potrebbe essere diversa e, in queste ultime ore si è fatta strada la pista della droga. Secondo una delle ipotesi investigative, che gli inquirenti stanno vagliando, Luca e Anastasia, quella sera avrebbero voluto acquistare della droga. Per questo, avrebbero mostrato ai due malviventi i soldi necessari per comprarla. A quel punto, i due sospettati, arrestati dai carabinieri questa mattina, avrebbero finto di andare a recuperare la droga in auto, ma sarebbero tornati armati, con l'intenzione di rapinare i ragazzi. Per questo, i due criminali avrebbero rubato lo zaino ad Anastasia, colpendola alla testa. A quel punto, Luca sarebbe intervenuto, per difendere la ragazza, ma uno dei due aggressori avrebbe estratto la pistola, una calibro 38, e sparato alla testa del 24enne, deceduto in ospedale poche ore dopo. I due sospettati per l'omicidio di Luca sono stati fermati nella notte, dopo la denuncia dei genitori di uno di loro, allarmati dalla scomparsa del figlio. Si tratta di Valerio Del Grosso e Paolo Pirini, due 21enni romani. I due ragazzi, uno con precedenti per droga, sono stati interrogati dagli investigatori per diverse ore e ora sono in stato di fermo.

Omicidio Sacchi, spunta la pista della droga. Una rapina degenerata o uno scambio finito male? Ora, dietro la morte del giovane 24enne, spunta la pista della droga. Francesca Bernasconi, Venerdì 25/10/2019 su Il Giornale. Si tinge di giallo la morte di Luca Sacchi, il ragazzo 24enne, morto dopo essere intervenuto per difendere la ragazza da una rapina. Ma, secondo le prime indiscrezioni, riportate da Agi, potrebbe non essersi trattato di una semplice rapina e dietro l'omicidio spunta la pista della droga. Anastasia, la ragazza del 24enne, aveva raccontato agli investigatori di essere stata aggredita appena fuori da un pub, intorno alla mezzanotte di giovedì. "Mi sono sentita strattonare da dietro- avrebbe sostenuto- mi hanno detto "dacce la borsa" e io gliela stavo consegnando, quando mi hanno colpito con una mazza". È allora, che il giovane sarebbe intervenuto, bloccando l'uomo che aveva colpito la fidanzata. Ma, a quel punto, l'altro aggressore avrebbe sparato, colpendo Luca alla testa. Il 24enne, trasportato d'urgenza in ospedale, è morto poche ore dopo. Secondo quanto sta emergendo questa mattina, dopo l'arresto di due ragazzi sospettati dell'omicidio, potrebbe non essersi trattato di una semplice rapina. Dopo una notte di ricerche, i carabinieri hanno fermato due sospetti, forse costituitisi, dopo essere stati convinti da un parente. Si tratta di due ragazzi romani, di 21 anni. Uno di loro, il presunto autore dell'omicidio, risulta incensurato, mentre l'altro ha dei precedenti per droga. E ora, gli investigatori starebbero battendo anche la pista della droga, ipotizzando che ad uccidere Luca possa essere stato uno scambio finito male. Tutte ipotesi, per il momento. E gli inquirenti stanno indagando in ogni direzioni, battendo tutte le piste possibili, dalla rapina, alla droga, fino allo scambio di persona. Una svolta potrebbe emergere dopo l'interrogatorio dei due sospettati, trattenuti in procura da alcune ore.

Fermati due sospettati per l'omicidio di Luca Sacchi. Carabinieri e polizia hanno fermato due ragazzi di 21 anni, di Roma, sospettati di aver ucciso Luca Sacchi. Uno ha precedenti per droga. Francesca Bernasconi, Venerdì 25/10/2019 su Il Giornale. Sono stati fermati questa notte i presunti assassini di Luca Sacchi, il 24enne che ieri era stato colpito alla testa con un colpo di arma da fuoco. Il ragazzo aveva cercato di difendere la ragazza, durante una rapina. Intorno alla mezzanotte di ieri, Luca e Anastasia erano stati aggrediti da due criminali, poco fuori da un pub di Roma: i due avevano colpito la ragazza alle spalle, strappandole lo zainetto. Il 24enne aveva reagito, per difendere la fidanzata, ma uno dei due aggressori gli aveva sparato, ferendolo alla testa. Immediati i soccorsi e la corsa in ospedale, dove Luca è stato operato d'urgenza. Ma per il giovane non c'è stato nulla da fare ed è morto qualche ora dopo. Ora, i carabinieri avrebbero individuato due sospettati, fermati intorno alle 3.00 di questa notte. Da ore, il pm, sta interrogando gli aggressori, uno dei quali è sospettato di omicidio volontario. I due, secondo quanto riporta AdnKronos, avrebbero 21 anni e sarebbero residenti a Roma. I due ragazzi fermati questa notte sono stati individuati grazie alle immagini registrate dalle telecamere di sicurezza di alcune attività commerciali, situate vicino al luogo in cui è stato ucciso Luca. Fondamentali per individuare i due malviventi anche le testimonianze di chi ha visto o sentito la scena: i testimoni, infatti, avevano raccontato di aver sentito due uomini, che parlavano con accento romano, che sarebbero poi fuggiti, forse a bordo di una smart bianca. Proprio l'auto avrebbe tradito i due. Secondo quanto appreso da AdnKronos, infatti, i sospettati sarebbero stati rintracciati dai carabinieri nella zona di Roma Sud, dove abitano, grazie al riconoscimento dell'auto che hanno usato per la fuga. Sarebbero stati i genitori di uno dei ragazzi a contattare le foze dell'ordine, sospettando del coinvolgimento del figlio nell'omicidio di Luca. Uno dei due sospetti avrebbe precedenti per droga, mentre l'altro (presunto autore dell'omicidio) sarebbe incensurato. Intanto, secondo quanto emerso nelle ultime ore, sembra farsi strada la pista della droga.

"Dacce la borsa", poi il colpo: così hanno sparato a Luca. La ricostruzione. Quello che sappiamo fino ad ora dell'omicidio di Roma. Gli aggressori con forte accento romano. Un proiettile solo, che ha attraversato la testa ed è finito all'interno nel pub. Rory Cappelli il 25 ottobre 2019. Gli hanno sparato a bruciapelo, alla nuca, con un’arma che potrebbe essere un revolver (non sono stati trovati bossoli), mentre difendeva da un’aggressione e uno scippo la sua fidanzata. È successo nella notte tra mercoledì e giovedì, alle 23.20, in via Franco Bartoloni, zona Appio Latino della Capitale: lui, Luca Sacchi, 24 anni, istruttore di palestra, appassionato di moto e di Ju jitsu, «bravissimo ragazzo» come dicono tutti quelli che lo conoscevano, ricoverato in codice rosso all’ospedale San Giovanni, dopo essere stato operato alla testa nella notte, è poi morto nella tarda mattinata di ieri. Lei, Anastasiya Kylemnyk, nata in Ucraina ma in Italia dal 2003, 24 anni, sotto shock, non ha lasciato un solo attimo l’ospedale: è sempre rimasta accanto al suo Luca finché i genitori non hanno deciso per la donazione degli organi ed è arrivata l’équipe dei trapianti. È successo in via Franco Bartoloni, zona Colli Albani, davanti al pub John Cabot, a quell’ora affollato di gente — c’è anche il fratello di Luca, Federico — per la partita di Champions League trasmessa in tv. Luca e Anastasiya, con un amico e con il cane di Luca, Jenna, stanno fuori. Devono entrare nel pub, stanno uscendo, non è chiaro: due tizi, accento romano, li seguono. Dopo aver parcheggiato in via Mommsen in doppia fila, bloccano la ragazza che racconta di essere stata strattonata: «Dacce la borsa», le intimano, poi le danno una botta in testa. Lei cede, ma Luca, racconterà poi Anastasiya agli investigatori, non ci sta. È alto, forte e allenato: li fronteggia, ne nasce una colluttazione, tira un pugno a uno dei due, poi, mentre volta le spalle all’altro girato verso l’ingresso del bar, questi tira fuori una pistola e spara. Lo colpisce alla nuca, da sotto in su: la pallottola gli attraversa il cervello, esce dalla fronte, percorre i nove metri che separano il marciapiede dalle vetrine del pub, si conficca tra vetro e paratia di metallo e cade su un tavolo del locale. I due scappano: alcuni testimoni dicono a piedi, Anastasiya parla invece di una Smart bianca. Qualcuno esce dal pub, ma la scena è davvero insostenibile: sangue ovunque, Luca immobile, le braccia spalancate, una mano aperta a toccare l’asfalto, l’altra verso il cielo. Un tassista chiama l’ambulanza, intervengono i carabinieri della stazione di piazza Dante e quelli del nucleo investigativo di via In Selci. Il fascicolo aperto per omicidio volontario poi plana sulla scrivania della pm di turno, Nadia Plastina. Vengono acquisite le immagini di 4 sistemi di videosorveglianza. E ieri di fronte al pub, nel punto in cui è caduto Luca, dove ancora ci sono garze, guanti blu e macchie di sangue, per tutto il giorno un viavai di persone. Portano fiori, si fermano storditi, si domandano come sia possibile, «è stata un’esecuzione», dicono gli amici. Anastasiya, sotto shock, ripete agli amici: «Gli hanno sparato sotto i miei occhi». Un uomo sui 40 anni racconta di aver sentito il colpo, di aver aperto la finestra, di aver visto una macchina passare e poi un ragazzo sdraiato a faccia in su. «Dopo un minuto è arrivata di corsa una ragazza: si è messa a urlare, abbracciandolo».

Luca Sacchi, una vita tra famiglia e palestra. E quei post di solidarietà ai negozianti aggrediti. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 su Corriere.it da Goffredo Buccini per corriere.it. C’è il sangue sulle strisce e la vita tutta attorno. I carabinieri nella notte hanno coperto le chiazze con lo spray bianco, troppo bianco: e adesso quelle macchie candide disegnano quasi la traiettoria del proiettile che ha ammazzato Luca, dall’incrocio tra via Mommsen e via Bartoloni fino al pub John Cabot, il colpo di calibro grosso gli ha passato la testa ed è finito nella vetrina. A nemmeno cento metri, ora che è mattina, si sentono le vocine e le risate di cristallo dei bambini dell’asilo: ludoteca e scuola d’infanzia di Roma Capitale, municipio VII. Una maestra fa segno di no col dito, da dietro gli scivoli, per fermare intrusioni e domande. E ha ragione. Morte e vita non andrebbero mischiate, le due facce di Roma dovrebbero restare separate, finché si può. Per dormire tranquilli e svegliarsi illudendosi, nella normalità mattutina d’un quartiere popolare, l’Appio Latino, assai lontano dalle angosciose periferie della capitale, viali alberati e l’immenso polmone verde della Caffarella, giù in fondo alla strada. Poi capita che vita e morte si intreccino nonostante noi, in questa Roma che ci raccontano pacificata ma che è piena di droga, rapine e paure non raccontate più. Dunque si può morire sentendosi vivi come non mai, a 24 anni, uscendo dal pub con la fidanzata al braccio: si può morire ammazzati per proteggerla, davanti a cinquanta testimoni con una birra in mano, nel chiacchiericcio indolente di una serata di questo autunno che a Roma sembra ancora estate ed è così dolce da passeggiare, da farci l’amore. Luca Sacchi è morto così, di morte assurda, vittima di una rapina inverosimile. Come se i due mostri che l’hanno ucciso (mostri con accento romanesco, a scanso di impennate xenofobe) fossero usciti fuori con la loro Smart bianca da uno spazio-tempo diverso dal suo, dove il male comanda — e ci vuole un antropologo delle voragini cittadine come Michel Agier per immaginare posti dove esistiamo in contemporanea senza vederci quasi mai — mentre nei palazzi del centro i politici già si scannano: «Roma è una delle città più sicure d’Europa», dice il premier Conte rimbeccando Salvini e difendendo una Raggi molto sottotiro. Luca fa saltare il tappo di apparente tranquillità di Roma: proprio perché era uno tranquillo, senza fisime, innamorato della sua Anastasiya che ha difeso fino alla fine. Moto e arti marziali le passioni, personal trainer in una palestra di ju jitsu della zona, fisico scolpito: una sicurezza di sé che lo ha indotto a non abbassare la testa, a reagire. Certo, qui ancora se lo ricordano «lo stupro della Caffarella»: i due fidanzatini aggrediti da due romeni vennero a chiedere aiuto proprio in un bar qui sopra, il Simon Café, ma è roba di dieci anni fa. Certo, su una panchina non lontana da qui, al Tuscolano, hanno da poco fatto secco Diabolik, il capo ultrà intrugliato con mala e fascisti. Ma, appunto, sembra una storia tracimata dal mondo di là, quello dei mostri e della Smart Bianca, possiamo fingere (sbagliando) che non ci riguardi. Luca Sacchi invece ci riguarda come un figlio. Un figliolo di casa, dicono, che ancora viveva coi genitori e il fratello in una stradina della zona, via Fiorini, dove un vicino si commuove, «era buono come il pane, l’ho visto crescere»: uno che sul profilo Facebook teneva post contro le aggressioni ai commercianti, ai controllori dei bus, rilanciava post di Matteo Salvini sulla sicurezza. È probabile che la sua morte diventi sempre più, nelle prossime ore, materia di scontro nella permanente campagna elettorale italiana; non è da escludere che questa giovane vittima assuma la forza simbolica che ebbe Giovanni Reggiani, la cui morte, per mano del romeno Romulus Mailat, fu propellente nella marcia di Gianni Alemanno sul Campidoglio. Perché questo squarcio tra mondi che l’ha risucchiato riapre domande serie su Roma. Una signora genovese amica della sua famiglia ha anche qualche risposta, davanti al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni: «Vivo qui vicino, a piazza Re di Roma, da vent’anni e questo non è un posto sicuro, ai miei figli dico sempre di non parlare con nessuno, qui non si può essere onesti». Anche Laura, che abita al civico 93 di via Bartoloni, affaccia in pratica sulla scena del delitto e ha sentito «il botto», ha una storia di mille paure da raccontare: «Lo vede quell’albero? Da lì si arrampicano e ci entrano nel palazzo, siamo bersagliati da furti e rapine. Molti non riescono a comprarsi la droga col reddito di cittadinanza», sussurra velenosa: «L’altro pomeriggio in via Urbana, mia figlia è stata afferrata per lo zainetto da un disperato, lei gli ha dato un pugno ed è scappata... sa, è pianista mia figlia, mica è Rambo». Già, c’è l’altra Roma che acchiappa questa per i piedi, cerca di trascinarla giù, nei luoghi comuni di ghetti come Torpignattara o Tor Bella Monaca, la Roma problematica che ci tramandiamo come un esorcismo (bordi di periferia...). Quella che non raccontiamo, perché ormai viene omessa dalle fonti investigative ai cronisti per non creare «allarme sociale», è una Roma di microcrimini: duecento aggressioni da inizio anno sugli autobus dell’Atac (quelle a cui Luca era così sensibile); una Roma dove aumentano le rapine, in casa, nelle farmacie, nei supermercati, spesso a mano armata. E dove lo spaccio continua a essere centrale su troppe piazze. Di tutto ciò si trova traccia nella relazione annuale del procuratore generale di Corte d’appello ma sempre meno nelle cronache quotidiane. È una Roma nera derubricata a «percezione» e spesso neppure denunciata. Che talvolta si riconcilia con la Roma pacificata, ma solo sui muri e nella fantasia innamorata di qualche writer del quartiere: sei bella come ‘na prigione che brucia... Sarebbe piaciuta anche a Luca per la sua Anastasiya.

L'articolo di ''Open'' su Luca Sacchi il 25 Ottobre 2019. «Era un ragazzo a posto, uno sportivo», racconta a Open il nutrizionista sportivo di Luca Sacchi, il ragazzo di 24 anni morto giovedì mattina a Roma dopo essere stato colpito alla testa durante un tentativo di rapina. I due rapinatori sono ancora in fuga. Luca abitava non lontano dal luogo dell’omicidio, ed era fidanzato con Anastasiya, la ragazza di 25 anni colpita anche lei alla testa durante l’aggressione avvenuta fuori dal pub John Cabot alle 23.20 del 23 ottobre. Il nutrizionista, che lavora nella stessa palestra in cui Sacchi faceva il personal trainer, lo ricorda come un ragazzo sportivo, dice che secondo lui «non si tratta di un regolamento di conti o cose del genere». Sulla sua bacheca Facebook tante le condivisioni sul mondo dello sport, dal jujutsu al calcio, passando per i motori. Nella sua pagina anche una foto con la maglia di Jimi Hendrix. Era un giovane di idee sovraniste, come si vede chiaramente dai post sulla sua pagina Facebook. Luca si era diplomato al liceo scientifico Kennedy e lavorava come personal trainer. In alto nella sua pagina Facebook il ricordo di una giornata passata con la fidanzata, Anastasiya, una 25enne di origini ucraine che lavorava come baby sitter.

Il capo della polizia getta ombre su Luca Sacchi: non è un povero ragazzo scippato. Alessandra Danieli venerdì 25 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia.  Ombre su Luca Sacchi. Non bastavano le strumentalizzazioni politiche sull’omicidio del ragazzo freddato a Roma da una pistolettata per difendere la sua ragazza dall’aggressione di due scippatori. A qualche ora dal fermo dei due presunti assassini, il capo della polizia, Franco Gabrielli, getta ombra sulla vittima ventiquattrenne.

Il capo della polizia getta ombra su Luca Sacchi. «Gli accertamenti che l’autorità giudiziaria disvelerà, quando riterrà opportuno, non ci raccontano la storia di due poveri ragazzi scippati. Lo dico tenendo sempre ben presente, non vorrei essere equivocato, che stiamo parlando della morte di un ragazzo di 24 anni». Parole pesanti quelle di Gabrielli, che fanno capire che esiste una verità non detta sul profilo di Luca.

La pista della droga. La smentita della fidanzata. Parole che fanno riferimento alle polemiche seguite a caldo all’omicidio, la cui dinamica è ancora tutta da chiarire. Ma soprattutto alla pista della droga seguita dagli inquirenti, in base alla quale il movente della rapina potrebbe avere a che fare con uno spaccio fallito. Pista negata con forza dalla fidanzata di Luca Sacchi dai microfoni del Tg1. «La droga? Non centra niente»,  ha detto Anastasia Kylemnyk. «Luca era lì per guardare il fratellino piccolo che si trovava nel pub. Non ha mai incontrato gli spacciatori. Non ho visto e sentito nulla. Ho sentito solo la voce di un ragazzo romano e giovane. Mi ha detto “dammi sto zaino”. E Luca mi ha protetto come ha sempre fatto».

Il plauso di Gabrielli alla risposta delle forze dell’ordine. Il capo della polizia ha poi parlato di una «vicenda gravissima. Che dovrebbe imporre ad ognuno di noi un atteggiamento di grande riflessione e rispetto». Si è anche detto soddisfatto «della risposta delle forze di polizia. Che hanno agito in maniera sinergica, senza gelosie». Da non trascurare “con un certo sollievo”, ha detto ancora, «che questa vicenda ha visto coinvolta la stessa famiglia di uno degli autori dell’efferato gesto».

«Roma ha problemi ma non è Gotham city». Gabrielli non ha negato l’emergenza sicurezza a Roma, ma ha invitato ad abbassare l’allarme. «Ci sono dei problemi, ma Roma non è Gotham city», ha detto citando la città immaginaria, la terra di nessuno in preda a criminali di ogni tipo, dove agisce l’eroico Batman per ripristinare la legalità.

Omicidio Luca Sacchi, fermo pm: «Del Grosso e Pirino dovevano consegnare droga a amici vittima». Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Il decreto di fermo nei confronti degli aggressori di Luca Sacchi, il 24enne romano ucciso ieri, confermerebbe l’ombra dello spaccio di stupefacenti dietro l’omicidio, nonostante la smentita dei familiari e della fidanzata. Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, fermati per l’omicidio di Luca Sacchi, dovevano «consegnare dello stupefacente ad un gruppo di amici della vittima, ma in realtà erano intenzionati a rapinare i giovani dei soldi che sapevano detenere in uno zaino da donna senza consegnare la droga». È quanto riportato nel decreto di fermo del pm firmato questa mattina, di cui l’Adnkronos ha preso visione. I due «a bordo di una Smart di colore chiaro, armati di un revolver calibro 38 e di una mazza da baseball in via Teodoro Momsen e all’uscita del pub John Cabot si avvicinavano alla vittima e alla fidanzata Anastasia che deteneva il denaro nello zaino a spalla e - si legge nel decreto - mentre Pirino la colpiva con una mazza alla nuca intimandole di consegnare lo zaino che le strappava una volta a terra, Del Grosso alla reazione di Sacchi, che affrontava l’aggressore, esplodeva contro Sacchi un colpo di arma da fuoco da distanza ravvicinata in direzione del capo». Già il capo della Polizia, Franco Gabrielli, aveva fatto intuire che non si trattava della «storia di due ragazzi scippati», circostanza che aveva confermato le illazioni su uno scenario molto più complesso di quello che si era configurato in un primo momento. Erano presenti anche altri pusher nella zona del pub la notte dell’omicidio di Luca Sacchi, secondo quanto emerge dal decreto di fermo disposto dal pm di Roma, Nadia Plastina. In particolare il pm cita le «sommarie informazioni» rese da un uomo che ha descritto, per averle direttamente vissute, le fasi precedenti il delitto, spiegando che lui stesso era stato incaricato da Del Grosso di verificare se le persone in zona Tuscolana avessero il denaro per acquistare come convenuto la «merce». Il teste afferma di essersi recato con altre due persone «in via Latina intorno alle 21:30 del 23 ottobre incontrandone una terza, alla quale si presentava come inviato di Valerio». Sempre secondo il giovane «una donna in quel contesto aveva lasciato uno zaino che lui stesso aveva constatato contenere soldi divisi in due mazzetti da 20 e da 50 euro. Accertata la presenza del danaro la ragazza aveva ripreso lo zaino mentre arrivava subito dopo il Del Grosso». Il testimone ha quindi detto di essere «entrato poi nel pub e di aver sentito subito dopo urla di una donna ed un colpo». Determinanti per la cattura sono stati i genitori e il fratello di Valerio Del Grosso, che hanno riferito presentandosi ieri sera al commissariato di San Basilio «di aver appreso da un amico di Valerio che aveva chiesto di vederlo urgentemente con una telefonata, che Valerio aveva sparato ad una persona». Anche la fidanzata di Valerio Del Grosso è stata sentita e ha raccontato la notte concitata con lui dopo l’omicidio: lui era andato a prenderla intorno alle undici di sera, aveva incontrato e parlato con diverse persone, e poi intorno alle tre, quando lei aveva chiesto di tornare a casa, le aveva chiesto di andare a dormire in un albergo. «Valerio - spiega ancora la ragazza - mi aveva detto che era successo un casino e che lui aveva esagerato nel comportarsi». Solo il giorno dopo, vedendo i titoli dei giornali, la ragazza ha chiesto ancora spiegazioni e a quel punto Valerio è crollato: «Mi riferiva che aveva sparato in testa ad una persona non specificandone le motivazioni- si legge nei verbali - tutti gli amici me compresa consigliavamo a Valerio di andarsi a costituire. Lo stesso mi pregava di accompagnarlo in un albergo per stare con lui e fargli compagnia». Proprio in quell’albergo le forze dell’ordine hanno rintracciato e bloccato il giovane, che non ha opposto resistenza, quasi convinto ormai a costituirsi. Intanto è stato fissato per domani mattina l’interrogatorio di convalida del fermo di Valerio De Grosso e Paolo Pirino, i due ragazzi di 21 anni di San Basilio fermati in relazione all’omicidio di Luca Sacchi. Ai due giovani il pm Nadia Plastina contesta i reati di concorso in omicidio, rapina aggravata e detenzione e porto abusivo di arma comune da sparo. «Sussistono specifici elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di fuga», scrivono i pm di Roma nelle sette pagine del decreto con cui hanno disposto il fermo di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, accusati dell’omicidio di Luca Sacchi. I due «erano oramai consapevoli delle indagini a loro carico e godendo di non poche complicità potrebbero fuggire per sottrarsi alle conseguenze dell’omicidio», conclude la Procura di Roma.

Fermati due ventenni per l’omicidio di Luca. «Vendevano marijuanaalla sua ragazza». Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Una rapina nata come fregatura alla ragazza che da loro faceva la spesa all’ingrosso di «erba», un revolver in tasca per ogni evenienza e nessuno scrupolo a usarlo. Valerio del Grosso e Paolo Pirino, ventidue anni il primo, ventuno il secondo, sono i presunti assassini di Luca Sacchi, ucciso mercoledì sera al quartiere Appio Latino mentre impediva che i due prendessero lo zaino dove — come si legge nel decreto di fermo emesso ieri mattina — la sua fidanzata Anastasiya Kylemnyk custodiva duemila euro in mazzette «da 20 e 50 euro». Pirino e del Grosso sono accusati di concorso in omicidio volontario, rapina, detenzione abusiva di armi. Non hanno confessato sebbene le prove siano schiaccianti e oggi saranno sentiti dal gip per la convalida dell’arresto. «Gli accertamenti svolti non ci raccontano la storia di due poveri ragazzi scippati», commenta il capo della polizia, Franco Gabrielli, a margine di un evento pubblico e svela i retroscena di una rapina apparsa subito anomala. La ricostruzione fatta dal lavoro di polizia e carabinieri con il coordinamento del procuratore reggente Michele Prestipino, l’aggiunta Nunzia D’Elia e il pm Nadia Plastina parte dall’intenzione della 25enne ucraina di comprare una ingente quantità di marijuana a nome di un gruppo di amici. Anastasiya, dopo la sua serata da baby sitter, incontra Luca nei pressi del pub John Cabot e insieme parlano con tale Valerio Rispoli. Ma in precedenza hanno avuto un contatto con del Grosso (come risulterebbe anche dal telefono della ragazza), dal quale Rispoli è «incaricato di verificare se le persone in zona Tuscolana avessero il denaro per acquistare la “merce”». Anastasiya mostra a Rispoli il contenuto dello zaino in pelle rosa e del Grosso arriva con una Smart bianca assieme a Pirino. L’accordo si fa ma i due dicono di non avere l’erba con sé e che torneranno. È il prologo del piano per la rapina. Altri testimoni raccontano di aver visto la Smart seguire i due per un tratto di strada. Quando il momento si fa propizio Pirino scende, si lancia sulla borsa di Anastasiya e colpisce la ragazza con una mazza da baseball già ritrovata. Quello che non si aspetta è la reazione di Luca, esperto di arti marziali. Pirino soccombe e Del Grosso arriva in suo soccorso. Spara un unico colpo alla nuca del 24enne che si accascia in una pozza di sangue. «Siamo arrivati a loro per gradi, non è vero che si sono costituiti», precisa il procuratore Prestipino. La voce nasceva dal fatto che la mamma di Del Grosso si è presentata in commissariato alle 20 di giovedì dicendo di sapere che il ragazzo è coinvolto nel delitto, come le ha rivelato l’altro figlio, Andrea. Dopo il delitto, Valerio è stato con la sua ragazza Giorgia, tenendola però all’oscuro di tutto. La mattina seguente è andato al lavoro, ma dopo aver saputo della morte di Luca, si è allontanato con una scusa. Viene trovato la notte stessa in un residence di Tor Cervara dove si era registrato con il proprio nome visto che la fidanzata si era rifiutata di mettere a disposizione il documento. Pirino è invece nascosto tra i cartoni nel sottotetto di un palazzo a Tor Pignatara. Per entrambi il pm ritiene concreto il pericolo di fuga «in un contesto di gravità e allarme destato dai reati commessi». «Prima di donare gli organi, l’ospedale ha effettuato tutti gli accertamenti clinici e tossicologici», precisa Domenico Pavone, legale della famiglia Sacchi per smentire l’uso di sostanze da parte del ragazzo. Ancora ieri Anastasiya diceva: «Questioni di droga? No, Luca era un buono, eravamo lì per guardare suo fratello». Ma sui soldi che aveva con sé sono in corso verifiche.

Luca Sacchi, la rivelazione: "Cos'è emerso dagli esami in ospedale". Cambia il quadro dell'inchiesta. Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Nuovo colpo di scena nella tragica vicenda di Luca Sacchi, il ragazzo ucciso a Roma in un tentativo di rapina. La droga non c'entra, spiega l'avvocato della famiglia del 24enne romano, smentendo così l'ipotesi fatta circolare nelle ultime ore di un presunto "regolamento di conti" tra la vittima e i suoi due killer. "La famiglia di Luca ha dato l'ok per l'espianto degli organi che sono stati donati - riferisce l'avvocato Domenico Pavone -. L'espianto è stato regolarizzato dall'ospedale con esami clinici e tossicologicamente negativi a qualsiasi uso di stupefacenti, quindi la salute del ragazzo era perfetta e non faceva uso di stupefacenti. Chiediamo il rispetto del lutto della famiglia, in quanto sua il padre che la madre sono distrutti. Per il resto ci rimettiamo a inquirenti e investigatori, in attesa che ci venga dato l'ok per i funerali". "La mamma di Luca - ha concluso il legale - non riesce nemmeno a parlare, ho letto della mamma di uno dei fermati che lo ha denunciato. La sua, certo, è una iniziativa lodevole". Anche la fidanzata di Luca, Anastasia Kylemnyk, esclude categoricamente che si sia trattato di un omicidio legato a questioni di droga. "Noi eravamo lì per tenere d'occhio il fratellino che era al pub - ha spiegato al giovane ucraina intervistata dal Tg1 -. Luca non è quello che dicono, Luca è l'amore, è solo questo. Non ci sono altre parole per definirlo, ha dato tanto amore, l'ha ricevuto e lo riceverà in continuo, sarà sempre con noi".

Luca Sacchi, la fidanzata di Valerio Del Grosso: "Dopo averlo ucciso mi chiese di andare con lui in hotel". Libero Quotidiano il 26 Ottobre 2019. Si aggrava sempre più la posizione di Valerio Del Grosso, il 21enne accusato di aver ucciso Luca Sacchi. "Il 23 ottobre scorso mi ha messaggiato chiedendomi di voler uscire insieme per una passeggiata. Alle 23.15 circa ho ricevuto uno squillo da parte sua che mi avvisava che era arrivato sotto casa mia". Così la compagna ha raccontato ai poliziotti della Squadra Mobile e ai carabinieri del Nucleo Investigativo quanto accaduto nella serata del 23 ottobre, pochi minuti dopo l'omicidio. "Durante l'uscita insieme Valerio per diverse volte mi faceva fermare con la vettura per scendere a parlare con diversi nostri conoscenti. Dopo ripetute richieste di spiegazioni, Valerio mi ha riferito che mentre era in compagnia di Paolo Pirino (l'altro fermato) lo stesso aveva dato una bastonata ad una persona non specificando il motivo e il soggetto vittima. Intorno alle 3 chiedevo a Valerio di essere accompagnata a casa, ma lui mi ha chiesto di andare a passare la notte con lui in un hotel perché era meglio non tornarci". La ragazza prosegue: "Valerio mi aveva detto che era successo un casino e che lui aveva esagerato nel comportarsi". La fidanzata parla anche del crollo emotivo del fidanzato che, il giorno dopo, ha letto i titoli dei giornali: "Così è crollato e ha riferito che aveva sparato in testa ad una persona non specificandone le motivazioni...tutti gli amici me compresa consigliavamo a Valerio di andarsi a costituire. Lo stesso mi pregava di accompagnarlo in un albergo per stare con lui e fargli compagnia". Proprio in quell'albergo le forze dell'ordine hanno rintracciato e bloccato il giovane, che non ha opposto resistenza.

La denuncia della madre "Mio figlio meglio in cella che con gli spacciatori". Giovanna Proietti, è entrata nel commissariato di San Basilio con le lacrime in gola e il cuore a mille: "Credo che Valerio abbia fatto una cazzata". Paolo G. Brera e Rory Cappelli il 26 ottobre 2019, su La Repubblica. "Meglio in galera che tra gli spacciatori". Ci vuole coraggio, a essere madri. Giovedì pomeriggio, mentre il sole caldo imbruniva in una capitale sconvolta dalla brutalità dell'omicidio di un ragazzo di 24 anni, la madre di un ragazzino persino più giovane, Giovanna Proietti, è entrata nel commissariato San Basilio con le lacrime in gola e il cuore a mille: "Credo che Valerio abbia fatto una cazzata", ha sussurrato sorretta al figlio maggiore, Andrea, sgretolando il castello di carte degli alberghetti in cui il terzo dei suoi figli, in fuga, cercava di sparire. Non lo vedeva da due giorni. Valerio non era tornato a dormire nella villetta a due piani in cui è cresciuto e vive con mamma e papà Gianni, con la sorellina 14enne, con l'altro fratello Simone e con la cognata Azzurra. Dietro l'aiuola di lauroceraso, i vasi di fiori e il cuoricino "Love" al muro, Giovanna e Gianni hanno fatto di tutto per tenere unita la famiglia. Quando Simone si è fidanzato con Azzurra, hanno ricavato un appartamento separato. "Gianna lo aveva fatto anche per Valerio, quando aveva conosciuto quella ragazza di San Basilio e l'aveva messa incinta", racconta il macellaio. L'appartamento era pronto, ma l'amore non è sbocciato e finì male soprattutto per lei: Valerio la prese a botte, ci ha perso un timpano. Il processo per percosse è pendente, mamma Giovanna c'è impazzita di dolore. Casal Monastero è un paese nato dal nulla 26 anni fa, si conoscono tutti: un quartiere dormitorio periferico ma molto gradevole, palazzoni e villini a schiera, tutto fiori e inferriate per la prossimità con Torraccia e San Basilio, due delle periferie più degradate di Roma. "Valerio è sempre stato un bravo ragazzo, per un po' ha frequentato mia figlia. Quando faceva stupidaggini da adolescente, come abbiamo fatto tutti, Giovanna gli stava sopra. Gli faceva agguatini, lo sgamava sempre", racconta la titolare del negozio Riann. Aveva poca voglia di studiare, Valerio, ma che soddisfazione per Giovanna quando, dopo l'alberghiero, aveva trovato "un posto in cucina in un ristorante in centro. Ne era così orgogliosa". Problemi di soldi, d'altronde, non ce n'erano. Papà, "un bell'uomo che somiglia tanto a Totti", dice un'altra vicina incredula per la sbandata irrecuperabile di quel "bravo ragazzo che ha fatto brutte amicizie", era "un dirigente dell'Algida". Ma lui e Giovanna, "una donna bella, bellissima anche ora che ha cinquantanni", avevano quattro figli e un obiettivo comune: "Far crescere unita la loro meravigliosa famiglia", e così "lui aveva mollato l'Algida e aperto due gelaterie a Tor Sapienza, con l'idea di dar lavoro lì ai figli". Qualche anno dopo "ha investito in una licenza da Ncc, ha messo su un'agenzia in cui lavora anche il figlio grande, Andrea, l'unico che avendo due figli era andato a vivere altrove". "Tantissimi auguri a teeee che sei una mamma, nonna e suocera Unica e Speciale. Tu che mi hai sopportato e supportato sempre, che sei stata con me nel momento più bello della mia vita mi hai assistito nel vero senso della parola. Sei la mia amica e confidente speciale. Grazie per tutto quello che fai per noi. Ti vogliamo tantissimo bene", le ha scritto tre giorni fa la cognata Azzurra. "Grazie a te che mi consenti di partecipe nella vostra vita e nella crescita delle mie fantastiche nipotine", le ha risposto Giovanna. Anche mamma Giovanna lavorava duro, ma non aveva bisogno di farlo a stipendio: "Era una mamma a tempo pieno per i suoi quattro figli, l'ultima ha 14 anni, e so che stavano cercando di ottenere l'affido del bimbo di Valerio, che adesso vive in una situazione degradata con la madre". Giovanna sognava di riorganizzare casa, di crescere anche l'ultimo arrivato insieme ai suoi figli. Da febbraio Valerio aveva trovato lavoro accanto a casa, nel ristorante pasticceria all'angolo. I titolari lo adoravano: "Puntuale, affidabile, gran bravo ragazzo. Era diventato un po' il ribelle di una famiglia fantastica, ma che facesse una cosa simile era impensabile". È a lui che è squillato il telefono, giovedì sera: "A Giovanna tremava la voce. Sai dov'è Valerio? Mi aveva chiesto di lasciare il lavoro alle 11: Non mi sento bene, aveva detto. Non mi ero preoccupato, ho pensato a piccoli eccessi, ma quando ho sentito la voce di Giovanna...". Lei era in commissariato, a rimetterlo in riga. Sui binari, pur sapendo che stavolta è un binario morto.

Luca Sacchi, ucciso a Roma: nello zaino della fidanzata Anastasiya 2.000 euro in contanti. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it. Fino a ieri mattina ha continuato a sostenere che «la droga non c’entra con la morte di Luca». Ma le testimonianze e gli elementi raccolti da polizia e carabinieri smentiscono le dichiarazioni pubbliche e il verbale di Anastasiya Kylemnyk, la baby sitter di 25 anni che mercoledì notte è stata presa a bastonate da Paolo Pirino e Valerio Del Grosso al quartiere romano Appio Latino, poco prima che il fidanzato Luca Sacchi venisse colpito a morte con una revolverata esplosa dal secondo ragazzo. È lei a questo punto — come sospettato fin dai primi momenti dai carabinieri del Nucleo investigativo — il personaggio chiave del delitto di Roma. Perché sarebbe proprio la giovane ucraina, nella Capitale dal 2003, ad aver mostrato agli spacciatori giunti da Casal Monastero i soldi nel suo zainetto di pelle rosa: rotoli di banconote da 20 e 50 euro per un totale 2.000 euro, denaro che sarebbe dovuto servire per acquistare una partita di marijuana sufficiente per lei e tre amici che si trovavano nel John Cabot Pub. A mettere nei guai la fidanzata di Luca Sacchi c’è la testimonianza di Valerio Rispoli, amico e contatto di Del Grosso che aveva chiesto di portare la droga all’Appio Latino. E ora la posizione della baby sitter potrebbe aggravarsi. A Regina Coeli sono invece già rinchiusi sia Del Grosso sia Pirino. Sono cresciuti e abitano con le famiglie a Casal Monastero, quartiere della periferia romana vicino a San Basilio, il rione dove nella Capitale i clan dello spaccio sono più attivi. E adesso bisognerà capire se anche loro fossero in qualche modo collegati ai gruppi criminali. Non a caso le indagini puntano a capire se la trasferta di mercoledì sera dei due presunti assassini sia stata una loro iniziativa oppure facesse parte di una serie di ordini impartiti dai boss. Di certo i due ragazzi sono partiti per effettuare «la consegna» all’Appio, a bordo della Smart bianca di Pirino, armati di revolver e mazza da baseball. E senza marijuana. Non sapevano che quel tentativo di rapinare soldi a una potenziale cliente sarebbe stato il tragico epilogo della loro carriera di spacciatori. Pirino, detto «Paoletto», viene descritto come il più duro dei due. Tatuaggi a tema, donne e pistole. Un «1998» stampato sulle dita di una mano. Ha un passato da pusher. Mercoledì sera ha fatto da scorta a Del Grosso, anche in virtù della stazza fisica. È un fan della serie tv «Gomorra» e di «Scarface». Armi da fuoco puntate in faccia da giovani a volto coperto accompagnano il suo profilo su Facebook. Come le frasi a effetto, e una foto emblematica: una limousine protetta da ragazzi in scooter per le strade di San Basilio. Valerio Del Grosso, di otto mesi più giovane, ha invece una vita complicata in una famiglia di lavoratori: la madre Gianna — che poi lo ha denunciato al commissariato San Basilio, con il marito e il figlio Andrea —, il padre autista, due fratelli e una sorellina. «Uno scapestrato», spiega chi lo conosce più nel profondo. Una figlioletta di sei mesi, una denuncia per percosse nei confronti della compagna, seguita da un ordine di allontanamento disposto dal giudice. La donna, che non lo ha più voluto vedere (tanto che il giovane è tornato ad abitare dai genitori), è finita in ospedale con 40 giorni di prognosi per una lesione al timpano. «Ho fatto un macello, non volevo uccidere nessuno, volevo solo spaventarlo», ha ripetuto alla sua nuova compagna, Giorgia, che alla fine ha indicato alla polizia il «Cervara Park Hotel», a Tor Cervara, dove si era rifugiato 24 ore dopo il ferimento di Luca. Quella sorta di assurda giustificazione l’ha detta anche agli amici che ha incontrato poco dopo aver premuto il grilletto e poi nella stessa serata di giovedì. «Tutti gli amici, me compresa, a questo punto gli abbiamo consigliato di andarsi a costituire. Mi ha pregato di accompagnarlo in albergo e fargli compagnia, mi sono rifiutata. L’ho solo portato lì, alla stanza 103, poi ho detto ai poliziotti dove l’avrebbero trovato» ha detto la ragazza. Pasticciere nel laboratorio davanti a casa, giovedì mattina Del Grosso era andato al lavoro come se fosse un giorno qualsiasi. Sapeva cosa aveva fatto all’Appio Latino, ma ha cercato di comportarsi come se nulla fosse accaduto. Nella tarda mattinata, forse dopo aver appreso della morte di Luca Sacchi, ha chiesto alla titolare di tornare a casa. «Mi sento male», ha detto prima di andare via vestito così com’era, da pasticciere. Poi ha richiamato Giorgia, cercando un aiuto che non ha trovato.

Luca Sacchi, "soldi in mazzette da 20 e 50 euro nello zaino" della fidanzata Anastasia: droga, la svolta. Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Mazzette di denaro nello zaino di Anastasia Kylemnyk, la fidanzata di Luca Sacchi ucciso con un colpo alla testa a Roma da due 21enni. Soldi che sarebbero serviti ad acquistare droga per gli amici dei due fidanzati.  Nel decreto del pm che ha portato al fermo dei due sospettati per l'omicidio, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, viene riportata la deposizione di un amico dello stesso Del Grosso che era presente nelle fasi precedenti al delitto. Il ragazzo riferisce di essere stato "incaricato da Del Grosso - scrive il pm - di verificare se persone in zona Tuscolano avessero il denaro per comprare come convenuto merce e di essersi recato (...) a bordo della vettura di questi, in via Latina, intorno alle 21.30 del 23 ottobre incontrando tale (...) già a lui noto al quale si presentava come inviato da Valerio". Leggendo la testimonianza del ragazzo emerge che "una donna in quel contesto aveva lasciato uno zaino che lui stesso - scrive il pm - aveva constatato contenere soldi divisi in due mazzette, da 20 e 50 euro. Accertata la presenza del denaro la ragazza aveva ripreso lo zaino mentre arrivava subito dopo il Del Grosso che parlava con (...) della cessione di erba. Lo stesso - si legge sempre nel decreto - era entrato poi nel pub John Cabot con (...) e aveva sentito subito dopo urla di una donna ed un colpo. Il (...) indicava in Pirino Paolo la persona che si accompagnava a Valerio Del Grosso per come ha appreso successivamente soggetto che aveva visto girare nel loro quartiere con una Smart bianca 4 posti". Secondo i pm i due killer avrebbero cercato di rubare lo zaino con i soldi ad Anastasia, provocando la reazione difensiva del fidanzato Luca. A quel punto Pirino avrebbe sparato in testa al 24enne con un colpo di pistola ravvicinato.

Roma, fermati i due ragazzi sospettati dell'omicidio di Luca Sacchi. Da ilmessaggero.it il 25 ottobre 2019. Tatuaggi, armi, Scarface, lo sguardo di sfida. Il profilo Facebook di Paolo Pirino, uno dei due fermati per la morte di Luca Sacchi, è un inno alla filosofia del 'gangsta' di periferia in chiave Gomorra. La foto che campeggia sulla pagina è di tre incappucciati armati e ancora più giù foto di uomini con mitra e pistole. Ed è una pistola spianata quella che Pirino ha tatuata sul petto assieme all'immagine di tre donne. Tatuaggi che Pirino sfoggia in più foto, come quello sulla mano sinistra, l'anno di nascita - 1998 - e l'effigie della Madonna. Poi tanti post con canzoni neomelodiche e frasi ad effetto e foto che ritraggono Pirino in atteggiamenti da duro, jeans strappati e giubbotti di pelle. Tre uomini armati di pistola con il volto coperto come immagine di copertina e, nel profilo, gli slogan da ribelle e le foto con gli amici in pose da duri. Così il profilo Facebook di Paolo Pirino, uno dei due sospettati della morte del 24enne Luca Sacchi. All'apparenza un ragazzo come tanti con la barba incolta, gli orecchini e il petto completamente coperto dai tatuaggi, la passione per serie tv come Gomorra e Romanzo Criminale, per pugili e atleti della MMA come Floyd Mayweather e Conor McGregor e per rapper come 50 Cent. Non mancano meme e citazioni con foto di armi da fuoco nei suoi pochi post pubblici. «Prendi la vita come viene, tanto tutto può cambiare in un attimo...», recita uno slogan condiviso da Pirino. «Sia nel bene che nel male io la mia vita me la godo finché posso...Degli altri? Non me ne frega un ca...! Nessuno mi ha regalato niente», si legge in un'altra foto abbinata a una celebre immagine di Scarface Al Pacino. La mobile: indagine lampo. «È stata un'indagine lampo». Lo ha detto il dirigente della Squadra Mobile di Roma, Luigi Silipo, dopo il fermo dei due presunti responsabili della morte di Luca Sacchi. «Non si sono assolutamente costituiti - hanno detto gli investigatori - sono stati raccolti elementi e poi sono stati catturati fuori dal domicilio, in luoghi dove si nascondevano. Hanno usufruito di legami familiari e di conoscenze». Uno dei due è stato rintracciato in un residence ed entrambi «non hanno opposto resistenza». Il colonnello Mario Conio, comandante del Reparto operativo dei Carabinieri di Roma ha sottolineato: «Si è subito lavorato in piena coordinazione e sinergia tra Questura e comando provinciale dei carabinieri di Roma».

Tatuaggi sul corpo, foto di persone armate e frasi a effetto sui social: chi sono i due arrestati. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su Corriere.it da Luca Sacchi. Gomorra, la serie tv, ma anche Scarface e i cantanti neomelodici. Tatuaggi con donne a volto coperto che puntano la pistola, foto di giovani armati fino ai denti. «Folle è colui che non ha mai smesso di lottare. Nonostante i problemi, i momenti bui e le delusioni della vita, perché alla resa ha preferito la battaglia». Così sulla pagina Facebook di Paolo Pirino, il 21enne fermato da polizia e carabinieri per l’omicidio di Luca Sacchi. Armi da guerra, volti coperti da cappucci e bandane, frasi ad effetto. Tatuaggi ovunque, quasi tutti con temi violenti, come quelli di Valerio Del Grosso. «Un ragazzo per bene - continuano a ripetere i residenti del suo stesso quartiere - con un lavoro in pasticceria. Non riusciamo a crederci». Considerati però già piccoli boss dalla pistola facile, catturati da chi indaga dopo la denuncia della madre di quest’ultimo che si è presentata giovedì notte negli uffici del commissariato San Basilio. Facce da duri, jeans e giubbotti di pelle. Uno con precedenti per spaccio, il secondo per percosse. Ne hanno scovato uno in un hotel-residence di Tor Cervara e l’altro in una casa di proprietà della sua famiglia a Torpignattara, dove si era nascosto in terrazzo. Entrambi sono nati e cresciuti a Casal Monastero, piccolo quartiere proprio di fronte a San Basilio. Case popolari accanto alla Centrale del Latte della Capitale. Probabilmente, ma saranno le indagini a stabilirlo, contatti diretti con le bande di spacciatori che si spartiscono il rione storico del commercio di cocaina insieme con Tor Bella Monaca. Giravano in Smart con un revolver pronto all’uso, preparati ad affrontare trasferte dall’altra parte di Roma, come quella di mercoledì notte all’Appio Latino. Per vendere stupefacenti, per chi sta svolgendo le indagini, ma forse anche per regolare conti in sospeso. Disposti a sparare al minimo accenno di reazione.

"Paoletto" e Valerio, chi sono i due giovani arrestati per l'omicidio di Luca Sacchi. Nel profilo social del primo molte scene di film come "Scarface" e Gomorra, con armi e tatuaggi. Per Del Grosso pochi social, ma un lavoro in pasticceria e un figlio di pochi mesi. Flaminia Savelli il 25 ottobre 2019 su La Repubblica. Lo sguardo da duro che fissa la telecamera del cellulare, una pistola e una foglia di marijuana tatuate sul petto: è la foto di Paolo Pirino, per gli amici di San Basilio “Paoletto”, arrestato per l’omicidio di Luca Sacchi, il 24enne freddato con un colpo di pistola alla testa davanti a un pub nel quartiere Colli Albani. Un’immagine molto lontana da quella che hanno visto all’alba gli agenti della squadra mobile quando lo hanno trovato nascosto in un terrazzo di una palazzina a Tormarancia. Invece sul suo profilo Facebook, le frasi e le foto pubblicate ostentano una dopo l’altra sicurezza. Con un richiamo continuo al mondo della criminalità. A partire dall’immagine di copertina, uno scatto in cui tre ragazzi sono armati e bendati e puntano la canna delle pistola verso l’obiettivo. E poi ancora, Al Pacino in “Scarface” e la citazione: ”Degli altri? Non me ne frega un ca... nessuno mi ha regalato niente!”. Valerio Del Grosso invece non ha un profilo social visibile. Anche lui vive a San Basilio, lavora in una pasticceria e, per quanto giovanissimo, ha un figlio, un bimbo di pochi mesi. Il ritratto che ne fanno i datori di lavoro, come capita, non sembra poter avere a che fare con una persona che spara un colpo di pistola alla nuca di un coetaneo durante una rapina. "E' un ragazzo solare, perbene. Non sappiamo darci una spiegazione - dice la moglie del proprietario della pasticceria di Casal Monastero dove lavorava Del Grosso - . Ieri mattina è venuto regolarmente a lavoro poi verso l'ora di pranzo ci ha detto che si sentiva male ed è andato a casa. Stamattina è invece venuto il padre, ci ha detto che non sarebbe venuto, spiegando a mio marito cosa era successo". L'avvocato lo ha incontrato per pochi minuti e lo ha trovato "molto provato". Davanti al pm si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma secondo il suo legale "vuole chiarire". Una famiglia a pezzi anche la sua: nelle ore dopo il delitto, intuito qualcosa, sua madre ha trovato la forza di andare in commissariato e dire agli agenti: "Mio figlio forse è coinvolto in quell'omicidio". "E' una famiglia squisita - dice una vicina di casa - ci conosciamo da una vita. I nostri figli giocavano insieme quando erano piccoli. Sono sconvolta. Valerio abitava qui con i genitori, la sorella, la compagna e il suo bimbo splendido che è nato 5/6 mesi fa".

La droga, il killer, lo zaino. Arrestati, ma è un giallo sulla morte di Luca Sacchi. Come per l’omicidio Cerciello, la ricostruzione dei fatti si complica. Franco Insardà il 26 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Uno zainetto con i soldi, la droga e un morto. La storia che si tinge di giallo si ripete a distanza di tre mesi con gli stessi ingredienti. Questa volta la vittima è un ragazzo di 24 anni, Luca Sacchi, freddato con un colpo alla nuca, nella notte di mercoledì davanti al pub John Cabot, nel quartiere Appio Latino a Roma. Il 26 luglio a perdere la vita fu, invece, il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ucciso a coltellate nel quartiere Prati a Roma. Ieri sono stati fermati per la morte di Luca Sacchi, due giovani di 21 anni, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, entrambi della periferia romana di San Basilio e con precedenti penali. Del Grosso è stato rintracciato in un hotel in zona Tor Cervara, dove aveva trovato rifugio, mentre Pirino è stato fermato sul terrazzo di una palazzina dove si era nascosto, in zona Torpignattara. A contribuire a individuare i sospettati è stata anche la madre Del Grosso che giovedì sera è andata in un commissariato, accompagnata dal marito e dall’altro figlio, per parlare dei i suoi sospetti. Il capo della polizia, Franco Gabrielli, ha espresso la sua soddisfazione per «la risposta delle forze di polizia, che hanno operato senza gelosie, dall’altro non posso non notare, con un certo sollievo, che questa vicenda, sotto il profilo dell’accertamento delle responsabilità, ha visto coinvolta la stessa famiglia di uno degli autori di questo efferato gesto. Dal mio punto di vista significa che forse non siamo poi messi così male in questa città». Dalle indagini, però, emergerebbe uno scenario diverso da quello iniziale. Nelle prime ore sembrava trattarsi, infatti, di un tentativo di scippo finito nel sangue. In realtà, secondo le prime ricostruzioni investigative, l’omicidio nasconderebbe uno scambio di droga andato male. Quella sera Luca Sacchi e la sua fidanzata, viene riferito, volevano acquistare della droga e per questo si sarebbero avvicinati ai due sospettati e avrebbero mostrato loro il denaro contenuto nello zaino della ragazza. I due 21enni, quindi, sarebbero poi tornati indietro con la droga ma, armati di pistola, avrebbero tentato di rubare lo zainetto. È a quel punto che Luca Sacchi avrebbe reagito; poi, il colpo di pistola alla nuca che lo ha freddato. Ma Anastasia Kylemnyk ai microfoni del Tg1, insiste nella sua versione: «Noi eravamo lì per il fratellino più piccolo che stava dentro al pub, Luca non è quello che dicono, Luca è l’amore, non ci possono essere altre cose per definirlo. Non ho sentito nulla – racconta- non ho visto nessuno, ho sentito solo la voce del ragazzo, accento romano. Mi ha detto “damme sto zaino”. Luca ha tentato di proteggermi, se si fosse nascosto non sarebbe successo nulla. Io ero a terra, ho preso una botta in testa e non capivo niente. Mi hanno dato anche una bastonata sulla schiena. Luca è uno sportivo, grosso, si allena sempre, non ci ha visto più ed e venuto a proteggermi, ha atterrato uno di loro e si sono spaventati. Mi ha protetto come sempre fatto». L’avvocato Alessandro Marcucci, legale di Valerio Del Grosso commenta: «Il mio assistito si è avvalso della facoltà di non rispondere ma intende chiarire, appena possibile, la sua posizione. È molto provato da una tragedia che colpisce più persone, in primis quella di Luca Sacchi. Non riusciamo ad immaginare il dolore che stanno provando. Ho avuto modo di parlare con lui per pochi minuti questa notte spiega il legale -. Questa è una tragedia che colpisce anche la famiglia di Valerio composta da persone oneste. Anche il mio cliente, da quanto so, non ha precedenti penali gravi. Lavorava come pasticcere. Questa vicenda rappresenta un fulmine a ciel sereno».

Intanto è fissato per questa mattina l’interrogatorio di convalida dei due giovani ai quali il pm Nadia Plastina contesta i reati di concorso in omicidio, rapina aggravata, detenzione e porto abusivo di arma comune da sparo. L’arma del delitto, una calibro 38, non è ancora stata ritrovata. È stata invece rintracciata in un campo, nei pressi della Centrale del Latte, una mazza da baseball, forse quella utilizzata per picchiare Anastasia Kylemnyk. 

Luca Sacchi, ucciso a Roma: nello zaino della fidanzata Anastasiya 2.000 euro in contanti. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 da Corriere.it. Fino a ieri mattina ha continuato a sostenere che «la droga non c’entra con la morte di Luca». Ma le testimonianze e gli elementi raccolti da polizia e carabinieri smentiscono le dichiarazioni pubbliche e il verbale di Anastasiya Kylemnyk, la baby sitter di 25 anni che mercoledì notte è stata presa a bastonate da Paolo Pirino e Valerio Del Grosso al quartiere romano Appio Latino, poco prima che il fidanzato Luca Sacchi venisse colpito a morte con una revolverata esplosa dal secondo ragazzo. È lei a questo punto — come sospettato fin dai primi momenti dai carabinieri del Nucleo investigativo — il personaggio chiave del delitto di Roma. Perché sarebbe proprio la giovane ucraina, nella Capitale dal 2003, ad aver mostrato agli spacciatori giunti da Casal Monastero i soldi nel suo zainetto di pelle rosa: rotoli di banconote da 20 e 50 euro per un totale 2.000 euro, denaro che sarebbe dovuto servire per acquistare una partita di marijuana sufficiente per lei e tre amici che si trovavano nel John Cabot Pub. A mettere nei guai la fidanzata di Luca Sacchi c’è la testimonianza di Valerio Rispoli, amico e contatto di Del Grosso che aveva chiesto di portare la droga all’Appio Latino. E ora la posizione della baby sitter potrebbe aggravarsi. A Regina Coeli sono invece già rinchiusi sia Del Grosso sia Pirino. Sono cresciuti e abitano con le famiglie a Casal Monastero, quartiere della periferia romana vicino a San Basilio, il rione dove nella Capitale i clan dello spaccio sono più attivi. E adesso bisognerà capire se anche loro fossero in qualche modo collegati ai gruppi criminali. Non a caso le indagini puntano a capire se la trasferta di mercoledì sera dei due presunti assassini sia stata una loro iniziativa oppure facesse parte di una serie di ordini impartiti dai boss. Di certo i due ragazzi sono partiti per effettuare «la consegna» all’Appio, a bordo della Smart bianca di Pirino, armati di revolver e mazza da baseball. E senza marijuana. Non sapevano che quel tentativo di rapinare soldi a una potenziale cliente sarebbe stato il tragico epilogo della loro carriera di spacciatori. Pirino, detto «Paoletto», viene descritto come il più duro dei due. Tatuaggi a tema, donne e pistole. Un «1998» stampato sulle dita di una mano. Ha un passato da pusher. Mercoledì sera ha fatto da scorta a Del Grosso, anche in virtù della stazza fisica. È un fan della serie tv «Gomorra» e di «Scarface». Armi da fuoco puntate in faccia da giovani a volto coperto accompagnano il suo profilo su Facebook. Come le frasi a effetto, e una foto emblematica: una limousine protetta da ragazzi in scooter per le strade di San Basilio. Valerio Del Grosso, di otto mesi più giovane, ha invece una vita complicata in una famiglia di lavoratori: la madre Gianna — che poi lo ha denunciato al commissariato San Basilio, con il marito e il figlio Andrea —, il padre autista, due fratelli e una sorellina. «Uno scapestrato», spiega chi lo conosce più nel profondo. Una figlioletta di sei mesi, una denuncia per percosse nei confronti della compagna, seguita da un ordine di allontanamento disposto dal giudice. La donna, che non lo ha più voluto vedere (tanto che il giovane è tornato ad abitare dai genitori), è finita in ospedale con 40 giorni di prognosi per una lesione al timpano. «Ho fatto un macello, non volevo uccidere nessuno, volevo solo spaventarlo», ha ripetuto alla sua nuova compagna, Giorgia, che alla fine ha indicato alla polizia il «Cervara Park Hotel», a Tor Cervara, dove si era rifugiato 24 ore dopo il ferimento di Luca. Quella sorta di assurda giustificazione l’ha detta anche agli amici che ha incontrato poco dopo aver premuto il grilletto e poi nella stessa serata di giovedì. «Tutti gli amici, me compresa, a questo punto gli abbiamo consigliato di andarsi a costituire. Mi ha pregato di accompagnarlo in albergo e fargli compagnia, mi sono rifiutata. L’ho solo portato lì, alla stanza 103, poi ho detto ai poliziotti dove l’avrebbero trovato» ha detto la ragazza. Pasticciere nel laboratorio davanti a casa, giovedì mattina Del Grosso era andato al lavoro come se fosse un giorno qualsiasi. Sapeva cosa aveva fatto all’Appio Latino, ma ha cercato di comportarsi come se nulla fosse accaduto. Nella tarda mattinata, forse dopo aver appreso della morte di Luca Sacchi, ha chiesto alla titolare di tornare a casa. «Mi sento male», ha detto prima di andare via vestito così com’era, da pasticciere. Poi ha richiamato Giorgia, cercando un aiuto che non ha trovato.

LUCA, ANASTASIYA E IL MISTERO DEI 20MILA EURO. Fabio Tonacci per ''la Repubblica'' il 27 ottobre 2019. Non è stata una rapina casuale. Non è stata neanche un' aggressione per duemila euro, perché i soldi nello zainetto potrebbero essere stati dieci volte di più. Dunque, a maggior ragione, Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata ucraina di Luca Sacchi, non la sta raccontando tutta. La vera storia di ciò che è successo mercoledì 23 ottobre davanti al pub John Cabot, nel quartiere Appio Latino di Roma, deve ancora essere scritta. Valerio Del Grosso, accusato di aver sparato a Sacchi, e il suo compare Paolo Pirino detto Paoletto, entrambi 21 enni, sono in carcere e, davanti al gip, non hanno aperto bocca. Ma le prime risultanze dell' inchiesta condotta dai carabinieri del Nucleo investigativo e dai poliziotti della Squadra mobile permettono di tracciare i contorni di una notte di sangue che ha avuto origine, e tragico esito, nella suburra della filiera dello spaccio. Popolata di insospettabili figli della Roma bene e di squinternati mediatori. Armati, affamati di denaro e dal grilletto facile. Il gruppo di amici Andiamo con ordine. Intorno alle 21 di mercoledì Luca Sacchi è con Anastasiya al John Cabot. Luca ha 24 anni, ha il fisico scolpito dal suo lavoro come personal trainer, e, come spesso capita, è sceso al pub sotto casa insieme alla sua ragazza. Si conoscono da un lustro. Lei ha 25 anni, dal 2003 vive a Roma e fa la baby sitter. Non sono soli. Con loro ci sono due amici: un tale di nome Domenico, e Giovanni Princi, un poco più che ventenne già noto alle forze dell' ordine per un precedente per spaccio. Princi è un ragazzo sveglio e di buona famiglia: suo padre è un cardiologo, sua madre una docente universitaria con cattedra a Roma. Quella, però, non è una sera come le altre.  Non sono là per una rimpatriata. C' è uno scambio da fare, della droga da comprare. I soldi li hanno portati. Stando a quanto risulta dai tabulati telefonici, è Princi che ha il gancio giusto per rimediare della roba. E non sarà un po' di erba per passare la serata o per rivendere agli amici, stavolta è qualcosa di più importante. L' intermediario Il contatto di Princi si chiama Valerio Rispoli, uno che sta con "quelli di San Basilio", il quartiere dormitorio che ospita la più grande piazza di spaccio di Roma: sentinelle sui tetti, inferriate alle finestre, volanti della polizia gradite quanto un calcio sui denti. Rispoli conosce Princi e non è la prima volta che si sentono per cose del genere. Ma chi deve fornire la droga, Valerio Del Grosso, non si fida del gruppetto del John Cabot, vuole prima capire se hanno veramente il denaro "per la merce", quindi manda il suo intermediario in avanscoperta. Alle 21.30 Rispoli si presenta in via Latina, una traversa della strada dove si trova il pub. Con lui in macchina c' è Simone Piromalli. Entrambi sono incensurati. Si incontrano rapidamente con Princi e Anastasiya. La ragazza apre davanti a loro lo zainetto di pelle rosa che porta a tracolla: contiene il suo portafogli rosso con dentro un documento di identità e una carta postepay, un portamonete, alcuni effetti personali e le mazzette coi soldi. Quanto? Inizialmente si era parlato di 2.000 euro, ma gli investigatori sospettano fossero molto di più, una cifra tra i 10.000 e i 20.000 euro, sufficiente - in ipotesi - ad acquistare anche un bel po' di cocaina. Le banconote non sono state ancora trovate. Piromalli, a verbale, dichiara che «tre ragazzi e una ragazza erano interessati alla droga» e che «la consegna non avveniva per la mancanza dello stupefacente». Aggiunge che Del Grosso e il suo accompagnatore, Paolo Pirino, «si impegnavano ad andarlo a prendere». Tra le 21.30 e le 22.30, quindi, al John Cabot fanno la loro comparsa anche i due ragazzi ora rinchiusi a Regina Coeli.

La pistola nascosta. Ma chi è Valerio Del Grosso? Il ventunenne vive con i genitori a Casal Monastero, quartiere confinante con San Basilio. Da sette mesi lavora come aiuto pasticciere a due passi da casa. Ha una figlia di sei mesi avuta da una compagna dalla quale, per ordine del tribunale, deve stare lontano. In passato l' ha picchiata, provocandole lesioni con 40 giorni di prognosi. Si è procurato un revolver calibro 38, che tiene nascosto. Neanche Pirino sa che quella sera Del Grosso ha portato con sé il ferro, o così almeno riferirà dopo l' arresto. I due frequentano lo stesso giro a San Basilio. Paoletto, a differenza di Del Grosso, ha precedenti per stupefacenti. Alle 22.55 il pasticciere di Casal Monastero chiama Rispoli e lo avverte che stanno tornando, a bordo di una Smart bianca quattro porte, per fare lo scambio. Da questo punto in avanti la scena si fa confusa, e neanche i filmati delle telecamere di sorveglianza riescono a fare definitiva chiarezza.

La ragazza da risentire. Rispoli, Piromalli e Princi - così riferiranno ai carabinieri - rientrano nel pub. Fuori rimangono Anastasiya e Luca. La ragazza ucraina ha sostenuto di essere stata colpita da Pirino alla testa con una mazza da baseball, nel tentativo di rubarle lo zaino, e che Del Grande ha sparato alle spalle a Luca nel momento in cui lui la stava difendendo da Pirino. Ma Anastasiya ha anche detto «la droga non c'entra con questa storia», circostanza smentita e che ne mette in dubbio l' attendibilità, tant' è che verrà presto interrogata di nuovo. Quei pochi frame dei video raccontano di un' aggressione fulminea, diretta più a "neutralizzare" subito Luca, della coppia quello che poteva opporre una resistenza maggiore. Perché, però, la rapina? Anche questo è un aspetto che gli inquirenti stanno approfondendo. L' ipotesi più verosimile vuole il gruppetto degli amici del Cabot presi ed eccitati dal tentativo di fare "un salto di qualità", impegnati ad acquistare un quantitativo più sostanzioso. E Del Grosso e Pirino i rapaci che hanno fiutato l' occasione: spaventarli e rubar loro i soldi. È ciò che, dopo l' assassinio, racconterà il pasticciere: «Non volevo ucciderlo, volevo solo mettergli paura ». Qual è stato, poi, il ruolo di Luca Sacchi nella mancata compravendita? Non risulta essere un consumatore di hashish o altro, chi lo conosceva lo descrive come un tipo serio e premuroso. Che si teneva alla larga da certi giri. Con l' unica "colpa", quindi, di aver protetto la sua Anastasiya.

I KILLER NON ERANO SOLI E UN VIDEO SMENTISCE LA VERITÀ DI ANASTASIYA. Rory Cappelli e Maria Elena Vincenzi per ''la Repubblica - Cronaca di Roma'' il 27 ottobre 2019. Valerio Del Grosso e Paolo Pirino non erano soli la sera dell' omicidio, quando scapparono a bordo della Smart, dopo averla parcheggiata in seconda fila in via Mommsen, per allontanarsi il più velocemente possibile dal luogo dell' omicidio di Luca Sacchi. I ragazzi, che polizia e carabinieri stanno tentando di rintracciare, avrebbero fatto da intermediari per la vendita di droga e, così spiegano fonti investigative, avrebbero anche consegnato la pistola al killer. E mentre il questore sta pensando a una stretta su droga e movida, forse con un provvedimento, si prepara un' altra stretta: su Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata di Luca Sacchi, che aveva frequentato il liceo classico Augusto, che forse studiava all' università e che faceva lavoretti per sbarcare il lunario. Nel suo racconto, spiegano gli investigatori, ci sono troppe incongruenze, tanto che i pm vogliono risentirla. Non è stata colpita da una mazza da baseball, anzi non è stata colpita affatto: nessun segno sul corpo, nessun referto medico ad attestarlo. E poi, a quanto risulta, il gruppo con cui si accompagnava non era la prima volta che faceva azioni di questo tipo. Le immagini di videosorveglianza del negozio di tatuaggi che si trova in via Franco Bartoloni quella notte riprendono la strada di fronte, fino al marciapiede: alle 22.50 si vede passare la Smart di Del Grosso e Pirino: supera il pub John Cabot, svolta a sinistra in via Mommsen, fa il giro dell' isolato, prende due sensi unici e poco dopo rispunta dalla parte opposta di via Bartoloni. Si ferma. Poi riparte e gira a destra in via Mommsen. Si blocca in seconda fila. Sono le 22.59. Alle 23 lo sparo. Dalle immagini appare chiaro che non c' è il tempo di un' aggressione, di una colluttazione, di una mazzata in testa. In più il ragazzo viene ucciso con un colpo di pistola alla nuca: il proiettile gli esce dalla faccia e va a schiantarsi nella vetrina del pub per poi finire, ormai senza più forza, all' interno del locale, davanti ai piedi di una ragazza. La telecamera riprende due giovani che bevono birra di fronte alla vetrina. Sentono il colpo di pistola. Terrorizzati, a uno cade di mano il bicchiere, poi si precipita dall' altra parte della strada dove è arrivata Anastasiya che sta tamponando il volto di Luca: il ragazzo torna indietro con le mani nei capelli, chiaramente in panico. L'altro gira in tondo senza sapere cosa fare. Più tardi Anastasiya entrerà nel negozio di tatuaggi per lavarsi le mani e fino alle 1.30 starà seduta su un gradino lì davanti: « Non aveva nessuna escoriazione, nessuna lesione, nessuna ferita» dicono. Gli amici di Luca avevano parlato di esecuzione e tale sembra: i soldi custoditi nella borsa pare fossero molti più dei duemila euro di cui si era parlato all' inizio, una cifra compresa tra 10 e 20 mila euro. Ma su questo gli inquirenti stanno facendo verifiche. Il che giustificherebbe la rapina, anche se niente giustifica quel colpo di pistola sparato alle spalle a bruciapelo. Il denaro inoltre è sparito. Nel quartiere tutti descrivono Luca come un ragazzo tranquillo, salutista, attento. Suo padre e lo zio Fabrizio sostengono che si sia trattato « senza dubbio » di uno scambio di persona. Ma fonti investigative spiegano che « non c' è stato nessun equivoco». Forse non era coinvolto in nulla, ma sembrerebbe aver ricoperto il ruolo di guardaspalle. Tra i testimoni oculari dell' omicidio due amici delle vittime, che insieme a Luca e alla ragazza sarebbero coinvolti nello scambio di droga.

Omicidio Roma, la nuova ipotesi: lo zainetto strappato a Luca Sacchi, Anastasiya Kylemnyk era lontana. Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 su Corriere.iti da Rinaldo Frignani. Un teste: «La ragazza di Luca è arrivata dopo lo sparo». Il sospetto che la «messa in visione» dello zaino fosse parte di una pratica consolidata per l’acquisto di droga. E la giovane sarà presto interrogata di nuovo (ma non è indagata). «È rimasta a lungo nel mio negozio, non ho notato evidenti ferite alla testa della ragazza». Così il titolare del negozio di tatuaggi in via Franco Bartoloni, all’Appio Latino, dove Anastasiya Kylemnyk, fidanzata di Luca Sacchi, si è recata subito dopo l’omicidio del ragazzo nella tarda serata di mercoledì scorso per lavarsi le mani insanguinate per aver cercato di tamponare la ferita mortale d’arma da fuoco alla nuca del 24enne. Una testimonianza che smentirebbe il racconto fatto dalla giovane prima sotto interrogatorio poi anche alla stampa di essere stata aggredita con una mazza da due giovani che volevano strapparle lo zainetto. L’ucraina è stata poi soccorsa con un’ambulanza e trasferita in codice giallo all’ospedale San Giovanni dove è rimasta ricoverata fino a venerdì mattina. A prima vista nessuno ha notato profonde ferite alla testa, mentre la 25enne ha sostenuto anche di essere stata colpita sulla schiena. Sarà questo uno dei punti che saranno affrontati nell’interrogatorio della fidanzata di Luca già lunedì o martedì in procura. Un nodo chiave della vicenda perché ormai si indaga su un delitto maturato nel corso di una trattativa per la vendita di una partita di droga - poco meno di mezzo etto di marijuana - che sarebbe stata pagata con soldi che proprio la giovane avrebbe mostrato agli spacciatori. Due mazzette in particolare, una di banconote da 20 euro e una da 50 euro, circa duemila euro, obiettivo della rapina poi commessa da Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. A questo punto non è nemmeno chiaro a chi abbiano strappato lo zainetto rosa, ritrovato vuoto. Se alla giovane o proprio a Luca Sacchi, ferito a morte all’angolo con via Teodoro Mommsen. Il sospetto adesso è che non ci sia mai stata una rissa fra la vittima e gli aggressori, ma che il personal trainer sia stato ucciso a sangue freddo dopo che avevano capito che l’affare soldi-marijuana non sarebbe andato a buon fine. E’ quanto si può intuire, ma le indagini sono tuttora in corso, dalle immagini delle telecamere dello stesso laboratorio di tatuaggi che avrebbero ripreso solo il secondo passaggio della Smart bianca di Pirino quella notte prima dello sparo fatale: ella city car si è fermata in doppia fila e i due a bordo sarebbero scesi per affrontare Sacchi che in quel momento era da solo. La ragazza era lontana, ed è sopraggiunta dopo un paio di minuti. Quindi non si può escludere che fosse stata già rapinata dello zainetto oppure che quest’ultimo lo avesse invece Luca. Il colpo di revolver è immediatamente successivo, lo si capisce dalla reazione di due avventori all’esterno del John Cabot Pub, accanto al tatuatore, che fuggono sotto choc anche perché il proiettile ha forato la vetrina del locale. La mazza da baseball sequestrata da carabinieri e polizia su indicazione di uno dei due arrestati dopo la loro cattura, non compare da nessuna parte ma non si può escludere che sia stata usata prima.

Omicidio di Roma, i killer di Luca Sacchi non erano soli. Anastasiya Kylemnyk smentita da un video. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 su Corriere.it da Rinaldo Frignani e Fulvio Fiano. Un teste: «La ragazza di Luca è arrivata dopo lo sparo». Il sospetto che la «messa in visione» dello zaino fosse parte di una pratica consolidata per l’acquisto di droga. E la giovane sarà presto interrogata di nuovo (ma non è indagata). I quattro giorni passati dall’omicidio di Luca Sacchi hanno riempito di dubbi quella che appariva a caldo come una rapina di strada finita in tragedia, in cui il profilo della vittima e degli altri protagonisti era ben definito. Scenario e motivi dello sparo fatale vanno invece almeno in buona parte riscritti. A partire dal ruolo della 25enne Anastasiya Kylemnyk. Che sarà interrogata di nuovo ad ore ma non è indagata. Una scelta, questa, spiegabile forse con la strategia del pm Nadia Plastina di non darle, nella veste di testimone, la possibilità di mentire o non rispondere. Anche la famiglia del suo ragazzo avrebbe preso le distanze da lei. Sia umanamente che sul piano pratico: Nastia, come si fa chiamare su social, ha nominato un avvocato diverso da quello dei Sacchi. Il racconto della giovane è pieno di incongruenze sulle quali indagano i carabinieri del Nucleo investigativo e la Squadra mobile. E se in un primo momento potevano essere attribuite al suo (sincero) stato di choc, sembrano ora nascondere ben altra verità. Intanto la sua versione non trova conferme nelle immagini delle telecamere di sorveglianza, che inquadrano la Smart dei killer arrivare in via Mommsen ma non il momento in cui i due 21enni Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, accusati dell’omicidio, avrebbero provato a strappare la borsa della ragazza, colpendola con una mazza da baseball, respingendo poi la reazione di Sacchi con il colpo di pistola alla nuca. Tutto avviene in pochi attimi, tanto da far pensare che ci possa essere una fase precedente allo sparo ancora da scrivere. Un testimone racconta che Anastasiya è arrivata sul posto solo dopo oltre un minuto. Nessun dubbio invece sul fatto che lei avesse lo zainetto con sé e che sia stata davvero colpita e caduta (da cui la lieve contusione). Uno dei dubbi riguarda la quantità effettiva di denaro contenuta nello zainetto. Anche a immaginare l’azione di due balordi, un assalto armato per derubare una studentessa è sembrato fin da subito improbabile. E infatti è emerso che Del Grosso e Pirino sapevano, grazie alla conferma di un loro emissario, che nello zaino in pelle rosa c’erano due rotoli di banconote da 50 e 20 euro. Il conto esatto non è possibile farlo (i soldi non sono stati ritrovati), ma gli inquirenti ci stanno arrivando per deduzione, indagando sulla quantità di merce che quel denaro doveva comprare. Almeno quattro etti di erba per 2mila euro o forse più. Non un acquisto per uso personale e sovradimensionato anche per un gruppo di amici. I testimoni riferiscono che all’affare dovevano prendere parte tre ragazzi oltre a Nastia e che lei, dopo aver lasciato in visione lo zaino agli intermediari dei pusher per mostrare il denaro, lo ha ripreso in attesa della merce. Più di una ingenuità che la esponga alla rapina, sembra una procedura codificata in cui la ragazza riveste un ruolo da tramite. Agiva per conto di qualcuno per non destare sospetti? E Luca doveva proteggerla, come poi ha fatto, o si limitava ad accompagnarla? Difficile che Del Grosso e Pirino si siano spinti così lontano da San Basilio per un affare di routine condotto in prima persona.

PALESTRA, FOTO E SFILATE I MISTERI DI ANASTASIYA AL VAGLIO I CONTATTI CON DEL GROSSO E PIRINO. Valeria Costantini per il ''Corriere della Sera'' il 27 ottobre 2019. Faccia d' angelo e affidabile baby-sitter: una vita in apparenza normale quella di Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata di Luca Sacchi, il 24enne ucciso con un colpo di pistola alla testa mercoledì sera. Tanto sport e lavoro. Ma ora sulla sua vita, persino sulla sua routine, dovrà passare la lente. «È gentile e dolce, una gran lavoratrice, mi fido ciecamente, tanto da lasciarle mia figlia», racconta Roberto Bruschi, titolare del ristorante «Dal Bersagliere», molto famoso all' Appio, il quartiere dove la ragazza ucraina - in Italia da quando aveva nove anni - abita con la famiglia. Raccontano che gran parte della giornata la passi ad allenarsi in palestra, le foto di quelle ore sono condivise sui social. E poi c' è il lavoro come bambinaia a tempo pieno. Nastia, così ribattezzata dagli amici su Instagram, è arrivata a Roma nel 2003 con la mamma e la sorella più piccola. «Ha lavorato da noi anche come cameriera, la conosco benissimo, segue pure i figli di mio fratello, non credo a una parola di quello che si scrive su di lei, le siamo tutti vicini in questo momento di dolore» ribadisce il ristoratore. Lui conosceva anche Luca, che a volte andava a prendere Anastasiya a fine turno per riaccompagnarla a casa. Una storia d' amore seria quella con il personal trainer freddato fuori dal John Cabot Pub: stavano insieme da quasi 4 anni, la stessa passione per il fitness e i viaggi. Pochi mesi fa l' ultima gita, a Parigi e Disneyland, poi per festeggiare i 24 anni di Luca (l' ultimo compleanno, ad aprile), Nastia gli aveva regalato un pensiero speciale: la voce registrata di Marilyn Monroe nella storica «Happy Birthday» per il presidente americano John Fitzgerald Kennedy, con la dedica «Auguri amore mio». Bella, fisico tonico, poliglotta, la ragazza ha subito stretto amicizie importanti nella Capitale: ha anche sfilato come modella per l' amica del cuore, Stefania, stilista conosciuta sui social come «Acid Love». Con Luca progettavano di aprire una palestra insieme: un sogno interrotto da una tragedia dai contorni ancora da chiarire. E Nastia sembrerebbe una figura-chiave del puzzle. Dopo l'arresto di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, accusati di essere gli autori dell' omicidio, rimangono da accertare alcuni importanti dettagli. Tanto che la ragazza sarà presto ascoltata in Procura: agli atti, al momento, c' è solo il racconto che ha fatto ai poliziotti poche ore dopo l' aggressione. Ma è sul contenuto dello zaino della giovane che si concentrano i dubbi: Nastia ha detto di avere con sé pochi euro quella sera fatale, mentre un testimone ha riferito di aver visto all' interno della borsa diverse mazzette di banconote per un totale di duemila euro. Proprio quel contante è diventato l' obiettivo della rapina progettata dai due assalitori: un colpo fallito che per Luca Sacchi si è trasformato in tragedia. Ma come mai tanti soldi? A cosa servivano? Gli investigatori non sembrano avere dubbi: per l' acquisto di una partita di marijuana. Ipotesi che la stessa giovane ha tuttavia rigettato con forza fin dall'inizio. «Luca è l'amore, non meritava questo, non c'entra nulla la droga. Mi ha solo protetta», le poche parole pronunciate nell' unica intervista rilasciata. Poi l' ha avvolta un muro di silenzio, parenti e amici la tengono lontana dai riflettori: in queste ore sta valutando l'assistenza di un avvocato. Ieri ne ha incontrato uno. Che il fidanzato non avesse invece nulla a che fare con gli stupefacenti, l'ha ribadito Domenico Pavone, legale della famiglia Sacchi: «Lo dimostra la donazione degli organi autorizzata dai genitori di Luca». A questo punto al vaglio di chi indaga ci sono i contatti telefonici di Del Grosso e Pirino per verificare se ne avessero con la modella o con qualche conoscente della ragazza. «Lei e Luca erano bellissimi. Anastasiya ora è a pezzi e non avrebbe mai fatto nulla di male», ribadiscono gli amici sui social. Nessun dubbio su quell' amore, su una ragazza perbene che in Italia aveva trovato il suo futuro.

Marco De Risi per ''Il Messaggero'' il 26 ottobre 2019. «Lo so perché siete qui. Ho fatto una cavolata. Vi seguo». Si è rivolto così a polizia e carabinieri, quando è stato preso, nella notte, in un hotel di San Basilio, Valerio Del Grosso, 21 anni, padre di un bimbo di sei mesi, che si è autoaccusato di essere il killer di Luca Sacchi: il ragazzo ucciso alla Caffarella con un colpo di grosso calibro alla testa. Vestito con tuta grigia, scarpe da ginnastica e capelli rasati ai lati, si è lasciato ammanettare. Soprattutto, il giovane, come si legge nell'ordinanza, ha «guidato gli investigatori in tre posti diversi ove aveva nascosto rispettivamente la borsa, l'ogiva e il portafogli», poi recuperati, «nonché un quarto posto impervio ove aveva gettato il tamburo dell'arma e la mazza utilizzata nel delitto». Quando è stato fermato. Del Grosso è apparso frastornato, come se non si rendesse conto di quanto accaduto. «Sì, sono stato io a sparare - ha raccontato agli investigatori - ma non ho mirato, non volevo uccidere. Dopo ore da quel maledetto sparo, da casa, mi sono collegato a internet e così ho appreso che avevo ucciso quel ragazzo. Avrei potuto mirare a una gamba, a un braccio, ma poi quando mi sono trovato con la pistola in mano ho tirato il grilletto senza sapere che l'avrei preso alla testa. Ho sparato ma non credevo che l'avrei ucciso». Difficile capire, al momento, se le sue parole siano sincere oppure dettate dal tentativo di evitare un'accusa di omicidio premeditato. I fatti parlano chiaro ed è lui stesso ad ammetterlo: con il suo amico si sono presentati armati con una pistola di grosso calibro. Del Grosso viene da una buona famiglia, il padre fa il noleggiatore, la madre ha avuto l'intuizione di cosa era successo e ha mostrato carattere nel denunciarlo alla polizia. «Parlo un italiano corretto - spiega Valerio - mentre i miei amici di borgata parlano in romanesco. So cucinare bene, mi occupo di piatti molecolari. Ho sbagliato. Ho fatto una cavolata». Ma in quell'uso della parola cavolata, agli occhi degli inquirenti, fa trasparire la totale incoscienza, gli effetti della droga e delle cattive amicizie. «Lo ammetto avevo tredici anni quando ho provato per la prima volta la cocaina. Mi piacciono le serie criminali, ho visto Gomorra, Romanzo Criminale». Gli investigatori gli fanno domande di prammatica e Del Grosso risponde come un automa: «Siamo andati lì perché volevamo rapinare lo zainetto. Poi quel ragazzo ha reagito e io ho estratto la pistola e ho sparato e l'ho visto cadere a terra». Sembra quasi che Valerio abbia raccontato la scena di un gioco alla Play Station. Però quando lo interrogano per sapere dove ha buttato l'arma e chi gliel'ha data, prende tempo, sembra fare calcoli: «Non lo so dove ho preso la pistola. Non mi ricordo che fine ha fatto». Ma poi saranno lui e il complice a indicare dove trovare il bastone e lo zainetto color rosa rapinato alla ragazza di Luca Sacchi. «Ho lavorato in alcuni ristoranti, so fare bei piatti. Sono forte a cucinare», aggiunge Del Grosso che rischia di non vedere per tanto tempo il figlio appena nato. Quando viene portato via da alcune pattuglie per essere poi trasferito in Questura, continua a ripetere: «Ho fatto una cavolata». Nelle foto pubblicate dai siti appare spavaldo come se non capisse in che tragica storia si è infilato. «Ora mi portate in carcere?», domanda agli investigatori. E quasi l'ora di pranzo, quando lui viene portato in carcere, dove è logico ritenere che vi rimarrà per tanto tempo.

Omicidio Luca Sacchi, la versione di Del Grosso: «Lo sparo alla nuca per colpa del rinculo della pistola». Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. Valerio Del Grosso che viene spinto a terra da Luca Sacchi dopo che il suo complice Paolo Pirino aveva già colpito Anastasia, fidanzata del ragazzo, alla testa con una mazza da baseball, e che poi spara da distanza ravvicinata alla tempia destra del personal trainer. Ma anche Del Grosso che per uno dei testimoni del ferimento mortale di mercoledì notte all’Appio Latino estrae il revolver calibro 38 dalla cinta e per un altro invece cammina con il braccio destro teso lungo il corpo per poi alzarlo e sparare. Scene contenute nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere notificata sabato scorso ai due giovani di Casal Monastero accusati di concorso in omicidio e rapina. «Misura proporzionata alla gravissima entità dei fatti», scrive il gip. «La volontarietà dell'omicidio quantomeno sotto il profilo del dolo eventuale, appare indiscutibile - prosegue -, tenuto conto dell'arma impiegata, della distanza ravvicinata, nonché della zona del corpo della vittima presa di mira nel corso di una rapina violenta». Nell’ordinanza del gip Corrado Cappiello vengono ripercorsi i fatti per grandi linee così come erano stati descritti nel decreto di fermodi qualche giorno fa. L’aggressione a Luca e alla sua fidanzata nel corso di una rapina progettata dai due ragazzi di Casal Monastero che hanno finto di dover concludere con loro una vendita di marijuana, l’intervento del 24enne in difesa della giovane picchiata con la mazza e lo sparo fatale. Intanto si attendono i risultati dell’autopsia in corso sempre lunedì mattina all’istituto di medicina legale del policlinico di Tor Vergata. Si dovrà stabilire se Luca sia stato ucciso nel corso di un’esecuzione o di una reazione di Del Grosso alla spinta data dal personal trainer. «Non volevo ucciderlo, è stato il rinculo della pistola a farmelo colpire alla testa», si sarebbe peraltro giustificato il ragazzo con i suoi amici prima di essere rintracciato dalla polizia in un residence a Tor Cervara. Intanto proseguono gli accertamenti di carabinieri e polizia anche nel raccogliere nuove testimonianze nel luogo del ferimento mortale di Luca Sacchi. Saranno infatti sentiti ad esempio sia il residente che ha riferito di aver visto Anastasiya arrivare dove Luca era caduto solo in un secondo momentodopo lo sparo - come riportato lunedì dal Corriere della Sera - sia altre persone che quella sera si trovavano li. Un particolare quello del residente - che ha anche riferito di aver notato quello che sembra unsecondo zainetto (marrone) sulle spalle della giovane - molto importante perché potrebbe modificare la ricostruzione dei fatti e aprire nuovi scenari su quanto accaduto, quantomeno sulla dinamica. Nel frattempo continuano gli accertamenti di chi indaga, in attesa dell’interrogatorio della ragazza, per capire la portata dell’affare di droga non andato a buon fine e anzi concluso tragicamente come sempre nell’ordinanza fanno notare due testimoni, amici della vittima, che si trovavano dentro il John Cabot Pub di via Franco Bartoloni quando si è sentito il colpo di pistola seguito dalle grida disperate di Anastasiya. Omicidio Sacchi, negativi anche i nuovi esami tossicologici. Ritrovato lo zaino di Anastasia tra le sterpaglie del Gra.

Del Grosso, uno dei due 21enni arrestati per la morte di Sacchi, si difende: "Non volevo uccidere, colpa del rinculo della pistola". Ma il Gip ribadisce: "Chiara volontà omicida". Eseguita l'autopsia: fatale il colpo alla testa del personal trainer. Esclusa la presenza di droga. La Repubblica il 28 ottobre 2019.  "Luca Sacchi spingeva con forza l'assalitore, facendolo cadere, quindi quello con la tuta nera gli si avvicinava esplodendo a un paio di metri di distanza un colpo che colpiva il giovane alla testa. Quindi i due rapinatori fuggivano immediatamente a bordo dell'auto sulla quale erano giunti lungo via Mommsen". È quanto scrive il gip Corrado Cappiello nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere lunga otto pagine, con la quale ha convalidato il fermo di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, accusati dell'omicidio di Luca Sacchi avvenuto mercoledì sera 23 ottobre nel quartiere Colli Albani di Roma. Vediamo alcuni punti del documento.

Del Grosso: "Non volevo ucciderlo, colpa del rinculo dell'arma". "Non volevo ucciderlo, il rinculo della pistola me lo ha fatto colpire in testa" è quanto ha raccontato Valerio Del Grosso ad alcuni amici. Le parole sono riportate da alcuni testimoni citati nell'ordinanza cautelare del gip. In particolare un teste ha confermato di "avere contattato Andrea Del Grosso (fratello dell'arrestato ndr) avendo saputo che a sparare a Sacchi era stato Valerio, che lo aveva personalmente confidato la sera precedente ad un'altra persona, proferendo le parole "ho fatto una cazzata" e aggiungendo di aver sparato a qualcuno".

Il Gip: "Custodia cautelare proporzionata all'entità dei gravissimi fatti". "La custodia cautelare in carcere appare proporzionata all'entità dei gravissimi fatti ed alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata". Lo scrive il gip Cappiello. "In ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari deve osservarsi che gli indagati hanno cercato di darsi alla fuga - si legge nel provvedimento - dopo aver appreso che i familiari di Valerio Del Grosso si erano presentati in commissariato e nel quartiere si era sparsa la voce del loro coinvolgimento nei gravi delitti".

"Indiscutibile volontà uccidere". La "volontarietà dell'omicidio appare indiscutibile" scrive il gip, "tenuto conto dell'arma impiegata, della distanza ravvicinata, nonché della zona del corpo della vittima presa di mira nel corso di una rapina violenta", scrive il gip.

"Ritrovati lo zaino e i documenti di Anastasia". "In via Ottaviano Conte di Palombara, all'altezza del parcheggio, - scrive sempre Cappiello - tra i cespugli sono stati rinvenuti un portatessere e un portafogli da donna contenenti la patente di guida intestata ad Anastasia Kylemnyk; in via Conti di Rieti - si legge negli atti - all'altezza del civico 55, nascosto in un tombino, è stato rinvenuto un guanto in lattice blu, chiuso con dei nodi contenente un bossolo esploso; in via di Tor Bella Monaca, tra le sterpaglie dello spartitraffico della rampa di accesso al Gra, è stato rinvenuto uno zaino da donna; infine in via Belmonte in Sabina, presso lo svincolo del Grande raccordo anulare "Centrale del Latte" all'interno di un campo sul lato destro del guardrail e' stata rinvenuta una mazza da baseball di colore nero in metallo".

Nel pub un amico di Luca, contatto con Del Grosso. Spunta anche un amico di Luca Sacchi, un ragazzo con precedenti per droga, "contatto" comune fra il giovane ucciso con un colpo di pistola in testa e Valerio Del Grosso, in carcere per l'omicidio del ragazzo insieme con Paolo Pirino. Leggendo l'ordinanza, questo 'contatto' viene confermato da diversi testimoni. Uno afferma che "al momento dell'esplosione del colpo di pistola" all'interno del pub John Cabot era presente anche un amico di Sacchi che si è allontanato "prima dell'arrivo dei carabinieri".

Pirino fuggito in pantaloncini e ciabatte. La notte della cattura, Paolo Pirino, uno dei due 21enni indagati "preso dal panico dopo una telefonata con la nonna, già contattata dalla polizia, era fuggito di casa in maglietta, pantaloncini e ciabatte senza dare spiegazioni se non quella 'io non c'entro un c...'. Le ricerche serrate nello stabile, in zona via Teano, hanno portato al rintrovamento di Pirino sul terrazzo, nascosto nel buio dietro una cancellata che aveva scavalcato per non farsi trovare dai poliziotti", scrive ancora il gip Cappiello, che aggiunge quanto già trapelato da qualche giorno e cioè che Pirino ha affermato di non sapere che l'amico, Valerio Del Grosso (il secondo indagato, accusato di aver materialmente sparato, ndr) aveva con sè un'arma in quanto volevano solo prendere il denaro".

L'autopsia: "Negativi anche i nuovi esami tossicologici". Il colpo di pistola lo ha ucciso. E' quanto confermano i primi risultati dell'autopsia svolta oggi al policlinico Umberto I di Roma.  Anche i nuovi esami tossicologici hanno dato esito negativo. Dopo gli esami clinici effettuati per l'espianto degli organi, risultati negativi, anche i nuovi test ripetuti hanno dato lo stesso esito. Nell'affidare l'incarico per l'autopsia, disposta dal pm, era stato disposto anche di ripetere gli esami tossicologici. I risultati completi dell'esame autoptico si avranno nelle prossime settimane. La famiglia di Sacchi aveva dato l'assenso all'espianto degli organi.

Grazia Longo per “la Stampa” il 29 ottobre 2019. Una compravendita di droga degenerata in rapina con omicidio. Ma si sarebbe trattato di cocaina, non di marijuana. Un chilo di cocaina in cambio di 35 mila euro. Denaro probabilmente contenuto nello zaino rosa di Anastasiya Kylemnyk, rubato da Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, in carcere con l’accusa di aver ucciso il fidanzato di Anastasiya, Luca Sacchi, 24 anni. È questa la pista all’attenzione di inquirenti e investigatori. Dalle indagini di carabinieri e polizia, coordinate dalla pm Nadia Plastina, emerge infatti che la galassia di pusher intorno agli assassini è dedita alla vendita di cocaina e non di marijuana. La presenza di 35 mila euro, e non di 2 mila come ipotizzato in un primo momento, avrebbe dunque spinto Del Grosso a sparare. Ma la circostanza della cessione, in realtà solo ventilata ma non avvenuta, della droga è ancora piena di misteri. L’unica certezza è che Luca, mercoledì scorso alle 23, è stato ucciso davanti al pub “John Cabot”, nel quartiere Colli Albani, con un colpo di P38 alla nuca, mentre difendeva la sua ragazza, a cui Pirino aveva dato un colpo in testa con una mazza di baseball prima di strapparle lo zaino. Del Grosso, com’è ribadito anche nell’ordinanza con cui il gip Corrado Cappiello ha confermato l’arresto, «alla reazione di Sacchi, che affrontava l’aggressore, esplodeva contro Sacchi un colpo di arma da fuoco, da distanza ravvicinata, in direzione del capo e ne provocava il decesso». La fase dell’omicidio è cristallizzata grazie al racconto di alcuni testimoni e alle ammissioni dello stesso Del Grosso: «Non lo volevo uccidere, il rinculo della pistola me lo ha fatto colpire in testa». Resta invece da chiarire la questione dell’acquisto di droga e della probabile attività di spaccio da parte di Luca, Anastasiya e due loro amici. Il leader di questo gruppo dovrebbe essere Giovanni, che nell’ordinanza viene definito «amico intimo di Luca Sacchi» e che la sera del delitto era il contatto con un altro Valerio, emissario di Del Grosso per la compravendita della droga. Valerio ha riferito che essendo stato «incaricato da Del Grosso di verificare se persone in zona Tuscolana avessero il denaro per acquistare, come convenuto, della merce» incontrò in via Latina alle 21,30 proprio «l’amico intimo» di Sacchi «al quale si presentava come inviato di Valerio (Del Grosso, ndr)». Il gip quindi ricorda che «in quel contesto, una donna aveva lasciato uno zaino» con soldi divisi «in mazzette da 20 e da 50 euro». Accertata la presenza del denaro, la ragazza (Anastasiya, ndr) «aveva ripreso lo zaino mentre arrivava subito Del Grosso, che parlava con Giovanni di erba che sarebbe andato a prendere per portarla sul posto». Ma è probabile che invece di marijuana si trattasse di cocaina e che nessuno ne abbia parlato nel tentativo di ridimensionare una possibile accusa di spaccio. Del resto, non sarebbe l’unica bugia. Rintracciato dagli inquirenti, il pregiudicato Giovanni ha «confermato la sua presenza» nel locale «in compagnia di Luca e Anastasiya» ha, però, «negato di conoscere Del Grosso e i due testimoni». Anche il racconto di Anastasiya (che nega la storia della droga) è ancora pieno di lacune e punti oscuri, tanto che a breve sarà nuovamente interrogata in procura.

Omicidio Sacchi, l'ipotesi: "Nello zaino ​35mila euro per la coca". Gli inquirenti starebbe seguendo la pista della compravendita di droga. Sul posto anche un amico di Luca, "contatto" con Valerio Del Grosso. Francesca Bernasconi, Martedì 29/10/2019, su Il Giornale. Sembra sempre più plausibile che dietro la morte di Luca Sacchi, il personal trainer 24enne ucciso da un colpo di pistola alla nuca, fuori da un pub di Roma, ci sia una compravendita di droga. Secondo quanto riporta la Stampa, però, i giovani potrebbero aver cercato di comprare cocaina, non marijuana, come si pensava in un primo momento. Sarebbe questa la pista seguita dagli inquirenti. Nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip, infatti, emerge la presenza, sul luogo del delitto, di un altro ragazzo, con precedenti per droga. Si tratterebbe di un amico di Luca, probabilmente il "contatto" tra i due fidanzati e Valerio Del Grosso, il killer che ha sparato, ora in carcere insieme a Paolo Pirino, con l'accusa di omicidio. La presenza del "contatto" è stata confermata da diversi testimoni, che hanno rivelato come il ragazzo si sia allontanato prima dell'arrivo dei carabinieri. Un altro tesimone ha dichiarato di essere stato "incaricato da Valerio Del Grosso di verificare se persone in zona Tuscolana avessero il denaro per acquistare, come convenuto, della 'merce'" e di essere poi andato in via Latina, "incontrando alle 21,30 del 23 ottobre l'amico intimo di Sacchi, al quale si presentava come inviato di Valerio". E qui entra in gioco Anastasiya, la ragazza di Luca Sacchi, che "aveva lasciato uno zaino che il testimone stesso aveva constatato contenere soldi divisi in mazzette da 20 e da 50 euro". Poi, Pirino e Del Grosso avrebbero rapinato i giovani, notando la quantità di denato presente nello zaino, e Del Grosso avrebbe sparato il colpo fatale. Secondo quanto riporta la Stampa, nello zaino della ragazza ci sarebbero stati 35mila euro, non 2mila come ipotizzato in un primo momento. E il 24enne sarebbe stato ucciso durante una compravendita di cocaina. Infatti, secondo gli accertamenti di polizia e carabinieri, il giro di pusher che affianca Del Grosso sarebbe specializzato nella vendita di cocaina e non di marijuana. Intanto, gli esami autoptici sul corpo del ragazzo hanno escluso che facesse uso di sostanze stupefacenti. Ma tutta la vicenda, in realtà è ancora piena di misteri, a partire dal racconto della ragazza di Luca, pieno di ombre e incongruenze. La ragazza sarà nuovamente interrogata, come testimone. Anastasiya dovrà chiarire molti dubbi, a partire dalla dinamica dell'aggressione. Lei, infatti, ha sempre sostenuto di essere stata aggredita con una mazza, motivo dell'intervento del fidanzato, che voleva difenderla. Ma, secondo un testimone, Del Grosso sarebbe sceso dall'auto (una Smart bianca) già con la pistola in pugno: "Aveva un braccio teso lungo il corpo, come se impugnasse qualcosa. Giunto all'altezza dell'incrocio questi alza il braccio e subito dopo si sente un forte fragore e un lampo di luce provenire dalle mani del ragazzo". "Nessuna storia di droga", aveva assicurato Anastasiya dopo l'omicidio ma, secondo quanto riporta il Corriere della Sera, i tabulati telefonici indicherebbero una telefonata, avvenuta due giorni prima della presunta trattativa per droga: la ragazza avrebbe contattato in prima persona i due pusher 21enni, ora in carcere per omicidio. Poi c'è il giallo degli zaini: potrebbero essere stati due, visto che un testimone sostiene di averne visto uno sulle spalle della ragazza, mentre tentava di soccorrere Luca. Ma ora, che fine ha fatto quello zaino? E cosa conteneva? Tutte domande alle quali potrebbe rispondere la ragazza, quando sarà riascoltata dagli inquirenti.

I contatti con i pusher e la consegna. Tutti i buchi nel racconto di Nastia. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano, Rinaldo Frignani. L’aggressione forse premeditata, le telefonate due giorni prima dell’omicidio del fidanzato Luca Sacchi. Il giallo dei soldi spariti dallo zainetto. Anastasiya Kylemnyk, fidanzata di Luca Sacchi, ucciso mercoledì davanti a un pub di Roma, figura chiave in questa vicenda, viene interrogata oggi in procura come testimone. In questa veste non può mentire o rischia di essere indagata per false dichiarazioni. Ma se confermerà che quella notte aveva partecipato a una compravendita di droga, finirà comunque sotto inchiesta. Un vicolo cieco per la 25enne ucraina che a piazzale Clodio dovrà chiarire tanti dubbi, a partire dalla dinamica dell’aggressione. Una testimonianza finora inedita, riportata nell’ordinanza di convalida dell’arresto dei due killer Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, smentisce la sua versione dei fatti, tanto da far pensare a un’azione premeditata. Del Grosso, anziché rispondere alla reazione di Sacchi nella tentata rapina, sarebbe sceso dall'auto già deciso a sparare. Il teste in questione si chiama Christian Firmino Macchia. Come riporta il gip Corrado Cappiello, la sera di mercoledì scorso il giovane si trovava davanti al distributore di sigarette vicino al «John Cabot Pub»: «La sua attenzione viene attirata da alcuni schiamazzi; quindi nota una persona vicino a una Smart bianca modello four four con luci e motore acceso che cammina verso via Bartoloni con un braccio teso lungo il corpo, come se impugnasse qualcosa; giunto all’altezza dell’incrocio questi alza il braccio e subito dopo si sente un forte fragore e un lampo di luce provenire dalle mani del ragazzo, il quale subito dopo ritorna verso la vettura, allontanandosi». Dunque la pistola sarebbe stata estratta da Del Grosso prima dell’aggressione raccontata da Nastia (nickname della ragazza sui social). La ragazza sostiene invece che Pirino provò a strapparle la borsa, colpendola con una mazza. Luca la difese sferrando un pugno, ma poi fu ucciso dal complice. «Nessuna storia di droga», ha sempre assicurato Nastia. Ma i tabulati telefonici la inchioderebbero, peraltro retrodatando di almeno due giorni l’inizio della trattativa per l’acquisto di circa quattro etti di marijuana. La baby sitter contatta in prima persona i due pusher di San Basilio, che poi mandano sul posto un loro emissario per controllare che lei disponga davvero della cifra necessaria all’affare. In questo scenario, che cancella l’ipotesi dell’acquisto di erba per uso personale, la fidanzata di Luca sembra muoversi con disinvoltura e sangue freddo. Il mediatore dei pusher, Simone Piromalli, racconta come la 25enne gli lasci in visione lo zaino con le «due mazzette da 20 e 50 euro (l’ammontare esatto della cifra, forse superiore ai 2mila, euro, è ancora da accertare, ndr) e poi lo riprende in attesa della consegna. Nastia inoltre non lo lascia subito a Del Grosso e Pirino che non hanno la droga con loro, ma li rimanda a un secondo momento per completare lo scambio che sfocerà invece nell’omicidio. Luca e Anastasiya non erano da soli. Lo stesso Piromalli colloca per la prima volta sulla scena i quattro aspiranti acquirenti: «Una ragazza (la 25enne ucraina) e tre ragazzi». Uno di questi sembrerebbe essere lo stesso Sacchi. Un altro testimone, Domenico Costanzo Marino Munoz, amico di Luca, conferma le parole della ragazza sull’aggressione ma identifica il pregiudicato per reati di droga Giovanni Princi, «amico intimo di Luca», come uno di quelli presenti sul posto (ma all’interno del pub). Il ruolo di Anastasiya si va ridefinendo. Una delle ipotesi è che abbia recitato la parte dell’insospettabile corriere con i soldi nascosti nel suo zainetto. Luca ne era a conoscenza? Ne avevano parlato? Lo faceva abitualmente? E poi: cosa c’era e che fine ha fatto il secondo zainetto che un residente di via Teodoro Mommsen — lo stesso che dalla finestra del bagno di casa l’ha notata arrivare dove il fidanzato era caduto almeno un minuto dopo lo sparo — le ha visto sulle spalle mentre tentava di soccorrere Luca? Punti cruciali sui quali il pm Nadia Plastina, l’aggiunto Nunzia D’Elia e il procuratore reggente Michele Prestipino hanno delegato ampi accertamenti, ai quali però Nastia può fornire già oggi le prime risposte.

Rinaldo Frignani per il corriere.it il 28 ottobre 2019. «È rimasta a lungo nel mio negozio, non ho notato evidenti ferite alla testa della ragazza». Così il titolare del negozio di tatuaggi in via Franco Bartoloni, all’Appio Latino, dove Anastasiya Kylemnyk, fidanzata di Luca Sacchi, si è recata subito dopo l’omicidio del ragazzo nella tarda serata di mercoledì scorso per lavarsi le mani insanguinate per aver cercato di tamponare la ferita mortale d’arma da fuoco alla nuca del 24enne. Una testimonianza che smentirebbe il racconto fatto dalla giovane prima sotto interrogatorio poi anche alla stampa di essere stata aggredita con una mazza da due giovani che volevano strapparle lo zainetto.

Colpita alla schiena. L’ucraina è stata poi soccorsa con un’ambulanza e trasferita in codice giallo all’ospedale San Giovanni dove è rimasta ricoverata fino a venerdì mattina. A prima vista nessuno ha notato profonde ferite alla testa, mentre la 25enne ha sostenuto anche di essere stata colpita sulla schiena. Sarà questo uno dei punti che saranno affrontati nell’interrogatorio della fidanzata di Luca già lunedì o martedì in procura. Un nodo chiave della vicenda perché ormai si indaga su un delitto maturato nel corso di una trattativa per la vendita di una partita di droga - poco meno di mezzo etto di marijuana - che sarebbe stata pagata con soldi che proprio la giovane avrebbe mostrato agli spacciatori. Due mazzette in particolare, una di banconote da 20 euro e una da 50 euro, circa duemila euro, obiettivo della rapina poi commessa da Valerio Del Grosso e Paolo Pirino.

Lo zainetto. A questo punto non è nemmeno chiaro a chi abbiano strappato lo zainetto rosa, ritrovato vuoto. Se alla giovane o proprio a Luca Sacchi, ferito a morte all’angolo con via Teodoro Mommsen. Il sospetto adesso è che non ci sia mai stata una rissa fra la vittima e gli aggressori, ma che il personal trainer sia stato ucciso a sangue freddo dopo che avevano capito che l’affare soldi-marijuana non sarebbe andato a buon fine. E’ quanto si può intuire, ma le indagini sono tuttora in corso, dalle immagini delle telecamere dello stesso laboratorio di tatuaggi che avrebbero ripreso solo il secondo passaggio della Smart bianca di Pirino quella notte prima dello sparo fatale: ella city car si è fermata in doppia fila e i due a bordo sarebbero scesi per affrontare Sacchi che in quel momento era da solo.

La ragazza era lontana. La ragazza era lontana, ed è sopraggiunta dopo un paio di minuti. Quindi non si può escludere che fosse stata già rapinata dello zainetto oppure che quest’ultimo lo avesse invece Luca. Il colpo di revolver è immediatamente successivo, lo si capisce dalla reazione di due avventori all’esterno del John Cabot Pub, accanto al tatuatore, che fuggono sotto choc anche perché il proiettile ha forato la vetrina del locale. La mazza da baseball sequestrata da carabinieri e polizia su indicazione di uno dei due arrestati dopo la loro cattura, non compare da nessuna parte ma non si può escludere che sia stata usata prima.

Gabrielli: «Basta calunnie». E sulla vicenda è tornato a parlare il capo della polizia Franco Gabrielli. «Non ho mai fatto riferimento all’uso di droghe, men che mai da parte della vittima. Chiunque lo sostiene fa affermazioni prive di fondamento, calunniose verso le istituzioni e chi le rappresenta, rischiando tra l’altro di provocare ulteriore dolore ai familiari della vittima», ha detto replicando al capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari che sabato aveva criticato le sue parole dopo l’omicidio di Luca Sacchi, annunciando azioni legali in caso di ulteriori «mistificazioni». Ad esprimere solidarietà al capo della polizia dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini al capogruppo al Senato del Pd Andrea Marcucci, all’Associazione nazionale funzionari di polizia.

Valentina Errante per ilmessaggero.it il 28 ottobre 2019. Gli amici di Valerio Del Grosso, che precedono il killer per verificare la presenza dei clienti con i soldi e intenzionati a comprare la «merce», «come convenuto». E quelli di Luca Sacchi e anche di Anastasia, che ai delegati del pusher mostra il suo zaino con oltre 2mila euro. La rete dello spaccio, che gira intorno all’omicidio del giovane bodybuilder, deve essere ancora definita. Risolto in 24 ore il delitto, con l’arresto di Del Grosso e Paolo Pirino, gli inquirenti stanno cercando di stabilire quali fossero i canali della droga e i ruoli nella compravendita. Gli “inviati” di Del Grosso, come lo stesso killer, arrivano davanti al pub John Cabot da Casal Monastero, un quartiere abbastanza distante, evidentemente con un accordo ben preciso. Mentre Luca e Anastasia abitano vicino al locale. A chiarire cosa sia accaduto, viste le contraddizioni nella versione della ragazza, saranno sicuramente i due amici della coppia, che Simone P. a verbale individua come coloro che erano interessati a comprare erba: «Tre ragazzi e una ragazza», dice. Uno di loro potrebbe essere Domenico Munoz. L’altro potrebbe essere Giovanni Princi. Nulla potrà invece raccontare Christian Firmino Macchia, un semplice avventore del locale, che non conosceva i protagonisti della vicenda e non ha assistito al delitto, ma è stato erroneamente indicato come amico di Anastasia e Luca.

I RUOLI. Come sempre avviene nello spaccio organizzato, ci sono ruoli definiti: chi trova i clienti, chi ritira i soldi e chi cede la droga. E oramai si viaggia da un quartiere all’altro. Mercoledì 23 ottobre, in via Franco Bartoloni, all’angolo con via Latina, intorno alle 21.30 arriva Valerio R. che dopo l’omicidio racconterà a carabinieri e polizia: «Ero stato incaricato da Valerio Del Grosso di verificare se le persone in zona Tuscolana avessero il denaro per acquistare come convenuto “merce”». Con l’auto dell’amico Simone si presenta puntuale, in via Latina, dove gli ha indicato Del Grosso. È chiaro, dunque, che ci fosse un accordo precedente. Sul posto c’è Giovanni, al quale Valerio si presenta come “inviato” di Del Grosso. Ed è probabile che in quel momento lo zainetto rosa di Anastasia, con dentro oltre 2mila euro fosse nelle mani di Giovanni. Si legge nel provvedimento di fermo: «Una donna in quel contesto aveva lasciato uno zaino che lui stesso aveva constatato contenere soldi divisi in due mazzette da 20 e da 50 euro. Accertata la presenza del danaro, la ragazza aveva ripreso lo zaino». Un altro elemento viene fornito da Simone, che era insieme a Valerio: «All’acquisto - dice - erano interessati tre ragazzi e una ragazza, che aveva visto in quel contesto dinanzi al pub prima del delitto». È chiaro dunque che il trait d’union tra i due gruppi di ragazzi fosse Giovanni, che conosceva entrambi. È a questo punto che arriva Del Grosso «che parlava con Giovanni - si legge ancora nel verbale - della cessione di “erba”. Del Grosso era con «un accompagnatore alto 1,80, tatuato sul collo e sulle mani, di circa 20 anni, corporatura media»: è Paolo Pirino. Addosso ha una felpa con cappuccio scura. Ma la consegna non avviene per mancanza dello stupefacente. Del Grosso e il suo accompagnatore si allontanano: vanno a prendere la droga, così dicono.

LA FREGATURA. Al delitto non assistono né Valerio, né Simone «che entrano nel pub con il loro contatto, Giovanni». Alle 22.55 con una telefonata, Del Grosso avvisa del suo ritorno. Dice all’amico che ha preso la droga. Trascorre pochissimo tempo tra la telefonata e gli spari: «Subito dopo - dice ancora Simone - sentivo un’esplosione e le grida della ragazza che vedevo in terra vicino ad un ragazzo ferito. Si trattava della stessa ragazza che aveva fatto vedere i soldi, mentre il ragazzo ferito faceva parte del gruppo di giovani che doveva comprare la droga». Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Pirino avrebbe scippato lo zaino ad Anastasia per rubarle i soldi senza darle il corrispettivo in droga. Luca sarebbe intervenuto in sua difesa e Del Grosso avrebbe aperto il fuoco. Su chi abbia premuto il grilletto non ci sono dubbi, ma il resto della vicenda deve ancora essere raccontato.

Da ansa.it il 28 ottobre 2019. Anastasia è stata colpita con una violenta mazzata alla testa prima dell'omicidio del fidanzato. E' quanto ribadisce, citando un testimone oculare, il gip nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti dei due arrestati per l'omicidio di Luca Sacchi. Nel provvedimento di 7 pagine, il giudice cita la testimonianza di "un amico di Luca Sacchi presente al momento dei fatti" che ha "dichiarato di aver raggiunto, verso le 23 circa, nei pressi del pub, l'amico Luca e la sua fidanzata Anastasia per trascorrere assieme la serata". Il testimone spiega di essersi "allontanato di qualche passo per telefonare" e "notava giungere lungo via Bartoloni una vettura di colore grigio con strisce nere sui fianchi che parcheggiava a pochi metri di distanza da Luca e Anastasia. Scendevano due uomini entrambi con i capelli corti, uno dei quali indossava una tuta di ginnica color nero, mentre l'altro una tuta ginnica di colore chiaro che reggeva in mano una mazza di colore nero con una sfera all'estremità. I due uomini gridavano alla ragazza di consegnare loro lo zaino che aveva a tracolla e senza attendere la consegna quello con la tuta chiara la colpiva violentemente la testa". La "volontarietà dell'omicidio appare indiscutibile". E' quanto scrive il gip di Roma nell'ordinanza di custodia cautelare nei confronti dei due arrestati per l'omicidio di Luca Sacchi. "La volontarietà dell'omicidio, quantomeno sotto il profilo del dolo eventuale, appare indiscutibile, tenuto conto dell'arma impiegata, della distanza ravvicinata, nonché della zona del corpo della vittima presa di mira nel corso di una rapina violenta", scrive il gip.

Flavia Perina per ''la Stampa'' il 27 ottobre 2019. L' estetica racconta sempre più delle parole, talvolta persino dei fatti. E per capire che cosa succede a Roma (ma non solo) sarà bene guardare gli autoscatti di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i presunti assassini di Luca Sacchi, così simili a quelli di altri due killer per caso, Lorenzo Marinelli e Daniel Bazzano, appena condannati a 16 anni per il tentato omicidio del giovane nuotatore Manuel Bortuzzo. Del Grosso e Pirino sono pregiudicati per cose come le percosse a una fidanzata, un po' di spaccio al minuto, e tuttavia si immaginano Scarface, Pablo Escobar, mafiosi urka dell' Educazione Siberiana, ma soprattutto ragazzi di Gomorra, fazione Sangueblù, di cui imitano pose, tatuaggi, frasi icastiche, adottando la canzone neomelodica come colonna sonora delle loro vite e accompagnamento delle loro smargiassate sui social. Sono nati a Roma. Vengono da famiglie perbene (Del Grosso è stato persino denunciato dai genitori). Ma a guardare le loro pagine Facebook si capisce la loro aspirazione: vorrebbero essere entrambi camorristi napoletani. E' lo stesso impellente desiderio degli altri due, quelli degli spari contro Bortuzzo, sposati e padri di famiglia, che simulavano foto di galera dietro le sbarre di un cancello per sentirsi delinquenti veri e postavano sentenziose citazioni di Andrea Zeta, il neomelodico catanese figlio di un boss ergastolano. I ritratti di questi delinquenti stupidi, gente che ha spezzato vite per niente - un litigio, uno scippo, pochi euro - spaventano più di quelli dei banditi "veri" perché rivelano l' inaspettato contagio sociale di modelli esistenziali malati, che escono dai confini di Scampia o di Secondigliano per ispirare balordi di quartiere a ogni latitudine. Valerio Del Grosso è quello che, secondo gli inquirenti, ha fulminato il povero Luca Sacchi con un colpo di calibro 38 alla testa. Faceva il pasticcere. Il giorno dopo il delitto è andato a lavorare normalmente, poi all' ora di pranzo - quando si è saputo che la vittima era morta - si è dato malato ed è sparito. Ha una compagna e un bambino appena nato, vivono tutti nella casa dei genitori a San Basilio. Che cosa spinge uno così a raccontarsi come Ciro l' Immortale, a costruirsi un' identità parallela da trafficante pazzo e vendicativo, che gira in Smart con la pistola nel cruscotto pronto a usarla per niente? Il suo compagno, Paolo Pirino, in rete era Pao Letto. La sua pagina Fb è rimasta aperta per molte ore e rivela il tipo di riferimenti su cui questa coppia di bulli di periferia, piccoli pusher da pub o da discoteca, aveva plasmato l' immagine di sè. Ci sono le mani, con due tatuaggi sulla prima falange: Fuck e 1998 (la data di nascita), in stile Sangueblù. Le pagine preferite: Gomorra è la più amata, seguita da una raccolta di citazioni di Don Salvatore, il boss psicopatico che nella seconda stagione della serie finisce sgozzato dai suoi sottoposti durante una processione. Dalle foto di copertina trabocca una galleria di paranze, pistole, mitra che sparano al cielo. Persino quando vuole fare il romantico, Pirino non trova di meglio che postare una foto di Al Pacino e Michelle Pfeiffer avvolta di piume bianche in una delle scene-cult di Scarface. Il torace, esibito ogni volta che si può, è una tavolozza di volti femminili: in primo piano una bionda mascherata che spiana l' arma in faccia a chi la guarda. Chissà quando i due assassini sono usciti dalle loro personalità inventate, quando si sono accorti di non essere nè Scarface, nè Don Salvatore, nè Sangueblù, nè luogotenenti di Escobar o del Chapo. Probabilmente è successo al momento della fuga e dell' arresto: soli, senza una banda né un amico e con un' accusa da ergastolo sulla testa. Pirino è stato preso in un condominio di Tor Pignattara dove la sua famiglia ha un appartamento, rannicchiato su una terrazza. Del Grosso si era infilarsi in un residence, lo hanno trovato in dieci minuti. E tuttavia la tragica conclusione della fiction che avevano costruito - Luca Sacchi è morto davvero, senza un motivo - non è un' invenzione, costituisce un allarme largo e preoccupante. La sottocultura camorrista, i suoi riti, le sue musiche, la sua violenza insensata e gratuita, la sua folle propensione all' omicidio, sta diventando modello esistenziale ai piani bassi della delinquenza da marciapiede, e non si limita ad essere imitazione nel look o sui social. Si fa concreta. Arma le pistole. Spara per futili motivi. Lascia per terra ragazzi appena usciti dall' adolescenza come il povero Sacchi. Imprigiona su una carrozzella atleti promettenti come Manuel Bortuzzo. E ci lascia interdetti: vediamo l' infezione, la riconosciamo dai tatuaggi e dai tagli di capelli nelle strade delle nostre città, nessuno di noi sa come fermarla.

Luca Sacchi colpito con la mazza prima dell’omicidio. Forse uno scontro precedente. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. Un delitto che assomiglia sempre più a un’esecuzione. L’autopsia: sulle braccia del 24enne ci sono segni compatibili con la mazza da baseball usata per colpire la fidanzata. L’omicidio di Luca Sacchi, mercoledì scorso davanti a un pub dell’Appio Latino, rassomiglia sempre più a una esecuzione. L’interrogatorio di Anastasiya Kylemnyk, fidanzata della vittima e figura chiave nella vicenda, slitta intanto di una settimana. L’autopsia svela che sulle braccia del 24enne ci sono segni compatibili con la mazza da baseball che Paolo Pirino, uno dei due 21enni accusati dell’omicidio, ha usato anche contro la 25enne ucraina per provarle a strappare lo zaino che conteneva i soldi per la droga. Sembra dunque che Luca si sia difeso prima di essere ucciso con un colpo alla nuca da Valerio Del Grosso. Una ricostruzione incompatibile con i tempi del raid dei due pusher ripresi dalle telecamere dei video sorveglianza. A meno che l’uccisione del ragazzo non sia l’epilogo di uno scontro precedente. I video mostrano la Smart imboccare due strade contro mano per raggiungere Luca e Nastia, come se quello di Del Grosso e Pirino fosse un agguato. Un testimone racconta che Del Grosso è sceso dall’auto già impugnando il revolver (quindi non estraendolo dopo la reazione di Luca). È possibile che tra i pusher e la coppia ci sia stata una lite dopo la quale i due 21enne siano tornati per un regolamento di conti? I due fidanzati entrano al pub John Cabot per comprare dell’acqua e non si trattengono se non per un veloce saluto ad alcuni amici, tra cui il pregiudicato per reati di droga, Giovanni Princi, amico intimo del 24enne, che però non accompagna i due all’appuntamento. Che cosa si sono detti nel pub Luca e Princi che, come annota l’ordinanza di arresto, si allontana prima dell’arrivo dei carabinieri anziché avvicinarsi all’amico in fin di vita? Di certo c’è che Del Grosso e Pirino hanno goduto di coperture nel noleggio dell’auto e nell’occultamento della pistola. «La grande quantità di droga e la facilità all’uso della violenza rendono grave la situazione a Roma», dice a Radio24 il procuratore generale Giovanni Salvi. Molte delle voci raccolte vengono riesaminate in queste ore dagli inquirenti per spiegare le tante incongruenze emerse. Il pm Nadia Plastina ha affidato alla Squadra mobile e al Nucleo investigativo dei carabinieri verifiche ad ampio raggio, a partire dall’esame dei tabulati telefonici per capire quante persone erano coinvolte. Nastia, che nello zaino aveva i due rotoli di banconote da 20 e 50 euro (oltre 2.000 euro totali), trattava in prima persona o era una pedina usata per non destare sospetti?

Omicidio Luca Sacchi, la svolta-choc: "L'ombra del narcotraffico, i killer volevano fare impressione sui boss". Libero Quotidiano il 29 Ottobre 2019. Le indagini sull'omicidio di Luca Sacchi avvenuto a Roma potrebbero arrivare a una imprevedibile svolta. Secondo quanto riportato da Il Fatto Quotidiano, i due assassini Valerio Del Grosso e Paolo Pirino potrebbero aver tentato la rapina per impressionare i "capi" di San Basilio e "fare carriera". I capi per i quali, secondo gli investigatori, lavoravano. Gli inquirenti stanno lavorando su questa pista, la quale potrebbe condurre alla filiera di spacciatori che avrebbe fornito la droga a Del Grosso e Pirino e che poi avrebbero dovuto venderla agli amici di Luca, tra cui la fidanzata Anastasiya Kylemnyk, il cui ruolo continua ad essere sotto i riflettori e poco chiaro. Secondo la testimonianza offerta da Valerio Rispoli, l'amico di uno dei due arrestati, Anastasiya non aveva contatti diretti con Del Grosso e Pirino, ma con un amico intimo di Luca pregiudicato per reati inerenti agli stupefacenti, Giuseppe Princi. Questi aveva collegamenti continui con San Basilio e per questo era riuscito a fare entrare in contatto Anastasiya con Rispoli e un altro amico, Simone Piromalli, per mostrare loro lo zaino con il contante. La scoperta del poco contante posseduto da Anastasiya avrebbe ispirato, di fatti, il colpo a Del Grosso e Pirino: derubare Luca e Anastasiya e, al contempo, tenersi l'erba, magari progredendo dal ruolo di semplici fattorini della droga. L'omicidio di Luca, quindi, sarebbe stato un imprevisto. I 253 euro dichiarati dalla ragazza ucraina, però, non potrebbero giustificare il tentativo di furto e, per questo, si sta lavorando su una pista che consisterebbe in un investimento di una cifra cumulativa ideato dalla ragazza e dagli amici da far fruttare in un micro-spaccio di quartiere.

In tutto questo, però, gli inquirenti sono ancora in cerca dei referenti di Del Grosso e Pirino. Per ora, le uniche cose certe (confermate da testimoni) sono: l'aggressione di Pirino ad Anastasiya con una mazza da baseball nera (la ragazza ha riportato un'ematoma alla base del collo come riferito sui referti medici); e la volontarietà dell'omicidio di Luca da parte di Del Grosso.

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 30 ottobre 2019. Valerio Del Grosso e Paolo Pirino sono in carcere per l'omicidio di Luca Sacchi. Ma il caso non è chiuso. Tanto che la Procura di Roma è pronta ad aprire un nuovo filone d'inchiesta questa volta per traffico di stupefacenti delegando i carabinieri a chiarire se all'Appio Latino quartiere a sudest della Capitale ci sia una nuova piazza di spaccio, anche embrionale, che si raccorda con lo storico giro di Tor Bella Monaca e San Basilio provocando, però, anche frizioni e competizioni. E soprattutto se l'entourage di Luca Sacchi ne sia in qualche modo protagonista. Se è vero che nello zainetto di Anastasia Kylemnyk, fidanzata del personal trainer ucciso da un colpo di pistola alla testa, c'era una cifra molto superiore ai 2 mila euro è lecito supporre che il denaro avrebbe coperto l'acquisto di dosi di marijuana non destinate all'uso personale o a un piccolo giro di consumatori, ma a una piazza ben più ampia. In questo contesto matura «l'appuntamento convenuto per l'acquisto della merce», come si legge nei verbali, a cui, alle 21.30 del 23 ottobre, si erano presentati gli intermediari di Del Grosso mandati in avanscoperta per accertare la presenza dei soldi Anastasia e Giovanni Princi, amico di Luca Sacchi e figura chiave per i suoi precedenti per droga. Contesto che potrebbe nascondere molto di più e aprire a nuovi scenari. Del Grosso e Pirino partono da Casal Monastero armati di un revolver calibro 38 e di una mazza da baseball, ma con loro non c'è la droga. L'intento come dirà Pirino, una volta arrestato, sarà quello di «rapinarli» e non di concludere l'affare. Truffarli, in sostanza: prendersi i soldi e lasciare la comitiva di bravi ragazzi a mani vuote. I due dopo l'omicidio di Sacchi tornano indietro e si fermano a Tor Bella Monaca per sbarazzarsi dello zainetto rubato alla baby sitter ucraina. Eppure il quartiere delle torri roccaforte dello spaccio romano non è sulla rotta per Casal Monastero. Forse è qui che si liberano del denaro e anche della pistola, finora non rinvenuta dagli investigatori. Li consegnano a qualcuno? Magari a quegli stessi che li hanno inviati all'Appio Latino? E se la rapina fosse servita a mascherare un avvertimento? Del Grosso e Pirino sembrano agire come corrieri che hanno alle loro spalle un'organizzazione criminale di livello superiore. Che forse già da tempo ha iniziato a fare affari proprio tra il quartiere dell'Alberone e il parco della Caffarella e che non ha intenzione di cedere terreno a un gruppetto di ragazzi che per conto proprio o per terzi intende allestire un giro alternativo. Del Grosso e Pirino prendono i contatti con un gancio (Princi) e mandano due intermediari Valerio Rispoli e Simone Piromalli a verificare la presenza effettiva del denaro. Ma si premurano di muoversi ben armati, pronti a difendersi (sanno che Luca e i suoi amici fanno palestra e sono esperti di arti marziali) ma anche a spaventare, per lanciare l'avvertimento. Le versioni finora rese e trascritte nell'ordinanza di custodia cautelare raccontano una dinamica per niente cristallizzata. E decisamente anomala rispetto alla rapina raccontata in prima battuta da Anastasia. Uno dei due testimoni oculari un ragazzo che si trovava all'altezza del distributore di sigarette vicino al pub John Cabot racconta di avere notato una persona vicino alla «Smart bianca che camminava verso via Bartoloni con un braccio teso lungo il corpo come se impugnasse qualcosa» e che «giunto all'altezza dell'incrocio, questi ha alzato il braccio e subito dopo si sentiva un forte fragore ed un lampo di luce provenire dalle mani del ragazzo, il quale, subito dopo, è tornato verso l'autovettura allontanandosi». Gli inquirenti, che in queste ore stanno passando al setaccio i tabulati telefonici di tutti i personaggi coinvolti nella vicenda, sono alla ricerca di eventuali contatti pregressi tra i due gruppi o singoli appartenenti. Intanto, oggi, la famiglia Sacchi terrà una conferenza stampa nella quale il papà di Luca, Alfonso, affronterà i media ed esporrà la sua verità.

C. Moz. per “il Messaggero” il 30 ottobre 2019. Una camera tutta sua, un lavoro, magari in una grande boutique di moda al Centro di Roma dove poter mettere a frutto le sue conoscenze linguistiche, tra cui il russo. Piccole certezze per poter affrancarsi dalla famiglia e vivere la sua vita. Erano questi i sogni di Anastasia Kylemnyk confidati a quel giovane che, fino a 5 anni fa, era il suo fidanzato prima che Luca Sacchi ucciso da un colpo esploso alla testa la sera del 23 ottobre scorso arrivasse a far breccia nel suo cuore. Andrea (lo chiameremo così perché ha chiesto di mantenere l'anonimato) racconta il lato migliore di questa giovane arrivata nella Capitale dall'Ucraina quando non aveva ancora 7 anni. Quello che lui ha conosciuto quando Anastasia, ancora ventenne, aveva da poco concluso gli studi liceali all'istituto Augusto. «Rifuggo categoricamente la possibilità che possa essere coinvolta come parte attiva in questa vicenda», spiega Andrea. E non lo fa con lo spirito di chi è ancora innamorato. «La nostra storia continua finì perché io la lasciai ma siamo rimasti in buoni rapporti, sapevo che aveva un nuovo ragazzo, Luca, che io non ho mai conosciuto ma di cui ho solo sentito parlar bene. Dopo la sparatoria, leggendo i giornali, le ho scritto un messaggio per farle sapere che può sempre contare su di me, siamo sempre rimasti in contatto». Lei ha risposto: «Ho la testa fuori, ma non c'entro nulla». E Andrea non ha esitato a crederle. «Una delle ragazza più tranquille che io abbia mai conosciuto, non fumava e non intendo le sigarette, voleva solo raggiungere la propria indipendenza, affrancarsi dalla famiglia, trovarsi un lavoro e vivere una vita normale. Magari non aveva grandi ambizioni ma piccoli sogni che per lei, però, contavano molto. Poi se abbia iniziato a frequentare gente sbagliata negli ultimi anni non lo so, ma non posso crederci». Le sue parole non cadono nel vuoto ma rimbalzano quasi come un eco tra i negozi di quella stradina di quartiere alle spalle dell'Appia nuova dove vive la giovane con la famiglia e dove la maggior parte dei residenti tratteggia il profilo di una minuta, introversa e timida ragazza. Sempre a spasso con il suo boxer, impegnata nelle ripetizioni di lingua o negli allenamenti in palestra, a passeggio con la sorella e la mamma. Eppure dall'ordinanza firmata dal giudice Corrado Cappiello che ha convalidato l'arresto in carcere per Valerio Del Grosso, il 21enne che ha sparato a Sacchi, e Paolo Pirino suo complice, emerge tutto un altro profilo. Dove sta la verità e dove inizia la mistificazione? Qual è la vera Anastasia? Se è davvero possibile credere che sia sempre una e una sola l'anima di una persona? Quante Anastasia vivono nella Kylemnyk? Nelle carte sono le deposizioni degli intermediari mandati dal Del Grosso, a verificare se al Tuscolano ci fosse gente con il denaro per acquistare la droga, a descrivere una giovane quasi spregiudicata. Che se ne andava in giro con uno zaino pieno zeppo di soldi destinati all'acquisto di stupefacenti. Lei Anastasia, che dovrebbe essere ascoltata in Procura per delineare meglio i contorni di quella sera, ha detto agli inquirenti di avere 200 euro nello zaino e che la droga non c'entrava nulla. Da una parte, dunque, gli intermediari di Del Grosso che agli inquirenti hanno raccontato di una giovane che per il tramite di Giovanni Princi ponte tra i venditori e gli acquirenti e amico di Sacchi avrebbe ricoperto il ruolo di cassiera per pagare poi la droga, conservando nello zaino poi rubato dai due di Casal Monastero una cifra superiore ai 2 mila euro. Dall'altra lei, le sue poche parole di estraneità alla compravendita di marjiuana all'indomani della tragedia e il lungo silenzio che ne è seguito. In mezzo una cifra di denaro che non è stata mai quantificata perché non rinvenuta da polizia e carabinieri e una partita di droga presumibilmente hashish mai consegnata. A. Mar. e C. Moz. per “il Messaggero” il 29 ottobre 2019. I soldi, il revolver e la mazza da baseball. C'è un passaggio in via di Tor Bella Monaca di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i ventenni accusati dell'omicidio di Luca Sacchi all'Appio, che è nella lente degli investigatori. È qui, infatti, tra le sterpaglie dello spartitraffico della rampa d'accesso al Grande Raccordo Anulare, che i due dopo avere lasciato il personal trainer agonizzante sull'asfalto, in fuga sulla Smart forfour noleggiata da Pirino, si liberano dello zainetto di pelle rosa rapinato ad Anastasia Kylemnyk. Gli agenti della Squadra Mobile e i carabinieri di via In Selci lo ritroveranno esattamente dove Del Grosso, pasticcere di Casal Monastero con il vizio della droga, indicherà. Ma perché passare proprio tra i palazzoni dello spaccio di Torbella prima di imboccare dall'Appio Latino il Raccordo in direzione San Basilio/Casal Monastero? Il quartiere conosciuto come storica roccaforte del traffico di stupefacenti non è di strada. Perché allora non immettersi direttamente dalla più vicina Appia o dal braccetto della Roma-L'Aquila per tornare indietro? Le risposte potrebbero contenere un altro pezzo di verità in questa vicenda dai contorni ancora tutti da chiarire. A partire dalla compravendita di erba finita male. Il sospetto di chi indaga è che i soldi contenuti nello zaino che i due balordi (Pirino ha già scontato tre anni in carcere per stupefacenti) hanno strappato via alla fidanzata di Luca, armati di una mazza da baseball nera e di un revolver calibro 38, fossero destinati proprio ai luogotenenti dello spaccio che si dividono la piazza tra i palazzoni popolari, spesso in dissidio, ma in combutta a seconda dell'affare con i gruppi di San Basilio. E che qui, i due fuggitivi abbiano trovato appoggi per fare sparire il revolver di cui Del Grosso sarà in grado di dire solo dove si è disfatto del tamburo e del bossolo esploso rimasto in canna. Come se la pistola fosse stata ceduta per essere distrutta oppure riutilizzata con tamburi diversi. Del Grosso, dopo essere stato sorpreso la notte successiva al delitto in una stanza del Cervara Park Hotel, porta gli agenti di polizia anche in via Belmonte in Sabina, presso lo svincolo del Gra Centrale del Latte, questa volta sulla strada verso casa, e segnala di avere gettato in un campo la mazza da baseball e il tamburo della pistola. La mazza verrà effettivamente ritrovata sul lato destro del guard-rail, del tamburo, invece, non c'è traccia, probabilmente inghiottito nel fitto della vegetazione. Anche ritrovarlo servirà a poco perché non è collegato al proiettile di cui parla solo la canna. E chissà che fine ha fatto il resto dell'arma. Più vicino alla sua abitazione e a quella di Pirino, Del Grosso fa invece ritrovare altri due oggetti: in via Ottaviano Conte di Palombara, tra i cespugli di un parcheggio, indicherà in modo da farlo trovare ai poliziotti il portafogli e il portatessere con la patente di Anastasia; in un tombino in via Conti di Rieti, altezza civico 55, infine, nei pressi della casa della fidanzata Giorgia, un guanto in lattice blu, chiuso con dei nodi, contente il bossolo esploso. Ma il revolver per intero? Stando agli inquirenti potrebbe essere andato distrutto. Magari consegnato a qualcuno incaricato di farlo sparire per non lasciare altre tracce. Che il duo Del Grosso-Pirino non solo sia passato a Tor Bella Monaca, nel tragitto di ritorno dopo l'omicidio, ma che da qui sia partito con l'arma alla volta dell'Appio Latino? Chi indaga dovrà chiarirlo. Non è escluso, tra l'altro, che proprio il denaro mai ritrovato ma comunque visto dagli emissari di Del Grosso nello zainetto della fidanzata di Sacchi sia stato lasciato insieme al revolver proprio a Tor Bella Monaca. Questa ricostruzione aprirebbe almeno uno scenario più ampio: quello per il quale dietro ai due ventenni, rinchiusi ora nel carcere di Regina Coeli, ci sia stata almeno una persona o una delle bande attive fra le torri che ha armato le loro mani e che si è poi tenuta il denaro frutto della rapina. 

Tra Anastasia e Pirino amicizia o affari. Tutte le chiamate con i killer di Luca. Analisi dei tabulati. Pronta un'altra indagine per traffico di droga. Stefano Vladovich, Mercoledì 30/10/2019 su Il Giornale.

«Una grande attrice». La famiglia Sacchi accusa la fidanzata di Luca, Anastasia Kylemnyk, di recitare una parte. «Perché» ripete l'avvocato Paolo Salice. Per gli inquirenti ha già fatto le sue dichiarazioni, almeno sulla notte dell'omicidio. «Verrà aperto un altro fascicolo sul traffico di droga» ammettono in Procura. Indagine in cui la 25enne ucraina potrebbe essere accusata di far parte di una rete di spacciatori. Con lei Giovanni Princi, figlio di un dentista, già indagato per traffico di stupefacenti. Princi è con la russa il pomeriggio di mercoledì quando incontra gli emissari dei clan per concludere l'affare, acquistare droga. O per restituire denaro che il gruppetto della Roma bene doveva a qualche spacciatore. Che i soldi fossero diretti a Tor Bella Monaca, seconda centrale dello spaccio di droga dopo San Basilio, non è in discussione per polizia e carabinieri. Non a caso lo zainetto rosa della donna viene recuperato su uno spartitraffico alle Torri, lontano dalla zona di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino: Casal Monastero. Cosa ci sono andati a fare, dopo l'omicidio, i due sul viale di Tor Bella Monaca? Soprattutto, a chi hanno consegnato il denaro, le due mazzette in banconote da 20 e da 50 euro? Dal Grande Raccordo Anulare, imboccato all'altezza della via Appia, per arrivare a Tor Bella Monaca si deve fare una deviazione. Un cambio di percorso se la meta da raggiungere è l'uscita per la Centrale del Latte, dopo la Casilina e la Nomentana. Le ipotesi sono tre.

La prima è che Anastasia sarebbe incaricata da un gruppetto di spacciatori che ruota attorno al pub John Cabot di via Bartoloni di consegnare denaro a fornitori di erba o cocaina. Non sarebbe il primo affare che Anastasia, Luca e Giovanni organizzano con quelli che hanno in mano la distribuzione di droga in tutta la capitale. Luca potrebbe esser coinvolto di riflesso. Nonostante sia un atleta e non tocchi alcun tipo di stupefacente (come dimostrano gli esami tossicologici) è pur sempre il ragazzo di Anastasia. Le guarda le spalle. E quelli delle Torri lo sanno bene. Così Valerio e Paolo, incaricati del recupero, si presentano con una mazza. Se non basta bisogna tirare fuori il revolver di grosso calibro, una 38 special o 357 magnum, che trattiene i bossoli nel tamburo. Valerio la deve usare solo in caso di pericolo. Luca è conosciuto come un picchiatore. Il ragazzo non è presente all'appuntamento delle 21.30 di Prisco e Anastasia con Simone Piromalli e Valerio Rispoli, ma due ore dopo è accanto all'ucraina. Quando s'incontrano con quelli della Smart bianca lei viene spinta a terra per rubarle lo zaino. Luca reagisce e viene riempito di mazzate. Nella rissa il paraurti della prima Smart presa a nolo si spacca. Luca non molla e Del Grosso gli spara.

La seconda è che Anastasia conosce bene Pirino, lo dimostrano i tabulati telefonici. Insieme inscenano il furto, la finta rapina, per raggirare i finanziatori della Caffarella e dividersi il malloppo. Messinscena finita tragicamente per Luca.

La terza è che Del Grosso e Pirino decidono di fregare soldi ai pusher che fanno capo a Prisco e a Sacchi tenendosi la droga.

Omicidio Sacchi, slitta la deposizione di Anastasiya: tutte le contraddizioni della fidanzata di Luca. Rinviata l'audizione della giovane che era assieme al personal trainer quando è stato ucciso davanti a un pub della capitale la settimana scorsa per permettere agli inquirenti di passare al setaccio i tabulati telefonici di tutte le persone presenti sulla scena del delitto. La famiglia della vittima terrà una conferenza stampa separata. Rory Cappelli il 29 ottobre 2019 su La Repubblica. Che Anastasiya abbia un ruolo diverso da quello che ha raccontato fin dall'inizio è abbastanza evidente. Ma che dopo cinque anni insieme, con la famiglia di Luca Sacchi che dapprima la difende "per noi è come una figlia" e poi fa sapere che le due realtà ora sono talmente distinte da spingerli a fare una conferenza stampa (domani) senza di lei, è forse il vero punto di svolta di una vicenda che appare ingarbugliarsi sempre di più. Omicidio Sacchi, negativi anche i nuovi esami tossicologici. Ritrovato lo zaino di Anastasia tra le sterpaglie del Gra. Perché nella storia dell'omicidio di Luca Sacchi, ucciso con un colpo di pistola alla nuca in via Franco Bartoloni alle 23 di mercoledì 23 ottobre, sembra che il dominus di tutta la vicenda sia proprio lei. Anastasiya Klymnek, 24 anni, ex studentessa del liceo classico Augusto, attualmente baby sitter alla ricerca di un impiego più stabile, è con Luca Sacchi la sera maledetta. È lei ad avere lo zaino con i soldi che sarebbero serviti per l'acquisto di un (forse) ingente quantitativo di droga. È lei che fa controllare il contenuto dello zainetto ai "mediatori" che poi, rassicurati, chiamano i pusher. Nella rete di contatti sembra sempre che alla fine ci sia lei. Anche per questo gli inquirenti hanno messo sotto controllo i cellulari e stanno analizzando i contatti pregressi di ognuno dei protagonisti e delle comparse della vicenda per ricostruire la ragnatela dei contatti tra tutte le persone presenti sulla scena del delitto. Domani Anastasiya, che doveva essere sentita oggi, si ritroverà faccia a faccia con i pm: dovrà chiarire questi punti e altri. Si dovrà capire perché abbia detto di aver ricevuto una botta in testa, tirata peraltro con una mazza da baseball di metallo, quando non risultano referti a suo nome e tanto meno un ricovero con l'ambulanza in codice giallo la sera dell'omicidio dal luogo dell'accadimento. La mazzata - dice invece l'autopsia condotta iera mattina sul corpo di Luca Sacchi - l'ha ricevuta lui: uno o più colpi su avambraccio destro e braccio sinistro, che lo avevano reso inerme. I testimoni che accorrono al capezzale di Luca, l'uomo che vede tutta la scena dalla finestra, uno dei negozianti della via, hanno riferito tra l'altro che la ragazza non era ferita. Che era in stato di alterazione, ma chi non lo sarebbe stato? Lei ha raccontato di essere svenuta per il colpo tirato con la mazza: non era infatti vicino a Luca nel momento dell'omicidio. Perché Luca era lontano da lei, probabilmente con lo zainetto, quando è stato colpito? Lei era con il cane Jenna: dove? E lo zainetto: lo aveva lei? Lo aveva Luca? Perché se lo aveva lei i due killer sono andati dritti da Luca, lo hanno colpito con la mazza da baseball e poi gli hanno sparato? Le domande che necessitano ancora di una risposta che non sia contraddittoria sono anche queste: chi aveva preso i contatti per l'acquisto di droga? Chi era la mente di quello che sempre meno appare come un consumo occasionale tra amici? Era già successo? E se sì, se i due o tre gruppi si erano già incontrati per scambi di droga, chi era che dirigeva il traffico? Intanto domani parlerà la famiglia di Luca: "Allo stato non vi sono elementi certi per screditare la versione di Anastasia la quale, peraltro, ha scelto di affidarsi a un altro legale" fa sapere Paolo Salice, uno dei legali della famiglia Sacchi. "Al momento dalle carte in nostro possesso non possiamo sbilanciarci sulla posizione della fidanzata di Luca - ha aggiunto il legale -. Attendiamo lo sviluppo delle indagini per far luce il prima possibile su quanto accaduto quella tragica notte". Tanti gli interrogativi insomma, che uniti alla teoria dei pregiudizi che in queste ore affollano le cronache, lei italianissima ma pure sempre "di origini ucraine" come un non detto allusivo, contribuiscono a virare sul ritratto a tinte fosche quella che appariva sulle prime l'altra vittima innocente di questa storia. Dovrà in primo luogo chiarire lei quale ruolo abbia avuto e perché non abbia detto subito tutto. Perché con Luca faceva tutto, avevano sogni insieme: perché avrebbe dovuto tramare alle sue spalle con un cosa così pericolosa?

Omicidio Sacchi: il Pg Salvi, a Roma tanta droga e violenza. "La grande quantità di droga e la grande facilità all'uso della violenza di piccoli gruppetti". Per il Procuratore Generale di Roma, Giovanni Salvi, intervistato da Storiacce di Radio24, questi sono i due elementi chiave della "gravità della situazione" della Capitale, resa evidente anche dall'omicidio di Luca Sacchi. "Questo non è un problema di piazze di spaccio, che esistono e sono controllate da organizzazioni di vario genere; il problema - specifica Salvi a Radio 24 - è la città che va verso le piazze di spaccio. E' il centro che si va a rifornire. Questo è il punto estremamente grave: la quantità di sostanze stupefacenti, da cui poi deriva un enorme quantitativo di denaro e da questo derivano anche comportamenti, come quelli di questi giorni". "Questi piccoli gruppetti, queste schegge impazzite, in un contesto in cui la vita vale ben poco, commettono questi delitti, anche se Roma quanto ad omicidi resta una delle città più sicure", aggiunge.

«Vicenda raccontata in modo non corretto». Parla la famiglia di Luca Sacchi. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 su Corriere.it da V. Costantini, F. Fiano e R. Frignani. La famiglia del ragazzo ucciso a Roma: «Per noi era una ragazza a posto, l’abbiamo amata come una figlia». «Vogliamo fare chiarezza il più possibile sulla tragica fine del nostro Luca. Fino a oggi sono state dette delle cose inesatte che devono essere corrette. La magistratura ancora non ha dato il nullaosta per poter celebrare i funerali di un ragazzo perbene». Così mercoledì pomeriggio in un albergo sulla via Appia i legali della famiglia di Luca sacchi, ucciso in circostanze ancora da chiarire nella tarda serata di una settimana fa e all’appio latino. I due killer sono stati arrestati che si trovano in carcere ma ci sono ancora diversi punti da chiarire perché chi indaga è convinto che l’omicidio sia avvenuto durante una compravendita di droga fallita in modo tragico. «Sulla figura di Anastasia non possiamo ancora esprimerci, anche in questo caso sono State dette tante cose ma dobbiamo aspettare l’evolvere delle indagini per pronunciarci», continuano gli avvocati della famiglia della vittima. L’incontro con la stampa nell’albergo sull’Appia è stato deciso dai parenti e dai legali Per chiarire la posizione della famiglia di Luca, alla presenza del padre Alfonso e di alcuni familiari. «Ad oggi non è ancora stato dato il nulla osta per i funerali di Luca, ma abbiamo deciso di incontrare i giornalisti per correggere il tiro sulla dinamica della vicenda e chiarire alcuni aspetti raccontati in modo non corretto». Così ha dichiarato l’avvocato Paolo Salice, legale della famiglia Sacchi, ucciso a Roma con un colpo di pistola alla testa nel quartiere Appio Latino. Gli avvocati assunti dai parenti del ragazzo hanno già chiarito che non difenderanno Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata del personal trainer: «Farlo sarebbe impossibile a livello morale». La ragazza sarà nuovamente interrogata per capire il suo ruolo nella vicenda. I due ragazzi 21enni accusati dell’omicidio, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, sono in carcere e si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Gli inquirenti intanto continuano a lavorare sui tabulati telefonici: l’obiettivo è chiarire tra chi siano intercorse le comunicazioni nella trattativa per l’acquisto della droga la sera del 23 ottobre.

Omicidio Sacchi, parla il padre del giovane: "Luca era un ragazzo pulito, forse si fidava troppo". "Anastasiya? Se mente è diva di Hollywood". La conferenza stampa a otto giorni di distanza dall'uccisione del ragazzo, avvenuta davanti a un pub nel quartiere di Colli Albani. Papà Alfonso in lacrime: "Non possiamo ancora seppellire Luca e vogliamo correggere il tiro su questa storia raccontata in maniera non corretta". La Repubblica il 30 ottobre 2019. "Ad oggi non è ancora stato dato il nulla osta per i funerali di Luca, ma abbiamo deciso di incontrare i giornalisti per correggere il tiro sulla dinamica della vicenda e chiarire alcuni aspetti raccontati in modo non corretto". Inizia  così, all'Appia Park Hotel di via Appia Nuova 934, periferia della Capitale, la conferenza stampa della famiglia di Luca Sacchi, il 24enne ucciso con un colpo di pistola alla nuca nella notte tra mercoledì e giovedì scorso davanti al John Cabot, pub in zona Appio. Ci sono Alfonso Sacchi, papà di Luca, e i due legali della famiglia Paolo Salice e Armida Decina. La decisione di parlare con i giornalisti sottolinea una ulteriore presa di distanza da Anastasiya, la ragazza di Luca presente al momento del delitto e in attesa di essere ascoltata dagli inquirenti.

Il papà: Luca era un ragazzo pulito, mia moglie devastata. "Mio figlio Luca era stupendo, cristallino, era un ragazzo pulito. Mia moglie è devastata, forse mio figlio mi sta dando coraggio. Lui aveva tanta voglia di vivere", così Alfonso Sacchi, che ha aggiunto: "Non aveva bisogno di soldi, io ho un ristorante, lui non aveva bisogno di niente. Era un ragazzo sincero e forse si fidava troppo degli altri". "Anastasiya? A Luca dissi 'Se le vuoi bene è come se fosse nostra figlia'. Se lei recita così bene allora è la regina di Hollywood" E' ancora il padre di Luca Sacchi, Alfonso, che non trattiene le lacrime e che si sofferma sulla figura della fidanzata del figlio. "Per me lei è una brava ragazza, cosa deve fare un genitore? Spero sia sincera o aggiungerebbe dolore su altro dolore".

"Anastasiya non l'abbiamo più vista dopo che ha dormito da noi".

"Anastasiya è venuta a casa e io l'ho abbracciata, le ho dato coraggio e abbiamo pianto tutti insieme.

Ha dormito da noi una notte e poi non si è vista più...ci sono stati solo contatti telefonici". Così ancora Alfonso Sacchi.

"Ultimo ricordo da vivo, un bacio prima del lavoro".

"La sera in cui è morto, prima di uscire per andare a lavoro nel mio ristorante, gli ho fatto un'iniezione per il mal di schiena e lui mi ha detto che ero stato bravissimo. Allora gli ho dato un bacio e lui mi ha guardato con un sorriso e ci siamo abbracciati....è l'ultima volta che l'ho visto prima che gli sparassero". Così ancora  il padre di Luca. "Non so cosa sia successo, ma chiedo giustizia. Forse Luca è morto senza neanche sapere il perché".

"Gli ho detto: "Luca, dammi coraggio".

"Oggi ho indossato i suoi slip per prendere coraggio, porto con me i suoi occhiali da sole e dal giorno della sua morte dormo col suo pigiama. 'Luca, dammi coraggio' gli ho detto".

I legali della famiglia Sacchi: "Qualcuno sta mentendo, è sicuro".

"Qualcuno sta mentendo, è sicuro" sottolineano i legali della famiglia Sacchi. "Noi speriamo che Anastasiya non c'entri nulla, che abbia detto la verità". E ancora: "Quello che chiediamo è che non venga accostata la famiglia Sacchi, né Luca, con la vicenda droga. E ovviamente, quando sarà possibile, ci costituiremo parte civile. Ai due imputati (Valerio Del Grosso e Luca Pirino, in carcere a Regina Coeli ndr) non potrà essere concesso il rito abbreviato, per via delle aggravanti. Speriamo che sia un processo rapido e non ventennale come spesso accade in Italia".

Omicidio Sacchi, la madre di uno dei killer: "Distrutta dal dolore: chiedo scusa, provo vergogna". Giovanna Proietti, madre di Valerio Del Grosso, intervistata dal Giornale Radio 1: "Ho fatto arrestare mio figlio, ora è giusto che paghi". La Repubblica l'1 novembre 2019. "Sono distrutta dal dolore sapendo che una mamma e un papà, un'intera famiglia, sta piangendo la morte di un figlio. Ancora non posso credere che Valerio abbia potuto fare un gesto simile. E come me tutti quelli che lo hanno visto crescere nel quartiere". Lo ha detto al Giornale Radio1 Giovanna Proietti, la mamma di Valerio Del Grosso, il 21enne accusato di aver ucciso Luca Sacchi davanti a un pub del quartiere Appio Latino di Roma e che lei stessa ha fatto arrestare. "È giusto che adesso paghi e si assuma le sue responsabilità e so che lo farà. Per questo con lo stesso dolore nel cuore non ho mai pensato mai nemmeno un minuto che si potesse fare una cosa diversa da quella che ho fatto. La nostra è una famiglia per bene di lavoratori e per questo non potevamo aggiungere al dolore di questa tragedia la vergogna di sentirci in qualche modo complici. Quel giorno ho anche pensato che forse era l'unica maniera per dare a Valerio una speranza di riscatto". "Anche lui aveva deciso di consegnarsi alla giustizia, lo so per certo" ha proseguito Giovanna Proietti: "So che non voleva uccidere, ma di questo non voglio dire, ci penseranno gli avvocati. Oggi c'è solo la vergogna e il dolore per una tragedia che non avrei mai potuto immaginare e per la quale a nome della mia famiglia posso solo chiedere scusa".

Omicidio Sacchi, ora è confermato: Luca si difese dai colpi di mazza dei killer. Erano i secondi prima dell'omicidio per il quale due ventenni sono finiti in carcere: Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. Primi risultati dai tabulati: "L'amico di Luca parlò con i pusher". Intanto dalla Procura arriva il via libera ai funerali. La Repubblica il 31 ottobre 2019. Luca Sacchi si è difeso parandosi la faccia con le braccia da una serie di colpi di mazza da baseball, durante l'aggressione avvenuta nella notte tra mercoledì e giovedì della scorsa settimana davanti al John Cabot, pub in zona Appio, nella Capitale. Ancora un tassello del violento omicidio che si aggiunge alla non facile ricostruzione del violento omicidio. Un elemento che già era emerso nei giorni scorsi nelle ricostruzioni del nostro giornale ma che oggi viene confermato dai nuovi risultati dell'autopsia sul corpo del giovane. Erano i secondi prima dell'omicidio per il quale due ventenni sono finiti in carcere: Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. Sono diversi i lividi, emersi nel corso dell'esame autoptico, sulle braccia di Luca che sono compatibili con il fatto che il giovane abbia cercato di attutire i colpi della mazza diretti al volto. Intanto, una telefonata prima dell'omicidio confermerebbe i legami tra i due gruppi di giovani. Sarebbe questa l'ulteriore conferma per gli inquirenti, a più di una settimana dall'omicidio di Luca Sacchi davanti a un pub a Colli Albani, che molti testimoni hanno mentito: dai tabulati emergono infatti contatti tra Giovanni Princi, amico di Luca Sacchi, e Paolo Pirino, il "socio" di Valerio Del Grosso, entrambi a bordo della Smart, quest'ultimo accusato di essere quello che materialmente ha sparato in testa a Luca Sacchi. Una telefonata prima dell'omicidio confermerebbe i legami tra i due gruppi di giovani. In mattinata è arrivato il nulla osta della Procura di Roma alla restituzione alla famiglia del corpo di Luca Sacchi, ucciso con un colpo di pistola alla testa il 23 ottobre scorso. Il pm Nadia Plastina ha dato l'ok dopo l'esame autoptico. A questo punto la famiglia può fissare i funerali che potrebbero svolgersi la prossima settimana. Il dolore per l'impossibilità di organizzare l'ultimo addio per il figlio era stato uno dei momenti più toccanti della conferenza stampa organizzata ieri dai familiari di Luca Sacchi. Il papà Alfonso, affiancato dai suoi legali, ha ribadito tra le lacrime che Luca "era un ragazzo pulito, non aveva bisogno di soldi". E anche che "Forse si è fidato troppo di qualcuno". Sulla fidanzata del figlio, Anastasyia, ha detto: "Per noi era come una figlia: se recita è una diva di Hollywood"

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per il Messaggero il 31 ottobre 2019. Prima ancora degli intermediari mandati da Valerio Del Grosso a verificare la presenza di denaro nello zaino di Anastasia Kylemnyk, la sera del 23 ottobre, c'è almeno una figura chiave nell'omicidio di Luca Sacchi che ha ricoperto il ruolo di ponte tra i venditori e gli acquirenti di una partita di marjiuana mai conclusa. E questa persona, Giovanni Princi, è un amico del personal trainer, con precedenti per droga, con cui la vittima era andato a scuola e con la quale aveva riallacciato i rapporti soltanto da qualche mese. È lui che dovrebbe aver scambiato anche delle telefonate con Pirino o forse Del Grosso nei giorni precedenti alla compravendita, finita poi con la rapina e con l'omicidio. Il Nucleo investigativo dei carabinieri sta acquisendo i tabulati telefonici per verificare che tipo di comunicazioni sono intercorse tra i due gruppi. E gli investigatori sono convinti che la compravendita sia stata preceduta da qualche telefonata o messaggio e non solo la sera stessa in cui Luca Sacchi è stato ucciso.

LE VERIFICHE. La lente degli investigatori è puntata ora su quegli elenchi per accertare l'entità e anche la frequenza delle comunicazioni non solo nelle ore precedenti al delitto ma anche nei giorni e forse nelle settimane scorse. Ci vorrà del tempo per confrontare tutti i dati, ma non è escluso che dalle verifiche possa venire fuori anche il numero di telefono di Anastasia la quale secondo quanto messo a verbale dagli intermediari di Del Grosso Valerio Rispoli e Simone Piromalli avrebbe messo proprio nelle mani di Giovanni Princi, poche ore prima della rapina, lo zaino pieno di banconote da mostrare come prova dirimente per far arrivare poi la droga da San Basilio all'Appio Latino. È Del Grosso stesso a garantirlo: arriva in via Latina poco dopo le 21.30 del 23 ottobre e si mette a parlare con Princi di «erba», dicendogli poi che sarebbe andato a prenderla per portarla sul posto. Intanto la Procura di Roma è pronta a riascoltate tutti i testimoni e i protagonisti di quella sera, compresa Anastasia che dopo avere smentito di possedere del denaro ai carabinieri di via In Selci ha detto di avere con sé non più di 200 euro si è trincerata in un totale silenzio. Sempre la Procura delegherà ai carabinieri una seconda indagine, questa volta concentrata sul traffico degli stupefacenti per accertare in quale contesto sia avvenuto il delitto.

LA RETE. Da quanto emerso finora la baby sitter ucraina avrebbe avuto con sé una cifra di denaro irragionevole per acquistare della marjiuana a uso personale o comunque da fumare con uno stretto giro di amici. Con alcune migliaia di euro - perchè sull'entità della cifra non c'è chiarezza - si può comprare una partita da destinare allo spaccio, ma Del Grosso e Pirino quella droga non la cederanno mai. Da quanto riferito dagli intermediari, Anastasia avrebbe avuto il ruolo di tesoriere, forse per conto di qualcuno intenzionato ad avviare un mercato di stupefacenti alternativo a quella gestito dai clan ai quali rispondevano Del Grosso e Pirino. Fondamentali per chiarire questo aspetto restano i tabulati telefonici che potrebbero far emergere anche dei contatti avuti dalla ragazza con il duo di Casal Monastero. A loro volta Del Grosso e Pirino il primo con precedenti per percosse contro l'ex compagna, il secondo condannato a tre anni per spaccio quando ancora era minorenne quasi certamente sono legati a una rete criminale superiore che ha garantito loro lo stupefacente da spacciare e probabilmente anche il revolver impugnato dal pasticcere di Casal Monastero e usato poi per uccidere Luca Sacchi. Le indagini dovranno ora spiegare per conto di chi Del Grosso e Pirino facevano i corrieri. Forse per qualcuno che opera da tempo nella roccaforte dello spaccio di periferia: Tor Bella Monaca. È proprio qui che i due, dopo l'omicidio, passano sbarazzandosi dello zaino (vuoto) di Anastasia ritrovato poi tra le sterpaglie vicino all'imbocco per il Grande Raccordo anulare. Sempre a Torbella viene abbandonato anche il tamburo del revolver. Ma né il primo né l'arma sono stati ritrovati.

Omicidio di Luca, l’autopsia:  si è difeso dai colpi di mazza. E la famiglia: «Ci sono due testimoni che mentono». Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. «Gli dicevo sempre di non fidarsi...» dice Alfonso Sacchi in lacrime, quasi ad alludere ad una amicizia sbagliata o addirittura ai sospetti su qualcuno per il delitto di suo figlio Luca. Circostanze, tempi e dinamiche da chiarire vengono evidenziate anche dai legali della famiglia nella conferenza stampa di ieri: «Un testimone oculare conferma la versione di Anastasiya — dice l’avvocato Paolo Salice — ossia che è stata colpita con la mazza da baseball in metallo nera da uno dei due rapinatori e per questo difesa da Luca, contro il quale ha poi fatto fuoco l’altro ragazzo». L’intervento del papà ha preceduto di poche ore i risultati dell’autopsia, già in parte noti, cui altri particolari si sono aggiunti: nella colluttazione che ha preceduto lo sparo alla testa, Luca Sacchi tentò di difendersi parandosi il volto con le braccia nel tentativo di schivare alcuni colpi inferti con la mazza da baseball. Sul corpo del giovane sono stati infatti individuati alcuni lividi sulle braccia che sono compatibili con il tentativo di proteggersi il volto dai colpi di mazza. Via libera dunque ora, da parte della procura, ai funerali . Il pm Nadia Plastina ha disposto che nulla osta alla restituzione della salma alla famiglia. Le incongruenze nelle testimonianze sull’omicidio del personal trainer 24enne di una settimana fa sono uno dei punti sui quali si concentrano le indagini di polizia e carabinieri per ricostruire quanto accaduto nei pressi del John Cabot pub all’Appio Latino. L’avvocato Salice, affiancato dalla collega Armida Decina, risponde a una domanda sull’attendibilità o meno della fidanzata 25enne della vittima: «Qualche ombra c’è ma è sbagliato crocifiggerla. Contraddizioni sono emerse dalle dichiarazioni di altri ragazzi, Piromalli e Rispoli. Qualcuno sta mentendo, ma quando uno è garantista non può esserlo solo quando è imputato. Valerio Rispoli e Simone Piromalli sono gli emissari mandati da Valerio Del Grosso, uno dei due killer, a verificare la fattibilità dell’affare che poi lui stesso, con il complice Paolo Pirino, farà saltare con la rapina dello zaino pieno di soldi anziché consegnare la marijuana come pattuito. Sono loro che riferiscono di aver visto le «due mazzette da 20 e 50 euro» nello zaino di Anastasiya. Rispoli dice anche di aver incontrato in via Latina già alle 21.30, l’altro uomo chiave della vicenda, «l’amico intimo» di Luca Sacchi, Giovanni Princi (che riconosce in foto). Princi ha precedenti per droga e sarebbe lui uno dei quattro coinvolti nella trattativa per la marijuana. Rispoli riferisce anche che Del Grosso parla con Princi, anche se poi quest’ultimo si trova all’interno del pub, con lo stesso Rispoli e Piromalli, al momento dello sparo. La stessa versione viene fornita da Piromalli, il quale specifica che Anastasiya era una delle quattro persone interessate all’acquisto di erba insieme a Princi e allo stesso Sacchi. Piromalli conferma anche che lui, Rispoli e Princi erano all’interno del John Cabot quando hanno udito lo sparo e le grida della ragazza: «Data la dinamica dei fatti io e Rispoli intuivamo che qualcosa era andato storto nella compravendita dello stupefacente». Possibile che non sappiano niente di più? Va detto che Rispoli e Piromalli sono ancora sul posto quando sono arrivati i carabinieri, mentre Princi si allontana dalla zona appena capisce che cosa è successo. «Con lui ha frequentato il liceo classico, poi come spesso succede si erano persi di vista. Aveva ripreso a frequentarlo da cinque o sei mesi per la comune passione delle moto. Me ne aveva anche parlato, ma qui a casa non si è mai visto», spiega il padre della vittima a proposito di Princi, rispondendo a una domanda sulle possibili amicizie sbagliate del figlio. Le indagini della squadra mobile e del Nucleo investigativo, coordinate dal pm Nadia Plastina proseguono intano con l’esame dei tabulati telefonici per risalire a quando risalgono i primi contatti tra la comitiva di Anastasiya e Luca e i pusher di San Basilio. «Ho cancellato dal mio telefono tutte le chiamate e i messaggi con Del Grosso per paura di eventuali conseguenze», dice ancora Piromalli. È possibile che altri abbiano fatto lo stesso. Ma gli inquirenti stanno provando a che a risalire alle coperture di cui orami certamente hanno goduto i due assassini. Che hanno la disponibilità economica per affittare un’auto per 10 giorni e cambiarla in pochi minuti quando la riconsegnano incidentata la mattina dopo l’incidente e che soprattutto hanno a disposizione un revolver calibro 38 che non hanno finora fatto ritrovare a differenza della mazza da baseball e dallo ziano di Anastasiya, quasi per voler proteggere qualcuno. Lo stesso al quale potrebbero aver consegnato i soldi della rapina.

Omicidio Luca Sacchi, ecco i video che inguaiano i testimoni. Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. Dall’analisi delle riprese contraddizioni tra le deposizioni dopo il delitto e gli spostamenti. A due giorni dall’inizio degli interrogatori in Procura di tutti i testimoni dell’omicidio di Luca Sacchi, già emergono particolari che metterebbero nei guai alcuni di loro. Il confronto fra alcuni video e alcune dichiarazioni rilasciate nei primi momenti dopo la morte del 24enne personal trainer dell'Appio Latino presentano numerose contraddizioni, che dovranno essere chiarite davanti ai pm. Una questione non da poco, perché potrebbe rivoluzionare la ricostruzione dei momenti che hanno preceduto l’uccisione di Luca. Al punto che uno dei testimoni - Simone Piromalli, contatto del killer del 24enne Valerio Del Grosso - indica proprio la vittima come «uno dei ragazzi che faceva parte del gruppo di giovani che doveva comprare la droga». Uno dei momenti chiave della vicenda è la trattativa raccontata proprio da Piromalli e Valerio Rispoli nella prima serata del 23 ottobre. Il luogo è via Latina, all’angolo opposto di via Franco Bartoloni, costeggiando il parco della Caffarella, rispetto al punto in cui Luca è stato colpito a morte. Si vocifera di una panchina, improbabile che il colloquio raccontato dai due testi sia avvenuto in piedi, in mezzo alla strada. Soprattutto Rispoli ammette di essere stato incaricato da Del Grosso - che di lì a un’ora e mezzo sparerà a Sacchi - di verificare se gli acquirenti della partita di marijuana avessero i soldi necessari. «Come convenuto», sottolinea il gip Corrado Cappiello nella sua ordinanza cautelare che ha spedito in carcere il presunto killer del personal trainer e il suo complice Paolo Pirino. Convenuto con chi? Con la comitiva di Luca, la sua fidanzata Anastasiya Kylemnyk? O con Giovanni Princi, amico di vecchia data della vittima, poi ritornato in auge? E soprattutto quando? Sempre secondo la versione dell’emissario di Del Grosso, a quell’incontro a cinque vicino al parco c’è di sicuro la ragazza. Il pusher arriva poco dopo, per poi allontanarsi insieme con Pirino sulla Smart per andare a prendere la droga, una volta verificato che nello zainetto lasciato e poi ripreso dalla 25enne ci sono i soldi pattuiti. Resta da capire dove fosse Luca in quel momento. E perché sotto interrogatorio Princi, fuggito dal luogo dell’agguato prima dell’intervento dei carabinieri, abbia negato categoricamente di aver mai conosciuto sia Piromalli, sia Rispoli e soprattutto Del Grosso. Una contraddizione evidente fra le quattro versioni fin qui registrate dagli investigatori, senza contare che Anastasiya fino a oggi è rimasta ferma sulle dichiarazioni iniziali, ovvero quelle che descrivono una rapina improvvisa, alle 23 (90 minuti dopo la trattativa in via Latina), mentre stava portando a spasso il cane sul marciapiede di via Bartoloni insieme con il fidanzato.  «Ci siamo fermati su una panchina per qualche minuto, poi abbiamo deciso di ritornare verso il John Cabot Pub, dove c’era il fratellino piccolo (19 anni) di Luca. Dovevamo controllarlo», ha riferito due giorni dopo i fatti, prima di chiudersi in un silenzio ostinato che potrebbe però finire presto in procura. Non si esclude che la giovane baby sitter venga sentita per ultima, mentre prima di lei a piazzale Clodio sfileranno i protagonisti di quella drammatica serata: i contatti degli spacciatori-killer arrivati invece da San Basilio con l’intenzione di rapinare gli acquirenti della marijuana, con i quali si erano già sentiti, probabilmente per telefono, gli amici di Luca e Anastasiya, compreso Princi, e i testimoni del delitto. Come il giovane cliente del pub che ha riferito di aver visto Del Grosso muoversi come un killer professionista, con la pistola lungo il fianco, per poi alzarlo e fare fuoco, o il residente di via Teodoro Mommsen che ha raccontato di aver visto Anastasiya arrivare almeno un minuto dopo che Luca era stato colpito, con un altro zainetto - diverso da quello con i soldi e i suoi documenti d’identità - sulle spalle.

Omicidio Luca, la mamma dell’assassino: «Provo vergogna, è giusto che lui paghi». Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it. «Sono distrutta dal dolore sapendo che una mamma e un papà, un’intera famiglia, stanno piangendo la morte di un figlio. Ancora non posso credere che Valerio abbia potuto fare un gesto simile. E come me tutti quelli che lo hanno visto crescere nel quartiere». Lo ha detto al Giornale Radio1 Giovanna Proietti, la mamma di Valerio Del Grosso, il 21enne accusato di aver ucciso Luca Sacchi davanti a un pub del quartiere Appio Latino di Roma e che lei stessa ha fatto arrestare. come ha ricordato, esaltando il suo coraggio, Massimo Gramellini in un suo recente «Caffè». Aggiunge la donna, che ha altri due figli maschi, maggiori di Valerio, e un ragazzina più piccola: «È giusto che adesso paghi e si assuma le sue responsabilità e so che lo farà. Per questo con lo stesso dolore nel cuore non ho mai pensato mai nemmeno un minuto che si potesse fare una cosa diversa da quella che ho fatto. La nostra è una famiglia per bene di lavoratori e per questo non potevamo aggiungere al dolore di questa tragedia la vergogna di sentirci in qualche modo complici. Quel giorno ho anche pensato che forse era l’unica maniera per dare a Valerio una speranza di riscatto». E conclude: «Valerio non è quello che si legge sui giornali. Anche lui aveva deciso di consegnarsi alla giustizia, lo so per certo. So che non voleva uccidere, ma di questo non voglio dire, ci penseranno gli avvocati. Oggi c’è solo la vergogna e il dolore per una tragedia che non avrei mai potuto immaginare e per la quale a nome della mia famiglia posso solo chiedere scusa».

Giovanna coraggio di mamma: «Mio figlio è giusto che paghi per l’omicidio di Luca Sacchi». Simona Musco il 2 Novembre 2019 su Il Dubbio. Valerio Del Grosso è accusato dell’agguato mortale a Luca Sacchi ed è stato arrestato con il complice Paolo Pirino. La voce rotta dal pianto, carica di disperazione. E le scuse alla famiglia di Luca Sacchi, il 24enne ucciso il 23 ottobre scorso davanti ad un pub della Capitale, proprio da suo figlio, il 21enne Valerio Del Grosso, che lei stessa ha consegnato alla polizia. «Posso solo chiedere scusa», dice Giovanna Proietti ai microfoni di Giornale Radio 1, convinta che la sua scelta di denunciare il figlio fosse l’unica cosa possibile da fare, l’unica speranza, per Valerio, di avere una possibilità di riscatto. «È giusto che adesso paghi e si assuma le sue responsabilità e so che lo farà», dice la donna, che non cerca alcuna scappatoia per suo figlio. «Sono distrutta dal dolore sapendo che una mamma e un papà, un’intera famiglia, sta piangendo la morte di un figlio. Ancora non posso credere che Valerio abbia potuto fare un gesto simile. E come me tutti quelli che lo hanno visto crescere nel quartiere. Per questo con lo stesso dolore nel cuore – continua – non ho mai pensato mai nemmeno un minuto che si potesse fare una cosa diversa da quella che ho fatto». È stata proprio Giovanna Proietti, infatti, a far arrestare il figlio, il giorno dopo quell’agguato che ha lasciato Luca agonizzante e in condizioni disperate davanti al pub in cui si trovava con la fidanzata e gli amici, prima di morire, poche ore dopo, in ospedale. Del Grosso e l’amico Paolo Pirino, arrestato assieme a lui in quanto complice del tentativo di rapina e dell’omicidio, sarebbero ora intenzionati a parlare con i magistrati, dopo aver deciso di rimanere in silenzio subito dopo l’arresto. E nel frattempo, sulla pagina social del difensore di Del Grosso, l’avvocato Alessandro Marcucci, fioccano le minacce. «Ti meriti di perdere un figlio ammazzato, sei peggio degli assassini», ha scritto un utente della rete. «La nostra è una famiglia per bene di lavoratori e per questo non potevamo aggiungere al dolore di questa tragedia la vergogna di sentirci in qualche modo complici – spiega la donna -. Quel giorno ho anche pensato che forse era l’unica maniera per dare a Valerio una speranza di riscatto. Valerio non è quello che si legge sui giornali. Anche lui aveva deciso di consegnarsi alla giustizia, lo so per certo, come so che non voleva uccidere, ma di questo non voglio dire, ci penseranno gli avvocati. Sono distrutta dal dolore sapendo che una mamma e un papà, un’intera famiglia sta piangendo la morte di un figlio. Oggi c’è solo la vergogna e il dolore per una tragedia che non avrei mai potuto immaginare e per la quale a nome della mia famiglia posso solo chiedere scusa». La morte di Luca è una vicenda ancora poco chiara, fatta di testimonianze contraddittorie e molti nodi ancora da sciogliere. Si tratta di quelli relativi al presunto scambio di droga, in realtà mai realizzato, la rapina, i soldi – circa 2mila euro – mai ritrovati, contenuti nello zainetto di Anastasia Kylemnyk, la fidanzata di Luca, che il giovane avrebbe tentato di difendere, vendendosi colpire prima con una mazza da baseball – usata da Pirino per aggredire Anastasiya – e poi con un colpo di pistola alla testa, esploso da Del Grosso. E rimane da capire dove sia finito quel calibro 38 dal quale è partito il colpo, così come mancano i soldi, che alcuni testimoni avrebbero visto in mazzette da 20 e 50 euro nello zainetto della giovane, mentre sono stati recuperati la mazza di metallo, il portafoglio e lo zainetto rosa della ragazza, gettato in uno spartitraffico a Tor Bella Monaca. Da chiarire, poi, i ruoli delle altre persone presenti sul posto. Come quello di Giovanni Princi, «l’amico intimo di Luca», che avrebbe accompagnato Anastasiya e avrebbe mostrato agli emissari dei pusher il denaro destinato all’acquisto di marijuana. Una trattativa che Princi ha negato, vedendosi smentire da altri due testimoni, Valerio Rispoli e Simone Piromalli, mediatori di Del Grosso, che proprio all’amico di Luca si sarebbero rivolti su indicazione dei pusher. Giovanna Proietti, madre di quattro figli, ha potuto vedere Valerio giovedì in carcere, dove ora dorme solo sotto tranquillanti. Un figlio che la donna tenta di proteggere nel modo più estremo, affidandolo alla legge, nella speranza di una riabilitazione. E così, dopo aver saputo da lui quanto era successo la notte prima, ha deciso di fare l’unica cosa giusta da fare: andare al vicino commissariato di polizia a San Basilio e denunciare tutto. «Ho paura che mio figlio sia coinvolto nell’omicidio di Luca Sacchi», aveva detto la donna ai poliziotti. E da lì si è arrivati subito al giovane e al suo amico e complice Pirino. Una vita semplice, quella della famiglia Del Grosso, in una casa a Casal Monastero, quartiere dove tutti li conoscono come gente normale. Una frase che hanno ripetuto più volte ai giornalisti a caccia di dettagli della vita di Valerio. Il 21enne lavorava in una pasticceria del posto, dove si è recato anche la mattina dopo l’omicidio, per poi andare via all’ora di pranzo, quando la notizia della morte di Luca ha preso a circolare, dicendo di stare male. Il giorno successivo, invece, è stato il padre di Valerio ad avvisare che non sarebbe andato a lavorare, spiegando quanto era accaduto. Il giovane, da poco tempo, era anche diventato padre. Tempo fa era stato invece denunciato dalla ex compagna per percosse: in quell’occasione, infatti, le avrebbe rotto un timpano e contro di lui fu disposto un divieto di avvicinamento.

Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica” il 2 novembre 2019. C' è una figura che sta sulla sfondo dell'omicidio di Luca Sacchi ma che rischia, invece, di essere centrale. Potrebbe essere la chiave di volta per svelare il mistero, per capire come mai un ragazzo di 24 anni che non faceva uso di sostanze sia finito ucciso in mezzo alla strada per un giro di droga. E quella figura è il compagno di scuola, Giovanni Princi, perso di vista e poi ritrovato cinque mesi fa. Un amico che, però, potrebbe averlo fregato, chissà, forse per spartirsi il bottino di quella che a Roma si chiama una "sola". O solo per conquistarsi un credito coi pusher. Princi, che ha precedenti per stupefacenti, quando i carabinieri sono arrivati sul luogo del delitto non c' era. Ma tutti i testimoni hanno parlato di lui. È Giovanni Princi il contatto con i due emissari mandati da Valerio Del Grosso. Era stato lui a incontrare, in via Latina, quella sera del 23 ottobre, Simone Piromalli e Valerio Rispoli. Questi due spiegano che, insieme a lui, c' era una ragazza, Anastasiya Kylemniyk, che aveva mostrato uno zaino con mazzette di soldi. Poco dopo sul posto arriva proprio Del Grosso, accompagnato dall' altro indagato Paolo Pirino: i soldi ci sono, la cessione si può fare. Ma il killer deve andare a prendere l' erba. Passa un' ora e venticinque minuti. Alle 22.55 Princi, Piromalli e Rispoli sono dentro al pub di Colli Albani. Non si sa, non si capisce per quale motivo fuori dal pub ci siano solo Anastasiya e Luca. Sia Piromalli sia Rispoli dicono di avere sentito uno sparo, ma di non avere visto nulla. Sta di fatto che quando qualche minuto dopo sul posto arrivano i carabinieri, di Rispoli, Piromalli e Princi non c' è traccia. E se per i primi due, collegati ai killer, è facile capire perché si siano dati alla fuga, meno chiaro è il perché se ne sia andato Princi, amico "intimo" (così viene definito) di Luca. Tanto che i carabinieri lo intercettano qualche ora dopo all' ospedale dove Luca lotta tra la vita e la morte. E lui, sentito come persona informata sui fatti, fornisce una versione assai poco chiara. Omette tutta la questione della droga, parla di una serata «tra amici finita male», senza un perché. Scrive il gip nell' ordinanza con la quale ha disposto l' arresto per Del Grosso e Pirino che Princi «ha confermato la sua presenza nel pub di Colli Albani la sera del 23 ottobre in compagnia dei suoi amici Luca Sacchi e la fidanzata Anastasiya, nonché di aver sentito l' esplosione di un colpo di arma da fuoco seguito dalle urla di dolore. Ha però negato di conoscere Del Grosso, Rispoli e Piromalli ». E non c' è dubbio che questa sia una bugia perché, invece, i due emissari sono concordi nel dire di avere trattato proprio con lui. Ora: perché Giovanni Princi mente? Gli inquirenti sono convinti che in questa storia di giovanissimi, lui, anche per i suoi precedenti, sia il più "strutturato". Per questo stanno scavando tra i suoi contatti, le sue telefonate. Ma i quesiti senza risposta sono molti: perché alle 21.30, quando incontra i pusher, era solo con Anastasiya? Perché se ne è andato dopo lo sparo per poi ricomparire in ospedale? Tra i sospetti ai quali stanno lavorando gli investigatori c' è anche quello che sia stato lui a "vendere" i suoi amici. Che fosse d' accordo con Piromalli, Rispoli e forse Del Grosso per prendersi i soldi senza consegnare l' hashish. D' altronde, forse è proprio a lui che si riferisce il papà di Luca, Alfonso, quando dice che il figlio «si è fidato troppo». Durante la sua conferenza stampa di mercoledì ha parlato a lungo di Princi: «Un ragazzo che mio figlio conosceva: questa persona l' aveva rivista da 5 o 6 mesi, si conoscevano dai tempi del liceo, caricavano le moto sui carrelli e andava a correre in pista con lui a Latina. Ma non è mai salito a casa».

Il caso dell’omicidio di Luca Sacchi:  la lezione di due famiglie. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it da Antonio Polito. Non c’è niente di più ingiusto della morte violenta di un ragazzo se non lo strazio del padre, e questo la nostra mente può arrivare a comprenderlo. Ma possiamo davvero capire il dolore della madre di chi ha ucciso? Un dolore duplice, che divarica: per il figlio, perché ha commesso l’atto che più di tutti lo allontana dalla dignità umana; e per la vittima di quel gesto, per il senso di colpa che prova nei confronti dei genitori, per la speranza di perdono che invoca loro. Giovanna Proietti, la madre del giovane accusato di aver sparato un colpo in testa a Luca Sacchi davanti a un pub del quartiere Appio Latino a Roma, è l’eroina moderna di una tragedia antica. Non smette di amare da nutrice il ragazzo che pensava incapace di far tanto male: «Ancora non posso credere che abbia compiuto un gesto simile». Ma è sicura che l’unica «speranza di riscatto» che possa ancora regalare al figlio non consista più nella protezione materna, ma bensì nell’affidarlo alla «polis», alla giustizia degli uomini, e per questo è stata lei a denunciarlo: «Non ho pensato mai nemmeno un minuto che si potesse fare una cosa diversa». Giovanna dunque l’ha fatto per lui: «Meglio in cella che con gli spacciatori». Ma l’ha fatto anche per sé, e per il rispetto che porta alla sua famiglia: «Non potevamo aggiungere al dolore di questa tragedia la vergogna di sentirci in qualche modo complici». Così si «incarna» davvero e di nuovo nel figlio, ne assume su di sé la colpa e la fa propria, soffre con lui in un’empatia estrema, che solo una madre può raggiungere. E condivide in questo modo il dolore del padre della vittima, il quale pure si è «incarnato» nel figlio che non c’è più, al punto di dirci: «Oggi ho indossato le sue mutande per prendere coraggio, porto con me i suoi occhiali da sole, dormo con il suo pigiama». C’è un tipo di famiglia che fa dell’egoismo la sua ragione d’essere, e noi italiani purtroppo la conosciamo bene: origina dallo spirito tribale e conduce al familismo amorale. Ma poi ce n’è un altro tipo, e anche questa la conosciamo bene, perché è descritta nella nostra Costituzione, che la eleva a «società naturale» su cui si fonda la comunità dei cittadini, e le riconosce il diritto, ma le impone il dovere, di «istruire ed educare i figli». Il padre di Luca ha donato gli organi del suo ragazzo ucciso, emulandone l’altruismo pur nel più privato dei dolori. La madre di Valerio, il ragazzo che ha ucciso, ha donato invece a noi una lezione di educazione civica; e al figlio, forse, un’ultima possibilità di tirar fuori l’anima dal pozzo nero in cui l’ha gettata.

Omicidio Sacchi, l’avvocato: «La gogna mediatica ha processato Luca». Simona Musco l'1 Novembre 2019 su Il Dubbio. Intervista al legale Armida Decina: « Era una ragazzo d’oro e senza alcuna macchia». «Non si può essere garantisti solo quando si difendono gli indagati, bisogna esserlo sempre, anche quando si difendono le parti offese. Qui, invece, si è voluto per forza andare alla ricerca di un passato sporco». A parlare è Armida Decina, legale, assieme al collega Paolo Salice, della famiglia di Luca Sacchi, il giovane ucciso lo scorso 23 ottobre davanti ad un pub nella zona di Colli Albani. Una storia intricata, fatta di testimonianze contraddittorie che vede ora al centro dell’attenzione Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata della vittima, secondo una prima versione dei fatti aggredita dai due indagati, Valerio Del Grosso – colui che avrebbe materialmente premuto il grilletto – e Paolo Pirino. Una donna sottoposta ora ad una gogna mediatica che la vuole, ancor prima dell’accertamento dei fatti, colpevole di qualcosa. «Bisogna ricordare che al momento è persona offesa», sottolinea l’avvocato Decina. L’ultimo tassello della vicenda viene dall’autopsia: Luca, prima dello sparo, è stato colpito violentemente con un oggetto contundente, probabilmente la stessa mazza da baseball con la quale Anastasiya ha affermato di essere stata aggredita. La procura ha ora dato il nulla osta alla restituzione della salma alla famiglia, che nella prossima settimana potrà dunque celebrare i funerali del giovane.

Avvocato, a che punto è l’indagine?

«Ci sono delle zone d’ombra che vanno inevitabilmente chiarite, perché è pacifico che qualcuno mente. Ora bisogna solamente stabilire chi e perché. Di base, al di là di tutti i retroscena che potrebbero esserci – il fantomatico tentativo di fare uno scambio di droga, che poi comunque non c’è stato, i soldi che non sono mai stati trovati, le contrastanti dichiarazioni rese dalle parti di questo evento -, rimane il fatto che tutto si è concluso con la morte di un ragazzo di 24 anni. In primo piano ci deve essere questo, poi tutto il resto, che deve essere chiarito. C’è un’indagine in corso, abbiamo un pool di pubblici ministeri assolutamente ottimo, per cui sono fiduciosa. Siamo i primi a voler capire cosa è successo».

C’è stato un tentativo di colpevolizzazione anche di Luca e Anastasiya?

«Le vittime di questa vicenda si stanno facendo passare ad ogni costo per i colpevoli di qualcosa, ma non dimentichiamoci che ad oggi Anastasiya non è indagata ed è persona offesa nel reato di rapina e che Luca è morto. Non bisogna essere garantisti solo quando difendiamo gli indagati, bisogna esserlo sempre, anche quando ci troviamo a difendere una persona offesa».

Perché si è tentato di dipingerli come diversi da ciò che sono?

«Nel caso di specie ci sono state dichiarazioni contrastanti, se fossero state univoche e fosse stata pacifica la dinamica dell’evento tutto questo non sarebbe successo».

Nei giorni scorsi ha scritto un post molto critico su Facebook, col quale denunciava il processo mediatico e le possibili pressioni che ciò potrebbe provocare sui giudici. Perché?

«Il mio post risale a prima che tutti questi altarini venissero fuori. In quel momento erano noti la sola versione della rapina, l’aggressione di Anastasiya e l’uccisione di Luca, che era intervenuto per difendere la propria fidanzata. Mi riferivo, più che altro, al fatto che necessariamente si dovesse andare a scoprire un passato sporco di questi due ragazzi. E quel che vorrei far emergere è che Luca era un ragazzo che non si drogava, come confermato anche dalle prime analisi all’arrivo in codice rosso al San Giovanni e poi dall’autopsia. Qualcuno dice che il fatto che non si drogasse non significa che non spacciasse. È un’ipotesi azzardata, ma l’importante è che emerga il suo vero profilo: quello di un giovane amante del benessere e della vita sana».

Qualcuno ha attribuito a lei e al suo collega un’espressione forte, ovvero che sarebbe “immorale” difendere Anastasiya. Come sono andate le cose?

«Non abbiamo mai detto quelle parole. Forse le nostre parole sono state male interpretate, ma un avvocato non può assolutamente parlare di immoralità in una difesa. Mi trovo a difendere tantissimi indagati e poi imputati, sarebbe contraddittorio. Si tratta, al momento, di un’incompatibilità, che è cosa diversa, perché ci sono alcune contraddizioni che vanno chiarite. La mia professione mi porta lontano da ogni tipo di giudizio del genere. Ad oggi questa ragazza rimane persona offesa. Noi ci auguriamo davvero che sia fuori da tutto questo, perché per i genitori sarebbe solo dolore unito ad altro dolore, che sarà eterno. Per loro Anastasiya è come una figlia: Luca l’amava, l’amavano anche loro. Ci auguriamo che lei, ora, possa far luce e aiutare gli inquirenti a trovare la verità».

Cosa ci dice l’autopsia?

«Che è stato attinto, prima del colpo di pistola, da una mazza da baseball. Aveva ematomi importanti, soprattutto all’avambraccio destro, come se si fosse voluto difendere e riparare da qualcosa, che era un corpo contundente. Al 99% è compatibile con la mazza ritrovata e sequestrata. Luca è stato comunque colpito con quell’arnese, ora bisogna capire la dinamica dell’omicidio e soprattutto perché si sia arrivati a tutto questo».

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per il Messaggero il 4 novembre 2019. I primi risultati sul fitto elenco dei tabulati telefonici e dei cinque apparecchi nelle mani degli inquirenti dovrebbero arrivare oggi per poter iniziare a delineare la rete di contatti e di rapporti che si celano dietro la compravendita di droga mai portata a termine la sera del 23 ottobre scorso, in via Latina, sfociata poi nella rapina e nell' omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni ucciso dal colpo di un revolver calibro 38. E da quegli elenchi, che planeranno poi sul tavolo del pubblico ministero Nadia Plastina, dovrebbero emergere quasi certamente i contatti tra due figure che in questa tragedia ricoprono stando alle sommarie informazioni finora raccolte il ruolo di ponte tra i due gruppi (quello di Sacchi e della fidanzata Anastasia Kylemnyk e quello di Valerio Del Grosso e del suo complice, Paolo Pirino) e il ruolo di intermediario per conto del pasticcere di Casal Monastero. Si tratta di Giovanni Princi e Valerio Rispoli. Due figure che all' indomani dell' omicidio di Sacchi parevano non aver mai avuto contatti se non la sera stessa della tragedia. I RAPPORTI Da quanto ricostruito dagli inquirenti, invece, e dalle deposizioni rese, Princi con precedenti per droga e amico del personal trainer ucciso , conosceva anche Rispoli da alcuni anni. I due si erano persi di vista e poi, così com' è successo tra Princi e Sacchi, si sarebbero rincontrati. Sembrerebbe che sia stato Princi a cercare Rispoli non solo telefonicamente ma recandosi anche a Casal Monastero per rintracciare un po' di erba da acquistare. È lo stesso Rispoli a raccontarlo agli amici. Ora, a fronte di quello che diranno i tabulati e i loro cellulari nelle mani degli inquirenti già dalla notte del 24 ottobre quando sono stati arrestati Del Grosso e Pirino i due dovranno puntualizzare e spiegare i loro trascorsi. Perché è ragionevole credere che proprio da questo contatto sia nato il tutto. Rispoli, una volta raccolta la richiesta di Princi, avrebbe parlato con Del Grosso dell' affare che poteva profilarsi: soldi buoni e certi in cambio di un po' di marijuana per dei ragazzi dell' Appio Latino da reperire in ambienti dove lo spaccio non mostra alcuna timidezza ma divora, al contrario, angoli di borgata e vite umane.

LA TRATTATIVA. Così la trattativa sarebbe partita alcuni giorni prima della sera del 23 ottobre quando i due gruppi concordano l' appuntamento per lo scambio. Del Grosso avrebbe preso accordi con Paolo Pirino inviando sul posto, in via Latina, i suoi due intermediari che conosce da anni perché ci è cresciuto insieme frequentando anche le stesse scuole. Rispoli quella sera si porta dietro Simone Piromalli anch' esso amico di lunga data del pasticcere di Casal Monastero con il compito preciso di vedere se questi ragazzi avevano davvero il denaro per pagare la droga. Il ruolo di Rispoli e Piromalli come emergerà poi dalle deposizioni rese in Questura si ferma qui. I due arrivano all' appuntamento, incontrano Princi e vedono i soldi perché una ragazza riconosciuta poi in Anastasia mostra loro lo zainetto aperto che contiene alcune mazzette da 20 e 50 euro. In quel momento c' è anche Luca Sacchi ma il giovane è defilato: qualche metro più distante da Princi e dalla Kylemnyk sulla quale gli inquirenti stanno lavorando per capire se anche lei conoscesse qualcuno del gruppo di Casal Monastero. Rispoli e Piromalli, però, non sanno cosa ha orchestrato Del Grosso e il suo complice. Credono che lo scambio si faccia ma poi da dentro il pub John Cabot sentono un fragore simile all' esplosione di un colpo di pistola e capiscono, come dirà poi Piromalli, che «qualcosa è andato storto nella compravendita dello stupefacente».

IL REVOLVER. Non sanno spiegarsi dove Del Grosso e Pirino abbiano recuperato quell' arma, un revolver calibro 38, di cui non è stato ritrovato nulla. Neanche il tamburo che Del Grosso avrebbe gettato tra le sterpaglie di via Belmonte in Sabina, all' altezza dello svincolo del Grande raccordo anulare. Lo stesso posto dove gli agenti di polizia hanno invece ritrovato la mazza da baseball usata durante l' aggressione che avrebbe colpito anche Luca Sacchi. Gli inquirenti non escludono che l' arma non sia stata smontata né distrutta ma nascosta o riconsegnata a chi l' aveva data al pasticcere e al suo complice che, tuttavia, una volta arrestato ha detto di non sapere che Del Grosso avesse con sé una pistola. E qui entra in gioco un' altra borgata, regno incontrastato dello spaccio romano: Tor Bella Monaca dove i due, dopo l' omicidio, sono passati per disfarsi dello zainetto rubato alla Kylemnyk e forse anche del revolver. Non è escluso che proprio a Torbella Del Grosso e Pirino abbiano trovato qualcuno che li armasse. Magari per il tramite di qualche loro amico, rampollo delle ndrine di Platì, che vive tra i lotti di San Basilio.

L'ARMA CHE HA UCCISO LUCA FORSE AFFIDATA A UN COMPLICE. Camilla Mozzetti e Marco De Risi per il Messaggero il 4 novembre 2019. Non è solo l' inconsueto tragitto di ritorno che compiono Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, con una tappa a Tor Bella Monaca, a insospettire gli inquirenti che indagano per delineare il contesto in cui è maturato l' omicidio di Luca Sacchi. C' è anche un' altra domanda che finora non ha trovato una risposta: che fine ha fatto il revolver calibro 38 usato dal pasticcere di Casal Monastero contro il personal trainer 24enne? L' arma non è stata trovata e non è stato trovato neanche il tamburo di cui Del Grosso si sarebbe sbarazzato. Ha mentito al riguardo? Gli inquirenti non lo escludono e stanno lavorando per accertare se, invece, i due scappando dall' Appio verso Casal Monastero si siano fermati tra i lotti di Torbella non solo per disfarsi dello zainetto rubato ad Anastasia Kylemnyk ma anche per riconsegnare l' arma a qualcuno che gliel' aveva consegnata. Considerati i profili dei due arrestati Del Grosso con una denuncia per percosse contro l' ex compagna e Pirino con una condanna a tre anni per spaccio non è così automatico credere che siano riusciti da soli a smontare il tamburo di un revolver per poi disfarsene senza proferir parola sulle restanti parti. Che senso ha tacere se la pistola fosse stata la loro? E qual è il motivo di smontare un pezzo come proprio il tamburo che non racconta nulla sulla pistola dato che è sempre la canna a parlare? Che sia stata una versione costruita per sviare le indagini sul ritrovamento del revolver? Sempre il pasticcere, una volta trovato in un hotel a Tor Cervara, ha condotto gli agenti di polizia in quattro luoghi diversi dove sono stati poi trovati il portadocumenti della Kylemnyk, il bossolo, lo zainetto e la mazza da baseball. Quest' ultima è stata gettata in via Belmonte in Sabina, all' altezza dello svincolo per il Grande raccordo anulare, dove Del Grosso si sarebbe disfatto anche del tamburo del revolver di cui, tuttavia, non c' è traccia. E se invece lo avessero portato a Torbella e messo in mano a qualcuno? O se quell'arma sia stata deliberatamente nascosta per coprire chi gliel' aveva fornita? Considerate le conoscenze pregresse dei due soprattutto con membri di famiglie di ndrangheta nella zona di San Basilio non è escluso, al momento, nessun terzo coinvolgimento. Quantomeno sul fronte dell' arma. Anche il ritrovamento del bossolo esploso in un tombino di via Conti di Rieti insospettisce chi sta portando avanti le indagini: è stato trovato in un guanto di lattice blu chiuso con dei nodi. Un gesto studiato e forse suggerito da qualcun altro perché in evidente contrasto con il modo seguito dai due per disfarsi degli altri oggetti. Per ora né Del Grosso né Pirino hanno dato ulteriori spiegazioni. In carcere di fronte al gip, nell' interrogatorio di convalida, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Del Grosso ha solo chiesto scusa mentre il suo complice ha precisato di non sapere che il pasticcere fosse armato. Quel che è certo è che in queste ore si stanno passando al setaccio tutti gli ambienti criminali sia di San Basilio ma soprattutto di Tor Bella Monaca per cercare di capire se e con chi i due fossero entrati in contatto prima di mettere a segno la rapina di fronte al pub John Cabot.

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per "Il Messaggero" il 3 novembre 2019. L'ombra dei clan calabresi impiantati a San Basilio e in affari con le agenzie del crimine di Tor Bella Monaca pronte a offrire armi e a scambiarsi appoggi e favori se necessario, sono nel mirino degli investigatori che indagano sul traffico di stupefacenti che ha portato alla morte di Luca Sacchi, il personal trainer 24enne dell'Appio Latino, freddato la sera del 23 ottobre con un colpo di revolver alla testa. Sotto la lente della Procura c'è il profilo di Paolo Pirino, il 21enne che guidava la Smart usata per raggiungere Sacchi e la sua fidanzata Anastasia Kylemnik davanti al pub di via Bartoloni. Il ragazzo nonostante la giovane età era già stato condannato a 3 anni per droga quando era minorenne. Tra le sue amicizie e quelle di Del Grosso figurano rampolli di pezzi pesanti delle ndrine di Platì trasferiti tra i lotti di Sanba. Nuove leve che vivono come fossero in una serie tv, scimmiottando gangster di livello e intonando i neomelodici che tanto piacciono alla mala, ma meno educate secondo i codici antichi delle cosche e più spregiudicate. Un giro nel quale sarebbe finito anche Del Grosso che a San Basilio fino a poco tempo fa era fidanzato con Valeria, la mamma del suo bambino nato da pochi mesi. Valerio che ha confessato agli agenti di polizia che lo hanno arrestato di avere iniziato a consumare droga quando aveva 13 anni, non si sarebbe limitato a comprarla, ma sarebbe entrato sempre più a stretto contatto con fornitori e corrieri. E per questo sarebbe riuscito a entrare in possesso di un revolver: per lui un salto di qualità. Su queste frequentazioni hanno acceso un faro i carabinieri del Nucleo Investigativo che, intanto, stanno incrociando tabulati e celle telefoniche agganciate da tutti i protagonisti della vicenda, per capire fino a dove si estendesse la rete dei contatti. Per questo gli interrogatori dei due giovani di Casal Monastero saranno decisivi per chiarire i misteri sulla compravendita di marijuana tramutata, all'improvviso, in rapina e sfociata nell'omicidio di Sacchi. Pirino appare il più navigato dei due. Quando è in fuga, va a nascondersi dalla nonna a Torpignattara, più esattamente nei locali lavatoio, chiusi da una enorme cancellata bianca rialzata da una rete metallica. Ne ha le chiavi come un piccolo boss pronto alla latitanza. Nel palazzone sulla Prenestina in tanti lo ricordano: «Ha un fratello e una sorella gemelli, la mamma è una brava donna, non pensavamo si mettesse in un guaio simile». Ora dovrà spiegare i suoi contatti con i clan. Le indagini non si concentrano solo sul 23 ottobre. Anzi, puntano indietro nel tempo. Testimoni avrebbero visto la Smart girare anche giorni prima all'Appio Latino e la macchina era stata noleggiata il 14 ottobre. Tra Giovanni Princi, un amico di vecchia data di Sacchi, con precedenti per droga, e Valerio Rispoli - l'emissario mandato con Simone Piromalli da Del Grosso a sincerarsi che il gruppo dell'Appio avesse i soldi per concludere l'affare - già nei giorni precedenti, c'erano stati contatti per la trattativa sulla marijuana. E Rispoli avrebbe attivato Del Grosso per reperirla. Secondo quanto ricostruito nell'ordinanza di arresto dei due 21enni, Rispoli e Piromalli hanno incontrato alle 21.30 Princi e una donna (Anastasia) che mostrano loro uno zainetto con mazzette da 20 e 50 euro. Insomma, Del Grosso voleva essere sicuro che ci fosse il denaro. Perché? Non si fidava? Forse c'erano stati già altri affari con Princi non andati a buon fine? Del Grosso, avuta la conferma del denaro, sarebbe andato a prendere l'erba per portarla alla comitiva dell'Appio. A quanto pare, però, i fornitori non gliel'avrebbero data. Non l'avevano o non ritenevano l'affare affidabile a prescindere? Resta da capire se l'idea di tornare indietro per rapinare i soldi e basta, sia di Del Grosso e Pirino o se l'abbiano escogitata con i fornitori magari intenzionati a ripianare conti in sospeso. Di sicuro i due sono andati ben equipaggiati, armati di mazza da baseball e revolver. Probabilmente sapevano che Sacchi, un colosso di muscoli alto 1,90, avrebbe difeso la sua fidanzata e i suoi amici. Infine il giallo dei soldi: a Casal Monastero, Del Grosso, ha raccontato che nello zaino non c'erano più e di avere trovato solo una trentina di euro. Vero o falso? Di fatto sono spariti.

Marco De Risi e Alessia Marani per "Il Messaggero" il 3 novembre 2019. «Qualcuno ha mentito su come sono andate le cose quella maledetta sera». Quando papà Alfonso Sacchi pronuncia queste parole, pur non nominandoli, si riferisce a due persone precise: la fidanzata del figlio, Anastasia, e l'amico Giovanni Princi. Erano loro due che, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, alle 21,30 circa del 23 ottobre, un'ora e mezza prima del delitto, hanno incontrato gli emissari di Valerio Del Grosso (lo chef pasticcere di Casal Monastero che ha sparato al personal trainer) inviati in via Latina, a ridosso del parco della Caffarella, per sincerarsi che avessero i soldi necessari all'acquisto della droga. Non sarà solo Princi a dovere spiegare se e quali rapporti abbia avuto con i pusher arrivati da oltre il Gra, ma anche Anastasia, il cui racconto fatto a caldo ai primi soccorritori davanti al pub di via Bartoloni e poi ripetuto nella nottata anche ai carabinieri negli uffici del Nucleo Investigativo, appare lacunoso e non convincente. In settimana prenderanno il via i primi interrogatori di tutti i personaggi coinvolti e dei testimoni della compravendita di droga, poi tramutata in rapina e sfociata nel delitto. Anastasia, sui cui rapporti con la famiglia Sacchi, nel frattempo, è calato il gelo («non l'abbiamo più vista dal pomeriggio di sabato 26») dovrà dire al pm Nadia Plastina perché ha raccontato di essere stata vittima di una rapina avvenuta «in maniera immotivata e all'improvviso» da parte di «due sconosciuti sbucati alle nostre spalle all'improvviso», sottolineando con tono stupito che «dentro lo zaino c'erano solo pochi euro». La ragazza, che ha studiato al liceo classico e lavora saltuariamente come baby sitter (e non è indagata), ha poi detto di essere stata «colpita dietro la testa con una mazza, ho visto tutto nero e non ricordo più niente». Dichiarazioni che non avrebbero fatto minimamente accenno a quanto avvenuto precedentemente, né alle botte ricevute da Luca sul cui corpo, in sede di autopsia, sono stati riscontrati più lividi soprattutto sugli arti superiori e sull'avambraccio destro, compatibili con quelli sferrati da una mazza da baseball, segno che il ragazzo si è difeso da un pestaggio prima di soccombere alla revolverata scoccata a due metri di distanza. Un ex medico militare ucraino che abita al secondo piano di un palazzo che si affaccia proprio sul punto in cui Sacchi è stato ucciso, giura di avere guardato sotto subito dopo udito lo sparo e di avere visto Luca sanguinante e riverso in terra, da solo, senza ricevere soccorsi, almeno per un minuto, un minuto e mezzo. «Ho visto una ragazza accorrere solo dopo, dal parco verso l'incrocio con via Mommsen e buttarsi su di lui urlando - afferma - e sono sicuro di non avere sentito nessuno urlare prima, nessuno schiamazzo riconducibile a una rissa». La telecamera del negozio di tatuaggi riprende la Smart con Del Grosso e Pirino a bordo fare un primo giro imboccando contromano via Inghirami e poi via Ciccotti per tornare su via Bartoloni, subito dopo un altro giro, uguale: la Smart si accosta in seconda fila e passano sì e no 30 secondi prima di rivederla andare via. Del Grosso e Pirino, quindi, non scendono su via Bartoloni dopo essere arrivati da via Latina, perciò come fanno a sbucare alle spalle di Nastja e Luca? E perché la ragazza, stando al testimone, era lontana da Luca? Anastasia ha raccontato che lei e Luca fino a poco prima erano seduti su una panchina e che si stavano muovendo per andare al pub. È la stessa panchina su cui con Giovanni Princi ha mostrato lo zaino con le mazzette da 20 e 50 euro agli emissari di Del Grosso? E che fine hanno fatto i soldi mai contati e mai quantificati finora? Del Grosso, di ritorno a Casal Monastero, avrebbe messo in giro la voce che nello zaino rapinato c'erano solo 30 euro. Anche lei sostiene che ci fossero pochi euro. Allora i soldi visti da Rispoli e Piromalli dove sono finiti? Intanto, ieri, i Sacchi hanno voluto commentare per voce dei loro legali Paolo Salice e Armida Decina le parole della mamma di Del Grosso che ha denunciato il figlio per l'omicidio commesso: «Apprezziamo il suo coraggio, ma niente e nessuno potrà farci riabbracciare il nostro Luca. Chiediamo soltanto sia fatta Giustizia».

Pierpaolo Filippi e Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 5 novembre 2019. Arrivano i tabulati telefonici sulla scrivania degli investigatori. Dalle analisi delle conversazioni emerge che Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i due accusati della morte di Luca Sacchi, parlavano con persone tutt' ora indagate per mafia. Dunque la coppia di pusher ha rapporti e conoscenze con personaggi di elevato spessore criminale. A 13 giorni dall' omicidio del personal trainer sono stati consegnati agli investigatori i tabulati relativi agli smartphone delle persone presenti tra via Latina e via Franco Bartoloni. Quel dedalo di strade in cui, il 23 ottobre, è stato ucciso l' allenatore, per mano di Del Grosso con un colpo di pistola alla testa. I dati che passano nelle celle telefoniche sono un materiale fondamentale per l' inchiesta. Da qui si ricavano i cellulari presenti in zona, gli orari e le chiamate intercorse tra i vari apparecchi, non il contenuto della conversazione. Si può sapere, insomma, chi ha chiamato chi e quando. Quest'ultima è un' arma nelle mani degli investigatori per disegnare il perimetro, all' interno del quale collocare i protagonisti della vicenda ed espellere chi non ha alcun ruolo. Ed è la premessa della seconda fase, quella degli interrogatori che adesso inizierà a breve. Intanto però emergono nuovi elementi sull' auto impiegata il giorno dell' omicidio da parte di Del Grosso e del suo complice, Paolo Pirino. Quando si è presentato nel centro Mercedes-Smart di via Zoe Fontana, appena fuori dal Raccordo anulare sulla Tiburtina, vicino a Casal Monastero, il quartiere dove abita con la famiglia, Pirino era «tranquillo». A parlare è Alessio, un giovane impiegato della ditta di noleggio della cittadella commerciale della casa automobilistica tedesca. Nemmeno 24 ore dopo che il suo amico Del Grosso aveva sparato ferendo a morte Luca Sacchi, Pirino si è recato nel centro per farsi cambiare l' auto con una scusa. «Da 15 giorni continua l' impiegato Pirino aveva una Smart For Four che gli avevamo dato come auto di cortesia quando aveva portato qui la Classe A della madre per una riparazione. È venuto alle 14, ha detto che la vettura aveva un problema con il sistema start&stop e ha chiesto di cambiarla. Si è comportato in modo educato. A pensarci ora, la sua tranquillità era spaventosa». In quel momento nessuno, tranne forse gli investigatori, sapevano che Pirino era coinvolto nell' omicidio di Luca Sacchi. «Avevo acceso la macchina e a me ricorda l' impiegato della società di noleggio risultava tutto regolare. Noi abbiamo proceduto alla sostituzione, anche perché la sua famiglia è nostra cliente». Nella fuga da via Mommsen insieme a Del Grosso, la Smart aveva riportato un danno al paraurti anteriore nella parte sinistra. «Io gliel' ho fatto notare e gli ho detto che in caso di incidente doveva portarmi il modulo Cid conclude Alessio ma lui ha detto che l' aveva ritrovata in queste condizioni sotto la sua abitazione. Dal momento che le auto di cortesia hanno un' assicurazione Casco, non abbiamo dovuto chiedergli il risarcimento danni».

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per il Messaggero il 5 novembre 2019. La sera del 23 ottobre quando Luca Sacchi sta per uscire con la sua fidanzata Anastasia Kylemnyk è ancora solo un 24enne, come tanti, che fa il personal trainer e gestisce una casa vacanze. Guarda il padre, gli dà un bacio e gli dice «ti voglio bene». Lui, il signor Alfonso, gli ha appena fatto un' iniezione di antidolorifico perché il dolore che ha alla schiena, provocato dagli sforzi in palestra, non vuole andar via. Ma Luca decide comunque di uscire. È ormai quasi novembre ma l' aria che si respira a Roma ha ancora il tepore delle notti di fine estate che è un peccato doverci rinunciare. E poi c' è lei, Anastasia, che lo aspetta, insieme a tutti gli amici di una comitiva storica che sono già al John Cabot pub, a due passi dal parco della Caffarella. Luca e Anastasia arrivano ma poi tutto cambia. E come accade a una pellicola cinematografica che brucia all' improvviso, anche la loro storia, apparentemente tra le più comuni, subisce un cambiamento inaspettato. Perché Luca viene ammazzato per strada da un giovane pasticcere di borgata con un colpo esploso a bruciapelo da un revolver calibro 38. Il proiettile lo prende dritto alla nuca. Quando poco dopo le 23 arriveranno sul posto i carabinieri del Nucleo radiomobile, si troveranno di fronte Anastasia che con le mani stringe la testa del suo fidanzato, ormai privo di conoscenza, per provare a fermare il sangue. «Ci hanno rapinato» dirà. E così sembrerà all' inizio: due balordi, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino (arrestati dopo 24 ore), che viaggiano su una smart FourFour, si fermano quasi in mezzo alla strada e scendono armati: uno con una mazza da baseball, l' altro con il revolver. Puntano allo zainetto che la ragazza porta in spalla. Lo strappano via e la colpiscono così come accadrà a Luca che prova a difenderla prima di essere colpito a morte. C' è da inorridire solo a pensarlo possibile: prima della mezzanotte si consuma in un quartiere centrale della città un delitto feroce. Ma già nella notte lo schema inizia a mutare: sì, c' è la rapina ma i due che l' hanno messa a segno, aggredendo e ferendo a morte il personal trainer, non avevano mirato a caso una coppietta che attraversava la strada. Erano lì per quel preciso zaino nel quale, secondo due intermediari di Del Grosso, Valerio Rispoli e Simone Piromalli che avevano incontrato la ragazza un' ora prima di fronte al pub con un altro amico della vittima, Giovanni Princi , c' erano diverse mazzette da 20 e 50 euro che servivano ad acquistare una partita di marijuana. Non è stata una rapina casuale e finita nel modo più drammatico. E sempre la stessa notte iniziano a palesarsi le prime incongruenze. Anastasia, che è stata colpita da una mazza da baseball, come dirà lei, non riporta neanche un graffio e ai militari del Nucleo investigativo di via In Selci, che la ascolteranno per oltre tre ore la stessa notte, dirà che nello zaino aveva solo pochi spicci e che non sapeva nulla dello stupefacente. Nessuno, ad oggi, può dire se i soldi c' erano o meno perché non sono stati trovati dagli inquirenti. Ma la deposizione della ragazza sarà ritenuta inattendibile. L' altro amico, Princi, con precedenti per droga, non si trova più: scappa via dal luogo del delitto e cancella ogni sua traccia sui social per riapparire soltanto il giorno seguente all' ospedale San Giovanni. Al fianco di Anastasia 25 anni, occhi vitrei e doppio profilo su Facebook, il primo del tutto insospettabile, l' altro pieno di foto maliziose di fronte al pronto soccorso giocherà la parte del malcapitato spettatore: «Ho visto scendere due tizi mai visti ma come si fa ad andare in giro così armati? Sono folli». Anche agli inquirenti dirà di non conoscere né Del Grosso né i suoi due intermediari. Chi dice la verità? E chi mente? Dalle deposizioni messe insieme emergerà che Princi conosceva almeno uno dei due intermediari di Del Grosso, Rispoli, e pare che con lui si sia interfacciato per acquistare la droga. La cercava per se stesso o a nome di tutta la comitiva, compreso Sacchi? Del Grosso ci parlerà anche la notte del delitto con Princi, proprio in via Latina, dicendogli che sarebbe tornato con la roba. Ed è così che il pasticcere, figlio di una famiglia perbene e arrestato poi grazie alla denuncia della madre, torna indietro e con Paolo Pirino organizza la compravendita che però non si concluderà perché è la traccia odierna i due non troveranno la droga ma, consapevoli della presenza dei soldi, decideranno di mettere a segno comunque la rapina. Pirino dal canto suo è esperto nella materia: nel 2012, giovanissimo, fu arrestato per rapina, quattro anni più tardi per spaccio. I due recuperano anche il revolver e non è escluso che, considerate le loro amicizie a San Basilio, con rampolli di una famiglia di ndrangheta di Platì, abbiano anche trovato facilmente il gancio per ottenere il ferro. L' arma non è stata mai trovata ma i due dopo il delitto, nel tragitto di ritorno a Casal Monastero, hanno fatto tappa a Tor Bella Monaca, roccaforte di clan e traffico di droga. Forse anche per riconsegnare il revolver che ha ucciso Sacchi.

Vittorio Feltri sull'omicidio di Luca Sacchi: "Una squallida storia di droga. E la magistratura italiana..." Libero Quotidiano il 26 Ottobre 2019. Ci risiamo con la droga spacciata come si trattasse di patatine fritte. Il ragazzo romano freddato con un colpo di pistola alla testa aveva richiesto, pare, una fornitura di coca a due pusher. I quali invece non erano riusciti a recuperarla ma volevano ugualmente essere retribuiti, e hanno cercato di rubare al "cliente" lo zainetto contenente i soldi. È scoppiata una lite furibonda e il giovane in astinenza ha dovuto soccombere, beccandosi la schioppettata che lo ha annientato. Una storia squallida che dimostra ancora una volta che il male del secolo non è la violenza, che comunque esiste e andrebbe combattuta, bensì le sostanze stupefacenti ormai entrate nel costume giovanile, non solo nella Capitale: ogni città, Milano inclusa, è abitata da gente sempre più numerosa che non può fare a meno dello sballo. È una realtà drammatica che sfugge a qualsiasi controllo serio, vi sono zone periferiche in cui tossici abituali o occasionali incontrano farabutti che smerciano le polverine micidiali. Le liti sono fisiologiche e ricorrenti, gli adolescenti per una presa di coca affrontano situazioni pericolose e spesso ci rimettono le penne. Ricordiamo la vicenda dei due americani che recentemente hanno stecchito in circostanze dubbie un vicebrigadiere dei carabinieri. Ciò che più sorprende e inquieta è il fatto che le forze dell' Ordine non siano mobilitate in modo organico per reprimere lo spaccio che avviene di giorno e specialmente di notte in vari quartieri. Un problema gravissimo che però non viene preso sul serio dalle autorità di pubblica sicurezza. Le quali danno più importanza a chi vìola un divieto di sosta che non a chi vende le schifezze mortali. Siamo infestati sotto casa da pusher e nessuno li assicura alla giustizia. I pochi di costoro che vengono arrestati soggiornano in galera 24 ore poi tornano liberi di delinquere, quasi fossero ladri di galline. La magistratura è severa fino a un certo punto, un punto morto, e non capisce che la maggior parte dei reati dipende dal commercio e dal consumo della coca. Questo non lo dico io, bensì don Chino Pezzoli, un vecchio prete che da decenni è impegnato sul fronte dei narcotici e delle loro vittime. di Vittorio Feltri

Mirko Polisano per “il Messaggero” l'1 novembre 2019. Roma è anche la capitale delle droghe. Un mercato in espansione che ora vede affrontarsi vecchi nomi di spicco della mala romana ai giovani emergenti che vogliono provare a farsi spazio tra i signori della droga. Manovalanza che vuole fare il salto di qualità e mettersi in proprio e ventenni alla ricerca di soldi e potere. L'obiettivo per tutti è sfidare i boss in una lotta senza frontiere. Tor Bella Monaca, San Basilio, la Romanina e il Pigneto. Le principali piazze di spaccio di Roma diventano terra di conquista e le famiglie storiche negli anni si sono spartite il territorio e ora quasi temono per l'avanzata di chi con sfrontatezza è pronto a «prendersi il quartiere». Come forse - e ora su questo si stanno concentrando le indagini - erano pronti a fare persone vicine a Luca Sacchi e la sua fidanzata Anastasiya, prima di incontrare i killer del 24enne ucciso davanti a un pub all'Appio Latino. Una trattativa - secondo quanto emerge dall'inchiesta - per acquistare un grosso quantitativo di droga molto probabilmente da prelevare dai nascondigli di Tor Bella Monaca e immettere su un altro mercato, forse quello di Casal Monastero o dell'Appio. E spuntano i clan e i gruppi organizzati che di fare un passo indietro non vogliono sentirne parlare e sono pronti a coalizzarsi, costituendo dei veri cartelli. La piazza di spaccio di Tor Bella Monaca, la più importante della Capitale, da anni è gestita dalla famiglia Cordaro che controlla «tutta la zona sud-est di Roma», come si legge in un'informativa della procura, avendo «rapporti con soggetti appartenenti ai casalesi», oltre che a gruppi calabresi. Sono proprio quest'ultimi, insieme ai napoletani, i grandi rifornitori di stupefacenti nelle principali piazze di spaccio. Pronti a fare fuoco, anche d'accordo con i trafficanti di San Basilio, contro chi vuole calpestare loro i piedi e sconfinare. Nella guerra tra vecchi e nuovi, si aprono le nuove piazze di spaccio. «In natura i vuoti non esistono - spiega un investigatore di lungo corso - e quegli spazi sono riempiti da chi vuole tentare la scalata». Un banco di prova per chi a 20 anni già vuole sentirsi boss e padrone della strada. C'è spazio per tutti a Roma quando si tratta di fare soldi con la droga. E ovunque, anche i quei territori che sembravano incontaminati, diventati negli ultimi tempi invece i self service di hashish e cocaina. Tra questi, Torrino e Spinaceto, Axa e Infernetto, ma anche in centro: Monti, Parioli e Ponte Milvio. A San Basilio, accanto ai gruppi Primavera e Cataldi, si propongono elementi emergenti come la famiglia Martellacci, operativa nel traffico e nello spaccio di stupefacenti ma anche attiva nel racket delle occupazioni delle case popolari. I gruppi emergenti avanzano sempre di più e sembrano togliere terreno e spazio vitale ai sodalizi criminali radicati sul territorio. L'ipotesi - a quanto trapela da fonti della Direzione investigativa antimafia - è che possano formarsi nuove alleanze tra famiglie storiche, anche di quartieri diversi. Vere joint-venture criminali per imporre il potere. Soltanto due giorni fa, un pezzo da novanta della mala di Ostia, Terenzio Fasciani fratello del boss don Carmine è stato fermato dagli investigatori in macchina al fianco di un capoclan di Primavalle. Per gli inquirenti pochi dubbi: stavano siglando un nuovo patto per rafforzare una holding criminale indebolite dalla continue operazioni di polizia e provare a contare di nuovo qualcosa, nonostante la minaccia dei giovani che da qualche tempo insidiano e provano a prendersi spazi non loro.

LA CAPITALE DEL CRIMINE DOVE SI SPARA NEL MUCCHIO. Aurelio Picca per ''il Giornale'' il 27 ottobre 2019. Da quando a Roma le hanno appiccicato l' onoreficienza di «Roma Capitale» mi pareva una bufala. Se così avrebbe dovuto essere, nella realtà, Roma adesso sarebbe una sorta di Città Stato a capo di una nazione oliata e efficiente come l' Italia per diritto dovrebbe ambire da sempre. Ma nel frattempo da «Capitale» è nata «Mafia Capitale»: una mozzarella di bufala prodotta con latte in polvere. Si è creato un teorema, un progetto giudiziario, ideologico, nel chiuso delle menti degli architetti del disegno stesso vergando migliaia di pagine che non avrebbero sostenuto alcuna discussione di Laurea. Poi la Cassazione cancella. Era stupido come il gioco delle tre carte, credere che «un vecchio camerata» (è lui che si è espresso così) come Massimo Carminati, un uomo che fa il saluto romano di fronte ai cristalli blindati della sua celletta, sia il Totò Riina di una città che mi ostino a dichiarare «invisibile» per i quintali di souvenir che la soffocano e i turisti allo sbando che per vedere il Colosseo lo contemplano da Google. I nuovi fagottari, come i nuovi criminali. Dei Casamonica (certo non stinchi di Santo) manca solo il film del tanto citato e raccontato funerale con carrozza, cavalli e elicottero. Ma cosa si vuole pretendere da una città che mi trafigge al ricordo di quando si asserragliava nei suoi quartieri come fosse arpionata ai Sette Colli, ora che è una melassa: uno dei cadaveri che un tempo rinvenivano bruciati nel Tevere? E' la Grande Bruttezza che nutre mute di cani armati di coltelli e Magnum 357. La pistola dei veri banditi e non dell' ultimo film sbronzo di Quentin Tarantino. Ogni giorno c'è un morto ammazzato: a Ostia sbagliano bersaglio o mira e si fumano un giovane nuotatore che rimane saldato alla sedia a rotelle; un carabiniere viene accoltellato come dopo una partita di dadi andata a schifio; Diabolik, il capo degli Irriducibili laziali, viene freddato chirurgicamente mentre sta seduto su una panchina del Parco degli Acquedotti dove là, a cento metri, Sorrentino girò la scena di Gambardella nella «Grande Bellezza» (ma de che!). Luca Sacchi, bam bum bam, fatto fuori all' Appio Latino. L' altro giorno ero dietro via Frangipane, dove c' è la mitica palestra di boxe «Audace». Ero con un amico libertario, mai un velo di razzismo. A un certo punto l' ha puntato un vespone con in sella due visi gialli (lo dico come stessi scrivendo una sceneggiatura dei settanta). Di sicuro un indiano e un pachistano (quindi neanche visi gialli). Il pilota ha urlano «Leveteeeee!». Il mio amico libertario è saltato rispondendo: «Ci passa pure un Tir!». No, per dire: Una Roma scarabocchiata, anzi, una matassa di ferro spinato. Per scherzo ho detto al mio amico: «Ma che sei razzista?». Lui: «Sì». Ecco Roma come ti spinge a difenderti. Si ammazza al volo come si tira al piattello. Neppure ai tempi dei fratelli Castellani, Er Bavoso e Er Bavosetto era così; neppure ai tempi del più Grande criminale di Roma (tutto prima della Magliana), protagonista del mio prossimo romanzo era così. Neanche con lui che diceva dei suoi complici: «Alla fine mi sono ritrovato con una banda di scopini». Le possibilità sono due. Una è quella che i neuroni criminali sono senza fissa dimora, cioè non stanno nel cervello (riproducono con le loro gesta il caos della città); oppure piano piano si andranno a organizzare per ricomporre una vera e propria nuova generazione criminale. É anche questione di rete. Se la rete da pesca è bucata in cento punti, i pesci l' attraversano e si riperdono nel mare. Se la rete non ha smagliature pesca i pesci. Dunque la domanda è questa: Roma che rete vorrà e saprà diventare?

Nicola Lagioia “Qui a Roma la cocaina è un collante sociale. Così nasce la violenza”. Lo scrittore: "Non ci sono più morti e feriti di prima. Semplicemente da 15 anni tutto qui è più difficile, molto non funziona e cresce l’aggressività. Corrado Zunino il 26 ottobre 2019 su La Repubblica. La periferia è una costante dei racconti e dei romanzi del Premio Strega Nicola Lagioia, 46 anni. La periferia della sua Bari, dove è cresciuto e viaggiato da ragazzo, curioso. La periferia della Roma che oggi abita e assicura di amare, «anche se di fondo sembra fatta per darti dolore». Dice che la periferia di Roma è speciale, specialmente difficile, perché Roma è una città speciale, «l’unica capitale dell’Occidente dove si viaggia con due linee metropolitane e mezzo». E il centro del suo ragionamento su Roma, la violenza, la droga, i suoi ragazzi così violenti e così affini alla droga, è questo: a Roma non ci sono più morti e feriti di prima, non c’è più eroina e cocaina e fumo rispetto alle altre città italiane, le metropoli d’Europa e del Nordamerica. A Roma, semplicemente, da quindici anni si vive male. «Il malessere produce aggressività, l’aggressività produce violenza».

Vive da tempo tra Roma e Torino, Lagioia, come è cambiata la capitale ai suoi occhi?

«C’è una una tensione continua. Roma è una città carica di violenza dal punto di vista psicologico. Molti ci vivono male e in questo habitat tutto è più difficile. Muoversi da una parte all’altra della città è un’odissea, la spazzatura è paesaggio e i servizi semplicemente non funzionano. La crisi economica senza fine ormai è spalmata su tanti, troppi. L’insieme delle cose che non vanno in città si avverte. Roma non è la New York degli Anni Ottanta».

La droga è sullo sfondo di tutti gli ultimi omicidi, il vicebrigadiere Cerciello, Diabolik, ora l’agguato dei Colli Albani.

«Non è strabordante a ogni angolo. Io credo che la cocaina che si può trovare in un mercato enorme come quello della capitale sia, pro capite, la stessa che si può acquistare a Milano, a Torino dove organizzo il Salone del libro, a Berlino. La cocaina la compri facilmente dappertutto e costa relativamente poco, anche 50 euro. Era così anche negli Anni ‘80, mella mia Bari si spacciava a un passo dai carabinieri. Oggi, a Roma e altrove, la cocaina è diventata persino un elemento di socialità».

Cioè?

«È un paradosso, probabilmente disturbante, ma oggi la cocaina fa conoscere persone che altrimenti non entrerebbero mai in contatto. Non è più la droga dei ricchi, è un collante interclassista. La può usare un colletto bianco, un fuoricorso universitario, un dirigente, un dipendente pubblico. Ecco, acquistarla o venderla sembra dare un senso a una città che non ha un senso, non ha una direzione, una carica. Scopo della giornata. per alcuni, diventa rimediare o guadagnare con un grammo di coca. C’è, se non una banalità, una normalità in questa droga. La coca fa marciare altri sottomercati, è un’economia sommersa che tiene in piedi una fetta di cittadinanza. No pensiamo ai grandi trafficanti, ai pusher, ma c’è una zona grigia di piccoli spacciatorelli che bendono froga per arrotondare, comprarsi i vestiti, avere i soldi per una vacanza. La cocaina è un paesaggio sempre presente che qualcuno non vede».

Torniamo a Roma, è davro una questione di malessere di fondo. O c’è dell’altro?

«Non è facile trovare un senso in una città dove è difficile muoversi, avere figli, partecipare a una vita culturale collettiva. La cultura ti dà un senso. Roma, negli ultimi quindici anni, è la vera eccezione culturale. È una città spolpata, con un turismo usa e getta, senza cultura d’impresa. Sembra nutrirsi di sé, praticare l’autocannibalismo. Può essere affascinante per uno scrittore, ma viverci da cittadino è un dolore. E questo nonostante abbia una socialità unica, una facilità alla conoscenza».

A Roma i coltellini in tasca sono quotidianità per i minorenni.

«Credo girino più armi nelle banlieu di Parigi o nell’East London. La droga, le armi, la violenza, non è lì il centro. Il centro della questione è il malessere diffuso, l’aggressività diffusa».

La sua periferia?

«È il luogo dove succedono le cose, quelle interessanti e quelle pesanti. Lo ha descritto molto bene Valerio Mattioli. in “Remoria, La città invertita”. Accade lo stesso a New York. Il problema della capitale italiana è che le case continuano a costare molto e le opportunità diminuiscono. Il centro è riservato a pochi ricchi , qualche turista e ai politici. La politica è l’unica che si può permettere di dormire a Roma, oggi. Quando sono arrivato a Monti, tanti anni fa, una casa si affittava a 800 euro il mese, ora per quella cifra non ti danno neppure una stanza. Per capire dove va il futuro bisogna andare in periferia. Domani Roma tutta potrebbe assomigliare a Torre Maura, il bus che non arriva, i cassonetti strabordanti, i caloriferi dei consomini comunali che non funzionano. La periferia resta il laboratorio delle cose più interessanti e più dolorose».

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 25 Ottobre 2019. A Roma si muore anche così. E se bussi con qualche domanda alla porta di un vecchio sbirro romano come Antonio Del Greco, 43 anni in Polizia, trovi la conferma dolente che nel sangue di Colli Albani è lo specchio di una città dove le coordinate della violenza hanno smarrito ogni bussola. Perché tarate su nessun altra traiettoria che non sia "il veleno" che ogni sera, di fronte a un pub, una discoteca, un bar, sale alla testa di chi si cala una pasticca o si fa una "botta" di coca con il prezzo di una pizza. Lo chiama il «Grande Disordine» , Antonio Del Greco.

Grande Disordine?

«C' è stato un tempo, almeno fino alla fine degli anni '90, in cui il territorio di Roma, i suoi quartieri, le sue periferie, erano imbracate in un doppio, capillare controllo.

Quello delle forze di Polizia e quello delle organizzazioni criminali. Noi sapevamo a quali porte bussare dopo una rapina, dopo una rissa, dopo una morte per overdose. E dall' altra parte avevamo chi, a sua volta, aveva interesse a che la strada non fosse lasciata in balia di ragazzini fuori di testa. Non è più così. Siamo nel tempo del Grande Disordine».

E quando è arrivato il tempo nuovo?

«Direi all' inizio degli anni 2000. Quando sono successe, contemporaneamente, due cose. La prima è stata la riorganizzazione del controllo del territorio delle forze di Polizia. Con l'introduzione di un numero unico e di un' unica sala operativa, l'intenzione meritoria era quella di ottimizzare il controllo tempestivo delle emergenze in città. Ma questo ha finito per risucchiare nel servizio in strada ogni energia possibile, anche dei commissariati. Con un risultato: vedere più macchine in strada, ma avere sempre meno memoria e penetrazione nei quartieri. La seconda cosa che è successa è stata la fine del controllo del territorio così come lo avevamo conosciuto da parte delle organizzazioni criminali. Oggi, chi fa traffico di stupefacenti in un quartiere, controlla lo spaccio, ma non mette becco nelle rapine, nei furti in appartamento o nelle estorsioni. Il risultato è che ci sono sempre meno porte a cui andare a bussare. E che se un tipo decide di procurarsi una pistola con cui girare in auto la sera, o andare a fare gli scippi, chi gliela procura non solo non fa domande, ma non deve neanche chiedere il permesso. Oggi abbiamo più telecamere in giro per la città. Ma non abbiamo più un tessuto sociale in cui si manda a mente un volto, un nome. E se questo contesto lo anneghi poi negli stupefacenti, il risultato è quello che abbiamo di fronte agli occhi».

È cambiato anche il mercato degli stupefacenti?

«Assolutamente. Non ho numeri. Ma ho fatto il poliziotto fino a due anni fa. E ho visto cosa è successo quando hanno cominciato a vendere le pasticche a due euro. E quando la cocaina ha smesso di essere una droga di classe. Per diventare roba popolare. Carburante per una seratina. Oggi tutti, ma proprio tutti, possono pippare. E se a un ragazzo di vent'anni pippato metti anche in mano un ferro, la vita comincia a valere poco. E il rischio imprevedibile. Anche a un semaforo, a un angolo di strada».

E allora?

«E allora non voglio fare sociologia da due soldi, ma non si deve cadere dal pero. Bisogna cominciare a riflettere su quello che siamo diventati e cosa sono diventate le nostre città. Sulla nostra infinita solitudine. Se in un condominio chi abita al primo piano ignora chi vive al quarto o lo incontra solo alle assemblee che decidono i lavori per l' ascensore, se un ragazzino con 50 euro in tasca può strafarsi con i suoi amici, possiamo anche mettere un poliziotto a ogni angolo di strada, ma non invertiremo la china. E dovremo rassegnarci all' idea che questo è il pedaggio che pagheremo».

Da qualche parte si dovrà pure cominciare?

«Certo. Dagli stupefacenti. È un'emergenza sociale drammatica, di cui quella criminale è semplicemente l' espressione. Storicamente, gli stupefacenti sono sempre stati il motore della criminalità di questa città. Ma il crollo dei prezzi allo spaccio e il consumo capillare rendono oggi questo mercato l'incubatore della violenza di questo tempo. La droga scatena appetiti incontenibili in chi la tratta all' ingrosso e al minuto. E sta modificando il modo di stare al mondo dei ragazzi e dei marginali che questa città ha sempre avuto. Negli anni '70, '80, si facevano e morivano di eroina. Ma un eroinomane non scende da una macchina con una pistola per piantarla alla testa del primo che passa e che ha resistito a uno scippo. Un eroinomane non entra nella casa di un anziano e lo massacra di botte perché non ha trovato i soldi che pensava di trovare. Il punto è che la coca, le pasticche, stravolgono la percezione. Conosco la strada e, fidatevi, avere di fronte qualcuno che all' una di notte si è già fatto l' inverosimile, lo rende una bomba. Oggi parliamo di quel povero ragazzo di Colli Albani e ci interroghiamo su chi possano essere stati i suoi assassini. Ma pensiamo a come erano conciati i due americani che hanno ucciso il maresciallo Cerciello. Avevano una farmacia nella stanza dell' albergo, cercavano cocaina a Trastevere come si può cercare un pacchetto di sigarette e viaggiavano con una baionetta».

Manuel Bortuzzo, il papà Franco: «Luca era sportivo come il mio Manuel, ucciso senza un motivo». Venerdì 25 Ottobre 2019 Alessia Marani su Il Messaggero. «Sono sconvolto. Non sapevo che fosse morto». Franco Bortuzzo, il papà di Manuel, il diciannovenne colpito il 3 febbraio scorso dal proiettile di una P38 che gli ha attraversato il polmone e lesionato la spina dorsale, è senza parole. Apprende la notizia della morte di Luca Sacchi e rivede l'orrore che ha segnato per sempre la sua famiglia. Manuel ha le gambe paralizzate. Luca è morto. Per un attimo Franco Bortuzzo, riavvolge il nastro. Immagina un'altra fine, pensa che addirittura sarebbe potuta andare anche peggio: suo figlio è vivo. Luca no.

Un ragazzo di 25 anni è stato aggredito e ucciso per strada senza un motivo. Per Manuel è andata più o meno allo stesso modo. Ma l'epilogo è stato diverso. Che effetto le fa?

«Sono sconvolto. È un orrore. È una vicenda così simile a quella di Manuel che non riesco neppure a commentarla. Anche Manuel era con la sua fidanzatina, proprio come Luca. Una serata tranquilla, normale. Non sapevo fosse morto. È atroce. E Manuel non lo sa ancora. È terribile, brutale. Penso come tutto sia così casuale, anche la vita. Fa paura. Luca era uno sportivo, proprio come Manuel. Ed è morto senza una ragione. Poteva succedere a mio figlio. Io sono senza parole. Davanti a un fatto così terribile non può esserci un commento. Sono cose inspiegabili e irragionevoli».

Nel caso di Manuel i responsabili sono stati arrestati in fretta. C'è già stata una condanna.

«Credo che anche in questo caso andrà così. Tre o quattro giorni e li prenderanno. Ne sono sicuro. Rintracceranno i responsabili di questo delitto terribile.

A Luca, come a Manuel, hanno sparato per nulla.

«La verità è che le armi circolano con una facilità impressionante. È tutto così brutale. Mi sembrano cose dell'altro mondo, che non riesco a capire. Si spara per nulla. Penso che dipenda dalla cultura e dall'educazione delle persone. Dall'incapacità di tirare su i figli nel modo giusto. Di insegnargli il valore della vita. Anche uno scippo oggi si fa con una pistola. I ragazzi si trasformano in killer. Si spara per nulla. Se avessero altri interessi, se fossero cresciuti con obiettivi tutto sarebbe diverso. E non starebbero a sparare a coetanei. Per me la chiave resta lo sport. Dopo gli allenamenti i ragazzi sono esausti. Mi chiedo cosa pensino questi genitori, se non si accorgono che i loro figli sono potenziali killer. Ragazzi a cui manca qualcosa nel cervello, che girano con le pistole, che vanno in giro a rapinare la gente. Scimmiottano le serie criminali. Finché sarà così altri ragazzi saranno a rischio, senza avere alcuna responsabilità».

Roma, spararono al nuotatore Manuel Bortuzzo: chieste due condanne a 20 anni. Lo scorso 2 febbraio all'Axa il giovane fu colpito alla schiena per errore e rimase paralizzato. Chiesto risarcimento di 10 milioni, Campidoglio parte civile. La Repubblica il 23 settembre 2019. Venti anni di reclusione: è questa la condanna richiesta dalla Procura di Roma per Lorenzo Marinelli e Daniel Bazzano, accusati del tentato duplice omicidio del nuotatore Manuel Bortuzzo e della fidanzata Martina Rossi avvenuto la notte del 2 e 3 febbraio scorsi. Bortuzzo, vent'anni, fu ferito gravemente. Colpito alla schiena, il giovane da allora è costretto alla sedia a rotelle. Marinelli e Bazzano sono in carcere dal  6 febbraio: hanno ammesso di aver sparato ma di aver colpito il ragazzo per errore. I due, assistiti dall'avvocato Alessandro De Federicis, hanno scelto per il rito abbreviato che in caso di condanna prevede lo sconto di un terzo della pena. Manuel Bortuzzo, nato a Trieste, era una promessa del nuoto e si era trasferito da Treviso a Roma pochi mesi prima per allenarsi nel centro federale di Ostia e si appoggiava alla foresteria delle Fiamme Gialle di Castelporziano. Verso le 2 della notte tra sabato e domenica Bortuzzo si trovava di passaggio con amici e altri atleti in piazza Eschilo, all'Axa, quartiere romano tra Roma e il mare di Ostia. Stando alla ricostruzione del pm, i due imputati di Acilia, amici anche nella vita, con le pistole tatuate e atteggiamenti stile Suburra,  spararono tre colpi d'arma da fuoco da distanza ravvicinata verso Manuel Bortuzzo e della fidanzata Martina Rossi che stavano comprando delle sigarette a un distributore automatico. Bazzano, che era alla guida del motorino, rallentò per consentire a Marinelli di prendere la mira. I due imputati, che vengono giudicati in abbreviato, cercavano di vendicarsi dopo essere stati picchiati da una banda di pusher rivali in una rissa scoppiata al "O'Connell Irish pub" poco distante. Il giovane, scambiato per forse per uno dei balordi che aveva partecipato alla rissa, venne affiancato da una moto dal quale spararono tre colpi, uno dei quali lo ha raggiunto. La fidanzata si salvò per caso. "Abbiamo chiesto un risarcimento di 10 milioni di euro" ha annunciato l'avvocato Massimo Ciardullo, legale di Manuel Bortuzzo al termine dell'udienza di oggi. "Una sentenza severa per Manuel già c'è stata: la consulenza medica che ha sancito per lui la paralisi delle gambe. Ora attendiamo una sentenza giusta anche dal giudice" ha aggiunto il legale. Nel processo, il Campidoglio si è costituito parte civile.

Roma violenta, da Manuel Bortuzzo al musicista Bonanni: risse e spari fuori dai pub della Capitale. La morte del 24enne Luca Sacchi, il personal trainer ucciso con uno colpo di pistola alla testa per aver cercato di difendere la fidanzata da una rapina fuori da un pub in zona Colli Albani, riporta in primo piano il tema della sicurezza della Capitale e della movida violenta. Ecco i casi più noti. Valeria Costantini il 24 ottobre 2019 su Il Corriere .it.

Luca Sacchi, ucciso da uno sparo alla testa. La morte del 24enne Luca Sacchi, il personal trainer romano ucciso con uno sparo alla testa per aver cercato di difendere la fidanzata da una rapina fuori da un pub in zona Colli Albani, riporta in primo piano il tema della sicurezza della Capitale e della movida violenta. da Manuel Bortuzzo ad Alberto Bonanni, morto dopo tre anni e cinque mesi di coma dopo una rissa, sono tanti i casi di cronaca che raccontano le aggressioni, gli spari e le violenze fuori dai locali della Capitale.

Alberto Bonanni, il musicista ucciso a Monti. Alberto Bonanni, era un chitarrista ed aveva 29 anni quando fu aggredito appena uscito da un locale tra via dei Serpenti e via Leonina, nel quartiere Monti, nel cuore di Roma. Era la fine di giugno del 2011 e dopo tre anni e cinque mesi di coma, Bonanni morì in ospedale. In quattro si scagliarono contro di lui accusandolo di aver fatto troppo rumore e di averli offesi. Per quell’aggressione sono stati imputati quattro giovani. Nel 2013 la Corte d’appello di Roma ha confermato la condanna a 9 anni di carcere disposta con rito abbreviato nei confronti di Carmine D’Alise e Cristian Perozzi, mentre ad aprile dello stesso anno ha stabilito l’aumento di pena da 9 a 13 anni e mezzodi reclusione per Massimiliano Di Perna (soprannominato “il pittore”) e Brian Gaetano Bottigliero. Durante il ricovero fu diagnosticato al musicista un tumore al cervello. Dopo il decesso il capo d’accusa nei confronti degli imputati è passato da tentato omicidio ad omicidio volontario. La difesa di Bottigliero ha quindi chiesto nuovi accertamenti sul corpo del giovane per stabilire se Bonanni sia morto a causa del pestaggio o per la neoplasia cerebrale scoperta dai medici.

Manuel Bortuzzo è rimasto paralizzato. Un vero e proprio agguato. Era la notte del 3 febbraio 2019 quando un colpo di pistola ha ferito il nuotatore Manuel Bortuzzo in piazza Eschilo nel quartiere Axa, alle porte di Roma. Il diciannovenne — atleta promessa nazionale, amico e collega dei campioni azzurri Gregorio Paltrinieri e Gabriele Detti - è stato colpito da un proiettile e si è accasciato sul marciapiede di piazza Eschilo. Dopo giorni trascorsi in pericolo di vita all’ospedale San Camillo, rimarrà paralizzato. A sparare sono stati due giovani del luogo, Lorenzo Marinelli e Daniel Bazzano, che poi hanno confessato di aver colpito Manuel per sbaglio dopo una rissa avvenuta in un locale della zona, l’O’Connell Irish Pub . Sono stati condannati a sedici anni di carcere.

II buttafuori travolti con l’auto. Respinti all’entrata perché ubriachi, tornano alla discoteca e investono i due buttafuori. Scene di panico la notte del 27 gennaio davanti al locale Qube di via di Portonaccio. Le immagini riprese dalle telecamere e dai telefoni dei presenti, mostrano il momento di follia dei due giovani, fratelli italiani, Daniele e Gabriele Briscese, poi arrestati per il tentato omicidio dei buttafuori senegalesi: ad entrambi è stata contestata anche l’aggravante razziale perché avrebbero insultato le vittime con frasi a sfondo razziale.

Tre condanne per la morte di Emanuele Morganti. Non a Roma, ma in provincia di Frosinone è avvenuta invece la morte di Emanuele Morganti, il ventenne di Tecchiena massacrato di botteil 26 marzo del 2017 fa all’uscita dal pub Mirò ad Alatri (Frosinone) e deceduto dopo due giorni di agonia al Policlinico Umberto I di Roma. Unpestaggio avvenuto in piazza Regina Margherita, in centro, finito in modo tragico. Per la morte di Morganti sono stati condannati in primo grado per Michel Fortuna e i fratellastri Paolo Palmisani e Mario Castagnacci, ritenuti responsabili di omicidio preterintenzionale. Assolto il padre Franco Castagnacci.

Aggredita e violentata in discoteca. Aggredita e violentata fuori dalla discoteca Factory di fronte allo Stadio Olimpico. Lo stupro di gruppo avviene lo scorso 18 maggio, la vittima è una giovane studentessa italiana di origini etiopi; è lei a chiamare aiuto e a denunciare l’orrore. La squadra mobile avvia la caccia al branco:in manette finisce un 25enne rumeno, Gabriel Razvan Pap, che insieme a due complici avrebbe violentato la ragazza. Revocata la licenza per il locale.

Mega rissa con feriti. A marzo viene chiusa per una settimana la discoteca Heaven in via di Porta Ardeatina. Troppi furti e risse all’interno, buttafuori illegali operavano nel locale. La notte dell’11 febbraio c’era stato l’ennesimo episodio di violenza: due gruppi di giovani si erano prima picchiati a mani nude, per poi armarsi di bottiglie di vetro. La mega-rissa era proseguita anche in strada, diversi allora i feriti. Nessuno aveva allertato le forze dell’ordine, poi è scattato il provvedimento del Questore Carmine Esposito.

Far west all’Eur: spari durante una rissa. Cinque buttafuori picchiano a calci e pugni un cliente molesto, lui torna armato di pistola e spara sulla folla. Cinque i feriti, tra cui l’allenatore delle giovanili del Villareal: fu questo il bilancio della tragedia, all’epoca solo sfiorata, fuori dalla discoteca Room 26 nel quartiere Eur. Era il febbraio del 2017. Per il pestaggio sono andati a processo per lesioni gravi i bodyguard del locale: la vittima, un nomade pluripregiudicato, era noto per comportamenti violenti.

A spasso per Prati spunta la felpa con la scritta Casamonica. Oggi, nel clima di tana-libera-tutti che si respira dopo la sentenza della Cassazione, anche altri gruppi che la procura considera mafia diventano un logo da esibire. Col nome della famiglia accusata di usura, estorsione, traffico di droga e associazione mafiosa. Floriana Bulfon il 24 ottobre 2019 su La Repubblica. Mafia Capitale si è dissolta: non era mafia, ma solo bande. E i banditi hanno da sempre il loro fascino. Soprattutto a Roma, dove la Magliana si è trasformata da romanzo criminale a fenomeno popolare, confondendo fiction e verità nell'esaltazione del Freddo, del Libano, del Dandi e del Nero, che poi sarebbe il giovane Massimo Carminati: le loro frasi sono entrate nel linguaggio comune, condivise a ogni livello sociale e in ogni quartiere. Oggi, nel clima di tana-libera-tutti che si respira dopo la sentenza della Cassazione, anche altri gruppi che la procura considera mafia diventano un logo da esibire. Così a pochi metri da San Pietro e dal Tribunale, nel signorile quartiere di Prati, si può incontrare in un bar gelateria una persona con la felpa marchiata Casamonica. Va in giro, sereno e compiaciuto, ostentando sulla schiena una grande scritta con il nome della famiglia accusata di usura, estorsione, traffico di droga e associazione mafiosa. Chissà cosa aveva in testa l'uomo che ha comprato o si è fatto realizzare la maglia spot per il clan. Non conosciamo il suo nome. Si è allontanato tranquillo a bordo di una Smart intestata a una persona che non risulta avere precedenti penali, né rapporti diretti con i brutali picchiatori della periferia, violenti persino con una donna disabile. Chi siano i Casamonica, però, oggi lo sanno tutti: forse i giudici non li riconosceranno come una mafia, ma di sicuro non c'è niente di cui essere orgogliosi.  

·         La vita di Deborah Sciacquatori.

La vita di Deborah Sciacquatori. Fulvio Fiano per il “Corriere della sera” il 22 maggio 2019. La vita di Deborah Sciacquatori non è mai stata diversa da così: «Papà ci ha sempre picchiato. Facevo gli incubi e temevo che ci uccidesse nel sonno. L' unica cosa che mi ha lasciato è la passione per la boxe e il ricordo di quando, avevo tra i sei e gli otto anni, mi portava con lui in palestra». Chiusa in camera a studiare la 19enne non ne parlava con le amiche o con il centro di ascolto a scuola. Rassegnata, quasi. «Il futuro per noi non esisteva più e per questo non siamo neanche più andate al pronto soccorso o a denunciarlo». Il giorno in cui decide di ribellarsi a quasi 20 anni di violenze subite in prima persona o a cui ha assistito impotente, c' è un gesto che fra tanti colpi, soprusi e insulti fa scattare in lei qualcosa. L'aggressione quotidiana di Lorenzo, suo padre, alla mamma Antonia comincia alle 5. Due ore dopo l'uomo manda la moglie a comprare due birre e dopo la pausa riprende. Pugni al volto, spintoni, minacce. Poi le stringe l'avambraccio attorno al collo, un segnale che la 19enne sa riconoscere e che significa, anche in quel terribile campionario, il superamento di una soglia ancora più pericolosa. È allora che Deborah prende uno dei coltelli della collezione del nonno e lo punta alla nuca del genitore: «Papà, lasciala andare!». Lui è appoggiato alla parete dell' androne dove ha raggiunto la moglie in fuga. La ragazza è aggrappata a loro e sferra pugni per fargli mollare la presa. Poi un movimento, un urto e il coltello ferisce il 41enne. Antonia è libera, il marito cade a terra. Deborah capisce subito che è grave. Solo l'autopsia dirà se è morto per quella ferita, ma intanto lei torna dentro casa, prende del ghiaccio, prova a rianimare il padre: «Non volevo, perdonami, ti voglio bene! Oddio mamma che ho fatto!». Poi non ricorda più nulla. Le circostanze, raccontate tra i singhiozzi, quell'urlo udito dai vicini «Papà non mi lasciare!» quando vede il genitore a terra in fin di vita, sono gli elementi in base ai quali la Procura di Tivoli decide di derubricare l'accusa di omicidio, ipotizzata a caldo come atto dovuto, nel più lieve eccesso di legittima difesa e ordina la liberazione della ragazza (era agli arresti domiciliari a casa di una zia) già ieri mattina. In via Aldo Moro a Monterotondo, affacciati alle finestre delle case popolari con i muri grigi scrostati, in tanti ora si dicono felici per lei, spiegano che è giusto così. Il procuratore Francesco Menditto annuncia che presto chiederà l'archiviazione del caso e sottolinea però che quelle stesse persone tante volte hanno sentito le urla e non si sono mai volute impicciare perché «sono cose di famiglia». «E invece - dice il magistrato - aggressore e vittima non erano sullo stesso piano, c'era una sottomissione della donna all'uomo violento». La mamma di Deborah, Antonia, descrive un'esistenza fatta di paura e violenza: «Le cose sono peggiorate nel 2002 quando Lorenzo ha perso suo padre. La nostra vita era un inferno, mia figlia viveva nel terrore e cenava in camera pur di non vederlo. Ancora mi fanno venire il mal di schiena i pugni che lui mi ha dato mentre la allattavo, ma io preferivo che se la prendesse con me, pensavo di salvarlo e recuperare la situazione. Non volevo rovinarlo e poi temevo che mi levassero Deborah perché non ero una buona madre». Nella ricostruzione di quell' inferno fatta dai carabinieri rimaneva un ultimo buco di quattro anni. L'uomo violento che tutti i giorni picchiava le donne di casa nel marzo 2015 esce dal carcere in cui ha trascorso pochi mesi per i maltrattamenti e le denunce per rissa, rapina e resistenza a pubblico ufficiale. Un «vuoto» sul quale gli investigatori si interrogano, dato il soggetto in questione (servizi sociali e Tso nel suo passato, famiglia rifugiata in Abruzzo per un periodo), ma che solo Deborah riesce a spiegare con quella rassegnazione a cui infine si è ribellata: «Dopo il carcere papà era cambiato, beveva meno, ci trattava meglio. Ma è durato poco. Ha ripreso a picchiarci, al punto che mamma faceva sparire ogni oggetto pericoloso da casa per paura che ce lo lanciasse contro. Lui la chiamava "put...", le diceva "ti sgozzo come un maiale", ogni pretesto era buono per colpirla. La cena, i soldi, la casa in disordine. E la obbligava ad avere rapporti che lei accettava per paura del peggio. Il mio unico rifugio è stato lo studio, volevo darmi una speranza».

Il verbale della mamma di Deborah: «Ho preso botte per 20 anni, fin da quando allattavo». Pubblicato giovedì, 23 maggio 2019 da Fulvio Fiano su Corriere.it. «Quel giorno vennero i servizi sociali a casa. Mi fecero domande, presero tante informazioni su di me, la nostra condizione economica, i voti di mia figlia. Decisero che ero una madre “idonea”, ma da allora la paura non mi è mai passata. Paura che se fossero venuti di nuovo mi avrebbero tolto Deborah». Sul personale calendario dall’inferno di Antonia Carassi c’è una data precisa in cui la donna pensa di non aver scelta e firma un patto tacito con sua figlia. In questa vita di botte e maltrattamenti che ci è capitata in sorte noi non si separeranno mai. Antonia si pente di aver denunciato il marito che la picchia da ormai 15 anni tutti i giorni e decide che subire in silenzio era il prezzo da pagare. Deborah, invece, rinuncia ad andar via da casa, ritagliando su di sé la responsabilità di fare da argine alla violenza di quell’uomo. Mamma e figlia reggono assieme fino a domenica scorsa, quando la 19enne causa la morte di Lorenzo Sciacquatori, suo padre, per salvare la madre. Il verbale della donna in procura e le informazioni raccolte dai carabinieri raccontano molto altro della vita nell’appartamento di via Aldo Moro a Monterotondo. Antonia porta avanti da sola la casa. Economicamente, nella gestione quotidiana, nell’educazione pressoché esclusiva data, con successo, all’unica figlia. E lo fa lavorando anche 10 ore al giorno, per sette euro l’ora, pulendo le case degli altri nel paese alle porte di Roma. Un’entrata appena sufficiente a tirare avanti assieme a quello che riesce a guadagnare la figlia nel bar dove va qualche pomeriggio e con i 500euro di pensione civile della nonna Maria, mamma del marito, ormai quasi cieca e bisognosa di cure. Ma anche di essere difesa, pure lei, dai maltrattamenti di suo figlio. Più che padre, marito e figlio, il 41enne è però «un padrone» e come tale vuole essere trattato. «Ci ha sempre considerato come sua proprietà — dice Antonia, includendo Deborah e la suocera — e quando viene qualcuno a trovarci, suoi amici o parenti, lo faceva notare. “Prendimi le sigarette, vai a cucinare, stai zitta”, mi diceva. E bastava niente perché alzasse le mani. Ma Lorenzo non era cattivo». Questa frase, che sembra incredibile visti i 20 anni di angherie, Antonia la ripete convinta. «Sì, aveva un animo buono, ma era vittima di alcol e droga — spiega al procuratore capo di Tivoli, Francesco Menditto — Io volevo salvarlo, pensavo di potercela fare». Lei e il marito sono coetanei. Si conoscono da adolescenti, si sposano a neanche 20 anni e ancora giovanissimi hanno Deborah. La sua nascita è un primo spartiacque nella vita dell’uomo, che comincia a diventare violento quando è ancora neonata. «I primi pugni nella schiena, mentre allattavo, ancora me li ricordo», dice Antonia. Poi, nel 2002, la morte del padre, lo manda fuori controllo. La moglie subisce, si stringe a Deborah, la fa crescere come meglio non sarebbe possibile. Ne fa una ragazza responsabile, rispettosa, un modello per come va bene a scuola. «Ha sempre avuto grande dignità. Qualche giorno non usciva di casa e capivamo che non voleva far vedere i suoi lividi», dice di Antonia una donna del palazzo di fronte. Lei non si lamenta neanche più. Rassegnata come la figlia. L’unico aiuto arriva da Nadia, sorella del marito, che interviene, come anche domenica scorsa, nelle emergenze più grandi. Al funerale di Lorenzo, Deborah e Antonia non ci sono. «Le ho convinte io a non andare per proteggersi da questa attenzione», dice l’avvocato della ragazza, Sara Proietti, che in via informale difende anche sua mamma e le tiene lontane dai riflettori. Nel settembre del 2014 la dedizione e la resistenza di Antonia vacillano. Si decide ad andare dai carabinieri che mettono in conto al marito anche i precedenti per rissa, rapina, resistenza. Per qualche mese l’uomo finisce in carcere e quando esce, a marzo 2015, sembra essere cambiato. Ma è un’illusione. I pestaggi riprendono, quotidiani. «Pretendeva di avere rapporti, io accettavo per paura delle sue reazioni. Dicevo, meglio a me che a Deborah o Maria», racconta Antonia. Che ancora protegge sua figlia: «È successo per colpa mia, lei non voleva ucciderlo». Gli inquirenti la descrivono come disperata ma incapace di rompere, talmente sottomessa da dirsi dispiaciuta ma non sollevata ora che tutto è finito. E sottolineano anche che, oggi più che mai, quella donna così forte ha bisogno di aiuto. E di un lavoro per riprendere a vivere.

Applausi al funerali  del padre violento ucciso dalla figlia: «Sei  un grande». Pubblicato giovedì, 23 maggio 2019 violento. Gli amici: «eri un grande» da Rinaldo Frignani su Corriere.it. «Lorenzo!». Applausi e campane a morto giovedì pomeriggio a Monterotondo all’uscita del feretro di Lorenzo Sciacquatori, il 41enne ucciso domenica scorsa dalla figlia Deborah, ora in libertà accusata di eccesso colposo di legittima difesa. I funerali del padre sono stati celebrati da padre John Josef, sacerdote indiano, nella parrocchia di Santa Maria Vergine del Carmine in piazza San Michele davanti a circa 200 persone. Non c’erano la figlia Deborah, né la compagna di Sciacquatori, che dopo la liberazione della ragazza si sono trasferite a casa di una parente in provincia di Chieti. Il parroco ha parlato nell’omelia di perdono senza scendere però in particolari o ulteriori commenti sulla vicenda. Momenti di tensione fra alcuni parenti e rappresentanti dei media presenti in chiesa. Due cameraman sono stati allontanati dai ragazzi che hanno poi portato fuori a spalla il feretro. All’inizio della cerimonia in chiesa c’era la nonna di Deborah, madre di Lorenzo, non vedente da due mesi a causa di un’ischemia e costretta sulla sedia a rotelle. La donna è stata però accompagnata fuori dalla chiesa dai parenti dopo pochi minuti e riportata a casa. L’anziana era stata aggredita all’alba di domenica proprio dal figlio durante un tentativo di fuga dalla sua abitazione in via Aldo Moro insieme con la nipote e la madre di quest’ultima, Antonia Carrassi, prima che la giovane intervenisse con un coltello per bloccare il genitore poi morto proprio a causa di un fendente alla testa. L’uomo, ritenuto violento anche dai carabinieri che lo avevano arrestato nel 2014 per resistenza a pubblico ufficiale e prima ancora per maltrattamenti in famiglia dopo la denuncia della compagna, era deceduto in ospedale pochi minuti più tardi.

L’ultimo abbraccio di Deborah: “Papà perdonami, non volevo”. Monterotondo, il racconto della ragazza che ha ucciso il padre violento per difendere la mamma e la nonna. “Ho preso il coltello per difesa: volevo solo che ci facesse andare via e che si calmasse”. Tornerà libera. Maria Elena Vincenzi il 21 maggio 2019 su La Repubblica. "Papà, papà. Perdonami, papà, non volevo. Non mi lasciare, papà, io ti voglio bene". Il padre che, piano piano, si spegne e lei che lo tiene tra le braccia nell'androne di una palazzo popolare a Monterotondo Scalo, alle porte di Roma. La dinamica ancora non è chiara. Non si sa se sia stato un pugno o una coltellata a uccidere Lorenzo Sciacquatori, 41 anni, disoccupato e con precedenti. Quello che si sa è che è stata sua figlia Deborah, 19 anni, e una brevissima vita vissuta diversamente da come dovrebbe essere alla sua età. È drammatico e sincero il verbale reso ai pubblici ministeri di Tivoli e ai carabinieri di Monterotondo che non hanno alcun dubbio sulla ricostruzione della giovanissima. Non ha cercato di scagionarsi, di alleggerire la sua posizione. Piange e non si dà pace Deborah per quello che è successo. Oggi, probabilmente, tornerà libera: era stata messa ai domiciliari domenica sera dopo il fatto con l'accusa di omicidio. Stamattina verranno formalizzate le contestazioni, probabilmente rimarrà solo l'eccesso colposo. E il procuratore Francesco Menditto e il pm Filippo Guerra nei prossimi giorni valuteranno se ci sono gli estremi per la legittima difesa: ma bisogna aspettare gli esiti dell'autopsia e di una serie di riscontri. Nel suo lungo racconto la studentessa modello che stava preparando la maturità, ha ripercorso quegli anni di violenza. Verso sua mamma Antonia, principalmente, ma anche verso di lei e verso la nonna paterna che abitava con loro. "Quando papà tornava a casa ubriaco, mi preoccupavo soprattutto per nonna, a maggior ragione da quando era stata operata, un mese fa. Tra di noi è la più fragile, ci vede male, non volevo che lui le facesse del male". E così è andata domenica, quando il padre, alle 5 del mattino, ha iniziato a tirare calci alla porta per entrare. Aveva passato la notte fuori, era ubriaco. "Se l'è presa con mamma. Urlava come un pazzo, ci insultava. Io ho preso nonna e ci siamo chiuse in una stanza per un po', aspettando che si calmasse". Ma l'uomo era fuori di sé. "A un certo punto, abbiamo deciso di andarcene. Io ero terrorizzata. Prima di uscire, per difendere mamma e nonna, ho afferrato un coltello dalla cucina. Non volevo ucciderlo, non volevo fargli del male. L'ho preso per difesa: volevo solo che ci facesse andare via e che si calmasse". Ma il padre non sentiva ragioni. Le ha seguite per le scale e, poi, di nuovo, nell'androne del palazzo ha iniziato a tirare pugni in faccia a mamma Antonia. Poi si è diretto verso la sua anziana madre e sua figlia. E a quel punto Deborah, boxeuse come lui, ha deciso di bloccarlo: "Non volevo facesse male a nonna, avevo paura che l'avrebbe ammazzata". Fatica la giovane a ricostruire i secondi successivi. C'è stata una colluttazione. Tutto quello che sa è che, pochi secondi dopo, si è accorta che il padre stava male. Lorenzo Sciacquatori si è accasciato a terra. Sua figlia ha cercato di soccorrerlo. Quando ha realizzato quello che stava accadendo, ha iniziato a piangere, gli ha chiesto perdono. Gli ha urlato che non voleva finisse così. E gli ha detto quello che provava, nonostante la vita alla quale lui l'aveva condannata sin da bambina. "Gli ho detto che gli volevo bene, che non volevo morisse. Che avevo bisogno di lui perché nonostante tutto lo amavo. Era imperfetto, ma era pur sempre mio padre". E quando sono arrivati i soccorsi, l'hanno trovata così: in lacrime, con il il volto di suo padre tra le mani.

·         Le Boss dei Casamonica.

“LE DONNE BOSS DEI CASAMONICA? PIÙ VIOLENTE DEGLI UOMINI”. Michela Allegri per “il Messaggero” il 16 aprile 2019. Più violente dei mariti, dei compagni, dei fratelli. Hanno preso in mano il clan dopo gli arresti della scorsa estate, quando 37 affiliati della famiglia mafiosa Casamonica sono finiti in carcere. E loro, le donne del clan, sono diventate, all' occorrenza, vere e proprie boss. Hanno continuato a vessare commercianti, a prestare soldi a interessi usurari, a minacciare. A riscuotere il denaro che serviva per sostenere le spese giudiziarie dei familiari detenuti. Ieri, la Dda di Roma ha inflitto un altro duro colpo alla famiglia Sinti «arroccata nella parte sud-est della Capitale, con roccaforte a Porta Furba e nella zona Appio-Tuscolano», si legge nell' ordinanza di custodia cautelare. Un clan che, sottolinea il gip Gaspare Sturzo, «terrorizza gli abitanti e li induce all' omertà». Altre 23 persone sono state arrestate. Otto sono già detenute, come il capoclan Giuseppe Casamonica, detto Bìtalo, Massimiliano, soprannominato Ciufalo, e Rocky. In manette pure esponenti delle famiglie Spada e Di Silvio. Ma ci sono anche sette donne, appunto. In carcere sono finite Celeste, detta Paparella, Lauretta, Liliana, Rosaria, Gelsomina Di Silvio e Concetta Morelli, detta Lilli. Giacomina Casamonica - Stella, per gli amici - è invece ai domiciliari. Dalla nuova ordinanza emerge il ruolo centrale di tutte loro nel clan: violente come e più degli uomini, andavano in prima persona a minacciare, estorcere denaro. Tenevano i conti e gestivano gli affari del gruppo grazie alle direttive impartite dai detenuti durante i colloqui in carcere. Anche grazie a loro, per il gip, il clan sinti ha dimostrato «straordinaria capacità criminosa» e ha messo in atto una vera e propria «sfida allo Stato» arrivando addirittura a rioccupare l' abitazione in vicolo di Porta Furba - confiscata - dove aveva il suo quartier generale il boss Giuseppe Casamonica. Un gesto di sprezzo di cui è protagonista Asia Sara Casamonica, nuora di Giuseppe, ora sottoposta all' obbligo di dimora: ha forzato la serratura e ha anche riattivato l' utenza telefonica fissa. Lauretta Casamonica, invece, insieme al fratello Luciano, ha costretto un commerciante a consegnarle una parure di gioielli per onorare un debito inesistente. E quando Luciano è stato arrestato, ha preteso altri soldi, «facendo leva sulla forza di intimidazione derivante dalla appartenenza alla famiglia ed evidenziando che la somma sarebbe servita per sovvenzionare la carcerazione del fratello», sottolinea il gip. «Se tu denunci ne arrestano uno, due di noi, ma ne restano sempre cento», ha detto un' altra indagata, intercettata. Liliana, invece, ha minacciato un' estetista che mesi prima era entrata in società con lei. Quando il centro è fallito, l' indagata ha preteso la restituzione della quota di apertura: «Questo è il sudore di mio fratello, lui sta dentro a pagare dieci anni, questi sono soldi suoi e me li devi dare», ha detto. Lilli, invece, è la moglie di Rocco Casamonica. Teneva la contabilità del marito, che prestava soldi a strozzo ed estorceva denaro.«Devo sentire mia moglie - diceva lui intercettato - se mia moglie mi dice una piotta, due piotte». Per il gip, i comportamenti del clan sono «un chiaro messaggio allo Stato e ai cittadini romani». Dimostrano la «volontà di continuare a imporre, sebbene ferita, la propria prepotenza mafiosa». L' indagine «Gramigna bis», condotta dai carabinieri di Frascati e coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dal pm Giovanni Musarò, è il secondo step dell' inchiesta che nel luglio scorso ha portato alla retata che aveva decapitato il clan della Romanina. Sono almeno cinque le nuove vittime che, nonostante il terrore, hanno deciso di raccontare le violenze subite. Le accuse vanno, a seconda delle posizioni, dall' estorsione all' usura, dall' intestazione fittizia di beni allo spaccio di droga. Reati commessi, spesso, con l' aggravante del metodo mafioso. Ieri, nelle abitazioni degli indagati, i carabinieri hanno trovato beni per almeno 400mila euro, che sono stati sequestrati, insieme a ville e gioielli. Per l' accusa, sono il provento di attività illecite, portate avanti anche grazie alle amicizie «importanti» del clan, come confermato dal pentito di ndrangheta Roberto Furuli: «Hanno rapporti anche con importanti famiglie di ndrangheta, fra cui i Piromalli di Gioia Tauro».

·         «Vota Garibaldi», la scritta storica cancellata dall’Ufficio decoro.

Comunista 92enne cancella il murale di De Rossi: ''Pensavo fosse di Casapound''. Risolto il mistero del murale dedicato a De Rossi ad Ostia, cancellato dopo qualche ora. Un comunista 92enne ha coperto il dipinto pensando fosse opera di Casapound. Antonio Prisco, Venerdì 10/05/2019, su Il Giornale. Daniele De Rossi viene immortalato su un muro di Ostia da un'artista di strada, ma il dipinto dedicato al capitano della Roma è durato soltanto il tempo di qualche ora. La confusione tra fede calcistica e idee politiche a volte può giocare brutti scherzi, come dimostra quanto accaduto nelle prime ore del mattino ad Ostia. E' il curioso caso del murale dedicato a De Rossi, un tributo alla bandiera giallorossa nella strada della località sul litorale romano, dove il calciatore è nato e cresciuto, con precisione tra via delle Baleniere e via delle Aleutine. Ebbene il dipinto, opera di un'artista di strada che raffigurava l'immagine del giocatore con la maglia di quest'anno corredata dalla scritta ''Vanto di Ostia, simbolo di Roma'', con la parola ''Lazio'' cancellata è durato soltanto il tempo di una notte. Un vero giallo, che aveva fatto subito pensare male attribuendo il gesto ai cugini della Lazio. Nel pomeriggio però il mistero è stato risolto come riporta il sito IlFaroonline.it. A coprire il dipinto non è stato un tifoso laziale ma un inquilino del palazzo sovrastante. L'uomo 92enne, da sempre di fede comunista si è giustificato sostenendo che riteneva che il dipinto fosse stato opera di Casapound.

«Vota Garibaldi», la scritta storica cancellata dall’Ufficio decoro. Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 su Corriere.it. Una scritta storica scambiata per il gesto di un vandalo e ricoperta di vernice gialla dall’ufficio decoro del Comune. Succede a Roma, nel quartiere Garbatella, dove una traccia del voto del 1948, lasciata a testimonianza di un momento fondamentale della storia del nostro Paese, è stata brutalmente cancellata per una «svista» dei solerti operai del Comune. La segnalazione, con tanto di foto a corredo, arriva dall’organizzazione romana no profit Casetta Rossa, che sdegnata scrive su Facebook: «Questa scritta è un pezzo di storia preziosa del nostro quartiere. È stata restaurata dalle Istituzioni municipali nel 2014. Era in via Basilio Brollo. “Vota Garibaldi Lista N°1”. Faceva riferimento alle elezioni politiche italiane del 1948, quando Partito Comunista Italiano e Partito Socialista Italiano si presentarono in una lista unica, denominata Fronte Democratico Popolare, avente come simbolo il volto di Garibaldi. Era una scritta fatta nel 1948. Ed era tra le testimonianze murarie più vecchie della città. Il Decoro Urbano del Comune di Roma l’ha cancellata. Così come se nulla fosse. In questo modo muore una città. Seppellendo le sue storie. L’unica promessa che ci sentiamo di fare è che le disseppelliremo. Ovunque». 

La scritta era stata anche fatta restaurare dall’allora presidente dell’VIII Municipio Massimiliano Smeriglio, che denuncia l’incidente e ricorda che accanto c’era una targa che raccontava del restauro. «Una città è fatta di storie, di tracce, di segni del passato. Chi non sa riconoscere l’identità di un luogo non può governarlo», scrive Smeriglio. «Non ci arrendiamo alla superficialità di chi non sa vedere e apprezzare la storia popolare di Roma - ha continuato Smeriglio - Faremo di tutto per ripristinare quella testimonianza. Lo dobbiamo ai nostri nonni che con tanta passione si impegnavano per la loro comunità». Il municipio è stato retto da un commissario per un anno e tre mesi (dal marzo del 2017 al giugno del 2018, dopo che il presidente M5S Paolo Pace era stato costretto a dimettersi per contrasti interni alla giunta. L’anno scorso a giugno le nuove elezioni hanno portato all’elezione di Amedeo Ciaccheri, di centrosinistra.

Povera Garbatella, l’hanno cancellata! Sparisce “Vota Garibaldi”, la scritta più antica di Roma; così il decoro si trasforma in vandalismo, scrive Daniele Zaccaria il 14 Marzo 2019 su Il Dubbio. Stava lì da 71 anni, era la scritta più antica a campeggiare sui muri di Roma, praticamente un reperto archeologico: “Vota Garibaldi, Lista N. 1”. L’avevano vergata a via Basilio Brollo (quartiere storico della Garbatella) i militanti del Fronte popolare durante la campagna elettorale del 1948 che li vedeva opposti alla Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi. All’epoca la coalizione tra socialisti e comunisti scelse come simbolo proprio il volto di Giuseppe Garibaldi. Erano strafavoriti ma, allora non esistevano i sondaggi e alla fine vennero travolti da una valanga di voti moderati, dalla maggioranza silenziosa che, impaurita dal “pericolo rosso”, affidò allo scudo crociato il timone della nave repubblicana. Da ieri quella scritta non c’è più, due braccia nerborute dell’ “Ufficio di coordinamento per il decoro urbano” (Simu), regia unica Virgina Raggi. L’hanno sepolta con un tratto di vernice giallognola, un gesto grossolano quanto inconsapevole. E dire che nel corso degli anni era stata restaurata, l’ultima volta nel 2004 dai docenti e dagli allievi della scuola comunale “Arti Ornamentali”. E le avevano persino affiancato una targa commemorativa proprio per segnalare che non si trattava di una normale scritta di strada. Per gli abitanti della Garbatella poi era parte del paesaggio come i vecchi lotti, le sette chiese o il teatro Palladium, e, per intere generazioni, anche un luogo di appuntamento: «Ci vediamo sotto la scritta di Garibaldi!». Per quanto sembri assurdo è probabile che chi l’ha cancellata non volesse offendere la memoria di nessuno, che quello sfregio non sia stato un gesto politico, ma solamente il riflesso condizionato di chi non sa distinguere un murale di bassa lega da un cimelio storico. Un po’ come quei turisti oversize in calzoncini corti che banchettano tra i monumenti delle città d’arte e poggiano le loro chiappone sulle rovine dei parchi archeologici, sporcando e deteriorando tutto ciò che incontrano. Mica lo fanno apposta, che colpa ne hanno se ai loro occhi un anfiteatro romano gli appare come uno stadio di football solo un po’ più decrepito? Un errore in buona fede, ma in molti casi la buonafede è un’aggravante. E in questo genere letterario la giunta capitolina non sembra davvero avere rivali. L’ottusa ideologia del “decoro” non può quindi che inciampare goffamente nel suo opposto: il vandalico. E cosa c’è di più vandalico della distruzione di un reperto storico? In questo gioco dei rovesci si intravede tutta la violenza della mentalità piccolo borghese che, in nome della decenza, calpesta senza cognizione un patrimonio che appartiene a tutti. L’ignoranza della storia dei luoghi da parte di chi crede di amministrare una metropoli stratificata e millenaria come se fosse il sindaco di Cernusco sul Naviglio non può che produrre questi esiti grotteschi. E così parti lancia in resta pensando di essere qualcuno che ha veramente a cuore l’arte e la bellezza della tua città e finisci per ritrovarti a essere un hooligan a tua insaputa.

·         Carcere di Viterbo manesco.

Carcere di Viterbo, un agente in tv: «Se ci scappa lo schiaffo, ben venga». Ed è polemica, scrive Damiano Aliprandi il 3 Marzo 2019 su Il Dubbio. Il caso del carcere di Viterbo approda in tv , al programma “Popolo Sovrano” di Raidue, a distanza esatta di un mese, quando i suicidi e i presunti pestaggi giunsero in Parlamento grazie all’interrogazione parlamentare di Riccardo Magi di + Europa, dopo le inchieste de “Il Dubbio”. Giovedì sera è approdato il caso del carcere di Viterbo al programma “Popolo Sovrano” di Raidue. Approda a distanza esatta di un mese, quando giunse in Parlamento grazie all’interrogazione parlamentare di Riccardo Magi di + Europa dopo le inchieste de Il Dubbio proprio sui suicidi e presunti pestaggi nel carcere di Viterbo. La trasmissione si apre con la storia dell’impiccagione di Andrea Di Nino, una vicenda oscura che, come raccontato su Il Dubbio, è sotto la lente di ingrandimento della magistratura. I vicini di cella avrebbero chiesto agli agenti di intervenire dopo che il detenuto, in stato di forte agitazione, aveva urlato che si sarebbe suicidato, ma gli agenti avrebbero sottovalutato il problema e sarebbero ritornati dopo due ore, quando oramai il ragazzo era morto con il cappio ricavato dal lenzuolo. Un ragazzo che non sarebbe dovuto stare nemmeno in isolamento, visto i suoi problemi di incompatibilità. L’altro caso riguarda Giuseppe De Felice, il 31 enne ristretto nel carcere di Viterbo, il quale sarebbe stato picchiato selvaggiamente dagli agenti penitenziari. La vicenda se ne occupata nell’immediato l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. “Popolo Sovrano” ha intervistato la moglie, che ha denunciato l’accaduto come già riportato in esclusiva su Il Dubbio. Il ragazzo non ha potuto riconoscere i suoi presunti aguzzini, perché l’avrebbero picchiato da dietro. Durante il servizio sono state sentite le testimonianze di alcuni ex detenuti che avrebbero subito pestaggi nel carcere viterbese. «Un inferno in terra – dice l’uomo a volto coperto -, perché lì i detenuti vengono trattati in modo abominevole fisicamente e psicologicamente». Poi segue la storia di Hassan Sharaf, un egiziano di 21 anni che avrebbe finito di scontare la pena il 9 settembre, ma è stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore. Come già riportato su Il Dubbio, il ragazzo, durante la visita di una delegazione del Garante regionale dei detenuti, mostrò all’avvocata Simona Filippi alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima. Il Garante Anastasia – come ha ribadito nell’intervista tv – ha presentato un esposto sulla vicenda di Hassan, che aveva riferito al garante di avere «molta paura di morire». Purtroppo, come denunciò Antigone, il ragazzo nemmeno sarebbe dovuto stare nel carcere ordinario, ma in quello minorile. A Popolo Sovrano è intervenuto anche Alessandro Capriccioli, il capogruppo di + Europa Radicali al consiglio regionale del Lazio. Come sappiamo, dopo aver appreso della denuncia da parte della moglie di De Felice riportata da Il Dubbio, è giunto a far visita al ragazzo per verificare le sue condizioni. In trasmissione ha ricordato come molto spesso ha raccolto varie testimonianze dai detenuti rinchiusi nel carcere di Viterbo dove si evince come questo istituto sembrerebbe “punitivo”, anziché riabilitativo come prevede la Costituzione. La trasmissione si conclude con l’intervista di un poliziotto sindacalista in servizio a Viterbo. La giornalista gli chiede qual è il limite tra il consentito e l’abuso. L’agente risponde: «Il limite non lo stabilisce nessuno. Se ci scappa lo schiaffo di correzione, ben venga». Alla domanda che cosa intende per schiaffo, risponde: «Per fargli capire che cos’è la vita, perché magari sono quegli schiaffi che non hanno preso dai genitori!». Il Sappe, dopo queste dichiarazioni, ha preso subito le distanze. «Rappresentiamo il Corpo di polizia Penitenziaria – sottolinea il sindacato -, un corpo sano, ligio al proprio fine istituzionale e rispettoso della legalità. Chiunque dichiari o parli di pratiche non consentite o addirittura illecite non è in linea con il nostro mandato e tanto meno può essere da noi rappresentato. Ci dissociamo in maniera netta, chiara e decisa da quanto dichiarato a mezzo stampa dal rappresentante sindacale di Viterbo durante l’intervista andata in onda nel programma di Rai 2 “Popolo Sovrano” di giovedì 28 febbraio. Un rappresentante della Polizia Penitenziaria non può ammettere l’uso di mezzi o modalità non previste dall’ordinamento penitenziario o dalla legge in generale. Anzi – dichiara il Sappe – deve denunciare, se a conoscenza, tali procedure alle autorità di riferimento in primis all’autorità dirigente dell’istituto. Non si può pensare – conclude- che chi dovrebbe tutelare il personale con il solo modo a disposizione, la legge, sia consapevolmente coinvolto in pratiche illegali».

·         Roma non è ingovernabile.

Veltroni e gli anni  da sindaco: Roma non è ingovernabile. L'estratto Pubblicato domenica, 02 giugno 2019 da  Paolo Conti su Corriere.it. Per mettere a fuoco il senso del nuovo libro di Walter Veltroni, Roma. Storie per ritrovare la mia città, scritto con Claudio Novelli per Rizzoli, è bene partire da ciò che, nelle intenzioni dell’autore, il volume non vuole essere: un’ipotetica ricandidatura a sindaco della Capitale, magari proprio ora che il Pd è tornato il primo partito romano dopo il crollo del M5S alle elezioni europee per l’oggettivo fallimento dei quasi tre anni di giunta Raggi: «Questo libro non nasce dal proposito di “tornare”. In quell’ufficio, che ho lasciato un giorno di undici anni fa con il groppo alla gola, ci devono essere, ci saranno persone nuove. Che abbiano a cuore Roma e non se stesse». «Roma. Storie per ritrovare la mia città» di Walter Veltroni, con Claudio Novelli (prefazioni di Renzo Piano, Gigi Proietti e Matteo Zuppi, pp. 400, euro 19)Le ragioni, a lettura finita, sembrano sostanzialmente tre. Sfatare il mito della ingovernabilità di Roma («non ci ho mai creduto»). Ricostruire un’esperienza amministrativa «per un dovere nei confronti della nostra memoria collettiva». E infine, o soprattutto, il motivo politicamente più rilevante destinato al «nuovo ceto politico al quale guardo con rispetto»: l’unico difetto che Veltroni non sopporta di loro è «l’idea dei nuovi potenti di essere sempre l’anno zero di ogni cosa, di dover dimostrare che prima del loro arrivo tutto era un disastro». L’anno zero, il mantra ripetuto all’infinito dalla giunta Raggi dall’insediamento: «Perché è scomodo e difficile accettare onestamente il contrario e parametrarsi al meglio. Così sono nate le assurde fake news sul bilancio che hanno consentito di tornare a fare ciò che viene assai più facile progettare: aumentare spesa corrente e assumere persone. Un autentico inganno dei cittadini». Da queste spinte nasce la ricostruzione degli «anni veltroniani» nel contesto «di un quindicennio di cambiamenti profondi, di buon governo, di ruolo nazionale e internazionale» firmato in tandem con Francesco Rutelli. Insomma il «modello Roma», citato ai tempi anche dalla stampa internazionale, quando la città, dice Veltroni citando i «suoi» anni, «cresceva tre volte più della media nazionale e l’occupazione lo stesso, 10,3 contro 3,8. Il 78% dei cittadini sentiva di stare bene nella città e l’88% dei giovani tra i 18 e 24 anni dichiarava nel 2005 di vivere bene a Roma». Un riepilogo «non di autoelogi, non di autocertificazioni ma di cifre con dati incontestabili e fonti indicate». 

Walter Veltroni (Roma, 1955) è stato direttore de «l’Unità», vicepresidente del Consiglio, sindaco di Roma (2001-08), segretario del Pd, candidato premier nel 2008 Veltroni procede per temi. La chiusura dell’immenso mercato all’aperto di piazza Vittorio, la riqualificazione di un’area corrosa dal degrado, le pedonalizzazioni del Tridente e di piazza di Spagna, il recupero di san Cosimato, l’apertura del nuovo Auditorium dopo mille difficoltà, l’apertura del Festival delle Letterature, la Festa del Cinema, il Don Giovanni di Mozart in piazza del Popolo. Veltroni batte molto sulla cultura: «So che questa parola spinge molti a “metter mano alla pistola”. Ma la cultura è un potente agente di ricucitura della città, e per Roma è il più forte traino di crescita della cultura diffusa, del lavoro, dell’economia urbana». E poi le ruspe contro l’abusivismo, la bonifica di Tor di Nona da una banda stanziale, la riqualificazione delle ville storiche, la città che regge alla massa di fedeli per i funerali di Giovanni Paolo II, il lavoro sulle periferie (le demolizioni dei Ponti al Laurentino 38) e il puntiglioso capitolo sul bilancio (destinato implicitamente alla giunta Raggi). E naturalmente tantissimo altro, fino all’addio commosso al Campidoglio. Il libro farà discutere, e il dibattito farà comunque bene a una Roma oggi in profondissima crisi.

·         E il deficit del Campidoglio divenne un buco nero.

E il deficit del Campidoglio divenne un buco nero. Scrive Paolo Delgado il 24 Aprile 2019 su Il Dubbio. La storia del “debito capitale”. La voragine nelle casse del Comune di Roma è iniziata con le Olimpiadi del 1960. Tutte le amministrazioni che si sono succedute – di destra, di centro e di sinistra – hanno contribuito a far lievitare i costi del Campidoglio. Il debito di Roma, quello che fa tremare il governo, è come le buche della Capitale, gli alberi che ti crollano a un cm dalla testa nella Città eterna, gli autobus che s’incendiano per autocombustione, le scale mobili della metropolitana che sembrano uscite da un film di sci- fi e risucchiano i passeggeri, la spazzatura che scompare al mattino, dopo giorni d’attesa, per ricomparire più maleolente di prima a sera: e’ un buco nero, una giungla nella quale ci si può addentrare solo se forniti di machete. Una terra di nessuno, anche, perché di chi sia la colpa nessuno sa dirlo con esattezza. Un paio d’anni fa una ricerca dimostrò che per il 43% delle posizioni debitorie presenti nell’archivio informatico del Comune di Roma era impossibile risalire al creditore. La sola certezza è che il debito sta lì, cresce con la velocità di un mostruoso blob e schiaccia una città già in ginocchio. Quando è cominciata? Si va per ipotesi e suggestioni. Forse con gli espropri per le Olimpiadi del 1960, ancora parzialmente da saldare. Quattro anni dopo, sindaco Glauco Della Porta, Dc, il rosso era a 400 mln più 180 di opere pubbliche accantonate: «Servono comprensione da parte dello Stato e mezzi di finanzia straordinaria», commentò il primo cittadino. Comprensione e straordinarietà non bastarono: con l’amministrazione del sindaco Dc Clelio Darida, primi anni ‘70, il debito sfonda nel primo biennio della sua amministrazione quota 1000 mld, poi corre fino ai 2600 mld a fine esperienza. «La situazione non è grave: è disperata», chiosa il sindaco uscente. Le successive amministrazioni di sinistra brillano per molti versi. Non sul fronte dell’indebitamento, che arriva a 5000 mld e passa. La nuova era, quella dei sindaci eletti direttamente, inizia nel 1993 con Francesco Rutelli, che usufruisce del cospicuo finanziamento per il Giubileo: 3.550 mld di lire. Un mld e passa entra poi con la cessione del 49% di Acea ai privati: Caltagirone e la francese Suez. Il giornalista del Sole/ 24 Ore Gianni Dragoni, che ha tentato di esplorare la foresta del debito di Roma in una celebre inchiesta del 2015, ce l’ha messa tutta per calcolare con precisione l’impennata del debito nell’era Rutelli. Senza davvero riuscirci: mancano i dati del bilancio sino al 1997. Secondo i conti del quotidiano, comunque, il debito doveva aggirarsi sui 3,5 mld di euro, lievitati a 5,93 quando a fine 2000 il sindaco lasciò in anticipo la carica. Il buco, all’epoca, era rappresentato essenzialmente dai trasporti, Atac e Cotral, che da soli si mangiavano 3.600 mld di lire sui 9mila complessivi di debito prima del passaggio all’euro. Molti commentatori e analisti fanno risalire al sindaco Veltroni e alla sua esigenza di fare della Capitale una vetrina per il suo nascente Pd il salto del quadro clinico da grave a disperato. In termini di innalzamento del debito non sembrerebbe essere così. L’impennata è anzi decisamente inferiore a quella registrata dal predecessore: un mld di euro in più rispetto all’aumento di 2,31 mld della gestione Rutelli. La nota dolente sono i derivati: 9 contratti a tassi all’epoca nella media rivelatisi poi altissimi con impegno di restituzione integrale nel 2048. In soldoni: 1,4 mld ricevuti in prestito, 3,6 mld alla restituzione. Il colpo di spugna risolutivo sarebbe dovuto arrivare con l’elezione di Gianni Alemanno. Nacque allora la gestione commissariale, una bad bank che prendeva in carico l’intero debito pregresso sino all’elezione di Alemanno nell’aprile 2008, con restituzione coperta da 500 mln di euro ogni anno, 300 a carico dello Stato, cioè della fiscalità generale, 200 a carico del Comune di Roma, da cui l’aumento inevitabile dell’Irpef nella Capitale: l’aliquota più alta d’Italia. Il debito di Roma si ridusse così per magia a soli 1.028 mln. Alemanno, nominato commissario, aveva inoltre il potere di decidere cosa far precipitare nel del debito pregresso: nel 2010 ‘ scaricò’ altri 644,2 mln di euro nella gestione commissariale. Già ma a quanto ammontava il debito pregresso? Mai conteggio fu più difficile, raramente altrettanto ballerino. I calcoli in 2 anni passano da circa 9,5mld valutati nel 2008 a 12,2 mld nel 2010 scesi quattro mesi dopo a 10 mld. E’ questa la cifra ufficiale, stabilita dal commissario subentrato ad Alemanno, il montiano Varazzani: 10,6 mld ridotti nel 2014 a 7,44 mld grazie a pagamenti e incassi vari. Va da sé che, appena varata la gestione commissariale, il debito ha ripreso a correre, soprattutto nell’era Alemanno. Se i debiti finanziari verranno presi in carico dal Tesoro, come nel progetto detto ‘ Salva Roma’, resteranno 3 mld di debiti commerciali. La ristrutturazione del debito pregresso attualmente in discussione viene chiamata Salva Roma, ma M5S, che la ha messa a punto, preferisce definirla Salva Italia, mentre per la Lega è Salva Raggi. Tutte e tre le definizioni sono giustificate. L’operazione consiste nel passaggio del debito dalla bad bank al Tesoro, che potrebbe così facilmente rinegoziare gli interessi altissimi, pari al 5,34%, concordati da Veltroni e dal suo assessore al Bilancio Marco Causi. Per lo Stato non ci sarebbe aggravio, dato che i versamenti alla gestione commissariale si ridurrebbero, in misura identica e potrebbe anzi esserci risparmio per i contribuenti tutti: ecco perché i 5S parlano di ‘ Salva Italia’. Per l’attuale commissario al debito di Roma Beltrami evaporerebbe lo spettro di una catastrofica crisi di liquidità a partire dal 20122: di conseguenza sarebbe davvero un ‘ Salva Roma’. Infine ritrovarsi solo col debito commerciale, che potrebbe risultare più che compensati dai 300 mln statali e dai 200 del comune degli anni scorsi, sarebbe un toccasana per la sindaca Potrebbe addirittura scapparci un taglietto all’Irpef poco prima delle elezioni. Trattasi davvero anche di un ‘ Salva Raggi’, dunque. Proprio quest’ultimo aspetto è quello che la Lega intende bloccare.

·         I Disservizi di Roma.

Incidenti, sangue e degrado: l'inferno alle porte di Roma. La Pontina, che collega Roma a Terracina, è una delle strade più pericolose d'Italia: una vera emergenza quotidiana. Luca Annovi, Domenica 27/10/2019, su Il Giornale. 132 incidenti di cui 2 con esito mortale. 130 feriti, 60 persone denunciate per guida sotto uso di sostanze psicotrope o alcoliche nei primi sette mesi del 2019, con un trend in preoccupante crescita. Sono i numeri allarmanti dell’arteria tra le più pericolose d’Italia: la Strada Statale 148 Pontina, che collega Roma a Terracina. Cifre registrate dal prezioso e quotidiano operato degli uomini del Comandante Massimiliano Corradini, a capo del distaccamento della polizia stradale di Aprilia. Un’emergenza che si ripete ogni giorno, dovuta alla pericolosità dell’arteria, all’enorme mole di traffico diurno e notturno ma soprattutto al mancato rispetto del Codice della Strada. Uno scenario allarmante di rilevanza nazionale. Nonostante a partire da gennaio 2019 l’Anas abbia intrapreso la messa in sicurezza dell’arteria, il trend degli incidenti è sempre in aumento, anche se è diminuito il tasso di mortalità. Tra i fenomeni più preoccupanti, la distrazione, che è la prima causa di incidente, in particolar modo per l’uso dei cellulari alla guida, seguito dalla elevata diffusione tra i conducenti dell’alcolemia e della droga, elemento che trova conferma anche nelle ore notturne, in cui l’operato delle pattuglie del Distaccamento di Aprilia è ancor più complesso: “Nella fase notturna troviamo meno afflusso di traffico, – ricorda il comandante Corradini – però troviamo più traffico commerciale, quindi le pattuglie che effettuano il turno notturno hanno il compito di controllare i mezzi pesanti e di conseguenza la capacità di guida dei conducenti professionali. Effettuiamo controlli per alcol e droga e molte volte troviamo camionisti positivi. Noi spesso siamo impegnati nei servizi per le cosiddette "stragi del sabato sera", in cui purtroppo rileviamo che l’età dei ragazzi che assumono sostanze alcoliche è sempre più bassa: troviamo positivi già i diciottenni neopatentati”. A questo grave problema si aggiunge la negligenza verso il rispetto delle regole tra le più semplici e fondamentali del Codice della strada, come il mancato rispetto dei limiti di velocità, l’utilizzo delle cinture di sicurezza o la manutenzione del proprio veicolo: sempre nei primi nove mesi del 2019, sono stati circa 500 i verbali effettuati per mancanza di revisione e circa 300 invece i veicoli sequestrati per mancanza di polizza assicurativa. Da segnalare poi la pericolosità del tratto che attraversa Castel Romano, nei pressi del campo Rom: ”Abbiamo effettuato diversi interventi in quel tratto – ricorda il comandante Corradini – e per la maggior parte delle volte li abbiamo risolti perché abbiamo proceduto anche all’arresto ed alla denuncia in stato di libertà di alcuni abitanti del campo nomadi che lanciavano letteralmente frigoriferi, sassi e altri oggetti di ogni genere sulla Pontina per far sì che le persone si fermassero o comunque solo per il gusto di danneggiare i veicoli”. Altro elemento che contraddistingue in negativo la SS 148 è l’utilizzo come discarica delle numerose piazzole di sosta lungo l’arteria: “In questi giorni – ricorda il Comandante – inizierà la pulizia massiccia di tutte le aree di servizio e verranno poi approntati dei sistemi di videosorveglianza per cogliere in flagranza quelle persone che vanno lì e buttano rifiuti di ogni genere”. A questo ennesimo problema si aggiunge la mancanza della corsia d’emergenza, che rende ovviamente difficile il passaggio delle pattuglie in caso di intervento qualora il traffico sia congestionato. “L’obiettivo della Polizia Stradale è quello di portare al minimo l’incidentalità mortale sulle strade. Noi lo facciamo tutti i giorni, con questo Distaccamento di Aprilia che è operativo h24 – ricorda il comandante Massimiliano Corradini - ma quello che chiediamo è di evitare al massimo le distrazioni, di moderare la velocità e di utilizzare sempre la cintura di sicurezza”.

Roma, è emergenza pure nei cimiteri: "Un mese per una cremazione". Ama non riesce a far fronte all'aumento della domanda per le cremazioni e le salme stazionano nei cimiteri anche un mese in attesa della sepoltura. E il Verano è abbandonato al degrado tra furti e incursioni dei senzatetto. Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Sabato 26/10/2019, su Il Giornale. I problemi di Ama, la municipalizzata dei rifiuti capitolina, non riguardano soltanto l’immondizia ma anche la gestione dei cimiteri. Ormai anche avere una degna sepoltura, nella Capitale dei disservizi, è diventata un’impresa, se non un lusso. Per essere cremati, infatti, le attese possono arrivare fino a un mese, mentre dare un ultimo saluto ai propri cari è possibile solo a fronte del pagamento di una tassa. “La chiamano la stanza del commiato, paghi 255 euro per assistere alla cremazione”, ci spiega Silvana, che a luglio ha perso il fratello Toni. “È una speculazione sul dolore delle persone – commenta – ma questo è il minimo”. Per cremare la salma dell’uomo, venuto a mancare lo scorso 18 luglio, Silvana e la sua famiglia hanno dovuto attendere giorni e giorni. “Non ci hanno fatto sapere nulla per settimane, così il 10 agosto sono andata all’Ama e mi hanno risposto che avevano messo il corpo di mio fratello tra le salme sconosciute, mentre noi avevamo già pagato in contanti per il funerale, la cremazione e la tumulazione”, racconta. Solo dopo aver versato di nuovo la somma - che Silvana si è fatta restituire dall’agenzia di pompe funebri - direttamente agli uffici dell’Ama, il corpo di Toni ha potuto accedere alla cremazione. Ben 28 giorni dopo la morte. “Abbiamo vissuto un incubo, non hai neanche il tempo di elaborare il lutto – denuncia – che devi metterti a combattere con la burocrazia”. Il problema, ci spiega il vicepresidente dell’Assemblea Capitolina, Francesco Figliomeni, è che gli impianti attuali possono sopperire a un massimo di 7mila cremazioni l’anno, mentre oggi le richieste sono quadruplicate. “I sei impianti distribuiti nelle necropoli romane non riescono a soddisfare la domanda, che è salita a 30mila persone, e il risultato sono attese infinite e situazioni a dir poco spiacevoli”. “Lasciare un cadavere abbandonato per mesi – osserva l’esponente di Fratelli d’Italia – può comportare anche la perdita di sostanze organiche, sono cose che in un Paese civile non sono tollerabili”. Tra le soluzioni prospettate in un dossier di Ama per risolvere il congestionamento degli impianti c’è quella di appoggiarsi alle strutture di altre città, costruire nuovi cimiteri o addirittura mettere un limite alle cremazioni. “Nessuna di queste proposte, però, è stata portata avanti – continua Figliomeni – complice il bilancio di Ama che è in rosso”. “In queste situazioni il fatto di dover attendere significa rinnovare il dolore ogni giorno”, conclude il consigliere comunale che sul degrado generale dei cimiteri ha presentato anche un esposto alla procura della Repubblica. A fronte degli esborsi continui per le tasse cimiteriali più care d’Italia, infatti, i servizi offerti sono a dir poco inadeguati. Barriere architettoniche, sporcizia, guano, buche, radici sporgenti e scarsa sicurezza. “Da quando hanno sepolto Toni mio padre non è mai potuto venire a deporre neppure un fiore”, accusa Silvana. A impedirglielo, infatti, ci sono quattro piani di scale. Un ostacolo enorme per un uomo di ottant’anni costretto su una sedia a rotelle. “Ci avevano promesso che a breve sarebbe stato installato un ascensore”, ci spiega. Ma il montacarichi non è mai arrivato. Nel frattempo, le palazzine che ospitano i loculi sono in balìa del degrado. Tanto che qualche settimana fa in una delle tombe del Pincetto, al Verano, è stato scoperto addirittura un chilo di cocaina, nascosto assieme a una pistola e relative munizioni. “Quando si viene al cimitero bisogna guardarsi continuamente le spalle”, denuncia Fiorenza, che qui ha la tomba di famiglia. I furti, e non solo quelli degli oggetti lasciati sulle tombe, sono all’ordine del giorno. All’interno l’acqua stagnante attira sciami di zanzare, e sono decine le aree transennate. “Considerando che per queste strutture si paga un canone di affitto giornaliero, tanto vale investire nei lavori di manutenzione, si risparmierebbe”, considera Figliomeni. All’interno del cimitero poi, è un continuo introdursi di sbandati e senzatetto. La vigilanza non è sufficiente, è il coro unanime di chi frequenta questi luoghi. “I clochard si lavano e fanno i bisogni nei bagni messi a disposizione dall’Ama lasciandoli in condizioni disastrose”, segnala il consigliere comunale. Mentre usciamo dall’ingresso del Verano, la scena che vediamo è surreale: un gruppo di rom sta lavando i panni all’interno della fontana sulla piazza. Uno di loro si fa addirittura la barba. Nell’aiuola poco distante una persona dorme contornata dall’immondizia. “Sono anni che abitano qui”, ci dice un dipendente del Comune allargando le braccia sconsolato.

LA GRANDE MONNEZZA. Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 9 luglio 2019. La storia stucchevole dei rifiuti che strangolano Roma ha strangolato anche noi che viviamo, per fortuna, in città evolute e civili. Ogni giorno in tv e sui giornali assistiamo a uno scempio: la capitale, la più bella del mondo da sempre, è sepolta da porcherie maleodoranti e non c' è verso di ripulirla. Le colpe di questo scandalo ricadono sulla sindaca Raggi, che non sarà un fulmine di guerra, però sarebbe troppo pretendere da lei iniziative miracolistiche. Cosa potrebbe fare, lei povera anima, di fronte a una montagna di monnezza in gran parte ereditata dai suoi predecessori in Campidoglio? A me i grillini non sono simpatici perché incompetenti e pasticcioni, ma trovo ingiusto accanirsi sull' ultimo anello della pattumiera. Virginia è una signora perbene che fa male poiché non potrebbe agire meglio nella situazione in cui si trova, un vero e proprio caos provocato non da lei, bensì da precedenti amministrazioni insensibili ai problemi romani. Che sono appunto vecchi come il Cucco. Infatti in tutto il Nord si è trovato il modo per distruggere o riciclare gli avanzi della civiltà dei consumi. Sono stati costruiti, Brescia insegna, fior di termovalorizzatori che azzerano le schifezze gettate dagli uomini. Cosicché il Settentrione ora è pulito come una clinica svizzera. Ovvio, il pattume qui viene eliminato con procedimenti scientifici che non producono inquinamento. Mentre nel Centro e nel Mezzogiorno le popolazioni si ostinano a inviare ogni loro sozzeria in Germania o nel Settentrione, temendo di essere avvelenati da fumi tossici in casa propria. Questo è un pregiudizio alimentato da una mentalità medievale: se una cosa fa schifo la rifilo al mio vicino così conservo la salute. Ragionamento da idioti che purtroppo ha adottato anche miss Raggi dicendo di non desiderare né discariche né bruciatori tecnologicamente avanzati. Mi domando. Tertium? Che propone quale alternativa? Non le resta che raccomandare ai romani di nascondere la spazzatura sotto il letto e di affogare in essa. Qualsiasi Paese europeo si è dotato di termovalorizzatori, esattamente come la Lombardia, per citare una regione più degna del Lazio, e non bussa alle porte di altre nazioni per sistemare i casi propri in materia di sporcizia da neutralizzare. Quindi, cara Raggi, si rassegni: o lei e i suoi cittadini si decidono a regolarsi da soli per non vivere nella merda, tra topi giganti e gabbiani da combattimento, oppure sarete condannati a contendervi il territorio con animali non da salotto. Vedo un rischio: che lei diventi una patata fritta e sia costretta a friggere pure i suoi simili.

Marco Travaglio per "il Fatto Quotidiano” il 9 luglio 2019. Tale è la voluttà di gettare tutte le croci addosso a Virginia Raggi, anche quelle destinate ad altri, che ormai politici (anche dei 5 Stelle) e giornali negano persino l' evidenza. E cioè che lo smaltimento dei rifiuti della Capitale, come di tutte le città d' Italia, è competenza esclusiva della Regione. In questo caso, del Lazio governato da Nicola Zingaretti. E il principale problema dei rifiuti romani non è la raccolta, che in tempi normali faticosamente regge, nei limiti di una metropoli con quelle dimensioni, quei bilanci disastrati e quell' impatto turistico: ma è lo smaltimento. Per un motivo molto semplice: nel 2013, pressati da indagini giudiziarie, proteste popolari e una procedura d' infrazione Ue, il sindaco Ignazio Marino e il neogovernatore Nicola Zingaretti chiusero la fetentissima e inquinantissima discarica di Malagrotta, la più grande d' Europa (240 ettari), di proprietà del "re della monnezza" Manlio Cerroni: e fecero bene. Ma purtroppo si scordarono di decidere il sito alternativo con cui sostituirla per smaltirvi i rifiuti: e fecero male. Malissimo. Tant' è che Roma, a sei anni di distanza, paga ancora quella scelta (anzi non scelta) sciagurata: perchè non sa dove smaltire i suoi rifiuti. In questi sette anni le due giunte Zingaretti hanno accuratamente evitato di decidere il luogo della nuova discarica, per paura di scontrarsi con le popolazioni e le giunte dei comuni e prescelti (perlopiù targate Pd). Quindi se oggi, come sempre fin dai tempi di Marino, a ogni guasto, o incendio, o manutenzione di uno dei quattro impianti di Tmb che reggono a stento il trattamento dei rifiuti capitali, la città va in emergenza e i rifiuti si accumulano per le strade, il colpevole è uno solo: la giunta regionale Zingaretti. La Raggi ha altre colpe, anche in tema di rifiuti: aver cambiato tre assessori in tre anni (l' ottima Muraro, la troppo ideologica Montanari e ora se stessa) e tre amministratori dell' Ama (che finora, con 1 miliardo di buco, una flotta di mezzi utilizzabili solo al 55% e tassi di assenteismo da quarto mondo, non hanno saputo mettere ordine nella municipalizzata). Ma sullo smaltimento nulla poteva né può fare, perchè non è nelle sue competenze. Infatti da tre anni chiede un nuovo Piano rifiuti alla Regione. Invano. E dire che la giunta Zingaretti è stata messa due volte in mora da altrettante sentenze del Tar, nel 2016 e nel 2018, che le ordinano di "individuare la rete integrata ed adeguata di impianti di smaltimento rifiuti in ambito regionale" perchè "crearla spetta alla Regione e non allo Stato", e minacciano in caso di inerzia l' arrivo di "un Commissario ad acta" nominato dal prefetto. Niente da fare: tutto fermo. Il che rende ridicolo leggere che "la Regione commissaria la sindaca": l' unico ente che, sentenze alla mano, andrebbe commissariato è la Regione. Invece, stando ai media, pare che il problema sia che la Raggi ha fatto una gaffe in un video sui social: quello in cui dimostra che una delle aziende millantate dalla Regione come pronte ad aumentare la raccolta della monnezza romana, la Rida di Aprilia, era chiusa. Risposta della Regione: hai sbagliato azienda, quella non è la Rida. Invece è proprio la Rida, ripresa dal retro, visto che dall' ingresso principale la sindaca non l' han fatta entrare. Da tre giorni siti e giornaloni ripetono a fotocopia la fake news della "gaffe della sindaca che sbaglia ditta". Non sbaglia ditta e comunque non è certo quello il guaio di Roma. Che dipende da ben altri fattori, raccontati per filo e per segno da Vincenzo Bisbiglia sul nostro sito. Il ciclo dei rifiuti prevede tre fasi: raccolta (fase 1); trattamento (fase 2), con eventuale "trasbordo" provvisorio, cioè parcheggio in caso di difficoltà o ritardi del passaggio successivo) (fase 2-bis); e smaltimento (fase 3).

La 1 spetta al Comune (cioè all' Ama).

La 2 spetta alle società autorizzate dal Piano rifiuti regionale (in una mappa di "aree bianche" indicate da province o città metropolitane): i quattro impianti Tmb (trattamento meccanico biologico: due di Colari, l' ex gruppo di Cerroni ora commissariato dal tribunale, e due di Ama), che basterebbero a stento se fossero sempre tutti a pieno regime, invece sono troppo vecchi per non andare ogni tanto in tilt (al netto degl' incendi dolosi).

La 3 spetta agli impianti decisi dalla Regione: discariche e inceneritori. E proprio la 3 manca a Roma: dalla fine di Malagrotta, il ciclo dei rifiuti non si chiude. Discariche e inceneritori del Lazio sono troppo piccoli per smaltire le 4700 tonnellate di immondizia prodotte ogni giorno dai romani.

Servirebbe un nuovo Piano Rifiuti della Regione, che invece è ferma a quello del 2012 della Polverini, pre-chiusura di Malagrotta. Da allora la Regione s' è limitata ad aggiornarlo per redistribuire parte dei rifiuti romani in impianti già esistenti fuori Roma: nel Lazio, in altre regioni (Abruzzo, Veneto, Puglia, Emilia Romagna, Lombardia) e in altri Stati (Austria, Germania e Portogallo). Tutti accordi regionali costosissimi per la città: 50 milioni l' anno, pagati dai romani con la tassa rifiuti più alta d' Italia. Nel 2017 ha pure chiuso l' inceneritore di Colleferro. Intanto la differenziata, avviata da Alemanno e incrementata da Marino e Raggi, è arrivata al 45%: si può fare meglio (la sindaca ha annunciato nel 2017 un piano per portarla al 70% nel 2021: auguri), ma è già un discreto traguardo, che ha ridotto le tonnellate giornaliere da smaltire a 3mila. Ma il guaio non è la raccolta (fase 1): è il trattamento (fase 2) che spesso va in tilt, o per l' aumento dei rifiuti sotto Natale e a luglio, o per il blocco di uno o più Tmb (su quattro). E allora si tampona col trasbordo provvisorio (fase 2-bis), ma anche lì la Regione dorme: solo nel luglio 2018 ha autorizzato, fuori dai capannoni di Rocca Cencia e Salario, due aree scoperte dove appoggiare i rifiuti in attesa di trattarli. In ogni caso, manca da sei anni lo smaltimento in loco (fase 3). Nel 2018 la situazione precipita. Un incendio doloso devasta a marzo il Tmb di Rocca Cencia e un altro, a dicembre, distrugge completamente il Tmb di Salario. I cittadini esasperati bloccano anche i trasbordi all' aperto. Così, oltre alla 3, saltano anche le fasi 2 e 2-bis. La Raggi bandisce appalti per il trattamento, ma le gare vanno regolarmente deserte (l' Antitrust indaga su possibili cartelli fra operatori, interessati ad aggravare l' emergenza per tornare ai vecchi affidamenti diretti, aumma aumma). Chiede aiuto ad altre Regioni, che spesso rispondono picche. Si appella a Zingaretti perchè vari finalmente il Piano rifiuti, per cui a gennaio 2019 la Città Metropolitana ha consegnato alla Regione la lista delle "aree bianche" dei nuovi impianti. Invano. In vista del mese critico di luglio, tenta una proroga delle aree di trasbordo a Ponte Malnome e Saxa Rubra, ma gli abitanti si ribellano. Intanto, dei tre Tmb rimasti, i due di Colari annunciano in contemporanea un programma di manutenzione da giugno a settembre, col taglio della capienza giornaliera da 1250 tonnellate a 500. E il 31 luglio scadrà pure l' accordo Lazio-Abruzzo per il trasloco di parte dell' indifferenziato romano. É la tempesta perfetta. Il collo di bottiglia che sta strozzando la Capitale. Scrive Bisbiglia: "Dopo Pasqua le strade si riempiono di sacchetti, Ama raccoglie (con le sue difficoltà), ma non sa dove portare l' immondizia, la differenziata va in tilt fra i cittadini scoraggiati e i lavoratori sotto pressione". L'ennesima, prevedibilissima emergenza esplode col caldo e le puzze. Ma la giunta Zingaretti partorisce l' ennesimo topolino: un' ordinanza che ordina al Comune di acquistare subito 300 nuovi cassonetti (la città ne ha 52mila), non stanzia un euro e non decide nuovi impianti. Promette solo l' uso a pieno regime di quelli del Lazio, ma questa parte è scritta coi piedi (la ditta Rida, letta la prima versione, annuncia che non prenderà un grammo in più di monnezza e cambia idea solo dopo un' aggiunta posticcia: a proposito di "gaffe"). Qualcuno ciancia di nuovi inceneritori, come se non occorressero 7-8 anni per farne uno (e allora si spera che la differenziata in più lo renderà inutile). O di una nuova discarica (a Pian dell' Olmo o altrove), che però andrebbe varata. Da chi? Dalla Regione. Fra una grida manzoniana e l' altra, Zingaretti invita la Raggi a "vergognarsi". E lui quando si vergogna?

RATTO CAPITALE. Cecilia Gentile per “la Repubblica - Edizione Roma” il 28 giugno 2019. Il ventre della stazione Termini puzza di rifiuti marci. Ed è abitato da colonie di topi sempre più massicce. Residenti particolari che qui si trovano molto bene: hanno pappa pronta e rifugi sicuri. « Ormai non hanno più paura, compaiono a tutte le ore», raccontano gli operai. Siamo nei sotterranei della stazione, un mondo parallelo a quello dei viaggiatori che si muovono in superficie, con magazzini di merci varie, soprattutto derrate alimentari destinate al Mercato centrale posto ad altezza binari, con ingresso da via Giolitti, e ai vagoni ristoranti dei treni che vanno e vengono sui binari sovrastanti. Con i carrelli gli operai spostano e trasportano merci, e sempre più spesso vedono apparire topi che scorrazzano tra i cassonetti, che attraversano il corridoio da una parete all' altra, che addirittura si fermano in mezzo al tunnel, senza nessuna fretta di fuggire. Un assedio. Provocato dalle montagne di rifiuti organici che si accumulano intorno a tre miseri cassonetti con il coperchio marrone sistemati nel cunicolo "D", chiamato " Cappellini" dagli addetti ai lavori. In particolare all' altezza degli ascensori per i binari 9 e 10. Ogni giorno gli operai ingaggiano la loro battaglia per catturarli. Qualche volta ci riescono. Ma il più delle volte i risultati sono deludenti. Il problema è che questi rifiuti si accumulano senza che l' Ama passi con regolarità a ritirarli. Si arriva a montagne invereconde di pattume, poi la municipalizzata passa e il carosello ricomincia. Poco importa ai topi che ad un certo punto la pappa sparisca. Hanno capito come funziona: sanno che poi il cibo tornerà e resterà a disposizione a lungo. « Qui nessuno ha mai sanificato o bonificato - protestano gli operai allo stremo con questa lotta impari - I topi hanno a disposizione per i loro nascondigli tutti questi magazzini abbandonati da anni, dove loro si infilano indisturbati ». Andando avanti, alla fine del cunicolo, sulla destra si aprono i depositi degli alimenti destinati al Mercato centrale: formaggi, hamburger di Chianina, specialità siciliane. Ogni reparto è protetto da una rete fitta abbastanza da non far passare i topi. Ma in basso, a livello del pavimento, ci sono punti in cui la rete non aderisce perfettamente e si aprono insidiosi varchi. Ma perché i cassonetti per l' organico sono stati sistemati proprio là sotto? Eppure a poca distanza c' è un avviso che vieta di abbandonare i rifiuti. Evidentemente qualche problema ci può essere. Risalendo in superficie, oltre il binario 1, dove cominciano i binari bis, c' è l' area di raccolta rifiuti: un compattatore per gli indifferenziati, uno per i cartoni, uno per il legno e un altro per plastica e alluminio. L' Ama si occupa di indifferenziato e legno, l' azienda AVR di cartoni e plastica. Gli operai, dopo aver ritirato i rifiuti dai vari negozi sistemati nel complesso della stazione, lavorano incessantemente ad infilare i materiali nei compattatori, che a sera saranno sostituiti con compattatori vuoti, per ricominciare, il giorno dopo, la stessa operazione. A sinistra c' è anche una lunga serie di cassonetti per l' umido. Sono tutti vuoti. Sembrano nuovi. Ma perché i rifiuti organici non vengono conferiti qui? « Perché Ama non passa a raccogliere», è la risposta degli operai al lavoro sui compattatori. « Dunque - concludono - tanto vale buttare tutto nell' indifferenziato».

LA SCALA IMMOBILE. Massimo Gramellini per il “Corriere della sera” il 27 giugno 2019. La fermata Repubblica della metropolitana di Roma ha riaperto i battenti dopo appena 246 (duecentoquarantasei) giorni di riflessione. In questo breve ancorché significativo lasso di tempo in Cina avranno tirato su 246 grattacieli e Salvini e Di Maio si saranno lasciati e ripresi 246 volte. Alla fermata Repubblica della metropolitana di Roma, intanto, si lavorava. In modo riflessivo, senza lasciarsi travolgere dalla smania. Come gli storici ricorderanno, una scala mobile era andata in briciole. Si trattava di concedersi il tempo per aggiustarla. I cittadini romani, da veri stoici, hanno compreso e aspettato. Due giorni. Venti giorni. Duecento giorni. All' alba del duecentoquarantacinquesimo, hanno appreso che alle dieci in punto la stazione sarebbe stata riaperta al pubblico. Se solo non fosse spuntato a tradimento uno sciopero. Così l' evento è stato spostato alle cinque della sera. Incredulità e commozione un po' ovunque. Era stata anche preparata una torta, a tempo di record. Ma le Autorità hanno preferito rimandare la riapertura alle cinque e mezzo del mattino successivo, per una forma lodevole di ritrosia. Agli assonnati visitatori si è presentato uno spettacolo superbo. Le quattro scale mobili funzionanti al momento della chiusura continuavano imperterrite a funzionare. Mentre quella rotta continuava a essere rotta. Ma allora che cosa hanno fatto dentro quella stazione in questi otto mesi? Un po' di pazienza e lo sapremo. Se non noi, i nostri nipoti.

Lorenza De Cicco per “il Messaggero” il 27 giugno 2019. Gli operai finora non l'hanno nemmeno toccata, in otto mesi. È ancora lì, sfasciata e inutilizzabile come quella sera del 23 ottobre scorso, quando il rullo di metallo scivolò verso il basso a velocità folle, accartocciando le lamine e falciando le gambe dei tifosi del Cska in trasferta. Decine di feriti. L'incidente sui giornali di tutto il mondo. L'immagine del collasso Capitale. Otto mesi dopo e con oltre mezzo milione di euro già sborsato dall'Atac, la stazione della metro A in piazza della Repubblica ha riaperto, ieri mattina. Ma la rampa crollata è incredibilmente ancora fuori uso, come 247 giorni fa. Stesso discorso per l'impianto gemello che le sta affianco. Funzionano le altre 4 scale, quelle mai precipitate. E nemmeno il pannello con le bellezze di Roma tagliate dalla luce del tramonto - la magia dei Fori, la cupola di San Carlo al Corso - che l'Atac ha sistemato per nascondere alla vista la scala maledetta, riesce a coprire la vergogna dei ritardi. Incomprensibili, a pensare che una stazione centralissima, tra le più frequentate della Capitale, sia rimasta chiusa per 32 settimane di fila per una rampa collassata e che abbia riaperto, dopo tanti travagli, senza che quella scala sia stata aggiustata. Se non ci fosse il cartonato a coprire tutto, il rullo martoriato dopo 8 mesi di chiusura sarebbe la fotografia perfetta per raccontare il tormento che vivono i trasporti romani e allo stesso tempo l'odissea di una burocrazia paludosa e goffa, che prolunga i disagi oltre ogni immaginazione. Mettere in fila le date aiuta a ricostruire responsabilità ed errori (in attesa che venga ricostruita la scala...). Responsabilità del Campidoglio, dell'Atac, della ditta di manutenzione.

Primo flashback: la scala in questione - matricola 339 - era stata costruita nel 2009, per rimpiazzare quella installata nella stazione in occasione dell'apertura, nel 1980. In teoria la scala avrebbe dovuto reggere «fino al 2029». Cioè per altri dieci anni. Così prevedevano i tecnici dell'Atac. Invece è crollato tutto e ora la Procura indaga sulle falle della manutenzione. A occuparsene, fino a tre mesi fa, era un consorzio che metteva insieme un'impresa di Napoli con una ditta di Roma. L'appalto lo aveva assegnato a luglio 2017 la vecchia governance di Atac, scelta sempre da Virginia Raggi, nello specifico quella guidata dall'ex amministratore unico, Manuel Fantasia. Un ingegnere nucleare, prima nominato e poi scaricato dai grillini a settembre 2017. Il consorzio di Napoli aveva sbaragliato la concorrenza con un maxi-ribasso del 49,7%. E arriviamo al 23 ottobre scorso. Il crollo della rampa 339. Dopo l'incidente, i pm hanno sequestrato tutto. Ma già il 27 novembre, dopo un mese, avevano ordinato il «dissequestro parziale». Tradotto: a parte la rampa crollata e quella di fianco (i sigilli saranno tolti il 28 marzo), sulle altre 4 si poteva lavorare già da quasi sette mesi. Atac all'inizio ha ordinato una serie di controlli, puntando a riaprire per metà gennaio. Ma la situazione, invece di migliorare, si è aggravata, fino alla grottesca conseguenza che per un mese intero il centro di Roma non ha avuto una stazione del metrò aperta. Come negli anni 80. All'Atac ci si accorge che il problema è serio durante le «prove di carico» del 10 e 11 gennaio. Durante i collaudi, altre due scale di Repubblica non reggono. «Il disco freno non era idoneo», scopre la società comunale. Un mese e mezzo dopo, il 27 febbraio, Atac chiede allora al consorzio della manutenzione di riparare «con urgenza» tutte le scale. E di accollarsi i costi, compresa la fabbricazione dei pezzi mancanti, ormai fuori produzione. Il consorzio a marzo risponde picche. E così l'Atac decide di stracciare il contratto. Nel frattempo la vicenda ha preso una piega surreale: è precipitata un'altra scala a Barberini - stazione ancora parzialmente sequestrata - e anche Spagna ha dovuto chiudere per un mese, avendo impianti uguali. Passa altro tempo. Siamo ad aprile. La municipalizzata mette a bilancio 1 milione e 265mila euro solo per le scale. A oggi ne sono stati già spesi 543mila, senza contare l'Iva. Ma i due contratti applicativi, prima per la metro di Spagna, poi per Repubblica, incredibilmente non hanno mai riguardato la rampa distrutta otto mesi fa. Cioè l'innesco di tutto. Lo confermano le carte sugli appalti pubblicate dall'Atac. Nell'ultimo provvedimento del 16 maggio scorso, c'è scritto che la scala con la matricola 339 farà parte di «ulteriori contratti applicativi». Si è scelto di procedere sulle altre 4 scale, spiegano dalla partecipata, per fare prima. Perché ripararle sarebbe stato meno complicato. Un paradosso, a pensare che ci sono voluti sette (sette) mesi, togliendo il mese del sequestro. Per la scala precipitata si è ancora in una fase di «verifica», poi arriverà una «relazione tecnica», poi ancora si procederà coi lavori. Tempi? Incerti, naturalmente.

Scale mobili rotte in 27 stazioni della metro: incubo per i turisti. Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Erica Dellapasqua su Corriere.it. Proprio nelle giornate in cui, finalmente, i dati turistici parlano di una ripresa, la città e i suoi servizi, la metropolitana in particolare, segnano i record più negativi di sempre. Con le tre stazioni centrali chiuse e disagi praticamente in tutte le altre fermate della linea A, della linea B e della «nuova» linea C. Anche ieri, infatti, Atac ha segnalato scale mobili e ascensori guasti sull’intera rete. Un disservizio e una figuraccia davanti ai turisti che probabilmente già sanno – ne hanno parlato anche i media esteri – dell’incredibile vicenda delle stazioni più centrali chiuse per i guasti alle scale mobili. Che peccato, che occasione sprecata – pensano anche i negozianti e gli albergatori – agli occhi dei turisti. Proprio quest’anno che, come ha voluto sottolineare l’assessore capitolino al Turismo Carlo Cafarotti, i dati dell’Ente bilaterale del turismo sarebbero incoraggianti: rispetto allo stesso periodo del 2018, aumentano del 4,34% gli arrivi (circa 369 mila unità) e del 3,36% le presenze (954 mila unità). «Risultati senz’altro positivi – ha commentato – la cui portata va comunque analizzata in termini di qualità e non di quantità». Però. Sugli autobus, e giù nella metropolitana, la qualità - in questo caso dei servizi - non si vede. Ieri, per esempio, assieme a Repubblica, Spagna e Barberini completamente chiuse, molte altre stazioni hanno avuto problemi di accessibilità. Sulla linea A ascensori, montascale o scale mobili fuori uso a Subaugusta, Numidio Quadrato, Re di Roma, San Giovanni, Manzoni, Flaminio - qui tutte le scale mobili sono rotte, la stazione, l’unica ancora in funzione in centro, sarebbe già chiusa come le altre tre se non avesse l’alternativa delle scale fisse – e poi a Cipro e Valle Aurelia. Disastrosa anche la situazione sulla linea B: guasti sono stati segnalati a Ponte Mammolo, Pietralata, Tiburtina, Castro Pretorio, Policlinico, Cavour, Colosseo, Circo Massimo, Piramide, Garbatella, Basilica San Paolo, Magliana, Laurentina e Annibaliano. E infine metro C (Centocelle e Grotte Celoni) e Roma-Lido (Castel Fusano, Colombo e Vitinia). La manutenzione degli impianti mobili, in seguito alla rescissione del contratto con la ditta Metro Roma (che comunque in questa fase di passaggio continua a garantire il servizio), sarà riassegnata a brevissimo a un’altra impresa, molto probabilmente la Schindler che già lavora – paradosso – proprio come subappaltatore di Metro Roma. La speranza, però, è che le cose vadano meglio.

I 70 bus presi a noleggio da Tel Aviv a Roma sono inutilizzabili. Pubblicato venerdì, 19 aprile 2019 da Erica Dellapasqua su Corriere.it. I nuovi bus israeliani, 70, che avrebbero dovuto dare ossigeno a un trasporto pubblico sempre più insufficiente, fermi nei depositi perché – in effetti ammette anche Atac – sono Euro 5, e non Euro 6, e non possono essere reimmatricolati. La denuncia è della consigliera Pd Ilaria Piccolo, che ripercorre la storia dell’inizio: «I 70 bus annunciati dalla sindaca Virginia Raggi - dice la consigliera - presi a noleggio da Atac dopo dieci anni di onorato servizio a Tel Aviv, in Israele, sono bloccati nei depositi di Salerno e di Roma e rischierebbero di non poter mai entrare in servizio». Il problema, spiega ancora la Piccolo, è che «per i veicoli datati 2008 all’arrivo in Europa scatta la procedura di reimmatricolazione: ma in questo caso, essendo i bus Euro 5 e non Euro 6, una nuova immatricolazione violerebbe le direttive comunitarie». Un danno, i «nuovi» autobus bianchi fermi mentre fuori, in strada, ce ne sarebbe assoluto bisogno, che riguarda il servizio offerto ma anche le casse dell’azienda perché, precisa la consigliera dem, l’incredibile vicenda ha anche ricadute economiche: «Per questi mezzi l’Atac ha già versato ai fornitori un anticipo pari al 16% dell’importo - il costo per il nolo, manutenzione compresa, è di circa 500mila euro al mese – perciò lo stop è un danno anche per il Comune: la sindaca Raggi e l’assessora Meleo vengano in Aula a spiegare quello che si prefigura come l’ennesimo danno perpetrato nei confronti di Roma e dei suoi cittadini». I bus sarebbero bloccati, adesso, nei depositi tra Roma e Salerno. Quanto basta per scatenare i blogger che fin dall’inizio avevano ironizzato sulla loro provenienza, Tel Aviv appunto. Mercurio Viaggiatore, tra i più ferrati in fatto di trasporto locale, rilancia subito la notizia su Twitter: «Non possono essere immatricolati perché non rispettano requisiti antinquinamento, ma è già stato pagato il 16% a titolo di acconto, in corso incontri con la Motorizzazione! Nulla da dire Enrico Stefàno e Linda Meleo?». Atac, comunque, fa sapere che del caso ora si sta occupando il fornitore: «L’azienda non corre alcun rischio economico per la fornitura – spiega la municipalizzata -. I corrispettivi finora versati al noleggiatore sono infatti coperti da specifica polizza di garanzia. Relativamente all’immatricolazione delle vetture a noleggio, il fornitore sta provvedendo, a sua propria cura e onere, alla finalizzazione di quanto necessario per mettere in strada le vetture come previsto dal contratto». Ancora non ci sono certezze, però, sul momento in cui i bus israeliani potranno circolare in città.

·         Tutti i segreti della Raggi.

Papa Francesco, gli incontri in gran segreto con Virginia Raggi: la confidenza sbagliata del sindaco M5s. Libero Quotidiano il 31 Ottobre 2019. Sicuri che Papa Francesco non faccia politica? Il retroscena scodellato da Il Messaggero è piuttosto clamoroso: il quotidiano capitolino infatti dà conto dei frequenti, e segreti, incontri tra il Pontefice e Virginia Raggi, il sindaco grillino di Roma. "Papa Francesco? È la mia guida spirituale", ha confidato ai suoi fedelissimi, a cui ha raccontato di un "rapporto speciale" col Pontefice. Fatto di cui in pubblico non aveva mai parlato. Incontri al di fuori delle visite istituzionali, segreti appunto, oltre a lunghe telefonate. Peccato che la confidenza abbia viaggiato di bocca in bocca, fuori dal Comune e dritta dritta sulle pagine de Il Messaggero. E il quotidiano fa notare come in una fase come questa, col M5s spaccato sulla Raggi e le elezioni all'orizzonte, l'appoggio del Santo Padre potrebbe avere molto peso "negli ambienti che contano".

Simone Canettieri per “il Messaggero” il 31 ottobre 2019. «Papa Francesco? È la mia guida spirituale». Virginia Raggi in pubblico, davanti ai taccuini, non ne parla mai. Ma quando si rilassa, magari lontana dal Campidoglio, racconta in libertà del suo «rapporto speciale» con il Pontefice. Una frequentazione assidua che esce dai protocolli e dalle visite istituzionali per nutrirsi di incontri segreti e lunghe telefonate. Raggi sembra molto gelosa di questo filo diretto: come regola ha dato ai suoi collaboratori di non parlarne mai. Al contrario suo, però. Visto che questa santa confidenza inizia a correre di bocca in bocca, dentro e fuori il Comune, soprattutto con l'approssimarsi della sfida elettorale che vede la grillina pronta a ricandidarsi. Tanto che in questa fase - con il M5S diviso sull'operato della sindaca e con pezzi di società civile che le hanno voltato le spalle, a partire dai sindacati - l'appoggio del Santo Padre potrebbe diventare negli ambienti che contano motivo di forza (e di vanto). Il rischio di un incidente diplomatico, certo, è dietro l'angolo. Basti ricordare che dopo sei mesi di governo M5S della Capitale, gennaio 2017, all'allora assessore Adriano Meloni scappò questa notizia: la volontà del Papa di pagare l'Imu sugli immobili commerciali della Chiesa. «Virginia glielo ha chiesto direttamente - disse a questo giornale - e lui si è dimostrato disponibile». La sindaca, il giorno dopo, andò su tutte le furie. E riprese pubblicamente Meloni, che ora non c'è più, volato nello iperspazio dei mille assessori cambiati dalla pentastellata in tre anni. Magari anche per questa leggerezza. «Virginia Bergoglio», la chiamano scherzando i pochi eletti che sono a conoscenza di questo segreto. Niente di nuovo: prima di Raggi c'è stato un altro sindaco che per un lungo periodo ebbe (ostentandolo) un legame con Papa Francesco. Esatto: proprio Ignazio Marino. Anche se il chirurgo dem finì, suo malgrado, schiacciato mediaticamente da una mitologica frase pronunciata da Bergoglio sul volo di ritorno dal Congresso mondiale delle famiglie di Philadelfia: «Io non ho invitato il sindaco Marino, chiaro? E neppure gli organizzatori, ai quali l'ho chiesto, lo hanno invitato. Si professa cattolico, è venuto spontaneamente». Un pasticcio che non portò bene a Marino, che dopo un mese venne sfiduciato dai suoi consiglieri (non per questo motivo, va detto, ma anche sulla scia di un frontale del genere). Ora in Campidoglio c'è una donna capace di avere da subito un feeling particolare con il pontefice. «La sua guida spirituale», anche alla luce di tutti i momenti complicati che ha dovuto passare finora alla guida della città. Un motivo di forza che le fa superare qualsiasi mediazione con le gerarchie intermedie del Vaticano. Ieri, per esempio, al grande convegno per ricordare i 100 anni della nascita di San Giovanni Paolo II che si è svolto in Campidoglio - alla presenza tra gli altri, dell'arcivescovo Agostino Marchetto e del cardinale Angelo Comastri - Raggi non si è presentata. Nonostante fosse attesa per il saluto istituzionale. Un'assenza che non è passata inosservata. E giustificata, con un pizzico di malizia, proprio dal «rapporto speciale tra Virginia e Francesco che è solidissimo e diretto». Eppure le curve della recente storia cittadina dovrebbero aver insegnato altro.

Raggi e gli hacker, l'Ordine degli avvocati segnalò che era morosa. Pubblicato mercoledì, 8 maggio 2019 da Corriere.it. Quote di iscrizione non pagate. Il difensore d’ufficio che la informa della sua nomina. L’attivista che si candida a prendere il posto di Raffaele Marra, il giorno stesso in cui l’allora capo del Personale del Comune viene arrestato. L’ex console aspirante assessore. Sul blog di Anonymous Italia, gruppo di hacker informatici anarchici, che martedì ha pubblicato gli account di 30 mila avvocati iscritti all’Ordine di Roma, spuntano anche le email di posta certificata della sindaca Virginia Raggi: messaggi tra i quali emerge il sollecito da parte dell’amministrazione dell’organo professionale al saldo delle quote di iscrizione «che non ci risultano versate» relativamente agli anni 2017 e 2018 per un totale di 290 euro. In serata la prima cittadina twitta: «Gravissima violazione della privacy nei miei confronti e dei miei colleghi dell’ordine degli avvocati di Roma», senza chiarire se il contributo sia stato versato o meno. È la seconda volta che le informazioni private della sindaca vengono violate: a settembre 2018 l’hacker Rogue_0 si infiltra nella piattaforma Rousseau e diffonde il suo numero di cellulare e il vecchio indirizzo di posta elettronica, quello con il nickname «flabellina», un coloratissimo mollusco, che la prima cittadina usava per interagire con un gruppo di acquisto solidale di frutta e verdura. In quella circostanza Raggi denunciò il reato in questura e non è escluso che lo faccia anche stavolta. Tra le mail diffuse in Rete anche quella inviata a Raggi, e in copia all’ex presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito ora in carcere per corruzione nell’inchiesta sullo stadio della Roma e all’allora vicesindaco Daniele Frongia, da Riccardo Palmieri, attivista del M5S Firenze, che il 16 dicembre 2016, giorno dell’arresto di Marra, invia la sua candidatura spontanea per responsabile del Personale «con disponibilità immediata». Lo stesso giorno arriva un’altra proposta per un incarico da assessore: si tratta di Augusto Vaccaro, cavaliere della Repubblica, ex console a Porto Alegre, in Brasile, e a Spalato, in Croazia. Oltre ad alcuni inviti a eventi tematici sul blockchain, finisce online anche il messaggio del difensore d’ufficio Francesco Arienzo: l’avvocato informa la sindaca che il gip ha accolto l’esposto di Francesco Sanvitto del Tavolo della libera urbanistica contro l’archiviazione dell’indagine a suo carico per presunto abuso d’ufficio nella vicenda stadio. «A Sua disposizione per l’eventuale assistenza professionale», si conclude l’email. Raggi, però, continuerà ad affidarsi ai suoi legali Alessandro Mancori ed Emiliano Fasulo.

Rifiuti, Virginia Raggi: «Modifica il bilancio». Ma il manager dice di no e viene licenziato. Le frasi-choc della sindaca finite nelle indagini su Ama della Procura di Roma. Pressioni del Campidoglio sull'ad dell'azienda Lorenzo Bagnacani: «Devi modificare i conti. Punto. Anche se i miei uomini ti dicono che la luna è piatta». E ammette: «La città è fuori controllo, i romani vedono la merda, se aumento la Tari, la mettono a ferro e fuoco». Emiliano Fittipaldi il 18 aprile 2019 su L'Espresso. A Roma la guerra della monnezza è senza quartiere. Si combatte nelle piazze e nelle strade, che una ricerca dell’Eurostat certifica come le più sporche d’Europa. Dentro i palazzi del potere, dove i nemici dell’amministrazione pentastellata, Matteo Salvini in primis, usano «i topi» e «il degrado mai visto prima» come armi da campagna elettorale. Si combatte negli impianti dell’Ama del Salario e di Rocca Cencia, andati a fuoco per cause misteriose nei mesi scorsi. Ma oggi il fronte che preoccupa di più Virginia Raggi e il suo cerchio magico è quello di Piazzale Clodio, sede della procura della Capitale. Se è noto che i magistrati hanno iscritto nel registro degli indagati alcuni alti dirigenti del Comune e il direttore generale del Campidoglio Franco Giampaoletti, L’Espresso ha scoperto che l’ex presidente e ad dell’Ama Lorenzo Bagnacani, che è stato licenziato in tronco dalla Raggi a febbraio, qualche giorno fa ha spedito ai pm un nuovo esposto, dove accusa la sindaca in persona. La Raggi, scrive Bagnacani ai pm, avrebbe infatti esercitato «pressioni» indebite su di lui e sull’intero cda dell’azienda, «finalizzate a determinare la chiusura del bilancio dell’Ama in passivo, mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali». Secondo quest’accusa, in sintesi, la sindaca avrebbe spinto il manager a togliere dall’attivo dell’azienda (il bilancio era in utile per oltre mezzo milione di euro, un dato di poco inferiore rispetto a quello dell’anno precedente) «crediti che invece erano certi, liquidi ed esigibili», con l’unico obiettivo - sostiene Bagnacani - di portare i conti di Ama in rosso. Un’accusa grave e molto simile a quella che l’ex direttrice del dipartimento Rosalba Matassa ha lanciato contro Giampaoletti, attuale braccio destro della sindaca ora indagato per tentata concussione. Virginia Raggi: «Roma è fuori controllo». Ecco gli audio finiti in procura nell'inchiesta su Ama. L'esposto di Bagnacani, ex ad dell'azienda dei rifiuti poi licenziato: «La sindaca ci ha fatto pressioni per chiudere il bilancio in rosso». Depositati registrazioni e chat. La grillina: «I romani si affacciano e vedono la merda». E al manager sui conti: «Devi fare quello che ti diciamo, anche se ti dicono che la luna è piatta». L'inchiesta esclusiva sulle pressioni del Campidoglio. La rilevanza penale della vicenda è ancora tutta da dimostrare. Ma è un fatto che la storia rischia di creare più di un grattacapo alla sindaca. Anche perché Bagnacani a fine marzo ha allegato, insieme all’esposto, alcune registrazioni contenenti colloqui tra lui, Virginia Raggi e altri dirigenti comunali, oltre a centinaia di conversazioni a due fatte con la sindaca su Telegram e WhatsApp. L’Espresso le ha lette e ha ascoltato anche altri file acquisiti dalla Guardia di Finanza. Negli audio la Raggi parla al suo amministratore con tono assertivo («Lorenzo, devi modificare il bilancio come chiede il socio... se il socio ti chiede di fare una modifica la devi fare!») e appare prona agli input degli uomini della sua struttura tecnica, composta da fedelissimi come l’allora Ragioniere generale Luigi Botteghi (anche lui indagato per tentata concussione), il dg Giampaoletti e il super assessore al Bilancio e alle Partecipate, il potente Gianni Lemmetti. Così, al numero uno dell’Ama Bagnacani che le spiega come lui si sentirebbe in grande difficoltà a modificare il bilancio davanti a motivazioni «squalificate», la Raggi gli ordina secco: «Se tu lo devi cambiare comunque, lo devi cambiare. Punto. Anche se loro dicono che la luna è piatta». La conversazione registrata tra la sindaca di Roma che fa pressioni a Lorenzo Bagnacani per modificare il bilancio Ama. L'inchiesta esclusiva di Emiliano Fittipaldi. Le registrazioni svelano una sindaca inedita. Che, pur di far cambiare idea al suo amministratore delegato, arriva a promettergli un prestito in favore di Ama da ben 205 milioni di euro («così ti levi dalle palle le banche»). E che, spazientita, dice che Roma «è praticamente fuori controllo», «i sindacati fanno quel cazzo che vogliono», e la Tari, la tassa sui rifiuti, non può essere aumentata perché «i romani oggi si affacciano e vedono la merda».

La conversazione registrata tra la sindaca di Roma che fa pressioni a Lorenzo Bagnacani per modificare il bilancio Ama.L'inchiesta esclusiva di Emiliano Fittipaldi.

LA BATTAGLIA DEI LOCULI. Ma com’è possibile che una diatriba contabile su una posta minore abbia portato la Raggi e i suoi uomini a cacciare l’ennesimo cda della società pubblica più delicata della città? Come mai la partita su loculi e tombe, che vale appena il 2 per cento dei ricavi complessivi di Ama (che superano gli 807 milioni) ha convinto la sindaca grillina a mettere a rischio la continuità aziendale di un’azienda che ha oltre ottomila dipendenti e ad affrontare dimissioni eccellenti come quella di Pinuccia Montanari, ex assessore all’Ambiente vicinissima a Beppe Grillo? Partiamo dall’inizio. Dal 15 maggio 2017, quando Raggi chiama sotto il Colosseo Bagnacani. Ambientalista, contrario ai termovalorizzatori, l’esperto di multiutility è da tempo vicino ai Cinque Stelle: già nominato dal sindaco di Parma Federico Pizzarotti vicepresidente della spa elettrica Iren, il manager emiliano nel settembre 2016 viene chiamato anche dalla neosindaca Chiara Appendino a presiedere la Amiat, la municipalizzata dei rifiuti di Torino. In ossequio alle direttive del Movimento, in Piemonte Bagnacani si taglia lo stipendio e comincia a lavorare al piano “rifiuti zero” ma, dopo pochi mesi, viene precettato da Raggi: «Devi venire ad aiutarci a Roma», gli dice. La Appendino, pur seccata («sta svolgendo un lavoro prezioso»), non protesta: i capi del M5S gli hanno spiegato che la priorità è mettere una pezza al caos capitolino. Raggi ha già bruciato tre amministratori delegati di Ama in poco più di un anno. Serve, insomma, Bagnacani. Appena arrivato, il manager e i suoi uomini decidono di rivoltare l’azienda come un calzino. D’accordo con la sindaca, licenziano il capo del personale (accusato di aver protetto alcuni dipendenti infedeli che rubavano benzina) e provano a rilanciare la raccolta differenziata, mettendo a punto un piano per rivoluzionare il porta a porta. La luna di miele con la sindaca, però, dura pochi mesi. Fino al marzo del 2018, quando il presidente e ad firma il suo primo bilancio d’esercizio. Il Comune, letti i numeri, non lo approva. Ma comincia a nicchiare. Socio unico di Ama, il Campidoglio manda deserte otto assemblee consecutive. Varie richieste sul perché il Comune non approvi il documento (che ha invece ricevuto già il via libera del collegio sindacale e dei revisori esterni di Ernst&Young) non ricevono risposte. Solo dopo qualche mese dagli uffici della Raggi arrivano i primi dubbi sui alcuni crediti vantati dalla municipalizzata nei confronti del Comune stesso. Ossia i 18,2 milioni di euro per i servizi cimiteriali, che a Roma sono gestiti direttamente da Ama. La Spa risponde presentando fatture e vari pareri tecnici e legali. Ma ad agosto (ricorda Bagnacani in un primo esposto firmato insieme ai membri del cda Andrea Masullo e Vanessa Ranieri e depositato in procura il 6 novembre scorso) Gianni Lemmetti con una nota «ordina ad Ama di procedere “ad eliminare tale posta”». Senza, pare, inviare alcuna motivazione analitica sul perché il Comune, che è debitore di Ama, non vuole riconoscerglieli. Non solo. I denuncianti spiegano ai pm che lo stesso assessore, in una riunione del 30 agosto 2018, «manifestava la volontà di non approvare il bilancio Ama, adducendo come motivazione che vi era la necessità che lo stesso chiudesse in passivo, anche di un importo di 100 mila euro, purché fosse in passivo». Ma chi è Lemmetti? Uomo chiave dell’amministrazione pentastellata, è vicinissimo a Luca Lanzalone, l’ex Mr Wolf di Virginia arrestato per corruzione per la storiaccia delle presunte mazzette per lo Stadio della Roma. I due lavorarono braccio a braccio (e con successo) al salvataggio della Aamps, la municipalizzata del Comune di Livorno in grave crisi finanziaria. Per uscirne, Lemmetti chiese e ottenne per l’azienda un concordato preventivo “in continuità”. Un’operazione che Lemmetti ha replicato anche in Atac. Ma perché Lemmetti chiede ai manager di Ama di compiere «svalutazioni generiche» su un credito su cui il Comune di Roma dal lontano 2008 fino al 2016, dunque anche nel primo anno della sindacatura Raggi, non aveva mai contestato? Bagnacani - in una recente audizione alla Commissione rifiuti del Consiglio regionale del Lazio - ipotizza che la forzatura sia del tutto strumentale: «Se il bilancio 2017 è in perdita, e se il 2018 venisse chiuso in perdita, se viene rilevata dall’azionista una inefficienza dell’azienda, si potrebbe aprire a una eventuale privatizzazione dell’Ama... Se Ama fa gli impianti sarà l’azienda numero uno a livello nazionale». I privati che dovessero conquistarla, dunque, «rideranno, ma non i cittadini romani». Solo illazioni, risponde Lemmetti, che ha invece ribadito che Ama resterà pubblica. Impossibile dire oggi chi abbia ragione. Ma è difficile anche comprendere come mai la sindaca e i suoi uomini, invece di essere soddisfatti di chiudere un bilancio in utile, spingano per chiuderlo in perdita. Se i consiglieri del Pd ipotizzano che la Raggi «voglia arrivare a fare un concordato anche qui», i sindacati sono durissimi. «Non riusciamo a trovare un senso a questa vicenda», ragionano i rappresentanti di Cgil, Cisl e Fiadel «Non possono essere 18 milioni sui crediti dei cimiteri a causare una simile crisi. Sono numeri marginali. Siamo di fronte a un gioco di potere, la giunta ha un piano sul futuro che non ha illustrato alla città». Il loro timore è che la società venga spacchettata, con il pubblico destinato allo spazzamento e i privati a gestire i core business più appetibili. Come quello degli impianti di smaltimento.

GLI INCONTRI RISERVATI. L’estate 2018 è ormai passata e a ottobre la città è più sporca che mai. La municipalizzata dei rifiuti è paralizzata. Nonostante pareri pro veritate di professori ed esperti di massimo livello diano ragione a Bagnacani, la Raggi e i suoi non si smuovono. Nemmeno di fronte al grido d’allarme del manager, che segnala (insieme ai sindacati) come la mancata approvazione del bilancio comporti rischi concreti con le banche creditrici, con i fornitori, persino per il pagamento degli stipendi degli operai e dei dipendenti. È in questo clima che il 30 ottobre Bagnacani si incontra con la Raggi. Con lei ci sono anche la Montanari, il vicecapo di gabinetto Gabriella Acerbi e Carlo Sportelli, dal 2016 capo dell’Avvocatura del Campidoglio. Ascoltando l’audio, la tensione tra gli astanti è evidente. Quando la sindaca propone una due diligence sui famosi crediti, Bagnacani chiede che «il tavolo sia paritetico», cioè con Campidoglio e azienda che scelgano ciascuno lo stesso numero di esperti. La Raggi si infuria: «No Lorenzo! Come è possibile... Come pretendi? Non lo puoi fare, sei un’azienda controllata da Roma Capitale». La sindaca chiarisce poi che gli uffici guidati da Giampaoletti e Lemmetti hanno sempre ragione, anche se proponessero soluzioni “lunapiattiste”. E aggiunge pure, spalleggiata dal capo dell’Avvocatura, che in caso di dissidi contabili tra azienda e il Comune è l’ad che deve fare quello che comanda il socio, che si assume in ultimo ogni responsabilità. «La giurisprudenza va in quella direzione», chiosa la Raggi davanti ai dubbi di Bagnacani. Che, in cuor suo, sa che i codici prevedono tutt’altro. Il cda d’ispirazione grillina non si piega. Il muro contro muro continua anche nei giorni successivi. Il 5 novembre, durante un nuovo incontro, «l’avvocato Sportelli» scrive Bagnacani ai pm, gli ipotizzò che «qualora il cda non si adeguasse alle indicazioni del socio verrebbe meno la fiducia del socio unico, e si concretizzerebbe una causa di revoca del Cda». Così il giorno dopo, preoccupato dalla piega che stavano prendendo gli eventi, il presidente e gli altri colleghi del cda mandano un primo esposto in procura. Anche perché poche ore prima hanno saputo dal direttore del dipartimento per la Tutela Ambiente del Campidoglio Rosalba Matassa che anche lei aveva ricevuto presunte pressioni indebite sulla questione dei crediti cimiteriali. In effetti, all’Espresso risulta che proprio il 5 novembre il vice di Giampaoletti, Giuseppe Labarile, abbia telefonato alla Matassa chiedendole di firmare e inviare «una lettera» ad Ama, «una nota da fare anche per il suo interesse». E che proprio Giampaoletti abbia mandato la bozza preconfezionata, in cui la Matassa avrebbe dovuto specificare che «Ama ha crediti riferiti a servizi funebri cimiteriali non riconosciuti dal dipartimento scrivente». La dirigente, però, si rifiuta e racconta in procura le presunte pressioni ricevute. Ma Giampaoletti, indagato insieme a Labarile e l’ex ragioniere generale Luigi Botteghi, nega con forza ogni addebito. Il city manager, che è stato chiamato dalla Raggi dopo una segnalazione arrivata direttamente da Lanzalone, si mostra indignato, e si giustifica evidenziando come le accuse della Matassa (e della Montanari, pure lei sentita dai pm romani) «sono strumentali e destituite di ogni fondamento, animate da inimicizia e intenti ritorsivi nei miei confronti». Quello che Giampaoletti non sa, però, è che gli audio in mano alla procura sono molti. In uno, del 26 novembre scorso, è registrato un secondo incontro tra Bagnacani e la Raggi. I due stavolta sono soli. La sindaca prova a partire con il piede giusto. Facendo, a sorpresa, promesse da sogno: «Lorenzo, tu hai il sacro terrore delle banche creditrici preoccupate dalla mancata approvazione del bilancio. Allora, io ho una soluzione: le banche ti danno 205 milioni? Io ti trovo i soldi che ti servono. Te li presto, tu chiudi quelle linee di credito, ti levi dalle palle queste banche, trovi altre banche, rinegozi tutti i mutui, tutti i tassi, alle condizioni che ti pare», spiega la Raggi. «Ma se io ti trovo i soldi, che succede? Mi approvi il bilancio, mi sistemi il bilancio e tutto, e andiamo avanti?». Bagnacani sembra spiazzato. Sia perché non capisce come mai la sindaca, per superare un contenzioso di appena 18 milioni, sia disposta a prestargliene dieci volte tanto. Sia perché nessuno ha mai immaginato che la sindaca potesse far uscire dalle casse comunali oltre 200 milioni di euro di soldi pubblici così, su due piedi. Ma quando il manager chiede per l’ennesima volta che Giampaoletti gli dia delle giustificazioni plausibili sul no ai crediti, la Raggi perde la pazienza: «Scusami però, tu me devi dà ’na mano Lorenzo. Perché così non mi stai aiutando. Io ho la città che è praticamente fuori controllo, i sindacati che fanno quel cazzo che vogliono!». Bagnacani gli ribatte che «per darci una mano non possiamo fare quello che non è possibile fare», e Virginia, esausta, gli propone di modificare il bilancio come richiesto, e nel caso di farselo poi bocciare dal collegio sindacale. «E a quel punto faremo un contenzioso... non mi stai dando neanche un cazzo di appiglio Lorenzo? Che devo fare? Come faccio? Questo è il sistema, è il sistema! Deve funzionare così altrimenti è il sistema che è sbagliato. Ma cazzo portami in giudizio! Fai quello che ti pare!». Pazientemente il manager le spiega per l’ennesima volta i perché del suo diniego (cioè evitare, in pratica, falsi in bilancio), ma Virginia cambia argomento: «Aspetta aspetta... Allora noi vi contestiamo un’altra cosa. Contestiamo le penali per una mancata o inesatta esecuzione del contratto...». Bagnacani fa notare che «allora qui il tema è un altro, il tema è che il bilancio deve essere per forza in perdita», ma la sindaca chiude: «Non è vero, ma io così il bilancio non te lo posso approvare». Lo scontro dura quasi un’ora. Verso la fine, a Bagnacani che le parla dei costi per potenziare la raccolta differenziata e porta a porta, la Raggi ammette laconica: «Io oggi non posso aumentare la Tari. Perché se i romani vedono, grazie anche ai sindacati e agli operai che non hanno voglia di fare, si affacciano e vedono la merda in città, in alcune zone purtroppo è così, in altre è pulito... ma quando gli dico la città è sporca, però ti aumento la Tari, mettono la città a ferro e fuoco. Altro che gilet gialli!».

FINALE DI PARTITA. A dicembre la città è ormai in ginocchio. A causa, anche, dell’incendio che distrugge l’impianto di raccolta rifiuti del Salario. Ma, improvvisamente, sul bilancio Ama si apre uno spiraglio. Bagnacani si dice disposto a spostare i 18 milioni su un “fondo rischi”. Il Campidoglio esulta, e il 6 dicembre azienda e Comune annunciano urbi et orbi l’accordo. «L’azienda è salva!», scrivono le agenzie di stampa. Peccato che tutto sfumi in poche ore: appena la Raggi e i suoi uomini si accorgono che Bagnacani ha fatto gravare il fondo non sul conto economico del 2017 (decisione che avrebbe portato il bilancio in rosso) ma sul patrimonio netto della società. Una soluzione che, chissà perché, al Campidoglio non va bene. Si torna, dunque, all’impasse totale. Ma Bagnacani non sa che il Comune ha ancora un asso nella manica. Il collegio sindacale dell’azienda, che aveva sempre dato parere favorevole al bilancio 2017, crediti cimiteriali compresi, improvvisamente cambia idea. Il presidente dell’organismo di vigilanza si chiama Mauro Lonardo, è in Ama dal 2007. Per mesi sembra più battagliero di Bagnacani, ma il 13 novembre fa una prima retromarcia, convincendo il suo collegio a ritirare il parere favorevole al piano. A fine dicembre Lonardo e gli altri sindaci vanno oltre, bocciando il documento contabile. Un atto decisivo, che permetterà al Comune di licenziare tutto il cda. Ma cosa ha fatto cambiare improvvisamente opinione a Lonardo? Non è chiaro. È un fatto, però, che il commercialista si sia incontrato (qualche giorno prima di ritirare il suo ok) con il dg Giampaoletti. Un incontro informale «per un caffè», come si legge dal resoconto stenografico della Commissione regionale che ha sentito i protagonisti della vicenda. Lonardo ammette l’appuntamento riservato, ma spiega di aver chiamato lui stesso il direttore generale: «L’ho fatto perché temevo che la società poteva saltare». Non sappiamo che cosa si siano detti i due. Ma sappiamo che qualcuno ha pensato male. Non uno qualunque ma Aldo Attanasio, anche lui membro del collegio sindacale. Il 14 novembre, senza sapere di essere registrato (anche questo audio è nelle mani della Finanza), Attanasio - parlando con un segretario di Bagnacani - spiega di non essere affatto d’accordo con il modus operandi di Lonardo: «Non comprendo che motivo c’era, io sono un organismo della società... che tu vai dall’altra parte, dal presunto nemico? Anche se io non ho problemi con Giampaoletti, intendiamoci. Ma secondo me lo sforzo di avvisare l’azienda andava fatto. Ma non credo che... io parlo fuori dai denti... non credo che sia andato a fare le scarpe a qualcuno. Sarà andato a dì se ce sta da prendersi qualche cosa ancora per continuare a fare carriera, “ce sto pure io”. Non lo so, eh, io avrei fatto questo». Non sappiamo se le ipotesi di Attanasio sul suo presidente siano veritiere. Sappiamo però che la carriera di Bagnacani in Ama è terminata. La Raggi il 18 febbraio, grazie al parere del collegio, ha licenziato lui e il resto del cda «per giusta causa», con un’ordinanza in cui si «dubita dell’affidabilità» del manager, perché contrario ai «generali principi di correttezza e trasparenza». L’azienda è stata affidata ad interim a Massimo Bagatti, l’ex direttore operativo. Nemmeno lui per adesso ha firmato il bilancio che piace tanto al Comune. Tutti, così, aspettano la nomina del prossimo presidente. Al Campidoglio è arrivato a sorpresa anche il curriculum di Pieremilio Sammarco. Avvocato amico di Cesare Previti, vicino a Raffaele Marra, consigliere personale della sindaca a cui segnalò l’amico Raffaele De Dominicis come assessore al Bilancio, Sammarco è stato il datore di lavoro della Raggi prima che diventasse sindaca. «Pieremilio è il mio dominus», ammise Virginia. Che oggi non ha ancora deciso se evitare polemiche, o invece fregarsene di tutto. E piazzare ai vertici della municipalizzata uno di cui si fida davvero. E non faccia troppe storie sui bilanci.

TUTTI I SEGRETI DELLA RAGGI. Mauro Evangelisti e Fabio Rossi per “il Messaggero” l'8 maggio 2019. L'anno scorso avevano attaccato e diffuso i dati del Cnr, delle Ferrovie, del ministero dello Sviluppo economico, del consiglio regionale della Sardegna e del Comune di Palermo, persino della Polizia e di Fratelli d' Italia. Ieri invece Anonymus, il collettivo globale di hacker, ha acquisito e diffuso illegalmente le pec (posta elettronica certificata) di 30.000 mila iscritti all' Ordine degli avvocati di Roma. Tra di loro, c' è anche una giovane avvocata molto conosciuta: Virginia Raggi, sindaca di Roma, che dalle mail diffuse da Anonymus risultava, ad esempio, banalmente in ritardo con il pagamento della quota d' iscrizione all' ordine. Sul fronte della protezione dei dati e della manipolazione del consenso intanto Antonello Soro, garante per la Privacy, avverte: ci sono rischi per il voto. Come motivano questa offensiva quelli di Anonymus? Spiega il collettivo di hacker: «Vogliamo ricordare i vecchi amici Aken e Otherwise arrestati nel maggio 2015. Non avete capito che Anonymous non ha leader? Arrestati 2 altri 100 ne nascono». Aken e Otherwise sono due militanti di Anonymus che finirono nei guai per aver violato anche siti istituzionali come quello del ministero della Difesa e delle Forze armate. Su Twitter ad inizio settimana era stato annunciata una nuova sfilza di attacchi: prima erano stati presi di mira i dati dell' Ordine degli avvocati di Caltagirone (in provincia di Catania), di Matera e di Piacenza. Poi c' è stata la violazione delle pec degli avvocati romani, con la pubblicazione anche dei contenuti, dei numeri di telefono privati, perfino delle password. Gli screenshot delle mail rubate sono stati diffusi anche sul sito di Anonymus, il Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche (Cnaipic) della polizia Postale sta indagando. LA DENUNCIA Scrive il presidente dell' Ordine degli avvocati di Roma, Antonino Galletti: «L' attacco informatico che abbiamo subito rappresenta una gravissima violazione non solo della privacy degli iscritti e dell' integrità dell' Istituzione forense, ma anche una violazione penalmente rilevante di un diritto costituzionalmente garantito, quale quello dell' inviolabilità della corrispondenza. In questo momento, i tecnici della azienda di software che fornisce l' infrastruttura tecnologica all' Ordine forense romano sono al lavoro insieme ai funzionari della polizia postale per verificare l' entità del danno e chiudere la falla. Secondo le verifiche dell' azienda, le caselle di posta violate sono quelle i cui titolari non hanno cambiato la password iniziale assegnata dal fornitore. Tutti i responsabili saranno naturalmente denunciati all' autorità giudiziaria». Questo attacco arriva proprio nel giorno in cui il garante della privacy, Antonello Soro, lancia l' allarme: «Le esperienze di questi ultimi anni rendono sempre più urgente affrontare il tema della democrazia nella società digitale. La prospettiva - dice Soro citando il caso di Facebook e Cambridge Analytica - è aggravata dalla concentrazione di tali informazioni (e del conseguente potere di condizionamento) in capo a poche imprese, capaci così di spiegare effetti determinanti su questioni di rilevanza pubblica primaria». Ovviamente è il timore che si tenti di influenzare l' esito elettorale. Soro mette in guardia anche dal rischio di «violazioni e manipolazioni» delle votazioni interne di un partito (il pensiero va a M5S e al sistema Rousseau).

Mauro Evangelisti e Fabio Rossi per “il Messaggero” l'8 maggio 2019. Nella casella di posta elettronica certificata della sindaca c' è un po' di tutto: un avvocato-poeta la invita al concerto di Bruce Springsteen, una signora le spedisce il curriculum del marito, un altro vorrebbe fare l' assessore alla Gioventù («ho tante idee»). Ma ci sono anche le richieste dell' Ordine degli avvocati, per qualche quota ancora non saldata. E poi ancora curriculum di «storici simpatizzanti del M5S», peraltro mandati da persone autodefinitesi «solari, dinamiche e precise», pronte a trasferirsi a Roma per collaborare con l' amministrazione pentastellata insediatasi quasi tre anni fa sul colle capitolino. Ci sono molti colleghi (nel senso di avvocati) che conoscendo l' indirizzo di posta certificata ne approfittano per segnalare problemi legati ad Atac, ai rifiuti, al degrado. E poi una lettera aperta sul discusso disegno di legge presentato dal senatore leghista Simone Pillon, i cui si invitano i vertici M5S a «far rispettare il contratto» di governo siglato con il Carroccio. Virginia Raggi è la vittima più nota dell' attacco di Anonymus, che ha hackerato la Pec di 30 mila professionisti iscritti all' Ordine di Roma: i testi sono stati integralmente pubblicati su internet, a disposizione di tutti gli utenti. Anonymous ha pubblicato alcuni screenshot delle presunte mail, tra le quali quelle inviate proprio dall' Ordine degli avvocati riguardo alcune quote di iscrizione degli ultimi anni. «Raggi, paga le tasse», è il messaggio lanciato dagli hacker, via Twitter, all' inquilina di Palazzo Senatorio.

L' ATTACCO. La sindaca, comprensibilmente, non nasconde la sua rabbia, parlando di «gravissima violazione della privacy nei miei confronti e dei miei colleghi dell' ordine degli avvocati di Roma». Anche perché non si tratta del primo caso di accesso non autorizzato ai suoi dati personali. Alla fine della scorsa estate la scena se la prese Rogue0, nome d' arte apparso su Twitter: l' hacker ha bucato la il sistema Rousseau, la piattaforma grillina plasmata e collaudata da Casaleggio jr, dove si consuma la militanza (virtuale) di attivisti e politici M5S. L' account ha spiattellato sul web, cinguettio dopo cinguettio, l' email e il numero di telefono della Raggi, così come quello della vicepresidente del Senato, Paola Taverna, e prima ancora i cellulari del vicepremier Luigi Di Maio e dei ministri Danilo Toninelli e Alfonso Bonafede. Poi, nelle scorse settimane, è arrivata la diffusione delle telefonate con Lorenzo Bagnacani, ex numero uno dell' Ama, l' azienda municipalizzata che si occupa della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti nella Città eterna.

LE DOMANDE. Ma dall' elenco diffuso da Anonymus emerge soprattutto un sottobosco di avvocati che usano la posta certificata per complimentarsi con la Raggi per l' elezione a sindaco ma anche per farsi avanti, perché non si sa mai. Le mail più frequenti sulla casella Pec della sindaca, tanto per restare nelle abitudini dell' utente medio, riguardano richieste di pagamento. Non le classiche multe per violazioni del Codice della strada, incubo quotidiano dei romani, ma quote arretrate dovute all' Ordine degli avvocati di Roma. Tanto che alla Raggi arriva addirittura una convocazione, per lo scorso 8 novembre, per «l' avvio del procedimento per la sospensione», chiedendo alla prima cittadina, nella veste di iscritta, di provare il versamento di 145 euro, risalenti al 2017. Non mancano però le autocandidature per un posto al sole in Campidoglio, spesso corredate da curriculum e autocertificazione di illibatezza della fedina penale. Alla numero uno del Campidoglio arriva anche una diffida da parte dello staff di un suo predecessore, Francesco Rutelli, che le intima di «non diffondere ulteriormente informazioni» su «false responsabilità» dell' ex sindaco sul debito del Comune di Roma.

LE SEGNALAZIONI. Sono tanti i colleghi della Raggi che usano la Pec professionale per lamentare disservizi cittadini. C' è chi sottolinea che «le strisce pedonali (zebre) sono ormai sbiadite e irriconoscibili specie a distanza e di notte», e chi punta il dito «sul rischio altissimo che corrono i passeggeri della linea tram 19 che scendono e si trovano in strada con altissimo rischio di essere travolti». Un tale M. invia una mail che fa un po' tenerezza: prima scrive «ho visto il dibattito tutti contro di lei e gli ha spaccati tutti alla grandissima» per poi però chiedere, dopo questa premessa, «volevo chiederle se ci fosse la possibilità per presentare la candidatura come assessore alla Gioventù e all' Innovazione? Ho davvero tantissime idee». Una signora, N.: «Gentile sindaco, perdonerà l' ardire e l' uso improprio dell' utilizzo della Pec, ma non ho trovato altro modo per farle presente il curriculum vitae di mio marito». E poi l' avvocato P.: «Ciao Virginia, non farti ingannare dalla mia Pec: non sono un avvocato, lo faccio solo per campare. Mi occupo invece di poesia da trent' anni», «la pratico anche in strada, assieme ad un acquerellista di Milano», «sabato con la mia compagna saremo a a Roma per une vento imperdibile: il concerto di Bruce. Se non hai ancora i biglietti, acquistali subito». Chissà se Virginia Raggi c' è poi andata al concerto di Springesteen.

Bella Virgì, poi dice che uno si butta a sinistra. Il corsivo di Claudio Rizza del 10 Maggio 2019 su Il Dubbio. Eh no, così non si fa. Le avevano spiegato che il nemico era Salvini, vampiro che succhia sangue dalla giugulare dei Cinquestelle, sostenuto da Casapound e da tutti i fascismi del circondario. E Virginia s’era data una regolata. Poi il Fatto quotidiano le aveva spiegato così bene che la vera sinistra ormai sono i grillini e non certo Zingaretti e il Pd, perché il M5S è vicino ai più bisognosi, sennò il reddito di cittadinanza che lo avevano inventato a fare? Il nuovo marxismo è quello di Grillo che vuole eliminare i poveri, lavorare meno ma lavorare tutti, una decrescita felice, che tanto poi a faticare ci penseranno i robot e a decidere la splendida democrazia del web casaleggesco. E le avevano fatto vedere come Di Maio difendeva da Salvini la memoria del 25 Aprile, che magari diventasse la lotta di Liberazione dalla Lega ma non si può dire. La sindaca ci ha creduto. Aveva creduto, in pieno eccesso fideistico, pure a Grillo che non vedeva né buche né mondezza in giro per Roma; creduto fermamente nei 9 assessori che le avevano consigliato e che si sono persi per strada; si è anche fatta raggirare dai fratelli Marra, come oggi è scritto nella sentenza d’assoluzione per l’accusa di falso. Ha creduto di aver riaperto la stazione metro Spagna, dopo che da sei mesi romani e turisti non sono riusciti a scendere in centro neanche da Repubblica né da Barberini, senza sapere che la foto del trionfante annuncio ritrae la metro di Milano, quella sì pulita e pettinata. Tutto sempre nella ferrea osservanza della regola aurea di Casaleggio senior, «Basta che ci credano», inno al fake che si trasforma in realtà e in voti nell’urna. Non è mai il vero che conta ma il verosimile. E poi non avevano sentito le parole maleducate di Salvini contro la Raggi? «Non serve mica uno scienziato per raccogliere la monnezza». Oppure: «Roma non è mai stata così sporca, ferma, trascurata, caotica e disorganizzata». Insomma, i porti saranno pure chiusi, i clandestini affogati, le legittime difese con le armi in pugno, ma come si fa a non difendere i rom che cercano casa ed a combattere quei fascistoni di Casapound tanto amici del leader leghista? Dice che Di Maio si è gelato, della serie regaliamo voti razzisti alla concorrenza, poi però ha corretto il tiro e Virginia ha tirato un sospiro di sollievo. Tutte le case occupate vadano agli italiani, a partire da quelle che ospitano gli abusivi di Casapound. E poi dici che uno si butta a sinistra.

Quel “normale” e irresponsabile falò dell’odio. Periferie e rabbia. Editoriale di Carlo Fusi del 9 Maggio 2019 su Il Dubbio. La gelida primavera delle nostre banlieu si gonfia di esasperazione. Mentre sulfurei strateghi dell’odio col cranio rasato soffiano sul fuoco del risentimento, allestendo falò che attirano le falene di chi pensa di essere stato privato di un diritto e determina per loro lo stesso destino: quando arrivano troppo vicino alle fiamme, si bruciano. L’abbaglio di saper discernere ragioni e torti, assegnando agli “italiani” sfrattati tutte le prime e lasciando ai rom legittimi assegnatari l’universo dei secondi, produce un corto circuito nel quale va in tilt il vero e unico criterio che si può e deve seguire: far proprie e rispettare le regole dello Stato di diritto. Quelli a cui il Comune riconosce il diritto di avere un appartamento, non possono entrarci dopo essere stato costretti ad un percorso di guerriglia urbana. Chi sente di essere stato privato di una legittima attribuzione ha gli strumenti che la legge assegna per far valere le proprie ragioni. Bene ha fatto il sindaco Raggi: e non si curi delle critiche inverosimili di Luigi Di Maio. Andando più a fondo, guai a fare spallucce dinanzi alla rabbia che cova nelle periferie e in chi ci vive. Guai a girare la testa, ritenendolo “normale”, di fronte al clima di violenza e intimidazione che viene alimentato irresponsabilmente e delinquenzialmente da chi cerca solo lo scontro. Le immagini di minacce verso giovani mamme rom, che tutta Italia ha visto, sono indecenti e indegne di un Paese civile: è sperabile che le forze dell’ordine che hanno svolto senza incertezze il loro dovere sappiano identificare i responsabili. A noi, a tutti quelli che le stesse immagini hanno visto comodamente seduti nei salotti di casa propria, spetta il sussulto dell’indignazione non fine a sé stessa. I fatti di Casalbruciato riguardano e interrogano la coscienza di ognuno. Se il falò dell’intolleranza continuerà a bruciare, cauterizzerà chi abita nelle periferie e chi nel centro; chi protesta e chi subisce; chi butta benzina e chi prova a spegnere le fiamme. La violenza genera violenza. Chi fa finta di non capirlo o, peggio, non vuole, sarà la prima vittima.

·         Roma invivibile? Colpa di Mussolini.

La lotta al "tavolino selvaggio" che distrugge i ristoratori del centro. Da alcuni anni, nel nome di un presunto decoro, il Pd nel Primo Municipio ha iniziato una lotta al “tavolino selvaggio” che ha messo in ginocchio i ristoratori del centro storico di Roma. Francesco Curridori, Venerdì 10/05/2019, su Il Giornale. Il centro storico di Roma si sta lentamente spegnendo. Da alcuni anni, nel nome di un presunto decoro (che non c’è) è iniziata una lotta al “tavolino selvaggio” che ha messo in ginocchio i ristoratori “mafiosi”.

Al posto dei tavolini arriva il degrado. “Parlano di tavolini selvaggi ma io non sono né mafioso né selvaggio. Burino sì, mafioso no”, ci spiega subito Carlo Muzi, proprietario della pizzeria Montecarlo in vicolo Savelli che qualche settimana fa è stato teatro dell’ennesima scena di degrado. Da quando a Muzi, nel giugno 2018, è stata tolta la concessione di occupazione del suolo pubblico, quello spazio di 39 metri quadri è diventato un parcheggio abusivo che, come ha raccontato ilgiornale.it, viene usato anche dai turisti come orinatoio. “Dopo 32 anni di occupazione mi sento preso in giro dal Comune. Ho sempre pagato 10mila e 600 euro l’anno fino a giugno 2018 e mi hanno dato 5 giorni di chiusura dal 14 settembre al 18 settembre 2018. Poi, senza una valida ragione, mi hanno tolto i tavoli", dice Muzi attaccando il Primo Municipio, guidato dal Pd, per la sua scelta scellerata di introdurre i cosiddetti ‘pmo’, piani di massima occupabilità, ossia i piani con cui sono stati negati metri quadri preziosissimi al commercio. “Di 23 dipendenti, ora ne sono rimasti 13. Ho dovuto mandar via persone che stavano con me da 20 anni e che, ora, si devono rimettere nel mondo del lavoro. Vogliono che prenda le multe e cambi la partita Iva ogni due anni come gli altri oppure vogliono che venda ai cinesi?”, si chiede Muzi con il cuore in gola e gli occhi lucidi mentre guarda le foto appese nel suo locale. Tutti politici e attori nazionali e internazionali che ha sfamato nel corso di oltre 30 anni di ristorazione.

Nel rione Monti incassi ridotti del 60%. Spostandoci in via Panisperna, nel rione Monti troviamo un altro locale storico ‘Da Robertino’, gestito da 20 anni dalla famiglia Pepi. “Nel 1999 comprammo questa attività che aveva già l’occupazione di suolo pubblico dal 1986. All’epoca fuori dal locale c’erano solo i tavoli, le sedie e i vasi fuori ma l’anno dopo chiedemmo un finanziamento di 35mila euro per metterci una pedana che il Municipio, senza un motivo chiaro, ci ha fatto togliere due anni fa”, racconta Roberta Pepi, figlia dei proprietari deceduti all’improvviso proprio nel 2017. “A me è successo l’imponderabile. Nel giro di pochi mesi ho perso sia mia madre sia mio padre, entrambi attivi nel ristorante, però con la pedana ero convinta di rientrare dei debiti e della tassa di successione in pochi anni”, ci dice la Pepi ancora affranta per il tracollo che ha subìto. Un calo degli introiti del 60% e una drastica riduzione del personale: da 14 dipendenti fissi e due stagionali ad appena 4 in totale. Numeri impressionati causati da una scelta incomprensibile del Pd che amministra il Primo Municipio da 15 anni e che nel corso degli ultimi 9 anni ha punito i ristoratori del centro adottando criteri sempre più restrittivi per i cosiddetti Pmo. Al ristorante “Da Robertino”, per esempio, la pedana è stata tolta perché in via Panisperna, c’è il parcheggio codificato misto. A nulla sono valsi i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. “Al Tar ti dicono che sulle strisce blu non ci puoi stare, ma al Consiglio di Stato hanno detto di sì. Basterebbe che, dopo 3 o 4 sentenze, si cambiasse la norma e, invece, c’è un immobilismo totale”, spiega la Pepi. 

La rabbia dei ristoratori: "Tutta colpa del Pd". “Al Primo Municipio in un’ora sono stati capaci di deliberare su 53 strade prese assolutamente a caso e anche parecchio distanti l’una dall’altra”, le fa eco Carlo Muzi. Ma ad avere il dente avvelenato contro la burocrazia è anche Vincenzo Casiero, proprietario del ristorante ‘Dal patriota’, in piazza dell’Accademia di San Luca, a pochi metri da Fontana di Trevi, che spiega: “Il Pd da un giorno all’altro ha deciso di tutelare quelli che portano voti, ossia i residenti e non i ristoratori che hanno la residenza altrove”. “Io – aggiunge Casiero - mi trovo a dover pagare il ristorante per un valore che è un decimo di 6 anni fa, quando l’ho comprato. Ora ho 40 posti in meno e non mi concedono l’occupazione di suolo pubblico perché vicino al locale c’è un passo carrabile che, in realtà, è un deposito d’immondizia. Ho dovuto licenziare 12 dipendenti. È assurdo”. Ma a San Pietro i titolari della Fraschetta dell’Angelo, locale aperto in via del banco di Santo Spirito cinque anni fa, hanno scelto di pagare le multe lasciando sia i tavolini sia i dipendenti al proprio posto. “Abbiamo 14 dipendenti, tutti sotto i 30 anni e non siamo capaci di mandar via questi ragazzi…”, ci dice l’amministratrice Ludovica Zappavigna sottolineando il fatto che il locale sorge in un’area pedonale e, quindi, i tavolini non sono di disturbo a nessuno. “L’assurdità – ci spiegano - è che il locale accanto al nostro ha i tavolini perché ha fatto domanda prima che si inventassero i ‘piani di massima occupabilità’ e quindi risulta in regola. Lui sì e noi no”. Ora i prossimi ad essere colpiti dai criteri assurdi dei Pmo saranno i ristoratori delle vie limitrofe al Pantheon. “Il nostro fatturato potrebbe scendere del 40% perché i tavolini all’aperto sono una vetrina per i turisti che passano per le vie del centro”, avverte Matteo Costantini, presidente dell’associazione arti e mestieri di via dei Pastini e via degli Orfani. Intanto anche piazza Madonna dei Monti è stata privata dei tavolini al punto che solo all'ex first lady Clio Napolitano è stato concesso di fare colazione all'aperto. Chissà se ora la scure della burocrazia targata Pd si avventerà anche su Trastevere e sulla storica via Veneto?

Dalla Chiesa e il terrazzo distrutto: "Ma a Roma si può vivere così…?" La denuncia, con tanto di foto del suo terrazzo appunto distrutto dal vento e dagli alberi, arriva via social ed è firmata da Rita Dalla Chiesa, scrive Pina Francone, Martedì 26/02/2019, su Il Giornale. "Il mio terrazzo mezzo distrutto e un albero completamente appoggiato sul palazzo di fronte. I pini che cadono come birilli a Roma Manca il personale per il servizio giardini. Le potature sono sempre state un optional. Le radici non hanno più’ spazio per estendersi, hanno sollevato marciapiedi e asfalto. Si può vivere (e morire, purtroppo,) così". La denuncia, con tanto di foto – del suo terrazzo appunto distrutto – arriva via social ed è firmata da Rita Dalla Chiesa, che su Instagram ha postato tre scatti dello scempio domestico, causa vento e mala manutenzione in città. La giornalista e conduttrice tivvù, come tanti cittadini della capitale, è alle prese con i danni del maltempo che negli ultimi giorni si è abbattuto sulla città eterna, dove le raffiche di vento l'hanno fatta da padrone, causando anche delle vittime nel Lazio. Nel suo caso, a pagarne le spese, il terrazzo: solo danni materiali quindi, per quanto comunque ingenti possano essere. Lo sfogo del volto televisivo si somma a quello di migliaia di romani che in queste giornate si sono sentiti ben poco sicuri per le strade della città.

Rita Dalla Chiesa sbotta sulla Capitale: "Mi fa schifo vivere qui". La conduttrice Rita Dalla Chiesa si è lasciata andare ad uno sfogo, pubblicando su Twitter una foto che ritrae la condizione di disagio denunciata giorni fa da Alda D'Eusanio, ovvero quella relativa al mancato smaltimento dei rifiuti a Roma. Serena Granato, Venerdì 26/04/2019, per Il Giornale.  Se da una parte Alda D'Eusanio alcuni giorni fa denunciava il problema dei rifiuti a Roma, dal suo canto Rita Dalla Chiesa ha confermato quanto era stato riportato via social dalla sua collega. Nello specifico, la compagna storica del compianto conduttore Fabrizio Frizzi, si è lasciata andare ad un libero sfogo, pubblicando su Twitter una foto contenente un messaggio sibillino e di denuncia, che ha diviso l'opinione del popolo della rete.

Rita Dalla Chiesa contro la cattiva amministrazione di Roma. La conduttrice storica di Forum è diventata protagonista di un tweet, che è riuscito in pochi minuti a catalizzare l'attenzione di molti internauti, soprattutto da parte dei cittadini romani. "Parcheggio la macchina e trovo due topi morti. Il marciapiede è ridotto così. Posso dire che mi fa schifo vivere a Roma?" ,ha così esordito la conduttrice, nella descrizione del suo post, che denuncia la cattiva amministrazione della Capitale. "Quando governava il PD nessuno osava aprire bocca” , ha fatto notare di tutta risposta un utente alla Dalla Chiesa. "Lasci perdere i discorsi qualunquisti e di partito. Ridicoli” , ha controbattuto Rita. Infine, a chi le ha riferito di come i rifiuti non siano più un problema in quel di Milano, Dalla Chiesa ha risposto profondamente delusa e rassegnata, circa il problema del mancato smaltimento dei rifiuti riversati in strada: “Milano dovrebbe essere la Capitale”.

3 motivi per cui Roma non è stata una buona capitale, scrive Antonio Pilati il 22 febbraio 2019 su Nicola Porro. L’anno prossimo – il 2020 – compie 150 anni l’annessione di Roma al Regno d’Italia: si realizzò allora di fatto quello status di capitale che Cavour aveva proclamato in via teorica nel marzo 1861. È l’occasione per un bilancio: Roma è stata una buona capitale per l’Italia? Ha dato un utile contributo alla formazione e allo sviluppo dello Stato italiano? La risposta, credo indubbia, è no. Si può argomentare la risposta sotto tre diversi aspetti: ideologico, rappresentativo, operativo. Roma è diventata capitale soprattutto a causa di un pesante carico ideologico: il primato imperiale, la gloria del remoto passato che con un salto di due millenni si pretendeva di trasferire al nuovo Stato, uno stigma di superiorità che peraltro nessuna delle potenze all’apice dell’ordine internazionale s’è mai sognata di riconoscere. Il carico ideologico nel tempo ha fatto molti danni – non solo alimentando un’idea di Stato fuori misura rispetto alla realtà italiana, ma dando anche impulso a tante sballate imprese coloniali e più tardi ai deliri di potenza del fascismo. Roma è da quasi due millenni il centro della chiesa universale e in ciò ha il suo carattere distintivo: i tempi della curia, però, sono altri da quelli di uno Stato moderno e la commistione tra i due mondi non ha giovato: il passo dell’eternità non conosce i vincoli dell’amministrazione. D’altronde la storia italiana, fatta di città borghesi e di competizione commerciale, ha una stoffa diversa che condivide ben poco con il disincanto romano (i pellegrini arrivano comunque con i loro oboli e ci saranno sempre indulgenze da smerciare). La capitale, difforme dall’Italia e anche irriducibile alla sua misura minore, se ne è sempre più staccata soprattutto nel dopoguerra – creando una propria agenda e una propria economia. La razionalità operativa non è il riflesso primario della città che forse ha di meglio cui pensare. Le opere faticano ad andare in porto, il vantaggio collettivo – che alla fine premia anche il singolo – è riconosciuto con difficoltà, la disciplina dello sforzo comune si disperde nel particolare di mille interessi privati. Negli ultimi trent’anni – quelli della globalizzazione digitale – economia, demografia, scambi di merci e di persone sono diventati sempre più grandi e complicati, in Italia come nel resto del mondo: le prestazioni richieste alle macchine organizzative degli Stati immersi nel mondo globale sono cresciute a dismisura. Roma, con il suo passo antico, ha sofferto su due fronti: da un lato ha recepito e amplificato l’affanno dello Stato centrale, dall’altro si è dovuta adattare alla travolgente apertura mondiale avviata da Papa Wojtyla. Oggi è al collasso e fare da capitale per due Stati (caso unico al mondo, Gerusalemme lo è solo in teoria) appare un compito troppo pesante: quella che fu concepita come memoria vivente di gloria è ormai una vetrina cadente. L’Italia può sopravvivere solo con una grande riforma dello Stato: avere una capitale efficiente è un passo indispensabile lungo questa via. Nel 1956 il Brasile spostò la capitale dall’iperaffollata Rio de Janeiro a Brasilia. Può essere un esempio? Antonio Pilati, 22 febbraio 2019

Roma, Raggi: "Alberi caduti? Sono di epoca fascista". Fabio Rampelli attacca Virginia Raggi: "Oggi se la prende con gli alberi di epoca fascista per i quali prevede un taglio radicale, sembra più un'epurazione ideologica che un provvedimento botanico", scrive Francesco Curridori, Martedì 26/02/2019, su Il Giornale. "Gli alberi di Roma cadono perché spesso risalenti all'epoca del Fascismo". Ancora una volta Virginia Raggi, quando non sa come uscire dall'angolo, si appiglia velatamente alla retorica dell'antifascismo. "Serve un piano straordinario per l’abbattimento di tutti gli alberi malati e arrivati a fine vita a Roma. Si tratta di piante per le quali non c’è alcun rimedio e per le quali non basta la manutenzione" scrive la Raggi su Facebook riferendosi alle forti raffiche di vento che si sono abbattute in questi giorni sulla Capitale hanno causato una vera e propria strage di pini che ha provocato la morte di un uomo a Guidonia e vari feriti. "Questi alberi li potremo sostituire piantandone altri, giovani e sani, al loro posto. Molti degli esemplari caduti hanno circa 90 anni: sono stati piantati durante il regime fascista ed ora sono giunti al termine della loro esistenza. Si tratta di piante per le quali non bastano le cure ordinarie", spiega il sindaco della Capitale. "I pini secolari - aggiunge - fanno parte del panorama di Roma ma così non si può andare avanti. Per fare la manutenzione dei 330mila alberi presenti a Roma servono fondi e, soprattutto, la possibilità di recuperare i ritardi dovuti ai decenni in cui troppo poco è stato fatto". Alla Raggi risponde, con una nota, il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (FdI): "Oggi se la prende con gli alberi di epoca fascista per i quali prevede un taglio radicale, sembra più un'epurazione ideologica che un provvedimento botanico. Inutile ricordare che importanti esperti hanno certificato che esistono metodi tali da rendere compatibile il paesaggio delle nostre città con i pini: monitoraggio arboreo, avvio del famoso bando ancora fermo per censimento, potatura e messa in sicurezza del patrimonio arboreo romano".

Virginia Raggi su Facebbok il 25 febbraio alle ore 20:04: "Serve un piano straordinario per l’abbattimento di tutti gli alberi malati e arrivati a fine vita a Roma. Si tratta di piante per le quali non c’è alcun rimedio e per le quali non basta la manutenzione. Questi alberi li potremo sostituire piantandone altri, giovani e sani, al loro posto. Molti degli esemplari caduti hanno circa 90 anni: sono stati piantati durante il regime fascista ed ora sono giunti al termine della loro esistenza. Si tratta di piante per le quali non bastano le cure ordinarie. So che queste mie parole faranno adirare molte associazioni ambientaliste ma la situazione del patrimonio arboreo di Roma è questa. Per fare la manutenzione dei 330mila alberi presenti a Roma servono fondi e, soprattutto, la possibilità di recuperare i ritardi dovuti ai decenni in cui troppo poco è stato fatto. In questi due anni abbiamo avviato il monitoraggio dei circa 82mila alberi presenti lungo le strade o nelle piazze della città. Noi lo abbiamo fatto. Abbiamo già abbattuto più di 2000 esemplari pericolanti e ne abbiamo individuati altri da abbattere o mettere in sicurezza urgentemente. Ricordiamo anche che i pini così vecchi deformano l’asfalto rendendo sconnesse le sedi stradali e i marciapiedi: non sempre si può intervenire con operazione di “fresatura” delle radici perché indeboliscono la pianta. Al contempo abbiamo anche visto che alcuni lavori stradali eseguiti negli anni passati hanno tranciato le radici pregiudicandone irrimediabilmente la staticità. Abbiamo effettuato tanti interventi ma, come raccontano le cronache di questi giorni e non solo a Roma, non basta ancora. Bisogna avere il coraggio di dire che serve un’azione straordinaria: un’azione che, inevitabilmente, cambierà anche il paesaggio di Roma. I pini secolari fanno parte del panorama di Roma ma così non si può andare avanti. Per questo piano straordinario saranno necessari fondi speciali che, attualmente, il Comune di Roma Capitale non ha. Ma che chiederemo al Governo. Durante il periodo di Mafia Capitale si è fatto finta di nulla, c’era chi speculava proprio sul settore ambiente con appalti truccati e incuria. Ne paghiamo le conseguenze anche oggi. Quel tempo è definitivamente passato. Ho ripreso la delega all’Ambiente e ho deciso di imprimere una svolta forte in tal senso per difendere i miei cittadini".

Alessandra Mussolini abbatte Virginia Raggi: "I pini fascisti roba da Tso. La vuoi sapere la verità sul Duce?", scrive il 27 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Roba da Tso". Alessandra Mussolini non ha preso bene l'uscita del sindaco di Roma Virginia Raggi, che di fronte ai pini caduti ha tirato in ballo il Duce: "Molti degli esemplari hanno circa 90 anni - ha spiegato placida la prima cittadina grillina -: sono stati piantati durante il regime fascista e ora sono giunti al termine della loro esistenza. Si tratta di piante per le quali non bastano le cure ordinarie". Sopra le righe il commento della nipote di Mussolini: "Gli alberi a Roma cadono per colpa del fascismo, cioè per colpa di mio nonno? Sembra patologico che la sindaca abbia di questi pensieri, anche perché dovrebbe sapere che come primo cittadino la manutenzione degli alberi è responsabilità sua, invece dà la colpa ad altri". "Io abito a un passo da Villa Torlonia - conclude l'europarlamentare - e i palazzi costruiti da mio nonno non cadono, mentre gli alberi che la Raggi non cura cadono".

Fabio Rampelli, il delirio anti-fascista di Virginia Raggi sui pini di Mussolini: il meloniano la umilia, scrive il 26 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Roma cade a pezzi e Virginia Raggi se la prende con il fascismo. L'ultima sparata della sindaca grillina riguarda l'emergenza degli alberi caduti, dopo alcuni giorni di forte vento e maltempo. A fronte della scarsissima manutenzione al verde pubblico della capitale, la Raggi ha annunciato la sua strategia per dare una risposta a chi la accusa di essere in forte ritardo. Un ritardo che secondo lei è giustificato dagli alberi dei "governi precedenti", in particolare di alberi piantati addirittura dalla dittatura fascista, come ha spiegato in un post che ha scatenato l'immediata reazione del vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli di Fratelli d'Italia. Sui social la sindaca ha chiarito che non c'è un rimedio e non basta la manutenzione degli alberi. Per quelli caduti in effetti c'è poco da fare: "Li potremo sostituire piantandone altri, giovani e sani, al loro posto. Molti degli esemplari caduti hanno circa 90 anni: sono stati piantati durante il regime fascista e ora sono giunti al termine della loro esistenza. Si tratta di piante per le quali non bastano le cure ordinarie. So che queste mie parole faranno adirare molte associazioni ambientaliste, ma la situazione del patrimonio arboreo di Roma è questa. Per fare la manutenzione dei 330 mila alberi presenti a Roma servono fondi e, soprattutto, la possibilità di recuperare i ritardi dovuti a decenni in cui troppo poco è stato fatto". Secondo Rampelli, quello della sindaca sembra più una reazione ideologica: "Se la prende con gli alberi di epoca fascista per i quali prevede un taglio radicale, sempre più un'epurazione ideologica che un provvedimento botanico. Inutile ricordare che importanti esperti hanno certificato che esistono metodi tali da rendere compatibile il paesaggio delle nostre città con i pini: monitoraggio arboreo, avvio del famoso bando ancora fermo per censimento, potatura e massa in sicurezza del patrimonio arboreo romano".

Lorenzo De Cicco per il Messaggero il 27 febbraio 2019. Ci sono 50mila reduci del Ventennio che Virginia Raggi vorrebbe pensionare. Hanno 90 anni o giù di lì e il Campidoglio grillino li considera pericolosi per la pubblica incolumità, tanto da battere cassa al governo amico di M5S e Lega per disfarsene. Protagonisti, involontari, della vicenda sono i pini secolari dell'Urbe, un pezzo della grande bellezza di Roma, delle sue strade, dei suoi panorami che mozzano il fiato. «Piantati durante il regime fascista» (e malridotti), dice la sindaca, vanno abbattuti per evitare che piombino sulle carreggiate trafficatissime, come è avvenuto l'altro ieri nel quartiere Prati, davanti alla sede della Corte dei Conti, quando un tronco si è schiantato sulle auto in corsa. Risultato: due feriti, uno gravissimo, rischia la paralisi. Non era il primo albero a venire giù, tutt'altro. Ne sono crollati 400 solo nel 2018 (+870% rispetto al 2017) e altri 200 in questo primo scampolo di 2019. Raggi ora dice di voler prendere di petto la questione. E per comunicare Urbi et Orbi la richiesta di un «piano straordinario» (pagato dal governo, naturalmente, perché il Comune questi «fondi non li ha»), la sindaca ha preso mouse e tastiera e ha pubblicato un lungo post su Facebook. Dopo essersela presa con le precedenti amministrazioni («durante il periodo di Mafia Capitale si è fatto finta di nulla, c'era chi speculava proprio sul settore ambiente con appalti truccati e incuria»), ha riavvolto il nastro fino al Ventennio, appunto. «Molti degli esemplari caduti hanno circa 90 anni: sono stati piantati durante il regime fascista e ora sono giunti al termine della loro esistenza. Si tratta di piante per le quali non bastano le cure ordinarie». Un inciso, il rimando al regime, diventato virale sui social, e che ha raccolto una ridda di commenti, per lo più ironici, tra cui quello di Alessandra Mussolini: «La Raggi con i suoi pensieri è da Tso - dice la nipote del duce - Gli alberi a Roma cadono per colpa del fascismo, cioè per colpa di mio nonno? Sembra patologico che la sindaca abbia di questi pensieri, anche perché dovrebbe sapere che come primo cittadino la manutenzione degli alberi è responsabilità sua, invece dà la colpa ad altri». E ancora: «Io - ha dichiarato la parlamentare europea - abito a un passo da Villa Torlonia e i palazzi costruiti da mio nonno non cadono, mentre gli alberi che la Raggi non cura cadono». Rinvii al fascismo a parte, la giunta di Roma è convinta che «la manutenzione non basti più» (anche se bisognerebbe dire che gli appalti per gli alberi sono bloccati da quasi due anni...). Serve quindi, ha scritto Raggi, «un'azione straordinaria che inevitabilmente cambierà anche il paesaggio di Roma. I pini secolari fanno parte del panorama della città, ma così non si può andare avanti». Ergo, tocca passarli con la motosega. Quanti? 50mila esemplari, secondo i calcoli del Campidoglio. Costo: all' incirca 100 milioni di euro, quanto stimò l'ex assessore all' Ambiente, Pinuccia Montanari, che ha lasciato il Comune venti giorni fa. I primi 2mila pini sono già stati abbattuti, ma l'amministrazione non ha soldi per portare a dama l'operazione su larga scala. Ecco perché la sindaca ha lanciato l'Sos al governo. E qualche spiraglio già si apre. Dice il ministro dell'Ambiente Sergio Costa: «È giusto che Roma abbia più risorse per abbattere tutte le migliaia di alberi ormai arrivati a fine vita». Ma per liquidare i fondi extra «serve l'interessamento di tutto il governo e le risorse aggiuntive devono arrivare nell'ambito di una riforma complessiva dei poteri di Roma Capitale», il progetto a cui l'inquilina del Campidoglio lavora da due anni.

L'INDAGINE Intanto, mentre la città conta i danni dell'ultimo weekend apocalittico - 500 auto distrutte, oltre a vetrine, cancelli, panchine - la Procura di Roma ha aperto un fascicolo per lesioni colpose. L' inchiesta mette nel mirino proprio le lacune nella manutenzione del Campidoglio. Il procuratore aggiunto Nunzia D' Elia ha chiesto accertamenti per capire se l'area di Prati dove si è verificato lo schianto fosse in carico al servizio Giardini del Comune o a una ditta privata che ha ottenuto l'appalto. Una cosa è certa: quel pino andava abbattuto «d' urgenza» a settembre 2017. Questo avevano prescritto gli agronomi ingaggiati dall' amministrazione. Ma è dovuto crollare da solo, l'albero, perché qualcuno lo portasse via.

La Raggi riesuma l’antifascismo per nascondere i disastri del Campidoglio. Francesco Storace mercoledì 5 giugno 2019 su Il Secolo d'Italia. Virginia Raggi è sempre più vecchia. Praticamente non passa giorno senza ricorrere all’armamentario antifascista, con tanto di presenza a qualunque cerimonia partigiana, salvo poi beccarsi fischi (meritati) ad ogni 25 aprile. Perché è fasulla pure come nostalgica della resistenza. Anche ieri ci ha ricordato che “Roma è antifascista”. Senza contare quante volte le hanno risposto chi se ne frega. Perché non si sopporta più, nella ricerca ossessiva di consensi a sinistra. La città, la sua amministrazione, i servizi da garantire alla comunità di cui si dovrebbe occupare, contano meno di zero. L’importante è pavoneggiarsi come storica de’ noantri.

Intanto, ci sono migliaia di cassonetti da svuotare. Ma lei sale in cattedra.

I trasporti pubblici sono al collasso. Silenzio, il sindaco studia ma nessuno le spiega che accadde a via Rasella.

Le stazioni della metropolitana non reggono più. Virginia intona Bella Ciao.

A Roma non si contano le buche in strada. Lei le scambia per trincee contro il nemico in camicia nera.

Le case per la povera gente non si trovano. Il sindaco, coniugata Fico, preferisce i migranti agli italiani.

Non ha neanche “fatto cose buone”. Potremmo continuare a lungo, nel racconto di una città che ogni giorno è vicina alla distruzione. Ma sarebbe troppo lungo l’elenco delle cose che non vanno. Di Virginia Raggi sarà difficile poter dire impunemente che “ha fatto anche cose buone”. Quel che però non rinunciamo a porre come domanda a tutti è se la Capitale merita un sindaco solo chiacchiere e distintivo. Non c’è traccia di iniziativa sociale degna di essere ricordata. Ha cambiato un numero enorme di assessori. Ha sbagliato tantissime scelte di nomina nei posti più delicati dell’amministrazione. Però, si mette a giocare all’antifascismo. Ma che senso ha? Non basta la sberla presa persino alle ultime elezioni in città, quelle europee? Alle comunali in cui fu eletta, la Raggi sbaragliò tutti con un incredibile 67 per cento al ballottaggio. Alle europee i pentastellati della Capitale hanno raccolto il 17 per cento dei voti…. Hai voglia a cantare Bandiera Rossa o giù di lì…In realtà nella Città Eterna viviamo lo straordinario privilegio di aver in cima all’amministrazione una signora che ha capito tutto. Roma è nelle condizioni che tutti notano? Buttiamola in caciara, rispolveriamo l’antifascismo e i gonzi ci cascheranno. Allo scopo è servito anche negare una strada della Capitale in onore di Giorgio Almirante.

Ossessionata da CasaPound. Ossessionata da CasaPound che vorrebbe sfrattare da uno stabile che non è del Comune, la Raggi non ha altro da dire ai romani. Magari sogna di concludere il suo mandato con la carica contro l’obelisco del Foro Italico, su cui campeggia la scritta Mussolini Dux. E’ stata brava solo nel resistere alle proteste dei cittadini e alle tante inchieste della magistratura che hanno bersagliato il Campidoglio. Ma passeranno anche questi ultimi due anni del suo incarico e quando ce ne libereremo nessuno la rimpiangerà. Neanche quei partigiani a cui si rivolge, lamentosa e triste. Perché dal sindaco della Capitale d’Italia ci si aspettava capacità di governo e non cerimonie quotidiane da dedicare al tempo che fu. Ma in fondo non è colpa sua. Perché anche Roma, come tutta Italia, è stata colpita dall’illusione grillina. Che ora tutti hanno conosciuto e che si guardano bene dall’applaudire. La ricreazione finirà pure per Virginia Raggi.

·         Chi ha accasato Casa Pound?

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 19 giugno 2019. Guarda guarda che firma reca questa assegnazione del 2007 di alloggi a cura del comune di Roma… il sindaco Walter Veltroni e la sua giunta in una mega operazione di sistemazione distribuiscono ben 1653 alloggi in mezzo ai quali sono celati 17 di un palazzo di via Napoleone III, il cui numero civico è pudicamente omesso, ma non c'è da sbagliare, e' il palazzo di Casa Pound. E allora di quale occupazione stiamo parlando da mesi? Quale sgombero improvvisamente urgente, proprio e solo quello, sì sollecita da tante parti con sopracciglio sollevato al Ministero dell'interno? A sentire la Corte dei Conti, questa occupazione  ha da terminare e  il conto salato s'ha da sanare, per ben 4milioni e 600mila euro,  quanto sarebbe costato in danno erariale l'occupazione del palazzo di via Napoleone III a Roma da parte dell' organizzazione di estrema destra, che e'  legale, tanto da presentarsi alle elezioni, ma in perenne odore di eversione e fascismo. Il tutto "in violazione delle più elementari regole della (sana) gestione della cosa pubblica e in contrasto con il particolare regime vincolato cui sono soggetti i beni del patrimonio indisponibile dello Stato", tuona il comunicato. I magistrati contabili sono decisi a chiedere il risarcimento a nove dirigenti dell'Agenzia del Demanio e del ministero dell'Istruzione per mancata riscossione del canone per oltre 15 anni del palazzo a Roma dove c'è la sede di CasaPound, ma dove vivono anche delle famiglie. È quanto calcolato dai magistrati della corte dei conti di Roma nell'invito a dedurre che rappresenta una sorta di chiusura delle indagini. A risarcire il danno erariale per omessa disponibilità del bene e mancata riscossione dei canoni dovranno essere nove dirigenti dell'Agenzia del Demanio e del Miur, proprietario dell'immobile di via Napoleone III. In totale sono dodici le persone finite nel registro degli indagati, e quella che segue è la ricostruzione ufficiale. L'immobile, di proprietà dello Stato, nel settembre del 1958 è stato concesso in uso governativo dal ministero delle Finanze (direzione Generale del Demanio) al ministero della Pubblica Istruzione. Nel 2003 è stato occupato a seguito di un trasloco dei vecchi uffici. Il vice procuratore generale Massimo Minerva, che firma l'invito a dedurre, ha calcolato la cifra del risarcimento «in base al canone aggiornato alla media Omi (Osservatorio Mercato Immobiliare) per la destinazione d'uso residenziale nella zona Esquilino», dove si trova il palazzo occupato. Ma all'indagine e alla ricostruzione ufficiale manca evidentemente qualche pezzo, visto che nel 2007 è stato il Comune di Roma e la giunta di cui era sindaco Walter Veltroni, vice sindaco Mariapia Garavaglia, a decidere di assegnare quelli tra molti altri alloggi. Come mai questo dettaglio che cambia completamente le sorti della vicenda non è stato portato all'attenzione dei magistrati contabili, come mai la mega inchiesta dell'Espresso "Grand Hotel CasaPound" non l'ha in alcun modo ottenuto? Le chiacchiere sembra che stiano a zero, a guardare questa delibera, di sicuro non si può parlare di occupazione sine titulo dell'immobile da parte di CasaPound e delle altre  famiglie. Se invece il tutto fosse comunque illegale e avesse determinato una perdita economica per le finanze pubbliche, e una lesione al patrimonio immobiliare pubblico, allora rivolgersi alla Giunta Veltroni. Che non mancherà di dare adeguate spiegazioni sulle ragioni di emergenza che hanno spinto dodici anni fa a quella decisione.

·         Vieni avanti Marino!

Marino: «Stavo salvando Roma dai rifiuti ma hanno voluto fermarmi». Simona Musco l'8 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Intervista all’ex sindaco di Roma: «La giunta Raggi, e prima di lei il commissario Tronca, hanno deciso di lasciare chiuso nei cassetti il nostro lavoro, condannando la città all’attuale situazione di degrado». Il piano rifiuti per salvare Roma dall’emergenza rifiuti c’era già alla chiusura della discarica di Malagrotta, ma fu ostacolato, per mettere i bastoni tra le ruote alla giunta guidata da Ignazio Marino. Una lotta intestina che portò alla caduta della sua giunta, racconta al Dubbio l’ex sindaco e professore di chirurgia e senior vice president per gli Affari strategici presso la Thomas Jefferson University di Philadelphia, secondo cui l’attuale situazione è il frutto di «un fallimento dovuto all’azzeramento incomprensibile dei progetti avviati durante il mio mandato».

Professor Marino, perché non partì il suo piano per i rifiuti?

«Nell’autunno del 2013, dopo la chiusura di Malagrotta, decisi di sostituire i vertici di Ama compreso il direttore generale, Giovanni Fiscon, attraverso una ricerca di mercato basata sul merito e le competenze. Non potevo mantenere in un ruolo così delicato chi aveva per anni collaborato con l’avvocato Cerroni nel momento in cui avevamo chiuso la sua discarica. Il Cda di Ama fu sostituito, ma l’ingegner Fiscon rimase al suo posto, difeso da tutti i partiti politici, fino al 2 dicembre 2014 quando venne arrestato per Mafia Capitale. Invito ad ascoltare un’intercettazione tra il dottor Salvatore Buzzi e il signor Massimo Carminati nella quale una frase molto efficace, “Fiscon 2 Marino 0”, spiega in che modo si era intervenuti sui partiti affinché trovassero argomenti per mantenere al suo posto in Ama l’uomo chiave che governava appalti, gare e affidamenti diretti. Restando alle date, noi chiudemmo Malagrotta il 1 ottobre 2013 e presentammo il piano alternativo ad inizio 2014, quindi poche settimane dopo».

Quindi era pronto al momento della chiusura di Malagrotta?

«Sì, è falso accusarmi di aver chiuso la discarica di Malagrotta senza un piano. Ma fino a dicembre 2014 il Consiglio comunale, presieduto da Mirko Coratti, anche lui in seguito arrestato per Mafia Capitale, mi impedì di farlo votare. Alla fine il piano venne portato al voto dal nuovo presidente del Consiglio comunale. Del resto, tanti progetti che avevamo messo a punto, come quello sui rifiuti, miravano a strappare i servizi pubblici dalle mani di chi fino a quel momento aveva dettato legge in Campidoglio ma che al nostro arrivo fu messo alla porta. Per cambiare Roma bisogna avere coraggio e visione. Sono convinto di aver pagato, e ne vado fiero, l’aver chiuso le porte a certi personaggi».

Cosa prevedeva quel piano?

«Oltre 300 milioni di euro di investimenti per impianti e nuova organizzazione logistica della raccolta e della pulizia della città. Avevamo previsto 4 Ecodistretti, ciascuno con una potenzialità di circa 400mila tonnellate anno ed un investimento complessivo di circa 200 milioni di euro ottenendo, grazie all’effetto combinato di riduzione dei costi ed incremento dei ricavi da valorizzazione, risparmi per la gestione dei rifiuti di circa 80 milioni di euro per anno. È falso scrivere che gli Ecodistretti erano solo sulla carta. A Rocca Cencia avevamo avviato la realizzazione di un Ecodistretto per il trattamento dei rifiuti organici e della plastica, circa 100mila tonnellate/ anno, con un impianto all’avanguardia. Tutto venne fermato perché, dopo la mia amministrazione, Roma e la Regione Lazio si sono accordate per esprimersi negativamente sulla realizzazione di questo impianto pubblico, e vorrei sottolineare l’aggettivo “pubblico”: infatti, mentre veniva proibito l’impianto pubblico è stato autorizzato con la determinazione G509021 del 27 giugno 2017 della Regione Lazio ed inserito nel Piano Regionale Rifiuti, anche nell’ultima revisione, un impianto per rifiuti indifferenziati, adiacente ad esso ma di proprietà privata. La giunta Raggi, e prima di lei il commissario Tronca, hanno deciso di lasciare chiuso nei cassetti il nostro lavoro, condannando Roma all’attuale situazione di degrado e sporcizia le cui immagini stanno facendo il giro del mondo».

Come fu la gestione rifiuti sotto il suo mandato?

«Nei primi 100 giorni di governo, come detto, chiusi Malagrotta, sulla quale pendevano da 6 anni procedure Europee d’infrazione, ignorate dai miei predecessori, e in due anni di mandato ( 2013- 2015) portai la differenziata dal 30,5 al 44%. Se a distanza di 4 anni, di cui gli ultimi 3 a guida Cinquestelle, quel dato è rimasto intorno al 44% è evidente che ci troviamo di fronte ad un fallimento dovuto all’azzeramento incomprensibile dei progetti avviati durante il mio mandato. La mia amministrazione ha assunto atti fondamentali per quanto riguarda la gestione dei rifiuti, a partire dai primi di febbraio del 2014, cioè solo 3 mesi dopo la chiusura di Malagrotta. Penso a quattro delibere, in particolare la 52/ 2015 sull’affidamento Ama che fu a lungo contrastata dai rappresentanti di tutti i partiti».

Come interpreta l’ennesimo rimpasto ai vertici Ama? 

«Se in tre anni di governo della Capitale sono stati sostituiti oltre venti fra assessori e dirigenti apicali delle aziende di Roma è evidente che manca una visione del futuro e si punta soltanto a distruggere qualunque cosa fatta prima, come nel caso del nostro progetto sulla gestione dei rifiuti che avrebbe trasformato la raccolta e lo smaltimento da continua emergenza ad un’industria che produce ricchezza per la Capitale».

Quanto sta facendo la Regione Lazio basta? O manca pianificazione?

«A questa domanda dovrebbe rispondere l’attuale segretario del Pd e presidente della Regione Lazio al quale, nei 28 mesi di governo della nostra giunta, ho più volte chiesto di intervenire affinché il sistema impiantistico di proprietà della Regione Lazio venisse riparato e reso più efficiente con un investimento di Acea che non gravasse sulle tasse dei cittadini. Ricordo come Acea si fosse resa disponibile. E ricordo anche come, dal 2014 al 2015, ogni tentativo si è arenato sulle scrivanie della Regione Lazio.

Proclamare lo stato di emergenza e creare un deposito- discarica nel territorio di Roma è una possibilità? Roma non può più tornare ad avere una discarica per gestire i suoi rifiuti. Serve creare degli Ecodistretti per favorire la chiusura del ciclo dei rifiuti urbani di Roma nel proprio territorio, massimizzando l’autosufficienza degli impianti industriali di Ama, in un’ottica di sostenibilità ambientale ed economica».

Claudio Sabelli Fioretti per “il Venerdì di Repubblica” il 23 luglio 2019. In principio c’era Ignazio Marino, chirurgo specializzato in trapianti del fegato, senatore dem. Dopo aver vinto le primarie della sinistra, divenne sindaco di Roma stracciando Gianni Alemanno, sindaco uscente. Gli elettori della sinistra romana al gran completo, ma anche molti non di sinistra, gli avevano dato una delega in bianco. Vai! Roma fa schifo! Pensaci tu! Seguirono due anni sorprendenti e incredibili. Ignazio chiuse la mega discarica di Malagrotta, caccio i camionbar dal Colosseo, pedonalizzo via dei Fori Imperiali e piazza di Spagna, apri le spiagge di Ostia ai non paganti, dichiaro guerra ai tavolini che invadevano il centro, ottenne, sconfiggendo la burocrazia, l’apertura delle prime stazioni della Metro C. “Sposo” in Campidoglio coppie gay. Il tutto in pochi mesi. Ma proprio in quei pochi mesi, in maniera strisciante, si mise in moto un’efficientissima macchina da guerra sostenuta dal suo stesso partito, il Pd di Matteo Renzi. Motivazioni abbastanza risibili: la sua Panda rossa scorrazzava senza permesso nella Ztl, gli scontrini dimostravano allegra gestione di una carta di credito per spese di rappresentanza... Cause, denunce, processi. Il Pd, impelagato in Mafia Capitale, con suoi esponenti indagati, accusati e messi in prigione, decideva che il problema era Ignazio Marino: doveva togliere il disturbo, farsi da parte, addirittura andare in esilio negli Sta ti Uniti. Poi la Cassazione chiari che Marino si era sempre comportato da persona onesta. E il Pd ripiego sulla politica: «Ha perso il contatto con la citta». Giorni convulsi che finirono con una procedura insolita: i suoi consiglieri trascinati dal Pd nello studio di un notaio a dare le dimissioni che avrebbero causato la fine politica di Ignazio. E cosi fu. Marino, cecchinato dal suo stesso partito, come nemmeno ai tempi della Dc, se ne torno in America dopo 28 mesi di sindacatura decisionista ma traballante.

Ignazio, come siamo messi a risentimento?

«Quando scoppio la polemica inventata sulla Panda rossa si presento in Campidoglio, accompagnato da Virginia Raggi e da Luigi Di Maio, uno dei più spietati nemici, il grillino Marcello De Vito, con delle arance: secondo loro dovevo andare in galera. In prigione c’è finito lui, ma io ne ho sofferto. Non c’è nulla da gioire se uno va in prigione».

Bilancio delle liti e delle polemiche?

«Venticinque procedimenti, assolto con formula piena in tutti».

Ti avranno chiesto scusa...

«Nessuno. Mai».

E ora ti viene voglia di riprovarci?

«Per carità! Oggi correrei di nuovo solo per vincere al primo turno col 70 per cento con un partito che non e il Pd. E poi il giorno della vittoria mi dimetterei dopo aver dimostrato chi ha perso il contatto con la città».

Da giovane eri scout.

«Facevo parte del gruppo Roma Nono, che creo problemi alla Chiesa. A quei tempi non si potevano mettere insieme maschi e femmine. Noi ci battemmo perchè questo avvenisse. La Chiesa si opponeva».

E alla fine?

«Potemmo fare i campi insieme. Il problema era la promiscuità in tenda».

Non oso pensare. Tu hai approfittato della promiscuità?

«No, ero un ragazzino molto timido».

Anche Renzi era uno scout.

«Non riesco a immaginarmelo Renzi scout. Lo scoutismo e democratico. Quelli che inseguono posizioni di comando incontrastato vengono emarginati».

Perchè ti hanno chiamato Ignazio?

«Il mio papa era di grandi vedute, ma era siciliano e il nome del primogenito per un siciliano deve essere quello del nonno».

Soprannomi?

«In America le infermiere mi chiamano Iggy. Il mio maestro, Thomas Starzl, il chirurgo che invento il trapianto del fegato, mi chiamava Rocky l’indistruttibile: diceva che ero capace di tollerare qualsiasi tipo di fatica».

Hai lasciato scegliere al Pd i tuoi futuri consiglieri.

«Un errore gravissimo e imperdonabile. Deve essere il leader a scegliere le persone che corrono insieme».

E infatti, alla fine, i tuoi consiglieri ti hanno tradito. Tutti.

«Tutti e 19. Sono l’unico che e riuscito a compattare il Pd. Non si e mai visto».

Quanti fegati hai trapiantato?

«Almeno seicento come primo operatore. Ma ho partecipato a più di duemila trapianti».

Quando operi hai le tue manie...

«Prima di entrare in sala non voglio nessuno attorno a me. Mi lavo e dico il Padre Nostro. Poi chiedo alla Madonna di liberarmi la mente, di lasciarmi solo il pensiero del paziente».

Salvini ha ringraziato la Madonna perchè ha fatto vincere la Lega.

«So per certo che la Madonna non vota e non partecipa alla campagna elettorale».

Domanda impegnativa: tu lo mangi il fegato alla veneta?

«L’odore del fegato alla veneta e lo stesso che si sprigiona quando tocchi il fegato con l’elettrobisturi. Insopportabile. Non l’ho mai mangiato ne mai lo mangerò».

Studiavi al liceo Tasso.

«Non era facile. Era tra il ‘68 e il ‘69. Più assemblee che lezioni».

E il 68? Il 77? Slogan truci?

«Mai da giovane. Da sindaco ho detto “Fascisti tornate nelle fogne”. Mi e costato due processi».

“Fascisti carogne tornate nelle fogne”.

«No, carogne no, non l’ho detto, mi sembrava eccessivo».

Sei cattolico?

«Esistono i cattolici praticanti e i praticanti non cattolici...».

Tu?

«Ero un cattolico poco praticante. Adesso sono praticante».

Hai cominciato la tua carriera politica puntando su diritti civili, fecondazione assistita, testamento biologico, ius soli, matrimonio gay, chiusura dei manicomi criminali. Ti chiedi perchè ce l’avevano con te? E non parliamo di quello che hai fatto a Roma...

«Un mese dopo essere stato eletto sindaco, in una intervista con Carlo Bonini, dicevo che percepivo la presenza della mafia a Roma. Tutti dicevano che la mafia non c’era, a partire dal prefetto Pecoraro...».

Eppure tutti citano quella frase che hai detto allo scoppio di Mafia Capitale: “Non me ne ero accorto”...

«L’ha scritto solo Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera. Ma io non l’ho mai detto. Detesto questa maniera di fare giornalismo in cui si inventa tutto».

Se tu fossi Di Maio che cosa faresti dopo la sconfitta dei Cinquestelle?

«Non riesco a mettermi nei suoi panni. Ma sarebbe meglio che si staccasse dalla Lega prima che la Lega cacci lui».

Anche tu avresti dovuto andare via prima che ti cacciassero.

«La mia situazione era diversa. Io ero un innovatore. Di Maio no».

Renzi riciccia?

«Matteo Renzi e uno straordinario affabulatore, ha battuta pronta, cinismo, ambizione. Navigherà sempre nel mondo della politica. Non ce lo vedo Renzi che apre una trattoria».

Di fronte al problema della Panda, pensai: fosse successo al sindaco di New York, chi gli avrebbe contestato un divieto di sosta? Roba di piccolo cabotaggio, come gli scontrini...

«Io avevo fatto una donazione: 10 mila euro all’anno dal mio stipendio a favore del bilancio del Comune. Ti pare che uno dona 10 mila euro poi gliene ruba 952?».

Mi sono chiesto: non sarà che il sindaco di Roma ha qualcosa di simile alla cleptomania? Hai presente Soros che ruba una merendina all’Esselunga?

«Non ho mai fatto cose del genere».

Non sei cleptomane? Sicuro? O uno che ruba sulle note spese? Sapessi quanti giornalisti...

«Mai portato via neanche una bottiglia di minerale dalla camera di un albergo...».

Nemmeno una saponetta? Lo fanno tutti. Credo anche Soros. Non e rubare.

«Se chiedo la colazione in camera e mi rimane il piccolo contenitore del miele lo porto via».

Perchè Renzi ce l’aveva con te?

«A me non l’ha mai detto. Di certo per il Pd non ero affidabile. Mi suggerivano i nomi delle persone da nominare e io ne sceglievo altre sulla base del curricula e non della vicinanza politica».

Solo questo?

«Uno che nei primi 90 giorni cancella 160 permessi edilizi in aree agricole, chiude la discarica di Malagrotta, parliamo di miliardi...».

Questo fa pensare che il Pd fosse impelagato pesantemente in questi affari...

«Sono 11 anni che il Pd e all’opposi zione a Roma. Opposizione moderata ad Alemanno. Opposizione violenta contro di me. Di nuovo opposizione moderata alla Raggi».

Ignazio, non potevi dimostrare un minimo di disponibilità al compromesso?

«No».

Ma perchè no?

«Ebbi la richiesta dal vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, di nominare vicesindaco Mirko Coratti. Io dissi: se nomino Coratti e poi incorre in qualche incidente giudiziario? Facciamo cosi: Matteo Renzi dichiari pubblicamente che Coratti e il migliore candidato alla posizione di vicesindaco che ci sia in Italia».

A questo punto tu lo avresti nomi nato vicesindaco?

«Certo. Se e il premier che garantisce! Ma questa dichiarazione Renzi non l’ha mai fatta e poi, purtroppo, Coratti e stato arrestato e condannato».

Renzi si e mai fatto sentire con te?

«Non rispondeva al telefono nemmeno per questioni istituzionali tra premier e sindaco di Roma».

Una delle poche persone che ti ha difeso, almeno una volta, e stata la Raggi. Ha detto che il merito dell’allontanamento dei camionbar dal Colosseo e stato tuo.

«Scaltra. Ha praticamente detto al la famiglia Tredicine, che gestisce il business, che lei non c’entra niente se hanno perso l’affare. E stato Marino».

Lei conosce il mondo della comunicazione. Tu invece...

«Sara... Ma se la citta non la governi, se muore sepolta dai rifiuti, se nelle strade si aprono voragini, con i tra sporti pubblici moribondi, che vuoi comunicare...». Se volevano fregarti non facevano prima a tirare fuori una escort o a metterti una bustina di droga nel cassetto? «Forse ci hanno provato, e non essendoci riusciti si sono dovuti limita re a denigrarmi con stratagemmi che la Cassazione ha liquidato con frasi severissime, come “indagini infonda te” e ipotesi di reato “frutto di fantasia”».

Ti sei dato una spiegazione?

«Ho dato fastidio a tanti, ma qualcuno coordinava il gioco. Mi sono spesso chiesto come mai quotidiani che erano in competizione tra loro pubblicassero gli stessi titoli, le stesse paro le, gli stessi aggettivi. Tutto per ridicolizzare la persona del sindaco».

I peggiori?

«Galli Della Loggia scrisse, sul la prima pagina del Corriere, del la “inconsistenza ridanciana e vagamente imbrogliona del sin daco Marino”». 

Rifaresti quello che hai fatto?

«Se sapessi di dover attraversare anni di ferite e dolore, no, non lo rifarei».

Non ti hanno sgridato solo quelli del Pd. Ti ha sgridato perfino il Papa. Durante il famoso viaggio di ritorno da Filadelfia, un po’ seccato, disse: “Io Marino non l’ho invitato, chiaro? E nemmeno gli organizzatori. Chiaro?”.

 «Quello che disse il Santo Padre non corrispondeva al vero. Io ero stato in vitato dagli organizzatori, dal sindaco e dall’arcivescovo di Filadelfia. Mi sistemarono in prima fila, a pochi metri dal Papa. Conservo ancora il badge».

Poi hai sentito il Papa?

«Ci siamo anche visti. Ci siamo seduti accanto e io gli ho fatto vedere la lettera di invito a Filadelfia firmata dall’Arcivescovo».

E lui?

«Mi ha ascoltato. Gli ho detto: “San to Padre, lei una volta mi disse che spesso per perseguitare i cristiani li fanno sbranare vivi dai cani. Quando lei ha pronunciato quella frase sull’aereo, il messaggio, per molti, e stato: lanciate pure i cani contro Marino”».

Pesantino.

«Il Santo Padre mi disse che dovevo assolutamente rendere pubblica quel la lettera di invito.

Io dissi: “Santità, lei porta l’anello del pescatore, il simbolo dell’autorità del Santo Padre, le pare che io possa rettificare quello che ha detto l’uomo che porta l’anello del pescatore? Se lei avrà modo e intenzione, lo farà lei”».

Ancora più pesante. E lui l’ha fatto?

«No, ma mi ha assicurato che l’avrebbe fatto».

Hai votato Pd alle Europee?

«No, c’è un limite al masochismo».

Ti è mai venuta in mente l’idea di fare un tuo partito?

«Nel 2014, quando ci furono gli arresti di importanti referenti del Pd romano, diversi uomini di sinistra co me Luigi Nieri di Sel mi dissero: “Ignazio, la cosa migliore da fare e dimettersi e ricandidarsi con una lista indipendente”. Ma io non volevo fermare il cambiamento. Dissi alle persone più vicine, Nieri, Roberto Tricarico, Alessandra Cattoi: se facciamo questo, certamente vinciamo, ma e più impor tante far vincere la citta e quindi dobbiamo continuare. E un altro dei miei errori di ingenuità. Ho sbagliato».

Per la politica dell’immigrazione ha fatto peggio Salvini o Minniti?

«Entrambi hanno avuto visioni lon tane dalla necessita di offrire accoglienza a chi la chiede».

Gioco della Torre. Di Maio o Salvini? Chi butti?

«Di Maio. Salvini e un avversario con le idee chiare anche se opposte alle mie».

E fascista?

 «Certamente non appare democratico. Un ministro dell’Interno che genera odio sociale e un problema grave per l’Italia. Anche perchè...».

Anche perchè?

«I messaggi di Salvini sono elementari. Ma drammaticamente efficaci».

Di Maio lo ritieni incompetente?

«E un giovane apparentemente animato da un grande desiderio di fare. Io appartengo ad un mondo dove per fare bisogna prima conoscere. Non mi farei operare da un chirurgo senza provata esperienza».

Giorgetti o Toninelli?

«Toninelli. Del resto ci ha portato una grande visibilità internazionale. Anche all’estero si parla molto di lui».

Battutona! Che cosa ti rimane di quei due anni?

«L’orgoglio. Nessuno tra qualche decennio ricorderà chi ha pedonalizzato Piazza di Spagna e i Fori Imperiali, chi ha chiuso Malagrotta, chi ha avviato la Metro C, chi ha registrato i primi matrimoni gay. Eppure sono cambiamenti epocali, che rimarranno».

TORNA MARINO, TUTTO È PERDONATO. Da Adnkronos il 9 aprile 2019. Assolto in Cassazione l'ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, per il 'caso scontrini'. I giudici della VI sezione penale hanno annullato senza rinvio la sentenza di condanna di secondo grado "perché il fatto non sussiste". In giornata era stata questa la richiesta del pg Mariella De Masellis, davanti alla VI sezione, nell'udienza per discutere il ricorso presentato da Marino dopo la condanna in secondo grado: la sentenza di secondo grado, aveva detto il pg della Suprema Corte, va annullata senza rinvio. Dopo l'assoluzione in primo grado da tutte le accuse, Marino l'11 gennaio dello scorso anno era stato condannato a due anni dai giudici della terza sezione della Corte d'Appello di Roma: oggetto del procedimento per peculato e falso erano una cinquantina di cene pagate attraverso l'utilizzo della carta di credito che gli fu rilasciata durante il suo mandato dall'amministrazione capitolina. Anche nel secondo grado di giudizio era stata confermata, invece, l'assoluzione per l'accusa di truffa per le consulenze della Onlus Imagine.

VIENI AVANTI, MARINO! Valeria Di Corrado per Il Tempo il 9 aprile 2019. Potrebbe chiudersi definitivamente con un'assoluzione la vicenda giudiziaria che portò nell'ottobre 2015 alle dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma.  La pg Mariella De Massellis ha chiesto, nel processo in corso in Cassazione, l'annullamento senza rinvio della sentenza della Corte d'appello dell'11 gennaio 2018 con cui Marino venne condannato a due anni di carcere per peculato e falso per aver pagato con la carta di credito del Campidoglio cene private spacciate per incontri di rappresentanza. In primo grado, invece, il professore dem era stato assolto. Tra luglio 2013 e giugno 2015 avrebbe usato la carta per «acquistare servizi di ristorazione nell’interesse suo, dei suoi congiunti e di altre persone non identificate», si legge nel capo d'imputazione. Nel dettaglio, «saldava per 56 volte il conto di cene consumate presso ristoranti della Capitale dove si era recato, generalmente nei giorni festivi e prefestivi, con commensali di sua elezione, comunque al di fuori della funzione di rappresentanza dell’ente". Poi, «al fine di occultare il reato di peculato, impartiva disposizioni al personale addetto alla sua segreteria affinché formasse le dichiarazioni giustificative delle spese sostenute, inserendovi indicazioni non veridiche, tese ad accreditare la presunta natura "istituzionale" dell’evento, e apponendo in calce alle stesse la di lui firma». Da qui la contestazione di falso. Tra le presunte cene irregolari quella del 6 settembre 2013 al «Girarrosto Toscano» di Roma, offerto dall'ex sindaco all’ambasciatore del Vietnam, dopo un incontro in Campidoglio. La segretaria e assistente dell’ambasciatore, Dang Thi Phuong Thao, ha però negato la sua presenza. C’è poi la pesante smentita della Comunità di Sant’Egidio, secondo cui «nessun responsabile ha mai cenato con Marino a spese del Comune», il 26 ottobre 2013 nel ristorante «Sapore di Mare», vicino al Pantheon. Anche Don Damiano Modena ha negato di essere stato nel ristorante «Tre Galli» di Torino la sera del 4 maggio scorso. Poi ci sono le testimonianze dei ristoratori: quello del «Girarrosto Toscano» ha spiegato che il sindaco ha consumato la cena di Santo Stefano del 2013 con la famiglia e non con rappresentanti della stampa. Anche il titolare del ristorante «La Taverna degli amici» di Roma ha dichiarato che il 27 luglio 2013 Marino ere a tavola con la moglie, e non con un rappresentante dell’Organizzazione mondiale della Sanità.

IL SOTTO-MARINO E’ RIEMERSO! Fabio Martini per la Stampa il 10 aprile 2019. Il professor Ignazio Marino, il «marziano» che spiazzò il suo partito e i poteri forti di Roma, non si smentisce neppure stavolta. Ha atteso la sentenza che decideva del suo onore nel lontanissimo Messico, dove è impegnato in un «importante convegno scientifico», come racconta lui stesso. Alla sentenza della Cassazione dedica qualche minuto, il tempo di buttar giù un comunicato e «ne riparliamo domani». Ma prima di intervenire nel convegno, Marino dice a La Stampa : «La sentenza della Cassazione fa giustizia ma purtroppo non può sanare la ferita alla democrazia consumata allora, non rimedia ai gravi fatti del 2015, quando fui cacciato perché la mia giunta portava avanti un' azione senza compromessi per portare la legalità e il cambiamento a Roma. Io sono pronto a riprendere la battaglia per dare a Roma la qualità e la dignità che merita». Marino è felice. Quattro anni fa, nel pieno del suo mandato da sindaco di Roma, era stato crocifisso dal suo partito, il Pd di Renzi; era stato sbeffeggiato da Virginia Raggi, allora all' opposizione, che ebbe la grazia di offrirgli delle arance il giorno nel quale fu arrestato un esponente del Pd. Ora la conclusione della vicenda giudiziaria è destinata a riaprire clamorosamente la partita politica, simbolica come poche altre: Marino fu costretto alle dimissioni da una raccolta di firme di consiglieri del suo stesso partito, con l' avallo del presidente del Consiglio Matteo Renzi e sulla scia di quel dimissionamento cruento, nelle successive elezioni il Pd andò incontro a una batosta che anticipò quella nazionale. E quanto ai Cinque stelle, conquistarono il Campidoglio con Virginia Raggi. Vecchia e nuova vita Ignazio Marino già da qualche anno ha ripreso la sua attività di chirurgo del fegato negli Stati Uniti e da oggi tornerà a pensare al suo futuro. Nelle interviste che rilascerà nei prossimi giorni si può immaginare che «il marziano» sia pronto a togliersi parecchi «sassolini». Con Nicola Zingaretti, presidente della Regione, il sindaco Marino disse di non aver trovato mai una grande collaborazione. Ma il rapporto più difficile lo ha avuto con Matteo Renzi. Una volta Marino disse testualmente: «La mia caduta ha 26 nomi e un unico mandante. Io non ho avuto rapporti turbolenti con il presidente del Consiglio, nell' ultimo anno non ho avuto nessun rapporto». E questo resta in effetti il punto forse più originale di tutta la vicenda. Nel marzo del 2015 il Papa annunciò a sorpresa un nuovo Giubileo e mentre Comune e Vaticano facevano le prime riunioni operative, il governo prese tempo. Renzi era restio a concedere un solo euro al Campidoglio, fino a quando a Porta a porta si produsse in una intemerata originalissima per un presidente del Consiglio: «Se fossi Marino, non starei tranquillo», «se sa farlo, governi Roma, sennò a casa». Un lessico "pop" e una brusca ingiunzione di sfratto dall' alto che poi portarono alle dimissioni imposte al sindaco, firmando un atto dal notaio.

Ignazio Marino (assolto) attacca: "Il Pd di Renzi e Orfini? Come sparare sulla Croce Rossa..." Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Il Giornale.it. "Non ho nulla da perdonare o critiche da accettare da chi ha portato alla rovina il Pd consegnando Roma e il paese al populismo". Ignazio Marino si prende la sua rivincita. L'ex sindaco di Roma parla dopo la sentenza della Corte di Cassazione che lo ha assolto dalle accuse di peculato e falso del cosiddetto "caso scontrini". Caso che gli costò la carica di primo cittadino, venendo sfiduciato e cacciato dal suo partito per volontà, su tutti, dell'allora segretario Matteo Renzi e di Matteo Orfini. L'ex primo cittadino capitolino - intervistato da La Repubblica - esulta in primis per la sentenza degli ermellini: "Ovviamente ho provato sollievo anche se sono sempre stato in pace con la mia coscienza". Dunque, sferra un caustico attacco al suo ex partito: "La chiusura dei circoli del Pd nella capitale è stato il segnale di uno scollamento totale tra i vertici del partito e il territorio. Un isolamento che ho vissuto sulla mia pelle. Io e la mia giunta siamo stati lasciati soli in balia di quel sistema di potere che da decenni governava Roma". Il chirurgo (oggi insegna con una prestigiosa cattedra alla Thomas Jefferson University di Philadelphia), è stato contattato anche dal Messaggero e in occasione della chiacchierata con il quotidiano capitolino ha parlato della difficile situazione di Roma, puntando il dito contro Virginia Raggi: "Roma può cambiare e diventare una metropoli moderna, accogliente e internazionale. Di certo non con questa amministrazione...". E poi: "Mi pare che i romani e le romane la vedano male (la città, ndr), non solo sporca e piena di buche, ma disgregata, decadente, senza prospettiva, violenta. Di questo la sindaca ha la piena responsabilità politica". E se sul neo segretario Nicola Zingaretti non si sbilancia più di tanto - "Lui non sostiene, non attacca. Sta in equilibrio. Io non sono così..." - ecco un'altra bordata al due Renzi-Orfini: "Il primo ha distrutto il Pd, lacerato il centrosinistra e consegnato il Paese alla destra, sovranista e populista. Il secondo ha perso miseramente le elezioni a Roma. Che vuole commentare? Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa...".

L’ex sindaco Marino: «Quel piano scellerato dei renziani su di me e su un’intera città». Pubblicato mercoledì, 10 aprile 2019 da Fabrizio Roncone su Corriere.it. Il professor Ignazio Marino si sta imbarcando su un aereo che da Santiago de Querétaro, in Messico, lo porterà a Philadelphia, negli Stati Uniti. Quindi, niente interviste. Cioè, no: spiega che farà scalo per pochi minuti a Houston, ad un paio di giornali propone perciò che qualche domanda gli sia spedita via e-mail, proverà a rispondere quando l’hostess dirà ok, potete accendere telefonini e tablet. Va bene. Poi vedremo se ha cose interessanti da raccontare. Intanto: su Facebook ha scritto che prova sollievo, ma non allegria. È comprensibile. L’assoluzione ottenuta dalla Cassazione — l’avevano accusato di peculato e falso per certe cene di rappresentanza organizzate quando era sindaco di Roma — è arrivata dopo un saliscendi tremendo durato tre anni: assolto in primo grado, condannato in appello. Una storia con dentro tanta politica, e tanto Pd (meglio: tanto vecchio Pd; il partito all’epoca di rigido rito renziano che, dopo averlo sopportato, lo abbandonò, con i consiglieri democratici a firmare dimissioni di gruppo da un notaio. Politicamente, una liturgia pazzesca). Per rinfrescare la memoria: Marino fu costretto alle dimissioni incalzato dal Movimento 5 Stelle, che si muoveva guidato da un grillino particolarmente esagitato, Marcello De Vito, oggi in carcere per corruzione (memorabili quei sit-in sulla piazza del Campidoglio al grido di «O-ne-stà! O-ne-stà!») e da Matteo Orfini, all’epoca commissario straordinario del Partito democratico e uomo di fiducia di Matteo Renzi. Orfini, in queste ore, dice che rifarebbe tutto. Dice che Marino non cadde per la storia degli scontrini, ma perché non era adeguato. Bisognerebbe aggiungere: cadde anche perché — come ricordano numerosi osservatori — non era renziano (in quei mesi, a Montecitorio, i monaci e le sacerdotesse del renzismo dicevano: «Chi non è con noi, lo asfaltiamo»). Non controllabile e, invece, irrituale, spiazzante, goffo. Sembra ieri: il chirurgo di fama che arriva da Genova passando per la fondazione di Massimo D’Alema «Italianieuropei» e per Palazzo Madama con un curriculum di oltre 700 trapianti d’organo (compreso il primo nella storia dal babbuino all’uomo) e il poster di Che Guevara piegato nel trolley, alla vigilia dei 60 anni eletto sindaco grazie ad un colpo di mano di Goffredo Bettini, per mesi cerca di sottrarsi alla morsa dei poteri forti, decide che la cosa più urgente da fare sia chiudere al traffico via dei Fori Imperiali e non si accorge che la criminalità gli ha contagiato come una tigna tutto il consiglio comunale, dove quasi ogni partito fa affari con Salvatore Buzzi e con il camerata Massimo Carminati, «er cecato». Disse: «Mafia Capitale? Non mi sono accorto di nulla» (così gli cambiarono il soprannome: da «Marziano» diventò «Bambi» — copyright Walt Disney).  Adesso, invece, che dice? Sono appena arrivate le sue risposte dagli Stati Uniti. (Sintesi. Professore, aspetta le scuse di Orfini? «No. Le scuse presuppongono capacità di autocritica e onestà intellettuale». 

Perché, all’epoca, tanta ostilità da parte di Renzi? 

«Non so in base a cosa giudicasse il mio operato. Troppo concentrato su se stesso. Però bisogna riconoscergli che è riuscito nell’impresa di perdere Roma, distruggere il Pd e consegnare l’Italia alla Destra». 

I piani del Pd renziano, secondo alcune ricostruzioni, erano due: 1) al Campidoglio dobbiamo mettere un nostro uomo 2) se non ci riusciamo, e il nuovo sindaco sarà del M5S, l’Italia si accorgerà che i grillini non sanno governare, anticipando quindi un po’ la teoria del «mangiamo i popcorn e vediamo cosa sanno fare». 

«Un piano scellerato, giocato sulla pelle di una intera città». 

Ha intenzione di ricominciare a fare politica? Aspetta un segnale dal nuovo segretario Nicola Zingaretti? 

«Sono tornato alla mia vita accademica, vivo e lavoro a Philadelphia. Certo l’impegno civile non viene meno, ma non c’è solo la politica, per questo»). 

Chi lo conosce, pensa: può essere capace di tutto. Anche di fondare un partito. In effetti, è già stato capace di molto. Ricorderete le multe collezionate dalla sua famosa Panda rossa nella Ztl, le immersioni ai Caraibi mentre i Casamonica bloccavano Cinecittà per un funerale in stile Padrino, e poi quella volta che Papa Bergoglio se lo ritrovò in aereo — «Ma io non l’ho invitato», disse il Pontefice, seccato. 

Un personaggio («Ovviamente, è scontato che la mia intervista avrà il richiamo in prima pagina. O no?»).

Fabio Martini per “la Stampa” l'11 aprile 2019. Il tempo passa ma l' uomo resta irriducibile alle regole del "sistema": dopo che la Cassazione gli ha restituito tutto intero il suo onore, le tv lo cercano per averlo in studio, ma il professor Ignazio Marino rimane su "Marte": «La tv? Sono a Filadelfia. non tornerò in Italia prima di Pasqua, ho i miei pazienti da seguire». Dopo l' assoluzione, l'ex sindaco di Roma è diventato un eroe del web, ma Matteo Renzi e Matteo Orfini tengono il punto: Marino cadde non per colpa degli scontrini, ma perché incapace e lui risponde con freddezza: «Non conosco bene Renzi ma a me appare un egocentrico: ha distrutto il Pd e, con il Patto del Nazareno, ha condannato tutto il centrosinistra. Consentendo così alla destra populista della Lega di arrivare al governo senza alcuna opposizione».

Perché Renzi la delegittimò?

«Su Roma era mal consigliato da referenti di un Pd locale che il ministro Marianna Madia definì "un' organizzazione a delinquere sul territorio". Renzi non sapeva, e non sa nulla della Capitale. Non se ne è mai interessato, non ha mai chiamato il sindaco per chiedere spiegazioni sul trasporto pubblico o sui rifiuti. Si è persino negato al telefono quando lo chiamai, dopo che alcuni membri del Pd romano erano stati arrestati. Poteva essere di aiuto, non lo ha fatto. Ha preferito ascoltare Orfini e compagnia che poi hanno perso le elezioni».

Iniziò da Roma la deriva che portò alla sconfitta nazionale del Pd?

«Il Pd a Roma era già stato sconfitto dopo che due elettori su tre mi scelsero come sindaco. Il Pd di fatto era all' opposizione contro la nostra giunta. Certamente quanto accadde a Roma ha aperto una voragine e allontanato un larghissimo numero di elettori anche nel resto d'Italia. Elettori che hanno una coscienza molto attenta e critica e non potranno fidarsi più di questo Pd».

L'inchiesta a suo danno fu aiutata da una manina politica?

«È plausibile pensare che dietro all' inchiesta vi sia stato chi ha fornito informazioni false. Oltre all' inchiesta c'è stato altro: lettere con proiettili, un piccione con la testa mozzata dinanzi a casa, le minacce alla mia famiglia, le campagne denigratorie di quasi tutta la stampa».

Quando lei cadde, i notabili del Pd tacquero, ma nelle scorse ore Zingaretti ha fatto un comunicato affettuoso. Apprezzato?

«Non sento Zingaretti dal 2015. Come Presidente della Regione avrebbe potuto fare moltissimo per Roma. Penso ai trasporti o alla gestione dei rifiuti. Ad ogni modo, i compagni (in senso lato) leali si riconoscono perché ci stanno a fianco sempre, anche nei momenti difficili. Certamente non ricordo un suo sostegno al momento in cui il Pd decise di andare da un notaio per far cadere la Giunta».

Continuano a dire di lei: onesto, ma non all' altezza. Immagine distorta o lei ci ha messo del suo?

«Certamente non ha aiutato contrastare il dominio di Manlio Cerroni, il Signore dei Rifiuti a Roma da decenni e che, come egli stesso affermò, aveva convissuto bene con tutti i sindaci che mi avevano preceduto. O la lobby dei camion bar, e neanche selezionare i manager delle aziende municipali sulla base del curriculum e non dell'appartenenza ai partiti; ostacolare la speculazione edilizia a Tor Vergata con il progetto delle Olimpiadi, battersi per i diritti civili. In 28 mesi mi sono guadagnato tanti nemici e il tempo non è stato sufficiente per incidere in profondità e far percepire a tutti i cittadini un cambiamento tangibile».

Cosa non funziona nell' amministrazione Raggi?

«Io ormai sono tornato a vivere negli Stati Uniti, a lavorare nel mio Ospedale e nella mia Università. Mi pare unanime il giudizio sul degrado progressivo, sulla decadenza, sull'incapacità di chi la amministra e sulla mancanza di visione e strategia da parte della sindaca. Anche l'onestà, tanto decantata, appare piuttosto traballante».

Tornerà a far politica?

«Una delle decisioni più felici della mia vita è stato tornare ad esercitare la mia professione. Essere vicino alle persone nel momento della malattia e avere il privilegio di insegnare ai medici di domani è il mestiere più bello del mondo. La sentenza per me un sollievo, ma resta la ferita per questi anni di fango subito ingiustamente. L' impegno civile non è passato, ma si può fare molto anche stando fuori dal circo della politica».

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per “il Messaggero” l'11 aprile 2019. […]

Renzi e Orfini continuano a dire che la sua sfiducia avvenne per motivi legati alle vicende dell' amministrazione capitolina e non all' inchiesta. Ecco, cosa risponde?

«Il primo ha distrutto il Pd, lacerato il centrosinistra e consegnato il Paese alla destra, sovranista e populista. Il secondo ha perso miseramente le elezioni a Roma. Che vuole commentare? Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa».

[…] L' esposto contro di lei venne firmato anche dai grillini. In particolare dall' allora capogruppo Marcello De Vito. Dopo l' arresto del grillino per corruzione cosa ha pensato?

«Guardi, l'arresto di De Vito è un fatto grave e fa un gran male a tutti. È il segno che Roma non riesce a cambiare, che attorno alla politica continuano a gravitare troppi interessi negativi. Io non ho risentimento, sono deluso e amareggiato per la malafede e la disonestà intellettuale dei grillini».

[…] Ma dunque è pronto a impegnarsi di nuovo per la politica e magari a ritornare in Campidoglio come qualcuno sussurra in queste ore?

«L'impegno è un mio stile di vita, una priorità da sempre. Non smetterò mai di impegnarmi per migliorare le cose, per aiutare la collettività. Ma per impegnarsi non c' è solo la politica, o almeno questa politica».

Chi voterà alle Europee?

«Sarò in America e non si può votare per le europee».

Marino dopo l'assoluzione: "Il Pd? Non accetto critiche da chi ha portato il partito alla rovina". L'ex sindaco di Roma parla dopo la sentenza che lo ha definitivamente assolto dalle accuse. "Se alle europee trionferà il populismo sappiamo di chi è la colpa", scrive Salvatore Giuffrida l' 11 aprile 2019 su La Repubblica. Ignazio Marino torna nella sua Philadelphia dal Messico. Scalo a Houston, poi nella città dell'amore fraterno entra ed esce da un convegno. Ma la testa, dopo la sentenza che l'ha visto assolto dal caso scontrini, è all'Italia, al Pd, alle prossime elezioni, a Roma. E non rinuncia a togliersi qualche sassolino dalle scarpe attaccando il Pd, soprattutto quello renziano. "Se a maggio in Europa trionferà il populismo del cinque stelle e il sovranismo della destra sapremo di chi sono le responsabilità".

Qual è la prima cosa che ha pensato dopo aver appreso la notizia della sua assoluzione per il caso scontrini?

"Ovviamente ho provato sollievo anche se sono sempre stato in pace con la mia coscienza. Ho pensato alla mia famiglia e a tutti quegli stretti collaboratori che con me hanno sofferto in questi anni. E ho provato grande riconoscenza per gli straordinari professionisti che mi hanno assistito, il professor Enzo Musco e l'avvocato Alessandra Martuscelli. Mi ritengo un uomo e un cittadino molto fortunato da questo punto di vista".

In queste ore in tanti si stanno complimentando per la sua assoluzione. Ma c'è anche chi, come Orfini, continua a sostenere che lei fu mandato via solo per gli errori commessi. Cosa si sente di replicare?

"Non ho nulla da replicare a chi ha imposto una scelta senza che questa venisse discussa nel luogo che la democrazia deve utilizzare per queste decisioni, ovvero l'Assemblea capitolina. Non ho nulla da perdonare o critiche da accettare da chi ha portato alla rovina il Pd consegnando Roma e il paese al populismo".

Dalla sua caduta il Pd non si è più ripreso nè a Roma nè a livello nazionale. Da dove nasce questa crisi del centrosinistra?

"La chiusura dei circoli del Pd nella capitale è stato il segnale di uno scollamento totale tra i vertici del partito e il territorio. Un isolamento che ho vissuto sulla mia pelle. Io e la mia giunta siamo stati lasciati soli in balia di quel sistema di potere che da decenni governava Roma, dallo smaltimento dei rifiuti alle lobby delle bancarelle".

Tra un mese si vota per le europee. Il centrosinistra nei sondaggi è dato per sconfitto. Teme una deriva populista in Europa?

"Dal patto del Nazareno in poi il Pd è andato in caduta libera. Ma era già finito quando gli elettori scelsero un sindaco come me, definito non a caso "Marziano". Non sono mai stato uno yes man e per questo evidentemente non piacevo al cerchio magico. Cosa di cui posso dire di andare fiero. Se a maggio in Europa trionferà il populismo dei cinque stelle e il sovranismo della destra sapremo di chi sono le responsabilità ma credo che la maggior parte degli elettori Europei vorranno mantenere solida l'Unione Europea".

In molti, e non solo oggi, le chiedono di tornare in politica. Davvero vuole rimanere negli Stati Uniti nel suo impegno di chirurgo e non ha fatto un pensiero e tornare in Italia per dare il suo contributo alla ricostruzione del  centrosinistra?

"Ho scelto di tornare negli Stati Uniti. Oggi insegno chirurgia e sono senior vice president della Thomas Jefferson University di Philadelphia. Non ho alcuna intenzione di tornare a fare politica in Italia ma voglio dedicarmi ai tanti progetti che sto seguendo qui, dove è possibile lavorare con lealtà e dove i risultati si ottengono con la fatica e il merito".

Marino: «Io, vittima delle gogna mediatica». Simona Musco il 22 Maggio 2019 su Il Dubbio. L’ex sindaco: «Roma è nel caos, anche “grazie” al Pd. Contro di me una gogna mediatica. Ma dopo una sentenza di assoluzione piena, l’accusa dovrebbe rinunciare all’appello. Altrimenti diventa un processo al giudice». La gogna mediatica, il cambiamento interrotto, il tradimento del Pd: Ignazio Marino, ex sindaco di Roma e docente di chirurgia e Senior Vice President della Thomas Jefferson University di Philadelphia, è un fiume in piena dopo la lettura delle motivazioni della sentenza di assoluzione firmata dai giudici di Cassazione. L’ex sindaco non ha commesso i reati di peculato e falso nella vicenda degli scontrini, che aveva portato alla sua caduta nell’ottobre 2015. E quella, per Marino, fu anche la caduta di Roma e l’inizio di una deriva la cui colpa, dice, è soprattutto del Pd, che «ha abbandonato i valori della sinistra, perdendo il contatto con la gente e con i territori» e consegnando il Paese in mano «a chi soffia sul vento dell’odio». L’Italia, vista dagli Stati Uniti, dice al Dubbio, è ora un corpo malato, infettato dal «virus delle divisioni sociali» .

La Cassazione ha sancito che Ignazio Marino ha sempre agito correttamente. Se la sente di chiamarla vittoria?

«Ho sempre avuto fiducia nella magistratura e ovviamente ho sempre saputo di non aver mai commesso alcun illecito. Sono sollevato, perché adesso questo è chiaro a tutti, ma certo non sono allegro. Resta una profonda amarezza, non solo personale. Penso alle romane e ai romani che sono stati imbrogliati, ad una gogna mediatica violenta e falsa a cui hanno partecipato quasi tutti i media. Così sono state perdute tante opportunità e sono state sprecate tante risorse, comprese quelle per condurre un’indagine su un presunto fatto che la Corte di Cassazione ha stabilito che “non sussiste”. Tantissimi cittadini mi sono stati vicini in questi anni e vorrei ringraziarli».

Qualcuno si è scusato con lei?

«Per scusarsi bisogna avere la coscienza pulita e capacità di autocritica. Tutti elementi che chi volle porre fine allora alla nostra esperienza chiaramente non aveva e non ha. Piuttosto, ripeto, dovrebbero chiedere scusa ai cittadini che hanno tradito. Diciannove consiglieri del Pd, andando da un notaio, si sono fatti beffa del voto democratico di centinaia di migliaia di romani».

Che verità emerge, al di là di quella giudiziaria, dalle motivazioni?

«Che non ci fu alcun reato commesso dal sottoscritto, ma un circo mediatico costruito ad arte e condiviso dal Partito democratico per distruggere me e il lavoro di cambiamento che stavamo portando avanti. Più che una vittoria, questa sentenza è una sconfitta per Roma che dovrebbe far riflettere tutti».

Ha mai capito perché è successo?

«Appena entrati in Campidoglio abbiamo cercato di liberare la Capitale da quel sistema di potere e dalle tante lobby che hanno sempre dettato legge. Un progetto che evidentemente non era condiviso da tutti. In particolare dagli eletti di vari partiti, a cominciare dal Pd».

Qual era il suo progetto per Roma?

«Lavorare con una prospettiva temporale più ampia dei cinque anni di mandato per rendere Roma una capitale internazionale all’altezza della sua storia e delle sue incredibili potenzialità. Innalzare la qualità di vita delle romane e dei romani e al tempo stesso promuovere Roma a livello globale. Oggi è chiaro che non ci fu consentito di portare avanti il cambiamento. Roma per rilanciarsi, con la mole di debito accumulatosi nei venti anni che hanno preceduto la mia elezione, ha bisogno di risorse e progettazione che debbono essere concordate con le istituzioni nazionali ma soprattutto ha bisogno di un governo centrale che, al di là dei colori politici, metta la questione Roma al centro dell’agenda. Nei 28 mesi da sindaco abbiamo fatto moltissimo ma avevamo bisogno di tempo per mettere finalmente in moto tutti gli importanti cambiamenti avviati. Cosa resta? La nuova linea C della metro, il rilancio della differenziata ( poi arrestatosi con la giunta attuale), la chiusura della più grande discarica d’Europa, la sostituzione di quasi 200mila lampadine pubbliche, il restauro di alcuni dei nostri principali siti come Fontana di Trevi e Trinità dei Monti, la pedonalizzazione di Via dei Fori Imperiali, 16 milioni di euro ottenuti da filantropi internazionali…».

Com’è Roma adesso?

«Non vivo più a Roma da diversi anni. Dal 2016 sono ritornato al mio lavoro negli Stati Uniti e non posso dare giudizi. Vista da fuori emerge una città sciatta e arrabbiata, con disparità sociali sempre più profonde e questo mi addolora moltissimo».

Con la sua vicenda la Capitale è passata in mano al M5s e il Pd si è lasciato sedurre dal giustizialismo. Quante cose sono cambiate con quella sfiducia?

«Lo dico sinceramente per il bene di Roma e dei romani. Questa città non merita più di essere governata in questo modo. In pochi anni sono stati arrestati due presidenti del Consiglio comunale della Capitale: uno scelto dal Partito Democratico e uno scelto dal Movimento 5 stelle. Sfido chiunque a trovare cambiamenti, se non in peggio. Spero che la violenza e il dolore che la mia vicenda giudiziaria hanno causato, non solo a me personalmente, possano servire ad evitare simili derive in futuro».

Renzi ha definito la scelta di sfiduciarla politica, cioè legata al governo della città. Come risponde?

«Il Pd ha il dovere di rispondere ai romani e alle romane per aver destituito davanti a un notaio un sindaco democraticamente eletto. Tutto per il volere del suo segretario, Matteo Renzi, e del suo presidente, Matteo Orfini, che impedirono il confronto in Assemblea Capitolina. Non avere il coraggio di dare queste risposte è la cifra umana e politica di chi si è reso responsabile del più grave tracollo di quello che era il primo partito politico italiano».

Quali sono le cause?

«Quanto avvenuto durante il mio mandato è una delle pagine più buie della nostra democrazia e di un partito che all’epoca era il primo in Italia e oggi, forse non a caso, ha perso oltre metà dei consensi e non ha più la capacità di cogliere le vere necessità delle persone. Inoltre, mi prendo la libertà di un commento da elettore di sinistra: non credo sia possibile mantenere il proprio elettorato se si abbandonano i valori della sinistra».

Quale sarebbe la sua ricetta, se fosse ancora in politica, anche in vista delle europee?

«Il centrosinistra ha perso il contatto con la gente e con i territori. Non parla più di lavoro, istruzione, welfare. Le soluzioni della destra sono certamente criticabili ma non è chiaro quali proposte alternative abbia la sinistra. Mi auguro che queste elezioni non consegnino l’Europa a chi vuole governarla soffiando sul vento dell’odio e dell’intolleranza. Credo che molti cittadini europei utilizzeranno questa opportunità proprio per difendere e rafforzare l’Unione Europea».

Le inchieste giudiziarie vengono spesso usate come armi per creare capovolgimenti politici. Che cosa significa secondo lei?

«Non sono un esperto di giurisprudenza ma mi sembra sensato quanto affermato dal professor Musco che assieme all’avvocato Martuscelli mi ha brillantemente difeso. In Italia, come in altri Paesi, non si dovrebbe poter ricorrere contro un’assoluzione piena in primo grado. Più che un processo all’imputato, questo è infatti un processo al giudice che ha emesso la sentenza».

Tornerà, prima o poi, a fare politica?

«Sono tornato a fare quello che più amo nella vita e per i prossimi anni voglio dedicarmi ai tanti progetti avviati come docente di chirurgia e Senior Vice President della Thomas Jefferson University di Philadelphia».

Da medico, se dovesse usare una metafora sanitaria, come definirebbe l’Italia in questo momento?

«Infettata dal virus delle divisioni sociali che provoca qualcosa di peggiore della morte: la perdita della fiducia e dell’entusiasmo».

Caso scontrini, ex sindaco Marino assolto: dem e M5s nel mirino dei social. Orfini: "Non mi scuso, governava male". In rete pioggia di commenti all'assoluzione dell'ex sindaco: dito puntato soprattutto contro i vertici Pd dell'era Renzi. L'allora commissario dem insiste: "La mia scelta fu politica, non stava amministrando bene la città. E gli M5s dovrebbero sfiduciare la loro sindaca". Raggi tace sul caso Marino e svia sull'annuncio del "primo minibus 100% elettrico che presto tornerà in servizio nel Centro", scrive il 10 aprile 2019 La Repubblica. Attestati di stima e inviti a candidarsi ancora. Finisce un incubo per Ignazio Marino, assolto in Cassazione per il caso scontrini "perché il fatto non sussiste", e i profili social dell'ex sindaco di Roma vengono letteralmente presi d'assalto dai suoi sostenitori, decisi a festeggiare la sentenza come una nuova vittoria. "Ti ho sempre creduto", "non ho mai avuto dubbi su di te e sulla tua onestà", "ho sempre creduto fossi una persona per bene", "sarai sempre il mio sindaco", i commenti più gettonati fra quanti, tuttavia, non perdonano al Partito democratico le ormai famigerate "dimissioni dal notaio" e le campagne incalzanti contro il sindaco chirurgo degli allora consiglieri comunali d'opposizione Virginia Raggi, Marcello De Vito e Daniele Frongia. A rispondergli in centinaia, tantissimi ricordando affettuosamente il motto utilizzato allora in campagna elettorale, quel "Daje!" che ora suona come un nuovo inizio. E Matteo Orfini? Esce subito allo scoperto, risponde alle accuse punto per punto e replica alle critiche mantenendo il punto: "La mia scelta fu politica, stava amministrando male la città", scrive così in un lungo post su Fb, l'allora commissario dem a Roma. "Alcuni, compreso qualche dirigente del Pd, mi chiedono di scusarmi per la scelta di avere sfiduciato Ignazio Marino. Ovviamente non credo di doverlo fare, perché quella scelta l'ho assunta spiegando fin dal primo momento che non era legata all'inchiesta. Marino non era adeguato a quel ruolo, stava amministrando male Roma, la città era un disastro". E ancora Orfini: "Di lui difesi l'indifendibile, misi me stesso a sua protezione per più di un anno, rispondendo personalmente di ogni problema della città. Andai nei luoghi dove nessuno di quella giunta osava andare perché si prendevano fischi e insulti. Li presi io per lui e per loro. E presi anche le minacce dei mafiosi di Ostia, della cui esistenza prima del mio arrivo (e di quello di Sabella e Esposito) nessuno si era accorto. Non bastò perché errori e atteggiamento del sindaco non cambiarono... La Roma disastrata di oggi è anche figlia di quella stagione, di quei limiti amministrativi, di quella visione antipolitica, di un partito che era davvero impresentabile... sarebbe un bene se oggi il M5s sfiduciasse la Raggi". La sindaca Raggi finora non ha commentato l'assoluzione di Marino, il primo post della giornata su Fb inneggia al "primo minibus 100 per cento elettrico che molto presto tornerà in servizio nel Centro storico". Molti utenti la applaudono, altrettanti le ricordano che i minibus elettrici c'erano già stati da tempo, poi negli ultimi anni erano spariti, moltissimi riempiono la sua bacheca di critiche pesanti. Uno per i molti: "Vai a chiedere scusa a Marino. Siete riusciti a farci rimpiangere quell’altra larva umana. Buffoni" con un altro utente che lo rintuzza: "Buffoni vallo a scrivere ai 26 consiglieri di maggioranza che firmarono la sua cacciata dal notaio".

Renzi: «Marino vittima del fango M5s. La nostra fu scelta politica». Pubblicato mercoledì, 10 aprile 2019 da Corriere.it. «Non mi scuso con Marino». Matteo Orfini, oggi presidente del Pd e nel 2015 commissario del partito nella capitale, rivendica la sfiducia all’epoca votata al sindaco di Roma Ignazio Marino. Quest’ultimo ieri è stato assolto dalla Cassazione che ha annullato senza rinvio la condanna a due anni di reclusione avuta nel gennaio del 2018 dalla corte d’appello di Roma per peculato e falso in merito alla vicenda delle 52 cene per 12.700 euro pagate a spese del Campidoglio. Nell’ottobre 2015 il Partito democratico guidato da Matteo Renzi lo aveva fatto dimettere facendo depositare a 26 consiglieri le dimissioni dal notaio. «Alcuni, compreso qualche dirigente del Pd, mi chiedono di scusarmi per la scelta di avere sfiduciato Ignazio Marino», ragiona ora Orfini, «ovviamente non credo di doverlo fare, perché quella scelta l’ho assunta spiegando fin dal primo momento che non era legata all’inchiesta. Marino non era adeguato a quel ruolo, stava amministrando male Roma, la città era un disastro». La posizione di Matteo Renzi non si discosta di molto: «La vicenda degli scontrini contro Marino è stata una violenta campagna di fango del Movimento Cinque Stelle contro l’allora sindaco per i suoi guai giudiziari. Portarono persino le arance in Consiglio Comunale, gesto barbaro, che peraltro si è ritorto contro gli stessi grillini. Quanto alle polemiche interne al Pd, ricordo che le dimissioni di 26 consiglieri del Pd e il decadimento del sindaco non avevano niente a che fare coi problemi giudiziari o con gli scontrini». Conclude: «Nel 2015 la scelta del Pd romano fu totalmente figlia di valutazioni amministrative legate al governo di Roma. Il Pd romano prese una decisione politica, non fece una guerriglia giudiziaria. Si può essere d’accordo con la scelta dei consiglieri oppure no. Ma quella era una scelta politica non giudiziaria: sovrapporre i piani serve solo a regalare ai Cinque Stelle un alibi per le responsabilità nella campagna di fango che vide protagonisti loro, non certo il Pd». «È semplice sfiduciare un tuo sindaco?», si domanda ancora Orfini su Facebook, «no. Ma vi pongo io una domanda? Per Roma, per i romani, sarebbe un bene o un male se oggi il M5s sfiduciasse la Raggi? Io credo sarebbe un bene. Certo pagherebbero un prezzo altissimo, ma farlo significherebbe anteporre l’interesse generale a quello di parte. È quello che facemmo noi allora. Perché un partito serio fa così. Interrompe una agonia dannosa, paga il prezzo che deve pagare e comincia a ricostruire». Secondo Orfini, «quel partito era malato e quell’amministrazione inadeguata. Molti dei protagonisti di quella degenerazione oggi si trovano in maggioranza nel nuovo corso del Pd. Se questa è la lettura possono riportare le lancette indietro. E possono ripartire da quello straordinario modello di partito pre-commissariamento e da quell’illuminata esperienza amministrativa. Ciò mi fa venire un dubbio, ovvero che nel Pd romano ci sia una gran nostalgia di quello che c’era prima». «Molti obiettano che» la scelta di sfiduciare Ignazio Marino «ha portato la vittoria della Raggi e il disastro attuale», scrive, «per carità, ognuno può interpretare a piacimento il nesso di causa-effetto. Dal mio punto di vista, la Raggi l’ha portata il disastro amministrativo prodotto da Marino e una inchiesta - Mafia capitale - che sconvolse la città e il Pd». «Possiamo far finta che tutto questo non c’entri. Possiamo raccontarci che Marino fosse un sindaco fantastico. Possiamo convincerci che Roma possa essere amministrata con lo slogan protogrillino “non è politica, è Roma”. Ma, appunto, faremmo solo finta», sottolinea ancora Orfini. «Chiunque giri la città sa che fuori dalle mura aureliane sono pochi quelli che rimpiangono la nostra amministrazione. Abbiamo passato una settimana a parlare di quanto le periferie si siano sentite abbandonate dal Pd. Io sono l’unico parlamentare del Pd che nei giorni infernali in cui si rischiavano gli schiaffi a Torre Maura ci è andato. Gli altri che magari ora se la prendono con me hanno fatto qualche tweet, come sempre. Qualcuno al massimo è venuto alla manifestazione quando tutto era già finito. Fossero usciti dal centro si sarebbero accorti che in quelle periferie ancora ci rinfacciano l’assenza di quegli anni. E di quelle amministrazioni».

·         Droga Capitale.

DROGA CAPITALE. Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 28 ottobre 2019. C'è spazio per tutti a Roma quando si tratta di vendere droga. Oltre ai professionisti del crimine, che esercitano un controllo militare sulle periferie, ci sono poi gli improvvisati. Un nuova categoria di pusher che cercano di arrotondare lo stipendio o di mettere in tasca dei soldi, se si tratta di studenti. Il loro palcoscenico sono Trastevere, Testaccio, San Lorenzo, dove lo spaccio, a differenza di Tor Bella Monaca o San Basilio, non conosce padroni. A questo fenomeno è collegata anche l'autoproduzione di droga. Nessun ndranghetista o camorrista da contattare per farsi rifornire della materi prima. Inoltre il produttore fai da te è spesso anche un piccolo spacciatore o un baby pusher, quando la mattina a posto che andare a lavorare va a scuola. Un business che rappresenta un affluente del principale fiume della droga alimentato dalle mafie.

FAI DA TE. La spesa iniziale è low cost: bastano un centinaio di euro per acquistare in internet i semi della marijuana, una serra idroponica, che occupa poco spazio dentro un appartamento e infine scaricare una dettagliata guida sulla coltivazione della cannabis. Un investimento relativamente redditizio ma a elevato rischio. Le forze dell' ordine, negli ultimi anni, non fanno altro che individuare, smantellare, sequestrare queste piccole strutture comprese le mazzette di denaro nascoste dietro i lavandini o nelle intercapedini ricavate nei muri. Il 24 settembre i finanzieri hanno scoperto che un operaio ferroviario di 26 anni, nel suo appartamento a Villa Spada, quartiere a nord della Capitale, coltivava marijuana grazie a lampade per colture idroponiche, un impianto di ventilazione e aspirazione, termometri, timer, fertilizzanti e bilancini di precisione. In certi casi i progetti sono perfino più audaci. È il caso di due studenti di 17 anni che, in mezzo a un bosco a Mostacciano, nella periferia a sud della Città Eterna, hanno messo in piedi una piantagione. Il 30 settembre la polizia ha trovato nelle loro camere (vivono con i genitori) del fertilizzante e nei loro cellulari degli sms che confermano un' attività di spaccio tra i coetanei: messaggi per appuntamenti e relativi prezzi. Droga che, appunto, viene venduta anche tra i banchi di scuola. Aveva suscitato scalpore, a marzo del 2016, una inchiesta dei carabinieri nel liceo Virgilio, nel cuore di Roma. Il cortile della scuola, durante la ricreazione, si trasformava in una piazza di spaccio gestita dagli stessi alunni. La scoperta più clamorosa è però del 2012. Nelle viscere della Capitale la finanza aveva scoperto un' area di sette ettari per la coltivazione della marijuana. Una superficie che interessava la zona dell' antica metropolitana vicino alla stazione di Roma Casilina. Un tratto sotterraneo, costruito durante la guerra, che non era stato mai utilizzato.

LE PIAZZE. Ci sono poi le piazze dello spaccio che possono essere divise in due categorie, quelle aperte e quelle chiuse. Le prime sono quelle dove la vendita avviene senza l' impiego di una struttura criminale. Questo succede soprattutto nei luoghi della movida. Qui si vendono soprattutto l' hashish, la marijuana, l' eroina che si fuma e gli psicofarmaci. Sono San Lorenzo, l' Esquilino, il Pigneto, Ponte Sisto, Trastevere, Campo de' Fiori in Centro. Ma anche Centocelle, l' Alessandrino, la Borghesiana, Torre Maura e Torre Angela, in periferia. Poi ci sono le piazze chiuse: San Basilio, Tor Bella Monaca, Montespaccato, Romanina, Nuova Ostia, Tufello, Laurentino, Guidonia. Qui il sistema adottato è sul modello Scampia. Lo spaccio è organizzato con turni di pusher e vedette, gli androni o i garage dei palazzi in alcuni casi sono addirittura videosorvegliati. Capita che in uno stesso quartiere quattro vie siano gestite da quattro clan diversi e se qualcuno sgarra allora l' equilibrio si ripristina a suon di piombo. Il mercato funziona come un drugstore sempre aperto.

Solo legalizzare le droghe leggere fermerà i clan. Roma da oltre un decennio è diventata l'hub della coca (e non solo) in Italia eppure di questo non sentirete mai parlare seriamente nei dibattiti politici. Cosa Nostra, 'ndrangheta e camorra si sono sempre mosse in equilibrio evitando scontri cruenti. Se l'omicidio Sacchi si configura come interno alle dinamiche della distribuzione delle droghe leggere, la politica per riscattare la sua inanità ha una sola strada: legalizzarle. Roberto Saviano il 27 ottobre 2019 su La Repubblica. E' il sangue e solo il sangue che genera attenzione, che pretende azione (per qualche giorno almeno). È una drammatica e sempiterna regola, inviolata sino a ora. Solo il sangue è la madre di tutte le comprensioni: fin quando non lo vedi a terra la mafia non c'è, fin quando non senti lo sparo non percepisci pericolo, se non si innescano le faide non esiste il problema. Il sangue non si può nascondere e quando scorre cosa accade? Accade che si ridimensiona la vicenda. Con l'omicidio Sacchi il sangue a Roma è tornato a scorrere ma c'è un automatismo innato che si genera sempre dinanzi alle tragedie, cercare elementi per allontanarle da sé. Incidente stradale? Beh, ma guidava ubriaco. Cancro? Grande fumatore. Un ragazzo sparato alla nuca? Beh, ma vedrai che qualcosa non torna. È tutto normale, un modo per sentirsi al riparo, per potersi dire che non capiterà a chi si comporta bene, un meccanismo che le istituzioni spesso usano come ansiolitico per calmare la legittima apprensione, quella che pretende che tutto cambi. Avviene per non dirvi la più semplice delle verità: siamo tutti esposti, nessuno è al sicuro. Roma non ha i morti di Caracas, non è lontanamente paragonabile a San Salvador o Lagos, ma Roma deve smetterla di sentirsi diversa dall'essere una città mangiata dalla corruzione e occupata dai poteri criminali. Prima si rende conto di essere una Capitale mafiosa, prima può forse pensare di trasformarsi. Roma non è Gotham City? Molto peggio. Perché Gotham sapeva d'essere Gotham, perché riconosceva il male in Joker e Pinguino ma soprattutto Gotham aveva Batman che su Roma non è Bruce Wayne ma Franco Fiorito "er Batman". Roma è luogo di riciclaggio privilegiato degli investimenti del narcotraffico da più di un decennio: elenchi sterminati di ristoranti, pub e gelaterie sequestrati alle cosche. Infinite speculazioni edilizie. Tutti spesso derubricati a fatti episodici, laterali alla vita della città quando ne sono l'essenza stessa, il sistema linfatico dell'economia. Dinanzi a un omicidio come quello dei Colli Albani si usano sempre le solite immagini. La metafora cinofila: "Cani sciolti". Oppure quella equina: "Cavalli pazzi". Sovente: "Lupi solitari". Fesserie. Sono un esercito pronto ad affiliarsi, microcellule pronte al salto organizzativo e che nella parte maggiore dei casi non ci riescono perché finiscono ammazzati, arrestati o nel delirio sanguinario sparano alla nuca come se fosse uno spintone. Non c'è limite alla corsa per trovare spazio di guadagno. Roma da oltre un decennio è diventata l'hub della coca (e non solo) in Italia eppure di questo non sentirete mai parlare seriamente nei dibattiti politici. La prova più eclatante è già nel 2014 quando in una sola operazione (una sola!) i carabinieri sequestrarono 578 chili di coca che avrebbero reso 24 milioni di dosi ossia 1.300 milioni di euro. Da lì in poi potrei fare un elenco infinito, passando per i 200 chili scovati nell'agosto scorso. Percentuali di sequestro minime rispetto a un flusso perenne e continuo. Immaginate questa massa di denaro in una metropoli dove il turismo garantisce che case, ristoranti e locali siano pieni e quindi pronti per riciclare. Roma si racconta compiaciuta con i turisti che leccano i gelati e i selfie ai Fori Imperiali con i gladiatori. Ma è solo una scenografia. È invece la metropoli dove trovare lavoro senza essere protetto da un politico è quasi impossibile, dove un piccolo imprenditore per farsi pagare si deve rivolgere a bande che recuperano i crediti. In questa Roma ogni pistola è un'occasione per provare a farcela. Ancora pensate che siano le serie tv a ispirare i violenti? Quanta colpevole ingenuità, le serie raccontano il reale volto di ciò che accade e chi lo vive ci si specchia direttamente. Roma è stata storicamente città aperta: Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Camorra si sono sempre mosse in equilibrio evitando scontri cruenti. La gestione negli anni si è evoluta: i clan meridionali hanno subappaltato il controllo del territorio e in questo spazio è nata un'organizzazione autonoma. Mafia Capitale la Cassazione non la definisce mafia, tutto questo è fisiologico perché ad oggi è solo su base etnica il riconoscimento penale del crimine organizzato: sembra assurdo ma è così (con la sola eccezione della Mala del Brenta). La battaglia per il riconoscimento di un'organizzazione mafiosa è infinita: l'introduzione del reato è del 1982 (mentre Cosa Nostra esisteva già da un secolo) e la parola 'ndrangheta è entrata nel Codice Penale solo nel 2010 (esisteva da più di 120 anni). Ci vorrà tempo perché tutti comprendano il volto di ciò che è nato nel ventre di Roma, superando gli stereotipi che ancora cercano coppole e lupare. Questa battaglia però non si deve fermare. E non può essere delegata alla magistratura. Deve essere l'ossessione della società civile - se ancora esiste - perché spesso per gran parte della politica (quando non complice) è solo un tema da risolvere con le manette. Nulla di più fallace. Le prigioni da sole non hanno mai sconfitto nessuna mafia. Trasformare le regole che rendono Roma una città a vocazione mafiosa sarebbe invece l'unico atto determinante. Se l'omicidio Sacchi si configura come interno alle dinamiche della distribuzione delle droghe leggere, la politica per riscattare la sua inanità ha una sola strada: legalizzarle. Sottrarre questo mercato immenso al crimine è l'unico modo per dimezzarne profitti e potere: ogni altra strada sarà effimera, perché retate e condanne apriranno vuoti nelle reti di spaccio che una leva sempre più giovane sarà felice di colmare. Non sarà facile per una politica che si nutre di tweet prendere questa decisione. Ma bisogna imporre il tema nel dibattito pubblico. E costringere da subito ad affrontare i nodi del riciclaggio e dell'investimento mafioso che distruggono ogni libera iniziativa.

·         Mafia Capitale. Non è mafia…

«La coop 29 giugno non aveva le caratteristiche della mafia». Convegno del Partito Radicale da “Mafia Capitale” alla legge “spazzacorrotti”. I protagonisti del processo sul “mondo di mezzo” contestano la sentenza d’appello, scrive Damiano Aliprandi il 29 Mar 2019 su Il Dubbio. È la prima volta in assoluto che alcuni imputati – altri sono in carcere o ai domiciliari – di “mafia capitale” parlano in pubblico. Anche persone non imputate, ma vittime collaterali del processo, come i presidenti di piccole cooperative che lavoravano per la cooperativa 29 giugno e si sono ritrovati schiacciati dalla nuova gestione frutto del commissariamento. Lo fanno nella sede del Partito Radicale che ieri ha organizzato un convengo presieduto da Sergio D’Elia e Rita Bernardini dedicato proprio all’equiparazione della corruzione con la mafia. Partendo proprio da “mafia capitale” per finire alla legge “spazzacorrotti”. Il legame c’è, perché i corrotti, oltre che ‘ spazzati’, sono anche assimilati ai mafiosi visto che è stato esteso il 4 bis: non possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario come, appunto, i mafiosi. Un articolo dell’ordinamento penitenziario che in realtà, nella riforma dell’ordinamento penitenziario originale, sarebbe stato modificato visto il suo carattere emergenziale. Per gli imputati di mafia capitale, invece, non c’è stata bisogno di nessuna nuova legge. Per i legali difensori, al massimo era emerso – di concreto – una turbativa d’asta, ma invece sono stati condannati, in secondo grado, al 416 bis. Ora attendono la Cassazione che si troverà a decidere, in punta di diritto, se la sentenza d’appello è stata corretta o meno. In appello, come detto, il presidente Salvatore Buzzi e alcuni dipendenti come Claudio Bolla, Claudio Cardarelli, Carlo Guarany della cooperativa 29 giugno sono stati condannati per mafia. A differenza, invece, della sentenza di primo grado che stabiliva la presenza di due associazioni a delinquere comuni e non mafiose. Tra i politici condannati c’è Andrea Tassone, ex minisindaco del Pd di Ostia. Anche lui ha da poco rotto il silenzio. «Spero che se la Cassazione confermerà la mia condanna quantomeno saprà spiegarmi in maniera inequivocabile cosa ho commesso – dice l’ex esponente del Pd – perché fino ad oggi non l’ho ancora capito!». Durante il convengo ha ricordato di come è stato abbandonato dal Pd, lasciato solo e subìto un commissariamento da Orfini, prima ancora che esplodesse “mafia capitale” in tutta la sua interezza. Molto interessanti gli interventi al convegno organizzato dal Partito Radicale. A partire da Claudio Bolla, che faceva parte dell’amministrazione della cooperativa, che ha messo in guardia sul fatto che questa condanna per mafia – se dovesse diventare definitiva – diventerebbe un “precedente” giudiziario che ritiene «pericoloso per la società e per la democrazia del Paese». Ciò che contestano – Bolla e gli altri imputati – è l’assunto giudiziario che considera mafiosa la cooperativa “29 giugno”, pur essendo quest’ultima una realtà non certo importante anche nei numeri e priva di controllo del territorio e di armi. Secondo Bolla, in sostanza, verrebbero «minati i principi democratici e costituzionali», su cui si fonda il Paese, perché in futuro si darebbe agli inquirenti la possibilità di contestare il 416 bis anche in altri ambiti. Durante l’intervento, Claudio Bolla lancia una sferzata al nuovo libro dei magistrati Pignatone e Prestipino. Si riferisce al passaggio del libro dove c’è scritto: «(…) sin dal 2008 “mafia capitale”, per opera di Carminati e Buzzi, entra in rapporto con i Mancuso – potente famiglia di ’ ndrangheta del Vibonese – che sul proprio territorio “accredita” due dipendenti della Cooperativa 29 giugno facente capo a Buzzi, i quali presso un centro sito a Cropani Marina gestiscono, sotto la protezione degli stessi Mancuso, una nuova attività nel settore dell’accoglienza di cittadini extracomunitari ( 240 immigrati per un introito complessivo di 1.300.000 euro)». Bolla ricorda che è non è vero, perché «Carminati e Buzzi s’incontrano nel 2012, Rotolo e Ruggiero ( i 2 soci della 29 Giugno) sono stati assolti in 1° e 2° grado dalle accuse e tra l’altro Carminati conobbe la “29 Giugno” nel 2012 visto che nel 2008 era ancora in carcere». Interessante l’intervento del professore Tullio Padovani, che partendo da un dato: l’esistenza di due sentenze, due valutazioni «non solo contrastanti, ma assolutamente confliggenti, perché in primo grado ci sono due associazioni per delinquere comuni e in secondo grado c’è un’unica associazione di stampo mafioso». Padovani, quindi, rileva non solo una relatività del giudizio, ma «una franosità dei presupposti». Il professore spiega che questo sintomo è da ritrovare all’origine. «Come diceva Heidegger – sottolinea Padovani -, l’essenza di un problema è nella sua origine». E l’origine, per Padovani, è proprio il 416 bis, nato per fronte ad una emergenza, che era appunto quella della mafia che ha delle caratteristiche ben precise. «Ma il 416 bis, osservandone la fattispecie – spiega Padovani –, si può notare come sia idoneo a performare la realtà in modo tendenzialmente incontrollabile». Incisivo l’intervento dell’avvocato Cataldo Intrieri, difensore di Carlo Guarany, il vicepresidente della “29 giugno”. Ha fissato un tema di grandissima attualità: la violazione del principio di legalità e il sotteso principio di tassatività della norma. Violazioni che hanno interessato sia la sentenza di “mafia capitale”, ma oggi anche la normativa dello “spazzacorrotti”, con ciò portando a uno strappo del diritto. «Al contrario, il giudice di primo grado della sentenza sul “Mondo di Mezzo” – spiega l’avvocato Intrieri , aveva sì considerato che i fatti fossero gravi, anche ammettendo che forse il 416 bis avrebbe meritato un’evoluzione, ma aveva anche scritto che non era questo il compito del giudicante».

Mafia Capitale, la Cassazione: «Non fu associazione mafiosa». Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni. La Suprema Corte annulla l'aggravante a carico degli imputati per la cosiddetta inchiesta «Mafia Capitale». Cadono molte accuse a Buzzi e Carminati, le loro pene vanno ricalcolate. La Cassazione ha confermato la prima sentenza affermando che il «Mondo di mezzo» non è mafia. In primo grado la presidente della decima sezione penale, Rosaria Ianniello, aveva respinto l’ipotesi di un’associazione mafiosa, sostenendo l’esistenza di due gruppi criminali, uno facente capo a Salvatore Buzzi e dedito alla corruzione più un altro che sfruttava la fama criminale di Massimo Carminati per mettere in atto estorsioni e intimidazioni. In secondo grado il presidente Claudio Tortora aveva ribaltato la sentenza: il «Mondo di mezzo» era mafia, cioè un’organizzazione criminale in grado di condizionare l’amministrazione cittadina all’epoca guidata dalla destra di Gianni Alemanno. L’inchiesta, coordinata dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, aveva portato a una retata di 37 persone il 2 dicembre 2014. Poi era proseguita con altri 44 arresti a giugno 2015. Quindi il fenomeno di Mafia Capitale aveva tenuto banco con l’ ex sindaco prosciolto dall’accusa di mafia ma finito a processo per corruzione, un alto funzionario di Stato, Luca Odevaine, condannato a 2 anni e 8 mesi di carcere e decine di funzionari alla sbarra per aver alimentato un sistema corruttivo che era entrato nel cuore dell’amministrazione capitolina. Fu una stagione delicatissima. Una commissione, guidata dall’allora prefetto Franco Gabrielli, aveva analizzato gli atti del Campidoglio e tratto le sue conclusioni: il Comune pur con gravi problemi di trasparenza non era interamente infiltrato dal malaffare e dunque non andava sciolto. In quella relazione tuttavia si trovava un forte atto d’accusa nei confronti di molti funzionari della pubblica amministrazione. Virginia Raggi e Nicola Morra (Ansa)Immediato il commento del leader della Lega Matteo Salvini nel corso della registrazione di Porta a Porta: «La Cassazione dice che Mondo di Mezzo non è mafia? Quindi cosa era un’associazione di volontariato?». La sindaca di Roma Virginia Raggi ha assistito alla lettura della sentenza della VI sezione penale. Insieme con la prima cittadina, anche il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra. «Oggi si chiude una vicenda che ha ferito la nostra città - ha detto la sindaca - Siamo qui a testa alta per tutti i cittadini onesti che insieme a noi combattono per la legalità e contro il malaffare».

Mafia Capitale, la Cassazione dice no. Cade l'aggravante del 416 bis. "Schiaffo" alla Procura di Roma. Riconosciuta la presenza di due associazioni distinte a carattere delinquenziale, ma non la loro "mafiosità". Esultano le difese. Appello bis per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati e altri imputati per il ricalcolo della pena. La sindaca Raggi: "Comunque un sodalizio criminale". Federica Angeli e Simona Casalini il 22 ottobre 2019 su La Repubblica. "Non fu mafia". E' arrivata in serata la sentenza della Cassazione sul procedimento Mafia Capitale. La procura generale della Suprema Corte aveva chiesto la conferma delle condanne di Appello, che riconobbero per Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e i loro collaboratori le accuse di aggravante mafiosa ex articolo 416 bis, ma il verdetto è stato diverso. La VI sezione penale della Cassazione ha riconosciuto sì la presenza di due associazioni distinte a carattere delinquenziale, ma non la loro "mafiosità". Per l'ex Nar Carminati e per Buzzi, presidente della cooperativa 29 giugno, nonchè per altri imputati come Luca Gramazio che si erano visti contestare l'associazione di stampo mafioso, ci sarà un processo d'appello bis per il ricalcolo delle pene alla luce della declassazione del reato in associazione a delinquere semplice. Erano 32 gli imputati giudicati dalla sesta sezione penale della Cassazione, 17 dei quali avevano condanne per reati di mafia. La pubblica accusa chiedeva la conferma per tutti, ad eccezione del benzinaio di corso Francia, Roberto Lacopo, condannato a 8 anni in appello, per il quale si è chiesto un nuovo processo. La sentenza di Appello dell'11 settembre 2018 aveva ribaltato il primo grado (che non aveva riconosciuto le accuse di mafia): Salvatore Buzzi e Massimo Carminati e altre 16 persone, una delle quali scomparsa di recente, erano state riconosciute colpevoli di reati di mafia anche se per alcuni erano stati diminuiti gli anni di detenzione. L'imprenditore delle coop è stato condannato a 18 anni e quattro mesi, l'ex Nar a 14 anni e mezzo, l'ammontare complessivo delle pene per i 43 imputati, otto dei quali assolti, aveva raggiunto quasi i 200 anni di carcere. Nella requisitoria, il pg Luigi Birritteri aveva sottolineato come il gruppo dell'ex Nar e del re delle cooperative romane aveva "tutte le caratteristiche dell'associazione mafiosa e rientri perfettamente nel paradigma del 416 bis". Carminati, Buzzi e i loro collaboratori, secondo l'accusa, si muovevano "con un nuovo sistema anche con metodi criminali solitamente non violenti nei rapporti con la pubblica amministrazione perché in quel contesto bastava corrompere". "Usavano la violenza quando era necessario e grazie alla corruzione gestivano il potere politico con fini criminali" sosteneva la pubblica accusa. Gli ermellini di piazza Cavour non sono stati dello stesso avviso e ora esultano i legali degli imputati. Replica il procuratore generale presso la Corte d'Appello di Roma, Giovanni Salvi: "Non trovo giustificate le esultanze di qualcuno visto che la Suprema Corte ha riconosciuto l'esistenza di associazioni, nei termini affermati dalla sentenza di primo grado, che aveva irrogato pene non modeste: due associazioni a delinquere che erano state capaci di infiltrare in profondità la macchina amministrativa e politica di Roma".

I legali di Massimo Carminati. "Era una storia giuridicamente un pò forzata, per annullare senza rinvio vuol dire che la Cassazione l'ha ritenuta giuridicamente insostenibile", così a caldo l'avvocato Cesare Placanica, difensore di Massimo Carminati. "È una sconfitta del metodo di fare i processi del dottor Pignatone, che per fortuna non è più a capo della Procura, perchè fare processi alle persone sulle supposizioni per quello che si ritiene che siano e non per quel che fanno non mi sembra rispetto del principio di legalità. Questa sentenza ristabilisce questo principio che si era indebolito fortemente" ha dichiarato Giosuè Naso, avvocato di Carminati nei primi due gradi di giudizio e di Riccardo Brugia in Cassazione.

L'avvocato di Salvatore Buzzi.  "Con questa sentenza sicuramente la vita del mio assistito è cambiata, per lui presenteremo richiesta di scarcerazione", così il difensore di Salvatore Buzzi, l'avvocato Alessandro Diddi. "Ora è troppo difficile fare dei calcoli, ma è stato annullato il capo di imputazione sulla mafia", ha aggiunto Diddi sottolineando "la Cassazione ha riconosciuto quello che dicevamo sin dall'inizio e cioè che c'era un sistema di corruzione marcio ma non la mafia".

Le reazioni. "Se non era mafia allora cosa era? Un'associazione di volontariato?" Così Matteo Salvini ha commentato a Porta a Porta la notizia del verdetto data da Bruno Vespa. "Le sentenze si rispettano ma restano i dubbi, le perplessità. E non solo: resta una ferita profonda per Roma e per i romani. Per me la mafia, prima ancora dei profili giudiziari, è un atteggiamento", così Luigi Di Maio, leader M5s, in un tweet. "Questa sentenza conferma comunque il sodalizio criminale. È stato scritto un capitolo molto buio della storia nostra città. Stiamo lavorando insieme ai romani per risorgere dalle macerie che ci hanno lasciato, seguendo un percorso di legalità e rispetto dei diritti. Andiamo avanti a testa alta", così la sindaca di Roma, Virginia Raggi che ha seguito l'udienza e il verdetto in aula. "La Corte di Cassazione smentisce l'impianto della sentenza della Corte d'Appello di Roma: Buzzi e Carminati nella capitale non avevano costituito un sodalizio di stampo mafioso che aveva in pugno tanti uffici dell'amministrazione comunale capitolina. A Roma non c'era mafia. Le sentenze si rispettano. Ma le perplessità, i dubbi, le ambiguità permangono tutte" afferma in un post su Fb il presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra. "Noi speravamo in questo e finalmente la Cassazione riscatta il dolore di questo periodo. Ho sentito Luca e siamo molti soddisfatti. E in Appello cadranno tanti reati impropriamente contestati a mio figlio", così l'ex parlamentare missino Domenico Gramazio, padre di Luca, ex consigliere comunale e regionale del Pdl, condannato a 8 anni e 8 mesi. Parla anche l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che in primo grado, in uno dei filoni dello stesso procedimento penale, è stato condannato a sei anniper corruzione e finanziamento illecito: "Roma ha pagato troppo queste accuse, la Cassazione ha fatto giustizia". "Sono contenta soprattutto per mia figlia di 10 anni, è stata riconosciuta una cosa che era chiara", afferma all'Adnkronos Alessandra Garrone, compagna e collaboratrice di Salvatore Buzzi, anche lei condannata in appello nel processo Mafia Capitale. "Hanno confermato che c'era un'associazione criminale che in qualche modo contaminava la città". Così Matteo Orfini, ex presidente ed ex commissario del Pd di Roma dopo la bufera giudiziaria nella Capitale, "non vorrei che si generasse un'autoassoluzione della città, perché la mafia a Roma c'è e la lotta alla mafia dovrebbe rimanere prioritaria per tutti". "I giudici della Cassazione dicono che "Mafia Capitale" non era un'associazione a delinquere di stampo mafioso, ma criminalità organizzata comune. Qual è la differenza, per un cittadino onesto? Difficile comprenderlo... ciò che è successo a Roma a causa di questi delinquenti rimane una 'montagna di merda'", così in un lungo post su facebook il grillino Vito Crimi, viceministro all'Interno.

Valentina Errante per il Messaggero il 23 ottobre 2019. Mondo di mezzo, in Cassazione cade l'accusa di mafia: resta solo l'associazione per delinquere. Gli ermellini hanno dichiarato esclusa l'associazione mafiosa nel processo «mondo di mezzo», ribattezzato Mafia capitale, rispetto alla sentenza d'appello che aveva invece riconosciuto l'articolo 416 bis. Cadono anche molte delle accuse contestate a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Alla lettura della sentenza molti dei familiari degli imputati hanno iniziato a piangere.

LE CONDANNE. I giudici della Cassazione, che con la sentenza di questa sera hanno annullato senza rinvio quindi non riconosciuto il 416 bis, hanno rinviato in Appello per la rideterminazione della pena in relazione all'associazione per delinquere semplice. Gli imputati si attendono così una netta diminuzione delle pene stabilite nel processo di secondo grado. Ora diventano definitive le condanne per 8 dei 32 imputati del processo mafia capitale. Si tratta di Mirko Coratti (4anni e 6 mesi), Giordano Tredicine (2 anni e 6 mesi), Franco Figurelli (4 anni), Marco Placidi (5 anni), Andrea Tassone (5 anni), Guido Magrini (3 anni), Mario Schina (4 anni) e Claudio Turella (6 anni). Per gli altri 24 imputati, tra i quali Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e Luca Gramazio, le pene andranno ridefinite in un nuovo processo d'Appello. La sesta sezione penale aveva al vaglio la posizione di 32 imputati, di cui 17 condannati dalla Corte d'Appello di Roma, lo scorso anno, a vario titolo per mafia (per associazione a delinquere di stampo mafioso, o con l'aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno). L'accusa, mossa dalla procura di Roma, ruotava attorno alla costituzione di una «nuova» mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale. Mercoledì scorso la procura generale della Cassazione aveva chiesto la sostanziale convalida della sentenza d'appello.

LE REAZIONI. Virginia Raggi, che nel pomeriggio aveva raggiunto il Palazzaccio insieme al presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra: «La sentenza conferma il sodalizio criminale, noi continuiamo comunque ad andare avanti a testa alta sul sentiero della legalità, costruendo sulle macerie che abbiamo trovato». «Credo che Roma abbia pagato tanto queste accuse insultanti, la Cassazione ha detto una parola definitiva. C'è stato sciacallaggio politico e la presenza della Raggi lo ha dimostrato ancora una volta». Così l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno commenta all'Adnkronos il verdetto della Cassazione al processo su mafia capitale. «La Corte di Cassazione smentisce l'impianto della sentenza della Corte d'appello di Roma: Buzzi e Carminati nella capitale non avevano costituito un sodalizio di stampo mafioso che, mediante l'intimidazione solo paventata e la leva della corruzione, aveva in pugno tanti uffici dell'amministrazione comunale capitolina, ottenendo appalti ed affidamenti in maniera del tutto illecita». Lo afferma in un post su Fb il presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra sulla sentenza della Cassazione. «A Roma non c'era mafia. Secondo la Cassazione. Le sentenze si rispettano. Ma le perplessità, i dubbi, le ambiguità permangono tutte», conclude. «Le sentenze si rispettano, ma restano i dubbi, le perplessità. E non solo: resta una ferita profonda per Roma e per i romani. Per me la mafia, prima ancora dei profili giudiziari, è un atteggiamento. #MafiaCapitale». Così su Facebook il ministro degli Esteri e leader M5S Luigi Di Maio. «Non sono stupito da questa sentenza. Ci poteva stare, è una questione assolutamente nuova alla Cassazione. Sono interessatissimo alle motivazioni per capire il ragionamento tecnico-giuridico». Lo afferma all'Adnkronos il magistrato Alfonso Sabella, ex assessore alla Legalità nella giunta di Ignazio Marino, sulla sentenza della Cassazione sul Mondo di mezzo. «Mi pare almeno di capire che la Cassazione ha confermato che, per un periodo, la macchina amministrativa è stata ostaggio di criminali che avevano piegato l'interesse pubblico agli interessi privati, alterando le regole della buona amministrazione con la complicità di una burocrazia romana che nei migliori dei casi era incapace, in altri casi ancora corrotta». Secondo Sabella la «Cassazione ha confermato che la mia città è stata ostaggio dei criminali per tanto tempo». «Attenzione a dire che a Roma non c'è la mafia, a Roma la mafia c'è e mafia capitale non esisteva più già dal dicembre 2014», continua Sabella facendo riferimento all'operazione che portò alle retate e agli arresti. «La mafia a Roma è presente in modo più tradizionale come la Cassazione ha certificato in altre sentenze su Spada, Fasciani, camorristi, 'ndranghetisti - conclude Sabella - Roma è più corrotta che mafiosa: il problema principale è la corruzione, ma la mafia non è da sottovalutare». «Era una storia giuridicamente un po' forzata: per annullare senza rinvio vuol dire che la Cassazione l'ha ritenuta giuridicamente insostenibile». Così il legale di Massimo Carminati, Cesare Placanica, commentando la sentenza della Cassazione che ha annullato senza rinvio il 416bis per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. La Cassazione ha distinto le associazioni in due senza ritenere di stampo mafioso. «Roma è liberata dalla mafia. È stata scritta una pagina finalmente chiara. Credo che il tempo mi abbia dato ragione. Soprattutto questo collegio che nessuno potrà mai delegittimare. La vita di Buzzi da questo momento e cambiata, potrà guardare al suo futuro». Lo ha detto il difensore Alessandro Diddi dopo il verdetto definitivo nel processo per mafia capitale. «Ora c'è un annullamento con rinvio e dobbiamo fare dei conteggi. «Buzzi su mia indicazione aveva ammesso alcune delle contestazioni. A Roma c'era un sistema marcio e corrotto e la sentenza di primo grado l'ha riconosciuto. La procura ha provato a sostenere la mafia. La Cassazione ha detto quello che avevamo sostenuto fin dall'inizio: c'erano ben due associazioni e soprattutto quella di Buzzi non è una associazione mafiosa», aggiunge l'avvocato sottolineando che la sentenza della Cassazione «è una lezione di diritto a tanti che in questi anni hanno cercato di sostenere che la difesa era farneticante. Credo che oggi il tempo mi abbia dato ragione». Ancora Diddi: «La Cassazione ha riconosciuto quello che noi abbiamo detto fin dall'inizio. Mi dispiace per la sindaca Raggi che c'è rimasta molto male, che ha sempre cercato di dire che le buche di Roma, i problemi della città dipendono da Mafia Capitale. Finalmente anche su questo abbiamo scritto una parola di chiarezza.  Buzzi ammise dove c'erano da ammettere le corruzioni. Abbiamo dimostrato che a Roma c'era un sistema marcio e corrotto, questo abbiamo dimostrato fin dalla prima udienza. Il tribunale di primo grado ha riconosciuto questo, la procura della Repubblica di Roma ha voluto continuare a sostenere che non è un sistema marcio e corrotto ma che c'è un gruppo di imprenditori che fa mafia. Ora la Cassazione ha riconosciuto quello che abbiamo sempre detto». «Luca Gramazio non è un mafioso, hanno riconosciuto la responsabilità anche se hanno annullato per alcuni dei reati satellite e quindi bisognerà rideterminare la pena. Anche nel caso di Gramazio l'accusa più grave, dal punto di vista morale, che gli era stata mossa è caduta con questa sentenza. Per il resto vedremo nel proseguo la sua posizione che comunque esce ridimensionata da questa sentenza». Lo ha detto l'avvocato Valerio Spigarelli, difensore dell'ex consigliere comunale e regionale del Pdl Luca Gramazio e dell'imprenditore Agostino Gaglianone, dopo il pronunciamento della sentenza da parte della VI sezione penale della Corte di Cassazione nel processo Mafia Capitale. «Giustizia è fatta. Ho pianto a dirotto per la tensione e l'emozione. Forza Luca! Gramazio libero! Tiratelo fuori! Raggi dimettiti! No allo sciacallaggio politico.  L'infamia delle accuse di mafia hanno provocato un danno incalcolabile all'immagine di Roma nel mondo. Il brand della Capitale, come è noto, vale secondo uno studio analitico di Assolombarda, 91 miliardi. Ora chi risarcirà l'azienda Roma dei miliardi perduti?».» dice Francesco Giro, senatore di Forza Italia. «I giudici della Cassazione dicono che mafia capitale non era una associazione per delinquere di stampo mafioso ma criminalità organizzata comune. Quale sia la differenza dal punto di vista dei cittadini onesti è difficile comprenderlo, rimangono pur sempre dei delinquenti che si sono impadroniti di una città, che ne hanno fatto il bello e il cattivo tempo, che hanno controllato e corrotto funzionari pubblici, che dettavano le regole, controllavano il territorio e hanno cercato di sostituirsi alle istituzioni». Lo afferma Vito Crimi, vice ministro dell'Interno, per il quale «la mafia non è solo quella che uccide, la mafia è anche questo. Che si definisca mafia o no, non importa, quello che è successo a Roma rimane una montagna di merda». «Altro che mafia capitale, la Banda Raggi è arrivata in Campidoglio grazie a un'inchiesta che con la mafia non c'entrava nulla. E chieda scusa a una città che ha contribuito a infangare in questi anni», così Francesco Storace su twitter. «Se non era mafia allora cosa era? Una associazione di volontariato?». Così Matteo Salvini, dopo la sentenza della Cassazione su mafia capitale, commenta a Porta a Porta la notizia data da Bruno Vespa. Anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, e il presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, sono fra coloro che hanno atteso in Cassazione la sentenza sul processo Mafia Capitale. Fuori dall'aula magna per tutta la giornata si è radunata una piccola folla di avvocati e cronisti, presenti anche alcuni imputati e familiari. Al Palazzaccio, così come è stato per il dibattimento, non sono state ammesse le telecamere. I giudici si sono riuniti in mattinata in camera di consiglio per decidere la sorte dei 32 imputati. L'anno scorso la Corte di Appello di Roma ribaltò la sentenza di primo grado condannando 17 imputati per vari reati, alcuni furono condannati anche per quello previsto dall'articolo 416bis del codice penale, e cioè l'associazione per delinquere di stampo mafioso. La sentenza della Cassazione sul processo al Mondo di Mezzo arriva dopo tre giorni di udienze fiume con la requisitoria dei tre sostituti procuratori generali Luigi Birritteri, Luigi Orsi e Mariella De Masellis, terminata con la richiesta di conferma delle condanne dell'Appello, e le arringhe dei difensori. Un processo che ruotava intorno al 416bis, il reato di associazione mafiosa caduto in primo grado ma riconosciuto in Appello. Al vaglio dei Supremi giudici la posizione di 32 ricorrenti, tra i quali 17 condannati in Appello a vario titolo per reati di mafia. Una sentenza che arriverà a cinque anni dall'operazione che con due retate, il 2 dicembre 2014 e il 4 giugno 2015, ha portato all'arresto rispettivamente di 37 e 44 persone. Una maxi inchiesta in cui la Procura, allora guidata da Giuseppe Pignatone, ha sostenuto come negli ultimi anni nella capitale abbia agito un'associazione di stampo mafioso, «romana» e con «caratteri suoi propri e originali rispetto alle altre organizzazioni mafiose»‎, capace di mettere le mani, con la complicità di politici e funzionari, sugli appalti pubblici: dai centri di accoglienza per i migranti ai campi nomadi, dal verde ai rifiuti. Il maxi processo si apre il 5 novembre 2015 e si conclude 20 mesi dopo, il 20 luglio 2017, con la sentenza di primo grado: condanne pesanti (meno di 300 anni di carcere complessivi rispetto ai 500 chiesti dall'accusa) ma senza il riconoscimento del 416bis, l'associazione mafiosa. Quarantuno condanne e cinque assoluzioni: Salvatore Buzzi viene condannato a 19 anni mentre Massimo Carminati a 20 anni, Luca Gramazio, invece, a 11 anni. Sentenza che viene ribaltata in Appello l'11 settembre 2018 con il riconoscimento della mafiosità dell'associazione per 18 dei 43 imputati. Per l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il ras delle coop romane le pene in Appello vengono ridotte. I due vengono condannati rispettivamente a 14 anni e mezzo e a 18 anni e 4 mesi. Ora l'ultima parola spetta ai giudici della Suprema Corte con lo spettro per molti degli imputati, attualmente liberi o ai domiciliari, anche alla luce delle nuove norme come la legge «spazzacorrotti», di finire in carcere se la condanna dovesse essere confermata anche solo in parte.

Mondo di mezzo, per la Cassazione a Roma non era “mafia Capitale”: annullata la sentenza d’Appello per Buzzi e Carminati. La sentenza emessa dai giudici della VI sezione penale fa svanire le accuse di mafiosità per l'ex terrorista nero, il ras delle cooperative rosse e altri imputati. I giudici non hanno riconosciuto il 416 bis, rinviando in secondo grado solo per la rideterminazione della pena in relazione all’associazione a delinquere semplice. Bisognerà attendere il deposito delle motivazioni per capire il ragionamento seguito dalla corte. L'impressione è che, come aveva già stabilito la sentenza di primo grado, anche la Suprema corte abbia riconosciuto solo la presenza di due distinte associazioni "semplici". Il Fatto Quotidiano il 22 ottobre 2019. Al massimo era Corruzione capitale. Per la Cassazione a Roma non c’era mafia. O meglio, non era mafia quella di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. La Suprema corte ha infatti dichiarato esclusa l’associazione mafiosa nel processo “mondo di mezzo“, la maxi operazione poi ribattezzata Mafia capitale proprio per la contestazione dell’associazione di stampo mafioso a molti degli imputati. Un reato escluso dal primo grado e poi riconosciuto dalla sentenza d’appello. Adesso, però, è arrivato l’annullamento dei Supremi giudici che hanno fatto cadere anche molte delle accuse contestate a Buzzi e Carminati. Ed è un annullamento senza rinvio: i giudici della Cassazione, infatti, che con la sentenza di questa sera non hanno riconosciuto il 416 bis, riqualificando l’associazione mafiosa in associazione a delinquere semplice. Si celebrerà un nuovo processo d’Appello, ma solo per la rideterminazione della pena in relazione all’associazione a delinquere semplice contestata solo ad alcuni dei 32 imputati. Tra questi ultimi anche Buzzi e Carminati. Inoltre, per quanto riguarda Buzzi, la Cassazione lo ha assolto da due delle accuse contestategli, di turbativa d’asta e corruzione, mentre per Carminati cade anche un’accusa di intestazione fittizia di beni. Bisognerà attendere il deposito delle motivazioni per capire il ragionamento seguito dalla corte. L’impressione è che, come aveva già stabilito la sentenza di primo grado, anche la Cassazione non ha riconosciuto i reati di mafia ma la presenza di due distinte associazioni ‘semplici’: quella di Buzzi e quella di Carminati. “Riqualificati i reati di cui ai capi 1 e 22 ai sensi dell’art. 416 codice penale e ritenuta la sussistenza di due associazioni“, si legge infatti nel dispositivo della sentenza, la Cassazione annulla le condanne “limitatamente al trattamento sanzionatorio per i reati associativi come riqualificati”.

Raggi: “Pagina buia per la città” – La sentenza è stata emessa dai giudici della VI sezione penale, presieduta da Giorgio Fidelbo. Dopo tre giorni di udienze cominciate con la requisitoria dei tre sostituti procuratori generali Luigi Birritteri, Luigi Orsi e Mariella De Masellis, che avevano chiesto di confermare le condanne dell’Appello, e finite con le arringhe dei difensori, gli ermellini si erano ritirati in camera di consiglio venerdì scorso. In aula per la lettura della sentenza c’era anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, e il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra. “Oggi è una giornata storica per Roma. Siamo in Cassazione per attendere la sentenza su Mafia Capitale. Oggi si chiude una vicenda che ha ferito la città. Noi siamo qui, a testa alta, per tutti i cittadini onesti che insieme a noi combattono per la legalità e contro il malaffare”, ha twittato la prima cittadina della Capitale poco prima della sentenza. Completamente diverso il tenore della dichiarazione della sindaca dopo la pronuncia della decisione dei giudici: “Questa sentenza conferma comunque il sodalizio criminale. È stata scritta una pagina molto buia della storia di questa città. Lavoriamo insieme ai romani per risorgere dalle macerie che ci hanno lasciato, seguendo un percorso di legalità e diritti. Una cosa voglio dire ai cittadini onesti: andiamo avanti a testa alta”. Esultano gli avvocati difensori: “Queste è la sconfitta del modo di fare i processi di Pignatone e del Ros di Roma”, ha detto l’avvocato Giosuè Naso, difensore di Riccardo Brugia e Massimo Carminati. “Roma è liberata dalla mafia. E’ stata scritta una pagina finalmente chiara. Credo che il tempo mi abbia dato ragione. Soprattutto questo collegio che nessuno potrà mai delegittimare. La vita di Buzzi da questo momento e cambiata, potrà guardare al suo futuro”, sono invece le parole di Alessandro Diddi, difensore di Buzzi. “Mafia capitale esiste, era guidata da Buzzi e Carminati” – Il processo ruotava intorno al 416bis, l’articolo del codice che disciplina l’associazione a delinquere di stampo mafioso: contestato dall’accusa, era caduto in primo grado ma era stato riconosciuto dai giudici in Appello. Al vaglio dei Supremi giudici c’era la posizione di 32 imputati, tra i quali alcuni condannati in secondo grado a vario titolo per reati di mafia. La sentenza è arrivata a cinque anni dall’operazione che con due retate, il 2 dicembre 2014 e il 4 giugno 2015, ha portato all’arresto rispettivamente di 37 e 44 persone. Nella sua requisitoria, il pg Birritteri ha sottolineato come il gruppo di Carminati e Buzzi avesse “tutte le caratteristiche dell’associazione mafiosa e rientri perfettamente nel paradigma del 416 bis”. L’ex terrorista nero, il ras delle cooperative e i loro collaboratori per l’accusa si muovevano “con un nuovo sistema anche con metodi criminali solitamente non violenti nei rapporti con la pubblica amministrazione perché in quel contesto bastava corrompere”. Usavano la violenza quando era necessario e grazie alla corruzione gestivano il potere politico con fini criminali, sostieneva sempre la pubblica accusa. Per questo motivo il pg aveva chiesto la conferma di tutte le condanne, tranne quella del benzinaio di Corso Francia Roberto Lacopo, condannato a 8 anni in appello, per il quale era stato chiesto un nuovo processo. Per l’ex amministratore delegato di Ama Franco Panzironi, condannato in appello a 8 anni e 7 mesi, la procura generale ha chiesto la conferma della pena ma con riqualificazione del reato: da concorso esterno alla partecipazione piena all’associazione mafiosa. Che però per la Suprema corte a Roma non esisteva.

Il mondo di mezzo – La sentenza di oggi mette la parola fine a quella che è probabilmente l’inchiesta principale della procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone. Con l’operazione Mondo di Mezzo gli investigatori aveva ricostruito un’organizzazione criminale attiva negli ultimi anni nella capitale : un gruppo di personaggi con un passato da Romanzo criminale e un presente nei palazzi che contano, capace di infiltrarsi e fare business nella gestione dei centri accoglienza per immigrati e dei campi nomadi, di finanziare cene e campagne elettorali con una filosofia ben precisa. “È la teoria del mondo di mezzo compà. Ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo… un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano… come è possibile… che ne so… che un domani io posso stare a cena con Berlusconi”, teorizzava Massimo Carminati. Un’intercettazione che diede il nome alle indagini degli investigatori.

L’ex nero e il re delle coop – Ex terrorista di estrema destra con i Nar, noto per i suoi rapporti con la Banda della Magliana, il Cecato aveva fatto parlare di sé per l’ultima volta nell’estate del 1999 ai tempi del maxi furto al caveau della cittadella giudiziaria di piazzale Clodio. Poi nel 2014 era tornato sulle prime magine di tutti i giornali, quando era finito in cima alla lista delle persone arrestate su richiesta della procura guidata da Pignatone, già al vertice degli uffici inquirenti a Palermo e Reggio Calabria. Con lui, al vertice dell’organizzazione criminale attiva a Roma, gli inquirenti indicavano Buzzi, già condannato per omicidio, poi graziato e diventato il ras delle cooperative rosse che facevano affari con gli enti pubblici. In Appello Carminati aveva incassato una condanna per mafia ma anche uno sconto di pena: per lui la pena è scesa da 20 anni a 14 anni e sei mesi. Per Buzzi la condanna in secondo grado era passata da 19 anni a 18 e 4 mesi. La riduzione della pena era arrivata dall’esclusione del riconoscimento della continuazione interna per gli episodi di corruzione. Adesso Buzzi e Carminati, insieme ad altri 15 imputati, saranno nuovamente processati in appello: il processo, però, servirà solo ricalcolare l’entità delle condanne e non il reato.

La storia del Maxiprocesso – In attesa delle motivazioni degli ermellini, si può ipotizzare che la Suprema corte abbia seguito lo schema dei giudici della corte d’Assise. Secondo i giudici del primo grado a Roma c’erano“due diversi gruppi criminali“, uno che faceva capo a Buzzi e un altro a Carminati, ma nessuna mafia,. Una forma di criminalità organizzata né “autonoma” né “derivata” perché di fatto, secondo i giudici, era assente quella violenza, quella intimidazione che caratterizza le organizzazioni criminali punite con l’articolo 416 bis. E né la corruzione, per quanto pervasiva, sistematica e capace di arrivare fino al cuore della politica, poteva essere considerata alla stregua della forza intimidatrice tipica delle mafie. L’appello aveva ribaltato quella sentenza. Ora arriva la Cassazione: non era mafia Capitale. Solo corruzione.

"Mondo di mezzo", Cassazione "Non è associazione mafiosa". La Suprema Corte "cancella" Mafia Capitale. Per i giudici Buzzi e Carminati non facevano parte di un sistema mafioso. Angelo Scarano, Martedì 22/10/2019, su Il Giornale. Colpo di scena nella sentenza in Cassazione su Mafia Capitale: per la Suprema Corte cade l'accusa di associazione mafiosa. Dunque il "Mondo di mezzo" che è stato raccontato in questi anni con le intercettazioni su Buzzi e Carminati, per la Cassazione non era un'associazione mafiosa. Un vero e proprio ribaltamento della sentenza di secondo grado. La Cassazione ha annullato quindi la condanna per mafia di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, che in appello erano stati condannati a 18 anni e quattro mesi, per il primo, e 14 anni e mezzo per il secondo. Secondo la Corte presieduta da Giorgio Fidelbo, quella dell'imprenditore delle cooperative romane e dell'ex nar, non fu mafia. Sconfessata dunque la linea dell'accusa. Nella requisitoria, il pg Luigi Birritteri ha sottolineato come il gruppo dell'ex nar e del re delle cooperative romane abbia "tutte le caratteristiche dell'associazione mafiosa e rientri perfettamente nel paradigma del 416 bis". Birritteri aveva anche rincarato la dose: "Buzzi, Carminati e i loro collaboratori si muovevano con un nuovo sistema anche con metodi criminali solitamente non violenti nei rapporti con la pubblica amministrazione perché in quel contesto bastava corrompere". Il verdetto dei giudici della Suprema Corte è arrivato alle 20 dopo tre giorni di udienze fiume con la requisitoria dei tre sostituti procuratori generali Luigi Birritteri, Luigi Orsi e Mariella De Masellis, terminata con la richiesta di conferma delle condanne dell'Appello, e le arringhe dei difensori. La sentenza su Mafia Capitale, che non riconosce il 416bis, reato caduto in primo grado ma ammesso in Appello, giunge a cinque anni dall'operazione che con due retate, il 2 dicembre 2014 e il 4 giugno 2015, ha portato all'arresto rispettivamente di 37 e 44 persone.

Sentenza Mafia capitale, legale Carminati: "Presto istanza scarcerazione". Eseguiti 9 arresti. Zingaretti: "La mafia a Roma c'è, nessuno si illuda". Condannne definitive per Coratti, Tassone e Tredicine e altre sei persone. Ieri la Cassazione ha cancellato l'aggravante mafiosa per 17 imputati: ora si attende il ricalcolo delle pene. Il vicesindaco Bergamo: "Singolare che qualcuno esulti". Salvatore Buzzi: "Incubo finito". La Repubblica il 23 ottobre 2019. "Ci aspettiamo che venga immediatamente revocato il 41bis, ovvero il regime di carcere duro, se ciò non dovesse accadere siamo pronti a fare istanza". E' soddisfatto  l'avvocato Cesare Placanica, difensore di Massimo Carminati, dopo la decisione della Corte di Cassazione che ha fatto cadere l'accusa di associazione mafiosa per l'ex Nar e per gli altri 16 imputati. "In queste ore - aggiunge il penalista - stiamo valutando anche di presentare una istanza di scarcerazione nell'attesa che la Corte d'Appello di Roma ridetermini la pena". La stessa istanza di scarcerazione su cui già da ieri stava ragionando anche il legale di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi. Intanto, nell'attesa del ricacolo delle pene,  nove condanne sono diventate definitive e nella notte le porte dei penitenziari romani di Rebibbia e Regina Coeli  si sono aperte per l'ex presidente dell'Assemblea Capitolina Mirko Coratti, per l'ex dirigente che si occupava della cura del Verde a Roma Claudio Turella, Sandro Coltellacci, Franco Figurelli, Guido Magrini, Mario Schina, Andrea Tassone ex presidente del municipio di Ostia,  Giordano Tredicine ex consigliere comunale,  e Marco Placidi ex responsabile dell'ufficio tecnico del comune di Sant'Oreste. Il passaggio in giudicato della sentenza ha dato immediata esecuzione alla pena detentiva, precludendo, così come previsto dalla legge Spazzacorrotti, ai condannati la possibilità di richiedere e usufruire di misure alternative al carcere, come l'affidamento in prova ai servizi sociali o gli arresti domiciliari. In particolare la legge è stata applicata, tra gli altri, nei confronti di Turella, Coratti e Tassone, che dovranno scontare una pena residua di oltre tre anni, del dirigente regionale Guido Magrini e - infine - dell'ex consigliere comunale Giordano Tredicine. Nello specifico, Coratti dovrà quindi scontare una pena residua di 3 anni, 7 mesi e 6 giorni di reclusione, con pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici per 5 anni e incapacità di contrarre con la pa per 4 anni e 6 mesi. Tassone dovrà invece scontare una pena residua di 3 anni, 11 mesi e 16 giorni di reclusione con pena accessoria di interdizione perpetua dai pubblici uffici, incapacità di contrarre con la pa per 5 anni e interdizione legale durante l'esecuzione della pena.  "Trovo singolare che qualcuno possa festeggiare il fatto che si riconosce la presenza massiccia delle associazioni criminali semplicemente perchè non viene riconosciuta l'aggravante della mafia". Commenta  il vicesindaco di Roma, Luca Bergamo. "Non sono tanto stupito dalla sentenza- ha aggiunto- ma francamente trovo singolari i commenti di chi gioisce. C'è una distonia nel dire 'che bello, e' solo associazione a delinquere e non mafia. Ma è associazione a delinquere. Sembra che il non riconoscimento dell'aggravante possa essere motivo di soddisfazione, ma a me sembra angosciante trovare elementi di criminalità all'interno della vita pubblica della città". A proposito invece di chi ha parlato di un venir meno della strategia politica e comunicativa dei Cinque Stelle sulla presenza della mafia, Bergamo ha detto "questa roba non la commento nemmeno".

Buzzi: "Incubo finito". "L'incubo è finito, voglio uscire da questo inferno dietro le sbarre e tornare a casa". Ecco le prime parole che Salvatore Buzzi, uno dei protagonisti dell'inchiesta Mafia Capitale, pronuncia ai suoi avvocati Alessandro Diddi e Piergerardo Santoro. Tramite dei due legali, l'Adnkronos riporta le sue parole a commento della sentenza. Buzzi - a detta dei difensori - potrebbe tornare in libertà dopo la decisione della Cassazione di eliminare dal processo (che lo ha visto comunque condannato) il profilo mafioso. "Dopo oltre 4 anni vedo di nuovo la luce, ho un futuro davanti a me - dice Buzzi - sono emozionato, incredulo, e sotto sotto ci speravo anche se si era creata una situazione surreale perché avevano costruito giudiziariamente e mediaticamente un'immagine distorta". E ancora: "La Cassazione ha condannato soprattutto la politica che mi spremeva per farmi lavorare. Erano loro, non io, a chiedere favore e soldi. Per lavorare dovevo pagare, ma la mafia non c'entrava, non c'era.  Io ho sbagliato, mivergogno, ho confessato i miei sbagli e ho pagato tutto. Hanno scritto un film su me e Carminati e non hanno raccontato la verità su un male che attanaglia Roma da sempre: la corruzione".

Zingaretti: "A Roma e nel Lazio la mafia c'è, nessuno si illuda". Su Mafia Capitale "leggo commenti come se non fosse accaduto nulla", ma la sentenza "conferma l'esistenza di un potere criminale che è stato smantellato. Vedremo gli atti, ho capito che non è stato individuato un sistema intimidatorio. A Roma e nel Lazio c'è la mafia, nessuno si illuda, io lo so come presidente della Regione. Ognuno dica la propria, ma sia chiaro che il pericolo mafioso è fortissimo e bisogna tenere altissimo il livello di mobilitazione delle forze dell'ordine". Così il segretario Pd e presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti a Porta a Porta.

Mafia Capitale non è Mafia. Ecco cosa c'è dietro la decisione della Corte di Cassazione che si è pronunciata sull'inchiesta legata a Carminati & soci a Roma. Giorgio Sturlese Tosi il 23 ottobre 2019 su Panorama. Gli ermellini hanno atteso che Giuseppe Pignatone andasse in pensione, che lasciasse la carica di procuratore di Roma e, da pensionato, ricoprisse quella di presidente del Tribunale del Vaticano, per cancellare in pochi minuti di lettura della sentenza i frutti del suo lavoro più importante, l’inchiesta del Mondo di Mezzo su Mafia Capitale. La corte di Cassazione ha infatti annullato la sentenza della corte d’Appello di Roma che aveva riconosciuto l’associazione mafiosa per l’ex dominus delle coop rosse di Roma, Salvatore Buzzi, e per l’ex Nar della banda della Magliana Massimo Carminati, detto “er Cecato”. Due criminali che, ognuno nel suo ambito, avevano condizionato la politica e gli affari della Capitale, attraverso la corruzione, le violenze, il traffico di influenza finalizzate alle turbative d’asta, ad accaparrarsi appalti pubblici, infettando Roma e accelerando - e agevolando – il fallimento delle amministrazioni comunali, da Alemanno a Marino. Gli arresti del 2014 provocarono un terremoto che spianò la strada al Campidoglio al Movimento 5 Stelle, che al grido “onestà, onestà!” lo espugnò. La tesi della procura di Pignatone, ardita e discussa fin da subito, fu che, oltre lo stretto di Messina, lontano dalle grotte dell’Aspromonte e senza passare dai vicoli partenopei esistesse anche una mafia capitolina, “autonoma, originaria e originale”. Ma in Italia le corti fanno fatica a affibbiare l’aggravante mafiosa prevista dall’articolo 416 bis – nato nel 19982 per contrastare la mafia siciliana – a boss di provenienza diversa (che siano albanesi, cinesi, nigeriani o, in questo caso, romani). E così della mafiosità della suburra ne parleranno solo romanzi e film, perché arte e letteratura sono più lungimiranti e perspicaci dei codicilli. E resteranno negli annali della cronaca giudiziaria alcune delle frasi pronunciate dagli imputati assurte a paradigma. Come quella pronunciata da Salvatore Buzzi che, intercettato, diceva: “Tu c’hai idea de quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende de meno”. O quella di Carminati, che ha dato il nome all’inchiesta del Ros dei carabinieri: “Ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo”. A Roma però la mafia non c’è (resiste invece a Ostia, dove operavano i clan Casamonica e Fasciani). Del resto già un primo verdetto, nel 2017, aveva bocciato la tesi della procura di Roma, riconoscendo le associazioni a delinquere semplici. Un giudizio ribaltato dalla sentenza d’Appello l’anno successivo. Fu la vittoria dei pm Cascini, Ielo e Tescaroli, coordinati appunto da Giuseppe Pignatone. Ma la Sesta sezione penale del Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, ha ribaltato il verdetto e rimandato ad un nuovo processo d’appello per rideterminare le pene in virtù della nuova sentenza. Con Carminati e Buzzi sono da rivedere dunque le condanne, tra gli altri, di Luca Gramazio, ex capogruppo di Fi in Regione Lazio, Franco Panzironi, già capo di Ama, la municipalizzata dei rifiuti. Poco cambia, vista la conferma delle condanne per Mirko Coratti, ex presidente del consiglio comunale di Roma in quota Pd, del consigliere comunale Giordano Tredicine (Fi) e di altri coimputati. Quello che conterà davvero, però, sono le motivazioni della sentenza della Cassazione che molti, non solo a Roma, attendono con apprensione, per le implicazioni che potrebbero avere su decine di inchieste e processi per mafia in tutta Italia, escluse quelle dove operano i mafiosi originali con tanto di coppola. 

«La mafia a Roma non è solo quella del Sud: la Procura non si arrende». Pubblicato mercoledì, 23 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. L’aggiunto Prestipino e la sentenza della Cassazione: «Ora c’è un nuovo verdetto, ma la corruzione resta la vera emergenza criminale della Capitale». «Mafia capitale» non era mafia , ha stabilito la Corte di Cassazione, e la Procura di Roma ha perso la sua scommessa. Ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che da maggio guida l’ufficio in qualità di capo «facente funzioni», rifugge da questa logica. «Non era una scommessa, e la nostra ricostruzione giuridica sull’associazione criminale di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi è stata condivisa dalla Procura generale che ha presentato appello dopo la sentenza del tribunale e dalla Procura generale della Cassazione che ha chiesto la conferma delle condanne inflitte in secondo grado. E prima ancora c’erano stati il giudice che ha concesso gli arresti, il tribunale del Riesame e la stessa Cassazione che respinse i ricorsi cautelari».

Poi però è arrivata la bocciatura, senza nemmeno il rinvio a nuovi giudici. Dunque la vostra impostazione era un azzardo?

«Niente affatto. Anche perché la stessa Cassazione dal 2015 fino al marzo scorso ha ribadito con diverse pronunce l’esistenza delle “piccole mafie” slegate dal controllo del territorio. Ora c’è questo nuovo verdetto, e dalle motivazioni scopriremo se è stato messo in discussione quel principio giuridico oppure se, come ritengo più probabile, si è ritenuto che in questo caso specifico non ci fossero i presupposti per applicarlo».

Sta dicendo, nonostante la secca smentita, che non avete sbagliato niente?

«Sto dicendo che per scoprire se e dove abbiamo sbagliato dobbiamo leggere quello che scriverà la Cassazione. Dopodiché ci adegueremo e faremo le nostre valutazioni. Ma io rivendico il lavoro fatto, che grazie al prezioso sforzo investigativo dei carabinieri del Ros, ha comunque scoperto e smantellato un sistema criminale che, al di là della qualificazione giuridica, era penetrato in maniera importante in alcuni settori dell’amministrazione comunale di Roma».

Ma era corruzione, non mafia. Non è una differenza da poco.

«A parte il fatto che per noi il “mondo di mezzo” era un unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà, vorrei fare due precisazioni a nome mio e dell’ufficio che rappresento. La prima: non ci rassegniamo all’idea che la corruzione, diffusa e capillare, venga considerata come un fattore fisiologico nelle dinamiche amministrative di questa città. Invece resta la vera emergenza criminale di Roma, una componente gravissima che ne inquina e compromette il tessuto sociale e le possibilità di sviluppo economico».

La seconda precisazione?

«Con questa sentenza la Cassazione non ha detto che a Roma non c’è la mafia o non ci sono mafiosi, ma solo che a quel particolare sodalizio non si può addebitare il metodo mafioso. Restano altri gruppi autoctoni, qualificati come mafiosi con sentenze a volte definitive e altre ancora provvisorie, dai Fasciani, agli Spada ai Casamonica e altre organizzazioni. E pure su questo fronte la Procura di Roma non si rassegna».

A che cosa?

«Al paradigma secondo cui per riconoscere il metodo mafioso si debba ricorrere al “criterio etnico”: in presenza di siciliani, calabresi o campani c’è, altrimenti no».

Quindi continuerete con le «interpretazioni evolutive» in materia di mafia?

«Non interpretazioni evolutive, ma stretta e rigorosa applicazione di ciò che dice l’articolo 416 bis e che la Cassazione conferma da cinque anni. L’assoluta particolarità del Mondo di mezzo non era di essere una “piccola mafia”, bensì l’ipotesi che l’intimidazione derivante dal vincolo associativo potesse avvenire anche con il controllo di un ambiente sociale, come alcuni settori dell’amministrazione comunale. Ora vedremo che cosa dirà, su questo punto, la Cassazione».

C’è chi dice che lei e il procuratore Pignatone, forti delle esperienze siciliane e calabresi, avete esagerato.

«Non capisco in che cosa. Il codice penale è sempre lo stesso, a Palermo come a Reggio Calabria e a Roma. Sono diverse le realtà locali, e sono diverse le mafie».

La vostra inchiesta creò un terremoto politico per via dell’ipotesi mafiosa, che ora è caduta.

«Credo che questa Procura abbia dimostrato di svolgere indagini senza preoccuparsi delle ricadute politiche e di chi avrebbero coinvolto. Noi verifichiamo notizie di reato, a volte chiediamo di fare i processi e molte altre volte archiviamo; poi nei processi i giudici molte volte ci danno ragione e a volte no, anche nello stesso procedimento, come in questo caso. È il nostro lavoro, che di certo non ha finalità politiche».

Giovanni Bianconi per il “Corriere della sera” il 24 ottobre 2019. 

«Mafia capitale» non era mafia , ha stabilito la Corte di Cassazione, e la Procura di Roma ha perso la sua scommessa. Ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che da maggio guida l'ufficio in qualità di capo «facente funzioni», rifugge da questa logica.

«Non era una scommessa, e la nostra ricostruzione giuridica sull' associazione criminale di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi è stata condivisa dalla Procura generale che ha presentato appello dopo la sentenza del tribunale e dalla Procura generale della Cassazione che ha chiesto la conferma delle condanne inflitte in secondo grado. E prima ancora c' erano stati il giudice che ha concesso gli arresti, il tribunale del Riesame e la stessa Cassazione che respinse i ricorsi cautelari».

Poi però è arrivata la bocciatura, senza nemmeno il rinvio a nuovi giudici. Dunque la vostra impostazione era un azzardo?

«Niente affatto. Anche perché la stessa Cassazione dal 2015 fino al marzo scorso ha ribadito con diverse pronunce l' esistenza delle "piccole mafie" slegate dal controllo del territorio. Ora c' è questo nuovo verdetto, e dalle motivazioni scopriremo se è stato messo in discussione quel principio giuridico oppure se, come ritengo più probabile, si è ritenuto che in questo caso specifico non ci fossero i presupposti per applicarlo».

Sta dicendo, nonostante la secca smentita, che non avete sbagliato niente?

«Sto dicendo che per scoprire se e dove abbiamo sbagliato dobbiamo leggere quello che scriverà la Cassazione. Dopodiché ci adegueremo e faremo le nostre valutazioni. Ma io rivendico il lavoro fatto, che grazie al prezioso sforzo investigativo dei carabinieri del Ros, ha comunque scoperto e smantellato un sistema criminale che, al di là della qualificazione giuridica, era penetrato in maniera importante in alcuni settori dell' amministrazione comunale di Roma».

Ma era corruzione, non mafia. Non è una differenza da poco.

«A parte il fatto che per noi il "mondo di mezzo" era un unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà, vorrei fare due precisazioni a nome mio e dell' ufficio che rappresento. La prima: non ci rassegniamo all' idea che la corruzione, diffusa e capillare, venga considerata come un fattore fisiologico nelle dinamiche amministrative di questa città. Invece resta la vera emergenza criminale di Roma, una componente gravissima che ne inquina e compromette il tessuto sociale e le possibilità di sviluppo economico».

La seconda precisazione?

«Con questa sentenza la Cassazione non ha detto che a Roma non c' è la mafia o non ci sono mafiosi, ma solo che a quel particolare sodalizio non si può addebitare il metodo mafioso. Restano altri gruppi autoctoni, qualificati come mafiosi con sentenze a volte definitive e altre ancora provvisorie, dai Fasciani, agli Spada ai Casamonica e altre organizzazioni. E pure su questo fronte la Procura di Roma non si rassegna».

A che cosa?

«Al paradigma secondo cui per riconoscere il metodo mafioso si debba ricorrere al "criterio etnico": in presenza di siciliani, calabresi o campani c' è, altrimenti no».

Quindi continuerete con le «interpretazioni evolutive» in materia di mafia?

«Non interpretazioni evolutive, ma stretta e rigorosa applicazione di ciò che dice l' articolo 416 bis e che la Cassazione conferma da cinque anni. L' assoluta particolarità del Mondo di mezzo non era di essere una "piccola mafia", bensì l' ipotesi che l' intimidazione derivante dal vincolo associativo potesse avvenire anche con il controllo di un ambiente sociale, come alcuni settori dell' amministrazione comunale. Ora vedremo che cosa dirà, su questo punto, la Cassazione».

C' è chi dice che lei e il procuratore Pignatone, forti delle esperienze siciliane e calabresi, avete esagerato.

«Non capisco in che cosa. Il codice penale è sempre lo stesso, a Palermo come a Reggio Calabria e a Roma. Sono diverse le realtà locali, e sono diverse le mafie».

La vostra inchiesta creò un terremoto politico per via dell' ipotesi mafiosa, che ora è caduta.

«Credo che questa Procura abbia dimostrato di svolgere indagini senza preoccuparsi delle ricadute politiche e di chi avrebbero coinvolto. Noi verifichiamo notizie di reato, a volte chiediamo di fare i processi e molte altre volte archiviamo; poi nei processi i giudici molte volte ci danno ragione e a volte no, anche nello stesso procedimento, come in questo caso. È il nostro lavoro, che di certo non ha finalità politiche».

Mafia capitale, Placanica: «I giudici devono sentirsi liberi da condizionamenti anche dei giornali». Simona Musco il 24 Ottobre 2019 su Il Dubbio.  Corrotti ma non mafiosi. Cesare Placanica, presidente Camere penali di Roma : «Ora liberiamo I processi dalle pressioni mediatiche». Continue «pressioni mediatiche e politiche». Un’estensione dell’aggravante mafiosa «tecnicamente impossibile». E un utilizzo del 41 bis «folle» per l’ex Nar Massimo Carminati. L’ipotesi mafia, quella del “Mondo di Mezzo”, per il presidente della Camera penale di Roma, Cesare Placanica, è stata «una forzatura giuridica». Un pericolo scampato, racconta al Dubbio il penalista, ma che rappresenta il frutto del populismo di cui si nutre la politica.

La sentenza del processo “Mafia Capitale” ci dice che l’applicazione dell’aggravante mafiosa ai fenomeni di corruzione è errata. Che peso ha questa decisione?

«È un passaggio molto importante, perché, nell’ottica di un’esigenza sociale, si è cercato di estendere mediante l’interpretazione la riconducibilità di alcuni comportamenti che non si ritenevano sufficientemente coperti da norme del codice penale ad altre norme esistenti. Ed è un meccanismo che va rigettato con serietà: il primo pericolo nell’esercizio della giurisdizione è l’arbitrio. Che non vuol dire malafede, ma essendo l’applicazione della giurisdizione penale un fatto violento, quindi di estrema ratio, va dosato con grandissima serietà e accortezza. Tant’è vero che su questi aspetti, più volte ultimamente, siamo stati bacchettati dalla Cedu, come nel caso Contrada».

Il tentativo di equiparare la corruzione alla mafia è però poi riuscito in qualche modo con la Spazzacorrotti… 

«Purtroppo questo è il frutto del populismo. Ad esempio, sulla prescrizione, che tutti d’istinto odiano, come Unione delle Camere penali abbiamo fatto uno sforzo per liberare l’opinione pubblica dai racconti favolistici, con uno studio che dimostra che, in questo momento, ha tempi lunghissimi. Si tiene una persona a processo anche per 18 anni senza sapere se è colpevole o innocente. Ma il populismo ha interesse a confondere le acque, a non dare il dato effettivo. E ingenerando paura, creando una rappresentazione artefatta del dato, poi veicola verso di sé un consenso drogato, perché indotto in errore. Cose come le manette agli evasori rappresentano leggi manifesto, ma non risolvono veramente il problema. Come la Spazzacorrotti. Il processo è una cosa molto delicata, dove il protagonista è l’imputato e si deve accertare se ha commesso un reato e se corrisponde ad una norma incriminatrice. Tutto il resto è un elemento di disturbo. La giustizia si fa mediante la polizia giudiziaria, fino al momento in cui comincia il processo. Poi escono tutti di scena ed entrano le parti processuali».

Ma ciò non accade. Quali sono le conseguenze?

«Questo rende necessaria la figura del giudice coraggioso, perché deve contrastare l’aspettativa popolare, creata al di fuori delle aule, e avere anche il coraggio di esporsi alla critica. Ma non è previsto che i giudici siano coraggiosi. Devono esserlo negli Stati autoritari, in quelli democratici devono sentirsi liberi. Ecco perché ogni forma di pressione sul processo diventa una forma di pressione sul giudice e un mezzo per inquinare l’effettività della giurisdizione».

Crede sia successo anche in questo processo?

«Il problema è questo: io faccio un’indagine e su questa si avventano i soggetti esterni che la strumentalizzano rispetto al proprio tornaconto, alterando la normale dialettica processuale. Certamente su Mafia Capitale c’è stata un’attenzione tale da creare aspettative di un certo tipo e, quindi, delusione per la sentenza. Ma io penso che bisogna essere contenti a sapere che in realtà non era mafia».

Perché tecnicamente non può esserlo?

«Mancavano alcuni elementi fondamentali della fattispecie mafiosa. È vero che la giurisprudenza consente le nuove mafie, ma queste non hanno un potere di coartazione del territorio tipico della mafia storica. Per acquisire questo timore reverenziale, per cui un mafioso ottiene senza chiedere, si deve sapere, in quel contesto, che è un mafioso, che è pericoloso e che è in grado di esprimere, se non assecondato, una carica di violenza. E questo o è radicato in un certo territorio in maniera storica o si sa perché è stata espressa questa carica di violenza. In questo processo l’ultimo tassello mancava completamente».

Nemmeno la presenza di Carminati bastava?

«La sua fama è nata nel corso del processo con alcuni articoli di stampa. Tant’è vero che nelle intercettazioni i soggetti coinvolti dicono: “ma tu hai capito chi era quello?” Insomma, lo hanno saputo da un giornale. Quella di Carminati non è una storia di controllo mafioso del territorio e i suoi precedenti non bastano per contestare l’aggravante mafiosa, altrimenti potrebbe accadere a chiunque ne abbia».

Come si qualificano allora le nuove mafie? Va cambiato il 416 bis?

«In questo momento i reati dei pubblici ufficiali sono puniti con pene severissime. Senza contestare la mafia non si rimane impuniti. E la norma così va più che bene, perché l’associazione a delinquere semplice consente già pene alte. La mafia è un’aggravante specifica quando un determinato territorio dello Stato non è libero e non è possibile estenderla, in modo forzato, ad altri tipi di comportamenti già specificamente sanzionati».

Mandare al 41 bis Carminati è stato dunque un abuso?

«Il 41 bis è un trattamento inumano, tout court. Ferma restando la finalità di isolare il soggetto dal contesto mafioso, che può essere condivisibile, non si può tradire il rispetto della dignità umana. Nel caso di Carminati ritengo sia stato una follia giuridica. Se la ratio è evitare contatti con l’associazione di provenienza, quella di Carminati, per ammissione del procuratore di Roma e del Prefetto che non ha sciolto l’amministrazione, era già stata debellata. Allora quali contatti andavano recisi?»

Mafia capitale, la fiction su boss, picciotti e padrini che ha travolto Roma. Paolo Delgado il 24 Ottobre 2019 su Il Dubbio. L’inchiesta smontata dalla Corte di Cassazione. La storia politica della capitale è stata pesantemente condizionata dall’indagine di Pignatone ma ora di quel teorema criminale rimangono solo macerie. Senza l’inchiesta "Mondo di mezzo" la giunta Marino sarebbe stata disarcionata dall’alto, dal segretario dello stesso partito dell’allora sindaco di Roma? Senza quella che i giornalisti ribattezzarono, già subito dopo i 37 arresti del 2 dicembre 2014, "Mafia capitale", Virginia Raggi sarebbe oggi prima cittadina della Capitale? L’M5S avrebbe raccolto ugualmente la copiosa massa di voti che la ha reso per un po’, nel 2018, il primo partito d’Italia e tuttora la principale forza parlamentare? Sui giornali di ieri campeggiavano articoli impegnati a definire la sentenza della Cassazione che ha cancellato le condanne per associazione mafiosa per i protagonisti dell’inchiesta più esplosiva dell’ultimo decennio "un passo indietro", un esempio di "negazionismo". Moltissimi, a partire dall’ex assessore della giunta Marino Sabella, hanno ricordato che comunque «a Roma la mafia c’è e altre sentenze della Cassazione lo hanno confermato». Un muro a difesa del sostegno acritico che quasi tutti i media e quasi tutte le forze politiche hanno garantito a un’inchiesta che, in realtà, doveva apparire fragile sin dall’inizio. Sarà bene riassumere l’impianto accusatorio e i suoi limiti. Sulla cooperativa di ex detenuti "29 giugno", guidata da Salvatore Buzzi e fortemente connotata a sinistra, grandinano accuse di corruzione, in una rete che coinvolge alcuni dei principali esponenti della politica locale sia di destra che di sinistra. Con Buzzi e i politici inquisiti finisce alla sbarra anche Massimo Carminati, che non è di sinistra ma di estrema destra, ha frequentato negli anni ‘70 e ‘80 i Nar di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ha perso un occhio mentre tentava di passare clandestinamente il confine con la Svizzera, è stato vicino anche alla banda della Magliana e in particolare al suo primo capo storico, Franco Giuseppucci detto "er Negro". Carminati è inquisito sia per le vicende di corruzione che coinvolgono la "29 giugno" sia come capo di un gruppo di malavitosi che si occupa essenzialmente del "recupero crediti" a Roma Nord. Carminati è il perno dell’inchiesta. E’ il solo punto di raccordo tra i due filoni dell’inchiesta. La sua straordinaria "caratura criminale" viene citata a più riprese nell’ordinanza della procura e non per vezzo. E’ proprio questa "caratura" a consentire la contestazione ai principali imputati dell’art. 416 bis, l’associazione mafiosa. Si tratterebbe infatti di una mafia anomala. Nessun atto di violenza, almeno nel troncone dell’inchiesta che riguarda la corruzione. Nessuna minaccia. Nessuna intimidazione. Nessuna costrizione. L’impianto si basa sul fatto che la sola presenza di Carminati ( e del suo gruppo di picchiatori) garantisce l’esistenza della costrizione e intimidazione in forza del vincolo associativo senza la quale non si potrebbe muovere l’accusa di mafia. La giunta Marino non è direttamente coinvolta ma il Pd romano, che viene commissariato, sì e pesantemente. L’inchiesta delegittima di fatto la giunta e crea le condizioni per la sua caduta. Il comune è a rischio di scioglimento perché inquinato dalla mafia, sorte che colpisce il municipio di Ostia. Con un esercizio un bel po’ equilibristico invece lo scioglimento a Roma non viene chiesto. Si potrebbe infatti parlare di mafia ma solo negli anni della precedente giunta Alemanno. Poi si è tornati alla ‘ semplice’ corruzione. Il problema è che tra le due associazioni, quella dei corrotti del Campidoglio e quella degli esattori di Roma nord non viene evidenziato alcun rapporto, se non la mera presenza di Carminati in entrambi i filoni dell’inchiesta. Né figuravano minacce di sorta, a parte quelle costitute di per sé, secondo l’impianto accusatorio, dalla sola presenza di Carminati. Il 4 giugno 2015 arrivò una nuova raffica di arresti, 44 domiciliari inclusi. Il 31 ottobre dello stesso anno Marino fu costretto alle dimissioni. Il 20 luglio 2017 la condanna in primo grado si concluse con condanne molto pesanti ma con l’assoluzione per il 416 bis. Una sentenza quasi salomonica, o almeno molto diplomatica, che smentiva la procura ma allo stesso tempo la "risarciva" riconoscendo con le condanne molto dure la gravità dei reati. Il 6 marzo 2018 l’appello, rovesciando la sentenza riguardo all’associazione mafiosa confermò l’accusa. Martedì scorso la Cassazione ha chiuso dopo 5 anni a vicenda escludendo il vincolo mafioso. Non è una differenza marginale. Certo, altre sentenze hanno stabilito che a Roma esistono formazioni mafiose, sia pure di dimensioni diverse da quelle della mafie storiche come e ‘ ndrine o Cosa nostra. Ma si tratta di mafie classiche, che operano secondo gli usi di sempre della criminalità organizzata mentre l’impatto dell’ipotesi avanzata dalla procura di Roma mirava proprio a indicare come mafioso uno stile completamente diverso, del tutto privo dei tipici connotati dell’agire mafioso. Il precedente avrebbe permesso di estendere l’accusa di associazione mafiosa, con tutto quel che ciò comporta in termini di carcere duro e pene elevatissime, più o meno all’infinito. E’ anche vero che gli imputati restano condannati con pene che dovrà essere un nuovo processo d’appello a comminare. Però fingere che questo sia equivalente o quasi all’associazione mafiosa è risibile. Senza il 416 bis il processo è derubricato a una vicenda di corruzione come moltissime altre da un lato, a una banda di piccoli malviventi senza neppure un reato di sangue addebitato dall’altro. Non c’è niente di male o di strano, in sé, nell’ipotizzare un capo d’accusa che viene poi smentito nei tre gradi di giudizio. Il problema si pone quando una vicenda modifica, in attesa del terzo grado di giudizio, la storia di una città e di un Paese, per non parlare della vita di chi questi anni li ha passati in regime di carcere duro. Proprio il non porsi problemi di questo tipo, in nome della lotta alla mafia, o alla corruzione, o all’evasione fiscale o a qualsiasi altra emergenza passi il convento in un momento dato, è la tragedia introdotta dal giustizialismo.

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 25 ottobre 2019. Da quando il procuratore Giuseppe Pignatone ha raggiunto la meritata pensione, non si fa che invocare per la Procura di Roma la massima "continuità" con la sua mirabolante gestione, dipinta come una marcia trionfale da un successo all' altro. Tant'è che Marcello Viola, il successore più votato dal Csm, è stato impallinato da una campagna mediatico-giudiziaria sullo scandalo Palamara (capo di Unicost, che aveva votato un altro) per annullare la votazione, troppo "discontinua" per essere valida. Così ora è favorito Michele Prestipino, l'aggiunto prediletto di Pignatone. Noi ci siamo sempre domandati quali sarebbero gli strepitosi successi di Pignatone. Virginia Raggi, indagata dozzine di volte e sempre archiviata, finisce imputata per falso: purtroppo viene assolta. E vabbè, dài, capita. Paola Muraro viene indagata per 15 anni di consulenze all' Ama appena diventa assessore della Raggi. Il tempo di dimettersi e viene archiviata. E vabbè, dài, capita. Arrestato per corruzione Marcello De Vito, presidente 5S del Campidoglio: poi, dopo quattro mesi, la Cassazione dice che erano "solo congetture". De Benedetti chiama il broker Bolengo per ordinargli di investire nelle banche popolari, perché il premier Renzi gli ha confidato che sta per varare un decreto che ne farà volare le azioni: la Procura non indaga né Renzi né De Benedetti, ma solo il povero Bolengo, poi chiede di archiviare anche lui. Il gip lo manda a giudizio e ordina nuove indagini sull' ex premier e l' Ingegnere. E vabbè, dài, capita. La Procura di Napoli scopre che Alfredo Romeo, interessato ai mega-appalti Consip, incontra Tiziano Renzi e più spesso il fido Carlo Russo, a cui promette soldi per entrambi, poi tutto si blocca per fughe di notizie dal Giglio magico. Roma eredita il fascicolo e chiede di archiviare Tiziano e Romeo e processare Russo come millantatore e il capitano Scafarto come falsario. I gip invece prosciolgono Scafarto e rifiutano di archiviare Tiziano e Romeo. E vabbè, dài, capita. I giornaloni inventano un mega-complotto putinian-grillesco a colpi di tweet russi per far fuori Mattarella: la Procura mobilita l'Antiterrorismo, poi tutto finisce in fumo. E vabbè, dài, capita. Tanto c'è sempre Mafia Capitale, orgoglio e vanto di Pignatone&C: quelli che la lotta alla mafia sanno farla davvero. Purtroppo la Cassazione, come già la Corte d' assise, cancella la mafia. Ora Pignatone presiede il tribunale del Vaticano (auguri). Resta Prestipino, che giura: "La mafia a Roma esiste". Certo, solo che non era quella lì. Noi restiamo curiosi: dov' è scritto che squadra che perde non si cambia? E continuità per continuare cosa?

MAFIA CAPITALE ERA UNA FICTION. Estratti dall'articolo di Ermes Antonucci per ''Il Foglio'' il 23 ottobre 2019. Mafia Capitale non era mafia. A stabilirlo, ribaltando clamorosamente il verdetto d' appello del settembre 2018, è stata la sesta sezione penale della Corte di Cassazione, che ha annullato senza rinvio la precedente sentenza, non riconoscendo il 416bis, e si è rimessa alla Corte d' appello per la rideterminazione della pena per 24 dei 32 imputati in relazione all' associazione a delinquere semplice. Sconfessata in maniera radicale la tesi portata avanti per anni dall' ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, poi andato in pensione e recentemente diventato presidente del tribunale Vaticano. Non era mafia, dunque, ma una semplice associazione a delinquere (…). Ora chi lo spiega al resto del mondo, dopo lo sputtanamento epocale che gran parte della politica e dell' informazione ha inflitto al nostro Paese? Come archiviare Mafia Capitale, l' accusa con la quale la procura di Giuseppe Pignatone voleva rivoluzionare il processo ai traffichini e ai delinquenti della mala romana? Come archiviare quell' architettura costruita dai pubblici ministeri per dire che la violenza di boss e picciotti non era più una prerogativa della Sicilia ma un fenomeno di rilievo nazionale? Il primo istinto sarebbe quello di classificare la sentenza pronunciata ieri sera dalla Corte di cassazione come la pura e semplice cancellazione di un' ipotesi accusatoria. Invece è la ricusazione di un metodo. La Suprema corte comincia finalmente a capire che l' aggravante mafiosa è diventata da qualche anno a questa parte la sceneggiatura necessaria senza la quale nessun processo finisce sui giornali. E' la via più breve sperimentata dai cosiddetti magistrati coraggiosi per inserire la propria inchiesta, anche la più pallida o la più fragile, nei più alti gironi del circo mediatico-giudiziario.

SERVIVA UN TRUCCO PER TRASFORMARE IL PROCESSO IN UNO SCONTRO TRA IL BENE E IL MALE. Giuseppe Sottile per ''Il Foglio'' il 23 ottobre 2019. . E' la vocazione al cinematografo. E' il trucco di scena per trasformare un confronto - che altrimenti risulterebbe fiacco e sconclusionato - in uno scontro titanico tra accusa e difesa, in un' epopea in cui le forze del bene sono lì, a rischiare la vita, per sconfiggere le forze del male. E i giudici - diciamolo - molto spesso ci cascano. E finiscono, soprattutto nelle sentenze di primo grado, per accettare qualsiasi forzatura, per assegnare nobiltà di prova ai sospetti più azzardati, ai ragionamenti più strampalati, alle dicerie più improbabili, alle boiate pazzesche. Come la fantomatica Trattativa inventata dall' antimafia chiodata di Palermo per far credere, all' Italia dei talk-show, che il generale Mario Mori, il carabiniere che aveva catturato Totò Riina, capo dei sanguinari corleonesi, è stato un ufficiale infingardo e fellone; al quale lo Stato, che avrebbe dovuto assegnargli una medaglia d' oro, ha inflitto invece l' infamia di una condanna a dodici anni di carcere per un traccheggio sottobanco con i boss. Ma la Corte d' Assise, in primo grado, non ha trovato di meglio che accettare quella sceneggiatura, tanto propagandata da giornali e televisioni. Del resto, perché rischiare? Chi avrà mai il coraggio di contrastare le forze del bene che rischiano la vita per combattere il male? Ci penserà, semmai, la Cassazione. Che, per Mafia Capitale, ci ha già pensato.

IL NUOVO PROCESSO STABILIRÀ LE PENE PER 14 IMPUTATI. Giu. Sca. per “il Messaggero” il 23 ottobre 2019. «Non è da escludere che Massimo Carminati abbia già scontato tutto». È una ipotesi quella rappresentata dal suo legale, Cesare Placanica. Ovviamente saranno i giudici d'Appello a stabilire quanto, effettivamente, il Nero dovrà ancora scontare. Di fatto per 14 imputati: Carminati, Buzzi, Riccardo Brugia, Claudio Caldarelli, Matteo Calvio, Paolo Di Ninno, Alessandra Garrone, Luca Gramazio, Carlo Maria Guarany, Roberto Lacopo, Carlo Pucci, Fabrizio Franco Testa, Franco Panzironi (quest'ultimo in riferimento al concorso esterno) Agostino Gaglianone (per lui cade anche l'associazione semplice) - la Cassazione ha annullato la condanna dello scorso anno della Corte di Appello di Roma per associazione mafiosa. Per questa ragione, si legge nel dispositivo della suprema Corte, un'altra sezione della corte di Appello dovrà riqualificare le pene «per i reati associativi come riqualificati».

Valentina Errante e Alessia Marani per “il Messaggero” il 23 ottobre 2019. Quando la Smart di Massimo Carminati viene bloccata su un viottolo stretto di campagna a due passi dalla villa di Sacrofano, alle porte di Roma, dai carabinieri del Ros, mancano 48 ore al 2 dicembre del 2014. Comincia il ciclone dell'inchiesta sul Mondo di mezzo, chiamata poi mafia Capitale, e stravolge la città. I militari gli si parano davanti contromano. Lui è stupito, poi guarda i mitra, non c'è da scherzare, scende dall'auto, alza le mani e si arrende. Due giorni dopo tutta l'Italia guarderà quelle immagini registrate: l'ex Nar, il cecato o il pirata, per via della benda che copre l'occhio offeso dal proiettile sparato dalla polizia quando, giovanissimo, tentava di fuggire all'estero, viene arrestato.

L'INIZIO. È l'inizio del Mondo di Mezzo. La maxi-inchiesta della Procura di Roma di Giuseppe Pignatone. L'allora pm Paolo Ielo, oggi aggiunto, i sostituti Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini, lavorano da anni sugli affari di Carminati. Parte una raffica di arresti, il suono delle manette scuote nel profondo la Città Eterna che si scopre marcia e corrotta. Il terremoto giudiziario investe e coinvolge mondi apparentemente diversi che, però, secondo gli inquirenti, trovano una congiunzione quando c'è da fare business. Mondi che fanno leva sulla paura e sulle intimidazioni per incassare appalti e commesse pubbliche, grazie anche alla complicità dei colletti bianchi corrotti in seno a ogni grado dell'amministrazione. Nel mirino del pool di magistrati che fanno capo all'ex procuratore Pignatone finiscono vecchi e nuovi criminali, politici di destra e di sinistra, persino le cooperative. Tutti pronti a darsi una mano se c'è da guadagnare, spolpando e drenando le risorse pubbliche. Trentasette persone arrestate (28 in carcere e nove ai domiciliari) e decine di perquisizioni eccellenti, tra cui quella nei confronti dell'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione di stampo mafioso, reato derubricato poi in corruzione. La procura racconta un sistema collaudato in cui l'ex Nar, forte della propria capacità intimidatrice, eroe negativo di una saga che ha le radici nella destra criminale degli anni Novanta, ha stretto un patto scellerato con Salvatore Buzzi, re delle coop rosse, che gestisce milioni di euro in appalti. L'alleanza usa la chiave dell'omertà e delle minacce, per consentire a Buzzi, il rosso, di fare affari con l'amministrazione di centrodestra. I reati contestati partono dal 2010. Il manifesto dell'associazione è stampato in un'intercettazione di Carminati. La più suggestiva: «È la teoria del mondo di mezzo, Ci stanno, come se dice, i vivi sopra e li morti sotto e noi stamo ner mezzo ce sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici: cazzo, com'è possibile che un domani io posso stare a cena con Berlusconi? il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra».

IL SECONDO ROUND. Sei mesi dopo altri 44 arresti: 19 persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. È un altro terremoto. Gli affari riguardano anche i migranti. Buzzi ha un uomo al Tavolo del ministero del ministero dell'Interno che decide su appalti e affidamenti alle coop,è Luca Odevaine, che ha patteggiato una pena a cinque anni e due mesi per corruzione. Al telefono con una collaboratrice Buzzi spiega «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno». A Roma servizi come l'accoglienza agli stranieri, la manutenzione del verde pubblico o la gestione dei campi rom si traducono in una rete di corruttele e pressioni che, secondo la procura si esplicano con «metodo mafioso».

STOP APPALTI. Gli appalti vengono congelati. Il ministero degli Interni sceglie un pool di prefetti con a capo Franco Gabrielli per stabilire se il Comune debba essere sciolto per mafia, dopo avere fatto un accesso agli atti ed esaminato la posizione di migliaia di funzionari e valutato centinaia di gare o affidamenti, l'ipotesi viene scartata.

I PROCESSI. Il 5 novembre 2015 comincia il processo davanti alla decima sezione del tribunale. Autorizzate le riprese televisive in aula «alla luce dell'interesse sociale in relazione alla natura delle imputazioni, ai soggetti coinvolti e alla gravità dei fatti contestati». Dopo 240 udienze, a luglio 2017, il Tribunale, presieduto da Rosanna Ianniello, boccia l'ipotesi della mafia. Stabilisce che Carminati è a capo di due associazioni a delinquere semplici, una dedita alle estorsioni, l'altra della quale fa parte anche Buzzi, alla corruzione. Le pene sono altissime: per il Nero 20 anni, 19 per il re delle coop. In secondo grado il collegio presieduto da Claudio Tortora decide di non riaprire il dibattimento ma a settembre 2018 ribalta la sentenza accogliendo la tesi della procura: il Mondo di mezzo è mafia. Il 416 bis viene riconosciuto per 18 su 43 imputati. Le pene però si riducono: Salvatore Buzzi dai 19 anni del primo grado passa a 18 anni e 4 mesi. Per Carminati, i 20 anni del primo grado diventano 14 anni e sei mesi.

Mafia Capitale, fiction e libri. Un grande business fondato sul nulla. Il Secolo d'Italia mercoledì 23 ottobre 2019. “Roma non è una città mafiosa”. La sentenza della Cassazione ha riabilitato l’immagine della città: per cinque lunghi anni l’ossessione di Mafia Capitale e la campagna giustizialista hanno sconvolto Roma trasformandola da capitale d’Italia in quella della mafia. Ora la sentenza della Suprema Corte rimette i tasselli al loro posto. Ma è del tutto evidente che le tesi dell’accusa hanno prodotto negli anni una narrazione cui si sono ispirati libri e film che ci hanno raccontato un “mondo di mezzo” e di mafia. Eccoli.

Mafia Capitale: i film.

Suburra, il film di Stefano Sollima e la serie di Netflix tratta dal romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, ha preso spunto dalle vicende di Mafia Capitale e le ha trasformate in fiction.  Il protagonista noto come Samurai è in larga parte ricalcato sulla figura di Massimo Carminati.

Nel 2016 è l’ora de Il mondo di mezzo scritto e diretto da Massimo Scaglione. I principali membri del cast artistico sono: Matteo Branciamore, Laura Forgia, Tony Sperandeo, Nathalie Caldonazzo e Massimo Bonetti nei ruoli rispettivamente di Tommaso, Gaia, Gaetano e Stella Mariotti, e il Capo di Gabinetto. Il mondo di mezzo è ambientato a cavallo tra gli anni ’70 e giorni d’oggi, narra l’epopea del mattone a Roma e i disastrosi risultati della cementificazione lungo la cintura periferica, procurati dalla connivenza tra politica e palazzinari alleati in nome della corruzione e del danaro. Il film ha ripercorso meticolosamente i passaggi tra corrotti e corruttori fino all’inchiesta di Mafia Capitale.

I libri e i documenti.

E poi ci sono i libri che hanno raccontato l’inchiesta sulla base di documenti. Nel 2015 esce I re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale, autori Lirio Abbate e Marco Lillo. «Una storia vera – si legge nella sinossi –  ma così incredibile che sembra creata da un’immaginazione diabolica. Un ex terrorista finito in carcere più volte, legato alla Banda della Magliana e addestratosi in Libano durante la guerra civile. Da anni gira per Roma tranquillo con una benda sull’occhio perso durante una sparatoria. Lo chiamano “il cecato”. È lui che governa politici di destra e di sinistra. Per i magistrati è il capo. Un omicida». E poi ancora: «Abbate e Lillo hanno costruito un racconto con documenti inediti. La testimonianza appassionata di chi ha denunciato quel sistema criminale quando nessuno ne voleva parlare».  Nel 2106 segue il libro di Massimo Lugli Nel mondo di mezzo: il romanzo di Mafia Capitale e nel 2018 c’è quello di Claudio Caldarelli Mafia Capitale. La verità raccontata da un protagonista. 

 Salvatore Buzzi: incubo finito, voglio uscire da questo inferno. Ho scontato una detenzione disumana. Il Secolo d'Italia mercoledì 23 ottobre 2019. Salvatore Buzzi commenta con i suoi avvocati la sentenza della Cassazione su Mafia Capitale: ”L’incubo è finito, voglio uscire da questo inferno dietro le sbarre e tornare a casa”. Sono le prime parole raccolte dai legali Alessandro Diddi e Piergerardo Santoro riportate dall’agenzia Adnkronos. ”Dopo oltre 4 anni vedo di nuovo la luce, ho un futuro davanti a me – dice Buzzi – sono emozionato, incredulo, e sotto sotto ci speravo.  Anche se si era creata una situazione surreale perché avevano costruito giudiziariamente e mediaticamente un’immagine distorta”. Quanto al 416 bis smontato dalla Suprema Corte, Buzzi è categorico: ”In questi anni mi sono letto e riletto migliaia di pagine, di intercettazioni, di informative. Ho seguito tutto il processo e chiunque poteva constatare che di mafia non ce n’era. La sentenza di primo grado, che comunque è stata pesante per me, era chiara, come è stata chiara la decisione di ieri. Ancora però non capisco come possa essere andata al contrario in appello”. “Su me e Carminati – ha detto ancora Salvatore Buzzi – hanno scritto un film, ma non era vero. C’era solo la corruzione. Delle tangenti mi vergogno, ma ho scontato una detenzione disumana”. La sentenza è stata anche commentata da Franco Panzironi, ex amministratore delegato dell’Ama condannato a otto anni e quattro mesi. “Sarebbe bastata meno acredine e più logica”, ha detto al Messaggero. “Giustizia è fatta. Abbiamo passato un brutto momento. Siamo usciti da un film dell’orrore”. “Essere tacciato di mafia credo sia una cosa bruttissima. Però forse la Costituzione l’abbiamo scordata tutti. Il mondo oramai è fatto di acredine. Non è che possiamo applicare la legge retroattivamente”. “Sono stati anni drammatici che ho trascorso in silenzio. Credo – osserva Panzironi – che praticamente a me ad altri sia capitata questa cosa terribile. Penso sia stato un processo mediatico”. Panzironi conclude: “Ho 71 anni e voglio vivere il resto della mia vita lontano da questa vicenda. Senza tutte queste cose. Me le voglio dimenticare”.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 24 ottobre 2019. «Sono stato una cavia». Salvatore Buzzi ha pianto a lungo, martedì sera, al telefono con Alessandra Garrone, compagna di vita, madre della sua bambina e coimputata nel processo Mafia Capitale, che mafia adesso non è più. Dopo la sentenza della Corte di Cassazione, che ha bocciato il teorema della procura di Roma, il direttore del carcere di Tolmezzo ha concesso una telefonata al re delle coop. Ieri la prima conversazione con il suo avvocato, Alessandro Diddi. «Non ci posso credere, vedo la luce, vedo la fine dell'incubo. Mo' quando esco, quand'è che mi riporti a casa?». L'istanza per la scarcerazione partirà nei prossimi giorni. E Buzzi, con Diddi, fa anche calcoli e ipotesi. «La pena potrebbe essere dimezzata», gli spiega l'avvocato. Pensa alla figlia di soli dieci anni, che ha visto pochissimo da quando è cominciata la custodia cautelare, si commuove ancora. «In Italia non sono mai state mai date pene tanto alte. Neppure per fatti molto più gravi di corruzione», lo rassicura Diddi. Lui, che ha riempito centinaia di pagine di verbali, confermando le ipotesi della procura e aggiungendo altri episodi di corruzione, è stato solo parzialmente ritenuto attendibile. Conosce gli atti dell'istruttoria alla perfezione. «Si è cercato di costruire giuridicamente una nuova mafia, cioè una mafia che, senza la lupara e senza i metodi che si applicano a questa realtà, agiva per ottenere appalti. Ma non è così», dice. «È stata una sperimentazione sulla pelle delle persone. Ho fatto un po' da cavia per un esperimento, sto pagando quello che si è scatenato sul piano mediatico». Le dichiarazioni di Buzzi sono servite a confermare le condanne di quelli che oggi stanno in prigione. Eppure non è stato considerato un imputato credibile. «Le mie parole valevano solo quando confermavo, ma non quando dicevo cose nuove. Poteva essere una nuova tangentopoli». Di accuse, rimaste inascoltate Buzzi, ne ha mosse tante: «L'ho ripetuto mille volte erano i politici che cercavano me per avere soldi e mazzette. Dal Pdl al Pd. E io dovevo lavorare. Non avevo alternative». Perché non sia stato creduto lo spiega il suo avvocato: «È stato un problema di impostazione. Non una scelta politica. Se avessero indagato, avrebbero scoperto altri episodi di corruzione e accusato altre persone coinvolte, ma non avrebbero più potuto sostenere il teorema della mafia. È stata un'occasione sprecata». Buzzi lo ribadisce: «Erano i funzionari e gli amministratori a pretendere i soldi per consentirci di lavorare. E non solo nelle gare che sono finite sotto processo. Ma le mie dichiarazioni escludevano l'intimidazione e la minaccia». E Diddi spiega: «Seguire Buzzi nelle sue dichiarazioni, come è stato fatto in primo grado dal collegio presieduto da Rosanna Ianniello, che aveva escluso la mafia, significava ammettere quello che è stato scritto nelle motivazioni della sentenza del Tribunale: È passata tangentopoli ma il mondo è rimasto come era all'epoca. Credere a Buzzi significava ammettere che c'è un sistema di corruzione, ma non di mafia. Invece questo processo è stata una sperimentazione. È stato applicato il diritto creativo e Buzzi e altri hanno fatto da cavia a questi esperimenti». A chiudere con una battuta è Diddi. Alla domanda se Buzzi abbia progetti e ipotizzi un futuro, risponde: «Gli auguro di fondare la cooperativa 2 dicembre». Il riferimento è al 2 dicembre 2014, quando i primi arresti della maxi inchiesta svelarono l'esistenza del Mondo di mezzo. 

La Corte di Cassazione affonda “Mafia capitale”. Simona Musco il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La sentenza della Cassazione. La VI sezione penale del Palazzaccio ha riconosciuto la presenza di due associazioni distinte a carattere delinquenziale, ma non la loro "mafiosità". Quella del Mondo di mezzo non era mafia. Ed ora è una certezza irrevocabile, sancita ieri dalla Cassazione, che ha messo la parola fine al processo “Mafia capitale”, annullando senza rinvio l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Una decisione che ha dato ragione ai giudici di primo grado, secondo cui quelle di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi erano sì due associazioni a delinquere che hanno messo a ferro e fuoco la città con corruzione e malaffare, ma distinte e senza alcun utilizzo del metodo mafioso. La sentenza è stata pronunciata alle 20, alla presenza del presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, e della sindaca di Roma, Virginia Raggi – che mise piede al Campidoglio proprio dopo il terremoto politico causato dall’inchiesta – al Palazzaccio sin dal pomeriggio «a testa alta per tutti i cittadini onesti che insieme a noi combattono per la legalità e contro il malaffare» . Per alcuni reati fine e la relativa rideterminazione della pena ci sarà, ora, un nuovo processo d’appello. «Il reato di mafia è caduto per manifesta infondatezza. Finalmente c’è un giudice a Berlino», ha dichiarato Francesco Tagliaferri, difensore dell’ex Nar Carminati. «Non c’è stata mafia per il mio assistito, dovrà essere rifatto il giudizio ora – ha aggiunto ai microfoni di Rai News 24 -. Era in palio un principio di democrazia, per fortuna è stato riconosciuta la verità». Mentre per Alessandro Diddi, legale di Buzzi, «c’è un sistema corrotto ma non c’era Buzzi ad insistere con i politici per il malaffare di mezza Roma. Troppa pressione da parte di media e politica ha determinato le sentenze del passato. La vita di Buzzi, da questo momento, è cambiata, potrà guardare al suo futuro – ha aggiunto -. Ora c’è un annullamento con rinvio e dobbiamo fare dei conteggi». A processo c’erano 32 imputati, di cui 17 condannati a vario titolo dalla Corte d’Appello di Roma, a settembre dello scorso anno, per associazione a delinquere di stampo mafioso, con l’aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno. L’accusa avanzata dalla procura di Roma era quella di aver costituito una «nuova» mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale. E mercoledì scorso la procura generale aveva ribadito quella tesi, chiedendo la sostanziale convalida della sentenza d’appello. «Possiamo dire serenamente che quando si parla di associazioni mafiose le dimensioni non contano, conta se si è usato il metodo mafioso – aveva detto in aula il procuratore generale Luigi Birritteri -. Il fatto da provare non è la violenza esterna ma il metodo mafioso, a cui si può far ricorso attraverso la blandizia, gli schieramenti di potere, l’appoggio alle campagne elettorali». Per il pg, che ha citato Giovanni Falcone durante la requisitoria, «abbiamo assistito a un’evoluzione della mafia: Cosa Nostra si è evoluta, abbiamo importato nuove mafie. Il sistema mafioso funziona e per questo viene riprodotto, usa la violenza mafiosa se necessario e il potere politico». Ma i giudici di Cassazione hanno accolto la tesi delle difese, che sin da subito hanno provato a dimostrare che quella di Buzzi e Carminati era solo una vicenda di corruzione. «Una cosa è certa – ha dichiarato Valerio Spigarelli, difensore di Luca Gramazio, ex consigliere regionale Pdl condannato in appello per 416 bis -, la mafia in questo processo non esiste, è un’invenzione giuridica fatta a freddo». Così come avevano stabilito i giudici di primo grado il 20 luglio 2017, quando la condanna più dura venne inflitta a Carminati: 20 anni di reclusione contro i 28 anni chiesti dalla procura, ma senza aggravante mafiosa. Al “ras delle cooperative” Buzzi, invece, furono inflitti 19 anni, contro i 26 anni e 3 mesi richiesti, anche per lui senza 416 bis. «Questa sentenza dimostra che la mafia – aveva detto l’avvocato Giosuè Naso, l’allora difensore di Carminati – è una cosa seria, che non va banalizzata, perché se tutto è mafia poi finisce che nulla è mafia». Per il Tribunale, non era stata «individuata, per i due gruppi criminali», quello presso il distributore di Corso Francia e quello riguardante gli appalti pubblici, «alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose». Non basta il ricorso alla corruzione, avevano obiettato i giudici, «è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza dell’intimidazione». In appello le cose erano invece cambiate: quella del Mondo di Mezzo, per i giudici, era mafia, sancendo così una breve rivincita della procura allora guidata da Giuseppe Pignatone. Ma le pene si erano ridotte rispetto al primo grado, con Carminati e Buzzi che si sono visti ridurre lacondanna, rispettivamente a 14 anni e mezzo e a 18 anni e 4 mesi. E assieme a loro, i giudici d’appello avevano riconosciuto l’associazione mafiosa anche per altri 16 imputati. Ora è tutto da rifare.

L’ossessione Mafia Capitale è diventata un boomerang: va in carcere chi non ne era accusato. Il Cavaliere Nero mercoledì 23 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. Tra le spietate bizzarrie del processo Mafia capitale ci sono quelle che riguardano gli arrestati di questa notte. Mirko Coratti e Andrea Tassone del Pd e Giordano Tredicine del Pdl, assieme ad altri imputati meno conosciuti, sono stati portati in carcere proprio perché “non mafiosi”.

Accuse di corruzione, come per De Vito. A loro carico accuse e condanne di corruzione certamente gravi, simili ad esempio a quelle che hanno provocato l’arresto di Marcello De Vito, Cinquestelle, in detenzione preventiva e poi ai domiciliari. Ma se avessero subito anche l’accusa di mafia, costoro oggi sarebbero in libertà perché bisognerebbe rideterminare la pena da infliggere per ciascuno con la caduta delle aggravanti specifiche. Invece, per essi, la sanzione carceraria è diventata definitiva.

Le porte della galera si applicano per la cosiddetta legge spazzacorrotti. Paradossalmente le accuse di mafia si sono dunque trasformate in un autogol per chi le ha mosse – gli inquirenti – e per chi le ha cavalcate – i politici che ci hanno speculato – al punto che in carcere ci vanno quelli per i quali non è cambiato nulla nel processo, tra appello e Cassazione. Se non si fosse partiti a razzo con quelle imputazioni legate alla mafia, ieri il processo si sarebbe concluso definitivamente per tutti. Con le responsabilità e le pene inflitte a ciascuno.

Per l’accusa di mafia chi pagherà? Invece, da una parte alcuni imputati sono finiti agli arresti, altri dovranno attendere per sapere se devono tornare in prigione, altri ancora non vedono l’ora di riconquistare la libertà dopo aver temuto il peggio. Chi sbaglia paga, non c’è dubbio, ma per l’accusa di mafia scaraventata tra capo e collo su persone che con la mafia nulla c’entrano, probabilmente non risponderà nessuno. E’ stata un’ossessione durata cinque anni che hanno sconvolto la vita di Roma. E’ la città che dovrebbe essere parte civile, ma stavolta non solo contro gli imputati. 

Simone Canettieri per “il Messaggero” il 24 ottobre 2019.

Professor Ignazio Marino, la Cassazione ha stabilito che il Mondo di mezzo non era mafia, ma un sodalizio criminale. Per la città è un motivo di sollievo non avere questa etichetta. Concorda?

«Io sarei arrogante, oltre che sciocco, a dare un giudizio sulle decisioni della Suprema Corte. Quella drammatica etichetta di città in mano alla Mafia rimbalzò su tutti i media del mondo e questo danneggiò non solo Roma ma anche l'Italia. Per fortuna Roma ha una storia plurimillenaria così ricca di eventi e così densa di arte e cultura che alla fine questi aspetti continuano a prevalere nell'immaginario collettivo dei popoli stranieri».

Ma c'è stato secondo lei un cortocircuito politico-mediatico-giudiziario in questa inchiesta?

«La condanna mediatica venne trasmessa agli italiani e al resto del mondo prima che si avviasse il procedimento giudiziario. Ma questo avviene di regola nel nostro Paese. Il segreto istruttorio è violato regolarmente e nessuno sa spiegare come questo accada dal momento che il materiale è nelle mani della magistratura alla quale la nostra Costituzione ha affidato un ruolo fondamentale e indipendente nell'organizzazione dello Stato».

E' consapevole di esserci finito dentro anche lei?

«A inizio luglio 2013 affermai che già in quelle prime settimane di lavoro da sindaco avevo percepito la presenza di qualche forma di criminalità organizzata. Venni contraddetto dall'allora prefetto Pecoraro. Basta pensare a Ostia, dove fu chiaro che vi era un vero controllo del territorio da parte di alcune famiglie. Un giorno venni sgridato dal prefetto Gabrielli perché in un sopralluogo a Ostia mi lasciai sfuggire a voce alta un pensiero.

Dissi: Qui serve l'esercito con le armi lunghe. Ho il totale rispetto della sentenza della Corte di Cassazione e se così hanno affermato gli ermellini vuol dire che in questo caso non c'è mafia, ma certamente la mafia a Roma esiste».

L'atteggiamento del Pd fu schizofrenico?

«Dopo i primi arresti nel dicembre del 2014 riuscii finalmente a cambiare i vertici di aziende come l'Ama e a sostituire il Presidente del Consiglio Comunale. Il vice-segretario nazionale del Pd, l'onorevole Guerini, attuale Ministro della Difesa, mi suggerì fortemente di sostituire il mio vice-sindaco Luigi Nieri con Mirko Coratti. Mi spiegò che questo avrebbe tranquillizzato il Pd.

Io gli risposi che consideravo Luigi Nieri integerrimo e che la scelta del vice-sindaco è prerogativa del sindaco. Certo non migliorai i miei rapporti con il Pd ma nei fatti, e lo dico con sofferenza perché non c'è nulla di cui gioire, Mirko Coratti è in carcere con una condanna definitiva».

Sui colpi della pressione mediatica, il Pd utilizzò anche l'inchiesta per far dimettere in massa i consiglieri davanti a un notaio? Lei parlò di giustizialismo. Conferma?

«Diciannove consiglieri del Pd si chiusero nella stanza di un notaio per far cadere il sindaco eletto dal popolo. Il Pd è stato generoso e li ha quasi tutti premiati con nuove importanti cariche.

A me rimane l'orgoglio di aver chiuso la discarica di Malagrotta, aver aperto la Metro C, pedonalizzato i Fori Imperiali e piazza di Spagna. E comunque soffrii per quell'azione di alcuni politici di professione, ma non mi sorpresi. Due mesi prima Orfini, allora presidente del Pd, mi suggerì di dimettermi prima che il Consiglio dei ministri decidesse se Roma avesse una Giunta infiltrata dalla mafia o no. Io risposi che non lo avrei mai fatto perché la mia Giunta di certo non piaceva ai partiti ma non era infiltrata dalla mafia. Ma era un ostacolo agli affari di Buzzi e Carminati, come dimostrano le intercettazioni».

Il M5S ha cavalcato la parola mafia per fini elettorali. Ora dovrebbe chiedere scusa ai romani?

«Non so dare definizioni o suggerimenti al M5S. È un movimento politico che negli ultimi anni ha affermato tutto e il contrario di tutto. Dalle Olimpiadi, allo Stadio della Roma, alla gestione dell'acqua che vorrebbe totalmente pubblica ma poi incassa i dividendi milionari di Acea per Roma, alle norme relative a quanto sia etico rimanere in carica. Dovevano essere due mandati ma poi è stato ideato il mandato numero zero. Straordinario».

Per la sindaca Virginia Raggi questa sentenza segna la fine di un alibi politico?

«Io non sono in grado di giudicare l'operato di Virginia Raggi: infatti, prima dell'operato e dei risultati spesso mi sono chiesto se ha studiato il disegno urbano e le infrastrutture di Roma e se ha magari iniziato a pensare a una sua visione strategica».

La sentenza ha comunque condannato esponenti di maggioranza e minoranza della sua consiliatura: ora la politica romana si è dotata dei giusti anticorpi?

«Da 8.000 chilometri di distanza a me sembra che chi muove le leve della Capitale d'Italia siano sempre gli stessi».

Mafia capitale: la condanna morale è per la Raggi e per una banda di avvoltoi. Francesco Storace mercoledì 23 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. Avete trattato la Capitale d’Italia come una città di mafia. Non era vero. Non è vero. Vite distrutte per un teorema giudiziario che si è infranto in Cassazione. Perché al massimo ci sono  colpevoli per reati comuni ma non di mafia.  Imputati che dal 2014 erano precipitati nell’incubo di Mafia Capitale. E fa davvero pena la signora comunque, Virginia Raggi. “Comunque c’era un sodalizio criminale”, ha bofonchiato dopo l’ennesima passerella giudiziaria in Cassazione. Stava lì con quell’altro bellimbusto che presiede la Commissione Antimafia, Morra. Tifavano come avvoltoi per una sentenza di mafia e sono usciti sconfitti. Vergogna a voi, rappresentanti istituzionali incapaci di accettare il responso della giustizia. Perché, cara sindaca “comunque”, quel “sodalizio” assomiglia molto a quello corruttivo in cui è rimasto impigliato Marcello De Vito, il numero due del Campidoglio fino a che non gli misero le manette ai polsi. E noi, diversamente dalla Raggi, gli auguriamo l’assoluzione. Perché gioiamo se la politica esce pulita e non sporcata da accuse orribili. Lei, invece, ci ha costruito una carriera che ora vede franare.

Raggi sindaco proprio per Mafia capitale. Virginia Raggi è diventata sindaca di Roma dopo Ignazio Marino, proprio sull’onda dello scandalo battezzato Mafia Capitale. Guardava dall’opposizione gli ultimi atti dell’amministrazione di Ignazio Marino e non capiva bene che cosa succedeva. Prevalse nella scelta interna ai Cinquestelle proprio su De Vito e per anni ha parlato e straparlato di cosche manco fosse la giovane moglie di Pignatone. Ieri la Raggi è uscita mesta dalla Cassazione. Ma è un altro il palazzo che deve abbandonare, ed è quel Campidoglio che ha occupato con la sua banda sull’onda di una campagna giustizialista che ha distrutto l’immagine di Roma. Chi scrive non ha mai creduto al teorema mafioso sin dall’inizio dell’inchiesta, quando si voleva addirittura infilarci in mezzo il sindaco Alemanno assieme all’allora capogruppo del Pdl Luca Gramazio. Con entrambi una battaglia durissima in Campidoglio in quegli anni – come succede tra maggioranza e opposizione – ma mai un dubbio sulla fondatezza di quelle accuse di mafia. In tanti, troppi, ci hanno speculato sopra. Venivamo dalla stessa famiglia politica, e l’associazione ad un sistema fondato sull’appartenenza ad una cosca era davvero incredibile. E tanti, troppi anni dopo la Cassazione ha confermato le nostre certezze di allora.

Lasciare i romani liberi di scegliere. Eppure, la Raggi e quelli come lei non mostrano ripensamenti perché nel fondo della loro coscienza – forse si accorgono di averla – sanno di aver esagerato cavalcando l’inchiesta di Pignatone. E chi fa di queste cose non deve stare nelle istituzioni, perché non ha equilibrio. Vada a casa questa sindaca, con la sua corte che pure ha cambiato più volte perché le ha sbagliate quasi tutte. Lasci liberi i romani di scegliere finalmente il sindaco della ricostruzione, che sappia restituire davvero fiducia ai cittadini.

E se possiamo permettercelo, da ora in avanti la finiscano tutti – anche a sinistra – con gli insulti reciproci, con le parole forti, con la lesione della dignità delle persone che si impegnano in politica. Perché se al posto dei nemici mettete gli incapaci, vi trovate altre Virginia Raggi. E Roma ha bisogno finalmente di serenità.

La sentenza di Mafia Capitale dimostra che la giustizia ha più buon senso della politica. ​Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 23 ottobre 2019.  L’autore ha fatto parte del collegio difensivo nel processo Mafia Capitale.Grazie all’arma sottile dell’interpretazione i “corpi intermedi“ come la Cassazione stanno mostrando nelle vesti di raffinate élite tecniche capaci di vanificare le distruttive spinte delle leggi populiste. Prima che una Rosi Bindi, un Travaglio, un Morra o un prete insorgano a dire che la Cassazione, presieduta da uno dei suoi migliori cervelli, non capisce nulla della “nuova mafia” come contestarono al vilipeso tribunale capitolino, occorre leggere dentro le righe del lungo dispositivo della sentenza di martedì per capire. La Cassazione spazza via l’incolore sentenza d’appello e resuscita in ogni piega la sentenza di primo grado, a partire dal riconoscimento dell’esistenza di due distinte associazioni: quella di Carminati con base al distributore di Corso Francia e dedita all’usura e quella messa in piedi dal “ Cecato” con Buzzi per praticare la corruzione nel corpaccione del comune capitolino. Nessuna fusione ma realtà distinte di criminalità ordinaria. Sarà bene precisare che il tribunale mai si è sognato di scrivere che l’unica mafia possibile sia quella «con Coppola e lupara» come spregiativamente sottolineato dalla procura di Roma nei motivi di appello. Assai più semplicemente ha affermato che ciò che era proposto dall’allora Procuratore Pignatone era un modello fuori produzione, un prototipo non contemplato da alcun articolo di legge e dunque inservibile. Si chiama «principio di stretta legalità»: il diritto di ogni cittadino, compreso anche il “malacarne“ di essere informato prima di violare la legge dell’esatta connotazione dei reati che andrà a commettere. In Mafia Capitale era avvenuto questo: gente convinta di compiere corruzioni e turbative d’asta aveva scoperto il giorno dell’arresto di aver compiuto atti di mafia “a sua insaputa”. Prima ancora che nei pedinamenti di Carminati, Mafia Capitale è nata in una commissione ministeriale presieduta da un grande giurista garantista come Giovanni Fiandaca incaricata appunto di porre mano al 416 bis per estenderlo ai nuovi modelli di criminalità organizzata. Tentativo fallito raccontano i protagonisti perché dietro insistenza del procuratore Pignatone, che allora già conduceva le indagini su Carminati, si era deciso di «lasciare immutata la formulazione legislativa dell’associazione di stampo mafioso, confidando in una futura evoluzione giurisprudenziale in grado di fornire soluzioni via via più soddisfacenti». La soluzione “ Mafia Capitale” un precipitato tra “romanzo criminale “ e le analisi sociologiche di Rocco Sciarrone ne è stato il prodotto.

In Mafia Capitale era avvenuto questo: gente convinta di compiere corruzioni e turbative d’asta aveva scoperto il giorno dell’arresto di aver compiuto atti di mafia “a sua insaputa”. Lo scopo della creazione giuridica era consentire alle procure l’uso di un apriscatole affilato come la legislazione anti-mafia per penetrare dentro le realtà criminali dedite alla corruzione perseguite allora con strumenti blandi. Poi è accaduto l’imprevisto sotto forma dell’avvento del governo populista. Proprio l’indagine capitolina aveva agevolato il trionfo dei 5 Stelle e annunciato la crisi del PD. I gialloverdi al governo hanno messo in cantiere lo “spazzacorrotti" elevando i reati corruttivi al rango di pericolosità di quelli di mafia. Le stesse pene, le stesse misure di confisca, l’immediata esecuzione, la negazione delle pene alternative. Probabilmente il vento giustizialista si è portato appresso la “mafia creata” e l’interpretazione “estensiva”: semplicemente non ce n’è più bisogno. Ed ecco paradossalmente è la stessa arma dell’interpretazione innovativa a mezzo sentenza che viene usata per arrestare il mostro creato artificialmente con lo stesso metodo. La Cassazione che pure aveva riconosciuto la natura mafiosa dell’associazione durante la fase delle indagini giudicando sulle misure cautelari ed aveva nel corso degli anni con una serie di pronunce allargato i confini dei reati di mafia si è fermata. Ha recuperato i valori costituzionali legati al principio di legalità ed alla proporzione delle pene (non si possono infliggere per reati non di sangue pene da crimini violenti). Così come su un altro versante la Corte Costituzionale che nello stesso giorno giudicava sull’ergastolo ostativo ha iniziato una tenace opera di valorizzazione del recupero sociale dei detenuti e di umanizzazione delle pene. Viene da pensare che i famosi, invocati “corpi intermedi“ si stiano mostrando nelle vesti di raffinate élite tecniche capaci di vanificare le distruttive spinte delle leggi populiste proprio con l’arma sottile dell’interpretazione. Concludendo i lavori del congresso delle Camere Penali, il presidente dei penalisti ( che hanno conseguito l’altra sera un’affermazione di grande prestigio) Giandomenico Caiazza si è chiesto angosciato come far fronte alla furia giustizialista del governo giallorosso. Senza voler esagerare forse l’inaspettato esito di Mafia Capitale mostra un sentiero, ancora stretto, ma da percorrere.

Mafia capitale, la moglie di Carminati: «Riporto a casa mio marito». Valentina Errante su Il Messaggero Mercoledì 23 Ottobre 2019. «È caduta la mafia». «Sicuro, siamo sicuri?», chiede a chi le sta seduto accanto, Alessia Marini. La moglie di Massimo Carminati cerca di decifrare velocemente cosa significhino quegli articoli del codice che il presidente della sesta sezione, Giorgio Fidelbo, sta leggendo. «È caduta la mafia» lo ripete e piange, durante tutta la lunga lettura del dispositivo. Da quel momento in poi per la compagna del “Nero” le lacrime non smettono di scorrere. Finita anche lei sul banco degli imputati in un altro procedimento connesso a quello del marito, non riesce a frenare l’emozione e la gioia. Aspetta la fine della lettura, attende l’avvocato Cesare Placanica, il nuovo difensore di suo marito. La Corte è appena uscita, i difensori e il pubblico sono ancora dentro l’aula magna della Cassazione, quando Alessia Marini gli getta le braccia al collo, lo stringe e tra le lacrime ripete: «Le posso dare un bacio? Grazie, avvocato, grazie. L’avevamo capito dopo che aveva parlato, dopo la sua arringa. L’avevamo capito noi e non poteva non capirlo la Corte». Fuori ribadirà la “sua” vittoria. «Ho fatto la scelta giusta», dice. Si riferisce alla scelta di cambiare legale. Di abbandonare Bruno Naso che per tutta la vita ha difeso Massimo Carminati. «Ho fatto la scelta giusta, mi riporto mio marito a casa». 

L’ESULTANZA. La difesa è quella tecnica scelta da Placanica, non politica e senza gli attacchi alla procura che hanno caratterizzato le arringhe e gli interventi di Bruno Naso, avvocato di Carminati nei primi due gradi di giudizio. E ancora difensore di Riccardo Brugia. Gli imputati principali del processo, questa volta, non sono collegati con l’aula. Non possono sentire la sentenza in diretta né parlare subito dopo con gli avvocati. Non si può assistere alla loro reazione immediata Anche per i legali sarà possibile sentirli solo oggi dal carcere, con un collegamento da Regina Coeli. La compagna del re delle coop Salvatore Buzzi esulta. Alessandra Garrone è una degli imputati condannati per mafia, ma lei non sta in carcere come il suo compagno: «Sono felice perché è stata riconosciuta una cosa che era chiara», dice al telefono all’avvocato che ha difeso lei e il marito, Alessandro Diddi. Ma in aula a piangere sono in tanti. 

LA POLEMICA. Anche Sergio Carminati, il fratello del “Nero”, capo clan fino a ieri esulta: «Finora è stata commessa un’ingiustizia tremenda - commenta - Anche da voi giornalisti. Vediamo se adesso lo scrivete. È andata come era giusto che andasse». Ad attendere con lui la lettura del dispositivo c’è Lorenzo Alibrandi, fratello di Alessandro, uno dei fondatori dei Nar, morto in un conflitto a fuoco con la polizia nell’81. Al processo di primo grado, Alibrandi è stato anche testimone e ha raccontato che il “Nero” per lui è stato come un fratello, dopo la morte di Alessandro». Ma, appena fuori dall’aula, c’è anche spazio per un battibecco ed è quello tra Sergio Carminati e Bruno Naso, che strilla contro il fratello del suo cliente storico. «Siete una famiglia di cialtroni, siete cialtroni - dice Naso. Tu e tuo fratello che sta in carcere». Ma Sergio Carminati non raccoglie. Adesso la sua felicità è piena. Evita i flash, si raccomanda di non pubblicare le sue foto, si stringe alla cognata e va via soddisfatto. «Finalmente giustizia è fatta», continua a ripetere». E va via.

«Mondo di mezzo», revocato a Carminati il 41 bis. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 da Corriere.it. « Con il parere positivo della direzione distrettuale antimafia di Roma e della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo è stato revocato il 41 bis, il carcere duro, a Massimo Carminati»: fonti del ministro della Giustizia fanno sapere che il ministro Alfonso Bonafede ha firmato il decreto di revoca del regime del 41 bis per l’ex Nar Carminati, uno degli imputati nel processo sul «Mondo di mezzo», dopo la sentenza della Cassazione che ha fatto cadere l’aggravante di associazione mafiosa. «Venuto meno il reato di stampo mafioso è inevitabile che sia stato revocato il 41bis per Massimo Carminati, ovvero il regime di carcere duro» commenta con l’Adnkronos l’avvocato Giosuè Bruno Naso, che ha difeso l’ex Nar nei primi due gradi del processo. Il provvedimento è scattato alla luce della sentenza della Cassazione che ha fatto cadere l’aggravante di mafia. «Anche quando in primo grado non venne riconosciuta la mafia, a Carminati fu revocato il 41bis e venne ammesso al regime carcerario ordinario – spiega il legale – perché non era legato alla pericolosità in carcere o a informative della polizia giudiziaria. Anzi, Carminati è un detenuto irreprensibile, non ha mai avuto problemi con la polizia penitenziaria». «Per me – conclude Naso - il 41bis è un automatismo assurdo, che spero aboliscano presto e per il quale ultimamente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha anche richiamato il nostro Paese». «Hanno tolto il 41 bis a Carminati? La decisione, alla luce della sentenza della Cassazione, era scontata, non mi sorprende. Piuttosto adesso il mio assistito, Salvatore Buzzi, va fatto uscire di galera, gli va immediatamente revocata la misura cautelare in carcere»: parole di Alessandro Diddi, difensore di Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati del processo Mafia Capitale.

Mondo di mezzo, Alemanno condannato a sei anni per corruzione e finanziamento illecito. L'ex sindaco di Roma avrebbe ricevuto da Buzzi somme pari a quasi 300mila euro per pilotare nomine e appalti. "Sentenza ingiusta, sono innocente", scrive Francesco Salvatore il 25 febbraio 2019 su La Repubblica. Corruzione e finanziamento illecito, l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è stato condannato in primo grado a 6 anni reclusione -  un anno in più rispetto alla richiesta della Procura -  nel processo stralcio di Mafia Capitale. L'accusa nei suoi confronti, contestata dal pm Luca Tescaroli, è di aver percepito da Salvatore Buzzi e da soggetti che agivano in accordo con lo stesso soldi in contanti ed erogazioni alla Fondazione Nuova Italia, da lui presieduta, per un ammontare totale di lui 298mila e 500 euro. In particolare 228mila euro di erogazioni indirette alla fondazione, e 70mila euro diretti in contanti in varie tranche. A disporre la condanna i giudici della seconda sezione collegiale del tribunale romano, che hanno disposto la confisca di 298mila euro. Alemanno, dunque, sarebbe stato corrotto per il compimento di atti contrari ai doveri di ufficio. Secondo gli inquirenti Buzzi, che agiva in concorso con Massimo Carminati, avrebbe pagato fior di quattrini per far nominare dirigenti apicali in Ama, per pilotare l'appalto per l'organico indetto dalla stessa municipalizzata (in favore delle coop della galassia Buzzi) e per far sbloccare i crediti che Buzzi vantava con la pubblica amministrazione, la stessa Ama ed Eur spa. I giudici della II sezione penale del Tribunale di Roma hanno condannato Alemanno anche alla confisca di 298.500 euro e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Alemanno, inoltre, non potrà stipulare contratti con la pubblica amministrazione per due anni. E' stata fissata una provvisionale di 50mila euro sia per Ama che per il Comune di Roma. Si difende l'ex primo cittadino: "Sono innocente non c'è una vera prova certa contro di me. Mafia capitale ha creato dei danni anche a me. Leggeremo le motivazioni per capire come si è arrivati a questa condanna. C'era un clima negativo. Ho avuto l'impressione che ci fosse la volontà di andare oltre anche a quanto chiesto dal pm. Non solo l'uomo di riferimento di mafia capitale, visto che sono stato prosciolto dall'accusa di associazione mafiosa". Disposti una provvisionale di 50mila euro nei confronti del Comune e di Ama (la somma definitiva sarà stabilita in sede civile) e il risarcimento dei danni per 10mila euro nei confronti delle parti civili CittadinanzAttiva, Assoconsum e Confconsumatori federazione regionale Lazio.

Mondo di mezzo, 6 anni ad Alemanno: «Sentenza ingiusta». L’ex sindaco di Roma è accusato di aver preso finanziamenti da Buzzi, scrive Simona Musco il 26 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Sei anni di carcere, uno in più rispetto alla richiesta del pm, e interdizione perpetua dai pubblici uffici: è la condanna inflitta in primo grado all’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, accusato di corruzione e finanziamento illecito nel processo stralcio di Mafia Capitale. Per la procura il politico era il punto di riferimento dell’ex ras delle cooperative Salvatore Buzzi e dell’ex nar Massimo Carminati, principali imputati dell’inchiesta. Secondo l’accusa, tra il 2012 e il 2014, Alemanno avrebbe ricevuto 223.500 euro da Buzzi, d’accordo con Carminati, sui conti della fondazione “Nuova Italia”, da lui presieduta, in parte tramite erogazioni indirette alla fondazione e in parte in contanti in varie tranche. «Sono innocente – ha commentato dopo la sentenza l’ex sindaco – Non c’è una vera prova certa contro di me. Mafia capitale ha creato dei danni anche a me. Leggeremo le motivazioni per capire come si è arrivati a questa condanna. C’era un clima negativo. Ho avuto l’impressione che ci fosse la volontà di andare oltre anche a quanto chiesto dal pm. Non sono l’uomo di riferimento di mafia capitale, visto che sono stato prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa». I giudici hanno disposto anche la confisca di 298.500 euro, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione per due anni. È stata fissata, inoltre, una provvisionale di 50mila euro sia per Ama sia per il Comune di Roma, in attesa di stabilire la somma definitiva in sede civile, nonché il risarcimento dei danni per 10mila euro nei confronti delle parti civili CittadinanzAttiva, Assoconsum e Confconsumatori federazione regionale Lazio. «Giudico questa sentenza ingiusta e assurda – ha aggiunto – Dobbiamo leggere le motivazioni e sicuramente ricorreremo in appello, dove speriamo di avere la giustizia che qui è mancata». I guai per Alemanno sono iniziati il 2 dicembre del 2014, quando nel corso di una perquisizione domiciliare gli era stato notificato un avviso di garanzia nell’inchiesta “Mondo di Mezzo”. Il rinvio a giudizio arrivò un anno dopo, il 18 dicembre 2015, quando gup Nicola Di Grazia dispose il processo per corruzione e finanziamento illecito, rimanendo indagato a piede libero per associazione di stampo mafioso. Un’accusa per la quale il 16 settembre 2016 è stata la stessa procura a chiedere l’archiviazione, disposta, poi, per Alemanno e un altro centinaio di indagati il 7 febbraio successivo dal gip Flavia Costantini. «Gli elementi acquisiti nel corso delle indagini – scriveva il giudice – non risultano idonei a sostenere l’accusa in giudizio nei confronti di Alemanno, con particolare riguardo all’elemento soggettivo del reato (l’articolo 416 bis cp) in merito al ruolo di partecipe nel reato associativo». Nel corso della requisitoria, durata sei ore, lo scorso 8 febbraio il pm Luca Tescaroli ha chiesto la condanna a 4 anni e mezzo per corruzione, più altri 6 mesi per finanziamento illecito. Alemanno, ha affermato il pm, era «l’uomo politico di riferimento dell’organizzazione Mafia Capitale all’interno dell’amministrazione comunale, in ragione del suo ruolo apicale di sindaco, nel periodo 29 aprile 2008 – 12 giugno 2013. Inserito al vertice del meccanismo corruttivo – ha sottolineato – ha esercitato i propri poteri e funzioni illecitamente e curato la raccolta delle correlate indebite utilità, prevalentemente tramite terzi propri fiduciari per schermare la propria persona». E anche successivamente, una volta diventato consigliere comunale di minoranza in seno al Pdl, sarebbe rimasto «il punto di riferimento» di Buzzi. Alemanno avrebbe dunque «venduto» la sua funzione anche con l’ausilio «del fidato Franco Panzironi, parimenti corrotto», al «sodalizio criminale Mafia Capitale» che «è riuscito a ottenere il controllo del territorio istituzionale di Ama spa, società presieduta dal Comune di Roma, incaricata di pubblico servizio, ente aggiudicatore di appalti, target privilegiato dell’organizzazione». Lo scorso 11 febbraio i difensori di Alemanno, gli avvocati Pietro Pomanti e Franco Coppi, avevano replicato chiedendo l’assoluzione, in quanto «non c’è una sola carta, una sola intercettazione di “Mafia Capitale” da cui emerge che lui sia un corrotto o abbia preso soldi – hanno sottolineato – Non è credibile che il sindaco di una delle più grandi città europee si sia reso responsabile di una corruzione di 40mila euro. Quanto ai finanziamenti, nessuna irregolarità c’è stata né tanto meno dolo». Ma dopo oltre due ore di camera di consiglio, ieri, i giudici della seconda sezione penale hanno deciso di punire l’ex sindaco, optando per una pena più alta di quella chiesta dall’accusa.

La caccia è aperta. Sei anni ad Alemanno, scrive Piero Sansonetti il 26 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Ieri, lunedì, Gianni Alemanno è stato condannato a sei anni di prigione. Venerdì scorso Roberto Formigoni era entrato nel carcere di Bollate, a Milano, per scontare una condanna a cinque anni e dieci mesi. Ora è in una cella di sei metri per quattro, bagno compreso, insieme ad altri due detenuti. Possibilità di uscire, magari tra qualche mese, poche assai. Gianni Alemanno spera invece in una sentenza d’appello favorevole a lui. Cinque o sei anni fa Formigoni e Alemanno erano due delle persone più potenti d’Italia. Il governatore della ricchissima Lombardia, la locomotiva economica del paese, e il sindaco di Roma, locomotiva politica. Formigoni è stato condannato per via di alcune vacanze in barca. Risulta che sia stato ospite di un suo amico, il quale, secondo l’accusa, era intermediario di uno scambio di favori con alcune cliniche convenzionate che avevano ricevuto dei soldi dalla regione Lombardia. E risulta anche che questo suo amico gli abbia pagato cene e alcuni viaggi fatti insieme. Uno che legge così la notizia immagina che Formigoni, che, appunto, era Presidente della regione, dispose direttamente e segretamente questi stanziamenti. No: gli stanziamenti furono decisi e votati dalla giunta e poi dal consiglio regionale. Fu una decisione collettiva motivata dalla necessità di migliorare il servizio sanitario. Poi, naturalmente, uno può pensare che non migliorarono proprio nulla, anzi peggiorarono, e di conseguenza può decidere di non votarli più quelli che hanno fatto questi errori. La magistratura invece ha deciso di spedirne in cella uno per educarli tutti. Non di spedire in cella l’intero consiglio regionale, che evidentemente è considerato non in grado di intendere e di volere, ma solo Formigoni, l’ex Deus ex Machina di Comunione e Liberazione. Alemanno invece è stato condannato non per le sue vacanze, che pare essersi pagato di tasca propria, ma per un finanziamento ad una fondazione della quale lui è magna pars. Finanziamento, tra il 2010 e il 2012, di circa 300 mila euro (un po’ meno). Naturalmente se a me dessero 300 mila euro non dico che mi cambierebbero la vita ma certamente risolverebbero molti miei problemi economici; se però la stessa cifra è elargita a una associazione politica, com’era la fondazione di Alemanno, risulta essere una cifra piuttosto piccola. Le associazioni politiche, per vivere, hanno bisogno di parecchio denaro. Una volta, in parte, questo denaro era assicurato dal finanziamento pubblico, così come succedeva per i partiti. Poi, da quando si è stabilito che l’attività politica o culturale non deve essere più considerata una libera attività umana ma qualcosa di molto sospetto e probabilmente di una associazione a delinquere, i finanziamenti pubblici sono spariti, e quelli privati si sono molto ridotti. Resta il fatto che Alemanno se ha commesso un reato – ma allora bisognerebbe accettare il fastidio di cercare e trovare le prove – ha commesso un reato molto modesto, e anche discutibile, come quello di concorso in finanziamento illecito all’attività politica. Sei anni, per questo reato? Più tutte le pene ulteriori, e cioè l’interdizione quasi da ogni attività che non sia la pesca o l’agricoltura? Proprio ieri ho letto che il ministro dell’Interno sta montando un casino dell’altro mondo perché ritiene ingiusta o comunque sproporzionata la condanna a quattro anni e mezzo di un signore che è stato giudicato responsabile di avere catturato un ladro e di avere tentato di fucilarlo, sparandogli da un metro al petto, dopo avergli sbattuto varie volte la testa sulle pietre. Non so se davvero quel signore è responsabile di un delitto così feroce, spero di no, e personalmente sono sempre molto diffidente verso tutte le sentenze. Tuttavia non riesco a capire come si possa immaginare che una fucilazione sia meno grave di un modesto finanziamento alla propria associazione politica. Formigoni è in galera, l’ex governatore della Calabria, Peppe Scopelliti è in galera, l’attuale governatore della Calabria, Mario Oliverio, è al confino, il governatore della Basilicata, Pittella, dopo un periodo di carcere ha dovuto rinunciare a ricandidarsi perché è ancora sotto processo, il sindaco di Riace è stato messo in fuga e messo sotto processo perché aiutava gli immigrati. Sul Dubbio di venerdì scorso abbiamo pubblicato un ampio e informatissimo articolo di Simona Musco, la quale ha tentato una ricognizione su tutti i casi giudiziari che hanno coinvolto le Regioni e i Comuni. E’ un elenco impressionante, una strage. Decine di governatori arrestati o comunque demoliti da inchieste giudiziarie, in grande misura finite poi nel nulla. Tutto normale? Bisogna solo assistere, sorridere, rassegnarsi e ripetere la formula di rito, come in quella splendida vignetta di Altan che abbiamo citato già qualche giorno fa: «Scusi sa l’ora? No ma ho piena fiducia nella magistratura…». Ma se c’è un pezzo di magistratura evidentemente impegnato a dare la caccia ai politici, questo non crea una ferita molto profonda nel sistema democratico? L’indipendenza tra i poteri vuol dire che c’è un potere, quello giudiziario, in una posizione di assoluta prevalenza verso gli altri poteri costituzionali, e dunque verso il sistema democratico? Vedremo come andrà a finire il processo ad Alemanno. Possiamo anche provare ad avere fiducia nella magistratura, però ci vuole molto, tanto coraggio…

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della sera - Edizione Roma” il 22 maggio 2019. Un sindaco, Gianni Alemanno, «che si muoveva in un contesto politico molto degradato» e «succube di logiche criminali» sia pure ancora non interamente disvelate. Un imprenditore, Salvatore Buzzi, abile nel coltivare rapporti con la pubblica amministrazione e che aveva trovato nell'allora sindaco un interlocutore privilegiato. Nel motivare la sentenza di condanna a sei anni di carcere per corruzione i giudici confermano: «Provato con assoluta certezza il rapporto corruttivo Alemanno-Buzzi (Salvatore Buzzi, patron delle coop, ras di Mafia Capitale, ndr)». I metodi impiegati dall'ex sindaco per governare la città sono, secondo i magistrati, censurabili: «Il modulo organizzativo utilizzato dal sindaco Alemanno non è stato di certo un valido presidio a garanzia della trasparenza, dell'economicità ed efficienza nell' operato dell'amministrazione ma ha contribuito alla formazione di zone d' ombra idonee a generare comportamenti distorsivi e illegittimi». Accertato il rapporto corruttivo con il ras delle cooperative. Un rapporto mediato, in qualche caso (soprattutto nel periodo della sindacatura) dal suo fiduciario Franco Panzironi, già presidente dell'Ama nonché tesoriere della fondazione «La Nuova Italia»: «Quest'ultimo (Panzironi, ndr) costituiva infatti l'anello di congiunzione fra le cooperative sociali di Buzzi ed Ama spa». O meglio «una proiezione esecutiva» di Alemanno. Quanto alla fondazione è stata, secondo i giudici, il «portamonete» personale dell'allora sindaco: «Che la Fondazione Nuova Italia abbia rappresentato per l' imputato un salvadanaio cui attingere al momento del bisogno è circostanza ulteriormente confermata dai trasferimenti di denaro avvenuti in costanza dei rapporti di consulenza tecnica intercorso tra Alemanno e la fondazione a partire dal 28 giugno 2013». Secondo gli investigatori che hanno approfondito per i pm Cascini, Ielo e Tescaroli il ruolo di Alemanno all' interno della fondazione, la cifra trasferita a quest' ultimo in un anno (dall' estate 2013 a quella 2014), è stata di circa 62mila euro. Una somma ingiustificata se si pensa al contributo effettivo offerto da Alemanno alla fondazione, dicono i giudici: «I trasferimenti di denaro, effettuati in seguito alla cessazione della sindacatura di Alemanno, dimostrano invece come l'attività di consulenza (teoricamente formalizzata, ndr ) si sia in realtà tradotta in una ridicola finzione necessaria a giustificare sul piano contabile i molteplici spostamenti di denaro». Tirando le somme la fondazione «Nuova Italia» è stata un «salvagente per assicurarsi un sostentamento economico personale una volta terminato il periodo della sua sindacatura». Nel rapporto fra il sindaco di centrodestra e l' imprenditore del centrosinistra si realizza, secondo i giudici, un meccanismo di perfetto equilibrio: «La sindacatura di Alemanno è stata vantaggiosa per Buzzi: le tre cooperative si aggiudicarono appalti per 9,6 milioni di euro, 3.6 in più rispetto alla sindacatura di Veltroni». Alemanno, concludono i giudici, «motivato dalla prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale mostrandosi disponibile a spendere la propria qualità di sindaco per risolvere i problemi delle coop di Buzzi si è inserito in quella logica negoziale simmetrica che tradizionalmente caratterizza le fattispecie corruttive».

·         Chi di manette ferisce, di manette perisce.

Chi di manette ferisce, di manette perisce, scrive il 21marzo 2019 Mirko Giordani su Il Giornale. Marcello De Vito, Movimento 5 Stelle, è innocente fino a prova contraria, e chiunque sia contrario a questo principio non vive nel 21esimo secolo ma nell’alto Medioevo. A dire la verità questo principio non è neanche vagamente accettato dai Cinque Stelle, che si sono dimostrati pronti ad impiccare chiunque in pubblica piazza anche per un semplice avviso di garanzia. Tradizione ereditata dalla sinistra manettara. Adesso che uno di loro è finito sul patibolo e non per una stupidaggine, ma per corruzione, c’è da sperare che De Vito ne esca pulito, c’è da essere garantisti fino all’ultimo, e di evitare di agire come dei lupi che mangiano delle carcasse morte. In poche parole, non dobbiamo comportarci come i pentastellati, sempre pronti con il cappio in mano e con la ghigliottina insanguinata. Che sia da monito per gli sbruffoni, che sia da monito a quel signore della politica che si chiama Giarrusso, che faceva il segno delle manette agli avversari politici. Mai come oggi la poesia di John Donne è attuale: per chi suona la campana? Ieri per i partiti tradizionali, oggi per i duri e puri dei 5 Stelle.

I 5 Stelle non sono più i manettari di una volta. Davide Varì il 23 Novembre 2019 su Il Dubbio. Bisogna ammetterlo: i grillini non sono più i manettari di un tempo. Certo, continuano a invocare giustizia, galera e pene esemplari. Ma da tempo ormai non lo fanno più con la stessa passione, lo stesso trasporto. E saremmo maliziosi e capziosi se facessimo notare che questo disamoramento per la gattabuia abbia coinciso con i guai giudiziari che in questi ultimi anni hanno colpito sindaci e consiglieri del Movimento. Fatto sta che da qualche tempo i grillini hanno iniziato a scoprire lo strano e complicato mondo delle garanzie e dei diritti. Altrimenti non si spiegherebbe la compostezza con cui i consiglieri 5Stelle romani hanno accolto il “redivivo” Marcello De Vito. Primo candidato sindaco di Roma e consigliere più votato dai romani, nel Movimento De Vito non è uno qualsiasi. E ieri, dopo otto mesi passati in galera e tre ai domiciliari – il tutto senza lo straccio di una sentenza, neanche di primo grado – De Vito è tornato sullo scranno di presidente del Consiglio comunale citando nientemeno che Enzo Tortora, il simbolo più potente dell’accanimento giudiziario: “Dove eravamo rimasti?”. Una preghiera laica che grillini e non dovrebbero ripetere ogni mattina, magari dopo aver dato una ripassatina ai drammatici dati sulle ingiuste detenzioni: dal 1992 a oggi, sono oltre 26mila, quasi 1000 all’anno, gli individui che hanno subito una illegittima detenzione prima di essere definitivamente assolti con sentenza passata in giudicato. E ricordare, come ha ricordato qualche giorno fa la presidente del Senato Elisabetta Casellati, che dietro ogni singolo caso di errore giudiziario o di ingiusta detenzione vi è un dramma umano. «Vi sono donne e uomini illegittimamente privati della propria libertà, della propria dignità; la cui vita affettiva, sociale e lavorativa è stata fortemente pregiudicata». Tutto questo per non dover più dire: “Dove eravamo rimasti…”.

Da leggo.it il 21 novembre 2019. Dagli arresti domiciliari allo scranno più alto dell'Assemblea capitolina. Marcello De Vito, sospeso a marzo dal prefetto dopo l’arresto per la vicenda dello stadio di Tor di Valle, secondo quanto risulta a Leggo, da oggi a sorpresa presiede nuovamente il Consiglio comunale di Roma. Marcello De Vito, presidente del'Assemblea capitolina, espulso dal M5S, è stato arrestato con l'accusa di corruzione nel marzo scorso in uno dei filoni dell'indagine relative al nuovo stadio della Roma. De Vito è tornato libero lo scorso 19 novembre su decisone del tribunale di Roma accogliendo una istanza del difensore Angelo Di Lorenzo. Per lui il processo è stato fissato con rito immediato per il prossimo dicembre.

(ANSA il 21 novembre 2019) - Ai sensi della Legge Severino "a seguito dell'ordinanza di revoca degli arresti domiciliari per Marcello De Vito decade la sospensione della carica di consigliere e presidente dell'Assemblea capitolina e vengono meno le condizioni per la supplenza del consigliere Roberto Allegretti, il cui mandato ha termine". Lo ha annunciato in apertura di Assemblea Capitolina la vicepresidente del consiglio, Sara Seccia. De Vito torna dunque ad essere presidente del Consiglio Comunale di Roma.

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 22 novembre 2019. È in pigiama, sono da poco passate le 8 di mattina, quando lo chiama il suo avvocato e gli dice che la Prefettura ha revocato la sospensione: «Marcello, puoi tornare presidente». E lui non ci pensa un attimo, chiama il confidente di questi mesi tribolati, Max De Toma, amico di vecchia data e deputato grillino, uno dei pochissimi parlamentari stellati a essergli rimasto vicino, nonostante tutto: «Vieni qui e andiamo insieme, andiamo in scooter. Oggi torno su quello scranno. Ricomincio da dove avevo lasciato». Alla fine opterà per la Fiat 500 di De Toma, perché anche la moglie Giovanna non vuole perdersi la scena. E lo accompagna col sorriso a 32 denti quando, alla mezza spaccata, il presidente dell'Assemblea Capitolina, Marcello De Vito, detto la «Sfinge» per quell'aria sempre imperturbabile, torna sulla tolda di comando del Consiglio comunale di Roma. Percorre di nuovo la cordonata del Campidoglio, dribbla la statua del Marc'Aurelio e i fotografi che già l'aspettavano lì sotto. Rientra dall'entrata principale, sale le scalette accanto alla Lupa, passo lento, sembra godersi il momento, otto mesi dopo l'arresto per l'affaire Tor di Valle, per cui è ancora sotto processo per corruzione (il rito immediato inizierà a dicembre), ma che affronterà da uomo libero. La Cassazione, esprimendosi sulle misure cautelari, ha parlato di accuse basate su «congetture ed enunciati contraddittori». E De Vito riparte da qui. All'entrata si ferma solo col vigile di piantone: «É stata duretta, sì. Ora sto bene». Sulla terrazza abbraccia Paolo Ferrara, l'ex capogruppo M5S di Roma ora consigliere semplice, anche lui finito impelagato nell'inchiesta stadio, ma la Procura, per lui, ha chiesto l'archiviazione. Abbraccia qualche assessore di passaggio. Altri rimangono freddi. Prima di ripresentarsi in Aula, De Vito incontra Virginia Raggi. «Sono rimasti insieme una ventina di minuti, da soli», racconta il deputato De Toma. Lo staff della sindaca prova a ridimensionare: «Solo un saluto in corridoio, normale tra persone civili». Non hanno affrontato il vero nodo: che fare, ora? De Vito resta in maggioranza? Resta nel M5S? Soprattutto: resta presidente sotto processo? Il vice di Raggi, Luca Bergamo, ha già fatto sapere che «è sacrosanto che torni a svolgere la funzione per cui è stato eletto», ma «se dal processo emergerà la non colpevolezza». E il processo deve ancora cominciare. La linea di Raggi è più cauta: «Bisogna seguire la legge». Insomma, nessuna valutazione sull'«opportunità politica» di tenere alla testa dell'Assemblea della Capitale un politico imputato per corruzione. Una riflessione che invece, più d'uno, nel Movimento capitolino fa. Tanto che i numeri nel pallottoliere dell'Aula Giulio Cesare vacillano. Enrico Stefàno, M5S, potente presidente della Commissione comunale Mobilità, ex vicepresidente dell'Assemblea dimessosi proprio perché il gruppo grillino si era spaccato sulla revoca di De Vito mentre era in carcere, ieri lo ha dichiarato sia intervenendo in Aula sia scrivendo sui social: «C'è un procedimento penale in corso, con accuse gravi. Il suo ruolo deve essere al di sopra dei sospetti. Noi eravamo quelli che gridavano onestà-onestà, ora i consensi sono in caduta libera». Si unisce alle richieste arrivate dall'opposizione - dal Pd a Fdi - di valutare le dimissioni per «opportunità politica». De Vito accetta la sfida e rilancia: «Se verrà presentata una richiesta di revoca con 24 firme verrà messa in calendario». Messaggio chiaro: se volete, trovate le firme per cacciarmi, cioè la metà dei consiglieri. Pezzi dell'opposizione già si stanno muovendo e strizzano l'occhio ai grillini imbarazzati. Lo stesso Stefàno non chiude: «Vediamo che farà l'opposizione, io sarò coerente». Un'altra consigliera stellata, Monica Montella, gli ha replicato in Aula a muso duro: «Un passo indietro è un'ipocrisia». Non è il rientro morbido che forse De Vito s'aspettava. «Heri dicebamus», dove eravamo rimasti, dice appena si riaccomoda sulla poltrona più alta, dopo il bacio alla moglie, mentre un drappello di fedelissimi e attivisti lo applaude. Dai banchi del M5S invece poche mani si muovono, tanti occhi abbassati e sguardi mesti. «È un piacere e un onore rientrare in quest'aula e ritrovarvi», dice lui. «Ho perso 18 chili, non fumo più», confida nei capannelli coi colleghi. E fa capire di avere le idee chiare: «Resto presidente - ripete ai capigruppo - e resto nel gruppo 5 Stelle». Gli chiedono: rimarrà anche nel Movimento? «Questo è da vedere...». Del resto non si è mai capito che fine abbia fatto l'iter per l'«espulsione» annunciata subito dopo l'arresto da Di Maio, via Facebook. «Marcello potrebbe chiedere il reintegro», confida l'amico De Toma. Con cui De Vito ha scherzato sulle giravolte del Movimento mentre era in carcere e poi ai domiciliari: «Ero rimasto all'alleanza con la Lega, ora vedo che siete col Pd, ma che avete combinato?».

Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 22 novembre 2019. La rete di rapporti che circonda Marcello De Vito arriva fino a personaggi impensabili. Il redivivo presidente del consiglio comunale di Roma nei mesi precedenti al suo arresto era entrato in contatto persino con Giancarlo Elia Valori, 79 anni, già presidente di Autostrade per l' Italia. Breve preambolo storico: Valori figurava nell' elenco P2 come espulso. Al pm Domenico Sica nel 1981 disse: "Gelli mi propose di entrare nella P2 ma io rifiutai non sono mai stato iscritto() firmai una richiesta di adesione a un centro culturale europeo () che sostanzialmente era la rappresentazione esterna della Loggia P2 ". Però non versò nessun contributo. Ci voleva un po' di archeologia della massoneria per capire la sorpresa che si incontra nel leggere nelle carte delle indagini dei pm romani Paolo Ielo e Barbara Zuin, che il costruttore Pierluigi Toti ha raccontato ai pm: "Ho incontrato De Vito a fine giugno 2017 in una cena organizzata da Valori. Eravamo presenti, io, De Vito, Valori, Gianluca Bardelli. Mi ha invitato Valori e mi ha detto che ci sarebbe stato anche Bardelli e De Vito () dal livello di confidenza mostrata durante la cena ritengo che Valori abbia chiesto a Bardelli di portare De Vito e non che sia stato Valori a invitarlo". Era noto che De Vito è indagato per traffico di influenze per i 110 mila euro pagati dal gruppo Toti per una consulenza all' avvocato Camillo Mezzacapo, al fine di sfruttare le relazioni di De Vito stesso per l' approvazione del progetto di riqualificazione degli ex Mercati Generali, di interesse del gruppo Toti. Parte dei soldi, 48 mila euro, sarebbero poi stati girati alla Mdl srl, "di fatto riconducibile al Mezzacapo e al De Vito". Dalle carte più recenti si scopre che i fratelli Toti nel giugno del 2019 sono stati interrogati e hanno scoperto di essere indagati con De Vito, Gianluca Bardelli e l' avvocato Marco Simone Mariani. Il reato contestato è l' induzione indebita ex articolo 319 quater. Per i pm De Vito, Mariani e Bardelli "abusando della qualità e dei poteri di pubblico ufficiale del primo indebitamente inducevano Toti Pierluigi e Toti Claudio a conferire allo studio legale Mariani Associati l' incarico professionale di 'consulenza e assistenza legale' in relazione ai procedimenti amministrativi in trattazione al Comune di Roma denominati Ex Mercati Generali e Progetto Collina verde in località Collina Muratella, (che interessavano al Gruppo Toti, ndr) per un corrispettivo di 200 mila euro (già corrisposto a titolo di retainer free) e della ulteriore somma di 1 milione e 100 mila euro (dovuta a titolo di success fee e non ancora versata), quale adempimento necessario al fine di pervenire all' approvazione dei progetti, alla stipula delle convenzioni urbanistiche nonché al rilascio delle autorizzazioni". Il Gip Maria Paola Tomaselli nel decreto con il quale autorizzava ad aprile le intercettazioni scriveva che "dagli elementi acquisiti è ragionevole allo stato ipotizzare che vi sia un ulteriore soggetto (o più soggetti) con cariche pubblicistiche, diverso da De Vito, che costituisca il beneficiario finale (unitamente al Mariani) delle elargizioni effettuate a titolo di pagamento di consulenze del gruppo Toti". Per il Gip "Sia Mariani sia Bardelli risultano interessati al pagamento da parte dell' imprenditore della consulenza il cui ammontare è di 50 mila euro al mese". In quella prima fase dell' inchiesta il reato ipotizzato era l' articolo 319, cioé la corruzione, poi i pm hanno cambiato idea. L' avvocato Mariani è stato interrogato a giugno dai pm e ha negato anche questa contestazione minore sostenendo che non c' era nessuna induzione e che il suo incarico di assistenza legale è stato reale. Al Fatto dice: "Io ho lavorato un anno e mezzo, come ho documentato quando sono stato sentito dai pm, e le dico anche che pretendo di ricevere quel che mi spetta dal committente". I Toti si configurano negli interrogatori come vittime appunto di un' induzione indebita a cui hanno ceduto. Pierluigi Toti ha raccontato "conosco il prof. Valori (non indagato e estraneo all' inchiesta, ndr) da circa trent' anni ()ci incontravamo spesso e gli avevo confidato, tra Novembre e Dicembre del 2016 la mia preoccupazione per le sorti del progetto dei Mercati Generali, la cui mancata approvazione avrebbe certamente condotto il gruppo al fallimento. Ho chiesto a Valori di potere capire le ragioni del silenzio dell' amministrazione comunale e lui mi ha proposto di rivolgermi a Bardelli, quale persona molto influente nel mondo dei Cinque Stelle". Bardelli è titolare di una grande officina Jaguar e Land Rover a Roma ed è un influencer M5S ma più che con i commenti su Twitter sembra influenzare con le sue relazioni. Dice Pierluigi Toti ai pm: "in occasione di un incontro programmato con mio fratello Bardelli ha fatto trovare a sorpresa De Vito nella sua officina". Secondo Toti, Bardelli fu chiaro: "con diffide e ricorsi non saremmo mai andati avanti nel progetto e le nostre società sarebbero fallite () avremmo invece dovuto dare un incarico all' avv. Mezzacapo". Quando i Toti chiedono di non rinnovare l' incarico a Mezzacapo, secondo loro, si sentono dire da Bardelli che però avrebbero dovuto rivolgersi all' avvocato Mariani. La versione dei Toti è tutta da verificare. Alla fine non è chiaro nemmeno se questa indagine porterà a un processo. Di certo svela che il potere in Italia dalla prima alla terza repubblica non è cambiato molto.

Dai "mariuoli" alle mele marce, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 21/03/2019, su Il Giornale. C'è un'operazione in corso all'interno dei Cinque Stelle. Una grande, orchestrata e pianificata campagna mediatica per far passare un concetto: Marcello De Vito, presidente dell'assemblea capitolina finito in manette per tangenti sul nuovo stadio, è solo una mela marcia. Una solenne menzogna. Perché De Vito, ora scaricato come un pacco dai vertici del Movimento, era espressione del Movimento stesso. Assolutamente organico ai papaveri pentastellati, ortodosso, allineato con i duri e puri della prima ora. Ossessionato da tutte le parole d'ordine dei grillini: legalità, trasparenza, lotta alla corruzione e alla casta. Bellissime parole, a quanto pare tutte disattese. Almeno a giudicare dalla reazione di Di Maio che lo ha immediatamente espulso, al di fuori di ogni regola del partito. Ma basta dare un'occhiata agli ultimi spot elettorali di De Vito, per capire di avere davanti un grillino doc. Il tutto condito da una esibita ostilità nei confronti di tutte le grandi opere. Per poi - scherzo del destino - scivolare su quelle medie, come lo stadio della Capitale. A dimostrazione che il problema non è la dimensione di quello che si vuole costruire, ma la statura di chi presiede quei lavori. Bastano un piccolo uomo e un politico meschino per fare una grande truffa con un'opera modesta. E neppure i Cinque Stelle sfuggono a questa regola.

Con gli arresti di Roma hanno definitivamente perso la loro verginità, è crollato il mito di una presunta superiorità morale e financo antropologica. «Questa congiunzione astrale... è tipo l'allineamento della cometa di Halley, hai capito? Cioè è difficile secondo me che si riverifichi così... e allora noi, Marcè, dobbiamo sfruttarla sta cosa, secondo me, cioè guarda... ci rimangono due anni», si dicono al telefono l'avvocato Camillo Mezzacapo e Marcello De Vito, con un linguaggio astrale involontariamente ironico. E di fatto inserendo anche la corruzione nel firmamento fondato da Grillo e Casaleggio. E, ad essere malevoli, i sondaggi dimostrano che il Movimento non è lontano dalla sua notte di San Lorenzo. Non solo, avvisiamo il partenopeo Di Maio che bollare come mela marcia, come metastasi isolata senza pericolo di contagio, il compagno di partito che sbaglia, porta iella. E non esistono gesti apotropaici per scongiurarla. Lo insegna la storia recente. Dietro a un corrotto molto spesso se ne nasconde un altro, e così via. Il 17 febbraio 1992, il socialista Mario Chiesa, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio, venne colto con le mani nella marmellata: una mazzetta di sette milioni di lire. Bettino Craxi lo definì: «un mariuolo isolato». Da quella stecca nacque l'inchiesta Mani pulite. Il sassolino che preludeva una valanga. E sappiamo tutti che fine hanno fatto Craxi e il Partito socialista.

Marcello De Vito e la morte del mito dell'onestà del Movimento 5 Stelle. L'arresto per corruzione del presidente dell'assemblea capitolina è un duro colpo all'immagine costruita negli anni dai pentastellati a colpi di selfie e foto discutibili. E la sua espulsione non basterà a riconquistare l'innocenza perduta, scrive Mauro Munafò il 20 marzo 2019 su L’Espresso. Marcello De Vito è innocente fino a quando un tribunale non avrà stabilito il contrario. Questa ovvietà è bene precisarla, proprio perché si tratta di un'ovvietà troppo spesso dimenticata di recente. Ma se il presidente dell'assemblea capitolina del Movimento 5 Stelle avrà i suoi modi e tempi per difendersi, quello che oggi muore senza dubbio è il mito dell'onestà dei 5 Stelle. Perché i miti si alimentano di suggestioni, simboli, immagini e non di fatti. Si alimentano di fotografie di tuoi parlamentari che fanno il gesto delle manette o di tuoi consiglieri comunali che si fanno i selfie con le arance per augurare la galera a un avversario politico. E queste immagini e suggestioni così superficiali possono essere spazzate vie con facilità da altre immagini e suggestioni ben più rilevanti. Come appunto la notizia di un tuo esponente di primo piano nel territorio più importante che amministri, la Capitale d'Italia, che viene arrestato per tangenti e corruzione. L'accusa è pesante: De Vito avrebbe incassato direttamente o indirettamente delle elargizioni dal costruttore Luca Parnasi. Per agevolare il progetto collegato allo stadio della Roma. Pochi minuti dopo la notizia, Luigi Di Maio si è affrettato a cacciare “con motu proprio” De Vito dal Movimento 5 Stelle, spiegando che “De Vito non lo caccio io, lo caccia la nostra anima, lo cacciano i nostri principi morali, i nostri anticorpi”. Operazione inutile: a ben pochi di quegli elettori che per anni hai alimentato a pane e qualunquismo interessa un'operazione puramente di facciata come espellere qualcuno dal Movimento. Il mito dell'onestà, una volta che lo perdi, non lo recuperi con un'espulsione e un post di poche righe su Facebook. Chissà se oggi quelle foto con le mani che imitano le manette o i selfie con le arance faranno arrossire qualcuno degli ex onesti.

«I soldi? Dividiamoceli subito!». Ecco le intercettazioni che fanno tremare il M5S. Nuovo stadio della Roma: una nuova ondata di arresti travolge un altro pezzo dei Cinque Stelle capitolini. Per Marcello De Vito, presidente dell'Assemblea, la Procura ipotizza il reato di corruzione. L'amico: «Prima di incassare meglio che tu finisca il mandato», scrivono Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian il 20 marzo 2019 su L’Espresso. Ci sono le Cinque Stelle del Movimento, simbolo di trasparenza e onestà. E poi c'è la «cometa di Halley», metafora di un'occasione da non perdere: quella di chiudere affari e incassare tangenti mascherate da consulenze da centinaia di migliaia di euro. «La congiunzione astrale, come quando passa la cometa di Halley» è la frase simbolo intercettata dai carabinieri del Nucleo investigativo di Roma e contenuta nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip del tribunale di Roma che ha portato in carcere Marcello De Vito, il presidente dell'assemblea capitolina. Un pezzo da Novanta del partito guidato da Luigi Di Maio, che ha subito annunciato di averlo cacciato. L'accusa è pesante: corruzione. Oltre a lui sono finiti nella rete della procura di Roma - l'indagine è coordinata dal pm Paolo Ielo, Barbara Zuin e Luigia Spinelli - altre tre persone: tra questi l'avvocato e “procacciatore” Camillo Mezzacapo. Amico e sodale di De Vito. Ed è proprio Mezzacapo in un dialogo intercettato a suggerire al grillino di cogliere l'attimo politico favorevole, visto che il movimento Cinquestelle è maggioranza nel governo nazionale e della Capitale. Dice Mezzacapo: «Guarda, c'è una congiunzione astrale che è come quando passa la cometa di Halley...cioè, state voi al governo qua di Roma e anche al governo nazionale in maggioranza rispetto alla Lega, è la cometa di Halley, allora adesso hai un anno, se adesso non facciamo un cazzo in un anno però allora voglio dire mettiamoci il cappelletto da pesca, io conosco un paio di fiumetti qua ci mettiamo là ci mettiamo tranquilli con una sigarettella un sigarozzo là, con la canna e ci raccontiamo le storie e ci facciamo un prepensionamento dignitoso». Come dire, non lasciamoci sfuggire i vantaggi del momento. Perché oggi siamo al potere, domani chissà. «Ci rimangono due anni, due anni», ribadisce l'avvocato. E stando agli atti della procura e del gip la coppia grillina si è mossa davvero con rapidità e grande abilità, dentro e fuori le istituzioni. L'inchiesta su De Vito è un nuovo filone d'indagine dell'istruttoria che portò in carcere Luca Lanzalone, ex presidente di Acea e legale che curava per la giunta Raggi l'iter per la realizzazione del nuovo Stadio della Roma. Oltre al Mr Wolf di Virginia, finì in manette anche il costruttore Luca Parnasi, l'imprenditore che doveva realizzare il nuovo impianto. Parnasi, si scopre adesso, avrebbe corrotto anche De Vito. Ecco cosa scrive il gip sul grillino: «La funzione pubblica svolta viene mercificata e messa al servizio del privato al fine di realizzare il proprio arricchimento personale, che è l'obiettivo al quale appaiono finalizzate tutte le condotte dei citati indagati». E ancora: «L'ufficio pubblico di De Vito appare non occasionalmente, ma costantemente strumentale alla realizzazione di tale arricchimento, che è la filosofia che dirige l'azione del pubblico ufficiale e del suo compartecipe, azione inequivocamente indirizzata alla realizzazione del massimo dei profitti». De Vito, infatti, avrebbe usato una società intestata ad altri, la Mdl, per incassare le prebende. Che arrivavano dai costruttori (sono indagati anche i Toti e le aziende di Giuseppe Statuto, che sarebbero stati favoriti nei loro affari dal grillino) attraverso consulenze legali fittizie a Mezzacapo: «Va beh, distribuiamoceli subito questi», dice De Vito intercettato mentre parla con il suo mediatore. Secondo gli investigatori il politico si riferisce ai soldi entrati nelle casse della società a lui riferibile. Mezzacapo gli risponde, invitandolo alla cautela: «Ma adesso non mi far toccare niente, lasciali lì, a fine mandato se vuoi ci mettiamo altro sopra se vuoi...». Alla fine l'avvocato riesce a placare la richiesta del presidente dell'assemblea capitolina, e lo convince ad aspettare la fine della legislatura. «Cioè la chiudiamo, distribuiamo poi, liquidi e sparisce tutta la proprietà, non c'è più niente e allora però questo lo devi fa quando hai finito quella cosa siccome mo ci stanno facendo sponsorizzazioni...». Per la procura è una conversazione «illuminante», che chiarisce «in maniere inequivocabile il patto scellerato tra De Vito e Mezzacapo, dando chiara dimostrazione di come le somme confluite nella Mdl, formalmente riconducibile solo al secondo, siano invece anche del pubblico ufficiale, che appare, peraltro impaziente, di entrarne in possesso». Un format, prosegue il gip che ha firmato l'ordinanza di custodia cautelare, assolutamente riuscito, grazie alla «congiunzione astrale e alla spregiudicatezza di chi ritiene di potersi muovere liberamente e impunemente in ambiti criminali». Tra un affare e un favori ai costruttori coinvolti, però, De Vito e il suo complice hanno il tempo di discutere anche di politica. Mezzacapo:«Non credo che alle prossime elezioni a Roma il movimento rivada al governo della città, te lo dico proprio sinceramente...va beh tutto può succedere». E De Vito: «Mah vediamo, a noi basta andare al ballottaggio...comunque noi...loro dovrebbero fare un deroga alla regola dei due mandati». L'avvocato si dice convinto che si voterà i primi mesi del 2020, «quella è la finestra». D'accordo De Vito, che però aggiunge: «Devono solo fare le nomine Eni...Enel... credo ( si voti ndr) maggio, giugno 2020».

Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2019. Quali fossero i rapporti tra il presidente del consiglio comunale di Roma e gli imprenditori ben si comprende ascoltando le parole del costruttore Luca Parnasi, che a un amico rivela: «Ho ritenuto di affidare un incarico allo studio Mezzacapo per non scontentare Marcello De Vito». Eccola la «messa a disposizione della funzione pubblica» che ha convinto il giudice a ordinare l' arresto del politico pentastellato.  Il resto lo fanno i soldi che De Vito e il suo socio Camillo Mezzacapo (con l' aiuto della «sua persona di fiducia» Virginia Vecchiarelli) avrebbero fatto arrivare su conti della Mdl srl, che condividevano e gestivano, trovati grazie alle indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo. Ma anche quelle conversazioni durante le quali pensano al futuro: «Allora voglio dire, mettiamoci il cappelletto da pesca, io conosco un paio di fiumetti qua ci mettiamo là... ci mettiamo tranquilli con una sigarettella, un sigarozzo, con la canna e ci raccontiamo le storie e ci facciamo un prepensionamento dignitoso...». De Vito e Mezzacapo erano soci di studio e da quando il primo è entrato in politica, l' altro sembra essersi ritagliato un ruolo di mediatore tra lui e gli imprenditori. E così, quando emergono problemi, Mezzacapo rassicura Parnasi «che per superare le difficoltà abbiamo chiamato il nostro amico per farlo intervenire con forza» ed è stato lo stesso costruttore «nel corso dell' interrogatorio del 3 ottobre 2018 a confermare che si trattasse proprio di De Vito», più volte in altri colloqui definito «l' amico potente». Lo schema messo in piedi era semplice. E avrebbe consentito a De Vito di ottenere 260 mila euro, più una promessa per altri 140 mila. Scrive il giudice: «Dall' esame dei conti bancari intestati agli avvocati Vecchiarelli e Mezzacapo sono emersi i pagamenti ricevuti per la consulenza (a Parnasi, ndr ) e la destinazione finale di tale provvista. Sul conto intestato a Vecchiarelli è stato individuato un primo bonifico in ingresso in data 10 agosto 2017 da Capital Holding spa di 24.582 euro con causale Saldo preavviso parcella. La relativa provvista risulta essere stata impiegata il 14 agosto 2017 in un bonifico da 19.665 euro in favore di Mezzacapo. Altri due bonifici da 35.270 euro ciascuno arrivano a Vecchiarelli il 13 e il 16 aprile 2018. Il giorno dopo vengono ordinati due bonifici in favore di Mezzacapo: uno da 21.376 euro, uno da 18.300 euro». De Vito, questo dice il giudice, è il terminale di una parte del denaro. Su un suo conto personale Mezzacapo accredita 8.550 euro il 6 settembre 2017 e 4.275 il 12 marzo 2018. Non è finita. Perché, questa è una delle accuse «sul conto corrente intestato a De Vito si registrano alcuni picchi di prelevamento contanti riferibili ai mesi di giugno 2017 per 1.700 euro, di settembre 2017 per 3.500 euro e ad ottobre per 1.500 euro». Per far approvare le delibere, De Vito evidentemente sa che non può contare solo su sé stesso. Il giudice lo dice in maniera chiara lasciando intendere che le indagini non sono affatto concluse e potrebbero presto portare ad altri clamorosi sviluppi: «La funzione pubblica esercitata da De Vito è oggetto di mercimonio, stabilmente asservita agli interessi dei privati... Nel promettere per il tramite di Mezzacapo il suo intervento lo modula a seconda delle necessità. Quando non può farlo direttamente si rivolge agli assessori competenti per materia, ovvero ai consiglieri comunali, ovvero ancora si avvale di tutta la sua rete di relazioni in modo da poter comunque sollecitare l' intervento di altri pubblici ufficiali che operano all' interno dell' amministrazione capitolina».

Il 31 maggio De Vito parla al telefono con Parnasi «sulla possibilità di influenzare le scelte di consiglieri e altre cariche capitoline».

Parnasi : «Gli dico, parlo con Daniele (Frongia ndr)».

De Vito : «rinvialo questo passaggio senza...no? Dell' Eurobasket».

Parnasi :«Glielo sfumo, glielo sfumo! Siccome Daniele è uno che è una volpe, ha una velocità in testa che...! Io con Daniele ho un buon rapporto lui onestamente è un po' è un po' come si dice a Roma "rintorcinato" termine giusto, mi sbaglio?».

De Vito : «Ha la modalità del giocatore di scacchi russo».

La giudice sottolinea come De Vito e Mezzacapo «sono sempre a caccia di un modo per ampliare il loro "portafoglio clienti"». E tra le conversazioni che lo dimostrano ne cita una del 31 maggio scorso, quando si affronta il problema dello stadio. De Vito appare preoccupato, vuole sapere «noi come ci entriamo?». E Parnasi non si scompone: «Usiamo il solito schema».

Vale a dire «fatture emesse da Vecchiarelli con una duplice finalità: giustificare formalmente la percezione del prezzo della corruzione e consentire alle società del gruppo Parnasi l' evasione delle imposte».

De Vito e Mezzacapo cercano di eludere i controlli e la loro cautela aumenta dopo l' arresto di Luca Parnasi a giugno 2018. In una circostanza escogitano, telefonicamente, un appuntamento da un concessionario di Jaguar per simulare la scelta di una Range Rover. Gli investigatori «osservavano nel parcheggio dell' autosalone le auto di Mezzacapo e De Vito e dopo circa un' ora li vedevano uscire dalla concessionaria insieme a una terza persona e allontanarsi».

In qualche caso si pongono il problema di non essere visti assieme, il politico si preoccupa. Così De Vito obietta la scelta di un pranzo al Matriciano di via dei Gracchi perché è molto frequentato e c' è la possibilità che qualcuno li avvisti ma Mezzacapo lo rassicura: «Entriamo dal coso, c' è l' ascensoretto che ti porta su adesso lo vedi c' è la saletta, non ti vede nessuno siamo noi quattro, noi quattro e il cameriere....».

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 21 marzo 2019. Un giorno, non molto lontano, basterà semplicemente la frase pronunciata dall' avvocato Camillo Mazzacapo a Marcello De Vito, «Marce', dobbiamo sfruttarla sta cosa», per ripiombare nell' atmosfera di ieri, di oggi, di questa Terza Repubblica già moralmente ammaccata, un po' come avviene quando sentiamo la mitica «A Fra' che ti serve» e subito ritorniamo alla Prima Repubblica, ai suoi mondi di maneggioni e favori, di imprenditori e politici che facevano comunella di potere e di soldi. Della biografia politica del presidente del consiglio comunale di Roma Marcello De Vito si può dire in poche righe quello che ora tutti nel M5S tacciono: che oggi poteva essere il sindaco di Roma, se non fosse stato (forse) per una brutta storia di dossier e non ci fosse stato (certamente) lo zampino di Gianroberto Casaleggio che gli preferì Virginia Raggi perché aveva più sicurezza e più presenza in video. Ma De Vito dava garanzia di purezza nel M5S, come dimostra lo choc generalizzato dei colleghi. «Marcellone», per gli amici che gli riconoscevano la stazza fisica e la bontà, era da sempre considerato il più ortodosso a Roma, l' altra metà di Roberta Lombardi a cui è indissolubilmente associato. Emerso dalla truce guerra tra bande che erano i meet-up romani e laziali, fu il candidato sindaco perdente contro Ignazio Marino nel 2013. Tre anni di consiliatura, poi la giunta Pd che cade e la speranza questa volta di farcela, ammazzata, confidava lui, dal dossier a uso interno raccolto - disse Lombardi ai pm - dagli altri tre consiglieri grillini Daniele Frongia, Enrico Stèfano e la futura sindaca Raggi. Non l' ha mai davvero mandato giù quel boccone avvelenato, nonostante il premio di consolazione dell' assemblea capitolina, forte del massimo dei voti presi da un candidato 5 Stelle a Roma. Dissimulava una serenità inesistente, come spesso si fa nel M5S straziato e abituato alle faide: «Sto zitto per il bene del Movimento». Raccontano che era a lui che faceva riferimento Beppe Grillo nei giorni peggiori della tormentata giunta Raggi, già prima degli arresti del braccio destro Raffaele Marra e dell' imprenditore messo a capo di Acea Luca Lanzalone. Ma Roma è sempre Roma, il suo microcosmo asfittico, la sua gola frettolosa di guadagni. «A Fra' che ti serve» fu la frase di rito degli Anni Ottanta, che tutto conteneva, attribuita a Gaetano Caltagirone, re dell' edilizia romana, quando riceveva una telefonata da Franco Evangelisti, uomo ombra di Giulio Andreotti. Quel saluto un po' annoiato un po' indolente («A Fra'...»), sempre disincantato e sbrigativo come è la romanità nel suo spirito più profondo, è lo slogan del principio di scambio fondativo di un impero politico finanziario finito in briciole con Tangentopoli, per rinnovarsi sotto altre forme e altri nomi. E così oggi in quell' avvertimento fraterno a De Vito - «Noi Marce' dobbiamo sfruttarla sta cosa, ci rimangono due anni» - l'avvocato Mazzacapo sta inconsapevolmente incarnando lo spirito dei tempi nuovi, la precarietà della politica, il mordi e fuggi della tribù che si sa a breve scadenza, perché improvvisata e fortuita. Un'altra contrazione dialettale in romanesco che dice meglio di mille analisi: razziare finché si è in tempo, perché quando ti ricapita il governo nazionale e di Roma assieme? E chi lo può sapere se mai il M5S tornerà a guidare il Campidoglio? Il M5S teorizza che siamo tutti passeggeri in politica e il potere svanisce nelle mani di chi lo possiede. Eppure De Vito sembrava essersi affezionato al suo ruolo, in una città dove ci sono sempre due, tre città dentro. Nove giorni fa, il 12 marzo, è arrivato persino a dire sulle Olimpiadi: «Non farle è stata scelta prudenziale, oggi forse sarebbe stato diverso». Si trovava di fronte a una platea di costruttori romani. Due anni di amministrazione irrobustiscono la fiducia e le relazioni. Basta tornare indietro, però, alle carte del primo filone di inchiesta sullo stadio della Roma, lo scorso giugno, per capire che erano già state lasciate le tracce di questo epilogo. A quando il gip appuntava che De Vito e l' ex capogruppo Paolo Ferrara si erano attivati per chiedere all' imprenditore Luca Parnasi «di promuovere la campagna elettorale» di Lombardi alla Regione Lazio. Ferrara, che si era mosso anche per spingere un progetto di restyling della sua Ostia, è ancora indagato. De Vito, invece, ha continuato a rispondere al telefono a chi lo chiamava affettuosamente «Marce'... ».

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” del 21 marzo 2019. Le arance! Chissà se certe anime pure grilline, furenti per l' abietta visita in Campidoglio dei «neri» di CasaPound con le arance per Marcello De Vito, hanno rivissuto ieri il giorno in cui quella visita la fecero loro. Era il 3 dicembre 2014 e a portare beffardi gli agrumi, spiegando che si trattava di un dono simbolico per i carcerati, c' erano Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e lui, il presidente del consiglio comunale ora a Regina Coeli. Venuti a chiedere le istantanee dimissioni di Ignazio Marino. Chi di arance ferisce, di arance perisce. Era proprio il grillino appena ammanettato e inchiodato da quella telefonata sui quattrini («distribuiamoceli, questi»), uno dei più accaniti fustigatori dei cattivi costumi capitolini. Basti risentire il suo spot elettorale: «Le mani libere del Movimento 5 Stelle rappresentano un valore importantissimo per Roma. Per la prima volta possiamo andare a colpire gli sprechi, i privilegi e la corruzione con cui i partiti di destra e di sinistra, indifferentemente, hanno campato per anni sulle spalle dei cittadini romani». O rileggere alcuni dei tweet lanciati in questi anni, soprattutto dal 2013 (quando fu il candidato a sindaco del MoVimento) al 2016, quando corse alle nuove «comunali» al fianco, si fa per dire, di Virginia Raggi: «Rapporto choc: corruzione in ogni settore! Ecco perché servono le nostre mani libere!», «Spazzeremo via sprechi privilegi e corruzione», «Mafia capitale, corruzione, conti fuori controllo, disservizi E vogliamo anche organizzare le Olimpiadi?!» «Ecco cosa lasciano il Pd e il Pdl nelle municipalizzate di Roma: sprechi, privilegi, corruzione e Parentopoli!» «Buche a Roma. Tangenti e intercettazioni: tutti corrotti!» Tutti meno lui, ovvio. Rigido. Rigidissimo. Un gendarme dell'ortodossia. Anche se, a proposito di Parentopoli, non è mancato chi gli ha rinfacciato la carriera parallela della sorella Francesca De Vito. Eletta consigliera l'anno scorso alla Regione Lazio (indovinate con chi?) facendo immaginare ai più maliziosi una sorta di zuccherino per addolcire la sua grinta combattiva contro Virginia Raggi, vista in famiglia come una specie di usurpatrice. Dice tutto uno sfogo pubblicato su Facebook alla fine di agosto 2016. Siamo nel pieno delle risse intestine sulla sindaca e il suo cerchio magico. Cui viene attribuito a torto o a ragione, citiamo l'Ansa, un «presunto dossier contro De Vito», su possibili irregolarità in una pratica di sanatoria, «che a fine 2015 avrebbe danneggiato la sua possibile candidatura a sindaco di Roma». Vero? Falso? Certo è che Francesca, sventagliando raffiche di punti esclamativi, attacca: «Adesso basta!!! Dovevamo dimostrare la differenza e la non continuità con il passato e io da attivista lo pretendo!!! Che Virginia abbia sentito il bisogno di circondarsi di "persone di fiducia" ci può anche stare... malgrado alcune scelte lascino il boccone amaro in bocca a molti.... che poi però ogni persona di fiducia, compreso Daniele (Frongia, ndr ) debba circondarsi di "amichetti di merende"...questo diventa inaccettabile!!!!» Quindi (punteggiatura e stile sono a carico suo) la consigliera regionale insiste: «Nessuno ha mai pensato di arricchirsi con il movimento né tanto meno di fare "piaceri" a qualcuno. ...non vi permettete di cominciare voi... non ce lo meritiamo e non se lo merita Roma. Ciò che sta avvenendo è inaccettabile!!...e noi saremo il vostro peggior nemico!!»  preferisco perdere e poter continuare a criticare gli altri piuttosto che vincere e dover ingoiare simili bocconi!!!!» Un capolavoro. Che convince i compagni di partito, un anno e mezzo dopo, a far spazio alla fumantina parente elevandola a Vice Presidente della Commissione Sviluppo economico e attività produttive regionale. Come se la caverà, vedremo. Chi difficilmente riavremo occasione di vedere all' opera, dato l'«infortunio giudiziario», è proprio il fratello, Marcello. Il quale, certo nel 2013 di esser destinato alla vittoria dato il successo grillino alle Politiche nei collegi capitolini, diede al nostro Fabrizio Roncone, per Style, un' intervista traboccante di scenari luminosi. Spiegò d'aver deciso di far politica spinto da Beppe Grillo: «Ognuno deve prendere una parte della propria vita e dedicarla agli altri». D'esser nato a Monte Sacro. Di avere una utilitaria che però non usava: meglio i mezzi pubblici. «Quando sarò sindaco perciò», promise, «è chiaro che arriverò in ufficio con il bus, come un cittadino qualsiasi. Anzi, il viaggio sarà occasione per ascoltare richieste, lamentele, suggerimenti». Niente auto blu e «anche allo stadio pagherò il biglietto». Respinta la domanda su chi votasse prima («Preferirei che il mio vecchio orientamento politico restasse segreto»), rivelò volentieri il programma, una volta arrivato a comandare in Campidoglio: rivedere tutti i conti in rosso lasciati da Gianni Alemanno e dai sindaci precedenti, cambiare l' Ama (rifiuti), cambiare l' Acea (acqua ed energia), far sì che «quelle società tornino a esser pubbliche» e «rivoluzionare la viabilità» puntando su bus e tram. «Ma non basta», aggiunse, «Abbiamo intenzione di attuare un piano per realizzare 1.000 chilometri di piste ciclabili». Mille. Su e giù pei colli E poi promise «una raccolta differenziata al 60%» e senza inceneritori e discariche e un «formidabile attacco» all' abusivismo edilizio e «meno vigili dietro le scrivanie e più vigili per strada» «Un programma ambizioso», gli obiettò Roncone. «Noi vogliamo, letteralmente, far svoltare Roma». Già che c' era, precisò anzi che i Fori Imperiali e Trastevere andavano pedonalizzati. Ma tutto, certo, sarebbe stato deciso insieme con i cittadini: «Le sedute del consiglio comunale saranno tutte date in streaming». Trasparenza, trasparenza, trasparenza E come va a finire, tutto questo? Col giustizialista giustiziato, il giorno della copertura in Senato a Matteo Salvini, senza un filo di dubbio garantista.

Tor di Valle: famo sto carcere, scrive il 20 marzo 2019 Gianfranco Turano su L’Espresso. Il primo commento sull'arresto di Marcello De Vito, presidente del consiglio comunale di Roma che avrebbe smazzettato per favorire lo stadio della Roma, non riguarda la pretesa di onestà (Honestah!1!) dei grillini. Solo un ebete può pensare che una sigla cambi l'antropologia e l'etologia italica rispetto alla cosa pubblica. Nelle questioni di amministrazione politica l'italiano non è ladro, è cleptomane e dovrebbe godere dell'infermità mentale parziale o completa. Più che lo slogan tottiano "famo sto stadio", bisognerebbe dire "famo sto carcere", magari proprio a Tor di Valle. Ma l'importanza dell'operazione "Congiunzione astrale" sembra altrove. Fin dall'arresto di Luca Parnasi, questa specie di punching ball preso in mezzo fra interessi di banche (Unicredit), hedge-funder Usa assatanati di plusvalenze immobiliari (Pallotta) e presunti moralizzatori a cinque stelle (Raggi & co), la Procura di Roma aveva affermato con chiarezza che il progetto dello stadio non era a rischio e che il club non c'entrava nulla con l'inchiesta. Secondo questa impostazione, Parnasi e i suoi accoliti erano una banda che operava in modo indipendente e senza mandati da chicchessia. In un contesto di politici, manager e finanziatori dediti esclusivamente al bene dei colori giallorossi, il capobanda Parnasi distribuiva soldi ad angolo giro fra fondazioni democrat e leghiste, tra esponenti forzisti e avvocati scesi apposta da Genova con bolla papale di Grillo, come Luca Lanzalone. Parnasi faceva così per un puro automatismo ereditato dal suo Dna palazzinaro. I gradi di separazione hanno consentito di isolare, sotto il profilo giudiziario, gli imbrogli di Parnasi da un'opera nobile e doverosa. Nel frattempo, si sono perse per strada le decine di milioni di euro che i privati dovevano versare per la realizzazione di opere stradali e ferroviarie ossia di quelle infrastrutture che avrebbero dato al progetto la corona della pubblica utilità. Il risparmio non era poi dispiaciuto ai privati che contavano, nel giro di qualche settimana, di ottenere la delibera di giunta che avrebbe appunto sancito la pubblica utilità dell'impianto di Tor di Valle e delle sue cubature aggiuntive. Adesso la delibera torna in alto mare, proprio mentre Pallotta si accingeva a rilevare i terreni di Tor di Valle da Eurnova con una qualche forzatura delle norme di diritto fallimentare che avrebbero imposto la revocatoria. Inoltre "Congiunzione astrale" pone un problema alla Procura. È possibile che tutto questo sia accaduto, e che sia continuato ad accadere fino a pochi giorni fa con Parnasi tagliato fuori da mesi agli arresti, senza una corresponsabilità quanto meno oggettiva degli attori principali? Certo, è possibile. È possibile come l'onestà con marchio M5S. Ma non è molto probabile.

Tangentopoli romana a 5 Stelle. Anche l'assessore allo Sport Daniele Frongia indagato per corruzione, scrive il 21 Marzo 2019 il Corriere del Giorno. L’indagine è quella della Procura di Roma ha portato in carcere l’ex presidente di Acea Luca Lanzalone e l’imprenditore Luca Parnasi. “Confido nell’archiviazione. Non ho compiuto alcun reato” si difende l’assessore penstastellato.  Continua il terremoto del Movimento Cinque Stelle in Campidoglio. Dopo l’arresto del presidente del Consiglio comunale grillino Marcello De Vito, anche l’assessore Daniele Frongia, un “fedelissimo” della sindaca Raggi, risulta indagato con lo stesso capo d’imputazione, cioè “corruzione” nell’ambito dell’inchiesta sullo stadio della Roma.  Frongia, che ha ricoperto anche la carica di vicesindaco di Roma, prima dell’indagine che nel 2016 aveva travolto Raffaele Marra e per la quale aveva deciso di fare un passo indietro, è indagato nell’ambito dell’inchiesta che ha portato in carcere l’ex presidente di Acea Luca Lanzalone ed il noto imprenditore romano Luca Parnasi.  è stato anche vicesindaco .

Puntualmente Frongia da buon esponente grillinodifeso dagli avvocati Alessandro Mancori ed Emiliano Fasulo del Foro di Roma si è sottratto alle domande dei cronisti affidandosi ad una nota: “Con il rispetto dovuto alla magistratura inquirente, avendo la certezza di non aver mai compiuto alcun reato e appurato che non ho mai ricevuto alcun avviso di garanzia, confido nell’imminente archiviazione del procedimento risalente al 2017“, ha commentato con una nota. La donna che Frongia voleva far assumere a Parnasi è una collaboratrice del Campidoglio . Il costruttore chiese all’assessore  che avendo la delega allo Sport, si occupava dello stadio della Roma,  se avesse qualcuno da presentargli per farlo lavorare in una delle sue società e Frongiaimmediatamente gli propose questa dipendente del Comune. L’assessore Frongia ha sempre negato di “aver chiesto alcun favore ma di essersi limitato a presentare quella persona perché mi era stato chiesto”. A seguito di una dovuta serie di accertamenti la Procura di Roma ha però deciso di iscriverlo nel registro degli indagati per corruzione. Una mossa che certamente mette ancora più in difficoltà la Giunta guidata da Virginia Raggi considerato che Frongia è ritenuto il più “fedelissimo” della sindaca. Nel frattempo questa mattina, il presidente del consiglio comunale a 5 stelle, Marcello De Vitoè comparso  davanti al gip della Capitale, Maria Paola Tomaselli per l’interrogatorio di garanzia e convalida del suo arresto, ma come facilmente prevedibile si è avvalso della facoltà di non rispondere. A renderlo noto è stato il suo nuovo legale, Angelo Di Lorenzo che  è subentrato all’avvocato Franco Merlino il quale ha rinunciato all’incarico. Di Lorenzo ha aggiunto  che “De Vito chiederà di essere ascoltato nei prossimi giorni per chiarire la sua posizione“. Prima di De Vito sempre nello stesso carcere di Regina Coeli , è stato sentito l’avvocato Camillo Mezzacapo. “Non ho percepito nessuna tangente, ma solo compensi per attività professionali, curavo transazioni e attività che si svolgono di norma nella pubblica amministrazione” ha dichiarato al gip, secondo quanto riferito dal suo difensore, l’ Avv. Francesco Petrelli, dopo l’interrogatorio di garanzia . Nel corso dell’interrogatorio di garanzia, Camillo Mezzacapo “ha chiarito che la ‘Mdl srl’ non è una società “cassaforte” e non è in alcun modo riconducibile a De Vito“.

«I soldi? Dividiamoceli subito!»....Corruzione, indagato l’assessore Frongia: trema il Campidoglio. Il braccio destro della sindaca Raggi avrebbe suggerito al costruttore Parnasi, fulcro dell’inchiesta sulla costruzione del nuovo stadio, il nome di un’amica da far assumere , scrive Simona Musco il 22 Marzo 2019 su Il Dubbio. Nemmeno il tempo di digerire l’arresto del presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito che alla squadra di Virginia Raggi tocca fare i conti con un nuovo scossone. La Procura di Roma ha infatti iscritto sul registro degli indagati l’assessore allo Sport Daniele Frongia, fedelissimo della sindaca 5 Stelle, anche lui accusato di corruzione nell’inchiesta sul nuovo Stadio della Roma a Tor Di Valle. La sua posizione sembra già destinata all’archiviazione, ma intanto la notizia fa traballare ulteriormente la giunta capitolina. A tirare in ballo Frongia è stato il costruttore Luca Parnasi, fulcro del filone principale dell’inchiesta, che qualche mese dopo l’arresto ha iniziato a parlare con i magistrati della Procura di Roma, raccontando quello che agli occhi degli inquirenti è apparso come un vero e proprio sistema, fatto di continue ricerche di coperture politiche per soddisfare fini privati. Un giro del quale, secondo le indagini, anche De Vito sarebbe parte attiva, con un ruolo speculare a quello di Parnasi. Il costruttore, durante i suoi interrogatori, ha raccontato agli inquirenti di aver chiesto a Frongia di segnalargli il nome di qualcuno da assumere in Ampersand, una delle sue società, come responsabile delle relazioni istituzionali. E il politico gli consegnò il curriculum di una 30enne sua amica, dipendente del Comune. L’assunzione, però, non si concretizzò a causa dell’arresto di Parnasi. L’assessore ha sempre negato di aver chiesto «alcun favore, ma di essersi limitato a presentare quella persona perché mi era stato chiesto». Così come lo stesso costruttore nega di aver mai subito pressioni dal politico. «Ho appreso di essere coinvolto nell’indagine “Rinascimento” del 2017, per la quale non ho mai ricevuto alcuna comunicazione, elezione di domicilio o avviso di garanzia – ha dichiarato Frongia – Con il rispetto dovuto alla magistratura inquirente, avendo la certezza di non aver mai compiuto alcun reato e appurato che non ho mai ricevuto alcun avviso di garanzia, confido nell’imminente archiviazione». Parnasi, pochi mesi fa, descriveva Frongia come «una persona per bene» : «non mi ha mai chiesto favori personali, denaro o altro – ha dichiarato Ricordo solo che in una occasione mi diede un curriculum di una dipendente o consulente del Comune di Roma. Mi parlò di questa ragazza dicendomi che poteva corrispondere alle mie esigenze. Era una ragazza gradevolissima di circa 30 anni». Con lui Parnasi parlò una settimana prima di essere arrestato, per spiegargli dell’ «idea che avevo avuto di realizzare un potenziale impianto per il basket, presso la sede della ex Fiera di Roma». La consegna del curriculum avvenne al Campidoglio, «quando lo andai a trovare, mi parlò di questa ragazza, di cui non ricordo il nome, che però ho incontrato nel mio ufficio, gli ho fatto fare un colloquio anche con l’ingegnere che si occupa del personale – ha raccontato il costruttore poi però non c’è stato nessun seguito». Ma, aggiunge al pm Barbara Zuin che glielo chiede esplicitamente, «non mi ha mai detto “assumimi questa persona perché è amica mia, mi interessa” o cose di questo genere. Mi ha dato il curriculum e poi io credo che la mia segretaria abbia organizzato l’incontro ed è venuta nel mio ufficio…L’ho incontrata e poi l’ho presentata al direttore del personale che gli ha fatto un altro pezzo di colloquio». Ma l’intento di Parnasi di ottenere quanta più copertura politica possibile all’interno del Campidoglio emerge chiaramente dall’inchiesta “Congiunzione astrale”, che assieme al primo filone relativo alla costruzione del nuovo Stadio fotografa, scrive il gip, «il grave fenomeno corruttivo che si è realizzato ai vertici di Roma Capitale». Compito di De Vito è quello di intervenire, a seconda delle necessità, per indirizzare gli atti del Consiglio e della giunta, rivolgendosi, talvolta, direttamente agli assessori o ai consiglieri secondo i bisogni del privato. Camillo Mezzacapo, dal canto suo, rappresenta l’elemento di raccordo: è tramite gli incarichi professionali conferiti a lui e alla cognata e collaboratrice Virginia Vecchiarelli che i privati versavano le «tangenti», poi spostate attraverso un sistema di false fatturazioni sui conti della Mdl Srl, riconducibile a De Vito e Mezzacapo. E il costruttore «sollecita in maniera esplicita ed ottiene il favore di De Vito non solo in relazione all’operazione dello Stadio ma anche in relazione agli ulteriori progetti coltivati evidenziando al Presidente del Consiglio Comunale l’esigenza di allargare il consenso politico attraverso l’interlocuzione con altri esponenti del Movimento 5 Stelle come noto al governo della città di Roma». E sarebbe stato lo stesso presidente dell’Assemblea capitolina ad esprimere «l’intenzione di ricercare il sostegno di soggetti quali Ferrara ( Paolo, ndr) e Frongia appartenenti alla sua parte politica», così «da avere dalla loro parte la maggioranza consiliare».

Michela Allegri per www.leggo.it il 21 marzo 2019. Daniele Frongia, assessore allo Sport del Comune di Roma e fedelissimo e mente politica della sindaca Virginia Raggi, è indagato per corruzione nell'ambito dell'inchiesta sul giro di tangenti e favori all'imprenditore Luca Parnasi per la realizzazione dello stadio della Roma a Tor Di Valle. Si tratta dello stesso procedimento da cui è scaturito il filone di indagine che ieri ha portato all'arresto di Marcello De Vito, presidente dell'assemblea capitolina in quota M5S. L’iscrizione dell’assessore Frongia è scattata dopo uno degli interrogatori di Parnasi. L’imprenditore, finito in carcere lo scorso giugno per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, grazie alla collaborazione con gli inquirenti si era guadagnato prima i domiciliari e poi l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, misura cautelare alla quale è ancora sottoposto, mentre attende l'udienza preliminare a suo carico, fissata il 2 aprile. In relazione a Frongia, Parnasi ha raccontato all’aggiunto Paolo Ielo e alle pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli che, poco prima di essere arrestato, aveva chiesto all’assessore il nome di una persona da inserire come responsabile delle relazioni istituzionali in una delle sua società, la Ampersand. Il politico avrebbe proposto l’assunzione di una donna di circa 30 anni, una collaboratrice del Campidoglio. Poi, il blitz dei carabinieri nel Nucleo investigativo aveva fatto sfumare l’ingaggio. In una intercettazione agli atti dell'inchiesta,, l'11 marzo 2018, il costruttore parlava proprio di quella società: «Dice che con Ampersand ha strizzato l'occhio ai Cinquestelle, facendo progetti», annotano i carabinieri in un'informativa. Parnasi ha però sempre specificato di non avere mai ricevuto pressioni o richieste di favori da parte di Frongia. «Con il rispetto dovuto alla magistratura inquirente, avendo la certezza di non aver mai compiuto alcun reato e appurato che non ho mai ricevuto alcun avviso di garanzia, confido nell'imminente archiviazione del procedimento risalente al 2017», spiega Frongia in una nota.

L'assessore aggiunge di aver «appreso di essere coinvolto nell'indagine "Rinascimento" del 2017, per la quale non ho mai ricevuto alcuna comunicazione, elezione di domicilio o avviso di garanzia. A seguito di informazioni assunte presso la Procura il procedimento a mio carico trarrebbe origine dall'interrogatorio di Parnasi del 20 settembre 2018, già uscito all'epoca sui giornali, in cui lo stesso sottolineava più volte di non aver mai chiesto né ottenuto favori dal sottoscritto».

Simone Canettieri per “il Messaggero” il 22 marzo 2019. Solo tre settimane fa festeggiava il ritorno nelle stanze che contano. Daniele Frongia aveva traslocato a due passi dagli uffici di Virginia Raggi. E con la calma di chi conosce i rischi del mestiere, dopo anni di trincea raccontava a questo giornale: «Io e Virginia abbiamo ancora nove e dico nove procedimenti aperti in cui siamo parte offesa per le denunce e gli esposti che abbiamo fatto quando eravamo all' opposizione. Incredibile, no?». Io e Virginia. Frongia e Raggi. Un binomio che va avanti da anni. Una coppia politica che ha iniziato a fare squadra dai tempi dell' opposizione: loro da una parte, Marcello De Vito dall' altra. E non a caso, nel 2016 Raggi riuscirà a diventare la candidata del M5S alle primarie del blog grazie al passo indietro di «Dany» che si sottrae alla corsa. Un favore che la grillina sarà pronta a contraccambiare appena vinte le elezioni: nominandolo capo di gabinetto, incarico da 120mila euro all' anno. Ma l' operazione, siamo sempre alle prese con la guerra tra bande all' interno del M5S, salta. E dunque il dirigente dell' Istat ripiega su un altro ruolo: vicesindaco. Sembra ancora di rivederli il giorno dell' ingresso del primo sindaco donna di Roma al Campidoglio. Fa caldo, i giornalisti sono accalcati dietro le transenne e i due arrivano a bordo di una mini-car elettrica di color turchese. Da mesi il grillino «più lucido del Campidoglio» prepara nei minimi particolari l' assalto al cielo. Innanzitutto scrive un libro. Dal titolo che è un manifesto politico: E io pago - tutti i soldi che gli italiani pagano per mantenere la capitale più corrotta e inefficiente d' Europa. Dentro ci sono numeri e fatti, la specialità di Frongia, soprattutto da profondo conoscitore della macchina amministrativa ci sono anche ricette: come quella di un piano segreto per rimettere in sesto le malandate casse pubbliche con risparmi per 1 miliardo di euro. Una chimera, certo. Ma che «Virginia» ripeterà con costanza in tutti i dibattiti. Nei mesi che precedono la grande scalata, si unisce alla compagnia anche Salvatore Romeo, funzionario del Campidoglio ed esperto di partecipate. Diranno: «Passavamo le notti a studiare carte e delibere, che tempi». C' è anche un' altra persona che li accompagna in questo percorso verso la gloria: si chiama Raffaele Marra, è un dirigente pubblico, un mister Wolf che spacca al centesimo tutte le carte. Eccoli, sono i «quattro amici al bar», come da celebre chat dove comunicano in maniera compulsiva, ma dove si scambiano, come fanno tutti, anche emoticon e foto simpatiche. Ma nel dicembre 2016 scatta l' arresto di Marra e a uscirne ridimensionato è anche Frongia: gli vengono tolti, su volere di Beppe Grillo, i gradi di vicesindaco e viene retrocesso ad assessore allo Sport. Allontanato anche Romeo e la diaspora dei 4 amici al bar. Si tratta di un fatto formale, perché la sintonia con la sindaca rimane altissima. Entrambi vengono comunque dal mondo del volontariato di sinistra. Lui prima di impegnarsi in politica col MoVimento è stato attivo nel volontariato, collaborando con Emergency e Libera, lei nel commercio equo e solidale. Girano anche voci di un flirt tra i due. Lo scrive il settimanale Chi, condannato lo scorso mese a risarcire le parti. Il mondo del maestro di arti marziali (è cintura nera di judo) Frongia è fatto di calcoli e mosse. Anzi contromosse: «Bisogna sempre capire cosa fare dopo». Lo dice da campione di scacchi. Un' altra leggenda narra di una partita vinta con Davide Casaleggio. Stratega, veloce di testa, mai nervoso e molto calcolatore. E soprattutto con un cellulare pieno di segreti.

Le ruspe della Procura di Roma contro la giunta di Virginia Raggi. Stavolta non è servito un intervento di Luigi Di Maio: nessuna nuova espulsione, Frongia si autosospende. Ma ai piani alti del movimento si teme il ciclone giudiziario, scrive Rocco Vazzana i 22 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Per una questione di opportunità politica, ho deciso di autosospendermi dal M5S e di riconsegnare le deleghe attribuitemi dal sindaco Virginia Raggi in qualità di assessore allo Sport di Roma Capitale». Questa volta non serve un intervento di Luigi Di Maio. Daniele Frongia, assessore allo Sport finito sotto i riflettori della procura di Roma, si auto sospende dal Movimento. Secondo i magistrati, l’esponente pentastellato, indagato per corruzione, avrebbe suggerito a Luca Parnasi il nome di una dipendente comunale da assumere in una delle aziende del costruttore. E anche se Frongia si dice sicuro dell’archiviazione del caso, consapevole «di non aver mai compiuto alcun reato e appurato che non ho mai ricevuto alcun avviso di garanzia», per il Movimento 5 Stelle si apre un nuovo fronte interno. Se con De Vito la sindaca ha gioco facile nel rivendicare la sua «risaputa» distanza dall’ex presidente dell’assemblea, di Frongia Virginia Raggi non può certo dire la stessa cosa. Il rapporto tra l’assessore allo Sport e la prima cittadina è strettissimo fin dai tempi dell’opposizione a Ignazio Marino. E nella prima fase del nuovo corso grillino in Campidoglio, i due si muovono in simbiosi. Raggi prima lo nomina capo di Gabinetto, ma è costretta a revocare l’incarico per incompatibilità, poi lo incorona vice sindaco. Pochi mesi dopo un nuovo colpo di scena: la Giunta è nella bufera per l’arresto di Renato Marra, la sindaca è accusata dalla minoranza interna di amministrare la Capitale in maniera poco collegiale, condividendo le decisioni importanti con soli “quattro amici al bar”, come il nome della chat in cui si scambiavano messaggi la prima cittadina, Marra, Salvatore Romeo e Frongia. La maggioranza sembra a un passo dal crollo e Beppe Grillo è costretto a costanti incursioni romane per evitare il peggio. E per scongiurare il tritacarne mediatico il leader di allora, oggi solo “garante”, impone una scelta drastica: il duo Raggi- Frongia va sciolto immediatamente. E il vice sindaco è costretto a rinunciare alla carica, mantenendo però la pesantissima delega allo Sport, quella attraverso cui deve passare necessariamente il “report stadio”. Per questo motivo la notizia di un’indagine a carico del proprio braccio destro è una doccia gelata per l’inquilina del Campidoglio. Ma non solo. È tutto il movimento che rischia di finire sotto i riflettori, anche se i big evitano di commentare in pubblico. «Questa verrà archiviata, semplice», si limita a commentare Francesco Silvestri, vice capogruppo M5S alla Camera. E su un eventuale passo indietro dell’assessore, dice che «valuterà lui» ma sull’argomento «non voglio parlare prima della sindaca. Penso che si stiano parlando Raggi e Di Maio, vedono loro se è il caso… se è un’indagine d’ufficio. Valuteranno loro due», aggiunge l’onorevole pentastellato.

Di Maio teme ulteriori ripercussioni elettorali da questa vicenda e spera di non essere costretto a operare nuovi provvedimenti disciplinari. Non saranno di certo altre espulsioni a proteggere l’immagine, ormai non più immacolata, del Movimento. «Io non credo che a Roma ci sia un sistema M5S. Se noi avessimo voluto che ci fosse un sistema M5S avremmo detto sì alle Olimpiadi», insiste Silvestri. «Se avessimo voluto un sistema o qualcosa in cui sguazzare, con le Olimpiadi avremmo fatto la qualunque». All’ombra del Campidoglio, è il ragionamento, al massimo c’è qualche furbetto che agisce alle spalle della sindaca e del Movimento, non una nuova “mafia capitale”. «Il gruppo M5S ha investito e continua a investire tantissimo su Virginia Raggi. Per me Virginia è una persona eccezionale, ha una ossatura incredibile», dice ancora il vice capogruppo grillino alla Camera. «I consiglieri che stanno lì dentro li conosco benissimo, sono bravissime persone. Io credo e spero che la cosa rimanga circoscritta a De Vito. Se rimane circoscritta a Marcello, io in primis penso che debba andare tutto avanti», conclude l’esponente di un partito che ha già emesso sentenza per il presidente dell’assemblea capitolina.

Attenzione: anche gli honesti vanno difesi! Tangenti, arrestato Marcello De Vito, presidente dell’assemblea capitolina del M5s. È accusato di corruzione. L’intercettazione: «sfruttiamola sta congiuntura astrale, ci rimangono due anni», scrive Simona Musco il 21 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Questa congiunzione astrale è tipo l’allineamento della cometa di Halley, hai capito? Cioè è difficile secondo me che si riverifichi così. E allora noi, Marcè, dobbiamo sfruttarla sta cosa… ci rimangono due anni». Per il magistrati di Roma si racchiude in questa frase il «manifesto programmatico» della collaborazione criminale tra il presidente del Consiglio comunale di Roma Capitale, Marcello De Vito, e l’avvocato Camillo Mezzacapo, suo intermediario. Il politico, ieri, è finito in carcere, con l’accusa di corruzione. Per lui il gip Maria Paola Tomaselli ha ritenuto sussistente il rischio di reiterazione del reato e di inquinamento probatorio, dato il ruolo ricoperto in seno all’assemblea capitolina. Un ruolo che gli avrebbe consentito, in cambio di un profitto personale, di mettersi a disposizione dei privati, a partire da Luca Parnasi, uomo simbolo dell’inchiesta sulla costruzione del nuovo Stadio, che lo scorso anno aveva assestato un primo scossone alla tranquillità del Campidoglio, con l’arresto del tuttofare dei 5 Stelle Luca Lanzalone. Sarebbero oltre 230mila euro i soldi effettivamente erogati da vari imprenditori e altri 160mila promessi. Tangenti consegnate sotto forma di consulenze a Mezzacapo, dirottate in buona parte sul conto della società Mdl srl, utilizzata come «cassaforte» per custodire i profitti raccolti dai due. In cambio, il politico avrebbe dovuto tentare di indirizzare il Consiglio ad approvare tutta una serie di delibere in grado di agevolare il progetto collegato allo Stadio della Roma e altri interventi urbanistici in città. Parnasi, tramite l’appoggio di Lanzalone prima e De Vito poi, mirava a raggiungere altri esponenti del Movimento 5 stelle, data la posizione di preminenza politica non solo a livello locale, ma anche e soprattutto nazionale. «Nessun coinvolgimento delle attività del governo a livello centrale», ha chiarito in conferenza stampa il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Ma quella frase «è rilevante perché ci permette di provare l’esigenza cautelare». Le parole usate dal gip per De Vito sono durissime, addirittura più di quanto non lo siano quelle della stessa procura, che nei casi non direttamente conducibili a Parnasi contesta a De Vito il solo traffico di influenze. Per il giudice, infatti, la corruzione sarebbe più che evidente, essendo il suo ruolo «costantemente strumentale» per il raggiungimento «del massimo dei profitti». De Vito e Parnasi sono, dunque, due facce della stessa medaglia, tanto da dimostrare «una straordinaria coincidenza di obiettivi ed interessi». Sono stati mail, messaggi, intercettazioni e, soprattutto, le dichiarazioni collaborative di Parnasi a chiarire il sistema descritto dall’inchiesta “Congiuntura astrale”. Un sistema ampissimo di relazioni con il mondo politico tessute dall’imprenditore tramite «operazioni di finanziamento sia lecite che illecite, così da garantirsi in ogni ambito un trattamento di favore». Le indagini fotografano quello che il giudice definisce «il grave fenomeno corruttivo che si è realizzato ai vertici di Roma Capitale», un quadro «desolante», in cui il privato, cercando favori, trova un pubblico ufficiale pronto a soddisfare le richieste, ma anche alla ricerca, in prima persona di «conoscenze che possano essere interessate ai favori che lui è in grado di procurare». Una «totale mercificazione della funzione pubblica» portata avanti con una vera e propria attività promozionale, finalizzata a sfruttare la fortunata congiuntura politica. In tale contesto, Mezzacapo è non solo l’intermediario di De Vito, ma anche il suo «procuratore», cercando in maniera continua e costante contatti utili ai quali offrire un «format» ormai collaudato. E le stesse modalità, infatti, vengono utilizzate anche con il gruppo imprenditoriale dei fratelli Pierluigi e Claudio Toti ( presidente della squadra di basket Virtus Roma) e quello di Giuseppe Statuto, indagati per traffico di influenze. Le tre vicende riguardano la realizzazione del nuovo stadio della Roma, il progetto di riqualificazione dei Mercati di Roma Ostiense e la realizzazione di un albergo presso la ex stazione di Roma Trastervere, questione che inevitabilmente coinvolgono l’amministrazione capitolina. Compito di De Vito era quello di intervenire, a seconda delle necessità, per indirizzare gli atti del Consiglio e della giunta, rivolgendosi, talvolta, direttamente agli assessori o ai consiglieri secondo i bisogni del privato. Mezzacapo, dal canto suo, rappresenta l’elemento di raccordo: è tramite gli incarichi professionali conferiti a lui e alla cognata e collaboratrice Virginia Vecchiarelli – talvolta inutili e, comunque, più costosi del necessario che i privati versano le «tangenti», poi spostate attraverso un sistema di false fatturazioni sui conti della Mdl Srl, riconducibile a De Vito e Mezzacapo. Soldi che De Vito avrebbe voluto dividere subito, decidendo di attendere, su insistenza di Mezzacapo, a fine mandato. «Cioè la chiudiamo – risponde Mezzacapo a De Vito – distribuiamo, liquidi e sparisce tutta la proprietà… Non c’è più niente e allora però questo lo devi fà quando hai finito quella cosa». Una conversazione, secondo il gip, che chiarisce «in modo inequivocabile il patto scellerato che lega i due» e la riconducibilità dei soldi sul conto della società ad entrambi». La realizzazione, nella zona della ex Fiera di Roma, di un campo di basket e di un polo per la musica richiedeva una delibera che consentisse di superare le limitazioni imposte dalla delibera Berdini, che limitavano la realizzazione a 44mila metri cubi. Ed è per questo che Parnasi avrebbe affidato, su richiesta di De Vito, «lucrosi incarichi» a Mezzacapo. Il politico, in cambio, aveva assicurato di interessare il capogruppo del M5s in Consiglio, Paolo Ferrara, «così da avere dalla loro parte la maggioranza consiliare», nonché l’assessore Daniele Frongia. A Mezzacapo e alla Vecchiarelli sono andati un incarico da 90mila euro per il perfezionamento di una transazione tra la Acea ed Ecogena e un ulteriore incarico professionale non formalizzato a Mezzacapo per la verifica della fattibilità di un accordo transattivo tra Parsitalia e Roma Capitale, del valore di 10 milioni di euro. Una transazione importante, in vista del progetto di trasferimento della sede Acea presso il Business Park del Nuovo Stadio della Roma. Di questo affare i tre ne parlano il 31 maggio 2018, quando De Vito e Mezzacapo chiedono conto di come entrare nell’affare. Parnasi fa riferimento al «solito schema che conosciamo». L’importante è ottenere «la copertura politica della città», utilizzando la legge sugli stadi, attraverso l’adozione di una specifica delibera da parte del Comune di Roma. Ma gli stessi meccanismi sono stati utilizzati da De Vito anche con il gruppo Toti, in relazione al progetto di riqualificazione degli ex mercati generali di Roma Ostiense, di interesse della Lamaro Appalti, società del gruppo Toti. Progetto per il quale De Vito e Mezzacapo avrebbero ricevuto, in cambio di un intervento sull’iter amministrativo, 110mila euro, sotto forma di incarichi professionali allo studio legale di Mezzacapo. E anche con Giuseppe Statuto, che in cambio di un intervento per il rilascio del permesso di costruire, con cambio di destinazione d’uso ed ampliamento, di un edificio a Trastevere, avrebbe conferito allo studio di Mezzacapo due incarichi, uno da 24mila euro e uno da 20mila.

Povero De Vito, linciato dai suoi e dai giornalisti…La novità, però, è che per la prima volta da tanti anni i principali partiti dell’opposizione (Pd e Forza Italia) decidono di non speculare e scelgono una linea garantista, scrive  Piero Sansonetti il 21 Marzo 2019 su Il Dubbio. Ci sono volute neanche un paio d’ore, ieri mattina, per emettere la sentenza definitiva: Marcello De Vito è un truffatore, un corrotto, un tangentaro ed è finito nel posto dove è giusto che stia: in prigione. Ci resti! La Corte che si era riunita appena informata dell’arresto, era costituita da un drappello cospicuo e potente di giornalisti e da alcuni politici. In particolare dai politici dei 5 Stelle che hanno immediatamente espulso il reprobo dal partito, o dal movimento, o dalla piattaforma Rousseau, non so bene, e hanno deciso che la sua colpevolezza è fuori discussione. Non c’è stato bisogno neppure di riunire i probiviri. L’espulsione è stata decretata da Di Maio. Povero De Vito, processato e condannato in due ore, dai suoi e dai giornalisti. Mi ricordo che nel vecchio partito comunista, quello decrepito e stalinista, per espellere qualcuno occorrevano mesi. : riunioni in sezione, poi in federazione e se era deputato o dirigente nazionale ancora riunioni del comitato centrale ( anzi della commissione centrale di controllo che era una specie di collegio dei probiviri). I candidati all’espulsione venivano convocati, interrogati, si difendevano. Nessuno aveva il potere personale di espellere, neppure Berlinguer, o prima ancora Longo o Togliatti. Era un partito stalinista ma non monarchico. Tantomeno lo erano la Dc o il Psi. La novità del M5S sta proprio in questo: nella struttura monarchica del movimento. Il problema però non è solo di procedure. E’ di sostanza, di rispetto dei principi della democrazia e della Costituzione. Noi per ora sappiamo soltanto che alcuni Pm e un Gip hanno deciso di indagare De Vito per reati di corruzione abbastanza gravi, e sappiamo che i Pm hanno in mano alcune intercettazioni, e che di queste intercettazioni hanno fornito qualche brandello alla stampa e che però, francamente, questo brandello non sembra davvero prova inoppugnabile di colpevolezza. Ma allora perché Di Maio ha espulso De Vito? Le possibilità sono due: o sa qualcosa che noi non sappiamo, cioè è convinto per ragioni non dette che De Vito sia colpevole, e già era convinto di questo prima dell’arresto, ma allora forse avrebbe dovuto intervenire prima. Oppure ha un’idea vaghissima di cosa sia la giustizia. E anche – va detto una idea altalenante: perché Virginia Raggi, che fu inquisita e rinviata a giudizio e poi assolta, al momento dell’avviso di garanzia non fu espulsa dal movimento, ma anzi invitata a restare sindaca. Fu una scelta giusta? Certo che fu una scelta giusta, giustissima e sacrosanta, e lo sarebbe stata anche se la Raggi fosse stata poi condannata; solo che quella scelta ebbe un difetto: il difetto di essere e restare una scelta isolata. I 5 Stelle decidono – sembrerebbe – dimissioni ed espulsioni a seconda delle convenienze del momento. E infatti proprio non si capisce caso De Vito a parte – come i 5 Stelle possano avere chiesto, l’altra sera, le dimissioni di Zingaretti sulla base di una voce di iscrizione all’ufficio degli indagati per finanziamento illecito. Naturalmente, quando si valuta la politica, bisogna dare per scontata, e accettare, una certa dose di faziosità e di propagandismo. Ma la richiesta di dimissioni di Zingaretti va molto oltre questa dose. E una richiesta surreale.

A questo proposito è giusto registrare, finalmente, una presa di posizione garantista da parte del Pd. In passato non è stato sempre così. Io penso che non sia stata garantista nemmeno, proprio ieri, la decisione di votare per l’autorizzazione a procedere contro Salvini. Un partito garantista davvero non doveva dare quella autorizzazione. Un partito garantista si oppone alle invasioni di campo della magistratura che ci sono, sono frequenti, sono devastanti, mettono in discussione l’autonomia della politica e quindi la sua libertà. Però la novità c’è: per la prima volta i principali partiti dell’opposizione, e cioè il Pd e Forza Italia, decidono di non speculare sull’arresto di un avversario politico e di non utilizzare a proprio favore le iniziative della magistratura. Tacciono ( al massimo sorridono un po’ visto che appena qualche giorno fa il 5 Stelle Giarrusso agitava contro di loro polsi ammanettati) e spiegano che la giustizia avrà i suoi tempi, che dovrà accertare, provare, rendere conto, e che De Vito dovrà e potrà difendersi. Complimenti. Naturalmente è difficile sperare che questo atteggiamento, profondamente e seriamente liberale, si riproduca automaticamente nello schieramento opposto, e cioè lambisca e contagi il M5S o la Lega. Però la novità c’è. E se verrà confermata, cambierà comunque i rapporti tra la politica e la magistratura, perchè, almeno in parte, smonterà il potere che una parte della magistratura ha usato fin qui: e cioè la possibilità di trovare sempre una sponda politica nello schieramento opposto a quello del quale fa parte l’inquisito. Così è nata e ha vinto “mani pulite”, così è dilagato il populismo giudiziario. Se le opposizioni di destra e sinistra fanno muro, anche gli altri partiti – gli attuali partiti governativi – dovranno rivedere alcune loro posizioni, perchè tutto il circo politico giudiziario rischia di saltare, e il giustizialismo rischia di non portare più il consenso che ora, ancora, garantisce come rendita di posizione.

Marco Travaglio elogia il M5s dopo l'arresto di Marcello De Vito: si fa ridere dietro da tutta Italia, scrive il 21 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Avvocato Marco Travaglio, presente. Poteva esimersi il direttore del Fatto Quotidiano nonché capo-ultrà del M5s dal difendere i tanto cari grillini all'indomani dell'arresto clamoroso di Marcello De Vito, presidente dell'assemblea capitolina? Ovviamente no. La difesa, altrettanto ovviamente viaggia sulla prima pagina del quotidiano che dirige, dove certo parte da premesse dure, in cui afferma che "L'arresto per corruzione" di De Vito "è una notizia gravissima. E il fatto che non sia la prima volta - era già toccato nel 2015, per Mafia Capitale, a quello del Pd Mirko Coratti, poi condannato a sei anni - non la sminuisce". Insomma, subito Travaglio "piazza" un riferimento al Pd. Così fan tutti? Poi, dopo aver snocciolato qualche riferimento circa l'inchiesta, arriviamo al cuore della difesa. Scrive il direttore: "Luigi Di Maio ne ha subito annunciato l'espulsione, marcando la diversità da tutti i partiti che gridano al complotto, alla giustizia a orologeria, alle manette elettorali per rifugiarsi nella comoda scusa della presunzione di innocenza fino alla Cassazione". E la lettura dell'editoriale di Travaglio può interrompersi qui. Per due ragioni: la prima, quando fu indagata Virginia Raggi i grillini gridarono proprio a quel complotto di cui ha parlato il direttore. La seconda, leggere un passaggio quale "marcando la diversità da tutti i partiti" scatena una incontenibile ilarità. Così diverso, il M5s, che il signor De Vito, pezzo grossissimo del partito con le Cinque Stellette, è stato arrestato.

Estratti dall'articolo di Annalisa Chirico per “Il Foglio”' del 21 marzo 2019. Danilo Toninelli ha sempre ragione. Quando, a proposito del caso Sarti, il titolare delle Infrastrutture dichiara urbi et orbi: “Il M5S non accetta ricatti da nessuno”, è difficile dargli torto. I grillini non accettano ricatti, al massimo li praticano. Se Toninelli parla, c’è da credergli, lui non spara mai cose a vanvera, anche quando sostiene pubblicamente, lo scorso 23 febbraio, che, eccezion fatta per la Tav, “non c’è una sola opera bloccata in questo paese”. Non una ma seicento, replica l’Associazione nazionale dei costruttori edili. Ma a Toninelli si perdona tutto, pure il ricatto o il ricattino, arma antica come la storia dell’uomo. Il ricatto non è un’esclusiva né un'invenzione pentastellata: i grillini sono però il primo movimento politico fondato sul ricatto come strumento ordinario di gestione dei rapporti interni ed esterni. Ancor prima del bonifico per finta, i 5 Stelle sdoganano la prassi della registrazione audio e video, del microfono nascosto, del dossier anonimo, della spiata a scopo di minaccia, dello screenshot a tua insaputa, dell’email conservata a futura memoria. Per i grillini questi metodi al limite del lecito, lungi dall’essere un’eccezione, rappresentano la regola: non sono un incidente patologico ma la normale conduzione della vita di un partito che, in nome di una concezione totalitaria della democrazia, pretende il controllo assoluto sui propri eletti e, a tale scopo, inserisce nel codice etico  una multa da 100mila euro per il parlamentare che osi dissentire. Una sanzione salata che, se non è un palese ricatto, denota tuttavia una forma mentis, una sorta di disciplina estorsiva che punta alla coazione morale dietro l’ombra della minaccia, più o meno esplicita. Se non ti attieni agli ordini impartiti, vieni fatto fuori e devi pagare (poco importa che il valore giuridico di questa clausola sia pari a zero). La multa a carico dei “traditori” viene sperimentata dapprima con i consiglieri comunali torinesi, bersaglio di una multa di 2mila euro per ogni mese di ribellione; in seguito, si replica con gli eletti in Campidoglio per un importo di 150mila euro, sempre meno dei 250mila previsti dal Codice di comportamento per i candidati a Strasburgo. Un esempio illuminante della prassi pentastellata la offre il famigerato Rocco Casalino, il portavoce del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che, stando alla versione di Giulia Sarti, le avrebbe consigliato di denunciare Bogdan Tibusche, poi prosciolto, allo scopo di scagionarsi dalle accuse dei finti rimborsi; Casalino ha negato ogni implicazione (“Sarti si è coperta dietro il mio nome”), poco ha potuto invece  rispetto all’audio, diffuso ad arte, in cui l’ex GF preannuncia ad un anonimo interlocutore una “cosa ai coltelli” contro i funzionari di viale XX Settembre: “Domani, se vuoi uscire con una cosa simpatica, la metti che nel m5s è pronta una mega vendetta: c’è chi giura che, se non dovessero uscir fuori i soldi per il reddito di cittadinanza, tutto il 2019 sarà dedicato a far fuori una marea di gente del Mef. Non ce ne fregherà veramente niente”. Governare con i 5 Stelle? Una fatica di Sisifo. Anche stare in Parlamento con loro non è una passeggiata. Secondo Giovanni Favia, uno dei primi attivisti espulsi da Beppe Grillo, il caso Sarti avrebbe poco a che fare con il revenge porn: “Credo che sia una vendetta politica interna al M5S. Lì dentro c’è una cyberguerra. Alla Casaleggio avevano una fobia nei miei confronti e tutti quelli che erano stati vicini a me erano visiti con sospetto e subivano uno spionaggio stile Stasi”. Sarti, un tempo vicina a Favia, avrebbe installato le telecamere in casa per tutelarsi da un “covo di serpi”, altro che porno.  Chissà se le parole del vicepremier Matteo Salvini, “Io non accetto ricatti”, nei giorni in cui aleggia l’ipotesi di uno scambio su Tav e caso Diciotti, contengano un riferimento all’abitudine degli alleati di governo. Un leghista di rango racconta che, sin dall’esperienza nei consigli regionali, gli esponenti del Carroccio hanno imparato a difendersi dai metodi pentastellati: “Con loro devi parlare e scrivere sapendo che, nove volte su dieci, ti registrano. Ogni virgola ti si può ritorcere contro”. Quando affiora sulla stampa la notizia di una fantomatica “operazione scoiattolo”, lanciata dal Cavaliere in persona per reclutare nuove leve tra i grillini infedeli, Luigi Di Maio intima ai suoi: “Fingetevi interessati e registrate”. Rievocando i suoi trascorsi a Palazzo Vecchio,  l’ex premier Matteo Renzi ricorda un episodio succulento: Alfonso Bonafede, da consigliere non eletto, si presentava nell’aula consiliare armato di telecamera, e una volta inseguì il sindaco fin sulla porta del bagno...Il fatto è che, nel magico mondo pentastellato, spifferi, veleni e leggende si affastellano: sui rapporti tra Bonafede e il di lui professore Giuseppe Conte, sui rapporti tra Conte e il di lui professore Guido Alpa, sulla vita non professionale di Di Maio eccetera eccetera. Una canea di chiacchiere, pettegolezzi, sospetti che, sin dagli albori, percorre l’intera parabola del M5S. Di recente, l’odore mefitico del ricatto invade il sacro blog quando, all’indomani della consultazione online che incorona la linea, impressa da Di Maio, contraria all’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, Grillo, sempre più lontano dal nuovo corso governativo, fa trapelare un grappolo di scarne parole: “Io conosco tutto di lui”. Dall’ideologia della trasparenza alla prassi del bieco ricatto, il passo è breve. Nel pianeta pentastellato l’“intercettateci tutti” è diventato il grimaldello per intercettare le vite degli altri. Amorazzi, amplessi, ogni dettaglio: persino i messaggini Telegram, quelli che si autoelidono, vengono fotografati, all’occorrenza. Il caso dell’ex presidente della commissione Giustizia della Camera, finita al centro di uno scandalo di foto osé e hackeraggi sospetti, è soltanto l’ultimo in ordine di tempo. Esistono ricatti e ricatti: in questa sede limiteremo l’analisi a quelli pubblici, approdati nelle aule di tribunale e sui giornali. Si parte dalla provincia partenopea. “Rosa, tu hai un problema”,  il consigliere pentastellato di Quarto, Giovanni De Robbio, si rivolge così al sindaco pentastellato Rosa Capuozzo. “Mi mostrò la foto aerea di casa mia sul suo cellulare – racconta in procura il primo cittadino - e mi disse che dovevo stare tranquilla perché dovevo essere meno aggressiva, non dovevo scalciare, dovevo essere più tranquilla con il territorio”. Il “problema” al quale De Robbio allude riguarda presunte irregolarità urbanistiche nell’abitazione di proprietà del marito del sindaco. Una vicenda torbida nella quale si affaccia l’ombra della camorra. De Robbio finisce sotto indagine per tentata estorsione (nei confronti di Capuozzo) e per voto di scambio aggravato in concorso con Alfonso Cesarano, titolare di una ditta di pompe funebri e, secondo gli inquirenti, esponente di una famiglia vicina al clan camorristico Polverino.

Ad Agrigento il terremoto ruota attorno al nome di Fabrizio La Gaipa, il candidato all’Assemblea regionale siciliana finito agli arresti domiciliari con l’accusa di estorsione. La Gaipa, immortalato in una celebre foto con Di Battista, il luogotenente siculo Giancarlo Cancelleri e lo stesso Di Maio, risulta primo dei non eletti alle scorse elezioni regionali. La Gaipa è titolare dell’albergo Costazzurra dove la vita procede tranquilla fin quando due suoi dipendenti lo accusano di essere stati costretti a restituire, con la minaccia del licenziamento, oltre un terzo dello stipendio formalmente erogato. Ad incastrare l’imprenditore alberghiero è un sodale di partito, Ivan Italia, ex dipendente con la stessa passione politica (candidato pentastellato al Consiglio comunale agrigentino nel 2015). Italia consegna in questura due registrazioni effettuate con il cellulare, risalenti al 13 e al 19 gennaio 2017. Stando alle indagini coordinate dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, i file “acclarano, in modo incontrovertibile, la restituzione, da parte del lavoratore regolarmente assunto, oltre che della tredicesima, anche di una parte abbastanza consistente della retribuzione mensile, visto che a fronte di una busta paga di 1.634 euro, l’impiegato, suo malgrado, si vede costretto a restituire al proprio datore di lavoro la somma di 780 euro”.

Per molti versi, Roma è il capolavoro grillino per antonomasia. Dal grido “onestà-tà-tà” contro il Cupolone di Mafia capitale il movimento si converte al garantismo peloso per tutelare la poltrona del primo cittadino e la sopravvivenza di una giunta i cui componenti cambiano a una velocità pari a quella con cui Di Maio licenzia le fidanzate. Dei ricatti in Campidoglio si conosce soltanto la punta dell’iceberg: nessuna pretesa di esaustività, dunque. Tuttavia, un paio di episodi meritano di essere raccontati. Il Raggio magico capitolino si compone di tre persone, a parte il sindaco: Raffaele Marra, Salvatore Romeo e Daniele Frongia. I quattro, quando devono parlare, salgono sui tetti per godersi il panorama. Su Repubblica Carlo Bonini lo definisce il “tavolo di bari tenuto insieme dal ricatto”: Marra e Romeo fanno la parte dei padroni, tracotanti e triviali. Il primo è in ogni luogo, sa che può trafficare come gli pare, il sindaco lascia fare. Nel gennaio 2016 Romeo accende una polizza sulla vita di 30mila euro, la beneficiaria è Raggi Virginia, la donna che, sei mesi dopo, divenuta nel frattempo sindaco, gli triplica lo stipendio di dipendente comunale nominandolo a capo della sua segreteria. Dalle indagini condotte dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, si scopre che Romeo di polizze ne ha accese tre, per un valore di 90mila euro, sempre prima che, in occasione delle comunarie pentastellate, Raggi sbaragli a colpi di dossier l’avversario più temibile, Marcello De Vito. Al di là degli esiti giudiziari ad oggi inconsistenti (caduta l’imputazione per abuso d’ufficio, il sindaco è stato assolto nel processo per falso), intorno alle stravaganti premure di Romeo si dipana il nastro del presunto ricatto o, quantomeno, dell’accordo inconfessabile. E se quelle tre polizze fossero la “fiche” puntata sulla giovane avvocata grillina contro la cordata De Vito-Lombardi? Del resto, è una generosità piuttosto singolare per un signore che all’epoca guadagna 39mila euro l’anno.

A Torino, agli inizi di febbraio, si scopre che Luca Pasquaretta, ex portavoce del sindaco Chiara Appendino, è indagato per estorsione ai danni del primo cittadino, traffico illecito di influenze e turbativa d’asta. L'inchiesta scaturisce non già da una denuncia ma da una intercettazione telefonica sull’utenza riconducibile a Pasquaretta. Dopo essere stato allontanato dagli uffici di Palazzo Civico per lo scandalo di una consulenza da 5mila euro relativa ad una prestazione inesistente per la fondazione del Salone del Libro, l'uomo viene “premiato” con un posto da assistente del viceministro dell’Economia, la grillina Laura Castelli. “Non ho mai ricattato Chiara Appendino. È tutto un equivoco che chiarirò nelle sedi opportune. Vorrei ricordare che siamo tutti innocenti fino a prova contraria”, si difende lui. I rapporti tra gli esponenti torinesi del M5S disegnano un quadro a tinte fosche. Secondo l’ipotesi accusatoria, rappresentata dal pm Gianfranco Colace, il “pitbull” di Appendino si è trasformato da portavoce a ricattatore. Dopo la sua uscita, infatti, egli avrebbe ricattato il sindaco, ora parte lesa dell’inchiesta, minacciando rivelazioni compromettenti, relative all’attività politica e amministrativa della giunta pentastellata, se non lo avesse aiutato a trovare un nuovo incarico. Tra le notizie più fresche, la procura di Torino avrebbe deciso di sentire come persona informata dei fatti  l’attrice porno Heidy Cassini la quale aveva così commentato il post pubblicato dal sindaco su Facebook:  “Cara Chiara, dovevi informarti bene di chi ti stavi mettendo a fianco…Noi lo sapevamo…ma giustamente ognuno deve fare la propria esperienza…ora ci sei passata anche tu…auguri sinceri”. Un riferimento al passato di Pasquaretta come ufficio stampa di Torino Erotica.

TIRA UNA BRUTTA CORRENTE. Maria Elena Vincenzi e Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 22 marzo 2019. Marcello De Vito non è mai stato un tipo loquace. Carattere ombroso, sempre attento a centellinare le parole, dacché ha varcato la soglia di Regina Coeli sembra essersi chiuso ancora di più. Per uno che fino a ieri guidava l' assemblea capitolina la prima notte in prigione dev'essere stata un trauma. Le accuse sono pesanti. E rischiano di travolgere, oltre a lui, altri pezzi del M5S. A cominciare dalla cordata nazionale di cui faceva parte, e che fa capo a Roberta Lombardi: nelle carte dei pm De Vito è accusato di aver ricevuto soldi dal costruttore Parnasi per la campagna delle regionali 2018, dove Lombardi correva da candidata presidente. De Vito divide la cella nel reparto " nuovi arrivati" con un ragazzo di colore. Quando alle sette di sera la deputata pd Patrizia Prestipino passa lì davanti lui le lancia un' occhiata stupita: «Ci conosciamo, vero? » sorride. Tuta grigia e occhiali, «ho un gran mal di testa, è possibile avere un Aulin?» chiede ai secondini. « E mi raccomando lo spesino », aggiunge. La lista dei generi di prima necessità, a partire dalle amate sigarette, sono fondamentali in un posto così. «Come stai?» domanda la parlamentare. «Ma sì dai, ce la posso fare, chiarirò tutto, tornerò a casa presto » replica di getto: « Certo tira proprio una brutta aria fuori » , si lascia andare. L' unico momento di cedimento. Quello che non ha invece mostrato davanti ai magistrati venuti a interrogarlo: si è avvalso della facoltà di non rispondere, «gliel' ho consigliato io per darmi il tempo di organizzare la difesa», preciserà poi l' avvocato. «Sono dispiaciuto, ma sereno» ripete De Vito. « Noi siamo garantisti » , cerca di rassicurarlo Prestipino, « si è colpevoli solo dopo il terzo grado di giudizio, forse anche voi del M5S dovreste riflettere » . Ma l' ormai ex presidente dell' Aula Giulio Cesare guarda altrove.

Gli sviluppi dell' inchiesta. La chiave di tutto erano le fatture per operazioni inesistenti, il metodo col quale i costruttori finanziavano De Vito per il tramite dell' avvocato Camillo Mezzacapo. Che il legame tra i due fosse molto stretto lo ha spiegato lo stesso Luca Parnasi, il costruttore finito in manette a giugno, dalle cui dichiarazioni è scaturito questo secondo filone di inchiesta. Spiega l' imprenditore ai pm, in un verbale riportato in un' informativa dei carabinieri del nucleo investigativo: « Conobbi Mezzacapo in occasione di un incontro con De Vito da Vanni Ho percepito immediatamente che De Vito gradisse l' avvio di un rapporto professionale con lo studio Mezzacapo, ma voglio precisare che non c' è stata alcuna imposizione in tal senso (...) De Vito, pur non avendomi detto nulla, ha sponsorizzato, sin da quel primo incontro, la nascita del nostro rapporto professionale. Non siamo entrati nello specifico quel primo giorno, però abbiamo parlato della possibilità di affidare degli incarichi allo studio alla presenza di De Vito».

La strategia condivisa. Da quando Mezzacapo diventa consulente di Parnasi, quest' ultimo sa di aver trovato le chiavi del Campidoglio. Spingendosi a condividere col presidente dell' aula piani e strategie. Come nel caso del contenzioso di una delle sue società, Ecogena, con Acea. Il costruttore spiega al procuratore aggiunto Paolo Ielo e ai pm Luigia Spinelli e Barbara Zuin: « Non volevo avere un contenzioso con Acea in vista della questione più grande, che era quella dello spostamento della sua sede nel Business Park. Ho sicuramente parlato di ciò con Mezzacapo e con De Vito, anche in presenza di entrambi e l' avvocato si è dato da fare, sfruttando le sue relazioni, per verificare se ci fossero i presupposti. Ho parlato di questo anche a De Vito ed ho promosso il mio progetto parlando anche con lui. Ricordo che lui concordò sul fatto che era una bella idea e che bisognava lavorarci. Ho ritenuto di parlarne anche con De Vito perché lo spostamento della sede Acea avrebbe certamente richiesto l' avallo del Campidoglio». E per "assicurarsi" quel placet il costruttore ha pagato a Virginia Vecchiarelli, cognata di Mezzacapo, un parcella da 95mila euro. D' altronde il costruttore era un teorico del "foraggiare la politica": nell' informativa i carabinieri scrivono che ci sono «elementi che permettono di affermare che il presidente del consiglio comunale, Marcello De Vito, ha chiesto ed ottenuto da Luca Parnasi un supporto per la campagna elettorale di Roberta Lombardi » , candidata governatore del M5S alle ultime regionali. "Telefoni sotto controllo" Dopo l' arresto di Luca Lanzalone, le trattative proseguono, ma con più cautela perché « stanno tutti con i telefoni sotto controllo». Una precauzione tuttavia inutile.

DE VITO, DEVITALIZZATO! Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2019. Appena pochi giorni prima di essere arrestato, Marcello De Vito si mostrava disponibile con costruttori e immobiliaristi per agevolare i loro affari. Il 5 febbraio scorso Camillo Mezzacapo, suo socio nella Mdl srl - società che custodisce i proventi delle intermediazioni - racconta all' amico Gianluca Bardelli il pranzo d' affari che si è tenuto proprio quel giorno. L' intercettazione è documentata dai carabinieri del Nucleo investigativo: «Mezzacapo riferisce di avere appena pranzato con tale Paola Santarelli la quale avrebbe in corso un rilevante progetto immobiliare. Nel corso della colazione la predetta imprenditrice avrebbe chiesto, con ogni evidenza al De Vito, un intervento in ordine a una questione afferente i Beni culturali». Mezzacapo sottolinea il peso dell' interlocutrice: «Ma lei ci sta intima con i Torlonia, i Bulgari li conosce tutti, Nicola, Paolo...» La «congiuntura astrale» come sottolineano fra loro è favorevole - i Pentastellati governano a livello locale e centrale - e spesso De Vito e Mezzacapo ragionano sull' opportunità di prendere altri incarichi «per alimentare i bilanci della Mdl». Mezzacapo : «Lo so bisognerebbe cercare di avere qualche bel mandato... nel mandato Enea della fusione, una cosa 200 mila euro da dare a tu... è normale, cominciamo a staccare una cosa oppure un discorso con Fabrizio ...Terna e tu di Poste e tu vai dentro a fare Poste e ti danno oppure "guarda ti piglio e ti metto a fare il consiglio di Terna"». De Vito : «Sì». Luca Parnasi è il primo a capire l' importanza del ruolo di De Vito e la sua disponibilità: «Io ho fatto una chiacchierata con Marcello, ovviamente domani farà una chiacchierata con quello che era dello studio legale con cui lavorava... per questo ti dovevo parlare per dirti che se mettiamo insieme i nostri rapporti io l' ho incontrato e ci ho parlato, intanto domani lui incontra questa persona...». In qualche caso a mettere in contatto De Vito con gli imprenditori provvedono altri politici. Il 29 maggio 2017 è Davide Bordoni, forzista, ex assessore capitolino, a organizzare un pranzo fra Davide Zanchi, interessato all' area degli ex Mercati generali, e il presidente dell' assemblea capitolina: «Nei giorni successivi al loro primo incontro documentato De Vito e Zanchi si sono sentiti in diverse occasioni» scrivono gli investigatori. Ma c' è un' altra ragione per registrare quella tavolata: nel corso del pranzo, De Vito telefona all' assessore all' Urbanistica Luca Montuori per tentare di sbloccare la questione degli ex Mercati generali che tanto interessa i costruttori Claudio e Pierluigi Toti. Qualche volta si tratta di dialogare con la persona giusta in Campidoglio. Così per facilitare i progetti nel centro storico dell' immobiliarista Giuseppe Statuto «De Vito s' impegna a discutere della questione con tale Gabriella (Acerbi, ndr ) evidentemente un referente dell' ufficio che sta bloccando la pratica afferente la realizzazione dell' hotel da parte del gruppo Statuto o comunque del Comune di Roma». Come ha ben capito il costruttore Luca Parnasi il problema risiede tutto nei via libera che le istituzioni devono rilasciare a seconda delle circostanze. «Purtroppo scomparire dalla mattina alla sera così...poi...no. Se c' avessimo tutto approvato nessuno più a rompere i coglioni potrei pure...potrei pure...capito fare... il no? Il fuggiasco... poi alla fine». In un' altra occasione Parnasi valuta gli interlocutori: «Zingaretti? Un cacasotto. I 5 Stelle non è che sono meglio però o ti dicono sì o no». A giugno 2018 Parnasi finisce agli arresti e si dimette dalla società che deve costruire il nuovo stadio. Gli subentra Giovanni Naccarato. I costruttori Toti, ora indagati, lo avvicinano, ignari di essere intercettati dai carabinieri. Parlano di inchieste, sembra che possano contare su una o più «talpe»: «Al termine di uno di tali incontri Pierluigi Toti, nel corso di un' altra conversazione fra presenti, parla esplicitamente di notizie riservate inerenti un' indagine che riguarderebbe i gruppi imprenditoriali Toti e Parnasi acquisite in epoca molto recente». Naccarato e Claudio Toti si parlano di nuovo il 16 gennaio scorso: «L' altro soggetto che invece ci premeva di più c' ho messo un po' più di tempo a vederlo perché stava fuori, ci siamo visti, abbiamo parlato, mi ha chiesto tempo un po' per riflettere per dettare un po' la linea...». In un altro colloquio è Pierluigi Toti angosciato dalle indagini e si confida con un amico. Uomo : «Mah finché si tratta di studiare un paracadute eh?». Toti : «Per questo l' Uruguay non va venduto, per questo? C' è l' estradizione in Uruguay chi lo sa?». In realtà sono anche alcune verifiche della Guardia di finanza a preoccupare Pierluigi Toti e l' imprenditore nato a Montevideo ne parla con varie persone all' interno del suo ufficio. Il problema riguarda i bilanci della società che controlla il centro commerciale «Porta di Roma»: «In finale - spiega - sono stati messi soldi finché è stato possibile mettere i soldi poi i soldi non sono stati più messi. Sono stati distribuiti 160 milioni...». Toti si sforza di trovare il modo di acquisire informazioni sulle indagini: «Non credo possiamo avere notizie aggiuntive, non sappiamo neanche qual è il Nucleo che sta esaminando....».

UNA SINDACA IN BALÌA DEI MARPIONI. Carlo Bonini per “la Repubblica” il 22 marzo 2019. Un appalto e una tangente più di altre rendono impossibile alla sindaca Virginia Raggi separare le proprie responsabilità politiche dal traffico di denaro e influenze che ha travolto Marcello De Vito. Si tratta della riqualificazione dell' area degli ex Mercati generali. Ottantottomila metri quadrati dismessi di suolo pubblico nel quadrante sud-ovest della città, destinati, nel 2003 (sindaco Veltroni), a regalarle un gioiello architettonico - "il polo dei giovani" - rimasti ibernati per 15 anni in un kafkiano abisso di insipienza politica (due varianti di progetto, con Alemanno e Marino), burocrazia, e appetiti imprenditoriali, prima di essere sbloccati, nel settembre 2017, dagli "uomini nuovi" arrivati in Campidoglio con un progetto che di quello originario è un irriconoscibile parente e al prezzo di una "stecca" di 110 mila euro pagata a De Vito e al suo esattore Camillo Mezzacapo dai fratelli Claudio e Pierluigi Toti, i costruttori che quell' appalto da 500 milioni di euro si sono aggiudicati. Una storia che conviene prendere dalla fine. Dal 22 settembre del 2017 quando Raggi, con accanto l' assessore all' Urbanistica Luca Montuori, annuncia con enfasi che la sua "Giunta del fare" ha sbloccato i cantieri che arrugginiscono lungo la via Ostiense. «Finalmente - dice - un pezzo della città torna a nascere. Abbiamo un nuovo progetto di riqualificazione degli ex Mercati generali, che si erano trasformati nell' ennesima opera incompleta. Il Campidoglio ha ricominciato a dettare le regole, anche sull' urbanistica. Purtroppo, in passato, l' urbanistica è stata moneta di scambio, schiacciata da interessi che non avevano nulla a che vedere con i cittadini». È una retorica fuori luogo, quella di Raggi. Con il senno di poi, persino grottesca. Perché le «regole urbanistiche» non le hanno dettate né lei, né la Giunta. Ma i fratelli Toti. E tuttavia, anche riportando la macchina del tempo a quel settembre, Raggi appare come al solito giocare una partita insincera. A metà tra dabbenaggine e manipolazione. Omette infatti di dire che lei e la sua Giunta sono stati chiamati a decidere sotto la spada di Damocle di una penale di 100 milioni di euro da versare ai Toti qualora i cantieri non avessero avuto il via libera. Non dà spiegazioni delle curiose ragioni per cui, in Campidoglio, insieme al Pd e a Fratelli di Italia, uno dei principali sponsor dell' opera sia Davide Bordoni, ex assessore della Giunta Alemanno, capogruppo di Forza Italia in Consiglio e cavallo su cui, con i Toti, ha scommesso anche un altro costruttore, Luca Parnasi. Liquida come irrilevante la circostanza che l' assessore all' Urbanistica che ha avuto accanto fino a sette mesi prima, Paolo Berdini, avesse ritenuto il nuovo progetto «irricevibile». Interrogato dalla Procura dirà: «Il progetto non era conforme alla legge, doveva essere modificato e sarebbe di nuovo dovuto passare in Consiglio comunale. Sicuramente fino a febbraio 2017 l' intera giunta era contraria all' approvazione del progetto». Raggi omette di spiegare le ragioni per cui il padre di quel progetto del 2003, l' archistar olandese Rem Koolhaas, abbia nel frattempo ritirato la sua firma. Non dice, insomma, che quello che sta per regalare alla città è uno spazio dove un auditorium e spazi per gallerie, sono stati cancellati per essere sostituiti da un mastodontico centro commerciale e una residenza per studenti, dove il rapporto tra cemento e verde, cultura e commercio (il nuovo progetto incrementa dal 41 al 45% le cubature destinate a uso commerciale e raddoppia dal 6 al 12% quelle del terziario), sono stati rivisti a esclusivo vantaggio di chi l' opera deve costruirla e la avrà in concessione per 60 anni. La "Lamaro" dei fratelli Toti e la "Società Generale Immobiliare Italia srl.", subconcessionaria del progetto, di cui è amministratore Davide Zanchi, altro manovratore della cui esistenza non è dato sapere se Raggi sappia o meno. «A me il progetto piace», dice Raggi nel settembre 2017. Di più, «piacerà anche a Roma», aggiunge con sillogismo azzardato. Sicuramente piace ai Toti e ai loro nuovi soci nell' impresa, gli immobiliaristi francesi De Balkany. Che forse non sanno che per ammorbidire l' ostinazione Cinque Stelle ci si è dovuti prima sedere a un tavolo del ristorante "Aroma" con quel furbacchione di Davide Bordoni («Ci penso io a parlare con quelli del Pd», dice) e con De Vito (lo ha fatto il felpatissimo subconcessionario Davide Zanchi), lasciare quindi che De Vito agganciasse l' assessore Luca Montuori, ma, soprattutto, firmare un contratto di consulenza fittizia con un tale indicato da De Vito, Camillo Mezzacapo. Un avvocato con incarichi professionali da 2 mila euro, che i Toti non avrebbero contrattualizzato neanche per una lite condominiale, ma che fanno "ridere" con una parcella concordata di 180 mila euro (poi scesi a 110 mila). E un contratto che, nella chiarezza dell' oggetto, disciplina tempi e condizioni di pagamento della tangente. Lo firmano il 29 maggio 2017, tre mesi e mezzo prima che Raggi rimanga "folgorata" dal nuovo progetto. Dispone - si legge - che l' incarico di Mezzacapo per la "consulenza sugli ex Mercati generali" si "intenderà risolto ove entro il 30 luglio 2017 non sarà approvato dalle Autorità competenti il progetto definitivo di riqualificazione, ovvero quello esecutivo entro il 15 gennaio 2018". De Vito e Mezzacapo ci danno dentro. In settembre, Raggi annuncia il via al progetto esecutivo. Il 24 ottobre, la "Silvano Toti Holding" bonifica 110 mila euro. «Una mano lava l' altra ed entrambe lavano il viso», avrebbe detto Salvatore Buzzi. Ma quella, pardon, era Mafia Capitale, mica una storia di «mele marce».

INDAGINI SU UN CAMPIDOGLIO AL DI SOTTO DI OGNI SOSPETTO.

(ANSA il 24 marzo 2019) - "Acea, ribadendo ancora una volta la sua piena fiducia nella Magistratura" in merito all'iscrizione nel registro degli indagati dell'ad Stefano Donnarumma "sottolinea con forza che questa, stante l'atto notificato, non ha nulla a che vedere con il futuro stadio della Roma ne' con le vicende riguardanti l'asserito progetto di spostare la sede del gruppo nel futuro "Business Park", che dovrebbe sorgere nei pressi dell'opera". "Quella di Donnarumma è una estraneità assoluta, e non ha comportato alcun specifico addebito da parte delle Autorità inquirenti".

(ANSA il 24 marzo 2019) - "L'unica contestazione che viene rivolta" dalla Magistratura all'ad di Acea Stefano Donnarumma "riguarda due sponsorizzazioni, del valore di 25mila euro ciascuna, realizzate nel 2017 e nel 2018". E' quanto afferma l'azienda dopo l'iscrizione nel registro degli indagati dell'amministratore delegato di cui afferma "la totale estraneità: le due sponsorizzazioni sono state decise dall'allora Presidente che aveva i poteri in materia". "Volendo andare sul punto, l'azienda precisa che tra le varie deleghe che il Consiglio di Amministrazione ha attribuito all'ingegner Donnarumma non vi è mai stata quella riferita alle sponsorizzazioni, che invece, fin dall'insediamento dell'attuale CdA (3 maggio 2017), erano nella responsabilità della Presidenza".  "Successivamente, dal 21 giugno 2018 - spiega Acea - la competenza sulle sponsorizzazioni è stata attribuita ad un Comitato Esecutivo appositamente creato e presieduto da un consigliere indipendente espressione della minoranza. Un dato di fatto che il Gruppo ha portato subito all'attenzione delle Autorità inquirenti attraverso una dettagliata relazione consegnata già nella serata di ieri. Tra la documentazione messa a disposizione degli investigatori c'è anche quella relativa proprio alle sponsorizzazioni oggetto dell'indagine" conclude l'azienda.

Edoardo Izzo per ''La Stampa'' il 24 marzo 2019. Dopo Luca Alfredo Lanzalone, ex presidente di Acea in quota 5 Stelle, trema un altro super dirigente della Multiutility Capitolina. Si tratta dell' amministratore delegato, Stefano Donnarumma, che - dopo essere stato perquisito nei giorni scorsi - ora sarà iscritto sul registro degli indagati con l' accusa di corruzione. La stessa contestazione per la quale tre giorni fa è finito in manette l' ex presidente dell' Assemblea Capitolina, Marcello De Vito. Ed era stato proprio l' ormai ex grillino a caldeggiare la nomina di Donnarumma in Acea. L' inchiesta è quella dei carabinieri del Nucleo Investigativo, coordinata dalla procura, sul nuovo stadio della Roma calcio. In particolare - secondo quanto filtra da ambienti investigativi - l' indagine riguarderebbe il progetto di spostamento della sede di Acea dalla storica struttura di via Ostiense al «Business Park», adiacente al futuro stadio, tanto voluto dal costruttore romano, Luca Parnasi. Ed era stato proprio l' imprenditore, arrestato lo scorso 13 giugno, a definire in una chat con l' avvocato, Camillo Mezzacapo, il «Business Park» come: l' affare «più grande». Proprio nei messaggi WhatsApp, tra il costruttore e Mezzacapo, spunta fuori il nome di Donnarumma definito: «un caro amico». I due, subito dopo, si accordano per «una cena insieme», utile per dialogare sull' affare «Acea». Parnasi e Mezzacapo, intercettati dai carabinieri nel marzo 2018, gongolano. «La cosa più importante è il progetto Acea - spiega il costruttore - da quello che dice Lanzalone, e anche Donnarumma». «C' è un consenso, c' è un consenso!» aggiunge Mezzacapo. E Parnasi: «Allora qui lo stadio. Bisogna farlo molto bene! Acea diventa il trader principale del progetto, e diventa una società che ha importanza. Però su questo tema è importante che venga coinvolta anche la sindaca». Ma, ben più della Raggi, l' avvocato Mezzacapo coinvolge De Vito. «Abbiamo chiamato il nostro amico per farlo intervenire con forza», dice al telefono rassicurando Parnasi sull' intervento dell' ormai ex presidente del Consiglio Comunale. In merito Acea fa sapere che «mai un Consiglio di amministrazione ha esaminato o discusso di un qualsivoglia documento o piano per spostare la direzione generale sui terreni di Parnasi». Intanto De Vito, in carcere da tre giorni, farà ricorso al tribunale della Libertà. «Faremo ricorso al Riesame. E solamente successivamente il mio cliente chiederà di essere ascoltato dai magistrati», spiega il legale di De Vito, l' avvocato Angelo Di Lorenzo. «De Vito sta bene - aggiunge - e non vede l' ora di chiarire la sua posizione». Le indagini dei carabinieri, coordinate dall' aggiunto Paolo Ielo e dai pm Luigia Spinelli e Barbara Zuin, intanto vanno avanti. Ieri fino a tarda sera sono state ascoltate come persone informate sui fatti due consigliere dei 5 Stelle: si tratta della presidente della Commissione Urbanistica, Donatella Iorio, e quella della Commissione Lavori Pubblici, Alessandra Agnello. Le audizioni sono legate al fatto che le Commissioni si sono occupate di alcuni progetti al centro della indagine, tra cui proprio il nuovo stadio della Roma. In base a quanto si apprende, inoltre, è stata interrogata anche Gabriella Raggi, indagata nel procedimento, e capo segreteria dell' assessorato capitolino all' Urbanistica.

Valentina Errante per ''Il Messaggero'' il 24 marzo 2019. Marcello De Vito sapeva come procedere per assicurarsi l' approvazione dei progetti che gli stavano a cuore, quelli dei suoi clienti. E quando il via libera dell' Assemblea capitolina era a rischio, per le posizioni dell' ala più intransigente del Movimento Cinquestelle, riusciva a bypassarla, orientando la giunta e garantendo un voto favorevole. Così, per il gip Maria Paola Tomaselli, che tre giorni fa ha arrestato il politico, sarebbe accaduto a settembre 2017 per il via libera al progetto Mercati generali dei fratelli Toti, che hanno pagato una parcella di 110mila euro all' avvocato Camillo Mezzacapo, sorprendendosi che l' approvazione non fosse passata dall' aula. Una parte di quei soldi sono finiti nella Mdl, la «cassaforte - scrive il gip - nella quale occultare gli illeciti profitti della corruzione». L' ex presidente del Consiglio comunale sarebbe riuscito ad esercitare la sua influenza sull' assessore all' Urbanistica Luca Montuori attraverso i rapporti con l' allora capogruppo del Movimento Cinquestelle, Paolo Ferrara, e grazie all' intervento dell' ex sindaco ombra, Luca Lanzalone, ormai a processo per corruzione. Gabriella Raggi, la caposegreteria dell' assessore, indagata e perquisita tre giorni fa, è stata interrogata a lungo ieri dai pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli, che hanno convocato in procura, come testimoni, anche Donatella Iorio, presidente della Commissione Urbanistica e Alessandra Agnello presidente della Commissione Lavori Pubblici. L' attività di De Vito sarebbe andata avanti fino alla vigilia degli arresti, per nulla scoraggiata dalla bufera dell' inchiesta Parnasi: il 12 febbraio, l' oramai ex presidente del consiglio comunale incontrava Giovanni Naccarato, nominato amministratore di Eurnova - la società di Parnasi che avrebbe dovuto realizzare lo stadio della Roma - dopo gli arresti di giugno. È il 22 gennaio 2019 quando Pierluigi Toti, parlando del progetto di riqualificazione degli ex Mercati Generali, spiega come abbia ottenuto un iter inaspettato e rapido: «Abbiamo avuto un' accelerazione urbanistica tra ottobre e dicembre che non pensavo neanche io, per cui siamo arrivati», dice. Un' accelerazione dovuta - aggiunge il gip - «al mancato passaggio della pratica in Consiglio e all' adozione della decisione da parte della Giunta», dove gli equilibri erano cambiati a febbraio 2017, dopo le dimissioni del precedente assessore all' Urbanistica, Paolo Berdini, e dunque fosse più facile ottenere il via libera. «L' intervento di De Vito - si legge nell' ordinanza - è stato quindi duplice: da un canto di carattere omissivo, non avendo egli rivendicato la decisione all' aula e, dall' altro, fattivo, avendo egli speso la propria influenza interloquendo con i soggetti (Lanzalone, Ferrara e Montuori) che avrebbero potuto incidere sulla situazione per indirizzare la decisione della Giunta» Sarebbe spettato al Consiglio occuparsi del progetto, visto che dall' ultima approvazione era intervenuta in commissione una significativa variante. Spiega il gip: «Vi erano forti insistenze da parte dell' ala più radicale del Movimento, che osteggiava l' approvazione dell' intervento di riqualificazione, affinché la decisione fosse nuovamente rimessa al Consiglio». La cassaforte, dove sarebbero finite le tangenti divise tra De Vito e Camillo Mezzacapo è la Mdl srl. La società dove l' avvocato raccomandato agli imprenditori dal politico metteva parte delle sue parcelle, ossia la quota destinata al presidente del Consiglio comunale. Nata nel 2016, la Mdl è controllata da due società - il cui fatturato è all' esame dei carabinieri - che fanno capo alla famiglia del legale finito in manette. L' amministratore è Sara Scarpari, segretaria di Mezzacapo. Ma nella compagine sociale compaiono anche la moglie del legale, Veronica Vecchiarelli, e la mamma, Paola Comito, finita sotto inchiesta per false fatturazioni. Il 10 per cento, invece fa capo a un commercialista, Gianluca Laconi. Indagata anche l' avvocato Virginia Vecchiarelli, cognata di Mezzacapo, utile come prestanome per non comparire in caso di consulenze sospette. Per il giudice l' esistenza della «cassaforte dà la misura della professionalità dagli indagati in tutte le fasi che caratterizzano le operazioni illecite. Dal primo contatto con gli imprenditori fino al momento percettivo dell' utilità». Così ai soci viene contestato anche l' autoriciclaggio.

Simone Canettieri e Stefania Piras per ''Il Messaggero'' il 24 marzo 2019. Il timore che non sia finita qui c' è. Anche se i vertici del M5S, da Luigi Di Maio a Beppe Grillo, serrano le fila intorno a Virginia Raggi per spronarla ad «andare avanti». La sindaca, ancora sotto choc per l' arresto del presidente del consiglio comunale Marcello De Vito, sta valutando intanto la fattibilità di una mossa dirompente: chiedere a tutti i dirigenti comunali di avanzare una richiesta alla procura (ex art. 335 del codice di procedura penale) per sapere se sono indagati. Attraverso la risposta alla richiesta si verrà a conoscenza del numero di procedimento, nome del pubblico ministero competente, data di commissione del fatto e l' articolo di legge violato, sempre che sia già in atto un procedimento nei confronti del richiedente. Una forma di autotutela, quella della grillina, per scacciare l' incubo di nuove inchieste che si potrebbero annidare tra gli uffici del Comune (23mila dipendenti). Attenzione, però. Per le ipotesi di reato più gravi, la comunicazione all' indagato potrebbe non essere possibile. Ma in queste ore, il Campidoglio cerca di vagliare tutti gli scenari per uscire dall' angolo. L'«ipotesi 335» è spuntata ieri dopo il vertice tra Raggi e il suo capo di gabinetto Stefano Castiglione. Fin qui la reazione amministrativa, ma la situazione nel Comune della Capitale appare quanto mai complessa. Non ci sono solo l' arresto di De Vito, la spinta dei consiglieri ad «azzerare la giunta». Sul tavolo della sindaca c' è anche la posizione di Daniele Frongia: l' assessore, indagato per corruzione, si è confrontato a lungo con lei giovedì sera. Un vertice - alla presenza del braccio destro di Di Maio, Max Bugani, e della consigliera regionale Valentina Corrado come responsabile degli enti locali - con picchi di tensione. L' assessore ha chiesto alla sindaca di respingere le dimissioni («Virginia, sarà presto tutto archiviato: devi fidarti di me»), ma ha trovato davanti a sé un muro: «No, Daniele, dopo tutto quello che ho passato, non se ne parla». Sul braccio destro della pentastellata pesa anche la comunicazione «tardiva» ai vertici M5S e alla sindaca dell' indagine a suo conto. «Lo sapevi da giorni, Daniele, ma ce lo hai comunicato solo quando stava per uscire sui giornali». Alla fine la situazione è questa: Raggi ha accettato con riserva le dimissioni dell' assessore allo Sport, ma prende tempo prima di formalizzarle in attesa degli sviluppi auspicati dai legali di Frongia. Ovvero: l' archiviazione. Al momento la pratica è congelata. Anche per evitare ulteriori scossoni. La linea del M5S è che, come spiega il vicecapogruppo alla Camera Francesco Silvestri, «non esiste un sistema-grillino». Ma in queste ore tutti si interrogano: De Vito agiva da solo o aveva sponde tra gli assessori e i consiglieri comunali? In attesa di risposte negative, non rimane che «andare avanti». Ed è proprio Di Maio a scandire la sua certezza di prima mattina, in tv. Poco dopo, in un lungo post su Facebook - rilanciato sul blog da Beppe Grillo, che così «rompe» il suo silenzio sulla vicenda - Raggi espone la sua trincea. «Non si torna al passato.  Il giorno in cui sono stata eletta sapevo che il vecchio sistema che insieme al M5S sto scardinando con ogni mia forza, avrebbe opposto ogni tipo di resistenza», scrive la sindaca. Come annunciato da Il Messaggero in queste ore torna più che in bilico la costruzione dello stadio a Tor Di Valle, padre di tutte le disgrazie giudiziarie. Ma il Movimento rimane una pentola in ebollizione. Roberta Lombardi, storica nemica di Raggi e considerata la madre politica di De Vito, si difende da chi la tira in ballo per i presunti rapporti con il costruttore Luca Parnasi: «Gli dissi 4 volte no, non sono ricattabile, né in vendita: Sarò nemica di chi, anche dentro M5s, tradisce cittadini». 

La procura chiede l’archiviazione per Daniele Frongia. L’ex assessore era indagato nell’inchiesta sullo stadio della Roma, scrive il 28 Marzo 2019 Il Dubbio. La procura di Roma ha chiesto al gip di archiviare la posizione di Daniele Frongia indagato per corruzione nell’ambito di uno dei tanti filoni scaturiti dall’inchiesta sul nuovo stadio che dovrebbe sorgere nell’area di Tor di Valle. Frongia, nella veste di assessore allo Sport al Comune, su sollecitazione di Luca Parnasi, avrebbe segnalato il nome di una persona che avrebbe dovuto lavorare in una delle società riconducibili allo stesso imprenditore. Non se ne fece niente perché di lì a poco (era il 13 giugno del 2018) Parnasi venne arrestato assieme ad alcuni suoi collaboratori per associazione per delinquere e corruzione. Frongia, dopo aver saputo nei giorni scorsi di essere indagato, si era sospeso dal Movimento Cinque stelle e aveva rimesso le deleghe alla sindaca.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 26 settembre 2019. «Un anno e quattro mesi di reclusione». Il presidente dell'ottava sezione penale, Paola Roja, legge il verdetto. Di fronte ai giudici, Raffaele Marra, circondato dai suoi avvocati, resta impassibile. È la seconda condanna che incassa, nel giro di nove mesi, l'ormai ex Richelieu del Campidoglio: abuso d'ufficio per aver favorito la nomina del fratello Renato in Comune. Questo il soprannome affibbiato a colui che è stato, per una manciata di mesi, il braccio destro della sindaca di Roma Virginia Raggi. Dimostrava, Marra, una certa abilità nel sapersi muovere nei palazzi. Una sorta di maestro di cerimonie capace di condizionare la prima cittadina. I cui affari poco trasparenti lo hanno portato, ieri, ad incassare un'altra sentenza a lui sfavorevole. Marra a ottobre del 2011, con i gradi di capo del personale del Comune, avrebbe imbastito una trama per far assumere il fratello al vertice della direzione Turismo. Una promozione, poi congelata, che avrebbe comportato un aumento di stipendio di 20mila euro lordi. Un reato di abuso d'ufficio, consumato, secondo i magistrati, perché Raffale si sarebbe dovuto astenere nella procedura di nomina che riguardava Renato Marra. Si tratta della stessa vicenda per la quale, la sindaca Raggi, ha dovuto affrontare un processo per falso terminato con la sua assoluzione l'undici novembre scorso.  Una sentenza di condanna che, per l'ex braccio destro della prima cittadina, segue quella per corruzione, a tre anni e mezzo, in merito all'appartamento donatogli dal costruttore Sergio Scarpellini. Un regalo che avrebbe - questo il teorema del sostituto Barbara Zuin - sancito una messa a disposizione del pubblico ufficiale Marra a favore di un imprenditore, come Scarpellini, con molteplici interessi sulla Capitale. La tesi del pm Francesco Dall'Olio è stata costantemente respinta dall'ex capo del personale del Campidoglio. Di fatto Marra, davanti ai giudici della ottava sezione penale, ha sempre sostenuto di essere «assolutamente innocente». «Sono stato estraneo nella procedura di interpello che nasce su iniziativa della sindaca Raggi - affermò Marra - che ha potere esclusivo e autonomo nelle scelte e nell'assegnazione degli incarichi». In quella circostanza aggiunse che, la procedura di nomina, era di «natura esplorativa e non comparativa, tanto è vero che la prima cittadina poteva conferire incarichi anche indipendentemente dalla presentazione delle istanze. Anche io, come altri dirigenti, fummo oggetto di valutazione senza aver presentato istanze. Quanto all'incremento retributivo, che nel caso di mio fratello sarebbe passato dalla prima alla terza fascia, era già indicato nella procedura di conferimento dell'incarico». Adesso bisogna attendere le motivazioni della sentenza che saranno depositate tra 90 giorni.

LA BANDA DEGLI ONESTI. Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 25 marzo 2019. Tema. «Ci si conserva onesti il tempo necessario che basta per poter accusare gli avversari e prendergli il posto» (Leo Longanesi). Svolgimento. La banda degli onesti a Cinque Stelle ha colpito ancora. Quasi tre anni di governo e altrettanti arresti eccellenti nel Comune di Roma (più 10 assessori cambiati). Il primo è Raffaele Marra, all’epoca braccio destro della Raggi. Accusato di corruzione. Il secondo è Luca Lanzalone, presidente di Acea. Si credeva il mister Wolf della «sindaca a sua insaputa». Il terzo è Marcello De Vito: nelle carte dei pm è accusato di aver ricevuto soldi dal costruttore Parnasi e influenzato le scelte del Campidoglio. Certo per chi ha fatto dell’onestà una sorta di diversità antropologica, per chi ha votato in fretta e furia la legge «spazzacorrotti» è un brutto colpo. E non basta che Luigi Di Maio espella con un tweet il reo («De Vito non lo caccio io, lo caccia la nostra anima, lo cacciano i nostri principi morali, i nostri anticorpi»), non basta la teoria della mela marcia (la mela non cade mai lontano dall’albero, soprattutto se è marcia); non basta far finta che tutti gli onesti arraffi dei Cinque Stelle non rappresentino una «questione morale».

Conclusioni. Erano così onesti che si sono lasciati corrompere una sola volta: quando c’è stata «una congiunzione astrale» (traduzione: quando gli è capitata l’occasione).

Scandalo De Vito, ecco l'inchiesta segreta. Tangenti e Acea, spunta il "sistema Scorpio". L'ad dell'azienda elettrica Donnarumma avrebbe pagato il grillino e Mezzacapo tramite sponsorizzazioni fasulle. Stesso metodo corruttivo usato da Giulio Gravina di Italpol e Davide Zanchi, interessato alla speculazione degli ex Mercati Generali. Ruolo-chiave per Stefania Scorpio, la donna che organizza il “Concerto di Natale in Vaticano”, scrive Emiliano Fittipaldi il 25 marzo 2019 su L'Espresso. C'è un filone segreto dell'indagine sulla presunta cricca che faceva perno sul grillino Marcello De Vito. Un'inchiesta parallela che coinvolge altri imprenditori e manager di punta della scena romana, e che è incentrata sulla società di eventi che organizza il Concerto di Natale in Vaticano, la Prime Time Promotions di Stefania Scorpio. Un filone che dimostra – almeno a leggere le carte - come il sistema messo in piedi dal presidente dell'Assemblea capitolina e dal suo sodale Camillo Mezzacapo, avvocato e “mediatore” del politico, era assai più ramificato e complesso di quanto immaginato inizialmente dagli inquirenti. Il lavoro della procura di Roma, scopre ora l'Espresso, evidenzia pure che il Comune guidato da Virginia Raggi sarebbe stato “infiltrato” nelle società municipali e nei suoi manager di punta. Che avrebbero usato soldi pubblici per ricompensare amici e sodali. A partire da Acea, la multiutility dell'energia che due anni fa la sindaca ha affidato all'ex presidente Luca Lanzalone (arrestato nel giugno 2018 per possibili mazzette intascate dal costruttore Luca Parnasi) e all'amministratore delegato Stefano Donnarumma, rimasto il vero uomo forte dell'azienda da quando il Mr Wolf vicino ai ministri Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro è uscito di scena. La notizia che l'ad Donnarumma è indagato per corruzione è uscita su “La Stampa” due giorni fa. Ma la sua iscrizione non è legata – a spulciare le nuove accuse dei pm di Piazzale Clodio e dei carabinieri del Nucleo investigativo - né al progetto di spostare la sede dell'Acea nel cosiddetto “Business Park” del nuovo Stadio della Roma, né al contenzioso economico tra Acea e una spa di Parnasi di cui si parla diffusamente nell'ordinanza di mercoledì scorso. Donnarumma, nominato dalla Raggi ma molto vicino a De Vito e Mezzacapo, è infatti indagato perché «tra giugno 2018 e gennaio 2019» avrebbe girato 50 mila euro proprio a favore dell'ex numero due dei Cinque Stelle romano e del suo sodale. Secondo i carabinieri, Acea avrebbe girato la presunta tangente di Donnarumma non direttamente alla coppia, ma attraverso la società Prime Time Promotions di Stefania Scorpio, l'imprenditrice che organizza tutti gli anni, attraverso la srl di cui controlla il 51 per cento delle quote, il “Concerto di Natale in Vaticano”, la grande kermesse musicale della Santa Sede. Acea avrebbe sottoscritto con la Scorpio più «contratti di sponsorizzazione» per un valore complessivo di 50 mila euro, poi i soldi alla fine sarebbero finiti (in parte o in tutto) nella disponibilità del presidente del Consiglio comunale e del suo sodale. Sia attraverso bonifici della Scorpio a favore della società MDL srl (secondo gli inquirenti riferibile ai due). Sia attraverso “accordi economici” ad hoc tra la Scorpio e Mezzacapo, che hanno permesso all'avvocato di ottenere ulteriori guadagni illeciti nel 2018 e nel 2019. Il sospetto, leggendo il decreto di perquisizione con cui i magistrati hanno sequestrato documentazione e email nelle sedi di Acea, della Prime Time Promotion e dell'abitazione della Scorpio (indagata come De Vito, Mezzacapo e Donnarumma per concorso in corruzione) è che De Vito anche in questo caso abbia venduto la sua «pubblica funzione in violazione dei doveri di imparzialità e correttezza, e in genere per l'asservimento della stessa agli interessi di Stefano Donnarumma». Quest'ultimo inoltre, secondo i pm, avrebbero pure affidato delle consulenze (sempre attraverso Acea) a Mezzacapo, nel settore del recupero crediti. I contratti a favore dell'avvocato partono proprio quando Donnarumma diventa capo dell'azienda pubblica. Il più importante dirigente di Acea, scorrendo l'ordinanza d'arresto della scorsa settimana, veniva definito da Mezzacapo – in un messaggio spedito a un suo socio - «un caro amico e un bravo manager, magari una di queste sere organizziamo una cena insieme». Ora, se sappiamo che Luca Lanzalone fu promosso dall'M5S presidente della multiutility quotata in Borsa come “premio” per aver gestito la vicenda dello Stadio della Roma, gli inquirenti ipotizzano che l'ascesa di Donnarumma in azienda possa essere stata favorita proprio grazie ai buoni rapporti con De Vito. È un fatto che Donnarumma sia un professionista vicinissimo al mondo Cinque Stelle: risulta a chi scrive che De Vito l'avesse presentato, durante la campagna elettorale per le Regionali dell'anno scorso, anche a Roberta Lombardi, e che Di Maio e l'ad di Cassa Depositi e Prestiti Fabrizio Palermo l'avevano recentemente messo in pole position per una promozione in Leonardo. «Donnarumma a Roma ha relazioni importanti, ed è sempre prodigo di buoni consigli. È molto ascoltato anche da Stefano Buffagni, l'uomo che si occupa di nomine per conto del Movimento», raccontano all'Espresso fonti del governo. Acea, intanto, ha difeso a spada tratta il suo amministratore delegato, spiegando in una nota che le sponsorizzazioni sono appannaggio esclusivo «della presidenza». In seguito all'arresto di Lanzalone, inoltre, la gestione sarebbe finita a «un comitato esecutivo appositamente creato e presieduto da un consigliere espressione della minoranza. Si deduce in maniera incontrovertibile la totale estraneità di Donnarumma: le due sponsorizzazioni sono state decise dall’allora presidente che aveva i poteri in materia». La sponsorizzazione del Concerto di Natale sarebbe opera del solo Lanzalone? Vedremo. Torniamo alla Scorpio, che nel nuovo filone ha un ruolo centrale: le famosi «sponsorizzazioni» di cui parlano Mezzacapo e De Vito senza sapere di essere intercettati («Non toccare i soldi adesso...quando tu finisci il mandato...Ci facciamo mandare solo le sponsorizzazioni di MDL...ma non mo', ci stanno facendo le sponsorizzazioni..quella, lei, continua a fatturare là...») passerebbero proprio per la sua società. Nata a Vairano Patenora in provincia di Caserta nel 1957, la Scorpio ha creato la Prime Time, società specializzata in eventi, nel 1990. Nel 1993 è riuscita a organizzare il primo Concerto di Natale in Vaticano grazie all'intraprendenza e ai buoni uffici con il Vicariato di Roma, che approvò – convincendo Giovanni Paolo II – il progetto musicale. Dopo 26 anni, i rapporti con il clero sono ancora ottimi: se il concerto si tiene nell'Aula Paolo VI ed è appoggiato pure dalle “Scholas Occurrentes” (ideate da Jorge Mario Bergoglio quando era cardinale, il progetto educativo oggi è promosso dalla Pontificia Accademia delle scienze), la Scorpio organizza da due lustri anni anche “La Corsa dei Santi”, manifestazione podistica patrocinata dalla Fondazione Don Bosco. Secondo i pm, però, la Scorpio fattura centinaia di migliaia di euro l'anno (861 mila secondo il bilancio 2017) anche attraverso false sponsorizzazioni, in realtà tangenti destinate a pubblici ufficiali e avvocati loro amici. Oltre a quelle di Acea, secondo le accuse Prime Time avrebbe infatti incassato soldi anche da Davide Zanchi, il presidente del cda della società Centro Commerciale Euroma 2 scarl, interessata alla speculazione degli ex Mercati Generali. Il famoso progetto immobiliare sulla Ostiense tanto amato dai Toti, dove anche Zanchi e i suoi referenti vogliono lucrare. È necessario, però, che il Comune approvi il nuovo progetto celermente. Così, se i Toti per accelerare l'iter di approvazione della colata di cemento girano false consulenze direttamente a Mezzacapo e De Vito tramite la cassaforte MDL, Zanchi usa le società della Scorpio: 128 mila euro di false sponsorizzazioni a favore della Prime Time sarebbero in realtà il prezzo pagato da Zanchi per corrompere De Vito, attraverso – si legge nel decreto di perquisizione - la mediazione del solito avvocato e il «concorso consapevole della Scorpio». Una partita di giro, dunque. Lo stesso schema viene usato anche da Giulio Gravina, imprenditore romano che controlla l'Italpol, grande azienda di vigilanza che ha appalti milionari con il comune di Roma, in primis con l'Atac e la metro. Anche lui (che risulta indagato per corruzione) schermerebbe una tangente a favore del grillino e di Mezzacapo, attraverso lo schermo delle sponsorizzazioni alla Prime Time. In questo caso non conosciamo i motivi per cui Gravina cercherebbe di comprare i favori di De Vito. È certo però che la sua Italpol è in crisi finanziaria da anni, anche a causa di crediti vantati nei confronti della municipalizzata romana. Gli investigatori ora stanno lavorando al materiale sequestrato lo scorso mercoledì mattina in Area, in Italpol, negli uffici di Zanchi e in quelli della Prime Time. Al vaglio anche la posizione di un altro imprenditore, Vincenzo Silvestrini della società cooperativa Logitech, anche lui indagato in un altro capo d’accusa per corruzione, ancora in concorso con De Vito e Mezzacapo. Il caso Scorpio potrebbe riservare nuove sorprese.

Tommaso Labate per corriere.it il 25 marzo 2019. «Un terremoto? Be’ qua direi che siamo già ben oltre. Siamo a uno tsunami per una città cui evidentemente non bastava l’essere stata travolta da Mafia Capitale, dalla mafia a Ostia, dalla mafia ovunque. L’unico sussulto di dignità che può salvare la giunta Raggi passa attraverso un ritorno alle regole, e quindi dall’addio al progetto dello stadio della Roma a Tor di Valle. Vede, per ogni urbanista serio il piano regolatore è “la” legge. E chiunque si muova fuori da quello, come sta facendo la giunta Raggi, si muove al di fuori delle regole... Chi vuole capirci qualcosa su ciò che è successo e sta succedendo dovrebbe indagare su quello che accade in Campidoglio dopo il 16 dicembre 2016. È tutto là». Paolo Berdini è stato il primo assessore all’Urbanistica di Virginia Raggi, carica da cui si dimette nel febbraio del 2017. Quando accetta di entrare in giunta, l’urbanista ha idee diverse dal M5S sulle Olimpiadi, visto che è favorevole. Ma la pensa come la Raggi, «e anche come De Vito», sul progetto dello Stadio a Tor di Valle. È contrario lui, sono contrari loro, sono contrari tutti. Poi succede qualcosa.

Arriva il 16 dicembre 2016. L’arresto di Raffaele Marra, braccio destro di Raggi.

«Da lì cambia tutto. Prima di allora, sia nei discorsi pubblici che in quelli privati, la Raggi era contrarissima a realizzare lo stadio della Roma a Tor di Valle. Si valutavano aree alternative, visto che c’erano e ci sono. Su questo eravamo d’accordo sin da subito».

Al di là delle dichiarazioni pubbliche, aveva mai sospettato che qualcuno in Campidoglio remasse contro la posizione sua e della sindaca sullo stadio?

«Mai, all’epoca non ne avevo alcuna ragione».

Neanche De Vito, il presidente del Consiglio comunale arrestato per corruzione?

«Men che meno. Anche De Vito era contrario alla realizzazione dell’impianto a Tor di Valle. Se pensate che oggi l’attuale amministrazione ha esteso le cubature ben oltre a quelle previste dalla giunta di Marino, che già andavano al di là del piano regolatore, capite la reale dimensione del cambio della loro impostazione iniziale, che partiva appunto dal rispetto delle regole. Erano stati votati per questo, no?».

Ha riconosciuto nel De Vito che parlava nelle intercettazioni «di sfruttare la congiunzione astrale» il De Vito che aveva conosciuto?

«Sinceramente no, sono rimasto stupito. Il De Vito che avevo conosciuto io era molto equilibrato, prudente, serio. Frongia era molto più silenzioso, ci parlavo di meno».

Cosa cambia con l’arresto di Marra?

«Tutto. Il M5S nazionale commissaria di fatto la Raggi con Bonafede e Fraccaro. Spunta questo Lanzalone…».

Il suo arresto, nel giugno scorso, «apre» l’inchiesta sullo stadio.

«All’epoca chiesi conto alla Raggi del suo ruolo, del perché stesse sui dossier dell’Urbanistica. La sindaca mi rispose che Lanzalone era un uomo di sua fiducia, che stava lì per aiutarmi ad arrivare alla risoluzione del contratto per Tor di Valle. E invece stava lì per l’esatto contrario».

Come lo capì?

«Dopo essere stata commissariata dal M5S nazionale, la Raggi sullo stadio cambia linea. Nel gennaio 2017, il vicesindaco Bergamo e quello che sarebbe stato il mio successore all’Urbanistica, Luca Montuori, iniziano i colloqui per andare avanti su Tor di Valle. Dal no secco si passa a mia insaputa al sì, con le cubature addirittura aumentate rispetto a Marino. E me ne sono andato».

Lei era favorevole alle Olimpiadi.

«Eravamo d’accordo con la Raggi che si sarebbe arrivati a un referendum per fare decidere i romani. Venni scavalcato da un post di Beppe Grillo, che con l’amministrazione di Roma teoricamente non aveva nulla a che fare».

Si è fatto un’idea su come sarebbe finito il referendum sulle Olimpiadi?

«La stragrande maggioranza avrebbe votato a favore».

Se mai ci fosse un referendum sullo stadio a Tor di Valle?

«La stragrande maggioranza dei romani voterebbe contro. Soprattutto dopo questo scandalo devastante.

Estratto dell’articolo di Massimo Cecchini per La Gazzetta della Sport il 25 marzo 2019. (...)Raggi: “Noi ci siamo scagliati contro quella proposta, abbiamo fatto un esposto in Procura, ma è stato archiviato perché evidentemente non era sufficiente. Noi non volevamo fare quel tipo di stadio, perché del progetto solo il 14% sarebbe stato destinato all’impianto. “L’ex assessore Berdini non richiesto da nessuno e senza chiedere pareri all’Avvocatura, ha attivato la Conferenza dei Servizi. Se non l’avesse fatto noi non saremmo stati qui a parlare. Ora lui è sempre polemico, ma dimentica che andò via perché disse che io avrei avuto un amante. Ma quale stadio, Berdini è andato via per quelle cose. Io ho chiesto pareri all’avvocatura, per trovare un appiglio per smontare la delibera di Marino ma questo appiglio non ce l’hanno dato. Se si va avanti siamo soggetti a procedimenti risarcitori nei confronti del Comune. Io ho fatto una due diligence sul procedimento e ora ne sto facendo un’altra. Io non posso sottoporre l’amministrazione capitolina a un danno erariale”. 

Antonio Polito per il ''Corriere della Sera'' il 25 marzo 2019. Ricapitolando. Per la tutela dell' ambiente ieri non siamo andati in macchina. Per un incidente non siamo andati in treno sulla Roma-Cassino. Per mancata manutenzione non siamo andati in metropolitana in tutto il centro storico. Le scale mobili di tutte e tre le stazioni del cuore di Roma, Barberini, Repubblica e Spagna, non funzionano. Adesso ho capito che cosa intendono per un' economia a chilometro zero. Vuol dire che puoi muoverti solo a piedi o in bici. Dopo la Via della Seta, a Roma si sperimenta la Via dell' Atleta: gambe in spalla e pedalare. Come se niente fosse, la sindaca Raggi emette comunicati sulla riuscita dell' ennesima domenica ecologica. Il blocco al traffico ha fatto rilevare una significativa riduzione del biossido di zolfo e del monossido di carbonio. Purtroppo resta elevato il tasso di biossido di azoto. Dunque si continua, vuoi vedere che domenica prossima non chiuda anche un' altra stazione della metropolitana? L' assessorato alla Mobilità, con supremo e ammirevole sprezzo del ridicolo, annuncia di aver disposto in corrispondenza del blocco del traffico «il potenziamento delle corse degli autobus e della metropolitana». Che vorrà dire potenziamento? Certo le corse sono più veloci. Si fa prima perché non ci sono fermate intermedie. Al momento, se prendo la metropolitana a Termini, arrivo fino a Flaminio manco fosse un Frecciarossa. In mezzo una terra di nessuno, in cui le scale mobili vengono giù a pezzi, si accartocciano, sono corpo del reato, sequestrate dalla magistratura che indaga su dodici tra tecnici della ditta di manutenzione e dirigenti dell'azienda comunale. Per fortuna, sull' ultimo gradino crollato c' era veramente un atleta, un ragazzo che con un balzo si è salvato dal vuoto. Fosse stato un anziano, fatti suoi. Roma è una città da Olimpiadi. Non quelle di De Coubertin, con la maiuscola, che qui non si fanno per evitare la corruzione, tanto per quella basta la costruzione del nuovo stadio; ma quelle quotidiane dei cittadini della capitale: salto della buca, staffetta del 64, tremila siepi in periferia, le discipline più praticate. Nessuna capitale d' Europa sta messa peggio. E, in fin dei conti, anche questo è un record. Ce la prendiamo tutti con la sindaca, poverina: ma ha già tanto da fare alle prese con il frenetico turn-over della giunta, dieci assessori cambiati in meno di tre anni, e con una lotta intestina che manco la Dc dei tempi belli (lei stessa ci ha tenuto a precisare che De Vito, l' ultimo arrestato, insieme con la Lombardi, erano di un' altra corrente, suoi nemici). Ma bisognerebbe prendersela con il governo. In fin dei conti Roma è la capitale d' Italia: si può lasciarla in queste condizioni senza reagire? Il dirigismo pedagogico dei Cinquestelle, che vuole instaurare il regno dell' onestà personale, della tutela ambientale e della santificazione domenicale con la chiusura dei negozi, richiederebbe quanto meno un alto grado di efficienza. Invece Roma è un vero casino. Come si fa se in Campidoglio non sono neanche più capaci di aggiustare quello che si rompe? La scala mobile di Repubblica crollò sotto i piedi dei tifosi del Cska di Mosca cinque mesi fa, era autunno, era l'anno scorso, la Roma era ancora in Champions League. Da allora si aspetta che una ditta costruisca ex novo - non scherzo - i pezzi di ricambi necessari. Manco fosse un' auto d' epoca, una Bugatti del '31. E all'Ama, l'azienda dei rifiuti? Come mai è senza amministratore delegato, e senza cda, rimossi dalla stessa giunta che li aveva scelti? E all'Acea, l'azienda dell'acqua e della elettricità, come mai l'amministratore delegato è indagato e l'ex presidente è finito agli arresti domiciliari per corruzione? Dei giardini non ne parliamo. Alla prima burrasca di vento piovono pini come se fossero scale mobili. Vicino al Colosseo c' è il roseto comunale, un piccolo (ex) gioiello della città, meta di molti turisti. La strada che lo attraversa è sbarrata da settimane, con un cartello bene in vista. È l'ordinanza del sindaco che chiude parchi e giardini a causa del pericolo di vento forte. Siccome a Roma è già piena primavera e si superano i 25 gradi, solo la lettura della data in fondo può spiegare l'arcano: risale al 23 febbraio scorso, quando effettivamente fischiava il vento e urlava la bufera. E alla viabilità, quanti soldi pubblici perdono all' anno per risarcire quelli che cascano col motorino nella buca? Del Comune di Roma si potrebbe dire quello che si dice degli aerei che cadono senza un perché: cedimento strutturale. E la cosa fantastica è che sindaca e giunta non chiedono scusa, no. Dicono che se tutto questo succede, è per via della resistenza dei vecchi poteri alla loro opera rinnovatrice. Così noi cittadini romani, che abbiamo visto il passato, ci sentiamo in colpa a protestare. Però non so quanto dura. Ieri l' ex sindaco Marino, che fu cacciato a furor di Pd e Cinquestelle per qualche nota spese di troppo e un parcheggio di favore, ha pubblicato un post sarcastico, riprendendo una battuta sul disastro dell' amministrazione attuale che gira sui social: «'Na Panda in doppia fila e du' scontrini? Ma li mortacci tua». Ecco, quando il cinismo di Roma troverà perfino il peggiore passato migliore del pessimo presente, per l'era Raggi sarà la fine.

Stadio della Roma, la Cassazione: «Arresto di De Vito immotivato». Pubblicato venerdì, 23 agosto 2019 da Fulvio Fiano su Corriere.it. L’arresto di Marcello De Vito e Camillo Mezzacapo è stata una decisione immotivata. Lo sostiene la Cassazione nelle durissime 30 pagine di motivazioni alla decisione con cui l’11 luglio scorso ha disposto che il provvedimento cautelare per la presunta corruzione dell’esponente grillino nella vicenda stadio della Roma torni di nuovo al vaglio al vaglio del Riesame. Secondo i giudici della Suprema Corte non ci sono «dati indiziari» sufficientemente motivati dal gip e poi dal Riesame per sostenere che il presidente pentastellato dell’assemblea capitolina e l’avvocato Camillo Mezzacapo, finiti in carcere il 20 marzo scorso (e da luglio ai domiciliari) facessero parte del «gruppo criminale» guidato dall’imprenditore Luca Parnasi. Per la sesta sezione penale della Cassazione, contro De Vito e Mezzacapo ci sono al momento «congetture» ed «enunciati contraddittori», tratti dalle dichiarazioni rese ai magistrati dallo stesso Parnasi all’indomani del suo arresto. «Le dichiarazioni di Parnasi — argomentano i giudici — si risolvono nelle seguenti proposizioni: il convincimento maturato dal dichiarante circa l’interesse di De Vito al conferimento di incarichi a Mezzacapo, peraltro frutto non di mere impressioni personalistiche, bensì dal dato oggettivo della presenza dello stesso Mezzacapo, non altrimenti giustificata, all’incontro di presentazione con De Vito; il riconosciuto intento di Parnasi, a seguito della pronta adesione ai desiderata del suo interlocutore mediante l’affidamento al legale dell’incarico di seguire una transazione tra Acea e la Ecogena, di accreditarsi presso il Movimento 5 Stelle, di cui De Vito era al tempo autorevole rappresentante, in linea con il “modus operandi” dell’imprenditore. Ne consegue — chiarisce ancora la Cassazione — che il valore confessorio dell’esistenza di un patto corruttivo, che a tali dichiarazioni è stato attribuito dai giudici capitolini, non rispecchia l’obiettivo tenore delle stesse, potendo pertanto riconnettersi solo ad una operazione interpretativa, che assegni loro una portata, per così dire, “addomesticata” che non è stata tuttavia esplicitata, né può desumersi dagli ulteriori dati indiziari citati sopra». E ancora: «Il carattere sostanzialmente fittizio dei remunerati incarichi conferiti allo studio Mezzacapo, che indubbiamente rivestirebbe significativa valenza ai fini della dimostrazione del carattere illecito del rapporto presupposto tra Parnasi e De Vito, si basa su “enunciati contraddittori”». E «nulla dice il provvedimento impugnato, quanto alle utilità, ancora una volta sotto forma di lucrosi incarichi professionali, rimasti tuttavia allo stadio di promesse, che il capo di incolpazione provvisoria colloca nell’ambito del più ampio corrispettivo stabilito con il "pactum sceleris" intervenuto tra i protagonisti dell’ipotizzato accordo corruttivo». La Cassazione poi definisce come «gravemente insufficiente sul piano della motivazione» la parte concernente il presunto atto contrario ai doveri d’ufficio che avrebbe compiuto De Vito quando da presidente dell’assemblea del 14 giugno 2017 espresse il voto favorevole all’approvazione del progetto di realizzazione dello stadio e alle connesse varianti del Prg. Per la Suprema Corte, la misura cautelare «tralascia di ricordare che la seduta del 14 giugno del 2017 interviene all’esito di un già apprezzabile iter procedurale scandito dopo la presentazione del progetto oltre tre anni prima, sotto la sindacatura Marino, e una prima dichiarazione di pubblico interesse dell’opera da parte della Giunta del tempo, da una convergente dichiarazione pubblica in tal senso dalla sindaca Raggi, pur con l’indicazione di una sensibile diminuzione della cubatura commerciale del progetto e della successiva adozione di una collimante delibera di Giunta cui avevano fatto seguito i pareri positivi delle Commissioni permanenti e del IX Municipio, interessato dall’esecuzione del progetto, prima della seduta». Il tutto «in assenza di qualsivoglia indice probatorio di un inopinato mutamento di linea da parte della maggioranza consiliare e di un’attività da parte di De Vito, finalizzata a scongiurare siffatta (allo stato del tutto congetturale) ipotesi, ovvero ancora di modificare in senso più confacente agli interessi del privato il già palesato favore della maggioranza comunale del complessivo progetto».

Accuse contro De Vito: frutto di “dati indiziari”. Il Dubbio 24 Agosto 2019. La Cassazione ha disposto che il provvedimento cautelare torni al Riesame. Non ci sono “dati indiziari” sufficientemente motivati dal gip e poi dal Riesame per sostenere che il presidente 5S dell’assemblea capitolina Marcello De Vito e l’avvocato Camillo Mezzacapo, finiti in carcere il 20 marzo scorso ( e da luglio ai domiciliari) facessero parte del “gruppo criminale” guidato da Luca Parnasi e fossero vittime del suo “metodo corruttivo” nell’ambito della vicenda legata alla costruzione del nuovo stadio della Roma. Per la sesta sezione penale della Cassazione, che l’ 11 luglio scorso ha disposto che il provvedimento cautelare per corruzione torni di nuovo al vaglio del Riesame. Contro De Vito e Mezzacapo ci sono al momento “congetture” ed “enunciati contraddittori”. “Le dichiarazioni di Parnasi – spiegano i giudici – si risolvono nelle seguenti proposizioni: il convincimento maturato dal dichiarante circa l’interesse di De Vito al conferimento di incarichi a Mezzacapo, peraltro frutto non di mere impressioni personalistiche, bensì dal dato oggettivo della presenza dello stesso Mezzacapo, non altrimenti giustificata, all’incontro di presentazione con De Vito; il riconosciuto intento di Parnasi, a seguito della pronta adesione ai desiderata del suo interlocutore mediante l’affidamento al legale dell’incarico di seguire una transazione tra Acea e la Ecogena, di accreditarsi presso il Movimento 5 Stelle, di cui De Vito era al tempo autorevole rappresentante, in linea con il "modus operandi" dell’imprenditore. Ne consegue che il valore confessorio dell’esistenza di un patto corruttivo, che a tali dichiarazioni è stato attribuito dai giudici capitolini, non rispecchia l’obiettivo tenore delle stesse, potendo pertanto riconnettersi solo ad una operazione interpretativa”.

Da Il Fatto Quotidiano il 25 agosto 2019. Gelo sul Campidoglio. E un problema politico di difficile risoluzione. La sentenza della Cassazione che annulla l’ordinanza di arresto nei confronti di Marcello De Vito ha creato subbuglio a Palazzo Senatorio. Il presidente dell’Assemblea capitolina, sospeso dalla prefettura di Roma dopo l’arresto del 20 marzo scorso nell’ambito di un filone d’inchiesta sullo stadio di Tor di Valle, ha ottenuto una sorta di riabilitazione da parte della Corte suprema, che ha smontato i presupposti su cui si fondano capi d’accusa messi in piedi dalla procura di Roma, rinviando i documenti al tribunale del Riesame, con udienza già convocata per il 10 settembre. E se in quella sede i magistrati non saranno in grado di produrre nuova documentazione, il giorno stesso De Vito potrebbe tornare in libertà. A quel punto, il consigliere M5s più votato del 2016 avrebbe pieno diritto, da subito, a riprendersi la poltrona più alta dell’Aula Giulio Cesare, oggi occupata dalla sua ex fedelissima Sara Seccia. “La scena di Marcello che torna in Campidoglio e caccia Sara dal suo ufficio, magari minacciando di avvalersi delle forze dell’ordine, è una specie di incubo“, azzarda un esponente della maggioranza che ha chiesto di restare anonimo. La vicenda sta creando imbarazzo. Virginia Raggi è in ferie e ufficialmente non è raggiungibile. Ma dai luogotenenti della sindaca è arrivato il diktat di non parlare della vicenda, né di scrivere nulla sulle chat per evitare fughe di notizie. Se ne parlerà vis-a-vis. De Vito non è mai stato formalmente espulso dal M5s, nonostante le dichiarazioni di Luigi Di Maio a poche ore dall’arresto, visto che la sua posizione è ancora al vaglio dei probiviri. Fra l’altro, quello stesso 20 marzo arrivò anche la presa di distanza della sindaca, con la quale da tempo non correva buon sangue. Soprattutto, il gruppo pentastellato in Campidoglio ha scelto di non procedere alla revoca, nonostante le pressioni di una parte dei consiglieri – quelli più vicini alla prima cittadina – Si è deciso di rinunciare al provvedimento sulla base di un parere del segretariato generale che escludeva l’arresto per corruzione fra le motivazioni che giustificano la sfiducia del presidente d’Aula. Il timore diffuso, in realtà, era che De Vito, una volta libero, potesse rivalersi civilmente sui singoli consiglieri. Ecco che il contrasto potrebbe esplodere lunedì, quando i consiglieri si ritroveranno dopo la pausa estiva. “Se ne parlerà, perché è un tema vero“, rivela Paolo Ferrara a Ilfattoquotidiano.it. L’ex capogruppo, considerato dall’inizio fra i più vicini a Marcello De Vito e decaduto dal suo ruolo dopo l’avviso di garanza a suo carico sempre nell’ambito dell’inchiesta sullo stadio – la procura ha chiesto l’archiviazione.  – Il corto circuito, d’altronde, è dietro l’angolo. Il rischio è ritrovarsi un presidente d’Aula pieno di livore nei confronti della sindaca e dei colleghi pentastellati, formalmente ancora interno al M5s, che magari attuerà un certo ostracismo nei confronti della maggioranza. A maggior ragione se dovesse arrivare il provvedimento di espulsione da parte dei probiviri. Fonti vicine ai vertici pentastellati, infatti, ribadiscono che la decisione verrà presa sull’opportunità politica delle azioni di De Vito – che restano “censurabili” – e non sulla loro valenza penale. “Non c’erano i presupposti per rimuoverlo – dice Ferrara – e questo lo ha ribadito il segretariato. Ad alcuni è sembrato giusto non sfiduciarlo, ad altri no“. In una sua lettera dal carcere, datata 24 aprile 2019, De Vito aveva detto di aver “provato provato rabbia e delusione per le parole di abbandono degli ‘amici'” e di considerare “le assenze dal 20 marzo 2019 contrarie e comunque non imputabili alla mia volontà”. “Non so a chi riconduce queste dichiarazioni”, afferma ancora Ferrara, che rivela di avergli scritto “in tempi non sospetti”, chiarendo anche che “se ritiene che qualcuno sia stato scorretto, queste sono valutazioni sue. Certo un po’ di freddezza nei suoi confronti c’è stata, ma credo che neanche lui voglia ricadere nella polemica”. L’ex capogruppo, infine, non ritiene che un suo ritorno nello scranno più alto dell’assise possa rappresentare un problema: “Il presidente dell’Assemblea capitolina non è una persona che ricopre un ruolo politico, ma di garanzia per tutte le forze politiche. Dunque, non ci sono problemi sotto questo aspetto”. Altro discorso, “il suo ritorno in maggioranza: bisognerà valutarlo, anche con i vertici nazionali. Parleremo anche di questo”.

·         Multopoli.

Multopoli, "Le Iene" svelano 16 milioni di multe cancellate a politici e vip, scrive tgcom24 il 25 marzo 2019. La trasmissione di Italia 1 prova a fare luce sulla vicenda emersa grazie alle denunce della funzionaria Emma Coli, poi allontanata dal suo incarico. “Le Iene” tornano sul caso della Multopoli romana, nata dalle segnalazioni della dipendente comunale Emma Coli, riguardante la cancellazione di cartelle esattoriali per vip e politici. “Avevo rilevato accessi anomali per l’annullamento delle multe, da un’utenza risultavano 60 annullamenti in un’ora, era impossibile lo facesse una sola persona”, spiega la Coli, che per le sue segnalazioni ha subito diverse sanzioni disciplinari e ora lavora al front office, un “sottodimensionamento – spiega lei – rispetto alle mie competenze”. L'utenza in questione era quella del suo direttore. Si trattava di annullamenti, secondo la ricostruzione, che avvenivano come prassi per disposizione dei superiori, senza seguire il normale iter amministrativo. L'ex dirigente ha addirittura definito “proposte stronze” le richieste di controlli di Coli, che ha continuato a trovare nuove multe annullate, una dietro l'altra. Per le sue scoperte, la donna ha subito una denuncia proprio dal suo responsabile per calunnia e diffamazione, poi annullata dal giudice perché, sembrerebbe, la donna diceva la verità. Al momento per la vicenda ci sono 197 indagati relativi a circa 17 milioni di euro di “ammanco” per le multe annullate: la vicenda risale alla giunta Marino ma non risparmia neanche il governo della città a firma Raggi. “Ho inviato lettere protocollate e non ho mai ricevuto risposta” spiega Emma Coli.

Multopoli: 16 milioni di euro di multe cancellate alla casta, scrivono Le Iene il 25 marzo 2019. Roma è travolta da un nuovo scandalo: sparivano contravvenzioni a vip, funzionari, poliziotti e carabinieri per un totale di circa 16 milioni di euro. Indaga Roberta Rei. Emma Coli è un’impiegata del comune di Roma da 32 anni e già dal 1996 ha cominciato a denunciare stranezze e anomalie nella gestione delle multe. La sua prima segnalazione, ormai 23 anni fa riguardava 12.500 verbali che invece di essere notificati erano stati archiviati. Insomma, multe che invece di venire riscosse sono state chiuse nel cassetto. Visto che per legge una percentuale dei soldi ricavati dalle multe deve essere destinato alle opere pubbliche, come la manutenzione delle strade, è proprio uno spreco per una città che ne avrebbe bisogno come Roma (vedi problema buche…). Emma dopo aver denunciato questo fatto viene privata del riconoscimento economico per la produttività che aveva ricevuto fino all’anno prima. Lei però continua a denunciare anche gli anni dopo e per il suo comportamento integerrimo riceve altre sanzioni che le recano anche dei danni economici. Oltre i demansionamenti, sanzioni e mancati aumenti di stipendio, Emma pagherebbe anche con la sua salute il prezzo per la battaglia che ha deciso di combattere. È costretta a cercare aiuto psicologico e farmacologico per sostenere lo stress che vive. Nel 2011 Emma trova uno scatolone pieno di documenti e verbali abbandonati. Quando lo comunica via mail al suo capo, Pasquale Libero Pelusi, lui chiede di archiviare tutto senza ulteriori verifiche. Poco dopo, Emma riceve un’altra email con una richiesta ancora più singolare, annullare multe e cartelle di pagamento se destinate a forze di polizia, ministeri ed enti istituzionali. Insomma, per loro il Codice della strada non è obbligatorio. Questo non si può fare perché fino a prova contraria “la legge è una e vale per tutti”, come dice Roberta Rei al capo di Emma. Ma annullare le multe a precise categorie di persone creerebbe una divisione tra “cittadini di serie B” che devono rispettare il codice della strada e “cittadini di serie A” che possono fare più o meno quello che vogliono. Emma Coli propone di fare le cose seguendo le regole. “Chiunque riceve una multa può fare ricorso e chiedere che la sanzione venga annullata, ma l’annullamento di tutte le multe destinate a una targa specifica non va bene”. Pelusi risponde con una mail dove oltre a lei ci sono in copia tutti i suoi colleghi in cui definisce “stronze” le proposte di Emma. Le multe non venivano solo archiviate, venivano proprio cancellate dal sistema informatico. E a cancellarle sarebbe stato lo stesso Pelusi, il capo di Emma. Dopo questa segnalazione Emma riceve un’altra mail dove il suo capo definisce “stupida” la segnalazione, perché lui in qualità di direttore poteva farlo. A questo punto Emma Coli avvisa l’allora sindaco Marino che però non risponde. In compenso a Emma arriva una denuncia penale per calunnia e diffamazione, poi archiviata perché le sue segnalazioni erano nell’interesse dell’amministrazione e nell’esercizio delle sue funzioni. Arriva il 2014 e stremata Emma decide di rivolgersi alla Corte dei Conti e così scoppia lo scandalo Multopoli nel quale vengono indagate 197 persone. Dalle indagini emerge che il comune non avrebbe incassato multe per un valore di circa 16 milioni di euro.

La Coli viene cacciata dal dipartimento, è stato proprio Pelusi a chiedere la revoca dell’incarico.

Multe tolte a parenti e amici. A Roma scoppia multopoli. Anche Lotito tra i 197 indagati. Inchiesta partita dopo la denuncia di una funzionaria del Comune, scrive il 28 Gennaio 2019 Il Tempo. Centonovantasette persone sono indagate dalla procura di Roma per un giro di multe illegalmente cancellate. Tra di loro c'è il presidente della S.S. Lazio Claudio Lotito indagato per concorso in falso e truffa. Al centro dell'inchiesta, ribattezzata multopoli, c'è l'ex responsabile e altre tre dipendenti del Dipartimento risorse economiche di Roma Capitale che si occupa delle sanzioni amministrative e delle istruttorie legate alle violazioni del codice della strada. Tra gli escamotage utilizzati, anche dal presidente biancoceleste, quello di far figurare come veicoli di scorta usati da forze dell'ordine auto private che erano state multate. Per la vicenda, Lotito è stato sottoposto a un sequestro preventivo del valore di 26 mila euro. Il periodo preso in esame dai finanzieri del Nucleo di polizia Economico-Finanziaria di Roma coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal pm Francesco Dall'Olio va dal 2012 al 2014, e l'inchiesta è partita dopo la denuncia di una funzionaria comunale. Nell'ambito delle indagini il gip ha disposto sequestri preventivi di oltre un milione di euro, tra i quali ci sono quelli, del valore di 800 mila euro, ai danni di una società di noleggio auto. I legali del patron biancoceleste, con una nota pubblicata sul sito del club, sostengono che "che si tratta di un clamoroso equivoco che verrà prontamente chiarito nelle sedi competenti e precisano che le cifre contestate si riferiscono a multe di circa 15 mila divenute 26 mila per effetto delle sanzioni previste dalle cartelle, che riguardano macchine intestate a società di cui il Presidente (Lotito, ndr) è socio".

Roma, multe cancellate: anche Claudio Lotito fra i 197 indagati per falso e truffa. Il numero uno della Lazio faceva risultare come veicoli di scorta auto private: aveva 26 mila euro di sanzioni. Il giudice ha disposto il sequestro preventivo di circa un milione di euro. Nell’indagine anche l’ex responsabile del dipartimento risorse economiche del Comune e tre dipendenti che annullavano le multe, scrive Ilaria Sacchettoni e Redazione Roma il 28 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Multe prese per essere entrati in area Ztl e poi fatte cancellare. Un gruppo di funzionari dell’ufficio Risorse per Roma avrebbe eliminato una lunga serie di contravvenzioni ad alcuni automobilisti. Fra questi anche Claudio Lotito, il presidente della Lazio.

Sequestrato 1 milione. La vicenda risale al 2014 ma solo oggi - lunedì 28 gennaio - l’inchiesta dei magistrati Francesco Dall’Olio e Paolo Ielo è approdata a un sequestro preventivo di circa un milione di euro. Sequestro eseguito nei confronti di chi ha beneficiato del trattamento di favore. Nei confronti di Lotito la cifra è di oltre 26 mila euro. Gli indagati sono in tutto 197. Gli approfondimenti sono stati portati avanti dal nucleo di polizia tributaria della finanza. Per tutti, i reati contestati sono truffa e falso. Fra gli indagati i funzionari Pasquale Peluso, Laura Cirielli, Maria Rita Rongoni e Patrizia Del Vecchio. «La condotta di Peluso e delle sue collaboratrici Cirielli e Rongoni sono connotate dall’univoco intento di procurare agli intestatari delle cartelle esattoriali l’ingiusto profitto derivante dall’illecita sottrazione all’oblio del pagamento della multa con l’annullamento». Così si legge nell’ordinanza della gip Anna Maria Fattori.

Finte auto di scorta. Secondo quanto accertato da Ielo e da Dall’Olio - che hanno coordinato le indagini svolte dalla Guardia di finanza - il numero uno della Lazio faceva risultare come veicoli di scorta, auto private che sono poi state multate ai varchi d’accesso della zona a traffico limitato del centro storico di Roma. Il sequestro preventivo riguarda anche la società di autonoleggio per circa 800 mila euro.

I legali di Lotito: «Clamoroso equivoco». «Si tratta di un clamoroso equivoco che verrà prontamente chiarito nelle sedi competenti». È quanto tengono a precisare i legali del presidente della Lazio, Claudio Lotito, in merito alle notizie relative all’inchiesta per le contravvenzioni del Comune di Roma. In una nota diffusa dal club biancoceleste, gli avvocati precisano ancora «che le cifre contestate si riferiscono a multe di circa 15 mila euro divenute di 26 mila euro per effetto delle sanzioni previste dalle cartelle, che riguardano macchine intestate a società di cui il presidente è socio».

Nel 2015, indagato per tentata estorsione. Anche agli inizi del 2015, Lotito venne indagato per tentata estorsione. Il provvedimento era scattato nell’ambito dell’inchiesta sulla telefonata intercorsa nel mese di febbraio tra Lotito e Pino Iodice, dg dell’Ischia, nella quale il presidente della Lazio e vicepresidente federale si augurava che piccole squadre come il Carpi e il Frosinone non approdassero in serie A per non compromettere l’incasso dei diritti televisivi del campionato. «Contro di me - si era difeso Lotito - campagna diffamatoria e calunniosa. Vogliono fermare la riforma del calcio».

Roma, 197 indagati per multe cancellate illegalmente per 16 milioni di euro. Tra loro anche Lotito, presidente della Lazio. All'imprenditore, indagato per concorso in falso e truffa, sono stati sequestrati 26mila euro. Coinvolti anche l’ex responsabile del dipartimento risorse economiche del Comune di Roma assieme ad altri tre dipendenti. Tra i beneficiari, si legge nelle carte dell'inchiesta, anche “presidenza del Consiglio dei Ministri, Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Regioni, Province e Comuni, Prefetture ed Autorità Giudiziarie”, scrive Vincenzo Bisbiglia il 28 Gennaio 2019 su "Il Fatto Quotidiano". Qualcuno prova già a suggerire l’appellativo di “multopoli”. Ad oggi si sa solo che ci sono 197 indagati e che i disgravi illegittimi potrebbero raggiungere quota 16,5 milioni di euro. Denaro sottratto ingiustamente alle casse del Comune di Roma, con la compiacenza di dirigenti e funzionari. Persone, i beneficiari, che secondo quanto scrive la Procura di Roma sarebbero “non estranee” a enti, organi o corpi di polizia come “presidenza del Consiglio dei Ministri, Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Regioni, Province e Comuni, Prefetture ed Autorità Giudiziarie”, le quali potrebbero aver abusato della loro posizione per farsi cancellare multe prese non nell’esercizio delle loro funzioni, bensì da semplici cittadini. Sarebbero ben 132.679 le voci di ruolo sospette su cui in questi anni sono concentrate le indagini condotte dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Francesco Dall’Olio. Al centro dello “scandalo” un ex vigile poi divenuto dirigente del Comune di Roma, Pasquale Libero Pelusi, che – con la complicità di due sue sottoposte – dal gennaio 2008 al maggio 2015 avrebbe eliminato le sanzioni dal sistema informatico capitolino accontentandosi di giustificazioni “fittizie” rese dai protagonisti. Il primo provvedimento preso dal Tribunale di Roma è arrivato il 17 gennaio scorso, con il decreto di sequestro per circa 1 milione di euro nei confronti di alcuni imprenditori e Società romane che si erano fatte togliere decine di multe.

IL PRIMO DECRETO DI SEQUESTRO – Abusi perpetrati sulla base di ricorsi fittizi dove gli intestatari dei veicoli rendevano anche giustificazioni false. Fra questi Claudio Lotito, titolare di due società, la Roma Union Security srl e la Snam Lazio Sur srl. Dal decreto di sequestro preventivo nei confronti di alcuni degli indagati, si evince come il presidente della Ss Lazio – che dal telefono intestato al club biancoceleste parlava direttamente con i funzionari capitolini – nelle sue richieste di disgravio affermasse che “le infrazioni erano state commesse da autovetture impegnate nel dispositivo di tutela dello stesso” mentre, “nella realtà, si trattava di veicoli utilizzati per finalità aziendali, intestati alle citate società” e che procuravano a queste “un ingiusto profitto”, per un totale di oltre 53.000 euro. Oltre alle aziende di Lotito, la Procura ha disposto il sequestro per beni e conti correnti legati ad altri imprenditori e società che si occupano per lo più di vendita, noleggio e leasing di autovetture, in particolare Davide Colaneri (792.000) titolare del noto Gruppo Colaneri, la Finrama srl, la Codasan e l’Europa Rent srl. In solido sono stati chiamati a rispondere Pelusi, all’epoca dei fatti diventato dirigente dell’Ufficio Contravvenzioni, e le sue sottoposte Laura Cirelli e Maria Rita Rongoni.

IL CARABINIERE E IL POLIZIOTTO – Come detto, la pratica attribuita al patron biancoceleste era parecchio diffusa. Anche fra persone legate alle forze dell’ordine. E’ il caso di un carabiniere in pensione e di un poliziotto, che secondo gli inquirenti avrebbero “prodotto falsa documentazione giustificativa, recante le intestazioni ed i timbri di reparti di forze di polizia”, come commissariati e caserme dei Carabinieri, utilizzati “a supporto degli indebiti discarichi nell’ambito del sistema truffaldino in uso presso il Dipartimento Risorse Economiche di Roma Capitale”. Non è un caso che una delle sanzioni stralciate fosse stata elevata alla moglie del carabiniere, grazie a una richiesta formalmente intestata alla Stazione Salaria. In generale, nei verbali allegati al decreto si evince come spesso la richiesta di disgravio venisse giustificata con la voce “servizio di polizia giudiziaria” anche in riferimento a chi non poteva essere minimamente riconducibile a qualsiasi forza di polizia.

LA “FIRMA AD ONDA” DI PELUSI – In tutto questo sistema, secondo gli inquirenti era centrale il ruolo dei dipendenti capitolini i quali “formavano false richieste di discarico delle cartelle esattoriali”, spesso “riportando quali firme dei diversi richiedenti tratti di scrittura del tutto similari, comunque non leggibili, individuati da una cosiddetta ‘firma ad onda’ per velocizzare le operazioni indebite”. Tutto ciò “abusando dei poteri di pubblici ufficiali”. E’ per questo che ora la Procura dovrà verificare, una per una, le oltre 130.000 multe disgravate in 7 anni dall’ufficio guidato da Pelusi per capire quante e quali di quelle sanzioni siano state oggetto delle stesse pratiche fin qui accertate dagli inquirenti.

“Mobbizzata, non piegata così ho denunciato la lobby delle multe azzerate ai vip”. Parla l’impiegata del Comune di Roma che ha smascherato la multopoli del Campidoglio, scrive Lorenzo D'Albergo il 31 gennaio 2019 su La Repubblica. Non vorrebbe parlare, preferirebbe "lasciar passare del tempo" per riprendere fiato. Poi la funzionaria che ha portato alla luce la Multopoli del Campidoglio prende a raccontare. Ricorda le angherie subite, la scoperta dei timbri falsi delle forze dell'ordine utilizzati per annullare migliaia di multe per il passaggio nelle Ztl del centro storico, la visita ai pm della Corte dei Conti per denunciare un danno da 16 milioni di euro. "È stata dura, durissima. Ma adesso va meglio". Tira un sospiro di sollievo, chiede l'anonimato.

Avrà letto i giornali.

"Certo. E poi ci sono le carte della procura. Lì dentro ci sono tutti i documenti che raccontano quello che ho passato, il mobbing che ho subito da chi ora è indagato".

L'hanno sospesa, demansionata, punita con la censura e persino querelata. Si è difesa in qualche modo dalle accuse dei suoi vecchi superiori?

"È partita una causa di lavoro ovviamente, ho dovuto tutelarmi. Chi mi accusa è stato sospeso? Non lo so, fino a qualche giorno fa erano ancora tutti in servizio. Adesso non so più".

E di chi si faceva cancellare le multe cosa pensa? Nella lista ci sono vip, principesse, avvocati e dirigenti.

"Persone che non avrebbero avuto nemmeno bisogno di ricorrere a un sistema del genere. Cosa le devo dire... Ho lavorato per anni a contatto con il pubblico occupandomi di multe e sanzioni, un lavoro impegnativo. Ho ascoltato migliaia di storie, le lamentele quotidiane di chi denunciava disservizi. Parole di cittadini normali. Poi c'era questo mondo parallelo".

Che lei ha denunciato.

"Quando ho capito che più di qualcosa non tornava mi sono rivolta alla Corte dei Conti, ricordo bene quel giorno".

Sui social i romani la lodano per il suo coraggio.

"Questo non lo sapevo. Mi fa piacere, come tutte le chiamate che mi sono arrivate dagli amici che conoscono la mia storia. Sanno quello che ho patito e come me aspettavano l'esito delle indagini".

Ha sentito la sindaca Virginia Raggi?

"Sono stata convocata (l'incontro tra le due è avvenuto ieri pomeriggio in Campidoglio, ndr) e per me è davvero una grande soddisfazione".

Cosa significa per lei, specie dopo tutto quello che ha passato?

"Che non per forza deve valere il luogo comune che il dipendente pubblico è truffaldino. In Campidoglio ci sono tante persone competenti e poi, non lo nascondo, ci sono anche tante dinamiche da sistemare. Quello che le cronache tante volte non dicono è che ci sono anche tanti giovani che lavorano con dedizione. Le nuove leve sono in gamba, preparatissime. L'importante è che gli onesti vengano messi in condizione di fare bene".

E lei?

"Io sono qui già da un bel po'. Ora, però, ho cambiato ufficio e, di fatto, lavoro. Dopo quella storia è stato meglio così. Pensi che qui qualcuno dei nuovi colleghi neanche conosce tutta la mia storia. E forse è un bene. Voglio solo lavorare e su questo punto non posso proprio lamentarmi. Qui c'è sempre tanto da fare".

Far West Italia: 43 mila auto fantasma libere di violare il codice della Strada. Sono quelle intestate a 300 prestanome. Ma i numeri si riferiscono solo alle macchine scoperte, in realtà sono almeno il doppio. Impossibile fermarle perché manca una legge, scrive Vincenzo Borgomeo il 29 gennaio 2019 su "La Repubblica". Non pagano multe, cartelle esattoriali e pedaggi autostradali per 120 milioni l’anno, fanno quello che vogliono sulle nostre strade e in più evadono completamente bollo e assicurazione. Benvenuti nel pianeta delle auto fantasma, quelle intestate ai prestanome. In Italia fino ad oggi le forze dell’ordine ne hanno stanate 43 mila, ma si stima che siano almeno il doppio. E, quindi, anche il conteggio dei “danni” economici dovrebbe essere raddoppiata. Ma lasciamo stare le stime. E torniamo ai numeri certi. Quelle 43 mila auto sono tutte intestate ad appena 300 tra persone fisiche e società. Un elenco da brividi. E colpisce sentire le parole di questi prestanome. Uno di questi, addirittura, davanti al giudice che gli chiedeva riferimenti di chi avesse davvero le “sue” auto, rispondeva con tranquillità “confermo di aver effettuato i passaggi di proprietà per conto di cittadini italiani ed extracomunitari, quest’ultimi regolari o irregolari sul territorio italiano, dietro compenso di 20/30 euro. Per cui ricoprono solo la funzione di PRESTANOME”. Come se fosse un normalissimo lavoro. Che fare? Le armi sono spuntate, mancano i decreti attuativi previsti da una legge del 2010 che modificava il codice della strada con l'art. 94. Quindi, al momento, è possibile solo impedire che questi prestanome, una volta individuati, possano ancora intestarsi altri mezzi, come stanno facendo alcune procure. E basta. “Oggi in pratica Polizia Stradale, Arma Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizie Locali – ci ha spiegato Luigi Altamura, capo della municipale di Verona e rappresentante di tutte le polizie locali dell’Anci - sono tutte impegnate con pochi mezzi giuridici a svuotare un mare pieno di pesci (auto) di proprietà in pratica di nessuno... Ma i pesci sono dei piranha, fanno danni enormi. Dalla pirateria stradale all'utilizzo per commettere rapine e furti in casa, furti dei bancomat, trasporto di droga o di persone irregolari sul territorio nazionale o legati alla criminalità organizzata”. Così il fenomeno dei "prestanome" dilaga. E di questa nuova “professione” mancano perfino i contorni. D’altra parte chi - dietro un pagamento di una somma ridicola – si intesta un’auto spesso non ha neppure la patente (figurarsi se comunicheranno mai i dati della patente di chi era alla guida mentre sfrecciavano ai 180 km/h di un autovelox dopo aver sfondato un bancomat…). E poco o nulla dichiara al fisco. E anche il sequestro dei veicoli non serve quasi a nulla. Sfogliando l’elenco di queste 43 mila auto si scopre le macchine sono solo dei catorci di pochissimo valore. Ma c’è di più: clamorosamente molte targhe di queste auto fantasma sono inserita nelle banche dati del Ministero dell'Interno per essere sequestrata e poi confiscata, ma le Polizie Locali non accedono allo SDI. “In ogni caso – spiegano all’Asaps, associazione amici polizia stradale - anche questi provvedimenti amministrativi ex art. 94 cds non frenano il fenomeno. Avevamo proposto per questo un’aggravante specifica in caso di omicidio stradale provocata da un veicolo intestato a prestanome. Ma non se ne è fatto nulla”. Peccato. Intanto un numero sempre crescente di automobilisti guida come nel far west, coperti dalla totale impunità.

·         Civitavecchia ed una storia incredibile d’ingiustizia.

 

Civitavecchia, l’incredibile storia di un ragazzo romano tra furia giudiziaria e angherie in carcere. È detenuto a Civitavecchia, è affetto da tossicodipendenza da cocaina, non ha mai spacciato. È stato aggredito dal suo compagno di cella, scrive Damiano Aliprandi il 22 Febbraio 2019 su Il Dubbio. È alla sua prima carcerazione in custodia cautelare, teoricamente non dovrebbe nemmeno starci ed è stato picchiato selvaggiamente da un suo compagno di cella (provocandogli ecchimosi su tutto il corpo e cinque punti di sutura al cranio) nonostante avesse segnalato che mostrava segni evidenti di squilibri. Un caso segnalato a Rita Bernardini del Partito Radicale dall’avvocato Davide Vigna che desta stupore, perché emergerebbero delle vere e proprie ingiustizie nei confronti del detenuto su diversi profili. Si tratta di un uomo, romano, da anni affetto di tossicodipendenza da cocaina. Non è uno spacciatore, ma amava condividere l’uso della sostanza stupefacente con alcuni suoi amici e la cedeva la maggior parte delle volte a titolo gratuito, quindi non per trarne profitto. Per la legge è sempre spaccio, ma non di grave entità visto che, appunto, non è la sua fonte di guadagno. Anche perché lavorava, verbo utilizzato al passato visto che dopo l’arresto ha perso il lavoro.

UNA CUSTODIA CAUTELARE DA EVITARE. Viene tratto in arresto il 6 febbraio scorso e rinchiuso nel carcere di Civitavecchia, ed è la sua prima esperienza di custodia cautelare. Ma i fatti sono precedenti a una condanna del 2017 con la sospensione condizionale della pena. Non solo, questi fatti emergono proprio dall’indagine condotta in quel contesto, due anni fa. Perché applicargli ora la misura cautelare più grave? La sua storia è semplice, dice l’avvocato Davide Vigna a Il Dubbio. «Lui era già stato arrestato in flagranza nel 2017- spiega l’avvocato – e l’abbiamo capito ora come avvenne: all’epoca era stato intercettato un suo amico e gli inquirenti captarono una telefonata in cui il mio assistito avrebbe dovuto cedergli della cocaina: alla cessione i carabinieri lo arrestavano in flagranza, però, siccome si trattava di quantitativo non elevato e lui era anche consumatore, il giudice lo mandò agli arresti domiciliari fin da subito e poi gli sostituì la misura con l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria».

L’uomo aveva anche ammesso il fatto che gli veniva contestato e cosi, scelto il rito abbreviato, il giudice lo condannò con la concessione della sospensione condizionale della pena, riconoscendogli il comma V dell’art. 73 dpr 309/ 90, quello per la lieve entità del fatto. Precisamente si trattava di una sola cessione di cocaina: il giudice lo condannò a 2 anni con pena sospesa, perché emerse nel giudizio che la sua condotta era inserita in un contesto di uso personale, come venne anche provato dalle risultanze degli appostamenti dei carabinieri, che lo avevano arrestato. Era il 2017. A febbraio di quest’anno, viene arrestato in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare. Riferisce sempre l’avvocato Davide Vigna: «Mi leggo l’ordinanza e apprendo che erano stati acquisiti dei tabulati sulla sua utenza telefonica a seguito dell’arresto e che riferiscono pertanto di fatti che erano tutti avvenuti in precedenza rispetto all’arresto». Dai tabulati, prosegue l’avvocato, emergeva che i suoi acquirenti erano persone che lo conoscevano, degli amici, e, sapendo che era un consumatore e che aveva la disponibilità della cocaina, se la facevano cedere per lo più a titolo gratuito e il più delle volte la consumavano insieme a lui. È evidente che l’ordinanza riguarda fatti pregressi a quelli per cui l’uomo già è stato condannato ed «è pacifico che si tratti di fatti che andrebbero in continuazione con quelli della sentenza del 2017», osserva l’avvocato. Si fa riferimento all’istituto del reato continuato, il quale prevede che, per i fatti analoghi commessi in uno stesso periodo in quello che è definito “il medesimo disegno criminoso”, la pena complessiva sia calcolata prevedendo quella per il reato più grave aumentata con una somma ritenuta di equità dal giudice. Per questo motivo, «i fatti per cui è stato oggi arrestato non andrebbero ad incidere neanche tanto sulla pena dei 2 anni con la continuazione», ribadisce l’avvocato Vigna. In sostanza anche quelli di questa ordinanza che l’hanno condotto in carcere, non possono che essere anch’essi di lieve entità, quelli del comma V dell’art 73 del dpr 309/ 90: ma nell’ordinanza attuale c’è scritto che non sono concedibili gli arresti domiciliari perché la sua abitazione è luogo di spaccio. Ciò, a fronte di un dato che corre in versante opposto: l’uomo, dal 2017 non ha più commesso reati, ma non solo: quella casa è stata venduta, tant’è che egli ha trascorso quest’ultimo anno in Spagna, partito dopo la sentenza da uomo libero, e quando i Carabinieri andarono a cercarlo, in quella casa ci trovarono non lui ma un’altra famiglia.

IL PESTAGGIO E IL COLLOQUIO VIETATO. Lunedì scorso uno degli avvocati dello studio Vigna è andato a fare un colloquio con l’assistito, ma la scena che si è ritrovata davanti agli occhi è stata scioccante: l’uomo si presentava con indosso un collare ortopedico, plurime ecchimosi di colore viola intenso e escoriazioni in tutto il corpo, una ferita in testa nella quale pare siano stati applicati 5 punti di sutura, oltreché visibilmente stravolto. Cosa gli era accaduto? La settimana precedente è stato picchiato dal compagno di cella appena era rientrato dal passeggio. Gli ha scaraventato contro lo sgabello di legno posto all’interno della cella, per poi saltargli addosso mentre era caduto a terra per il colpo subito e ha continuato a riempirlo di calci, pugni e graffi sino all’intervento dell’agente di polizia penitenziaria che a sua volta è stato aggredito del detenuto. Eppure l’aggressore già era stato segnalato dall’uomo, in quanto mostrava fin da subito segnali di squilibrio. Appena l’hanno messo in cella, dava testate al muro, lo fissava e urlava. Quando è accaduto il pestaggio non si è avuta alcuna comunicazione ufficiale da parte delle autorità alle quali lo stesso è affidato in custodia. Grazie ad una chiamata anonima effettuata dal carcere, l’avvocato si è allarmato ed è andato a trovare il suo assistito lunedì scorso. Senza quella chiamata, nessuno se ne sarebbe accorto visto che non era in programma nessuna visita. «Faremo causa civile – spiega l’avvocato Vigna – perché c’è un obbligo di protezione, visto il principio costituzionale di tutela dei diritti inviolabili della persona anche in regime di detenzione». A questo si aggiunge il fatto che per giorni il carcere non ha dato l’autorizzazione alla sorella del detenuto di farle effettuare un colloquio, nonostante che nell’ordinanza applicativa non erano state disposte alcune limitazioni. Ma non solo. Grazie alla sollecitazione dell’avvocato, la cancelleria del GIP aveva inoltrato al carcere l’autorizzazione esplicita di fare i colloqui. Giovedì scorso, la cancelleria aveva mandato una pec con l’ovvia comunicazione del nulla osta ai colloqui: tuttavia, anche il giorno dopo, avevano negato alla sorella di fare il colloquio. Solo dopo, una volta riferito che la cancelleria ha detto che ha mandato da tempo la pec, gli agenti le hanno dato il permesso con tanto di scuse. Ora due sono le istanze per chiedere la scarcerazione e la misura alternativa. A breve il responso.

SOLITO ABRUZZO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Questo è l’Abruzzo.

Se l'Aquila vuole una cultura varia e non faziosa. Le polemiche sul programma del festival della Cultura nella città colpita dal sisma riaccende i riflettori sulla supremazia culturale della sinistra. Davide Rondoni il 17 settembre 2019 su Panorama. Chiedetelo a un qualsiasi contadino. Se dai a qualcuno 700.000 euro per mettere a frutto un campo e quello torna e ti dice: ok, ho pensato di piantare solo rape, beh qualche dubbio ti viene. Le rape saranno buonissime e importanti per carità, ma solo rape? diversificare un poco no? Ecco, deve averlo pensato anche il Sindaco dell'Aquila Pierluigi Biondi quando, in procinto di stanziare i 700.000 euro alla agenzia di eventi vincitrice di un bando nato dal suo Comune con il Ministero dei Beni Culturali per un festival culturale a dieci anni di Sisma dell'Aquila si è visto presentare un programma (anzi nemmeno, solo una bozza, dice lui)  tutto orientato culturalmente in quell'area da sinistra fucsia che va da Zerocalcare a Saviano. "Variare un po', no?" ha detto il primo cittadino, "magari mettendo figure diverse in dialogo ?". Del resto si chiama "festival degli incontri", si tratta di una manifestazione per fare memoria di un grave Sisma, quindi di una cosa che riguarda tutti...Il sindaco avrebbe voluto discuterne con la designata vincitrice del concorso per la direzione artistica (700.000 euro non proprio bruscolini), ma la signora Silvia Barbagallo, un pedigree da organizzatore culturale di tutto rispetto, non si sarebbe fatta vedere, limitandosi (pare) a mandare dal Sindaco un emissario con una bozza (ancora incompleta). In compenso però la curatrice del Festival degli incontri - titolare di una agenzia che, dice il Sindaco, ha tra i suoi clienti il Gruppo Espresso e che produce mostre di ZeroCalcare - ha tempo per dettare alle agenzie una dichiarazione dove ritrae Biondi come "censore etc". Scoppiano polemiche, e l'Aquila diviene epicentro di una bagarre che poco c'entra con il rispetto per le vittime di un terremoto. La vicenda è, come sempre nella cultura italiana, comfusa e avvelenata dalle ideologie. Da un lato la supponenza di chi - costruendo carriere entro un ambiente di incarichi privati e pubblici, finanziamenti etc dominato dalla cultura di sinistra, il che beninteso non è una colpa, ma un fatto - non ritiene possibile che a qualcuno non piaccia un fumettaro che inneggia a chi a Genova tirava estintori contro i Carabinieri, o non gradisca uno come Saviano, peraltro condannato per plagio (il che consiglierebbe a qualsiasi direttore artistico serio di non invitarlo a manifestazioni culturali) . E che invece di discutere, chiama ogni obiezione "censura" quasi come un riflesso condizionato. Ci sono troppi finti martiri nella cultura italiana. Gente che viene invitata ovunque, ben foraggiata da giornali, tv, festival etc e che straparla di censura, di libertà in pericolo, ogni volta che ricevono una critica o un no. Di fronte alla esperienza di veri intellettuali censurati, da Cuba all'Iran, dall'Urss, alla Cina, al Venezuela dovrebbero vergognarsi. (A proposito di Venezuela, dove sono finiti tutti i nostri intellettuali che inneggiavano al dittatore Chavez in visita alla festa del cinema di Venezia? Riescono a guardarsi allo specchio?). Dall'altra parte, ci sta un Sindaco forse non ben supportato sulle vicende culturali (e non certo un censore: a l'Aquila parlano e cantano tutti basta vedere i programmi) che giustamente vuole una manifestazione culturale - tantopiù in una occasione del genere -  plurale e vivace. Curiosamente, da parte di chi parla di libertà in pericolo e di censura la linea difensiva del proprio operato, stando ai media, si fa attraverso l'esibizione di carte bollate e sigilli, verbali ministeriali e comunali. Cioè sei un censurato ma coi sigilli di approvazione dell'ente pubblico, fammi capire...O forse non è censura, è confronto democratico tra Istituzioni, è, insomma, che non fai quel che ti pare coi soldi pubblici, non censura ma democrazia, dura e forte. Il fatto è che un Sindaco con gli attributi mette in discussione un patto non scritto e ormai stantìo nella vita pubblica della cultura italiana. Infatti la cultura orientata a sinistra in Italia ha goduto in questi quarant'anni di un formidabile apparato produttivo. Le cause sono tre: primo, e voglio dirlo chiaro, alla sinistra, almeno alle sue èlite, la cultura interessa. Più che a molte persone di destra e alle sue èlite, molto più che ai preti, molto più che a tanti cattolici, e molto più che a una parte moderata della mutante borghesia italiana. Il primo motivo per cui la cultura orientata a sinistra è forte, lo ripeto, non sta in una forza politica o di prebende, ma nel fatto che nel DNA della sinistra italiana, per molti motivi storici e ideologici, il lavoro culturale è rilevante. Tutti noi che in Italia abbiamo letto qualcosa siamo culturalmente di sinistra. È inevitabile, è giusto, è così. Non che non ci fosse un'altra possibilità, ma non c'è stata. Un secondo motivo dell' egemonia è stata nella capacità, come in altri ambiti, di creare un cortocircuito efficace tra uso dei beni pubblici e nuovi privati che ne hanno preso abbrivio imprenditoriale, riuscendo nei casi di maggior professionismo a assestare attività di tutto rispetto in tale campo. Infine una fittissima trama di lavoro tra media di riferimento e ambiti culturali, una attenzione di tipo mediatico al lavoro culturale che altri media non orientati a sinistra (privati o pubblici) mai o quasi hanno dato. Ora tutto questo in molti casi degenera in una specie di scontatezza culturale, in una pigrizia da posizione acquisita. in un senso di superiorità che, si è visto spesso, non interpreta  più adeguatamente  la realtà del mondo e del popolo italiano e però presume d'esser intangibile e non criticabile. Ora lo fa un signore che il popolo di una città ferita ha scelto come loro sindaco in un momento difficile. La critica insomma non viene da un intellettuale invidioso o da un giornalista di parte, ma da uno che si confronta con un dramma immenso, che sta spendendo la sua vita tra calcinacci dei muri e calcinacci delle anime. Forse la cultura si vede anche in questo ascolto. Forse la cultura è coltivare un campo in modo vario, non fazioso.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Napoli nelle canzoni.

Napoli nelle canzoni: un sondaggio per scegliere quella più bella. Pino Daniele, Dalla, Cotugno, Califano, Zero, Pooh e New Trolls. Ma anche D'Angelo, Mattone, De Sio e, in tempi recenti, i 99 Posse e la crew Charlies Charles con Mamhood e Sfera Ebbasta. Paolo Popoli il 20 agosto 2019 su La Repubblica. Napoli è per antonomasia la patria di canzoni tra le più note e amate al mondo. Ma quali sono quelle dedicate alla città, che parlano di lei, e che restano maggiormente nel cuore degli ascoltatori? Impossibile ricordarle tutte. I suoi vicoli e le sue atmosfere hanno ispirato i "mille culure" di un giovane Pino Daniele in "Napul'è", mentre i suoi panorami e i suoi dintorni tornano con Lucio Dalla in "Caruso". Ci sono poi il tifo per gli azzurri con Nino D'Angelo, la vivacità di "'A città 'e pulecenella" di Claudio Mattone, la dolce nostalgia di "Voglia 'e turnà" di Teresa De Sio. Hanno cantato Napoli Toto Cutugno, Franco Califano, Renato Zero, i Pooh, i New Trolls, i Negrita e in tempi più recenti i 99 Posse e la crew Charlies Charles con Mamhood e Sfera Ebbasta. Sconfinato è il repertorio dei classici, in testa "'O sole mio". E tanti sono gli omaggi dal mondo come "Luna rossa" di Caetano Veloso o "Una notte a Napoli" dei Pink Martini

Pino Daniele - Napul'é

Lucio Dalla - Caruso

Claudio Mattone - A città 'e Pulcenella

Eduardo Di Capua, Giovanni Capurro - 'O sole mio

Teresa De Sio - Voglia 'e turnà

Nino D'Angelo - Napoli

99 Posse - Napoli

Renato Zero - Nanà

Charles Charles, Mamhood e Sfera Ebbasta - Calipso

Pink Martini - Una notte a Napoli

·         Napoli-Portici: 180 anni fa la prima ferrovia italiana.

Napoli-Portici: 180 anni fa la prima ferrovia italiana. Il 3 ottobre 1839 Ferdinando II di Borbone saliva sul primo treno della penisola. Realizzata e gestita dal francese Bayard era lunga 7,25 Km. Edoardo Frittoli il 3 ottobre 2019 su Panoramka. Sette chilometri e 250 metri. Tanto era lunga la prima ferrovia d'Italia inaugurata 180 anni fa da Ferdinando II di Borbone, Re delle Due Sicilie. Collegava la città di Napoli con l'abitato di Portici, lungo il litorale partenopeo in direzione Sud. Il 3 ottobre 1839 le autorità civili, militari e religiose che accompagnavano l'ultimo sovrano della Napoli preunitaria si trovarono in compagnia di una folla festante ed emozionata presso la prima stazione ferroviaria operativa sul territorio della penisola. La tratta del "cammino di ferro" (italianizzazione del francese "chemin de fer") copriva il percorso dalla città partenopea alla prima stazione di Granatello di Portici, dove Ferdinando II aveva una delle sue residenze estive. Il progetto fu affidato all'ingegnere francese Armand Joseph Bayard De La Vingtrie che a proprie spese ed in cambio dei proventi di 99 anni di concessione della linea (poi ridotti ad 80), avrebbe dovuto provvedere alla progettazione e alla costruzione della ferrovia entro 6 anni, tempo limite che comprendeva anche la valutazione e la liquidazione anticipata degli espropri di terreno. Ad appena 7 anni dalla realizzazione della prima strada ferrata del mondo, la Manchester-Liverpool del pioniere delle locomotive a vapore George Stephenson, i progettisti di Bayard si misero all'opera per progettare una ferrovia che collegasse Napoli con Nocera Inferiore, comprendendo una diramazione per Torre Annunziata e Castellamare di Stabia. Il materiale rotabile fu ordinato ad una ditta inglese, la R.B. Longridge and Company di Northumberland, che fornì due locomotive note a Napoli con il nome del padre del progetto, le "Bayard". Si trattava di due motrici a vapore molto simili alla prima "Rocket" di Stephenson. La prima locomotiva d'Italia, battezzata opportunamente "Vesuvio", giunse via mare mentre le carrozze (sia chiuse che aperte) furono prodotte in loco presso i Regi Opifici di Pietrarsa, così come le rotaie in ferro battuto (e non in ghisa) da 25 kg/m. Le locomotive sviluppavano una potenza massima di 65 Cv grazie alla spinta assicurata dai due cilindri esterni. La velocità di esercizio per i tempi era a dir poco strabiliante: 50 Km/h, contro una media dei veicoli a trazione animale di circa 4 Km/h. Il tracciato era praticamente piatto e il raggio di curvatura compreso tra i 1.400 e i 3.000 metri e veniva coperto da stazione a stazione in circa 11 minuti. Per quanto riguarda le stazioni, quella di Napoli (ancora in fase di costruzione il giorno dell'inaugurazione) fu edificata lungo le mura cittadine tra la Porta del Carmine e la Porta Nolana nell'odierno Corso Garibaldi. Il 3 ottobre 1839 dei due binari previsti per la Napoli-Portici soltanto uno era operativo e pronto ad ospitare il primo convoglio della storia ferroviaria italiana, che mosse da Granatello di Portici tra la folla festante e la banda dell'Esercito borbonico stipata sul primo vagone alle spalle del tender. Alla messa in esercizio della Napoli-Portici, il contratto di concessione alla società dell'ingegnere francese prevedeva anche il piano tariffario: 5 Grani (equivalenti a 1/10 di Carlino) per la prima classe fino ai 2 Grani per la terza classe, che prevedeva il viaggio su vagoni scoperti e senza sedili. Sulla linea furono previsti anche singolarissimi vagoni piattaforma che potevano ospitare le carrozze dei viaggiatori più facoltosi senza che questi dovessero scendere per trasbordare sul treno. La storia della linea voluta dal Re (ma pagata da un imprenditore straniero) rispecchiava in pieno il pensiero altalenante di Ferdinando II sugli investimenti infrastrutturali, forgiati dalla inclinazione colbertiana in campo economico-finanziario. L'ultimo sovrano del Regno delle Due Sicilie (se si esclude la brevissima reggenza del figlio Francesco durato meno di due anni), considerato uno tra gli ultimi baluardi dell'assolutismo e del protezionismo, considerò sempre la ferrovia come un vettore semplicemente funzionale nello spostamento rapido di uomini o merci, sottovalutandone il potenziale strategico-militare a nettissimo vantaggio dei grandi investimenti statali a favore della Marina borbonica. Ciò nonostante, concesse a Bayard il prolungamento della linea ben 10 anni dopo l'inaugurazione della Napoli-Portici. Oltre alle esitazioni del Governo di Napoli, le oggettive difficoltà orografiche che l'entroterra della Campania presentava impedirono di poter realizzare in tempi rapidi una strada ferrata che collegasse la capitale alla Puglia e alla Calabria. Le vicende delle ferrovie campane seguirono così inevitabilmente il rapido approssimarsi della fine del Regno borbonico e la ferrovia nata nel 1839 arrivò a stento a Cava dei Tirreni nel 1858. Due anni dopo, Giuseppe Garibaldi entrò a Napoli viaggiando proprio sulla linea inaugurata vent'anni prima. La stazione Bayard fu utilizzata fino alla costruzione di Napoli Centrale attivata nel 1867 al fine di unificare le due linee allora ancora separate tra Nord e Sud. Da allora sarà relegata a ruoli secondari. Durante uno dei molti violenti bombardamenti su Napoli del 1943 l'edificio della stazione Bayard fu gravemente danneggiato e di seguito abbandonato. Si trova ancora oggi in stato di rudere a fianco della Stazione Nolana della Circumvesuviana, che passano lungo quei sette chilometri dove 180 anni fa Napoli fu prima tra tutte le città italiane.

·         Achille Lauro: il re della nobile Napoli.

Vittorio Feltri per Libero Quotidiano il 2 dicembre 2019. Ho inseguito a lungo questo libro, dopo averne letto la seduttiva presentazione di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Era tanto tempo fa. Più di un mese, che per una novità editoriale è un' eternità. Cercato in libreria, niente da fare. Titolo strambo, credo anglo-arabo: Naploitation. L' autore una garanzia di serietà e limpidezza di prosa e di testa: Marco Demarco. La dimensione incoraggiante: 138 pagine, prezzo basso, 12 euro. Dopo aver lavorato all' Unità, e aver fondato con Paolo Mieli il Corriere di Napoli nel 1997 con Paolo Mieli, è stato richiesto dalla casa madre e ne è diventato la spina dorsale invisibile. Poca scrittura, lavoro faticoso e inventivo da "culo di pietra". Ora è rientrato a Napoli, mi dicono per una nuova avventura giornalistica. In occasione del ritorno, ecco un volume che Cazzullo descriveva assai urticante se le medesime tesi fossero state esposte da un nordista. È uno di quei napoletani che a Milano hanno illustrato magnificamente la dote connessa alla milanesità, la laboriosità non lamentosa, mai annoiata. Nel giornalismo questa città ha goduto di casi favolosi, Giuseppe Marotta, e quindi Gino Palumbo e Gaetano Afeltra, per me autentici maestri. Hanno obbedito a quella Madonnina d' oro che si ergeva sopra la nebbia (quando c' era), che non è discesa dal cielo come le altre, ma si è arrampicata in cima alle guglie, e se ne sta lì con le braccia aperte e le maniche sempre rimboccate. Così diversa dalle Madonnine partenopee per lo più col cuore spezzato e le sette spade infilate nel petto. Le ricordavo quelle figure, in giro per strade e vicoli, spericolatamente appeso alla Vespa di Paolo Isotta, e le ritroverò poi nel volume. Esse sono tantissime, mai tese a spingere all' azione, ma a conservare. «Mollette di ferro» che tengono insieme una città e classi sociali che altrimenti si disfarebbero. Demarco cita non so quale urbanista: «Il blocco delle abitazioni è tenuto insieme, agli angoli, da immagini murali della Madonna, quasi fossero mollette di ferro». La Vergine Maria è simbolo della napoletanità, una parola che fu criticata aspramente da Raffaele La Capria, per la sua vuotezza, perché alla fine è un alibi per contemplare le rovine, in un rimpianto fatuo. Invece a Milano, ma anche a Bergamo, di cui sono figlio orgoglioso di esserlo, la coesione sociale non ha bisogno di teorizzazioni.

LA MILANESITÀ. Esistono la milanesità e la bergamaschità, però si preferisce dispiegarle in opere, opifici e oggi grattacieli e metropolitane, musei antichi e resi lindi, autobus e tram puntuali, piuttosto che in dialoghi di profondità esasperanti. Non è questione di ridurre la vita a lavoro e soldi, fabbrichetta e investimenti, ma di impregnare le cose quotidiane, anche affari, produzione e commercio, ma pure cultura, di senso pratico, di desiderio di prosperità persino un po' ironica. Per questo mi serviva leggere, e mi è servito davvero, leggere anzi divorare questo libro: dovevo regolare i miei conti con Napoli e i napoletani. È un paradosso della mia vita. Passo per un anti-napolitano, perché oso scrivere e far scrivere contro l' abusivismo, le complicità della camorra, l' inettitudine delle classi dirigenti, e la passività del popolo che se li conserva come se fosse la teca di San Gennaro. Non vedo contraddizione con il fatto che i pochi amici che ho sono - quasi tutti - meridionali e napoletani in particolare. Oriana Falalci ne ricaverebbe la battuta che io faccio scappare gli amici come la peste, per cui il fatto che Paolo Isotta, per dirne uno e il più geniale di tutti, abiti lontano, lo preserva dalla fuga e dai litigi. In realtà, come in tutti i veri amori, dopo il fuoco, si sta meglio lontani, probabilmente. Sono arrivato in ritardo a scrivere di questo libro, qualità direi meridionale, poco lombarda senz' altro. In libreria? Da qualche parte dice il commesso: «Esaurito!», altrove: «Mai visto». Chiedo che verifichino al computer. Nessuna copia neppure dal distributore. Da Libero, Lucia Esposito, capo della cultura, napoletana dell' Arenella, scrive alla casa editrice. Nessuna risposta. Riscrive: niente. Telefona: zero. Invece di sfruttare il successo meritatisssimo, ristampandolo al volo, buttandolo fuori in massa, poiché di napoletani fuorusciti, e di amanti e odiatori di Napoli è pieno il mondo, che fanno? Pensano. In questa città dove passeggiò Seneca, compilano riflessioni, esplorano tracce di ragionamento e di poesia. Cioè, il volume che voglio riesco ad averlo tra le mani, per via fortunosa, forse di contrabbando, dopo un mese: ma certo, è la napoletanità. Un editorepartenopeo meraviglioso, pieno di meriti culturali, collane fascinose, titoli coraggiosi, autori geniali, poi si incarta, inciampa nelle canalizzazioni librarie che trascurano Napoli, o forse è Napoli e i napoletani che si isolano e se ne compiacciono?

VIA D' USCITA. Il libro di Demarco è proprio una protesta calma, e la proposta di una via d' uscita alla strana situazione di questa città e della sua gente. La napoletanità o napolitudine (come la chiama Luciano De Crescenzio) corre continuamente il rischio di scivolare nello stereotipo. E qui Demarco cita un grandissimo scrittore per il quale ho autentica venerazione, Raffaele La Capria. Secondo cui occorre operare due distinzioni: «La prima, tra la napoletanità e la napoletaneria, che ne è la degenerazione. La seconda, tra napoletanità e napolinanità, cioè la vacuità da cui uscire, come la mosca dalla bottiglia». Ecco il punto. Secondo Demarco non si tratta di abbandonarsi alla nostalgia, alzando mura per mummificare le tradizioni. E neppure di rinnegare ideologicamente la napoletanità, come la generazione degli intellettuali progressisti degli anni '60-'70 proposero in odio ad Achille Lauro, bensì di sfruttare tutto, persino gli stereotipi, per conservare il meglio della propria identità. Né Roberto Saviano che racconta solo la camorra, né solo De Magistris che la nega. E qui Demarco sorprenderà tutti. Infatti chi tira fuori come modello, certo incompleto, certo correggibile, ma purtroppo stroncato dalla cattiveria e dalle fake news dell' "arco costituzionale": sì proprio lui, Achille Lauro.

O' SINDACO LAURO. Spiega che alla fine forse l' unico tentativo serio fatto per modernizzare Napoli, fu il suo. Leggende false quelle delle scarpe spaiate per farsi votare, e pure quelle delle banconote tagliate a metà. «Nel vitalismo postbellico tutto ancora si tiene. Napoli resiste anche agli scontri successivi al referendum istituzionale del 1946. Con Lauro, nel bene e nel male, la città appare ancora compatta, quasi a una dimensione: stesse feste popolari, stesse canzoni, stessa euforia. A stravolgere lo scenario è la durezza della lotta politica. 'O sindaco-comandante è incontenibile: mance, favori, promesse, ma anche piazze rifatte, quartieri risanati, la vita che riprende. Contro di lui, di tutto». Invece vedeva il futuro. I guai cominciano dopo di lui, non con Lauro...E qui viene buono il titolo. «La parola chiave è Naploitation. È una parola-macedonia, inventata mettendone insieme due: Naples e exploitation, sfruttamento, in modo da avere a disposizione una variante di blaxpoitation. Cioè del neologismo che gli americani usano per indicare lo sfruttamento mediatico (exploitation) dell' essere neri (black) da parte degli stessi neri». Insomma, Napoli rinasce e cresce, cuore pulsante, ma anche civiltà moderna se trasforma proprio quelle che paiono essere pesi insopportabili e stantii, pizza e mandolino, Pulcinella e Masaniello, e li trasforma da luoghi comuni in luoghi selvatici, nuovi, misteriosi, e redditizi. Insomma propone di usare lo schema della pop-star Rihanna. La quale, dotatisssima di lato B, invece di farselo sfruttare da chi in fondo la disprezza, lo gestisce come un giacimento d' oro. E posa i suoi piedi sul mondo che credeva di chiuderla nello stereotipo delle sue chiappe. Ho costruito il finale con questo concetto tondo, perché porta bene. In onore della napoletanità.

Achille Lauro, re di una Napoli nobilissima e vittima di fake news. Marco Demarco il 30 Novembre 2019 su Il Riformista. Naploitation (Naples+exploitation) affronta il tema della napoletanità e legge criticamente, in particolare in polemica con Raffaele La Capria, quelle teorie che hanno affossato un immenso patrimonio culturale di cui fanno parte artisti come Gemito, scrittori come Di Giacomo e autori “piccoloborghesi” come De Filippo o “popolari” come De Crescenzo, per non parlare di politici come Lauro, demonizzati più che studiati. Se Berlusconi è stato Trump prima di Trump, come dice Steve Bannon, cioè uno che se ne intende; e se Lauro è stato Berlusconi prima di Berlusconi, come dicono ormai quasi tutti gli storici italiani, allora non è difficile trarre le conclusioni: c’è stato un momento – a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso – in cui Napoli, di cui il monarchico Lauro è stato uno storico sindaco, si è portata avanti col lavoro. Era la direzione giusta? Per certi versi sì, per altri no. Ma di sicuro era la direzione in cui è andata l’Italia. La direzione dei partiti personali, e dei leader carismatici, come Bassolino e Berlusconi, appunto; come Romano Prodi e Antonio Di Pietro, come Umberto Bossi e Beppe Grillo, come Salvini e de Magistris. La direzione, ancora della seconda Repubblica, dei sindaci protagonisti, della comunicazione politica semplificata, delle comparsate in tv. La direzione dell’effimero culturale e delle estati romane poi diventate anche napoletane. E la direzione dell’antipolitica e del populismo dilagante. Resta dunque il fatto che in quegli anni Napoli viaggiava nel futuro avendo già un leader carismatico, un partito personale, un sistema mediatico funzionale al progetto politico, un programma alternativo a quello statalista e industrialista, e un’idea di città basata su politiche per il turismo e lo spettacolo. Tutto ciò, fosse solo per l’esperienza accumulata, avrebbe potuto costituire una posizione di assoluto vantaggio. Invece, di quell’anticipo sui tempi nulla è rimasto. Addio politiche per il turismo e lo spettacolo. Addio napoletanità. Addio canzoni. Addio feste popolari. Addio industria cinematografica. Addio rimozione delle macerie urbane. Così, non solo si è persa un’occasione, ma per il duplice effetto dell’enfasi popolare, da una parte, e della damnatio delle forze di opposizione, dall’altra, Lauro è uscito dalla storia ed è entrato stabilmente in una dimensione mitica: luminosa per alcuni, oscura per altri. La politica e la sociologia lo hanno liquidato come un ferro vecchio, la storiografia lo ha ignorato per decenni e il cinema lo ha colpito solo di striscio. Ad oggi, non c’è ancora un film su Achille Lauro: ce n’è uno sulla sua nave attaccata dai terroristi, e ce n’è un altro sulla speculazione edilizia in quegli anni, ma non c’è un film sulla sua vita discutibile, politicamente scorrettissima, ma certo avventurosa assai. Io stesso sono stato assordato dall’eco di quella leggenda. Non so quante volte, ad esempio, mi è stata raccontata la storia delle scarpe elettorali. Si è sempre detto che Lauro le consegnasse spaiate, una prima del voto e una dopo. Ma per fare una cosa del genere, avrebbe dovuto anche stoccare migliaia di scarpe, e poi avrebbe dovuto tenere la contabilità, controllare seggio per seggio se davvero il possessore di una destra meritasse anche la sinistra. E quindi avrebbe dovuto organizzare magazzinieri, ragionieri, faccendieri e galoppini. Possibile? Analoga la storia delle banconote smezzate. Tagliarle, consegnarne solo una parte e consentire il ripristino dell’unita monetaria solo dopo il voto non era affatto facile: chi avrebbe provveduto a far combaciare tutti i numeri di serie? Possibile? Finché un giorno, per strane vie, mi sono trovato tra le mani un libro speciale: una raccolta di tutte le novelle di Pirandello. Quel vecchio volume con la copertina e le pagine ingiallite proveniva dalla libreria di Villa Lauro e tutto era tranne che intonso: le pagine di sicuro sfogliate e magari anche lette. Allora, ho pensato: vuoi vedere che ’O Comandante non era poi così rozzo e ignorante come da propaganda dell’opposizione? «Cosa volete che abbia letto!», diceva di lui Maurizio Valenzi, il primo sindaco comunista di Napoli. Ma fu poi una scoperta, per me, leggere cosa Lauro aveva detto ad Antonio Ghirelli che lo interrogava sulla napoletanità. Parlò di Napoli «nobilissima» esaltandone i figli illustri e non citò solo Pulcinella o Sarchiapone; né si limitò a evocare i Borbone, Scarfoglio, Ferdinando Russo, Serao e Di Giacomo, ma citò con orgoglio Gianbattista Vico, Filangieri e Croce, Scarlatti, Pergolesi e Mercadante, Luca Giordano, Solimena, Salvator Rosa e Morelli, Scarpetta e De Filippo. In effetti, la quantità di fake news che in quegli anni è stata rovesciata su Lauro ha dell’incredibile. Neanche Cambridge Analytica, oggi, sarebbe capace di produrne tante. Silvio Gava, al governo nel 1957, nel suo diario racconta che pur di neutralizzarlo, ordinò di registrarlo segretamente durante un colloquio al ministero, e per questo fece piazzare un microfono in uno dei candelabri del suo studio. Ma il colpo durissimo arrivò con Le mani sulla città (1963), il film di Rosi sceneggiato da La Capria. Un film bello, bellissimo, ma che altera la realtà almeno tre volte. La prima, quando concentra lo sdegno su Lauro e lo indica come principale responsabile della speculazione edilizia, mentre è provato che il peggio venne dopo, al tempo dei commissari straordinari che presero il posto del sindaco. La seconda, quando assolve la Dc che quei commissari aveva nominato. La terza, quando esalta il ruolo ambientalista del Pci che fu sostanzialmente marginale. In quegli anni la capitale italiana dell’urbanizzazione selvaggia era Rapallo. Qui, di fatto, era ambientato La speculazione edilizia, il racconto di Italo Calvino pubblicato lo stesso anno del film di Rosi, nel 1963; e rapallizzare era il verbo usato da giornalisti come Bocca, Montanelli e Cederna per indicare il fenomeno. Ma poi, anche per le proteste del Comune ligure, il termine fu cancellato dai vocabolari e dall’uso comune. A tutti non parve vero di poter liberamente “sparare” sulla Napoli di Lauro. Come simbolo sostitutivo della cementificazione, il Comandante calzava a pennello, e per giunta non aveva neanche difensori di ufficio. Si è detto anche che la Napoli laurina fosse isolata e priva di classe dirigente. Non era proprio così. Totò inneggiò a Lauro a “Il Musichiere”, e la Rai lo punì tenendolo fuori dallo schermo per lunghi anni. «Votai Lauro, non me ne sono mai pentito, e sono repubblicano» ammise Giuseppe Marotta. E di «rinnovamento edilizio» e di «miglioramento dei servizi pubblici» parlò Curzio Malaparte. Mentre tra i napoletani eccellenti di quel tempo c’erano personaggi come Giuseppe Cenzato, presidente della Sme, e leader dell’Unione industriali, capace, insieme con Massimo Capuano e Alberto Beneduce, di trattenere Napoli nella rete degli interessi strategici internazionali. Achille Lauro fu armatore, banchiere, editore (inventò la televisione commerciale molti anni prima di Berlusconi), costruttore e amico di costruttori rapaci; sventrò, per rinnovarla, l’area a valle dei Quartieri spagnoli; fece costruire lo stadio San Paolo, e come presidente del calcio Napoli, trent’anni prima di Maradona, portò in squadra lo svedese Jeppson, pagandolo allora 106 milioni. E come imprenditore mal sopportava le acciaierie e i nastri di laminazione, cioè l’industria pesante, perché preferiva quella leggera degli spettacoli di Piedigrotta (una volta, bruciando sul tempo de Magistris, fece innalzare un Pulcinella alto quanto la facciata di una villa in via Caracciolo) e i Casinò (lo voleva aprire a Sorrento ma non ci riuscì) e sognava una Cinecittà napoletana della mussoliniana mostra d’Oltremare. Distribuiva, è vero, pacchi di pasta in cambio di voti (ma non era il solo) e aveva modi diretti e guasconi: ad esempio, si arrotolava gli orli dei pantaloni per combattere il caldo anche nell’austera Sala dei Baroni del Maschio Angioino, dove si tenevano i consigli comunali, ma non era la maschera di cui parlavano gli oppositori liberali democratici e cattolici. Non a caso, di lui è ancora vivo il ricordo. E non solo perché al Festival di Sanremo del 2019 è atterrato, quasi dal nulla, un concorrente che per dare nell’occhio ha deciso di chiamarsi allo stesso modo: Achille Lauro. Ma perché è proprio difficile, ormai, tenerlo fuori dalla storia di Napoli e da ogni discorso sulla napoletanità. Per dire. Lucio D’Alessandro, rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa, ha scritto una raccolta di racconti dedicati a Topolino e in uno di questi ha immaginato un viaggio dell’eroe disneiano nella Napoli contemporanea. Veniamo così a sapere che un giornale aveva commissionato un sondaggio su quali erano i personaggi più popolari a Napoli. Topolino, proprio lui, era secondo solo a Maradona. Il governatore e il sindaco in carica, invece, giacevano imbarazzati sul fondo della classifica. L’unico sindaco entrato in graduatoria era, guarda caso, il vero Achille Lauro, il quale – scrive D’Alessandro – «a leggere la stampa nazionale del suo tempo (Topolino se l’era letta per farne un film) doveva essere invece una specie di pirata. Tutti ne parlavano male ed era ancora ricordato come il migliore. Come poteva essere?». Intanto è accaduto. Il primo a studiare Lauro in modo “scientifico” è stato Percy Allum, con un’inchiesta sociologica (Potere e società a Napoli) pubblicata in Inghilterra e poi, nel 1975, tradotta in Italia. A quel tempo, Allum aveva un’aria imbambolata e distratta, e col suo zainetto sempre sulle spalle (alla Cottarelli, per intenderci) sembrava più un turista che un prof. universitario. Prese di mira Lauro e lo fece a fette. È stato lui a ridurlo a una sola dimensione, quella del populista ante litteram, del primo “viceré” repubblicano, e del più potente Masaniello del Novecento. Un occhio a quello che nel frattempo succedeva nel mondo, magari nella New York di Robert Moses, forse avrebbe aiutato a valutare meglio. Ma così è andata. E solo a otto anni dalla morte e a trenta dalla chiusura del sipario sulla sua vicenda politica, di Lauro si è cominciato a parlare valutando non solo i contro ma anche i pro. Il primo a invertire la rotta e a presentarlo sotto una luce diversa è stato invece Pierluigi Todaro, nel 1990 (Il potere di Lauro). Lo ha fatto parlando di «un’efficienza non priva di una sua modernità», e di un leader «capace di presentarsi al governo nazionale quale artefice di una vasta unificazione del tessuto politico e sociale napoletano». Lauro che tiene unita la città, insomma. Da qui in poi la musica cambia. Paolo Macry: «Lauro migliorò il disastrato sistema dei trasporti. Promosse una vasta opera di urbanizzazione con la nascita di nuovi quartieri popolari e nuove aree residenziali di élite». Salvatore Lupo: «Il confronto col berlusconismo mostra che il laurismo non era un mero sottoprodotto dell’arretratezza». Paolo Mieli, nell’introduzione a Achille Lauro. Una storia italiana, un libro-inchiesta, con più di venti sezioni, dei praticanti della Scuola di giornalismo del Suor Orsola di Napoli: «Ci sono molte ragioni per riconsiderare la sua avventura umana e politica». Eugenio Capozzi, nello stesso libro: «È stato un profeta della Seconda Repubblica, un precursore del leaderismo, della mobilitazione moderata». E addirittura Luigi Musella (Il potere della politica), arriva ad accostare la figura di Lauro a quella di Giuseppe Dozza, il mitico sindaco comunista di Bologna e di Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze. «I tre – scrive – sono oggi considerati personalità agli antipodi ed è difficile immaginare una più vistosa contrapposizione di caratteri, ma furono tutti leader carismatici al di sopra del partito e delle parti che li sostennero, e distanti a tal punto dal sistema da potersi comportare come messia politici». Il tempo ha dunque prodotto su Lauro un duplice benefico effetto. Rispetto al passato, lo ha strappato ad una immagine stracciona ed arcaica (quella di Allum) e l’ha ricollegato in un contesto nobilissimo della storia italiana (la tesi di Musella). Rispetto al presente invece, lo ha sottratto al ruolo crepuscolare di leader novecentesco (sempre Allum) e lo ha proposto come anticipatore della nuova era (la tesi di Capozzi).

·         Ecco, è Napoli.

Da repubblica.it  l'8 dicembre 2019. Un camion con tanto di gru entra nel salone d’ingresso di Palazzo Reale: sale prima sui gradini e poi sulla pavimentazione con i marmi storici. "Una scena raccapricciante per la quale il soprintendente , Paolo Mascilli, mi auguro abbia adeguate e convincenti spiegazioni. A partire dal chiarire se siano state fatte prove di carico per sapere se l’ingresso del tir potesse o meno danneggiare la pavimentazione, per finire alle motivazioni per le quali è stato scelto un simile modus operandi. Rischioso per un bene monumentale di valore inestimabile”, denuncia il consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borrelli, che ha ricevuto le foto scattate da alcuni cittadini presenti. “Sembra che le operazioni siano legate all’allestimento di una mostra – prosegue Borrelli – e il tutto sia avvenuto tra lo sbigottimento generale dei visitatori presenti. Dalle foto, infine, non sembra essere presente il responsabile sicurezza e sembra altresì che non sia stata presa alcuna cautela per la protezione della scalinata d’ingresso. Circostanze che, mi auguro, vengano chiarite immediatamente. In gioco c’è la tutela del nostro Palazzo Reale”

Napoli, insidie e incuria nella Galleria Umberto I. L’incuria imperversa nella maestosa galleria Umberto I di Napoli. Il suo fascino non smette di ammaliare, ma, le insidie nate dall’abbandono mettono a dura prova la sicurezza di chi vi mette piede. Agata Marianna Giannino, Giovedì 21/11/2019, su Il Giornale. “È bella e interessante”, commenta una donna. È alla guida di un gruppo di turisti proveniente dalla Grecia. Mentre osserva, stupefatta, la Galleria Umberto I di Napoli, la pioggia filtra dalla cupola superiore e costringe qualche passante ad aprire l’ombrello. Sotto i suoi piedi il pavimento, unico per i suoi mosaici, risulta disconnesso: diversi i punti che sono stati interdetti con transenne, per evitare ai passanti di inciamparci e di calpestarne, in qualche caso, i vetri rotti. Il fascino di quella galleria maestosa costruita in soli tre anni tra il 1887 e il 1890 non smette di ammaliare, ma l’incuria in cui è lasciata la rende anche un posto pieno di insidie e fonte di disagi, principalmente per chi la vive quotidianamente. “Il problema della pioggia in galleria è diventato veramente insostenibile”, racconta Giuseppe che da decenni lavora in un bar situato in una delle più imponenti opere monumentali di Napoli. “Oltre ai problemi legati alla sicurezza negli orari notturni – rivela - stiamo avvertendo il problema della copertura. Spesso ci piove sui tavoli, ed è problematico il passaggio delle persone. I problemi sono stati segnalati al Comune, come quelli della sicurezza serale e notturna. E noi più che segnalare non possiamo fare molto”. Dalla volta in vetro e ferro che unisce i quattro palazzi antichi della galleria piove acqua da tempo nelle giornate in cui i temporali imperversano su Napoli. “Noi siamo costretti addirittura a portare dentro la merce esposta”, sbotta Salvatore, che in galleria ha un negozio di souvenir dal 1969. “Dentro piove in una maniera indecente. Sono più di 10 anni, da quando hanno fatto i lavori”. “Molti vetri sono rotti – spiega – perciò come piove fuori, così piove dentro”. “La gente si meraviglia, ma qua bisogna camminare con gli ombrelli”, afferma. E i disagi non sono legati solo alle infiltrazioni di acqua. Sotto i porticati, dei senzatetto trovano da tempo riparo. Diversi giacigli occupano anche l’interno della galleria: alcuni angoli sono invasi da coperte e cartoni dove chi non ha una dimora prova a trovare un po’ di calore e finisce per dare anche sfogo a esigenze fisiologiche. Non mancano i rifiuti, ammucchiati principalmente davanti all’ingresso che si apre di fronte al teatro San Carlo. “Non è una bella accoglienza. Quello che non mi fa piacere sono la sporcizia e l’incuria che ci sono in quest’area”, afferma Renato, che da più di 20 anni passa buona parte del suo tempo in galleria. Si guadagna da vivere recitando poesie e distribuendone ai passanti che gli lasciano qualche piccola offerta. “Mi dispiace per i ragazzi che dormono sotto la galleria – dice – ma sotto ai porticati si sente un bell’odorino e non va bene, perché grazie alla nostra città (non ai vari sindaci), Napoli è ben visitata un po’ da tutto il mondo”. Nella galleria da tempo riescono a commerciare anche molto venditori abusivi. Lì, dove un tempo gli sciuscià trovavano spazio per lustrare scarpe, oggi ci sono ambulanti che espongono la merce in vendita su carrellini o su banchetti da poter smontare facilmente alla vista della polizia. Si muovono con i loro piccoli espositori o si fermano ad ogni ingresso. Da via Toledo la facciata è ancora coperta dalla impalcature, da quel 2014 in cui davanti alla galleria Umberto trovò la morte il 14enne Salvatore Giordano. La foto che lo ricorda quasi non si vede sotto quei ponteggi. Era il 5 luglio quando Salvatore fu colpito dai calcinacci crollati dal cornicione. Mentre si attende che la giustizia faccia il suo corso, nel rimpallo di responsabilità a cui si è assistito in questi anni tra Comune e proprietari degli immobili, le condizioni di incuria in cui versa la galleria non sono cambiate e mettono a dura prova la sicurezza di chi vi mette piede. Forse le tragedie non insegnano.

Bruno Giurato per linkiesta.it il 23 dicembre 2019. È bella, è bionda, e dice: «De Magistris dovrebbe passare bendato in mezzo ai cavalli di piazza Plebiscito». È un gioco che fanno cittadini e turisti. Ma pare che percorrere i 170 metri che passano tra la porta d’ingresso del Palazzo Reale e le statue equestri e passarci in mezzo non sia riuscito a nessuno, e forse è colpa di una maledizione che risale alla Regina Margherita. Chissà De Magistris, che qui molti chiamano «Màgistris», proparossitono e senza ”de”. Lei, Ludovica è tornata a Napoli dopo sei anni di Barcellona. Ha 26 anni, è del Vomero, fa l’odontotecnica, e dice: «Pensavo di non voler tornare, e invece sto benissimo». Anch’io mi trovo benissimo. Avevo lasciato Napoli, anni fa, come una città difficile, c’era il rischio che a Piazzetta Nilo ti prendessero il cellulare, c’era da tenere un livello di attenzione alto, dal Vomero ai Quartieri. Ricordo una sparatoria dietro Piazza Dante: ci dovemmo sdraiare in mezzo alle macchine parcheggiate. La stazione. Appena sceso dal treno, sul marciapiede accanto al binario, c’era una pozza di sangue. Diametro, circa, un metro. E ora si sorride un po’ tutti come scemi, tra Santa Chiara e Spaccanapoli. È sabato e davanti alla pizzeria Sorbillo (si parlava di una cessione ai giapponesi per una cifra enorme, ma la notizia è stata smentita) in via dei Tribunali non si cammina: si sta come sargassi, trascinati dalla corrente impercettibile. Compressi tra padri affannati, bimbi smovicoli, mamme assai tridimensionali con phard, schatoush, scialline leopardate, cellulari puntati (ma verso che?). Meglio svoltare verso San Gregorio Armeno, che si preannuncia ancora peggio, ma poi no. Si finisce a comprare statuine del Presepe da Capuano. La crew familiare sta pranzando, gran piatti di maccheroncini al sugo in teglie d’alluminio leggere. Si esce con quattro statuine: Sacra Famiglia e Benino (il pastore addormentato che sogna il presepe, messa in scena della messa in scena) e in mano un pezzo di pane caldo cafone, con un filo d’olio gentile, omaggio della ditta. La metro è una discesa nell’Ade. Scale mobili su scale mobili, si scendono mille piani e il cellulare non prende più, e ogni stazione è diversa. Il grigio di Garibaldi, il beige di Municipio, Pistoletto, Gae Aulenti, Giulio Paolini, ecc. Tempi di attesa per i convogli: lunghi. Nessuno si lamenta, qualcuno fa conversazione, qualcuno gioca coi bimbi in culla. All’uscita Vanvitelli (Vomero) arrivano i poliziotti col metal detector. Bloccano un gruppo di adolescenti urlanti e cantanti, lasciano andare il sottoscritto che non vede l’ora di essere perquisito, e che ha un coltello nello zaino, ma se ne ricorda dopo. Sarà l’età, la triade giacca/cappotto/cappello. Non c’è giustizia al mondo. A Napoli, comunque, si ride. Al momento, nel carosello campanilista tra Milano l’attraente, Roma la decadente, Venezia sommersa e graffiata dalle navi, emerge l’atmosfera napoletana. Ma soprattutto il dinamismo. I numeri parlano chiaro: nello sfacelo economico, specialmente dell’agricoltura, del Sud, e con crescita zero in Campania, Napoli è un’isola felice. Secondo la Camera di commercio tra il 2017 e il 2018 il turismo è salito del 3, 2 per cento, i servizi alle imprese del 3, 7 per cento. Ma parlando di turismo colpiscono soprattutto i dati dei musei e dei siti archeologici: dal 2011 al 2017 Pompei ha fatto un milione di visitatori in più (siamo a quasi quattro milioni), il Museo archeologico è passato da 288 mila a più di 500 mila. Complessivamente, dal 2010 al 2018 i visitatori sono aumentati del 108 per cento secondo Confesercenti. Fantasmagorico. Mettiamoci anche i voli diretti da Capodichino a New York, che uniscono le due città che hanno lo stesso nome. Per molti la faccenda si spiega con il declino di altre tradizionali mete turistiche del Mediterraneo, travolte da instabilità politica, dalla Turchia all’Egitto, fatto sta che spesso si tratta di turismo di lusso, attirato da un’offerta culturale altissima. Ma resta l’impressione che, anche qui, De Magistris, dovrebbe passare il mezzo alla piazza bendato, e forse ce la farebbe, tale la botta di fortuna che ha avuto. Tra l’altro gli è capitato un assessore alla cultura e turismo coi controfiocchi: Nino Daniele, da poche settimane fatto fuori, dopo sei anni, a causa dell’ennesimo rimpasto della giunta. Siamo a 33 assessori cambiati. Daniele, vecchia scuola Pci, ma apprezzato a destra e a sinistra, ha inventato lui il festival Spinacorona, ha portato PIano City a Napoli, ha promosso teatro e cinema e ha fatto rinascere Napoli città libro. Lo incontro in piazza Municipio, in mezzo all’Installazione da lui fortemente voluta di Liu Rowang. Lupi di ferro da duecento chili che si affollano minacciosi davanti a un samurai. L’inaugurazione è coincisa con il licenziamento di Daniele, che, nell’amarezza innegabile conserva l’appiombo e ordina un caffè in un bar in piazza. «Pensi che Napoli, al momento, è il set cinematografico più importante d’Italia – racconta – in cinque anni sono stati girati più di mille audiovisivi» da l’Amica Geniale, a Martin Eden, a I bastardi di Pizzofalcone all’ultimo documentario di Asif Kapadia sulla vita di Maradona, e poi spot, televisivi. Viene in mente anche quel capolavoro che è L’arte della felicità di Alessandro Rak, che se non è stato girato in città – trattandosi di un cartoon – ma è ambientato in una Napoli fradicia di pioggia e rimpianti. Per quanto riguarda Suburra, che dire se non che è la copia (venuta peggio) di Gomorra? E resta la sottile sensazione che, al momento, tutto quello che viene da Roma sia una Napoli un po' cheap. Alcuni vedono Daniele come candidato Dem in Campania alle prossime Regionali. Altri come prossimo candidato sindaco. Le elezioni comunali ci saranno nel 2021, e si nota eccome il presenzialismo napoletano di Roberto Fico, che ad ogni questione cittadina si scorda della presidenza della Camera e mette bocca sulla “sua” città. Bambini saltano sui leoni di ferro, ci vanno a cavalcioni. Daniele, politico navigato e colto, ottocentesco col baffo e col trench, non si scompone. Resta sulla cultura e fa notare semmai la «fortissima resistenza di Napoli a farsi colonizzare da altri immaginari». E siamo alla Napoli-Tribù di cui Parlava Pasolini, la “sacca storica” della città che resta “irripetibile, irriducibile, incorruttibile”. Aggiungiamo al cinema la letteratura: oggi se in tutto il mondo si pensa a un libro italiano si pensa a Elena Ferrante. Misteriosa, o almeno venduta come misteriosa secondo La vita bugiarda degli adulti (o alla prassi bugiarda del marketing, fate voi). Ma napoletana. O a Roberto Saviano. Napoletano. O magari al vincitore dello Strega Antonio Scurati. Napoletano. E siamo sul piano del mainstream, tenendo fuori per pura contingenza Erri De Luca, altro campione di vendite. Ma si può uscire dal mainstream e entrare nell’avanguardia. E c’erano tutti al Madre, qualche giorno fa, a celebrare la mostra di Marcello Rumma, uno degli inventori dell’arte povera. Ma sulla vivacità perenne, in grado di rileggere il popolare e le avanguardie storiche nella ripresa posthegeliana della “morte dell’arte” (Totò con le lenti asettico/trascendentali di Achille Bonito Oliva, ad esempio) è stato detto tutto. Come su Andy Warhol che, nel post terremoto, si presentò in città con un peperoncino rosso, scacciasfiga, attaccato alla montatura degli occhiali. Qui, senza andare indietro fino a Matilde Serao, è appena il caso di ricordare con un bacio sulla chioma candida il bel Luciano De Crescenzo da poco scomparso, e di precisare che la sua rilettura della filosofia greca e tutta dovuta a uno scrittore quasi dimenticato Giuseppe Marotta, ai suoi libri come Gli alunni del Sole. Di Marotta l’editore esclusivo De Piante, sta per pubblicare un racconto inedito. E tornando a oggi: se De Magistris sembra perfettamente estraneo alla deflagrazione culturale napoletana, Daniele ne sembra l’attento organizzatore, quasi l’eminenza grigia, almeno fino alla defenestrazione. Mentre tutto attorno gli animal spirits del fare rappresentazione sono sempre all’opera. Dovremmo aver superato il pregiudizio “oleografico” per cui la tradizione diventava la noia di pizza-mandolino-mamma, e si mettevano in evidenza i geni “razionalisti” di Napoli, che pure ci sono, tanto è vero che Daniele ha organizzato una manifestazione sul concetto di felicità in Gaetano Filangieri, quasi una prefigurazione, duecento anni prima, delle più avanzate teorie della happiness economics. E aver superato anche l’idea di una Nuova Napoli, anni '70, imbullonata di ideologia e cazzimma. Possiamo dire in tutta tranquillità che la metafora barocca è sempre attiva qui: il tribalismo napoletano passa attraverso una continua, totale, pervasiva, brulicante, cultura della rappresentazione. Vedi il caso dei Neomelodici. Anche quelli implicati con la Camorra? Certo, in una qualche misura. Ma non troverete argomento della vita che non sia stato preso, messo in metrica, cantato e suonato da un neomelodico. E che non abbia il suo pubblico, e il suo mercato. La sorella dell’amico che provoca, l’amica della mamma che si mostra. Le tasse, i parcheggi. L’amor sacro del fratello per la sorella, della sorella per il fratello, del figlio per la mamma. L’obesità. Mi è capitato di sentire un brano in cui esplodeva un ritornello: “e finalmente si nesciut’ancinta/l’ha confermato pure l’ecografia”. Il carcere. E i messaggi più o meno subliminali con le dediche ai detenuti. Che differenza c’è tra un lamento di goduria di uno che si gratta la schiena su uno spigolo del quartiere Pendino, un canto a Fronna e' limone, e un messaggio cifrato declamato su un beat infame? Qui siamo alla disperazione semantica di magistrati che vorrebbero abolire i messaggi “negativi” nelle rappresentazioni artistiche. L’argomento è lungo, ma, si rassegnino Gratteri e chi per lui: togliere il negativo dall’arte vuol dire togliere l’arte. Qui, statene certi, è tutto impossibile da regolamentare: Napoli è un perenne esondare di rappresentazioni. Fin troppo facile notare, sempre a San Gregorio Armeno, le statue del presepe con Beppe Grillo giustamente imbolsito e “Higuain El Traditor”. Nulla si sottrae alla rimessa in forma. Anche tra i musicisti “in”. Funkster inarrivabili, jazzman maniacali. Tecnicamente mostruosi. Chiusi con il fuori e rissosi tra di loro. Stefano Simonetta, in arte Mujura, impeccabile bassista di Eugenio Bennato nonché cantautore in proprio ( in caso di botta di spleen ricordarsi la sua Efesto) riferisce di più di una jam session finita in rissa. Alle tre di notte, di fronte al Barcollando, al Vomero, un pianista al quinto gin tonic mi rimproverava: consideravo le tredicesime in maniera troppo enarmonica. Non si replica sull’enarmonia a un pianista rasato che ha fatto, pure, dieci anni di pugilato. Unico punto su cui tutti tengono il segreto: Liberato. Su di lui niente si può dire. Anche che abita in Francia nessuno lo dice (tranne quest’articolo). Per il resto impazzano i Nu Guinea. Sound anni 70 su parole vuote, per chi scrive insopportabili, il peggio della retromania di provincia (meglio i neomelodici senz'altro, per non parlare di Speranza). Ma è interessante l’iniziativa che ci sta sotto: il progetto Napoli Segreta, compilation rilasciata dalla Early Sounds e NG Records che raccoglie perle nascoste della discografia napoletana funk e disco. È in arrivo il secondo vinile, proprio in questi giorni. Lavoro di raccolta -saccheggio di mercatini e negozi di dischi- immenso, filologia rigorosa, risultati meravigliosi. Il corrispettivo più funk e quartaumentata dell’editore Riccardo Ricciardi di decenni fa. Del resto questa è una città che dibatte sul fatto che Via Roma si possa o si debba chiamare via Toledo. Immaginiamo una discussione di pura toponomastica e filologia a Roma («aho ma stica»), o a Milano («Il Comune ha voluto così, eh»). E intanto, in via Sant’Eligio ho visto l’ultima sfregiata, e che sia l’ultima voglio presumerlo. Una signora alta quasi un metro e ottanta. Più di settanta anni, casco di capelli lunghi, bianchi, sciolti, che si indovinavano una volta neri come gli occhi, e un segno che partiva dal mento un po’ prominente, e chiudeva appena davanti all’orecchio, seguendo docile il profilo della mandibola. Uno sfregio che l’ha fermata, costretta al matrimonio, mi raccontavano altri vecchi, che cavalcavano seggiole di plastica. L’incrocio di sguardi è durato l’attimo che mi è servito per scappare, via, verso piazza Mercato. Anche la situazione dal punto di vista della sicurezza sembra migliorata. Napoli è la 17 sima città in Italia per numero di reati (dati del Ministero dell’Interno) dove la prima è Milano. Resta prima per furti con strappo (subito seguita da Milano) ma con un calo significativo dei crimini in generale: negli anni 2017/2018 quattro per cento in meno di reati, e 14, 85 per cento in meno di rapine. Restano i bassi, che si salvano dalla gentrificazione, le vaiasse, che si salvano dal bon ton: sento un litigio dall’una all’altra finestra “Tu c’he pile e cazz’ ti si fatt nu materazz’”, mi raccontano di un femminiello che, preso da parte un assessore gli ha sputato sul muso la frase: «Ie c’he bucchine m’aggio fatto ddoi casarielle. E tu manco l’addore. E s’e o voi, hai e pava’» («io coi bocchini mi sono fatta due casette, e tu nemmeno l’odore. E se lo vuoi [il cazzo n.d.r.] devi pagare». Pura dolcezza borbonica è la vita mondana. Le feste, i salotti, i circoli. Montediddio e Pizzofalcone. I fratelli Roberto e Generoso Di Meo hanno inventato la formula del ballo itinerante: Roma, Parigi, New York, Marrakesh, Vienna. Qualche settimana fa, per gli amici napoletani il Ri-ballo a Palazzo Serra di Cassano. Al palazzo di fronte abita (ma esce spesso) donna Januaria Piromallo Capece Piscicelli di Montebello dei duchi di Capracotta. Il suo palazzo si affaccia su una bellissima serra interna. Dalla stanza da letto vedo la Certosa Di San Martino e i suoi chiostri di luce. Un salotto “super bien“ è quello di Celeste Condorelli, con il design dell’architetto Cherubino Gambardella. Sorrentino si è ispirato a Cherubino per il protagonista de La grande bellezza. Martedì scorso gli auguri di Natale gourmet da Antonella Tuccillo: la madre, Germana Militerni Nardone, è esperta di ricette antiche rivisitate, e la specialità è lo spaghetto col tarallo. E qualche giorno prima, alla galleria PIetro Renna, il vernissage di Elena Von Essen con quattro principesse in una stanza: la stessa Elena, la sorella Mafalda, la madre Tatiana, discendente diretta della regina Vittoria. E Beatrice di Borbone. Si finì con Elena che ballava sui tavoli del ristorante “l’Europeo”, che tutti chiamano familiarmente “Mattozzi” e fa la più buona genovese (che è napoletana) del mondo. Puro cazzeggio astratto slegato dalle logiche arrampicatorie sono i circoli. Slegato nel senso che i borghesi pagano quote alte per essere ammessi, e i nobili incassano placidi, e alcuni ci campano. Il circolo Italia a borgo Marinari, con il veliero donato da Gianni Agnelli, il Circolo La Staffa, il circolo dell’Unione attaccato al San Carlo. Vestirsi: oltre ai soliti ed eccelsi Marinella, e Amina Rubinacci (più specializzata nella maglieria), c’è Isaia, fondato nel 1920, con atelier anche a Capri, e il suo smoking bicolore: nero con il bavero in raso e in velluto: blu, verde bottiglia, bordeaux. E prima della prima del San Carlo c’era stato un concerto a porte chiuse di Claudio Baglioni (il San Carlo aveva detto “no” a Madonna), invitato dalla fondazione Scudieri, per beneficenza, con l’assessore alle politiche giovanili e alla creatività Alessandra Clemente in un vestito scuro di seta antica di San Leucio. E una scultura sul derrière. Napoli gode. «Qualche giorno fa c’è stata una sparatoria nella Pignasecca», racconta Gennaro Ascione, scienziato sociale, che ha insegnato qui all’Orientale, a Dehli, e in Inghilterra, e si occupa in particolare di de-colonizzazione. Ha anche pubblicato un romanzo distopico: Vendi Napoli e poi muori (Magmata, 2018). «Siamo in una fase più complicata di quello che sembra. C’è una porzione piccola della città che sta facendo i soldi, e il resto, vale a dire la maggior parte della popolazione, sta peggiorando, per servizi e qualità della vita. L’azienda dei trasporti, l’Anm, è a rischio fallimento. E anche i rifiuti sono un problema. Fino a qualche settimana fa c’era una discarica illegittima: all’ex Icm, in via delle Brecce, zona Orientale, al posto dei rifiuti inerti si sversavano gli umidi. È dovuto intervenire il ministro Costa per fermare tutto». Solo qualche giorno fa, a fronte dell’intasamento di spazzatura, il comune si è giustificato dicendo che le luminarie natalizie ingombravano. L’onda di turisti, in una città che ha 15mila posti letto, ha portato da una parte all’esplosione di B&B, di lavoro nero e grigio, e a una strana ma fisiologica gentrificazione. «I prezzi degli affitti si sono alzati del 30/40 per cento», sottolinea chirurgico Ascione dal tavolino di un bar di PIazza Dante. Anche secondo lui De Magistris dovrebbe farsi quella passeggiata bendato: «Ma con la bandana arancione. Nel 2016 si è presentato come un rivoluzionario, di popolo. C’erano i manifesti con il quarto stato. Napoli era l‘avamposto di tutti i Sud del mondo. Nel suo bacino elettorale c’erano tutti, anche i neoborbonici» e tutt’ora, in un comune che è passato da innumerevoli rimpasti, rimangono dagli esponenti dei centri sociali Insurgencia (che hanno aiutato, insieme a Nino Daniele, a recuperare molti fabbricati occupati, e a riportarli a canoni legali) ad esponenti di Forza Italia. Ma forse è proprio il caso di dire che l’azione politica di De Magistris, per quanto fortunata, anche grazie al fratello Claudio, uomo di marketing e di relazioni, che purtroppo è finito indagato per il concerto post nozze del neomelodico Tony Colombo) sta mostrando tutti i suoi limiti. Alla notte bianca di sabato scorso, presenti tra gli altri De Magistris e la nuova assessora alla cultura Eleonora De Majo, la manifestazione è stata fermata dai vigili: il comune non aveva chiesto il permesso a sé stesso. Come notava Nino Daniele: «I partiti personali risentono della crisi della politica. La disintermediazione non può fare storia né progetto, e De Magistris non è riuscito a dare sbocco più ampio alla sue esperienza». E intanto, secondo la metafora degli animal spirits, si muove altro. Il digitale per esempio. Pensiamo al Polo di San Giovanni Teduccio. Nel 2016, grazie a Matteo Renzi che voleva la Apple restituisse qualcosa all’Italia dopo tante controversie fiscali, è arrivata la Apple Academy, con studenti di tutto il mondo, diretta da Giorgio Ventre. Luogo di ricerca e sperimentazione in vari campi, l’Academy ha contribuito alla rinascita digitale di Napoli. A ottobre c’erano in città più di 400 startup, e 859 in Campania, che risulta terza in Italia, dopo Veneto e Emilia-Romagna, per numero di realtà innovative. E, grazie alla Federico II e al suo rettore “visionario” Gaetano Manfredi è in costruzione il raddoppio del polo, con un finanziamento di 70 milioni. Nell’insieme si tratta di una rete di sette atenei, 40 enti pubblici di ricerca avanzata, 21 laboratori che lavorano con le filiere produttive regionali. Si va dal 3D applicato al calcestruzzo, al riutilizzo di scarti edilizi, al software, alle applicazioni spaziali. Diverse multinazionali hanno scelto il polo campano, per esempio Cisco. E Leonardo, solo in Campania, ha 4500 addetti, vedi Aerotech campus di Pomigliano d’Arco. In breve, anche dal punto di vista dell’innovazione Napoli si muove e come. Su cosa c’entri l’attuale amministrazione cittadina permangono un bel po’ di dubbi. Fino ad ora sulla politica sembrano prevalere gli animal spirits. E comunque, forse è proprio il caso che, prima di fine mandato, Màgistris, faccia davvero la passeggiatina in piazza Plebiscito. Si capirebbero molte cose.

Fallimento della notte bianca a Napoli, in corso la guerra per la successione a de Magistris. Il Riformista il 15 Dicembre 2019. Era tutto pronto per  la Notte bianca di Spaccanapoli, una festa in piazza con il titolo “Break Napoli” patrocinata dal Comune. Tre palchi montati e soprattutto migliaia di persone nel centro storico di Napoli che aspettavano l’inizio dei concerti. Quando tutto stava per cominciare si è diffusa la notizia che non c’erano i permessi. Dunque addio al concerto in piazza del Gesù. Un vero e proprio paradosso perchè l’evento era stato promosso e sponsorizzato dal Comune con cartelloni che tappezzavano tutta Napoli. A pochi minuti dall’inizio del concerto i vigili urbani hanno rilevato l’assenza della documentazione necessaria per lo svolgimento del concerto. Inflessibili hanno vietato agli artisti di potersi esibire. Giusto poche parole dal palco per spiegare agli spettatori che il concerto non si sarebbe tenuto e poi solo tanta delusione di chi si aspettava di passare una serata in maniera diversa. “Pensavo di aver visto tutto a Napoli, stasera si è toccato il fondo – ha attaccato Gianfranco Gallo, direttore artistico della serata – Io non so di chi sia la colpa ma, una volta che la festa per il Popolo stava per cominciare , non si poteva trovare una soluzione?”. “C’erano le autorità e vari rappresentanti della polizia urbana, non si poteva risolvere? C’erano il sindaco, gli assessori – continua Gallo su Facebook – Quanto ancora questa città dovrà far scappare via artisti e uomini di buona volontà? Si concedono concerti a piazza plebiscito, passaggi di carrozze per i matrimoni di chissà chi, volgarissime serenate alle finestre, si ferma una notte bellissima e piena di gioia , dedicata all’inclusione , all’abbattimento di qualsiasi muro. Stasera non si è alzato un muro , si è frantumato, restano le macerie di questa allucinante città. A Francesco Chirico presidente della Municipalità, ragazzo appassionato e forse un po’ ingenuo , dico: ti conviene fare politica qui? Ai miei concittadini invece dico: ecco perchè qualche artista va via. Certo io non ho nessuna colpa ma mi sento responsabile, come napoletano, della via che ha preso la mia città”. L’evento doveva promuovere il tema il tema dell’inclusione sociale. Si ripete da 7 anni con lo stesso format nato da un’idea di Francesco Chirico, presidente della Seconda Municipalità, ed era la prima prova sul campo dell’assessorato al Turismo guidato da poche settimane da Eleonora De Majo. Ma qualcosa è andata storta. L’evento sarebbe stato fermato perchè la II Municipalità non avrebbe chiesto tutti i permessi necessari allo svolgimento dell’evento. Tuttavia nemmeno a palazzo San Giacomo se ne erano accorti.  Chirico dal palco ha spiegato che i vigili bloccavano la serata per «la mancanza del permesso per il pubblico spettacolo mentre c’è solamente quello per il montaggio palco». Così se ne sono tornati a casa lo scrittore Maurizio De Giovanni che doveva aprire la serata, Tony Esposito, Maurizio Capone, Marco Zurzolo e Maldestro. Intanto la neoassessora Eleonora de Majo scarica la colpa dell’accaduto sugli organizzatori. “Mi piacerebbe che chi sta maldestramente provando ad attribuirmi il mancato svolgimento dei concerti di ieri sera fosse in grado di dimostrare, carte alla mano, quali sarebbero le responsabilità dirette dell’Assessorato e dunque dell’Amministrazione dinanzi ad una oggettiva assenza di documentazione adeguata allo svolgimento del pubblico spettacolo da parte degli organizzatori”, scrive su Facebook. “I concerti della Notte d’arte sono stati ahinoi sospesi – ha detto Chirico – Alla base, da un lato l incompleta documentazione dell’Associazione di Promozione Sociale coorganizzatore dell’evento con la Municipalità, dall’altro il mancato supporto degli uffici preposti”. Intanto Alessandra Clemente, assessore al patrimonio, ai lavori pubblici e ai giovani non commenta la vicenda. Nessuna parola nemmeno dall’ex assessore alla Cultura Nino Daniele, da poco fatto fuori dalla Giunta di De Magistris per fare spazio alla de Majo. Una scelta che in città è stata molto contestata al sindaco. “Però una cosa devo dirla – ha commentato Gallo – ieri ero lì che ascoltavo le telefonate tra sottoposti e dirigenti della polizia municipale inflessibili, guardavo i volti scuri degli incaricati a fermare la manifestazione, percepivo la lontananza di qualche autorità che nemmeno si è avvicinata al palco, quando era li perchè se fosse andato tutto liscio, si sarebbe presa il bagno di folla. Poi guardavo i volti degli artisti comunque puliti, sorridenti, gioiosi, ascoltavo la Scalzabanda suonare e pensavo che l’Arte rende belli, il potere bruttissimi. L’Arte è un volo, il potere una paralisi”. Insomma sulla notte dell’arte sembra essere precipitata una guerra politica di cui ne fanno le spese solo i cittadini che non hanno potuto assistere a degli spettacoli.

Alessio Gemma per "la Repubblica" il 15 dicembre 2019. Una stanza da fittare ai turisti nella propria abitazione. Stile casa vacanza, con la formula dell' affittacamere: il modo ormai più diffuso per guadagnare in una città senza lavoro. Ci ha provato anche l'attuale assessora al Turismo Eleonora de Majo, nominata un mese fa in giunta dal sindaco Luigi de Magistris. Sì, l'ex consigliera di Dema, attivista del centro sociale Insurgencia, paladina della battaglia contro l' invasione di visitatori nel centro storico, ha sfruttato la sua casa in zona Decumani per ospitare i turisti. Ha chiesto agli uffici del Comune regolare permesso quando era consigliera. E ora che ha la delega al Turismo? «Ho bloccato le prenotazioni - spiega De Majo - per opportunità ho sospeso l' attività che ho avuto da aprile fino a poco prima di entrare in giunta. Quindi, per meno di un anno. Con quell' introito ci pagavo il mutuo, difficile da sostenere fino a che facevo solo la consigliera». E tutte le invettive nei mesi scorsi firmate de Majo contro «il centro storico che si sta trasformando in un grande B&B?» Replica l' assessora: « Non ci vedo nulla di male o di contraddittorio se lo fai nella casa dove risiedi e paghi le tasse. Il problema è chi gestisce dieci appartamenti... » . A De Majo risulta intestata una abitazione di 145 metri quadrati, categoria " popolare", situata nel cuore del centro storico. «Nel mio caso - continua l' assessora - incidi in minima parte sulla turistificazione. Non c' è alcuna sottrazione ai residenti, soprattutto se fatto con tutti i permessi urbanistici ». A febbraio, poco prima di inoltrare la richiesta di "locazione breve" al Comune, su quella casa è stata avviata una pratica "per una diversa distribuzione degli spazi interni". Gennaro Esposito, presidente del comitato per la "Vivibilità cittadina", attacca: « Mai come in questo periodo la politica ha bisogno di coerenza e ci colpisce allora come un assessore che proviene dal mondo rivoluzionario sia caduta nella trappola dello sfruttamento economico degli immobili ai fini turistici. Lo sviluppo turistico richiede attenzione dell' amministrazione comunale». De Majo non si sottrae: « Da Federalberghi ai comitati, tutti si stanno interrogando sulla necessità di governare il fenomeno. La legge regionale è desueta, basti pensare che considera imprenditore solo chi gestisce più di 4 appartamenti. C' è un problema serio di tasse e a Napoli scontiamo situazioni non a norma dal punto di vista urbanistico. Penso ai bassi. Bisogna aprire una interlocuzione con piattaforme come AirBnb: devono avere l' obbligo di consultare i registri comunali e verificare prima se le case sono in regola. Per far sedere al tavolo questi colossi non basta Napoli: faremo un' iniziativa a gennaio coinvolgendo altre città italiane ed europee». Intanto crescono le polemiche sul peso che ha assunto il collettivo Insurgencia nella maggioranza del sindaco. L' ascesa di de Majo è stata preceduta dalla nomina del compagno Egidio Giordano, già nel direttivo Dema, ad assessore della Terza municipalità, presieduta da un altro esponente di Insurgencia: Ivo Poggiani. E un altro leader storico del collettivo Pietro Rinaldi è assurto a capo di gabinetto della Città Metropolitana. «Ho sospeso l' attività - conclude De Majo - proprio perché voglio stare serena. Non voglio essere scocciata su questi temi. Il mutuo ora lo pagherò con altre entrate».

Masanielli alla conquista della poltrona. Affiliati e simpatizzanti del Centro Sociale Insurgencia e, al fianco del sindaco di Napoli De Magistris, hanno ruoli istituzionali. Simone Di Meo il 13 dicembre 2019 su Panorama. Chiamatelo centro (sociale) per l’impiego. A Napoli la rivoluzione arancione del sindaco Luigi de Magistris - checché ne pensi Mao Tse-tung - è diventata a tutti gli effetti un pranzo di gala. Dove le portate più appetitose sono poltrone e stipendi pubblici arraffati da kompagni che hanno assaporato il gusto dolce dei privilegi. Uomini e donne che arrivano dal centro sociale Insurgencia e che alla lotta di classe hanno preferito la pagnotta di classe. L’ultima ad aver abbassato il pugno chiuso per aprire la porta del Palazzo è la «pasionaria» Eleonora De Majo, nominata assessore comunale alla Cultura e al Turismo, a 55 mila euro l’anno. Di lei sono noti i tweet contro l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini («Te la diamo noi una lezione bastardo! Ti aspettiamo a Napoli») e contro il governo israeliano paragonato a «un manipolo di assassini» e gli ebrei «porci». Posizioni che le sono costate l’accusa di antisemitismo da parte della comunità ebraica partenopea, a cui la De Majo ha replicato offrendo la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. La senatrice a vita, sopravvissuta agli orrori dell’Olocausto nel campo di concentramento di Auschwitz, l’ha elegantemente rifiutata per evitare «strumentalizzazioni». Il fidanzato della giovane rivoluzionaria, laureata e di buona famiglia, si chiama Egidio Giordano ed è anche lui nel direttivo di Insurgencia. Il suo lavoro? È assessore alla Cultura nella Terza municipalità quando non è impegnato negli scontri di piazza con le forze dell’ordine. Giordano lavora fianco a fianco col presidente che si chiama Ivo Poggiani, kompagno del medesimo centro sociale. Tutto in famiglia, insomma. «Un luogo utile a pochi fortunati per costruire carriere grazie alla politica e per fare soldi» spiega a Panorama un ex attivista. «Tutti sappiamo che molti dei dirigenti, pur essendo ufficialmente “poveri”, detengono quote di bed&breakfast e di locali attraverso prestanome, e fanno affari con la comunicazione e l’organizzazione di spettacoli. Hanno iniziato mettendo in commercio il vino anticamorra e sono finiti ubriachi di potere». «Qualcuno vive ancora nelle case popolari un tempo assegnate ai nonni» prosegue la fonte di Panorama «nonostante possa permettersi di pagare un affitto togliendo così un tetto a famiglie che veramente ne hanno bisogno». Prima di Giordano, il ruolo di assessore in Terza municipalità lo ricopriva un’altra donna della galassia Insurgencia, Laura Marmorale, che per un anno (ottobre 2018-novembre 2019) è stata anche nella Giunta de Magistris, e licenziata proprio per fare spazio alla De Majo. Il manuale Cencelli al posto del Capitale. Chi non ha la fortuna di arrivare a uno strapuntino politico, nella Municipalità presieduta da Ivo Poggiani (che conta oltre 100 mila residenti), può però ambire a un contributo pubblico. È il caso di Raniero Madonna, sempre della medesima scuderia antagonista, che ha vinto un bando «Pon Città di Napoli 2014-20» con un progetto per l’«accoglienza turistica diffusa nel rione Sanità». Al secondo posto è arrivata la cooperativa sociale Mafalda, in cui per un periodo ha lavorato l’assessore Egidio Giordano. È amministrata da un giovanotto che si chiama Dylan Di Chiara e sui social si presenta come attivista di Insurgencia, mentre uno dei consiglieri è un ex candidato nelle liste di de Magistris. E se a Palazzo San Giacomo finiscono i posti per i colleghi di centro sociale, basta spostarsi di qualche decina di metri. Nella Città Metropolitana, che ha preso il posto dell’ex Provincia, per esempio, de Magistris ha addirittura cambiato il regolamento per poter affidare a Pietro Rinaldi (ex leader di Insurgencia) l’incarico di capo di Gabinetto. L’indennità? Circa 80 mila euro all’anno. «Insurgencia è diventata un’agenzia interinale per i suoi stessi vertici» si lamenta un militante della prima ora. «Ormai organizzano solo feste a Via Mezzocannone occupato». In uno di questi party, il sindaco fu immortalato a fare il trenino. «Metafora di una città che ha i trasporti peggiori d’Italia» fu la battuta più applaudita sul web alla pubblicazione di quella foto. Napoli è strangolata da quasi cinque miliardi di euro di debiti tra amministrazione centrale e partecipate. I servizi sono ridotti al collasso e l’unico spettro che si aggira per la città non è il comunismo ma il rischio dissesto. «Se il sindaco fosse ancora un magistrato, chiamerebbe “favoreggiamento” il supporto che la sua amministrazione comunale ha dato ai centri sociali occupati, a persone che dunque commettono un reato» spiega l’ex assessore regionale Severino Nappi, presidente del movimento Il nostro posto. «Supporto che si è manifestato garantendo spazi di tribuna agli occupanti, attraverso la concessione di spazi gratuiti e sanatorie». In cambio, Insurgencia ha raccolto voti e fatto il «lavoro sporco» come quando aggredì il governatore Vincenzo De Luca lanciandogli contro decine di sacchetti di immondizia, nei giorni in cui il figlio Roberto rimase coinvolto in un’inchiesta (poi archiviata), per favorire de Magistris nella corsa alla Regione Campania, ambizione svanita. «La città è abbandonata a se stessa: cantieri fermi, disoccupazione dilagante e l’incapacità e l’inesperienza assurti a valori» commenta Gianpiero Falco, delegato allo sviluppo regionale di Confapi Campania, l’associazione delle piccole e medie imprese. «In città la parola “crescita” è bandita. E dire che non abbiamo nemmeno la decrescita felice, ma quella tragica». E, a proposito di inesperienza, va segnalato il curriculum del nuovo manager dell’azienda di igiene urbana, Asìa. Maria De Marco, simpatizzante di Insurgencia e fedelissima di de Magistris, è stata chiamata dal sindaco a gestire una partecipata da 220 milioni di euro di fatturato avendo alle spalle un passato da pasticciera e decoratrice di dolci. Un po’ la versione napoletana di quel che Lenin sosteneva quando auspicava che «ogni cuoca dovrebbe imparare a reggere lo Stato». Ma lui, però, si fermava alla teoria.  

Napoli, rimpasto in Comune: ecco l'audio segreto del "patto" contro il sindaco: "Lo logoriamo e votiamo a maggio". Alessio Gemma su Repubblica Tv il 25 ottobre 2019. Ecco l’audio dei consiglieri di maggioranza che siglano mercoledì, nelle stanze del consiglio comunale tra una commissione e l’altra, quello che loro definiscono il "patto di sangue" contro il sindaco, rivelato da Repubblica. Sono gli eletti dei gruppi Agorà, Verdi e Riformisti democratici, scontenti perché de Magistris non li coinvolge nella giunta. Tre gruppi che sommano sette consiglieri: senza il loro voto la maggioranza in consiglio non esiste più. Ipotizzano anche di mandare a casa l’ex pm: "Votiamo a maggio insieme alle regionali". Stefano Buono (Verdi): "Lo logoriamo, dopo una settimana si arrende. È finito…". Ciro Langella (Agorà): "Tutti noi abbiamo i voti per essere eletti un’altra volta". Marco Gaudini (Verdi): "Prendiamo ancora più voti se facciamo questa operazione". Carmine Sgambati (Agorà): "Gli assessori li decidiamo noi, altrimenti arrivederci e grazie…". Gabriele Mundo (Riformisti democratici): "Se mi vuoi dare Asia, devo mettere il presidente e due consiglieri".

Alessio Gemma per “il Venerdì - la Repubblica” l'11 novembre 2019. Quando deve incitare i suoi definisce Napoli «un laboratorio politico». Un modo gentile, da ex magistrato di ferro, per catalogare una maggioranza che dal 2016 - anno della rielezione a sindaco - abbraccia un po' di tutto, compresi transfughi di Forza Italia e Pd. Ma Luigi de Magistris ora deve fare i conti con le spire di quella classe politica che lui stesso ha (ri)prodotto in consiglio comunale il 25 ottobre. In un audio rivelato da Repubblica si sentono le voci di cinque consiglieri alleati dell' ex pm che congiurano contro di lui, scontenti per non aver ottenuto ancora incarichi e poltrone in giunta. Una faccenda non inconsueta di spartizione, però con toni da Gomorra. «Lo logoriamo, è finito». «Gli assessori li decidiamo noi». «Finora solo sputazzate in faccia». Il fatto è che quei consiglieri dei gruppi Agorà, Verdi e Riformisti democratici sanno di contare, perché senza di loro la variegata maggioranza arancione non avrebbe più i numeri per andare avanti. Ma chi sono i cinque infedeli? C' è Ciro Langella, leader dei tassisti napoletani, eletto tre anni e mezzo fa tra le fila dello sfidante del sindaco, il candidato del centrodestra Gianni Lettieri, poi passato alla corte di de Magistris; Gabriele Mundo, già assessore negli anni Novanta, eletto nel Pdl alle elezioni del 2011 e per anni nella segreteria dell' onorevole berlusconiano Ermanno Russo, successivamente folgorato nel 2016 sulla via arancione; Carmine Sgambati, un passato nella Margherita, poi tra i fedelissimi del sindaco nella prima lista civica Napoli è tua, sorpreso di recente in affitto - a un canone stracciato - in un appartamento nel salotto buono del quartiere Chiaia, di proprietà di un ente di diritto privato controllato dal Comune (una fondazione per la cura dei ciechi e disabili); Stefano Buono, consigliere dal 1993 con La Rete di Leoluca Orlando, poi nei Verdi dell' ex ministro Pecoraro Scanio, una breve parentesi nell' Idv salvo rientrare in Comune con il partito ambientalista che oggi a Napoli è in grado di barcamenarsi tra due acerrimi nemici: in Comune con De Magistris, in Regione con De Luca. Infine c' è Marco Gaudini da dieci anni nei Verdi, che nel curriculum si dichiara impegnato a diffondere «i valori della legalità», salvo benedire così il patto tra ribelli: «Prendiamo ancora più voti se facciamo questa operazione». E il sindaco come l' ha presa? Dice: «Non mi faccio intimidire», ma il futuro della giunta è tutto da scrivere. In in un audio il "patto di sangue" tra cinque consiglieri di maggioranza. obiettivo? scalzare il sindaco Luigi de magistris e votare a maggio. «lo logoriamo, si arrenderà». ecco, uno per uno, chi sono i congiurati.

De Magistris batte Raggi: cambiati  33 assessori, rimpasti da record. Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 da Corriere.it. Dica trentatré. A Napoli il sindaco Luigi de Magistris vara il decimo rimpasto di giunta da quando è stato eletto per la prima volta, nel giugno 2011. In otto anni il magistrato sceso in politica ha cambiato 33 assessori e cambiato tre vicesindaci: un turbinio di rimpasti di deleghe, raccontati dal Corriere del Mezzogiorno, in una città che stenta a ripartire. Dalla prima giunta arancione, il colore del movimento civico di «Dema», è sopravvissuta soltanto un’assessora: Annamaria Palmieri, responsabile della Scuola. Si tratta di un record, imbattibile e imbattuto, visto che il primo cittadino partenopeo ha battuto di gran lunga, e in proporzione, persino la sindaca Virginia Raggi, che a Roma ha cambiato 13 assessori in 3 anni e mezzo. L’ultimo rimpasto in Campidoglio è stato varato a settembre, ad un anno e mezzo dalla fine del primo mandato e con la prospettiva più che concreto che non ce ne sarà un secondo. L’ultima svolta fatta scattare da de Magistris è stata pensata in prospettiva delle imminenti elezioni regionali: nel 2020 si voterà in Campania (a Napoli nel 2021), ma nel fronte di centrosinistra il quadro delle candidature è ancora piuttosto incerto. Ce la farà il discusso governatore uscente Vincenzo De Luca (Pd), mai andato d’accordo con «Dema», a correre per un secondo mandato?

La mente di De Magistris ormai gira in una lavatrice “self-made”. Roberto Scafuri su Il Giornale il 24 ottobre 2019. Ma che accade al sindaco di Napoli, Luigi de Magistris? Colto da evidente cupio dissolvi, più confuso che confusionario, smarrito il senso di una sua travolgente (ma autostimata) ascesa nell’empireo della politica italiana, il primo cittadino napoletano più che a un Masaniello assomiglia ormai a un Capitan Fracassa. O piuttosto a un miles gloriosus della commedia plautina. Con involontari infortuni autolesionisti, come quando promise, l’incauto, che Napoli sarebbe assurta “a livello mondiale come efficienza nei trasporti nel 2019” (era luglio del 2017). Incontentabile oltre che incontenibile, qualche giorno fa ci è cascato di nuovo, presentando l’arrivo di alcuni nuovi treni del metrò: “Sono 19, ma ne arriveranno altri 5. Avranno tutti i confort: aria condizionata, aria calda, wi-fi, aiuti per i disabili. Saremo secondi solo al Giappone”. Mentre lui veniva preso a pomodori virtuali dal Web, persino un autista dell’Azienda municipale dei trasporti napoletana si è sentito in dovere di smentire il sindaco, e ha postato un videoclip: “Venga un giorno a sua scelta con me sulla linea che preferisce… Come sanno i napoletani che veramente prendono i mezzi pubbici, altro che Giappone e capitale mondiale. E’ come sostenere la verginità di Cicciolina…”. Inutile aggiungere che anche la situazione reale ogni giorno si incarica di smentire. Una lista infinita, di cui basta ricordare solo l’ultima settimana: lo scandaloso stop dei treni della Cirumvesuviana, con i passeggeri costretti a proseguire ardimentosamente sui binari; il disabile che si è attaccato con una corda nell’autobus privo delle regolamentari cinture di sicurezza; le continue soppressioni delle linee fatte passare per riduzioni temporanee del numero di corse; i continui ritardi e guasti “improvvisi” della Linea 1 della Metropolitana, quasi sempre neanche comunicati nelle stazioni. Ma non di solo trasporto, vive l’inattendibilità del sindaco. L’altro giorno, sul caso della chiusura Whirpool, è arrivato a dire che in caso di confermata chiusura dello stabilimento a Napoli, “faremo un centro produzione collettiva di lavatrici tutto italiano». Meraviglioso, come titolo di “Lercio” o del mai troppo compianto “Male”. Lavatrici “made in Naples”: sarebbe sembrata una battuta mal interpretata, se in un recente passato De Magistris non avesse proposto il ripristino della moneta napoletana (ritorno del tallero?), un referendum per rendere Napoli “Città autonoma” (ritorno al Ducato?), una “flotta navale napoletana” (magari: un tempo era tra le prime d’Europa). Alle promesse, ai toni da rivoluzionario ardente della rinascita partenopea, sono subentrate le fanfaronate, le sparate a vuoto, le frasi a effetto campate in aria. Segno che il sindaco attraversa una fase difficile della sua carriera, alla vigilia del nono anno a Palazzo San Giacomo si rende conto che, escludendo l’improbabile (e sempre minacciata dai canali televisivi che lo ospitano quasi ogni sera) candidatura alle prossime Regionali, la sua carriera politica potrà dirsi esaurita così, in un inconsolabile sotto vuoto spinto dell’incomunicabilità. Neppure le sue “creature”, tipo DemA (ineffabile sopravvalutazione dell’Io, tramite cognome, nascosto dietro il pudico acronimo: Democrazia e Autonomia), hanno mai preso vita. Sopraffatte dall’indifferenza generalizzata, si sono afflosciate come palloni troppo gonfi. Aria nello spazio, fantasie sovrapposte alla realtà, il mesto destino che sembra voler precipitare De Magistris nel buco nero di un universo da lui medesimo creato.

Filippo Facci: "Corni, Pulcinella e Che Guevara sulla scrivania. Ecco la razionalità di Luigi De Magistris". Libero Quotidiano il 21 Settembre 2019. 'O sindaco ha detto che ai semafori, anziché dare una moneta perché puliscano il vetro, si deve darla perché puliscano il marciapiede: «La città dev'essere più pulita, ci dobbiamo lavorare tutti». Chiamate un medico, ma prima fategli dare un occhiata anche alla scrivania di Luigi De Magistris: una profusione di corni e cornetti di ogni dimensione e colore (uno, azzurro, sembra un vibratore) e ferri di cavallo, piccole coppe, figure varie della tradizione napoletana, il pupazzetto di un gufo (forse in chiave Anti-Renzi, che definì gufi i suo avversari) e poi un doppio Che Guevara, una farlocca «agenda rossa di Paolo Borsellino» (che non esiste) e ancora libretti, un medaglione, un ingombrante modello di barca da pesca, foto con Papa Francesco, altre foto con cornici pacchiane, statuette, un Pulcinella, lettere di bambini, la miniatura della chitarra di Pino Daniele, le mimose per la festa della Donna, un modellino di cassonetto della monnezza, un modellino di treno della metropolitana, insomma un ibrido tra le orribili vetrinette della nonna e la cameretta di un adolescente. Tutti gli oggetti sono rivolti verso l' ospite, anche le corna. Riferiscono peraltro che la composizione di oggetti e cianfrusaglie cambia a seconda dell' interlocutore: che speriamo sia di stanza al pronto soccorso, ripetiamo.

LA SCENEGGIATA - Un tempo c' era anche la brocca d' acqua, ma non per berla (sospettiamo bevesse altro) ma per testimoniare la battaglia referendaria sull' acqua libera. La scrivania inquadrata a Stasera Italia su Rete 4, mercoledì scorso, era diversa da quella inquadrata sul Tg3 Campania quando l' intervistò il collega Massimo Calenda, o, ancora, da quella inquadrata durante la trasmissione Tagadà su La7. Talvolta il ripiano è sgombro di fascicoli e talvolta il sindaco ne tiene qualcuno rigorosamente chiuso, come a esporre pure un' attitudine napoletana al lavoro. Strano che non ci siano poster di Maradona, di Totò e di Eduardo: poi magari ci sono, vai a saperlo. Manca anche il modellino di un' ambulanza: ne fanno che si sentono anche le sirene. Visto e detto questo, non serve Sigmund Freud per buttar lì qualche considerazione. La prima: quella non è la scrivania di De Magistris, quella scrivania è De Magistris. Seconda considerazione: essa mostra quanto egli lavori. Terza: la scrivania del rappresentante amministrativo della terza città d' Italia non è una cosa seria, chissà come mai. Quarta: quel casino ostentato serve palesemente a mostrare agli interlocutori (o telespettatori) di quale babele di simboli sia composta l' identità politica dell' ex magistrato, intesa come una paccottiglia che cambia continuamente disposizione come una bancarella al mercato. Ultima nota, ma è già troppo raffinata: l' adolescente appende poster in cameretta per rafforzare un' identità in formazione, quindi tende e strapparli quando è cresciuto: qui invece i poster crescono continuamente, il ragazzo non cresce mai. Lo dimostra la sconcertante uscita fatta l' altro giorno a Televomero: «La città deve essere più pulita. E per essere più pulita, ci dobbiamo lavorare tutti. Gli ho dato 5 euro a un ragazzo extracomunitario che l' altro giorno puliva in maniera egregia un marciapiede, e diserbava pure. Ho detto: finalmente! Invece di pulire i vetri - ca 'a gente s' è scocciata, perché il lavavetri stanca - fate questa operazione, che il napoletano è generoso il napoletano è generoso il napoletano è generoso. E questo è un modo di integrazione straordinario, no? Non è una cosa straordinaria?».

DARE L'ELEMOSINA - Come no. Il napoletano è così generoso che ai semafori dovrebbe pagare per quello che migliaia di dipendenti dell' Asia, l' azienda che dovrebbe pulire la città, fa con un successo conosciuto in tutto il mondo. Il filigrana s' intravede un evoluto modello di integrazione fondato sull' elemosina, sul lavoro in nero e sullo sfruttamento degli extracomunitari: questo perché il sindaco non garantisce i servizi essenziali. S' intravede anche il cittadino napoletano perbene (quello che in pochissimi quartieri fa la raccolta differenziata) che da imbecille deve o dovrebbe pagare anche la Tari annuale, oltre a 9 milioni e mezzo di euro per i soli dirigenti di San Giacomo, il palazzo dove il sindaco De Magistris ha perlomeno dato il buon esempio: la raccolta differenziata la fa sulla scrivania. Filippo Facci

Stefano Balassone per “la Repubblica” il 23 settembre 2019. Storie italiane, a vederne la puntata del 19 settembre, attorno alle h10 su Rai 1, è di per sé l'ennesima fiera di fatti di cronaca drammatizzati, con innesti eventuali tanto per variare. Ma il 19 di settembre è stato un giorno speciale perché c'era San Gennaro col relativo "miracolo" in diretta. E in effetti, la Teca è giunta all'occhio dei fedeli, col contenuto, per onore di cronaca, già liquefatto. La conduttrice bionda e issata sul tacco 12, ha pronunciato spesso, come fosse niente, la parola "miracolo", ma senza virgolette, alla faccia del fisico della materia, ostaggio più che ospite del programma, che diceva di come siano ben conosciute varie sostanze che passano dal gel alla liquefazione e viceversa. E noi, sciocchi, ad aspettare che qualcuno gli dicesse: "toh, fammi capire meglio, quante sono, ci fai vedere come funzionano?". Meno male che, in mezzo a un mare di dichiarazioni devotissime a priori, una voce, un po' persa nella confusione, ha ricordato che la saggia Chiesa Cattolica il miracolo non lo ha mai riconosciuto, pur approvando il costume di venerare quel Santo così importante nella storia e nelle usanze del "popolo napoletano". Che infatti, ha soggiunto qualcuno, un culto paragonabile per intensità e dedizione l'ha tributato a Diego Maradona, e a lui soltanto. In sostanza la trasmissione ha cercato di cavarsela per le vie più pavide, buttandola in folklore e scansando le domande, nonostante il vecchio trucco di ospitare in studio voci plurime. Un'occasione persa per capire qualcosa di più serio circa Napoli, il suo popolo, la Chiesa e il mondo. Per i palati grossi sono stati frequenti, in compenso, i "momenti molto emozionanti, molto forti", le constatazioni che "il popolo ha bisogno di fede", il ricordo della "magnificenza del tesoro", citando il film sul tentato furto, e sopra tutto l'esclamazione che "il miracolo è avvenuto e ve lo abbiamo testimoniato" nel modo migliore e cioè "in diretta", proprio come fosse la partita.

Arnaldo Capezzuto per Ladomenicasettimanale.it il 21 settembre 2019.  Suscita reazioni e proteste la "sponsorizzazione" del cardinale Crescenzio Sepe, all’interno del Duomo di Napoli a pochi minuti dalla fine della celebrazione del prodigio dello scioglimento del sangue del Santo Patrono, di foulard e cravatte con l’effige di San Gennaro dell’atelier di Ugo Cilento di via Riviera di Chiaia. Non è piaciuto per niente il bazar commerciale alla Deputazione di San Gennaro anzi appresa la notizia raccontata dalla domenicasettimanale.it non sono mancate le dure critiche. È vero che la festa di San Gennaro è festa di popolo sospesa tra il Sacro e il Prfano ma vedere il cardinale Crescenzio Sepe trasformarsi in una Wanna Marchi è davvero troppo. C’è chi segnala che nel Duomo erano presenti anche dei banchetti dove partenopei e turisti potevano acquistare gadget, statuine e pubblicazioni del Santo Patrono. Se qualcuno pensa e immagini che "I mercanti del Tempio" vengono cacciati dall’alto prelato si sbagliano di grosso, anzi Sepe pare avere una vocazione per il marketing. All’amico Ugo Cilento non poteva assolutamente negare una benedizione e il lancio dei nuovi prodotti. Pare che il prezzo ammonti a circa 160 euro per il foulard mentre è di 120 euro per la cravatta. Non appena l’inquilino di Largo Donnaregina sotto ai flash e l’occhio delle telecamere ha "benedetto" i nuovi prodotti della maison napoletana è partita una campagna martellante via social. Efficace, tempi perfetti e bravura, insomma, il cardinale Crescenzio Sepe si conferma un bravo "mast ‘e fest".

NAPOLI COM'ERA E COM'È DIVENTATA. SEMBRA IL GRATOSOGLIO DI MILANO. Paolo Isotta per “Libero quotidiano” il 21 agosto 2019. Le mani le metto avanti io. Sono ripetitivo e noioso: come tutti i vecchi. Infatti fra due mesi compirò sessantanove anni: godo di buona salute, mi si tiene in piedi tutto, godo di una discreta memoria. Ma non faccio che ripetere che il mio primo orgoglio è di essere napoletano, anche se di sangue un po' misto. E che cos' è il carattere dei veri napoletani? Non ne esistono quasi più. Qualche giorno fa una bellissima signora mi ha fatto il dono di venire a trovarmi da Milano. Avrei voluto mostrarle il più bel Presepio del mondo, quello della Certosa di San Martino. Nel mese di agosto il personale è quasi tutto in ferie: la sezione era chiusa. Ci hanno suggerito di rivolgerci a un capo-servizio. Il gentiluomo, sentendo una mia acconcia preghiera (non feci l' errore di spiegare l'importanza della Signora: si sarebbe rifiutato, allora) e udendo la che dama era venuta da Milano apposta ci ha aperto le sale chiuse, lasciandocele visitare per tutto il tempo che volevamo. Non ha accettato, col suo collaboratore, nemmeno un caffè. Questa era Napoli. Fare una cortesia era un piacere della vita. Della quale miracolosamente ho ritrovato un frammento. E mi rendo conto che, raccontando questa storia, espongo il capo-servizio a un grave pericolo. Qualche superiore affetto da volontà di potenza gli farà, nel migliore dei casi, un ammonimento scritto, ma potrà sottoporlo a sanzioni anche gravi. E verrà elogiato dai suoi capi. Perché ormai non esiste più un'identità cittadina: solo una terribile schizofrenia cittadina. E vengo a quel che è Napoli. Leggo su "rainews" che oggi, diciassette, una giovane donna è stata colta per istrada dalle doglie. È salita a volo su di un autobus diretto all' ospedale Cardarelli. Incredibile: sul mezzo c' era un controllore. Un caso su mille. Le ha chiesto il biglietto. La vera Napoli, quella che non esiste più, udendo il fatto, l'avrebbe fatta distendere sui sedili, la partoriente, le avrebbe fatto arrivare l' immancabile bicchiere d'acqua, qualche signora le avrebbe dato aria col ventaglio, l'avrebbero circondata di buone parole. Il controllore le ha emesso una multa per mancanza di biglietto: 71 euro. Poi l'ha obbligata anche a scendere. I passeggeri non si sono ribellati. Ciascuno si è fatto i cazzi suoi. San Gennaro ha accompagnato personalmente la partoriente, l'ha coperta col Paterno Manto; ed è sanamente nata una bella bambina. Mi auguro si chiami Gennara e non Jacaranda o Jeifer. Ma adesso debbo guardare il caso dall' altro lato. Il comportamento del controllore è stato, oggettivamente, indegno. Egli merita di essere sputato in faccia; ma è stato un ligio esecutore delle norme. Ora, proviamo a metterci nei suoi panni. Che vita, farà costui? Forse sarà un Himmler affetto da delirio di onnipotenza. Conculcare chi è in una situazione di inferiorità rispetto a noi è una delle caratteristiche dell' essere umano, ch' è per lo più infame, traditore, avaro approfittatore, odiatore del prossimo e dei parenti. Con tutto ciò, che sia un Himmler dubito. La vita del controllore. I "mezzi" sono pieni solo dei reietti della vita: negri, cingalesi, cinesi, sottoproletari e miserabili nostrani; nonché persone civilissime che vivono in civilissima povertà. Basta provare il lezzo onde si è avvolti salendo. Gli sventurati sono violenti, la natura li costringe per autodifesa. Vi immaginate quante volte quel controllore, alla richiesta del biglietto, si sarà vista rivolta la punta di una "molletta", ossia di un serramanico? Ovvero malmenato da un singolo o da un gruppo. Per bene che gli sia andata, minacciato: di minaccia seria, non vaniloquente. Non oso contare le ecchimosi, gli ematomi, gli schiaffi che avrà ricevuti. E quanti euro guadagnerà al mese questo padre di famiglia? Lavorerà, la moglie? Avrà figli studenti o disoccupati? Voglio credere che quest'uomo non si trovasse, per vicissitudini personali, sui compos. Voglio credere che, a sua volta conculcato dagli altri e dalla vita stessa, abbia voluto per un istante sentirsi qualcuno, a onta della crudeltà che commetteva. Ma questa è la Napoli di oggi. Non diversa da Tor Bella Monaca o dal Gratosoglio o dallo Zen. Noi, che possiamo pontificare e magari dire cose non banali, non ci rendiamo conto di quanto siamo privilegiati. Scriviamo dalle nostre scrivanie, in stanze con aria condizionata. Perché la vita è, quasi per tutti gli altri, un peso terribile da portare. Ma è l'unico nostro bene. A questa verità rispondo con un'altra verità: che ne è la contraddizione. Turno, che non è l'eroe inesorabile di tipo omerico: a Virgilio non poteva sfuggire che una coscienza tormentata. "Ille mihi ante alios fortunatusque laborum / egregiusque animi, qui, ne quid tale videret, / procubuit moriens et humum semel ore momordit". Ecco la traduzione di Luca Canali: ottima; ma Virgilio è intraducibile perché non puoi spostargli neanche una sillaba: "Quegli è per me fortunato più di tutti fra gli affanni, / ed egregio d' animo, il quale, per non vedere tutto questo, /cadde morendo, e morse una volta per tutte la terra." Hanno ragione ambedue, vero, Vittorio?

RISPOSTA DI VITTORIO FELTRI: Hai ragione tu, caro Paolino, Napoli è cambiata perché ha adottato i costumi del Gratosoglio.

Napoli al collasso. Cornicioni che crollano, lavori bloccati, monumenti in rovina, trasporti il tilt. Ma il Sindaco De Magistris pensa alla carriera politica. Simone Di Meo il 4 luglio 2019 su Panorama. Quel che accade non potrebbe essere più emblematico. Lo sbriciolamento della città, neppure tanto lento, mentre nessuno sembra preoccuparsene. A Napoli, infatti, dai palazzi piovono pietre sui passanti, e in qualche caso li ammazzano, com’è accaduto, l’8 giugno scorso, nella centralissima via Duomo, al povero Rosario Padolino. E, prima di lui, a Salvatore Giordano, 14 anni appena, centrato da un fregio che si era staccato dalla Galleria Umberto I (luglio 2014). E, solo per un miracolo, qualche settimana fa il 17enne tedesco Sebastian Schumann è sopravvissuto a un dragone di ferro che l’ha colpito in testa, camminando in via Porta di Massa. Era appena sbarcato da una nave da crociera con i genitori. Nell’ultimo mese e mezzo, questo stillicidio di crolli ha interessato l’ex cinema Vesuvio, nella zona del Lavinaio, tra Piazza Mercato e il Rettifilo raccontato da Matilde Serao all’inizio del secolo scorso, e la chiesa di Santa Maria del Popolo degli Incurabili, che risale al 1530. Ancor prima dalla facciata di Palazzo Doria d’Angri, da cui si affacciò Giuseppe Garibaldi per annunciare l’annessione del Regno borbonico all’Italia, hanno ceduto e si sono schiantati al suolo alcuni pezzi di cornicione. Non si contano più, d’altronde, i calcinacci e gli intonaci che si staccano da edifici più o meno moderni. Il progetto comunale «Sirena», per il restauro urbano, non è più finanziato dal 2013 per scelta dell’Amministrazione municipale. Ci sarebbero cento milioni di euro dell’Europa per riqualificare il centro storico, patrimonio dell’Unesco, ma in dieci anni ne sono stati spesi appena dodici. Un disastro che rischia di far partire una «procedura d’infrazione» per Palazzo San Giacomo, sede del Comune di Napoli. L’effetto concreto? Se il vento soffia un po’ più forte, meglio restare a casa, consigliano filosoficamente le autorità. Il pericolo non sono soltanto cemento e calcinacci, comunque. Davide Natale (novembre 2018) e Cristina Alongi (giugno 2013) sono le due vittime degli alberi pericolanti che hanno ceduto e si sono abbattuti sull’asfalto, come se un’ascia invisibile avesse tagliato di netto la base. Al minimo accenno di maltempo, l’Ente comunale chiude scuole, cimiteri e parchi. La metà dei quali è già interdetta al pubblico perché non ci sono soldi per la manutenzione e la messa in sicurezza. Quelli agibili sono ridotti in condizioni pessime, come la villa comunale: erbacce, incuria e selciati dissestati, fontane trasformate in piscine. Di recente, una coppia è stata sorpresa a fare sesso dietro una panchina, in pieno giorno. Alcova en plein air. Il verde è sempre più raro, nella città che era diventata cartolina globale in virtù dei suoi pini marittimi. Nei primi tre mesi dell’anno, sono stati abbattuti oltre 220 alberi. Moltissimi sono proprio i pini che si vedevano dalla collina di Posillipo. Un monitoraggio effettuato su 28 mila piante ha dimostrato che 2.500 di questi appartengono alla «classe di propensione al cedimento elevata» ed «estrema». Il Comune ha in organico solo 104 giardinieri di cui 22 potatori. E il budget per gli interventi è di appena 100 mila euro per il triennio 2017-19. Si spera che, nel frattempo, le piante resistano. Nemmeno per le nuove opere c’è cura. Via Marina, l’asse costiero che collega il cuore della città all’autostrada, appare come un cantiere a cielo aperto, con i lavori in ritardo di due anni sulla consegna. Attorno all’appalto sono emerse dubbie manovre che hanno portato all’arresto di sette persone tra imprenditori, faccendieri e prestanomi. In piazza Leonardo, al Vomero, altro storico quartiere, la costruzione dei box interrati è ferma da sei anni. Mentre a Porta Capuana la società incaricata dei lavori è letteralmente scappata, dopo le minacce di un estorsore della camorra che pretendeva il «pizzo» sul finanziamento dell’Unione europea. E se tutto va a rilento, la viabilità è la prima cosa che va in tilt. Un guaio considerato che il trasporto pubblico, in città, è quasi inesistente. Dieci anni fa, erano 700 i bus in servizio. Oggi ne funziona soltanto un terzo, circa 250. La metro può contare su appena nove treni con un’attesa media di 12-18 minuti che talvolta tocca la mezz’ora. I macchinisti delle funicolari annunciano scioperi senza preavviso, e migliaia di napoletani e turisti restano interdetti (e arrabbiati) davanti ai cancelli chiusi. Anche gli enti pubblici cittadini non sono messi meglio. L’Azienda napoletana mobilità è in concordato preventivo con un centinaio di milioni di euro di debiti ma, denuncia Marco Sansone dell’Usb, nessuno rinuncia a «privilegi, sacche parassitarie, superminimi e stipendi d’oro pagati a funzionari e dirigenti». A un passo dal crac è anche il Centro agroalimentare (Caan) mentre è già fallita Bagnolifutura (2014). E naviga in cattive acque l’Asìa, l’azienda di raccolta rifiuti. I sacchetti stanno tornando ad affollare i marciapiedi della città per mancanza di personale (la Corte dei Conti ha messo in ferie forzate decine di netturbini e altri si sono accodati in malattia) e per i guasti a uno Stir, uno degli impianti di vagliatura e imballaggio dell’immondizia. Prova generale dell’annunciato disastro che avverrà a settembre, quando il termovalorizzatore di Acerra si fermerà per un mese lasciando il capoluogo all’arbitrio delle discariche provinciali. Chi invece non si ferma è la banda di giovani camorristi che continua a incendiare le «campane» per la differenziata. Ne sono già state distrutte oltre 50. Mancano i soldi alle partecipate comunali perché mancano alla casa madre. Palazzo San Giacomo ha un debito di 2,75 miliardi di euro che, per i magistrati contabili, rappresenta un «periculum incombente sugli equilibri di bilancio». L’Amministrazione del sindaco Luigi de Magistris attende un anticipo di 200 milioni di euro dalla Cassa depositi e prestiti per saldare le 14 mila fatture delle società «in house» e i creditori in attesa da oltre tre anni. Chi ha potuto, ha ceduto le fatture alle banche per ottenere un anticipo. Come l’Enel (5,3 milioni di euro), le suore francescane (430 mila euro), una ditta di manutenzione ascensori (90 mila euro) e un rivenditore di fuochi d’artificio (40 mila euro) oltre a decine di cooperative sociali e ditte edili. L’Ente è in pre-dissesto e ha già alzato al massimo tutte le imposte spalmando, fino al 2044, sui contribuenti un disavanzo procapite di 1.763 euro. Una situazione drammatica che però non sembra preoccupare più di tanto il primo cittadino, alla guida della città da 8 anni, impegnato in una complicata partita di sopravvivenza politica. Nel 2021 scadrà il suo secondo mandato, e non potrà più ricandidarsi. Le Regionali, tra un anno, sono un obiettivo oltre la sua portata. Il partito di cui è presidente, deMa, è poco più di un «cespuglietto» senza radicamento sul territorio in cui coabitano, forzatamente, varie anime di estrema sinistra. Si è frantumato anche il gruppo dei centri sociali, sulla piattaforma elettorale, dopo che il primo cittadino ha deciso di premiare il solo laboratorio occupato «Insurgencia» con vari incarichi. «Un centro per l’impiego più che un centro sociale» affermano i detrattori, considerato che tutti i suoi leader si sono sistemati con stipendio rigorosamente pubblico: Pietro Rinaldi, capo di Gabinetto alla Città Metropolitana; Laura Marmorale, assessore comunale al Welfare; Eleonora De Majo, consigliera comunale; Ivo Poggiani ed Egidio Giordano, presidente e «assessorino» della III Municipalità. Non male per chi dice di ispirarsi all’equità marxista. L’unica possibile via d’uscita per de Magistris è il Parlamento, ma per arrivarci ha bisogno di una visibilità che i disastri napoletani gli restituiscono, in negativo però. Per questo, da mesi, ha ingaggiato una personalissima battaglia contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini soprattutto sul tema dei migranti, per accreditarsi come leader antileghista. Aveva promesso addirittura il varo di una «flotta con 400 imbarcazioni» per andare a salvare i profughi in mare, il 29 giugno. Alla fine ha dovuto virare su un meno scenografico corteo al largo di Castel dell’Ovo, battezzato pomposamente Un mare di pace con annesso concerto organizzato dai soliti amici di Insurgencia. Se la rivoluzione non è un pranzo di gala, a Napoli assomiglia pericolosamente a un buffet self-service.

·         Napoli martoriata.

In cinque sullo scooter senza casco. Lo sfogo: "Non siete napoletani". È diventato virale il post pubblicato su Facebook dall’attore partenopeo Angrisano, che lancia un grido d’allarme alle istituzioni. Ignazio Riccio, Sabato 07/09/2019, su Il Giornale. Sono centinaia i napoletani che hanno condiviso il post pubblicato su Facebook dall’attore partenopeo Cosimo Angrisano, diventato subito virale. Un grido di dolore quello dell’artista, amareggiato e offeso da quella foto scattata nel centro di Napoli: una coppia a bordo di uno scooter insieme a tre bambini, tutti senza casco. Angrisano ha scritto una lunga lettera, nella quale ha mostrato tutto il suo sdegno per l’immagine negativa che, ancora una volta, varca i confini della città partenopea. “Siamo stanchi della vostra prepotenza – ha scritto l’attore – delle vostre urla sguaiate, delle suonate di clacson alle tre di notte sui vostri motorini rubati. Siamo stanchi della vostra ignoranza, ci danno la nausea i vostri capelli unti tirati dietro, i vostri orecchini a lampadario e il vostro pressoché nullo senso del contesto e del buongusto. Ci viene il vomito quando vediamo dieci di voi senza casco su un motorino senza targa e i bambini in mezzo. Non ne possiamo più del dover pagare ogni volta che parcheggiamo perché voi dovete "campare", ma non vi siete mai preoccupati del "come". Siamo stanchi della vostra prepotenza alla guida, della vostra inesistente attenzione all'ambiente, del fatto che ancora gettate l'immondizia per strada. Siamo stanchi di dover "tirare a campare" appresso a voi, perché non sapete cosa siano l'efficienza e il senso del dovere”. Angrisano se la prende con le istituzioni. “Sono stanco – ha continuato - anzi siamo stanchi di questi rifiuti umani che di partenopeo non hanno niente, nonostante siano nati a Napoli. Non ce la faccio più a sopportare questo marciume che scorre per le strade della mia città. C’è una strategica mancanza di controllo sul territorio, colpa dei governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni”.

Cosimo Angrisano 5 settembre alle ore 13:47: Siamo stanchi. Siamo stanchi della vostra prepotenza, delle vostre facce allampadate, delle vostre urla sguaiate, delle suonate di clacson alle 3 di notte sui vostri motorini rubati. Siamo stanchi della vostra cafonamma, dei vostri vestiti da 1000 euro, per poi sembrare i clown della buonanima di Moira Orfei. Siamo stanchi delle vostra ignoranza, delle vostre figure di merda non appena aprite bocca e a cui siamo costretti a vederci accomunati. Ci danno la nausea i vostri capelli unti tirati dietro, i vostri orecchini a lampadario e il vostro pressoché nullo senso del contesto e del buongusto. Ci viene il vomito quando vediamo 10 di voi senza casco su un motorino senza targa e i bambini in mezzo. Non ne possiamo più del dover pagare ogni volta che parcheggiamo perché voi dovete "campare", ma non vi siete mai preoccupati del "come". Ci viene l'orticaria quando sentiamo i vostri mugugni tribali racchiusi tutti in 3/4 parole chiave (pescmman, lot, kitammuort, bucchin). Siamo stanchi della vostra prepotenza alla guida, della vostra inesistente attenzione all'ambiente, del fatto che ancora gettate l'immondizia per strada. Siamo stanchi di dover "tirare a campare" appresso a voi, perché non sapete cosa siano l'efficienza e il senso del dovere. Siamo stanchi di dover vivere su un tesoro inestimabile e di doverci accontentare delle briciole perché voi siete la schiuma dell'umanità. E non chiamatevi napoletani, perché il vostro nome è, e sarà per sempre uno: #zuozi anonimo Napoletano. L'ho letta e condivisa immediatamente. Sono stanco, anzi siamo stanchi , di questi rifiuti umani che di partenopeo non hanno niente nonostante siano nati a Napoli. Non ce la faccio più a sopportare questo marciume che scorre per le strade della mia città dando voce ai tanti bastardi razzisti che si trovano in tutta l'Italia, non solo al Nord. ' C'é una strategica mancanza di controllo sul territorio, colpa dei governi che si sono succeduti negli ultimi 30 anni. Maledetti bastardi non hanno mai fatto niente per la mia terra. Che il Buon Dio li fulmini! VOI NON SIETE NAPOLETANI !

Napoli, permesso premio all'assassino del vigilante per festeggiare i suoi 18 anni. La figlia: "Vergognoso". Marta Della Corte: "Si tratta di una decisione incomprensibile: non c'è niente di rieducativo in tutto questo". Dario Del Porto il 10 settembre 2019 su La Repubblica. Una delle foto ritrae una coppia che si bacia teneramente davanti a due tavole imbandite. Le tovaglie a fiori, bicchieri e bottiglie di carta, il dolce nel piatto. Sul muro, un festone con la scritta “18”. Nell’altra c’è un gruppo di ragazzi che scherza. Scene da un compleanno condivise sui social, se non fosse il festeggiato, appena diventato maggiorenne, è uno dei componenti della banda di giovanissimi, all’epoca tutti minorenni, che la sera del 13 marzo 2018 uccise brutalmente a sprangate l’inerme guardia giurata Francesco Della Corte, aggredito mentre prestava servizio davanti alla stazione di Piscinola della metropolitana con l’obiettivo di rapinargli la pistola d’ordinanza. I tre imputati, tutti rei confessi, sono stati condannati in primo grado a 16 anni e mezzo di reclusione. «Ragazzi indifferenti al male», li ha definiti il giudice Angela Draetta nelle motivazioni della sentenza che ha respinto la richiesta di messa alla prova. Il 19 settembre è fissato il processo d’appello. Alla fine di luglio uno di loro, Ciro U., assistito dall’avvocato Nicola Pomponio, ha chiesto e ottenuto dai giudici il permesso di lasciare temporaneamente l’istituto minorile di Airola, dove è detenuto, per incontrare familiari e amici in occasione del suo diciottesimo compleanno. Ad ospitarli, una canonica a poca distanza da Airola ed è lì che sono state scattate le foto, poi pubblicate qualche giorno dopo da una familiare dell’imputato e, assicura la difesa, a sua insaputa. Il permesso è stato accordato tenendo anche conto delle valutazioni degli assistenti sociali, così come previsto dalla legislazione minorile, ma suscita la reazione indignata della figlia della vittima, Marta Della Corte. «È vergognoso - dice a Repubblica - mi chiedo come sia possibile concedere un permesso premio a una persona che solo un anno fa è stata condannata per omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà. Lo trovo assurdo, non c’è niente di rieducativo in tutto questo. Io non ho festeggiato il mio, di compleanno, perché non me la sarei mai sentita dopo il dolore che ho subito. E questi ragazzi, allora, dove hanno trovato il coraggio dopo un delitto tanto grave? Evidentemente, non hanno compreso quello che hanno fatto». Marta ricorda che solo uno degli imputati, alla vigilia del processo di primo grado, «ci ha scritto tre righe di scuse. In udienza, li ho sentiuti parlare. Spiegavano come avevano ucciso un uomo, un padre di famiglia che usciva di casa tutti i giorni per lavorare, senza piangere, senza lasciar trasparire alcuna emozione. Nelle loro parole non c’era alcun sentimento. Come famiglia, ci siamo affidati sin dal primo giorno alla giustizia, ma oggi comincio ad avere paura».

Vigilante ucciso a Napoli, la figlia: «Un pugno quel killer libero  per festeggiare i 18 anni». Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Fulvio Bufi su Corriere.it. Dal giorno in cui furono arrestati per l’omicidio di suo padre, Marta va spesso sui profili social di quei tre ragazzini, fino a un mese e mezzo fa tutti minorenni, che la sera del 13 marzo 2018 uccisero a sprangate, nei pressi della stazione Piscinola della metropolitana, la guardia giurata Francesco Della Corte, al quale avrebbero voluto rubare la pistola. Lo fa perché, anche se loro ora che sono in carcere non possono più caricare nuovi post, vuole vedere se continuano quei messaggi di incoraggiamento che all’epoca degli arresti arrivarono a pioggia. «Ma quello che ho scoperto alla fine di luglio mi ha gelato, è stato come un pugno nello stomaco», racconta la ragazza. Sulla pagina del più grande c’erano nuove foto, ed erano foto di lui che festeggiava con la fidanzata e gli amici il suo diciottesimo compleanno. «Lo hanno fatto uscire, gli hanno dato un permesso premio. È assurdo».

Marta, lei è rimasta zitta per settimane. Poi non ce l’ha fatta più?

«Non volevo che mia madre e mio fratello provassero lo stesso dolore che ho provato quando ho visto quelle foto. Volevo proteggerli. Ma alla fine mi sono resa conto che tacere non sarebbe stato giusto, una cosa così grave non può passare sotto silenzio».

È indignata, arrabbiata, delusa? Cosa?

«Tutto. È chiaro che se il permesso è stato concesso è perché c’è una legge che lo consente. Ma mi chiedo se sia una legge giusta».

Il capo della Polizia, il prefetto Gabrielli, ha commentato la vostra reazione dicendo «capisco la rabbia dei famigliari, come dargli torto» e che l’Italia «morirà di bulimia normativa».

«Noi siamo sempre stati molto rispettosi delle leggi, abbiamo seguito il processo (i tre ragazzi sono stati condannati in primo grado a 16 anni, ndr) senza mai aprire bocca. Ma è chiaro che il sistema penale minorile non è più adeguato alle attuali capacità criminali di certi giovanissimi».

Lei ha 22 anni e studia Giurisprudenza: non può non credere nella giustizia.

«E infatti ci credo. Ma ho anche il diritto di chiedermi quando è stato che quel ragazzo ha dimostrato di meritare un permesso premio. Quando è che ha mostrato pentimento, dolore per aver ucciso un uomo. Non lo so».

Al processo lui e gli altri come le sono sembrati?

«Gelidi. Ancora mi chiedo come sia possibile per tre ragazzini parlare del padre di famiglia che hanno ammazzato, descrivere la scena senza avere mai una esitazione, senza che per un attimo gli si strozzasse la voce in gola. Mai una lacrima, un’emozione. Niente».

Come se non avessero capito?

«Sì, in effetti dall’esterno un comportamento così puoi spiegartelo soltanto immaginando che non si siano mai resi conto di quello che hanno fatto. Ma quando hanno ammazzato mio padre avevano diciassette anni, e a quell’età lo capisci benissimo che se colpisci qualcuno alla testa con il piede di un tavolo finisci per ucciderlo. E comunque al processo ormai avrebbero dovuto avere tutto molto chiaro».

Incoscienza o strafottenza?

«Ecco, se hai voglia di festeggiare con una condanna per omicidio che coscienza hai?»

Lei ha festeggiato il suo compleanno?

«Non ho proprio nulla da festeggiare, senza mio padre».

Il suo assassino invece sì.

«Perciò credo che non gli interessi proprio capire il male che ha fatto. Se se ne fosse reso conto non lo avrebbe nemmeno chiesto quel permesso».

Invece non solo lo ha chiesto ma lui, o qualcuno per suo conto, ha pure condiviso sui social le immagini dei festeggiamenti.

«Io ingenuamente all’inizio pensavo che gli avessero fatto organizzare una festa in carcere, e avessero fatto entrare gli amici per salutarlo. Non lo immaginavo nemmeno che lo avessero fatto uscire».

Poi ha guardato meglio le foto e ha capito?

«Che mancanza di rispetto. Voglio pure capire che festeggi, ma rendere pubbliche quelle immagini è come voler dire che a lui non importa niente del nostro dolore. E lo premiano pure».

Da Tgcom24 Mediaset.it il 16 settembre 2019. Ancora nel mirino i permessi concessi al killer del vigilante Francesco Della Corte: oltre all'uscita per il suo compleanno il giovane ha beneficiato di altri quattro permessi, di cui uno per sostenere un provino per una società calcistica del Beneventano. Un altro permesso il giovane l'ha avuto per un pranzo con la famiglia in un ristorante dello stesso comune dove si trova il carcere minorile in cui sta scontando la pena. Dopo la pubblicazione sui social delle foto della festa di compleanno, Annamaria Della Corte, vedova della vittima, aveva sottolineato che, finora, non c'è stato nessun segno di pentimento né da parte del ragazzo né della sua famiglia. Per gli altri suoi due complici, invece, non sarebbero stati finora concessi permessi d'uscita dalle carceri minorili di Napoli e provincia dove si trovano. Dimenticati i diritti delle vittime - "Si sostengono sempre di più i diritti dei detenuti, ma dove sono finiti invece i diritti delle vittime e delle famiglie di chi è stato ucciso, di coloro a cui è stato negato il diritto alla vita?". ha detto all'Ansa Marta Della Corte, figlia di Francesco Della Corte. Per Marta, "ormai la linea che separa la riabilitazione da comportamenti ridicoli è diventata veramente sottile: esce dal carcere e va a fare il calciatore? Questa è follia, non posso sopportare che chi ha ucciso mio padre possa andare a fare anche un provino per giocare al calcio malgrado sia accusato di essere un assassino. Per me lui deve scontare 16 anni e mezzo dentro il carcere".

De Giovanni: «Furti, raid e indifferenza, è ora  di lottare per Napoli». Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Maurizio De Giovanni su Corriere.it. Succede a te. E quando succede a te, ti aspetteresti che sia diverso, che il caleidoscopio di emozioni successive all’evento di cui hai sentito parlare sia in qualche modo più intenso, che il rumore che senti dentro sia più forte. Invece provi esattamente quello che hai provato quando te l’hanno raccontato gli altri, amici e parenti, gente comune cui hai letto in faccia il senso di violazione, di intrusione insopportabile. Succede a te, e ritrovi quello che ti aspettavi di trovare. Sorpresa, sconcerto. Rabbia. E scoramento, il senso di una bruciante sconfitta civile e sociale: qualcuno è entrato nel tuo spazio, casa, garage, e ha preso qualcosa di tuo. Non è il valore di quanto portato via, non lo è mai; è piuttosto la paura di non sentirsi più sicuri, di dover guardare per il futuro con timore e incertezza il luogo in cui, fino ad allora, ti sentivi al riparo dalla cattiveria del mondo. È quello il momento in cui rileggi gli occhi degli altri, quelli a cui è accaduto, e vedi i tuoi. È quello il momento in cui vacillano i sentimenti, e senti a rischio uno dei valori centrali ai quali hai uniformato te stesso. Perché a quelli che lo hanno provato hai sentito dire quasi sempre: se potessi, me ne andrei. Se potessi, lascerei tutto questo senza voltarmi indietro. E invece no. Invece è esattamente il contrario. Questa città, sapete, è diversa da tutte le altre. È la capitale di una regione d’Europa, il meridione d’Italia, che ha un prodotto interno lordo inferiore a quello della piccola, bistrattata Grecia. È un’area metropolitana enorme, la più densamente popolata del continente, che ospita oltre tre milioni di persone. È una città povera, poverissima: per averne un’idea sufficientemente attendibile, dovete pensare a Buenos Aires, a San Paolo, a Istanbul o Atene, non certo a Mantova o a Treviso. Ha una storia millenaria, una cultura peculiare e bellezze incomparabili: ma ha anche intere aree, quartieri e zone che non sono sotto il controllo dello Stato. Ci pensate? La terza città d’Italia, un luogo visitato ogni anno da milioni di persone, una meta del turismo mondiale che è uno dei biglietti da visita del bel paese, soggetta a un’emergenza criminale che sembra endemica, non estirpabile. È questa l’antinomia, la contraddizione: da un lato la bellezza, l’opportunità immensa di un’area unica; dall’altra intere generazioni di giovani che non vanno a scuola, uno su due, nell’indifferenza generale, e confluiscono per lo più nelle file del crimine. Una scorciatoia facile per un illusorio benessere, con la giustificazione altrettanto facile dell’assenza di opportunità di lavoro. È su questa contrapposizione che si deve scegliere da che parte stare. Certo, si può fuggire. Lasciare tutto al proprio destino e cercarsi un altro posto, più tranquillo e sereno, dove poter essere onesti impunemente. Ma si può scegliere di rimanere, invece. Di non essere passivi e di alzare la voce. Di provare, una volta tanto, a fare rete con le persone oneste, la quasi totalità, che hanno avuto per troppo tempo la colpa del silenzio e che adesso possono e debbono, grazie ai social che danno voce, chiedere di poter riscuotere quei diritti che altrove sono di normale esercizio. È quello che ha detto mio figlio, con forza e dignità. Ha detto: io non me ne vado da Napoli. Noi non ce ne andiamo. E accettiamo la sfida, per amore di una città meravigliosa e perennemente moribonda ma immortale.

 “NAPOLI NON È ITALIA, È UNA COSA A PARTE E COME TALE VA GESTITA”.  Da “la Zanzara – Radio24” il 7 maggio 2019. “Napoli non è in Italia. E’ una realtà a parte e come tale va gestita, come fosse un posto diverso, regole diverse e consapevolezze diverse. Che non ci decidiamo ad ammettere”. Lo dice Filippo Facci, giornalista, a La Zanzara su Radio 24, parlando del caso della piccola Noemi ferita dopo una sparatoria tra bande. “Ho anche una querela dalla città di Napoli – dice Facci – per aver detto certe cose. I napoletani sono una diversità nel Paese. Stiamo parlando ovviamente di generalizzazioni, il mondo è tutto una generalizzazione. E’ chiaro che non sto parlando delle brave persone e dei signori che ci sono a Napoli”. “I clan – dice ancora Facci – sono a Napoli e non a Bolzano. Non a caso. Ci sono cause storiche, d’accordo. Ma anche una realtà. E i napoletani non vogliono ammettere una diversità evidentissima della città di Napoli in Europa e nel mondo. Tutto è a parte, soprattutto le cose palesi che vengono trattate come normalità”. Poi attacca Saviano: “Ho cambiato idea su di lui. Gomorra ha riqualificato l’immagine della camorra, non ci sono dubbi. Io ho sempre difeso Saviano e non ho mai messo in relazione Gomorra e il successo televisivo della serie con la rinascita, soprattutto tra i bambini, del mito della camorra. Ma ormai è un problema risolto, è così. Se parli con le forze dell’ordine, con i  magistrati, gli avvocati, ti dicono tutti la stessa cosa. A negarlo è rimasto solo lui. Ti assicuro che non sono originaloide. Sto dicendo una cosa che a Napoli, negli ambienti che contano, considerano assolutamente assodata. Sono state fatte indagine sociologiche su questo”.  Poi torna su Napoli: “C’è una rassegnazione, un fatalismo, che non servono. E poi è sempre la colpa di qualcun altro. Del Nord, del clima, del caldo. Deve venire uno da fuori per risolvere le cose. Come avvenne col prefetto Mori durante il fascismo. A Napoli c’è un humus in cui la camorra viene fuori meglio che altrove. Non è il Dna, che non c’entra.  Si chiama cultura, è l’ambiente che è predisposto”.

Napoli martoriata. Sul corpo della bambina di 4 anni in gravi condizioni la richiesta di un maggiore impegno a Salvini diventa corale: i 5s, i dem e la società civile chiedono più sicurezza in città. Il ministro: "Già mandati più uomini". Sepe tuona. Federica Olivo il 4/05/2019 su Huffingtonpost.it. C’è una bambina di soli quattro anni in ospedale. Lotta per sopravvivere dopo essere stata colpita da un proiettile che le ha perforato i polmoni. E c’è una città sconvolta, scossa, arrabbiata. Stanca di tutta la violenza di cui ciclicamente è teatro è pronta a scendere in piazza, nella stessa piazza dove una persona ha sparato ferendo tre persone, per dire basta. Per chiedere, come dice il titolo stesso della manifestazione, che Napoli sia disarmata. Istituzioni locali, associazioni e Chiesa vogliono che si agisca concretamente per combattere la criminalità organizzata. Agli appelli si aggiungono le polemiche politiche, con il Movimento 5 stelle che, in prima fila, punta il dito contro Matteo Salvini. Il ministro dell’Interno è diventato bersaglio di critiche di chi - tra i suoi alleati di governo - gli ha fatto notare che parlare di sicurezza non basta, che bisogna prendere provvedimenti, che sui territori ostaggio della camorra c’è bisogno di più uomini delle forze dell’ordine. Dal canto suo il titolare del Viminale ha detto che rinforzi già sono stati inviati nei mesi passati. Ha fatto sapere che sta pregando per la per la bimba ferita e ha promesso giustizia: “I maledetti criminali che l’hanno colpita non avranno tregua: sappiano che per loro è pronta la galera”, ha affermato mentre era lontano da Napoli e proseguiva la sua campagna elettorale. Ha provato a respingere le accuse facendo notare che proprio poche ore dopo la sparatoria nel centro di Napoli venivano arrestati i protagonisti di un altro agguato, quello avvenuto poche settimane fa a San Giovanni a Teduccio, dove un uomo era stato ucciso davanti a una scuola, a pochi passi dal nipotino. Parole, le sue, che non sono bastate a chi lo ha attaccato.

Il Movimento 5 stelle: “Serve più sicurezza”, “Salvini si occupi di mafia”, “il ministro attenzioni la città”.  Il primo tra i pentastellati a rivolgersi direttamente a Matteo Salvini era stato Roberto Fico che - a poche ore dall’agguato - aveva chiesto al ministro di porre la sua attenzione nei confronti di Napoli. Col passare delle ore molte altre voci si sono levate. Tra loro quella di Luigi Di Maio. Dopo aver dedicato un pensiero alla bambina ferita ha scritto: “Una cosa è certa: serve più sicurezza, servono più uomini sul terreno, più controlli, più prevenzione, che passa anche per un forte sostegno a chi è impegnato nel sociale per salvare i ragazzi dalle famiglie di Camorra e dai quartieri in difficoltà”. Duri i toni del pentastellato Nicola Morra, il presidente della commissione parlamentare Antimafia: “Bimba di 4 anni con polmoni perforati per sparo in piazza. Un morto davanti una scuola tempo fa. Brutalità di camorra vigliacca. Piuttosto che terrorizzare sui migranti o visitare muri, titolare Viminale si occupasse di contrasto alla mafia”, ha scritto su Twitter.  Tra i 5 stelle poi c’è chi chiede un piano straordinario per la città e chi invita il governo a tenere un Consiglio dei ministri a Napoli. Il messaggio è chiaro: la lotta contro la criminalità organizzata deve essere una priorità.

Le opposizioni attaccano il titolare del Viminale: “Pensa ai selfie mentre in strada si continua a morire”.  Il Partito democratico e LeU quasi in coro puntano il dito contro Matteo Salvini, accusato di essere un “fantasma”. “Dovrebbe fare riunioni, non comizi”, gli manda a dire Laura Boldrini. Mentre Emanuele Fiano tuona: “Pensa ai selfie, mentre per strada si continua a morire”. Il presidente della Regione Campania, il dem Vincenzo De Luca, parla di una situazione sicurezza “ormai insostenibile”, Franco Roberti, ex capo della Direzione investigativa antimafia ed ora  capolista Pd al Sud per le Europee, invita Salvini a rispettare gli impegni. Tenta la difesa del ministro dell’Interno il sottosegretario leghista Molteni che, rispondendo alle critiche di Paolo Gentiloni, dice: “Si confonde con l’epoca dell’Air Force Renzi e del ministro dell’Invasione Angelino Alfano”.

La replica di Salvini: “A Napoli nell’ultimo anno arrivati 137 poliziotti in più. In cantiere una superquestura”. Il Viminale intanto ha diffuso i dati sui poliziotti in più inviati a Napoli nell’ultimo anno. Sono 137. In programma la creazione di una superquestura: l’organico passerà dagli attuali 3.740 agenti a 4.332, con un incremento di 592 unità. Nella nota si aggiunge che i militari impegnati per Strade Sicure sono 690, di cui 100 per la Terra dei Fuochi e che con i fondi del Decreto Sicurezza, Napoli ha avuto 1,4 milioni. “A Napoli e nel resto d’Italia vogliamo far parlare i numeri e i fatti. Faremo sempre di più e sempre meglio”, ha detto Salvini.

L’omelia del cardinale Sepe: “Il sangue innocente grida vendetta”. De Magistris: “Città sconvolta”. La richiesta di interventi e il sentimento di rabbia di Napoli può essere in parte sintetizzato dall’accorata omelia del Cardinale Sepe. Mentre nel duomo si ripeteva il miracolo del sangue di San Gennaro l’arcivescovo di Napoli ha affermato: “Il sangue innocente grida vendetta al cospetto di Dio”. Parlando dei membri della criminalità organizzata ha detto “sono criminali, sono barbari. Non sono uomini degni di tale nome e di vivere in una società civile”. Ed è alla società civile, non solo alle istituzioni, che Sepe si rivolge. “Non possiamo, non dobbiamo assuefarci agli atti criminali, ai delitti, all’imperversare di questa gentaglia. Dobbiamo liberare il corpo sociale da questo cancro assassino. Sono in gioco la dignità e il futuro di Napoli. Non basta indignarsi, non basta condannare”, ha proseguito Sepe avvertendo che “c’è bisogno di ben altro; c’è bisogno che scuola, chiesa, famiglie facciano rete sul piano educativo e formativo, al di là della repressione che spetta allo Stato”. Il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha annullato tutti gli impegni e parla di “una città sconvolta e in preghiera”. La sua priorità è mostrare alla piccola e alla sua famiglia la vicinanza sua e dei cittadini: “Poi ci sarà il momento, nei prossimi giorni, per le considerazioni politiche ed istituzionali”. La polemica, dunque, è solo rinviata. 

Mentre sperano che le condizioni della bambina ferita migliorino, i cittadini, stremata, attendono risposte. E provvedimenti concreti.

Da Rollingstone.it l'8 maggio 2019. “Oggi il Sindaco di Napoli, dopo otto anni di lavoro senza un attimo di sosta, dopo i risultati eccellenti che la città tutta sta raggiungendo con il suo popolo, interpretando la richiesta assordante dei suoi concittadini, ha il diritto/dovere di chiedere allo Stato di fare di più in quella che forse è l’unica vera funzione che ancora gli spetta in via esclusiva: prevenire il crimine e reprimerlo. In questo modo ci aiutate anche a distruggere il modello drogato, per alcuni vergognosamente vincente, degli eroi (di merda) di Gomorra“. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris con un lungo post sulla sua pagina, commentando la sparatoria avvenuta venerdì in città e la successiva manifestazione di piazza, ha attaccato nuovamente (oltre al governo) la serie televisiva di Sky, nei cui confronti si era più volte espresso in maniera critica. De Magistris definisce Gomorra, di cui si è appena conclusa la quarta stagione, “una droga mediatico-comunicativo-artificiale che rischia di corrodere cervello, anima e cuore di centinaia di giovanissimi”. “Non fate l’errore di sottovalutare questo simbolismo affascinante del male”, ha aggiunto il primo cittadino napoletano. “La nostra parte l’abbiamo fatta e la continueremo a fare, giorno e notte. Napoli sta scalando vette di luce impensabili sinora. Chiediamo allo Stato di toglierci il buio della zavorra criminale in modo che il suono della cultura vinca definitivamente sul rumore delle pistole”. Un nuovo capitolo dunque, nel rapporto complicato tra politica e crime. Dal cinema americano a Romanzo Criminale, l’argomento secondo cui la fiction darebbe un esempio negativo ai giovani, incitandoli alla violenza, è ormai diventato un grande classico (decisamente poco condivisibile).

Luigi de Magistris 6 maggio alle ore 07:30 su Facebook. La piccola Noemi lotta tra la vita e la morte in Ospedale per sconfiggere i danni che il proiettile di una pistola usata da un vile criminale disumano senza cuore le ha procurato trafiggendole i polmoni. La città è sconvolta, il popolo prega per questa figlia di Napoli. Il pensiero di noi tutti alla famiglia di Noemi è costante. Napoli non merita questo, non lo merita il popolo napoletano per quello che sta facendo in questi anni. L’agguato di venerdì pomeriggio, come l’omicidio di qualche settimana fa davanti la scuola nel quartiere San Giovanni, sono storie della nostra città, spaccati della nostra vita quotidiana che sappiamo esistenti, ma sono oggi fortemente contrastati dalla Napoli che ha preso il predominio. La città dell’energia umana contagiosa, la città della rinascita culturale senza precedenti, la città della democrazia partecipativa e dei beni comuni, la Napoli dei record turistici e dello sviluppo sostenibile, devono sconfiggere ora, definitivamente, questa barbarie. È questa l’ora per dare i colpi ferali e di sconfiggere questi nemici della città. Napoli e i napoletani onesti, la stragrande maggioranza, stanno dando e facendo il massimo. In Italia e nel Mondo si parla sempre di più della rinascita di Napoli e del miracolo compiuto in modo autonomo dai napoletani e dal laboratorio politico partenopeo. I numeri dei reati commessi a Napoli non descrivono un’emergenza, addirittura una netta diminuzione rispetto a tante città italiane ed europee. Ma quando si spara davanti ad una scuola di periferia o dinanzi ad un bar in una piazza zeppa di gente in pieno giorno, la città e il Sindaco hanno il diritto/dovere di interrogare lo Stato, del quale ho anche fatto parte da magistrato. La domanda ricorrente che mi rivolgono i cittadini da mesi e mesi è la sicurezza, funzione di competenza dello Stato. Segnale, quindi, inequivocabile che la città e le istituzioni locali, per il resto, rispondono su altri fronti quando chiamate. Lo Stato nelle sue funzioni risponde meno, ma andiamo con ordine. In termini di risorse economiche per la città di Napoli lo Stato sinora è stato distante, finanche ostile. Questo significa anche poche risorse per servizi strategici per realizzare quelle reti sociali necessarie per togliere terreno fertile al crimine. Sul fronte sicurezza, il Ministro dell’Interno Salvini ha reso sinora il Paese più insicuro e più violento. Aumentano i reati a sfondo razziale; crescono le violenze su bambini e donne; si rafforza l’odio sociale e il sentimento del rancore; si consolida il pericolo del terrorismo internazionale per le politiche di odio nei confronti dei popoli di fede mussulmana; aumentano corruzioni e collusioni, con indagini anche verso esponenti dello stesso Governo; si diffonde l’uso delle armi, anche con l’utilizzo indiscriminato della legittima difesa, il tutto condito dal bullismo istituzionale plasticamente rappresentato dal Ministro Salvini con il mitra in mano. Un ministro muscolare con i deboli e molto molle con i forti. Un Ministro quasi mai presente al Viminale perché sempre impegnato in campagna elettorale, tra un comizio e l’altro, anche mentre si diffondeva la notizia della bimba napoletana in rianimazione, non esitava a farsi immortalare da un selfie con tanto di sua dichiarazione. Del resto nelle sue immagini e frasi che posta sui social il Ministro in genere o mangia o spara cazzate. Sig. Ministro, a proposito di sicurezza, attendiamo ancora le centinaia di donne e uomini delle forze di polizia che si era impegnato in autunno scorso a destinare alla città di Napoli. Magari faccia meno comizi e invii le centinaia di donne e uomini delle forze di polizia che la circondano quando si muove nei territori italiani a garantire la sicurezza degli abitanti del nostro Paese. Intendo poi esprimere la mia gratitudine alle donne e agli uomini delle forze di polizia e della magistratura che a Napoli operano in condizioni certamente complicate e complesse, con elevata professionalità. Gli ultimi arresti della Polizia di Stato e dei Carabinieri, con riferimento all’omicidio avvenuto dinanzi la scuola, dimostrano elevata capacità investigativa. In una città in cui la giunta comunale che ho l’onore e l’onere di guidare ha rotto i rapporti tra camorra e politica e scardinato il sistema collusivo, in una città in cui il popolo napoletano ha messo in atto un vera e propria rivoluzione culturale, necessaria per sconfiggere le mafie, mi auguro che le forze di polizia e la magistratura considerino assolutamente prioritario, nella molteplicità di settori in cui operare, il contrasto al crimine che mette in pericolo la sicurezza della nostra comunità. Mi auguro che siano rafforzate le risorse umane destinate al controllo del territorio ed all’espletamento delle necessarie attività investigative. Mi auguro che i tempi con cui l’autorità giudiziaria verifichi le rispondenze investigative della polizia giudiziaria siano i più rapidi possibili. Mi auguro che se pericolosi criminali sono stati individuati con indizi gravi, precisi e concordanti vengano messi in condizione di non reiterare i reati nei tempi i più rapidi possibili. Mi auguro che i processi siano giusti e rapidi e che non si sommino a dismisura le sentenze finite in prescrizione. Mi auguro che si ponga fine alla vergogna di Stato delle oltre diecimila sentenze passate in giudicato con migliaia e migliaia di delinquenti condannati che sono liberi di continuare a commettere crimini. Ad un Sindaco ogni giorno viene chiesto di tutto, giustamente, da centinaia di suoi concittadini. Spesso mi chiedono conto anche degli omicidi su cui purtroppo non posso più indagare, come un tempo. Oggi il Sindaco di Napoli, dopo otto anni di lavoro senza un attimo di sosta, dopo i risultati eccellenti che la città tutta sta raggiungendo con il suo popolo, interpretando la richiesta assordante dei suoi concittadini, ha il diritto/dovere di chiedere allo Stato di fare di più in quella che forse è l’unica vera funzione che ancora gli spetta in via esclusiva: prevenire il crimine e reprimerlo. In questo modo ci aiutate anche a distruggere il modello drogato, per alcuni vergognosamente vincente, degli eroi (di merda) di Gomorra. Una droga mediatico-comunicativo-artificiale che rischia di corrodere cervello, anima e cuore di centinaia di giovanissimi. Non fate l’errore di sottovalutare questo simbolismo affascinante del male. La nostra parte l’abbiamo fatta e la continueremo a fare, giorno e notte. Napoli sta scalando vette di luce impensabili sinora. Chiediamo allo Stato di toglierci il buio della zavorra criminale in modo che il suono della cultura vinca definitivamente sul rumore delle pistole.

Quatrano: «Noemi ferita dai baby boss? No, a sparare è la gioventù rancorosa perché espulsa». «La violenza giovanile, a Napoli come altrove, è il risultato dell’esclusione sociale. Di quelle scuole che bocciano o cacciano i ragazzi delle periferie», dice l’ex giudice che firmò l’ergastolo al padrino Alfieri. Errico Novi l'8 Maggio 2019 su Il Dubbio. Da magistrato, Nicola Quatrano ha firmato condanne all’ergastolo di boss come Carmine Alfieri. È il suo passato a dargli una corazza morale inviolabile, a permettergli di dire cose sconvolgenti, eppure vere, come questa: «Il giovane che ha sparato e colpito la piccola Noemi non è un mostro. È il protagonista della guerra combattuta dai giovani esclusi, superflui, di una delle tante periferie urbane dell’impero globale. A Napoli come altrove, una gioventù che si sente superflua reagisce con la violenza alla propria espulsione». Continuare a reprimere, a espellere, dalla scuola e da tutto il resto, «non è inutile: è un crimine contro l’umanità. Il tradimento di quanto ha insegnato don Milani, e cioè che la scuola deve occuparsi di chi non è bravo, anziché bocciarlo». A non pensarla così sono tanti anche in quell’élite illuminata costituita dalla magistratura, di cui Nicola Quatrano ha fatto parte fino ad aprile 2018. Scelto il congedo anticipato dalla toga, l’ex presidente di sezione del Riesame di Napoli ora è un avvocato penalista.

Però il figlio del boss Rosario “’ o biondo”, Antonio Piccirillo, si è dissociato dal padre, e ce l’ha fatta a non cedere al rancore violento.

«Ho letto la sua intervista. Quel ragazzo ha avuto un’opportunità, ha incontrato una persona che lo ha aiutato, lo ha preso con sé a lavorare. È stato bravo ma anche fortunato. L’opportunità che ha avuto lui capita a pochissimi».

Perché, agli altri cosa capita?

«Che vengono espulsi».

Cioè?

«Vengono innanzitutto cacciati da scuola, bocciati o buttati fuori per motivi disciplinari. La violenza è una forma di antagonismo nei confronti dell’ordine civile che li esclude. Un antagonismo non razionale ma istintivo, umorale, intendiamoci. Non certo la consapevolezza di classe di chi era giovane quando lo ero io».

È un’analisi difficile da contestare. Perché non la si sente mai in giro?

«Perché non entra nei 140 caratteri di twitter?»

Cosa?

«È un ragionamento troppo lungo. Scartato dai protagonisti della comunicazione, che sul dramma della piccola Noemi si sono avventati con un cinismo spaventoso. Se ne fregano della bimba e la utilizzano per fare i loro proclami.

Si riferisce anche a chi ha chiesto di nuovo di portare i figli dei boss via dalle loro famiglie?

«Sì, e a quelli che chiedono pene più alte, l’abbassamento della soglia di punibilità e tutte le altre misure che certo non servono a combattere l’esclusione».

Antonio Piccirillo ha dimostrato che se a un giovane delle periferie viene offerta un’opportunità può avere un destino normale, senza che lo si debba strappare via dalla famiglia di origine.

«Ma sul caso di Noemi posso fare una riflessione più ampia dei 140 caratteri di twitter?»

Siamo qui per questo.

«Bene. Ha presente quelli che nelle guerre si definiscono danni colletarali? Il ferimento della piccola Noemi è un danno collaterale di una guerra. Questa guerra ha per protagonisti i giovani delle periferie urbane. A Napoli come a Milano, Parigi, Londra, Bruxelles. A Napoli non sono peggiori che altrove. Sono solo più visibili. Come dice Isaia Sales, Napoli è l’ultima città dell’ 800: una parte della periferia si trova in realtà al centro, ed è meno lontana dallo sguardo delle persone perbene».

Ci si accorge della guerra metropolitana perché non è confinata e invisibile come a Londra.

«Ecco, protagonista della guerra è la gioventù che si sente superflua. E lo è, superflua. Tale esclusione si combina in modo esplosivo con i proventi del traffico di droga. Il risultato è questa violenza giovanile terribile che riguarda tutte le aree marginali dell’impero globale».

Quindi innalzare il grado della punizione non serve: accresce solo il senso di rancore verso l’ordine civile da cui si è esclusi.

«Esatto. Nell’analisi va chiarito anche che con un tale fenomeno la camorra c’entra poco. La camorra aborrisce il disordine: da Portella della Ginestra in poi, il crimine organizzato e gli organi di sicurezza hanno sempre cooperato al mantenimento dell’ordine. Ma la miscela esplosiva fra affari sporchi e gioventù esclusa, risentita è così esplosiva che anche le vecchie strutture criminali, se fossero in piedi, ne sarebbero travolte».

Come si risponde, avvocato Quatrano?

«Premesso che i traffici di droga scatenano la violenza esattamente come avviene con i finanziamenti delle reti terroriste per i giovani che diventano foreign fighters, la risposta deve partire da un cartello che espose padre Zanotelli a una manifestazione organizzata a Napoli nel quartiere Sanità: recava le cifre da incubo dei giovani bocciati in quei quartieri. Bocciare, espellere un giovane delle periferie è un crimine contro l’umanità. Si risponde con scuola e lavoro. E questo entra anche in un tweet».

UNA GOMORRA DI IMBECILLI. Fulvio Bufi per il “Corriere della sera” il 14 maggio 2019. Non ci fosse finita di mezzo una bambina di quattro anni che ha rischiato la vita e ancora non è completamente fuori pericolo, l' agguato del 3 maggio scorso contro Salvatore Nurcaro, in cui fu ferita la piccola Noemi, andrebbe catalogato come una delle vicende della cronaca nera napoletana con i protagonisti peggiori. E non solo per l' efferatezza dell' azione, per il coinvolgimento di passanti innocenti e per il fallimento della stessa missione omicida. Anche per una organizzazione da banda di malavitosi della domenica (cosa che gli accusati, peraltro, non sono, anzi, tutt' altro), per le tracce lasciate prima e dopo l'agguato, nella totale ignoranza di quanto le città oggi siano monitorate a ogni angolo. Per un uso dilettantesco dei telefoni cellulari. Insomma: se, come sostiene la Procura con una tesi condivisa da due gip, a organizzare l'agguato contro Salvatore Nurcaro sono stati i fratelli Armando e Antonio Del Re - con il primo incaricatosi poi di sparare, e quindi esecutore materiale anche del ferimento di Noemi - entrambi in carcere avranno modo di riflettere sulle loro scarse attitudini all'organizzazione militare e sugli errori commessi che hanno portato carabinieri, guardia di finanza e polizia a concentrarsi su entrambi, fino all' arresto avvenuto venerdì scorso. Ieri il gip del Tribunale di Siena, Alessandro Buccino Grimaldi, e quello di Nola, Daniela Critelli, hanno convalidato il fermo rispettivamente di Armando Del Re e di suo fratello minore, Antonio, che avrebbe partecipato a tutte le fasi organizzative e logistiche precedenti l' agguato, e si sarebbe poi tenuto in zona mentre l' altro entrava in azione, riuscendo però soltanto a ferire Nurcaro, colpendo invece anche Noemi e sua nonna. Una grossa parte del lavoro investigativo sottoposto dalla Dda di Napoli ai due giudici delle indagini preliminari, è basato sulle immagini dei fratelli Del Re nei giorni precedenti il 3 maggio, sia quando si muovono nelle stesse zone frequentate da Nurcaro, in una presumibile azione di pedinamento, sia quando attraversano la città con altri scopi e per altri motivi. I due Del Re fanno una cosa che nessun aspirante killer farebbe, nemmeno il più sprovveduto: vanno in giro sulla moto (rubata) che poi useranno per l'agguato. È un Benelli giallo, che nel pomeriggio del 3 maggio sarà immediatamente identificato dalla polizia grazie a una testimone che fornirà alcuni numeri della targa. Ricercandone traccia nelle registrazioni delle telecamere installate in città, gli investigatori hanno raccolto numerose immagini di questa moto che attraversa le strade del centro e della periferia, guidata da due persone diverse, ma chiaramente le stesse che in altri frame, ricavati sempre dai circuiti di videosorveglianza, sono a bordo di un' altra moto, appartenente a Armando Del Re. E sono chiaramente lui e suo fratello, riconoscibili anche per alcuni capi d' abbigliamento particolarmente appariscenti, sequestrati poi nell' abitazione di uno dei due. E non solo: se è stato lui a sparare in piazza Nazionale, Armando lo ha fatto indossando le stesse sneakers che portava abitualmente, e con le quali è stato più volte inquadrato nei giorni precedenti. E pure il casco utilizzato ha un segno distintivo che lo rende simile a quello che nei video utilizzano i conducenti della moto intestata al più grande dei fratelli Del Re. E poi c' è quella divisa da killer: felpa, giubbotto, pantaloni e scarpe, tutto nero, che Armando e Antonio indossano poco prima dell' agguato, quando si fermano in un bar vicino a casa tenuto sotto controllo dagli uomini del Gico della guardia di finanza. Poi, più tardi, si cambieranno, tornando a indossare gli abiti che avevano al mattino, e pure questo non passa inosservato. Infine il possibile movente: Nurcaro aveva avuto contrasti per questioni di soldi legate allo spaccio di droga con il figlio di un boss al quale i Del Re sono fortemente legati. E lo aveva picchiato. Una colpa sufficiente, in quell' ambiente, per essere condannato a morte.

Noemi fuori dal coma, preso il presunto sparatore, che respinge le accuse. A Napoli emozione e speranza. Secondo il procuratore Melillo, il delitto si inquadra in un contesto camorristico. Armando e Antonio del re avevano precedenti per droga. Simona Musco l'1 Maggio 2019 su Il Dubbio. Proprio mentre Carabinieri e Guardia di Finanza arrestavano i presunti killer che l’hanno ferita, la piccola Noemi ha aperto gli occhi. E ha chiesto di poter avere le sue bambole, come se questa settimana di sonno profondo, in bilico tra la vita e la morte, per la piccola di soli 4 anni non ci fosse mai stata. Sembra quasi un miracolo quello avvenuto a Napoli. La bambina, ferita venerdì scorso a piazza Nazionale, ora è stata stubata ed è vigile e cosciente. «Quando si è svegliata tutti abbiamo fatto un grande applauso, lei ha aperto gli occhi e ha chiesto della mamma», ha spiegato sua zia Jessica. In carcere sono finiti Armando ed Antonio Del Re, fratelli di 28 e 18 anni, considerati i responsabili di quell’agguato che aveva come vittima designata Salvatore Nurcaro, di 31 anni, rimasto ferito e ancora in terapia intensiva. Ferita anche la nonna della bambina, Immacolata Amodio. «Spero che soffra molto anche lui, come stiamo soffrendo noi», ha aggiunto la zia della piccola riferendosi ad Armando Del Re, presunto sparatore. L’uomo è stato bloccato in provincia di Siena, in un autogrill, a bordo di una 500 bianca con la madre e la sorella. Secondo l’ipotesi degli inquirenti, sarebbe stato diretto a San Gimignano, dove il padre è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Ranza, probabilmente convinto di trovare una copertura per nascondersi nel senese. La sua fuga, invece, è finita proprio lì, disarmato, con lo sguardo basso, una felpa gialla e le mani in tasca. Ad aiutarlo, in questi 7 giorni di fuga, sarebbe stato il fratello Antonio, immortalato con lo sguardo beffardo mentre i carabinieri lo scortavano in caserma, a Nola, lo stesso luogo dove aveva sede la società di Nurcaro, poi finito in bancarotta. Potrebbe essere legato a quel fallimento, anche se gli inquirenti mantengono il massimo riserbo, il movente di un delitto che la procura inquadra in «pieno contesto camorristico», come spiegato in conferenza stampa dal procuratore di Napoli Giovanni Melillo. L’accusa, per i due, è di tentato omicidio, con l’aggravante della premeditazione. I fratelli Del Re, infatti, avrebbero ideato l’agguato e pedinato Nurcaro per giorni, prima di mettere in pratica il loro piano. Gli investigatori, intanto, sono alla caccia di eventuali complici dei due, che hanno alle spalle denunce e arresti per droga. Armando e Antonio Del Re, ha spiegato Melillo, «sono entrambi coinvolti nella pianificazione e nella materiale esecuzione dei delitti. L’esecutore materiale, secondo la ricostruzione, è Armando – ha affermato in conferenza stampa – Antonio ha svolto funzioni di supporto logistico e di concorso nella ideazione del delitto, che ha richiesto una lunga pianificazione. I movimenti della vittima sono stati a lungo controllati e cioè rivela la metodologia mafiosa del delitto». Nel corso dell’interrogatorio di convalida del fermo, tenutosi oggi davanti al giudice per le indagini preliminari del tribunale di Siena, Buccino Grimaldi, Del Re si è difeso affermando di non c’entrare nulla con la sparatoria. L’interrogatorio si è tenuto nel carcere senese di Santo Spirito, dove Del Re è in stato di fermo da ieri. L’indagato era assistito dal suo difensore, l’avvocato Claudio D’Avino. La decisione del gip sulla convalida del fermo è attesa per lunedì prossimo. Fondamentali, per arrivare ai sospettati, sarebbero state alcune intercettazioni già in corso sui due indagati, che hanno portato gli inquirenti sulla pista giusta. A ciò si aggiungono le immagini dei sistemi di videosorveglianza, l’identikit del sicario e notizie raccolte sul territorio, che hanno portato al provvedimento di fermo firmato dai pm Antonella Fratello, Simona Rossi e Gloria Sanseverino (coordinati dal procuratore Melillo e dall’aggiunto Giuseppe Borrelli), che hanno ravvisato un imminente pericolo di fuga. E, infatti, entrambi erano lontani dal rione delle “Case Nuove” di Napoli. Mentre gli investigatori arrestavano i due, dunque, la piccola Noemi apriva gli occhi. Da ieri mattina è stata portata ad uno stato di sedazione non profonda, tornando a respirare spontaneamente, supportata da ossigeno ad alti flussi. La prognosi rimane, comunque, riservata. Giovedì, stando al bollettino medico del Santobono Pausilipon, «la bambina è stata sottoposta a broncoscopia sia a destra che a sinistra, così da permettere di liberare i bronchi da muchi e coaguli». Intanto i due vicepremier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, hanno annunciato di voler fare visita alla piccola Noemi. «Lo Stato c’è e risponde colpo su colpo alla protervia della criminalità – ha dichiarato il procuratore generale di Napoli, Luigi Riello – Confidiamo che queste attività d’indagine e questi primi provvedimenti siano rapidamente confermati dalle decisioni del giudice».

Noemi, interrogato il killer di piazza Nazionale: "Non sono stato io". Nel carcere di Siena udienza di convalida per il presunto sicario, che aprì il fuoco Armando Del Re: "Uscirò massacrato da questa storia". Dario del Porto e Conchita Sannino l'11 maggio 2019 su La Repubblica. Un'ora di interrogatorio, volto impassibile, tono calmo. "Non sono stato io, non c'entro con questa storia". Così Armando Del Re, 28 anni, figlio di un boss del narcotraffico accusato di avere sparato in piazza Nazionale otto giorni fa, ferendo gravemente la piccola Noemi, ha risposto all'interrogatorio durante l'udienza di convalida dinanzai al gip di Siena, Alessandro Buccino Grimaldi. Ad assistere Del Re - accusato insieme a suo fratello minore appena diciottenne - l'avvocato Claudio Davino. "Quando questa storia finirà, ne uscirò massacrato perché tutti i giornali e i media mi stanno facendo a pezzi". Non risulta che l'indagato abbia pronunciato una sola parola di apprensione o preoccupazione per la salute della piccola, finita a terra durante la sparatoria con un proiettile nei polmoni e ancora ricoverata in prohgnosi riservata nell'ospedale Santobono di Napoli.

CHI SONO ARMANDO E ANTONIO DEL RE? Dario Del Porto e Conchita Sannino per “la Repubblica” l'11 maggio 2019. Il bersaglio sapeva d' essere un morto che cammina. Tanto che Salvatore Nurcaro aveva avvertito: «Se mi fanno fuori, sapete da chi andare». I suoi aggressori invece, erano gli eredi di una nota famiglia di narcos che non contempla il perdono. Non sono uomini da ingoiare una lite, foss' anche per una " semplice" questione di soldi, i due fratelli Armando e Antonio Del Re, 28 e 18 anni: catturati ieri per l' agguato che, venerdì 3 maggio, ha ferito gravemente la piccola Noemi, tenendo l' Italia col fiato sospeso. Puntare alla faccia, sparargli in bocca, questo voleva il codice delle cosche: è un altro dei dettagli che svela l' inchiesta. Come l' altro spiazzante particolare che si affaccia dai post pubblicati sui social del presunto killer. Armando è padre di tre bambini, pubblicava come tanti le foto dei loro compleanni, con palloncini e bottiglie: festeggiava coi figli, sparava su Noemi. Punizione in pubblica piazza, dunque, quel venerdì. A costo di ammazzare chiunque: nonostante il via vai, i negozi aperti, la gente ai tavolini del bar e quelle giostre tanto vicine. I fratelli ritenuti responsabili dell' efferata spedizione sono i figli di Vincenzo ' a Pacchiana, storico capo di una piazza di spaccio di Scampia che, a sua volta, è fratello di altri pregiudicati, Cristoforo, Roberto e Salvatore, cioè Totore o' Pazzo. Armando, arrestato dai carabinieri in un autogrilli a ridosso di Siena ( dove sarebbe verosimilmente andato a trovare il padre, detenuto in quel carcere) è accusato di essere il killer che si distingue bene nel filmato: tarchiato e con la pancia, casco integrale e abiti neri, che ha fatto fuoco e colpito ai polmoni gravemente la bimba, addirittura scavalcando - indifferente, per ben due volte - la piccola mentre insegue e colpisce Nurcaro (ferito ma ancora vivo). Il " fratellino", bloccato dalla squadra Mobile, maggiorenne solo da quattro mesi, è ritenuto il complice del raid: lo avrebbe accompagnato e coperto. Una giornata che resterà per l' emozione collettiva: proprio mentre si spegneva la fuga dei due indagati, Noemi riapriva gli occhi. Un risultato che premia il lavoro delle forze dell' ordine impegnate senza sosta: la Mobile d' intesa con lo Sco, il reparto operativo dei carabinieri, il Gico della Finanza che già nelle prime ore avanza sospetti su Armando, il figlio della Pacchiana dell' area nord. Il procuratore di Napoli Gianni Melillo - che ha seguito direttamente l' inchiesta delle tre pm Antonella Fratello, Simona Rossi e Gloria Sanseverino, coordinate dall' aggiunto antimafia Giuseppe Borrelli - rileva che il raid è maturato «in pieno contesto camorristico » . Agli indagati si contestano le aggravanti della premeditazione e del metodo mafioso. Il fermo di Armando Del Re sarà convalidato oggi a Siena, davanti al giudice Alessandro Buccino Grimaldi e alla presenza del suo difensore di fiducia, l' avvocato Claudio Davino.

Il movente: misto. Camorra e contesa su vecchi soldi. Denaro di vari affari. Somme che i Del Re maneggiato, da decenni, anche a fiumi. Dagli atti processuali che inchiodavano il padre Vincenzo, metà degli anni Duemila, piena Gomorra delle piazze di droga, versava al clan Di Lauro ben 25mila euro al mese: frutto del mercato di stupefacenti.

Oltre dieci anni dopo, quella famiglia vanta negozi, agenzie di scommesse, traffici vari. Sette giorni. Il tempo frenetico delle vie di fuga dei fratelli. Il ritmo febbrile delle indagini. E ora i vicepremier e ministri si precipitano a Napoli. Il capo del M5s Luigi Di Maio annuncia la sua visita a Noemi, alle 15.11 di ieri. Passano solo 4 minuti e Matteo Salvini corre al recupero, «Vado subito a Napoli», e arriva ieri: contestato davanti alla Prefettura. Entrambi riservano all' indagato uno sprezzo da strada. Salvini: « Quello str... » . Di Maio: «Quell' animale». Campagna elettorale travestita da anticamorra. Mentre Noemi continua a lottare.

La prima richiesta al papà «Mi porti le bambole?» La mamma in lacrime: organizzeremo una festa. Walter Medolla per il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2019. L' incubo è finito ieri mattina. Noemi, la bambina di quattro anni colpita da un proiettile vagante venerdì scorso nella centralissima piazza Nazionale a Napoli, ha riaperto gli occhi verso le 8. E ai medici ha detto: «Dove mi trovo, che ci faccio qui? Dov' è mamma?». Ma Tania, la giovane madre era lì, accanto a lei, con un sorriso accennato sulle labbra e gli occhi pieni di lacrime. Una settimana durata un' eternità, aspettando dietro il vetro della sala di rianimazione dell' ospedale pediatrico Santobono-Pausilipon, fissando il monitor con i parametri vitali, guardando impotente la propria figlia immobile e intubata. La piccola ce l' ha fatta, i polmoni hanno iniziato a funzionare da soli, senza l' ausilio della ventilazione meccanica. Ora è supportata solo da una mascherina d' ossigeno che l' aiuta nella respirazione. Quando la sedazione a cui era sottoposta è iniziata a diminuire, la piccola ha aperto gli occhi e ha trovato al suo fianco i genitori che non l' hanno lasciata sola un secondo. «Noemi, Noemi», hanno ripetuto il suo nome più volte come se fosse rinata, sorridendo e rassicurandola mentre le accarezzavano la mano. Appena i medici hanno visto la bimba aprire gli occhi è partito un applauso nel reparto di rianimazione, alcuni di loro hanno incitato la bambina: «Vai Noemi che ce la fai». La prognosi resta ancora riservata, ma i miglioramenti che ha fatto nel giro di una settimana sono stati stupefacenti. «La situazione è migliorata», assicura Massimino Cardone, primario della Rianimazione del Santobono. Gli step per permettere l' estubazione sono stati lenti e graduali, bisognava allenare i polmoni a un normale funzionamento, «svezzarli» come si dice in gergo. E così Noemi ha stupito tutti, la sua voglia di tornare ad abbracciare mamma e papà l' ha fatta risvegliare, nonostante un proiettile calibro 9 parabellum le abbia attraversato il torace da parte a parte. «Ringraziamo tutti, i medici, gli infermieri e tutte le persone che ci sono state accanto», dicono i genitori della piccola. Dopo i sorrisi e le carezze, Noemi ha espresso il desiderio di avere le sue bambole preferite, le Lol, da vestire e pettinare a proprio piacimento. È l' ultimo ricordo che la bambina aveva, l' ultima cosa vista prima di arrivare al pronto soccorso del Santobono. «Quando eravamo in ambulanza verso l' ospedale - racconta zia Jessica - le abbiamo fatto vedere sul cellulare il video delle Lol per farla distrarre». Dopo qualche ora è arrivato in ospedale un pacco gigante, dentro tutto il playset delle bamboline preferite di Noemi. Ma è rimasto lì, nella sala d' aspetto della rianimazione, assieme a un' altra decina di buste contenenti giocattoli e regali per la piccola. Non è ancora il momento della festa, Noemi sta meglio, respira da sola, ma la sua prognosi resta riservata. «Quando i medici ci diranno che nostra figlia è totalmente fuori pericolo parleremo e festeggeremo con tutti quelli che ci sono stati vicini», hanno fatto sapere Tania e il marito Fabio. «Non ci aspettavamo una mobilitazione tale da parte della città - ha aggiunto zia Jessica -. Siamo rimasti molto colpiti, ringraziamo tutti. Naturalmente siamo soddisfatti per l' arresto del presunto autore dell' agguato di piazza Nazionale, ma ci interessa soprattutto lo stato di salute di mia nipote». Ad aspettare Noemi fuori dall' ospedale c' erano anche Carol e Aurora, le sue amichette. «Di solito ci incontriamo al parco di piazza Nazionale - ha raccontato la nonna delle bambine - e le mie nipoti giocano con Noemi, sono coetanee. Quel pomeriggio, per una fatalità non eravamo alle giostrine, ma siamo venute qui per salutarla». Aurora, la più piccola, ha indicato la foto della sua piccola amica stampata su uno striscione: «Ma quando viene Noemi?». «Presto, molto presto», le ha risposto la nonna.

·         Il figlio del boss: «Amo mio padre ma da oggi lo rinnego».

Nella palestra di Scampia: "I boss mi chiedono di salvare i loro figli". Valeria Teodonio Repubblica Tv il 6 maggio 2019.  Storie di ragazzi di periferia, che vivono in luoghi abbandonati dalle istituzioni. Ragazzi a rischio. Ma che vengono salvati, tolti dalla strada grazie a palestre popolari, associazioni, organizzazioni no profit. Ragazzi che si riscattano grazie alla passione per lo sport, unica alternativa al nulla dei non-luoghi. Jlenia è una ragazzina nata e cresciuta a Scampia, Napoli. A 13 anni ha scoperto di avere un sogno: diventare una ballerina professionista. Un sogno nato grazie a una palestra del suo quartiere: la "Champion Center". Una struttura dove si impara il karate e la danza classica, e che ha aiutato tanti altri bambini di Scampia a trovare un interesse, un percorso da seguire. E, poi, a volte, anche un lavoro. Gli insegnanti sono Massimo Portoghese e Caterina Gibelli, marito e moglie. Insieme hanno tolto centinaia di ragazzi dalle strade. Da questa palestra, fondata nel 1996, 60 giovani atleti sono arrivati in Nazionale. E alcuni proveranno ad andare alle Olimpiadi del 2020. Caterina ha formato ballerine che studieranno al San Carlo di Napoli. "Ma facciamo soprattutto un lavoro sociale - spiega Massimo - siamo presenti nella vita dei ragazzi, nelle loro difficoltà. Qui la maggior parte dei genitori è in carcere ed è molto più facile sbagliare che rimanere sulla strada giusta. Noi diamo un’alternativa, un obiettivo da raggiungere”. In attesa della nuova sede, le attività si svolgono nei locali di una scuola elementare e di un centro ricreativo: "L’officina delle culture Gelsomina Verde". "Qui ai ragazzini dicevano: ti diamo 300 euro al giorno se fai il palo – racconta Alessandra Corona, educatrice del centro – oggi spieghiamo ai nostri bambini che un’altra via c’è. E che devono dire: io posso diventare quello che voglio essere. Abbiamo tre fratellini con la madre e il padre in galera e la nonna ai domiciliari. Non vedono l'ora di far sapere ai genitori tutto quello che hanno imparato".  "Ci sono dei boss – racconta Massimo – che mi chiedono di salvare i loro figli. Non vogliono che facciano la loro stessa fine".

I proiettili contro i bambini strappati alla camorra: «Mio padre in carcere è felice che io manifesti contro i clan». Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 su Corriere.it da Amalia De Simone. «Io sono contro la mafia, per questo vado alle marce. Sono contro la camorra e non me ne importa niente se la gente, anche familiari puntano il dito e dicono: Come possibile? Proprio lei? Che ci fa lì?» Ha uno sguardo durissimo Adriana quando pronuncia queste parole. Lei ha 14 anni e porta un cognome pesante a Napoli, un cognome di camorra e suo padre è in carcere perché è considerato uno degli esponenti di spicco del clan. «Se il mio quartiere non è bello è colpa anche di quelli come mio padre – dice Adriana - lui ha sbagliato e adesso sta pagando e ne è consapevole. Infatti quando sente che io vado a manifestare contro i clan, lui è contento e dice che dobbiamo fare una vita diversa dalla sua. Anche lui sta cambiando, un giorno uscirà e vivremo tutti insieme». Adriana frequenta la fondazione «Famiglia di Maria» che si trova in uno dei rioni più a rischio della città, il rione Villa. Qui spesso ci sono delle sparatorie. A San Giovanni a Teduccio a tenere banco è la decennale guerra tra clan storici: i Mazzarella su un fronte e i Reale-Rinaldi sull’altro. Una guerra che si combatte in maniera discontinua dagli anni ’90. A ingrossare le fila dei clan secondo i rapporti di polizia sono soprattutto giovanissimi. «Sono venuti a sparare anche al nostro portone - dice Adriana indicando i fori del proiettile sull’ingresso della Fondazione - noi però non li abbiamo coperti perché sono un segnale che ci ha fatto stare ancora di più uniti. Intorno ci abbiamo disegnato un fiore come ci ha insegnato Anna Riccardi la nostra presidente». «Nascere a San Giovanni a Teduccio non può essere una condanna. Chi nasce qui deve avere delle opportunità e quello che noi facciamo in questo posto è prenderci cura dei ragazzi e delle loro famiglie», spiega Anna Riccardi, di mattina insegnante e di pomeriggio trascinatrice di un progetto che sta coinvolgendo tantissimi in un’area vicinissima al centro della città ma più simile ad una periferia per l’abbandono subito negli anni. Le attività e i laboratori della fondazione dal lei presieduta accolgono circa 135 minori e coinvolgono anche gli adulti. Salvatore palleggia nel campetto della fondazione, mentre tutto intorno è un vociare di ragazzi che giocano a calcio, di altri che imparano il tango, i balli latini e altri ancora che studiano. «Sono fortunato a venire qui. Questo posto è una boccata d’aria: il nostro è un quartiere difficile, c’è poco lavoro e poi c’è tanta malavita. Qualche volta ho paura di scendere da casa. Non dovrei avere paura di scendere, invece tutti abbiamo paura di finire con i proiettili addosso». Salvatore parla come un adulto e invece è un ragazzino anche lui cresciuto con il padre in galera. Sua madre come anche la madre di Adriana si sono fatte carico dei figli, lavorano sodo per non fargli mancare niente e soprattutto cercano di tenerli lontano dalla strada e lontano dalla camorra. «Sono le nostre Uonderuò – dice Anna - parafrasando alla napoletana Wonder Woman – ci siamo inventati pure noi un’eroina per combattere le disparità di genere e la violenza. La nostra ha i capelli arruffati ma è bella e ha tanti superpoteri perché lavora, fa le faccende in casa e bada ai figli. La rinascita di questi quartieri è in mano a queste donne coraggiose che a volte dicono di no alle loro stesse famiglie e preservano ragazzini e ragazzine dalla violenza». «Sono venuti a sparare alla Fondazione proprio perché qui si toglie manovalanza ai clan che puntano sempre a ragazzi giovani – dice Adriana - loro non vogliono che studiamo e ci costruiamo un futuro. Invece qui abbiamo perfino avuto l’opportunità di fare un progetto con l’università e io all’università voglio tornarci per studiare, laurearmi e poter aiutare gli altri che sono cresciuti come me, in un quartiere che offre poco». Adriana è stata una delle ragazze coinvolte nel progetto di Digita Academy dell’Università Federico II e della fondazione Famiglia di Maria che ha consentito l’interazione tra i giovanissimi che frequentano la struttura di rione villa con gli studenti universitari. «Insieme hanno sviluppato dei progetti digitali che avevano come oggetto il quartiere di San Giovanni a Teduccio», spiega Antonio Pescapè con gli occhi che gli brillano per la soddisfazione. Lui è ordinario a ingegneria ed è coordinatore di Digita (Transformation and Industry Innovation Academy), una scuola di alta formazione voluta dalla Federico II e dalla Doloitte consulting. Coinvolto dall’entusiasmo e dai modi sbrigativi di Anna è sceso dalla cattedra (come non molti fanno) e si è appassionato ai giovani del quartiere. Vorrebbe coinvolgerli tutti perché finora Digita ha dato a tanti opportunità di lavoro e ormai è un’accademia frequentata e ambita anche da studenti stranieri. «L’università è arrivata in questo quartiere circa cinque anni fa – dice Pescapè - e ha preso il posto della fabbrica della Cirio, quindi un qualcosa intorno al quale il quartiere si rivedeva pesantemente. Noi abbiamo voluto, grazie anche ad alcuni partner commerciali, realizzare un’aula proprio nella fondazione e cominciare dei corsi. Magari a tanti di questi ragazzi viene poi voglia di approfondire gli studi. Noi saremo al loro fianco o almeno io sicuramente ci sarò». «Noi vogliamo disarmarla questa città. Se sei nato a San Giovanni non devi essere necessariamente il figlio della camorra o il figlio di quello che per mettere il piatto a tavola la sera devi andare a rubare. Se sei nato a San Giovanni poi studiare e avere la possibilità di dire: io ce l’ho fatta». Salvatore tira un rigore a porta libera e segna. Sembra la metafora del suo percorso: ha la capacità per fare gol e ora anche qualcuno che lo aiuta togliendo via chi può parare il suo tiro. «Io penso che noi dovremmo avere le stesse speranze di quelli che non hanno le nostre stesse difficoltà».

Il figlio del boss: «Amo mio padre ma da oggi lo rinnego». Sparatoria, chi ha ferito Noemi. Pubblicato lunedì, 6 maggio 2019 da Fulvio Bufi su Corriere.it. A lui la camorra non ha strappato una parte della famiglia, come è successo a tanti altri che sfilano dietro agli striscioni preparati in fretta, e che si alternano al megafono per raccontare ognuno la propria storia e dare un contributo a questa guerra di liberazione dal crimine che forse Napoli sta iniziando a combattere davvero in piazza Nazionale, esattamente dove venerdì scorso è stata ferita una bambina di quattro anni che ancora sta lottando per sopravvivere. A lui la camorra non ha strappato una parte della famiglia: per lui la camorra è una parte della famiglia. La più stretta: il padre. E però è qui anche lui, con la sua rabbia di figlio 23enne che ama il padre ma non lo stima, e con la forza per farsi passare il megafono e dirlo a tutti: «Io sono Antonio Piccirillo, figlio di Rosario Piccirillo, che ha fatto scelte sbagliate nella vita. È un camorrista. E io voglio lanciare un messaggio ai figli di queste persone: amate sempre i vostri padri ma dissociatevi dal loro stile di vita. Perché la camorra è ignobile, ha sempre fatto schifo e non ha mai ripagato». Antonio è un bel ragazzo, con barba e capelli ricci e biondi. Restituisce il megafono e quasi gli pare impossibile essere riuscito a fare quello che ha fatto, a parlare così di se stesso e di suo padre in una piazza piena di gente. 

Dove l’ha trovata tanta forza?

«Nell’amore. Sì, io credo di aver fatto un atto d’amore anche verso mio padre, perché queste cose non gliele ho mai dette ed era arrivato il momento di farlo. Per lui, per me, per tutta la mia famiglia».

Da quanto tempo non lo vede?

«Mi chiedo piuttosto quando mai l’ho visto. Negli ultimi vent’anni è entrato e uscito dal carcere non so più quante volte. Tutta la mia vita, o quasi, è stata segnata dai suoi arresti e dalle sue scarcerazioni e poi di nuovo dagli arresti».

Ma non ci si abitua.

«No, assolutamente. E si convive con la consapevolezza che non finirà mai. Perché pure quando mio padre uscirà, e credo che sarà quando avrà sessant’anni, potrò davvero credere che non succeda di nuovo, che non faccia ancora cose che lo potranno riportare in carcere?».

Quando ha deciso di fare quel discorso? 

«Poche ore prima della manifestazione. Faccio volontariato con Pietro Ioia (un ex narcotrafficante che dopo aver scontato vent’anni di carcere duro ha fondato una associazione che aiuta i ragazzi provenienti da famiglie disagiate a inserirsi nel mondo del lavoro, ndr) e lui mi ha dato la spinta a tirare fuori quello che ho dentro. Non avevo mai partecipato a una manifestazione, figuriamoci se avevo mai parlato in pubblico».

Eppure è riuscito a farlo con naturalezza, almeno apparentemente.

«Con convinzione. Perché sono le cose che sento. Essere figlio di un camorrista significa non vivere bene, e io sono stanco di non vivere bene. Voglio vivere all’insegna di valori che un giorno potrò trasmettere ai miei figli affinché abbiano una vita diversa dalla mia. È per il mio futuro che ho scelto di non vivere come mio padre e altrettanto vorrei che facessero tutti i figli dei camorristi. Perché la vita da camorrista è una vita che fa schifo».

Lei con il resto della sua famiglia che rapporto ha?

«È la mia famiglia e la amo. E anche se alla mia età potrei volere una casa mia, ho deciso di restare ancora con mia madre e mio fratello più piccolo perché sono convinto che abbiano bisogno di me. Perché anche loro pagano le scelte che ha fatto mio padre».

Come pensa che reagirà quando saprà del discorso che ha fatto in piazza?

«La mia speranza è che nel carcere dove si trova adesso, vicino a Udine, abbia modo di ascoltare quello che ho detto, oppure di leggere questa intervista. Certo non gli ho mai detto che un giorno avrei parlato come sto parlando adesso, e sicuramente lui non se lo sarebbe aspettato. Ma è giusto che lo sappia, e che si renda conto di come è stata la sua vita e di come è stata la mia».

·         Napoli, parla "l'uomo talpa" che scava tunnel per furti e rapine.

Napoli, parla "l'uomo talpa" che scava tunnel per furti e rapine. E' un lavoro pericoloso ma redditizio, da 50mila euro a colpo. Panorama lo ha intervistato, scrive Simone Di Meo il 12 aprile 2019 su Panorama. L’uomo-talpa ci vede benissimo. E quindi gli occhiali rettangolari, con montatura in metallo, che esibisce sul naso («Non mi descriva fisicamente, però») sono un vezzo. O forse un tentativo di camuffamento. Accetta quest’incontro con Panorama per raccontare il mondo «di sotto», quello color nero pece che lui frequenta da una ventina d’anni, ormai. Indossa un paio di jeans e un pullover bianco, da cui spunta il colletto della camicia, e si protegge con un piumino blu. L’incontro avviene in un bar dalle parti di Piazza Carità. Alle spalle dei tavolini, a non più di cento metri, ci sono le Poste centrali. Nel luglio scorso, «la banda del buco» si materializzò dal pavimento dietro la fila di casse, in orario di lavoro. Erano in quattro, armati. Vestiti di bianco, con un passamontagna calato sul volto. Sembrava il remake della serie La casa di carta. Portarono via 500 mila euro in contanti, e le forze dell’ordine ancora oggi li stanno cercando. Tutta la zona di Chiaia, il salotto buono di Napoli, è in effetti un reticolo di cave di tufo. Qualche giorno dopo quest’intervista, un black out ha lasciato il quartiere senza luce né linee telefoniche. Una densa colonna di fumo nero si è alzata dai tombini della strada principale, e un odore acre di bruciato ha invaso i bei palazzi altoborghesi. C’è chi ipotizza che sia stato un colpo maldestro di una gang di malviventi del sottosuolo che ha tranciato cavi che non doveva toccare. La professionalità, in queste cose, fa la differenza. «Non parlo dei colpi fatti, e non posso fare nomi», premette l’uomo-talpa accomodandosi sulla sedia. Ordina un aperitivo analcolico «ma senza stuzzichini». Possibile motivazione: non vuole ripetere l’infausta avventura del mariuolo che, calcolato con eccessivo ottimismo il diametro del foro in proporzione al girovita, non riuscì a passare dall’altra parte.

Lei fa parte dei gruppi di rapinatori che spuntano dalle fogne?

«(Senza tradire alcun imbarazzo). Io mi occupo di altro. Sono un «tecnico», diciamo così».

Quindi non assalta banche e uffici postali?

«Il mio ruolo e la mia funzione si fermano molto prima. Anzi, molto «sotto». Scavo i tunnel, come lei sa».

Possiamo definirla uno «speleologo» decisamente particolare?

«Per fare il mio lavoro è evidente che  devi avere una certa dimestichezza con il sistema fognario e con l’edilizia. Faccia un po’ lei».

Quindi, ha un passato da muratore?

«Qualcuno del giro ha lavorato in diversi cantieri, sì. Questa cosa la posso affermare».

Come realizza le sue gallerie?

«La cosa più importante è individuare un punto d’accesso sicuro da cui far partire lo scavo. Può essere un negozio, un «basso» (piccoli monolocali «fronte strada» diffusi nei quartieri più popolari della città, ndr) o un vano ascensore. Quando è stato trovato, si comincia a scendere».

Fino a dove?

«Se si riesce ad agganciare subito una rete fognaria o una galleria utilizzata per far passare i cavi dell’Enel o del telefono, si risparmiano tempo e metri. Altrimenti, si continua a scavare sia in orizzontale sia in verticale, per intercettarla».

E com’è possibile orientarsi?

«Ci sono le mappe, chiaramente.

Perché le avete a disposizione?

«Qualcuno ce le ha date, ovvio. (Un’inchiesta dell’ottobre 2018 ha portato all’arresto di un dipendente del Comune di Napoli che faceva da «consulente» a un gruppo di malviventi, ndr). Su quest’argomento non aggiungo altro però».

E poi che cosa succede?

«Quando abbiamo trovato la rete fognaria che c’interessa, comincia la realizzazione del tunnel che arriverà nel luogo prestabilito. Si utilizza la rete fognaria come un’autostrada, se può valere l’esempio. Solo che non ci sono svincoli già pronti. È necessario costruirli al momento».

Quanto tempo può richiedere un’opera del genere?

«Diverse settimane o anche mesi. Non si scava tutti i giorni. Quando piove, si interrompe. Le zone a rischio frana sono insidiose. Spesso si lavora in ginocchio, o sdraiati. Si può morire lì sotto».

Una volta terminato il «traforo», si studia il piano per la rapina o il furto, oppure è già stato tutto deciso?

«Non sempre accade quello che lei dice. Possiamo (qui per la prima volta, l’uomo-talpa usa la prima persona plurale, ndr) anche tenerlo chiuso in attesa di tempi migliori. Non sono cose che s’improvvisano. Oppure possiamo decidere di venderlo».

Si vendono i tunnel già scavati?

«Già».

E come funziona?

«Non aggiungo particolari. Dico solo che in alcuni casi è molto meglio non rischiare in prima persona. C’è una trattativa, ci sono delle garanzie, e si chiude l’affare».

Quanto costa un tunnel?

«Anche 50 mila euro. Dipende da tanti fattori. Non ultimo, il luogo in cui sbuca. Un tunnel che va a finire sotto una banca vale più di uno che termina in un altro posto, non le pare?»

Ciò significa che, sottoterra, ci sono gallerie complete «chiavi in mano»?

«Può descriverle anche così».

Quindi chi scava non partecipa alle rapine?

«Non ho detto questo. Ci sono casi in cui i due aspetti, quello della preparazione e quello dell’azione, sono distinti. C’è chi preferisce vendere le gallerie, tirandosi fuori dall’impresa, e chi, invece, vuole provare il brivido dell’assalto».

In quel caso che cosa accade?

«Ottiene una percentuale sul bottino, se il colpo riesce».

Una percentuale che arriva a...?

«Tra il 10 e il 20 per cento».

Quante persone sono necessarie per una rapina di questo genere?

«Dai 10 ai 15 uomini, di solito».

È alla camorra che cosa arriva in tasca da questi raid, molto denaro?

«Non mi pare il caso di rispondere».

(Ha però uno sguardo eloquente come a significare «sì», ndr). La conversazione termina con l’ultimo sorso di aperitivo e l’uomo-talpa che si alza dalla sedia e si strofina le mani sui jeans come per liberarsi da una polvere che solo lui riesce a vedere. Qualche giorno dopo quest’incontro, colpisce un flash dell’agenzia Ansa. Tre rapinatori, sbucando da un cunicolo sotto l’ufficio postale di via Mazzini, hanno portato via 20 mila euro davanti agli occhi esterrefatti dei dipendenti. 

·         Sceneggiate napoletane.

“NE’ CON LO STATO, NE’ CON LA CAMORRA”. Andrea Palladino per La Stampa il 28 marzo 2019.  Una sfida allo Stato, un voler marcare ancora una volta un territorio, mostrando di non temere nessuno. Il film “Operazione Spartacus. La casalese” - prodotto da Angelo Bardellino, nipote dell’ex capo clan ucciso in una guerra di Camorra negli anni ‘80 e diretto dall’ex moglie di Renato Vallanzasca Antonella D’Agostino – sta diventando un caso che mostra la delicatezza di quell’area a cavallo tra il Lazio e la Campania. Prima è arrivato il divieto di proiezione per l’evento organizzato inizialmente in un resort a Spigno Saturnia, comune dell’estremo sud pontino, a ridosso del confine con la Campania. Poi, martedì sera, la sfida: attori, regista, organizzatori e supporter si sono dati appuntamento, riservatamente, alla Yacht Club di Gaeta, a pochi chilometri dal locale inizialmente scelto per l’evento che poi è stato vietato. La copertina del libro sul tavolo, interventi stizziti contro i giornalisti che hanno scritto del caso, chiamati «psicopatici» e «borderline», i mazzi di fiori, i vestiti delle grandi occasioni. Interviste, le foto di gruppo, i migliori sorrisi da sfoderare su un immaginario red carpet. E poi, quando è calata la luce sul lungo mare, la proiezione del trailer. Il divieto del Viminale? Ignorato, cambiando sala ed evitando ogni forma di pubblicità. Tutto organizzato con il passaparola, messaggi inviati poche ore prima sui cellulari del cast e tanta discrezione. «Né con lo Stato, né con la Camorra» è l’atroce slogan di lancio del film pubblicato sulla pagina Facebook ufficiale. «Solo una storia d’amore», si difende l’autrice Antonella D’Agostino. Una trama dove la protagonista si oppone al marito collaboratore di giustizia, racconta la presentazione pubblicata sui social. È il filo narrativo sottile che aveva preoccupato la Prefettura di Latina e la Commissione antimafia, intervenute la settimana scorsa ottenendo il divieto di proiettare il film. L’anteprima era stata organizzata dalla società di produzione Roxyl Music riconducibile ad Angelo Bardellino. Imprenditore nel settore musicale nato nel casertano e cresciuto a Formia, è il rappresentante più conosciuto della famiglia protagonista dei primi anni di ascesa del clan dei Casalesi. Ha subito una condanna in secondo grado per estorsione ed oggi è in attesa del pronunciamento della Cassazione. Ma i Bardellino sono un nome che continua a contare in quel territorio. Proprio a Spigno Saturnia, dove era previsto inizialmente l’evento, avevano alcuni terreni, poi confiscati. Le forze di Polizia sono arrivate nei locali dove si è tenuta la proiezione del film solo ad evento concluso, secondo alcune fonti interpellate da La Stampa. Hanno proceduto all’identificazione dei partecipanti, ma ormai tutto era finito. La sfida è stata lanciata.

Gennaro Morra per ilmessaggero.it il 26 novembre 2019. «Che cos’è la camorra? È un’organizzazione… una scelta di vita che... magari... voi avete scelto la vita di giornalista, io ho scelto la vita per la musica e loro hanno fatto una scelta di vita che va rispettata». Risponde così Anthony Ilardo, cantante neomelodico 30enne, all’inviato di La7, Carlo Marsilli, nell’intervista andata in onda nel corso dell’ultima puntata di Non è l’arena. Ancora una volta il contenitore di attualità condotto da Massimo Giletti è tornato a occuparsi della vicenda Tony Colombo-Tina Rispoli, allargando lo sguardo a un certo genere di musica napoletana che strizza l’occhio alla malavita. E di certo non ne fa mistero, tanto meno se ne vergogna. Al contrario, lo stesso Ilardo nel proseguo dell’intervista non ha problemi ad ammettere di essersi esibito per conto di un pregiudicato: «Non posso schierarmi con le posizioni di chi si definisce un cantante anticamorra, come Rocco Hunt, perché io sono andato a lavorare per una persona che c’ha precedenti e mi dà il pane per far mangiare i miei figli – sostiene ancora il cantante figlio d’arte –. Magari non posso condividere, ma non mi permetto di giudicare». Poi il giornalista gli chiede di un episodio di cui è stato protagonista di recente: «Il signor Silvio mi disse di salutare Carlo e io ho salutato Carlo, anche se non so chi è perché non sono della zona. Poi l’ho saputo dopo dai giornali». Il riferimento è a un concerto organizzato da Giovanni Illiano e Silvio De Luca, che lo scorso 31 ottobre misero su una festa di piazza non autorizzata a Monterusciello, una frazione di Pozzuoli. I due, esponenti del clan Beneduce-Longobardi, festeggiarono in quel modo il loro ritorno a casa dopo una lunga detenzione. In quell’occasione a esibirsi per i due pregiudicati e i loro invitati alla festa abusiva c’era anche Anthony Ilardo a cui a un certo punto Silvio De Luca, detto ‘o Nanetto, chiese di salutare Carlucciello ‘o Fantasma, al secolo Carlo Avallone. Quest’ultimo è in carcere dal 24 dicembre 2017, bloccato dalle forze dell'ordine dopo essersi reso autore di una serie di reati nel tentativo di prendere il controllo delle attività criminali della zona, approfittando dello smantellamento del clan egemone. Ma Ilardo di tutto questo dice di non sapere nulla e al giornalista di La7 racconta di essere a conoscenza solo della reputazione non proprio limpida di De Luca. E per lui non è un problema essere ingaggiato da un personaggio del genere: «Ripeto: non condivido la sua scelta di vita, ma va rispettata – afferma –. Io purtroppo faccio il mio lavoro. Altrimenti datemi voi un lavoro e io non canto più». E ancora: «Non credo che questo sia un modo per legittimare la camorra e a mio figlio, dovendogli spiegare quello che faccio, direi che il padre è un cantante, che può cantare per il gioielliere, l’operaio e per chi ha precedenti penali. Chi lo paga, per quello va a cantare». Dichiarazioni choc, che hanno acceso la discussione soprattutto sui social network. In particolare, sulla questione è intervenuto il consigliere regionale, Francesco Emilio Borrelli, presente in trasmissione in quanto fu uno dei primi a denunciare le irregolarità messe in atto in occasione dei festeggiamenti del matrimonio tra Tony Colombo e Tina Rispoli, protagonisti di un altro servizio andato in onda durante il programma. E su entrambi i contributi l’esponente dei Verdi ci va giù pesante: «Nella trasmissione “Non è l’Arena” di domenica sera ho avuto modo di assistere a due servizi che hanno evidenziato ancora una volta che metodi camorristici e malcelate simpatie per gli ambienti criminali caratterizzano alcuni cantanti neomelodici – scrive Borrelli in una nota –. Dallo studio abbiamo avuto modo di assistere alla vergogna di Tony Colombo e del suo staff che, incalzati dalle domande di una giornalista sui rapporti con il clan Marino, hanno pensato bene di sottrarle lo smartphone, cancellandole un video, prima di appropriarsi della sua Go-Pro, arrivando a masticare la scheda SD pur di cancellare i reperti. Un atteggiamento violento e ingiustificabile, adottato con metodo camorristico». Poi sull’intervista al neomelodico aggiunge: «Un secondo servizio ha mostrato un’intervista al cantante Anthony Ilardo che, tempo fa, fu protagonista di un concertino a Monterusciello, organizzato per la scarcerazione di un detenuto, durante il quale dedicò un applauso a un altro soggetto recluso in carcere. Dinanzi alla domanda sulla camorra, l’ha rubricata come scelta di vita, aggiungendo che non se la sente di giudicare». E conclude: «Un atteggiamento vergognoso di chi non si pente di ricevere per le proprie esibizioni il denaro sporco proveniente dai proventi criminali. Purtroppo l’intersezione tra cantanti neomelodici e camorra sta assumendo contorni sempre più inquietanti. Chi si comporta come Tony Colombo o mostra accondiscendenza nei confronti della malavita come Anthony Ilardo non ha nulla a che vedere con il mondo della musica».

Alberto Dandolo per Dagospia il 24 novembre 2019. Tony Colombo e le ospitate con la moglie Tina Rispoli  da Barbarella. La normalizzazione di una tragica, cruenta realtà fatta di carrozze e pistole.Ma non solo questa è la Napoli neomelodica. Ci sono voci che raccontano la trasparenza, spesso teatrale, dei sentimenti più autentici.  Che testimoniano la Napoli più aurorale. La Napoli mamma prima che mignotta o prepotente. Ed è il caso una ragazza perbene, di una voce che resterà nella storia della canzone della città più controversa d'Italia. Del porto più complesso del Mediterraneo. Stiamo parlando di Emiliana Cantone. Si è esibita in un video con Colombo, of course! Ma questa ragazza di Casalnuovo rappresenta una pietra rara nel panorama della canzone napoletana degli ultimo 15 anni. Emiliana è famosa da da quando aveva 13 anni. E' lontana dal "sistema" e in lei si identifica una intera generazione. I suoi video hanno fatto milioni di visualizzazioni.  Ora farà il salto. Quello vero. E che la sua Napoli la supporti. Forse Sanremo? Ah saperlo... Si sussurra abbia una canzone che farà storia...

Da Wikipedia. Dopo alcuni anni di canto, Emiliana Cantone incide il suo primo lavoro discografico, con la collaborazione di Leo Ferrucci, intitolato Basta... un attimo, distribuito dalla OP Music. Nel 2015 incide una cover di Ragione e sentimento di Maria Nazionale, duettando con La Pina. Nel 2016 viene pubblicato il suo nono album in studio, dal titolo “Mille lune”. Nel 2016 incide uno dei singoli più rilevanti della sua carriera, intitolato “È una maledizione”; e duetta più tardi anche nel brano “Luntano se more” con Gianluca Capozzi. Nel 2017 incide un brano con Tony Colombo e Alessio, Acaricia mi cuerpo. Nel 2018 pubblica il suo decimo album Non è sempre colpa delle donne.

Da corriere.it il 14 novembre 2019. Spintoni e minacce a una troupe di «Non è L’Arena», il programma della domenica sera di La7, sul luogo di un concerto non autorizzato di Tony Colombo in pieno centro a Napoli. «Tony Colombo sta cantando nella Pignasecca, ma devi andare subito» la segnalazione raccolta, ma sul posto la troupe trova silenzio e ostilità. «Abbassa la telecamera», «Qui non c’è nessun Tony Colombo, se anche c’era ora non c’è», «Forse non hai capito, qui qualcuno si fa male» replicano le persone in piazza invitando il giornalista e il cameraman a non riprendere prima di spintonare la troupe. Tony Colombo, che in primavera ha sposato la vedova del boss Gaetano Marino, Tina Rispoli, è già indagato dalla Procura di Napoli per un concerto non autorizzato, svoltosi il 25 marzo 2019 in piazza del Plebiscito a Napoli.

Daniele Sanzone per il “Fatto quotidiano” il 12 novembre 2019. Corsi e ricorsi "neomelodici" direbbe Giambattista Vico. Purtroppo la storia si ripete, cambiano i cantanti ma la musica è sempre la stessa, quella neomelodica, che continua a far parlare (male) di sé. Questa volta a far discutere è il matrimonio, in pompa magna, tra il cantante Tony Colombo e Tina Rispoli, vedova del boss Gaetano Marino ucciso nel 2012 a Terracina. Sulle nozze che, il 25 marzo scorso, con tanto di fanfara, giocolieri e carrozza bianca trainata da cavalli, hanno bloccato piazza Plebiscito a Napoli, è stata aperta un'inchiesta per capire se c' erano i permessi per l' evento. Un matrimonio che dà la misura della spettacolarizzazione delle mafie, non a caso Tina Rispoli seguitissima sui social, dove ostenta la sua ricchezza lasciandosi fotografare con pistole, ricorda Claudia Ochoa Félix, la "Kim Kardashian" dei narcos, morta di overdose due mesi fa, moglie del braccio armato di El Chapò. Un' ossessione quella di Tina Rispoli per lo spettacolo. Nel 2010, con l' ex marito, portò la figlia Mary a cantare a Canzoni e Sfide trasmissione di Rai2. A sollevare il caso fu Roberto Saviano che, su Facebook, si domandò come fosse possibile omaggiare un boss in Rai. Invece nel 2016, Nicola, ultimo figlio della coppia, comparve addirittura in Gomorra, la serie tv di Sky tratta dal libro dello scrittore anti-camorra, creando un vero e proprio corto circuito tra fiction e realtà. Fino ad arrivare alle ospitate con l' attuale marito, Tony Colombo, da Barbara D' Urso su Canale 5. Per lo storico Marcello Ravveduto in libreria con Lo spettacolo della mafia (Edizioni Gruppo Abele), "la spettacolarizzazione della camorra è diventata un brand patinato in cui il benessere derivante dal narcotraffico si trasforma nello stile di vita glamour di un mondo che si presenta come una moda trendy da seguire attraverso lo storytelling narcisistico del selfie, l' ostentazione del lusso e gli hashtag mafia, narcos, cartel e così via. Come lo slogan de labellamafia.com: “Labellamafia è più di un marchio; è uno stile di vita”". Uno stile che entra anche nelle canzoni neomelodiche, essendo la malavita parte integrante della quotidianità di chi produce, esegue e ascolta questa musica, anche se le canzoni di mala sono poca cosa. E a parte quelle dedicate a latitanti, killer e capoclan - sempre giustificati con la scusa che nella vita sono stati sfortunati - il vero contatto tra musica e camorra nasce dall' esigenza di trovare l' impegno, ovvero il lavoro, un posto dove esibirsi: cerimonie e feste di piazze. E il matrimonio è spesso la festa più importante, a volte l' unica, di una misera vita. Per esibirsi un cantante deve avere un manager che spesso appartiene ai clan o gravita in quell' ambiente. Un business che ha risentito della crisi del mercato discografico. "Ormai si campa la giornata - dice, Sergio Donati, tra i maggiori produttori di musica neomelodica, tra cui Mary Marino - È chiaro che c' entra la camorra, chi può spendere tanti soldi? Ma oggi il business musicale è poca cosa. Un giovane sulla cresta dell' onda può prendere 500 euro, per guadagnarne netti 300 a impegno e in un anno può fare anche 200 impegni". E il riciclaggio? "Come fa ad esserci se non c' è tracciabilità? A parte i casi di usura - spiega Donati - dove sono i cantanti a rivolgersi ai clan, a spingere i camorristi a produrre è lo sfizio di poter chiamare il proprio cantate alle cerimonie". Un modo per atteggiarsi e creare consenso. Ma i neomelodici cantano soprattutto l' amore e lo fanno in modo semplice, sentimentale e banale proprio come tutte le canzoni pop in circolazione. Una musica glocal a "chilometro zero" che spesso non esce dai confini campani o addirittura del quartiere. Canzoni a uso e consumo di un' intera fascia sociale che quasi mai ha la possibilità di studiare e, che spesso, sopravvive a limite della legalità. Oggi le mafie si stanno adeguando ai nuovi media, aggiornando codici e simboli mafiosi. Creano consenso ostentando il loro potere attraverso i social e facendo musica. Nuovi linguaggi criminali che, alimentati e legittimati da fiction, film e canzoni, fanno tendenza. Un continuo andirivieni tra fiction e realtà che ha sancito il passaggio dalla giustificazione all' esaltazione, come nel caso dei (t)rapper 'ndranghetisti che, sulla scia degli antichi canti di 'ndrangheta, oggi raccontano la mafia calabrese. Giovani che si lasciano ritrarre con mitragliatrici, cantando che a loro "non li fotte nessuno" perché sono i numeri uno, titolo della canzone di Glock 21 - nome preso dal modello di una pistola - come si fa chiamare Domenico Bellocco, nipote e cugino dell' omonima cosca. Poi ci sono i neomelodici siciliani che vedono Napoli come La Mecca. Sono tantissimi dagli storici Carmelo Zappulla, Natale Galletta e Gianni Celeste fino ad arrivare a Tony Colombo. Ma, il 5 giugno scorso, a fare scalpore è stato Leonardo Zappalà, alias Scarface, per aver offeso la memoria di Falcone e Borsellino durante la puntata di Realiti su Rai2, dove è stato ospite assieme a, Niko Pandetta, nipote del potente boss catanese, Salvatore Cappello, da lui omaggiato con Dedicata a te, canzone che in rete ha superato i 3 milioni di visualizzazioni. Pandetta ha raccontato di essersi prodotto il primo disco facendo rapine e ha poi minacciato in un video su Facebook il consigliere regionale Francesco Borrelli, che lo aveva criticato durante la trasmissione. Per il regista Franco Maresco "Ci troviamo di fronte all' azzeramento di qualsiasi morale. Non esiste più un confine ed è obsoleta anche la distinzione tra realtà e finzione. La tecnologia ha annullato la fatica del pensare esponendosi e le fiction sono diventate i modelli culturali di riferimento. E indietro non si torna". Ma tutta questa spettacolarizzazione non è altro che la sovrastruttura di un determinato modello economico fondato sul denaro e l' apparire. A far paura è la loro capacità di penetrare, con l' intimidazione e il potere economico, in qualsiasi ambito e strato sociale. Viviamo una crisi morale senza precedenti, siamo tutti corresponsabili di ciò che sta accadendo: istituzioni, politica, mezzi d' informazione, produttori e artisti. Sta a noi scegliere in quale mondo vogliamo vivere.

Valerio Esca per Il Messaggero l'8 ottobre 2019. Sono in tutto nove gli indagati per il caso del flash mob organizzato dal neomelodico Tony Colombo lo scorso 25 marzo, in piazza del Plebiscito in occasione delle sue nozze. Con Colombo sono coinvolti il fratello del sindaco di Napoli, Claudio de Magistris, due ufficiali della polizia Municipale (il capitano dell’Unità operativa di Chiaia Sabina Pagnano e Giovanni D’Ambrosio), i tre vigili urbani di pattuglia quella sera, una staffista della segreteria del sindaco e una dipendente comunale. Claudio de Magistris, fratello del sindaco di Napoli Luigi, è tra le 8 persone indagate per il concerto organizzato in piazza del Plebiscito dal cantante neomelodico palermitano Tony Colombo alla vigilia del suo matrimonio con Tina Rispoli, vedova del boss degli scissionisti Gaetano Marino, ucciso a Terracina nel 2012. La vicenda risale allo scorso 26 marzo, quando quello che era qualificato come flash mob diventò un vero e proprio concerto in piazza sul quale anche la Polizia municipale di Napoli aveva aperto le indagini, acquisendo i tanti video pubblicati sui social network. Due giorni dopo, in occasione delle nozze, è stato anche organizzato un corteo con carrozze, cavalli e giocolieri che ha creato il caos in corso Secondigliano, mentre la calca dei fan all'esterno del Maschio Angioino, dove si è celebrato il rito civile, ha richiesto l'intervento dei vigili urbani. La Procura di Napoli, secondo quanto riportato oggi da diversi quotidiani, ha iscritto nel registro degli indagati Claudio de Magistris, che sarebbe stato contattato da Tony Colombo e al quale avrebbe indicato due membri della segreteria del sindaco di Napoli ai quali rivolgersi per ottenere le autorizzazioni per un flash mob in piazza del Plebiscito. Dagli atti sequestrati dai magistrati risulterebbe però che la richiesta di disponibilità di piazza del Plebiscito era da intendersi dalle 18.30 alle 23, circostanza che, secondo l'accusa, «escludeva implicitamente la natura estemporanea dell'evento». Ciò nonostante un membro della segreteria del sindaco avrebbe qualificato l'evento come flash mob nelle mail inviate alla Polizia municipale di Chiaia, competente per la piazza, procurando a Tony Colombo «un ingiusto vantaggio patrimoniale» potendo svolgere una manifestazione musicale senza le autorizzazioni imposte dalla legge. Sono al vaglio anche le posizioni di cinque agenti municipali che non avrebbero disposto l'interruzione della manifestazione musicale, pur avendo la stessa «travalicato i limiti di mero flash mob e risultando non autorizzata».

SUL ROYAL WEDDING NAPOLETANO ORA INDAGANO I PM. Federico Vacalebre per ''il Mattino'' il 31 marzo 2019.

«Mi sono sentita la principessa del mio quartiere, di Secondigliano, poi, però, mi hanno rovinato la festa e il matrimonio, inquinato la favola». Tina Rispoli ha messo via l' abituale sorriso e accetta di raccontare la sua versione del matrimonio dello scandalo: «Mi sono appena sposata e probabilmente sono incinta, dovrei essere felicissima e, invece, sono sospesa tra tristezza e rabbia: sono una donna onesta, dalla fedina penale pulitissima, perché devo vedermi paragonata ai Casamonica, che c' entro io con la camorra?».

Magari c' entra perché ha sposato, prima di Tony Colombo, Gaetano Marino, boss scissionista ucciso con undici colpi di pistola il 23 agosto 2012?

«E questo che c' entra con me? Perché, sette anni dopo quel sangue, io devo essere indicata come la vedova del boss, i miei figli devono diventare i figli del boss?».

Come chiamarsi fuori dalla camorra dopo aver vissuto con un camorrista?

«Venticinque anni fa, con una cerimonia molto più semplice di quella di oggi, ho sposato un uomo che in casa è stato marito e padre esemplare, quello che faceva fuori non lo vedevo e non lo sapevo».

Possibile? Nessun indizio, nemmeno un sospetto?

«Nemmeno uno, lo ripeto, almeno fino a quando è morto ammazzato e ho iniziato a sentir ripetere quella parola: boss, boss, boss. Pensavo di averla dimenticata, adesso, invece, è tornata: la vedova del boss, boss, boss. Devo difendere i miei figli, che sono meravigliosi, Tony, ma anche i nostri fan da questa valanga di insulti gratuiti. Non è giusto che io debba pagare le colpe del mio ex marito: io con la camorra non ho niente a che fare».

Sotto accusa, però, visto che aveva tutti i diritti di sposarsi, sono finite le modalità della festa: trash, pacchiana, arrogante, si è detto. Si è parlato di ostentazione del potere.

«Trash? Per me era chicchissima. Arrogante? Per me era il tenero sogno di una bambina che si avverava: quell' abito bianco, i cavalli bianchi, la carrozza, i trombettieri, il mio quartiere in festa. Potere? Ma se tutti ci sparano addosso».

Avete bloccato Secondigliano.

«Devo chiedere scusa per l' amore che il rione mi ha mostrato? Ero felice per i bambini che mi scattavano le foto, per le donne che piangevano nel sapermi finalmente felice...».

Sono stati anni duri dopo l' assassinio del suo primo marito? Quando ha conosciuto Tony?

«Lo conoscevo già prima perché si esibiva alle cerimonie della mia famiglia, a un certo punto ci siamo ritrovati nella stessa comitiva di amici e, il 21 maggio 2015, ci siamo messi insieme».

Tra voi c' è una certa differenza d' età: lei ha 43 anni, lui 32. Chi ha fatto la prima mossa?

«Lui, ma forse aveva capito, forse gli avevo già fatto capire, che mi piaceva».

Il corteo in carrozza, piazza del Plebiscito senza autorizzazioni, lo sfarzo dell' arrivo al Maschio Angioino. Tony rifarebbe tutto, lei si è pentita, non crede di aver esagerato?

«Pentiti mai».

Nemmeno dell' aver offerto una brutta immagine di Napoli?

«Brutta? Io l' ho vista bellissima, l' immagine, con la gente felice sotto il palco, amici in festa per noi due... Se quella è brutta che immagine è quella degli omicidi, delle stese? Il problema è la vedova del boss che sposa il neomelodico o quando ammazzano qualcuno?».

Il sindaco de Magistris e il governatore De Luca sono stati uniti, cosa unica più che rara, nel condannare lo spettacolo offerto.

«Ognuno ha i suoi gusti, io difendo la cerimonia e le sorprese che Tony ha organizzato per farmi felice, per trasformarmi, almeno per un giorno, nella principessa di Secondigliano».

Ora infuria la polemica, al punto da avervi suggerito di non partire per il viaggio di nozze, almeno non quando previsto. Come andrà avanti la vostra vita di coppia?

«Spero di essere incinta, ma per il resto sarà tutto come prima: farò la mamma dei miei figli e seguirò mio marito nelle sue attività. Dormo pochissimo, faccio notte accompagnandolo, mi sveglio presto, alle sette di mattina, per mandare a scuola il più piccolo di casa, 12 anni, il più grande ne ha 23 e la femmina 19. Sono figli miei, non della vedova di un boss scissionista. E io sono una donna top, oltre che onesta, mamma e moglie esemplare».

Suo marito pensa a qualche altra trovata per il rito in chiesa.

«Potrei arrivare in elicottero».

Interviene Tony: «Scherza, si intende. Però, potrebbe essere una bella idea».

Leandro Del Gaudio per ''Il Mattino'' il 31 marzo 2019. Gli orari, i turni di lavoro, le relazioni di servizio, finanche gli eventuali passaggi di consegna a voce, di quelli che si trasmettono in via informale tra una squadra che lascia e una che monta servizio. È il nucleo dell' inchiesta sul concerto trash in piazza del Plebiscito, quello che ormai da giorni sta facendo il giro del web, a metà strada tra perplessità e indignazione. Ieri mattina, la dirigente della polizia municipale di Chiaia Sabina Pagnano è stata ascoltata dai carabinieri, come persona informata dei fatti. La donna ha ribadito un punto in particolare: non interveniamo sui flash mob, sui raduni improvvisati ed estemporanei, dove c' è per altro il nulla osta degli uffici comunali. Dirigente preparata ed affidabile, per altro in prima linea proprio nella realizzazione dell' evento di Capodanno, Sabina Pagnano ha così respinto la palla al di là della staccionata, provando a dimostrare che dal suo punto di vista non aveva alcuna possibilità di intervenire e bloccare quella promessa di matrimonio tra il cantante Tony Colombo e Tina Rispoli, al cospetto di migliaia tra fan e comparse. Un' inchiesta che fa ora i conti anche con un retroscena, sul quale ieri ha insistito proprio il neomelodico. Per Tony Colombo, i vertici del Comune (in particolare il sindaco De Magistris e l' assessore Clemente) erano a «conoscenza di ogni particolare» di questa storia, a proposito del carosello della sposa lungo corso Secondigliano (quello con la banda al seguito), ma anche dello show di piazza Plebiscito e della cerimonia del Maschio Angioino (anche qui in presenza di trombettieri e figuranti). «Posso confrontarmi con l' assessore Clemente e col sindaco De Magistris su tutto quello che vogliono. Ho ringraziato il Comune di Napoli per la gentile concessione alla fine del video del mio nuovo singolo. Vi pare che uno come me, abituato ad organizzare concerti, feste non fa i permessi?», ha spiegato il neomelodico, replicando alle accuse dell' amministrazione comunale sugli abusi che avrebbe commesso e sulla mancanza di autorizzazioni per le sue sfarzose nozze con la vedova del boss Gaetano Marino. «Tra l' altro - aggiunge il cantante - il sindaco De Magistris aveva manifestato l' intenzione di officiare il mio matrimonio, poi ha comunicato che in quella data avrebbe avuto altre cose da fare». Una dichiarazione, quest' ultima, che contiene solo una parte di verità. Secondo quanto risulta al Mattino, delle nozze di Colombo si sapeva già tutto da gennaio, di fronte alla richiesta del cantante di avere il sindaco come officiante della cerimonia civile. Una richiesta respinta garbatamente al mittente, dopo una rapida istruttoria interna che ha visto protagonisti il capo di gabinetto Attilio Auricchio e la sezione di polizia giudiziaria della stessa polizia municipale. Dunque, al Comune era nota la volontà di Colombo di sposare la vedova del boss scissionista, ma l' invito era stato rigettato, grazie a una indagine preventiva, finalizzata ad impedire momenti di imbarazzo o danni all' immagine per il primo cittadino. Un caso aperto, discusso e chiuso in pochi giorni (siamo a metà di gennaio scorso), mentre gigantografie del cantante (e della sua promessa di matrimonio) hanno tappezzato Napoli e l' intera area metropolitana.

Ma torniamo all' evento di lunedì scorso in Piazza del Plebiscito. Verifiche affidate ai carabinieri del comando provinciale, si lavora su un buco di almeno cinque ore, vale a dire il tempo necessario ad allestire nella piazza più famosa di Napoli una sorta di palco, ai piedi del quale è poi avvenuto il miniconcerto di Colombo. Chiara la domanda degli inquirenti: possibile che in quelle cinque ore tra allestimento e show, nessun esponente della polizia municipale si sia incuriosito? Possibile che nessun agente abbia chiesto informazioni? E che le forze dell' ordine si siano bevute la storia della sorpresa estemporanea? Come è noto, tutta la vicenda ruota attorno all' equivoco (non si sa quanto voluto) tra flash mob (evento improvvisato di più persone) e concerto (evento di diverse ore, con tanto di allestimento, di licenze di agibilità, di impiego di gruppi elettrogeni). Ma sono le mail acquisite dai carabinieri a raccontare cosa è avvenuto nei giorni precedenti l' evento trash di piazza Plebiscito. Un corto circuito che ha inizio il 13 marzo, quando al Comune arriva la prima mail della Cr studio, per conto del neomelodico, nella quale si richiede «la disponibilità prevista per il giorno 25 marzo, a partire dalle 18.30 alle ore 23, per piazza del Plebiscito, in occasione di un flash mob a favore dei futuri sposti Tony Colombo e Tina Colombo». E non è tutto. Nella stessa mail, si fa riferimento alla presenza di uffici stampa e della troup Mediaset, a conferma del carattere mediatico dell' evento. Qual è la risposta del Comune? È il 14 marzo, quando l' ufficio Cinema replica con una mail: «Per quanto riguarda l' ufficio scrivente, non risulta necessario il rilascio di autorizzazioni», di fronte a un' attività che cade sotto la sfera del diritto di cronaca. Ma non è finita. Con la stessa mail del 14 marzo, il Comune si tutela: da un lato dà via libera al flash mob di piazza Plebiscito, dall' altro inoltra la richiesta alla polizia municipale (sezione Chiaia), per «eventuali provvedimenti di competenza». Una richiesta che viene girata alla dirigente della polizia municipale di Chiaia Pagnano, che viene in questo modo allertata sull' evento e sugli eventuali provvedimenti di competenza da adottare per il 25 marzo. Ma quali erano i provvedimenti di competenza? Cosa avrebbe dovuto fare una dirigente, di fronte al via libera del Comune al flash mob? Domande e incertezze che hanno consentito a qualcuno di allestire per qualche ora l' evento trash con tanto di ringraziamenti finali al Comune di Napoli.

Valerio Esca per ''Il Mattino'' il 31 marzo 2019. Il neomelodico Tony Colombo passa al contrattacco del Comune, mentre i vigili urbani dell' Unità operativa di Chiaia lo hanno atteso inutilmente ieri, negli uffici del comando, per notificare i 32mila euro di verbale ricevuti dai caschi bianchi per poi provvedere in serata alla notifica presso il domicilio del cantante. Colombo intanto prova a difendersi e attacca il sindaco de Magistris e l' assessore Clemente: «Vi pare che uno come me, abituato ad organizzare concerti, feste, etc., non fa i permessi?». «In realtà il neomelodico il permesso, che in realtà era un parere, lo ha ricevuto, ma per fare un flash mob non un concerto», chiariscono dal Comune. «Tra l' altro aggiunge Colombo - il sindaco de Magistris aveva manifestato l' intenzione di officiare il mio matrimonio, poi ha comunicato che in quella data avrebbe avuto altre cose da fare». Mentre da fonti del Municipio pare che le cose non stiano proprio così. Nella Municipalità di Secondigliano, Colombo e sua moglie Tina avevano individuato come officiante proprio il primo cittadino senza però mai richiedere allo stesso il consenso. Tanto che già a gennaio l' ex pm, dopo un' attenta e accurata verifica di chi fossero i futuri sposi, declinò l' invito in maniera netta e chiese addirittura una smentita ufficiale rispetto all' anticipazione diffusa su alcuni siti. Il neomelodico poi punta il dito contro l' assessore Clemente, che ieri mattina ha scritto su Fb: «Trentaduemila euro di multe. Abbiamo contestato ai responsabili ed all' organizzazione tutte le violazioni di legge e le sanzioni relative perché non passi il concetto che chiunque può fare il proprio comodo a Napoli infischiandosene delle regole, delle leggi e delle norme». «Guarda caso sostiene invece il cantante - le polemiche sui permessi per la realizzazione del flash-mob sono venute fuori il giorno del mio matrimonio. A scoppio ritardato. Io mi sono sposato il 28 marzo, il flash-mob a piazza del Plebiscito è stato realizzato il 25 marzo. Sono passati tre giorni in cui sui social e sui giornali si parlava in modo favorevole di questa mia iniziativa. Il pregiudizio - aggiunge - è anche a monte dello spostamento della manifestazione Cento passi per il 21 marzo in altra sede. Ci tengo a puntualizzare che da tempo si sapeva che il mio matrimonio sarebbe stato officiato al Maschio Angioino. L' assessore Clemente ha dichiarato ai giornali di essere stata avvisata la sera prima. Deduco che c' è un difetto di comunicazione interna al Comune e che l' assessore non legge giornali e contenuti social che da mesi riportavano la notizia». I quesiti da chiarire restano: ad esempio chi dell' amministrazione abbia interloquito con il management di Colombo, prima di cominciare il valzer delle mail. Uno dei punti sui quali si stanno interrogando gli inquirenti è se qualcuno possa aver favorito l' interlocuzione tra l' amministrazione comunale e Tony Colombo. E c' è già un precedente che lega il neomelodico al Comune. Era il 18 aprile del 2017, quando Colombo, insieme ad Alessio ed Emiliana Cantone, riuscì ad ottenere in concessione piazza Dante per girare il videoclip di «Acaricia mi Cuerpo». Certo, piazza Dante non è piazza Plebiscito. Basti pensare che per il Plebiscito, a differenza delle altre piazze, soltanto la segreteria del sindaco può rilasciare permessi e pareri. Proprio per tenere sotto controllo la principale piazza della città. Piazza che però è sfuggita al controllo di tutti la sera del 25 marzo.

Da Il Corriere della Sera il 28 marzo 2019. Un palco, faretti con luci colorate, un’esplosione di palloncini rossi e almeno duemila giovani urlanti, accorsi in piazza del Plebiscito, a Napoli, per acclamare il loro idolo. È lo spettacolo che martedì sera ha visto protagonisti il noto neomelodico Tony Colombo e la donna che oggi il cantante ha sposato al Maschio Angioino, Tina Rispoli, vedova del boss degli scissionisti Gaetano Marino. La sposa, stamattina, ha attraversato le strade di Secondigliano su una carrozza trainata da quattro cavalli bianchi: un vero e proprio corteo, che ha paralizzato il traffico del quartiere, con giocolieri, musica, ragazze pon pon, comparse con vestiti d’epoca e lancio di coriandoli. Dopo il «sì» al Municipio, il pranzo alla Sonrisa di Sant’Antonio Abate, già set della trasmissione cult «Il boss delle cerimonie» di don Antonio Polese. La festa di martedì, definita flash mob, ma che dell’improvvisazione tipica di queste manifestazioni aveva ben poco, essendo stato organizzato un allestimento da concerto, era in realtà una sorpresa di Tony Colombo, nato a Palermo ma radicato a Napoli, per la sua Tina, “musa” delle hit del neomelodico, che da mesi racconta sui social la loro storia d’amore. Allo spettacolo, una vera e propria serenata per la futura sposa, hanno partecipato anche due volti noti della tv del pomeriggio di «Uomini e donne», Gianni Sperti e Tina Cipollari. Tina Rispoli è stata in passato sposata con Gaetano Marino, detto «moncherino» perché perse le mani nell’esplosione di un ordigno, boss del clan degli scissionisti di Scampia, ucciso sette anni fa a Terracina. La figlia di Tina Rispoli e Gaetano Marino, prima che il padre venisse ucciso, partecipò alla trasmissione tv della Rai Canzoni e sfide dedicando una lettera al padre, seduto in studio in prima fila insieme alla moglie. A novembre del 2018, alcuni colpi di pistola erano stati esplosi contro la sede della “House Colombo Dreams”, la casa discografica di Tony Colombo, a Napoli. I proiettili, secondo gli investigatori, sarebbero stati un avvertimento relativo al legame sentimentale tra il cantante e la donna. Da due giorni sul web impazzano video del party al Plebiscito e non mancano le polemiche. In molti sollevano perplessità per l’allestimento nella piazza del cuore di Napoli, chiedendo soprattutto se per quella manifestazione ci sia stata un’autorizzazione da parte del Comune.

C'ERANO PURE CINQUE ISPETTORI DELLA POLIZIA PENITENZIARIA A SUONARE ALLE NOZZE TRASH DI TONY E TINA. ANSA 4 aprile 2019. Cinque ispettori della Polizia Penitenziaria, che suonano la tromba nella banda musicale del Corpo, di stanza a Portici, in provincia di Napoli, sono stati sospesi dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria per avere preso parte in qualità di musicisti al controverso matrimonio napoletano del cantante neomelodico Tony Colombo e di Tina Rispoli, vedova del boss degli scissionisti Gaetano Marino, assassinato nell'agosto di sei anni fa in un agguato scattato sul lungomare di Terracina. Le nozze che hanno sollevato un vespaio di polemiche e sulle quali sono in corso indagini dei carabinieri, coordinati dalla Procura partenopea. Il matrimonio è stato celebrato in maniera a dir poco pomposa nel Maschio Angioino di Napoli, dopo un festoso corteo nuziale con tanto di carrozza bianca trainata da cavalli, che ha letteralmente bloccato il traffico lungo corso Secondigliano. I cinque ispettori sono stati riconosciuti nelle immagini e nei numerosi video girati anche da semplici cittadini, finiti sul web dove, in pochissimo tempo sono diventati virali. Tony Colombo, infatti, è un cantante molto apprezzato in alcuni quartieri della città. La risposta da parte del Dap non si è fatta attendere: dopo gli accertamenti di rito è stato emesso un provvedimento di sospensione cautelativo nei confronti dei cinque trombettisti che ha lasciato la banda musicale temporaneamente priva dell'apporto di questo strumento. "Ancora fango sulla Polizia Penitenziaria", commentano all'ANSA il presidente dell'Unione dei Sindacati della Polizia Penitenziaria Giuseppe Moretti e il segretario regionale Ciro Auricchio, secondo i quali "l'onore e il prestigio del Corpo non possono essere intaccati da simili condotte. Stigmatizziamo questo comportamento - aggiungono Moretti e Auricchio - che, vorremmo sottolineare, costituisce un'eccezione e, pertanto, non può vanificare l'abnegazione profusa quotidianamente dagli agenti i quali, con enorme sacrificio garantiscono l'ordine e la sicurezza nelle carceri". Moretti e Auricchio auspicano ora che "così come le altre bande delle forze di polizia anche quella del Corpo della Polizia Penitenziaria venga trasferita a Roma, "come prevede un progetto già avviato dal Dipartimento e caldeggiato dalla nostra organizzazione sindacale".

Nozze trash, agenti della penitenziaria nella banda musicale: traditi dai video e sospesi, scrive il 3 aprile 2019 Il Mattino. Traditi dai video postati sul web: c'erano anche cinque ispettori della Polizia Penitenziaria, che suonano la tromba nella banda musicale del Corpo di stanza a Portici, alle fastose e controverse nozze tra il cantante neomelodico Tony Colombo e Tina Rispoli, vedova del defunto boss degli scissionisti Gaetano Marino. I cinque ispettori, riconosciuti nelle immagini diventate virali, sono stati tutti sospesi dal Dap. Alle nozze hanno preso parte in qualità di musicisti. I cinque ispettori, trombettisti della banda musicale della polizia penitenziaria, secondo quanto si è appreso, sarebbero stati chiamati da un'agenzia con sede nel Napoletano, che organizza eventi. Non è chiaro se abbiano prestato la loro tromba in qualità di invitati. Sulle nozze tra il cantante neomelodico e vedova del boss scissionista (ucciso in un agguato sul lungomare di Terracina sei anni fa, ndr) sono in corso indagini dei carabinieri di Napoli, coordinate dagli inquirenti della Procura partenopea. Il matrimonio da Tony Colombo e Tina Rispoli è stato celebrato nel Maschio Angioino di Napoli lo scorso 28 marzo. È stato preceduto da un festoso corteo che ha letteralmente bloccato corso Secondigliano e da una festa in piazza del Plebiscito che agli enti preposti era stata segnalata come un flash mob. Le nozze tra il neomelodico e la vedova del boss hanno suscitato un vespaio di polemiche. «Ancora fango sulla Polizia Penitenziaria». Così il presidente dell'Unione dei Sindacati della Polizia Penitenziaria Giuseppe Moretti e il segretario regionale Ciro Auricchio, hanno commentato la notizia. «L'onore e il prestigio del Corpo - sottolineano i due sindacalisti - non possono essere intaccati da simili condotte. Stigmatizziamo questo comportamento - aggiungono Moretti e Auricchio - che costituisce un'eccezione e, pertanto, non può vanificare l'abnegazione profusa quotidianamente dagli agenti i quali, con enorme sacrificio, garantiscono l'ordine e la sicurezza nelle carceri». Moretti e Auricchio auspicano ora che «così come le altre bande delle forze di polizia, anche quella del Corpo della Polizia Penitenziaria venga trasferita a Roma».

Da fanpage.it il 6 novembre 2019. La terza e ultima puntata di "Camorra Entertainment", l'inchiesta del team Backstair di Fanpage.it sul business dei neomelodici napoletani che ha per protagonisti Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli, parte dal matrimonio della coppia, celebrato lo scorso 28 marzo e diventato un evento mediatico nazionale, anche grazie alla diretta di Barbara D'Urso su Canale 5. Tante le polemiche per lo sfarzo e l'ostentazione kitsch: carrozza con cavalli, addirittura trombettieri e giocolieri. Grandi le polemiche intorno alla questione dei permessi che avrebbero consentito alla coppia di celebrare le nozze senza le corrette documentazioni. "La festa ha avuto un'autorizzazione occulta, sicuramente camorristica - ci dice Tommaso Prestieri ex boss della camorra napoletana, oggi condannato all'ergastolo e collaboratore di giustizia e aggiunge - Secondigliano è una specie di Corleone, se uno fa lo spavaldo è perché può permetterselo". Tra gli invitati al matrimonio, dove le telecamere di Fanpage.it erano presenti, anche i fratelli della sposa, Enzo e Raffaele Rispoli, condannati entrambi per associazione a delinquere di stampo mafioso e noti anche per aver seminato il terrore tra i commercianti del quartiere. È proprio uno di questi ultimi a raccontarcelo: "Loro (i fratelli Rispoli, ndr.) mi hanno chiesto 1.500 euro di pizzo". Oltre ai fratelli Rispoli, era presente anche Crescenzo Marino, il figlio della sposa avuto con Gaetano Marino, attualmente condannato a 4 anni di reclusione per aver strappato l'orecchio a morsi a un amico e Genny Carra, boss del rione Traiano, arrestato per associazione mafiosa subito dopo il matrimonio. Ma nella lista degli invitati troviamo anche il tavolo 'Di Lauro', nome del gruppo camorristico che per oltre 20 anni ha costruito un impero sulle piazze di spaccio di Scampia. A confermarci la vicinanza dei Rispoli ai Di Lauro è di nuovo il "maggiordomo", l'uomo che ha seguito Gaetano Marino in ogni sua attività dopo l'incidente a causa del quale quest'ultimo aveva perso entrambe le mani: "È sempre stata una Di Lauro lei (Tina Rispoli, ndr) - ci spiega il maggiordomo - quando uccisero il padre di Gaetano Marino, lei era dai Di Lauro". L'inchiesta ripercorre gli anni della faida di Scampia, quando Gaetano Marino, ex marito di Tina Rispoli, ammazzato a Terracina, si staccò dal sodalizio dei Di Lauro nel 2004 fondando il gruppo degli Scissionisti. Ad aiutarci in questa ricostruzione è Roberto Saviano che ci spiega: "La famiglia Rispoli è sempre stata 'Di Lauriana', quindi quando la rampolla dei Di Lauro, ovvero la figlia della famiglia Rispoli (Tina Rispoli) sposa il leader degli Scissionisti, questo crea dei problemi agli altri figli. Una volta ucciso Gaetano Marino - continua Saviano - Tina Rispoli non è più rappresentante della famiglia Marino e il suo matrimonio con Tony Colombo diventa il simbolo di una nuova era per Scampia, nella quale Scissionisti e Di Lauro possono tornare di nuovo a essere alleati". Ma c'è di più. Nel giorno del matrimonio fra Tony e Tina un evento dell'Associazione vittime della camorra, previsto al Castello Maschio Angioino di Napoli viene spostato d'imperio per consentire le nozze trash. "Ha rappresentato - spiegano gli organizzatori, tutti parenti di vittime innocenti di malavita - un'ulteriore vittoria della camorra sul lutto e sul dolore dei familiari delle vittime. Quel matrimonio è stato visto come uno schiaffo a una ferita che non si rimarginerà mai". Un altro scandalo che coinvolge la città di Napoli in quei giorni è il concerto organizzato da Tony per la sua sposa, al quale partecipano vip e telecamere Mediaset, ma del quale sembra non esserci un'autorizzazione ufficiale. Anche qui l'inchiesta di Fanpage.it riesce a ricostruire i passaggi fondamentali di quei giorni in base ai quali è Claudio De Magistris, il fratello del sindaco di Napoli, a tenere i contatti con Tony Colombo, cosa che ha portato la Procura di Napoli ad aprire un'indagine a carico di 8 persone tra cui anche il fratello del sindaco e Tony Colombo.

Selvaggia Lucarelli per "il Fatto quotidiano” il 5 novembre 2019. Da mesi, nel salotto di Barbara D' Urso, va in onda un inquietante teatrino a puntate su vita e opere del cantante neomelodico Tony Colombo e di sua moglie Tina Rispoli, vedova del boss Gaetano Marino ucciso sette anni fa in un agguato camorristico. Un teatrino - si suppone retribuito - con una narrazione trash che inserisce la coppietta in una simpatica cornice folcloristica. Di puntata in puntata, si assiste al matrimonio in diretta con carrozze, cavalli bianchi e giocolieri, alla proposta di Tony e Tina alla conduttrice di fare la madrina al loro futuro bambino, alla conduttrice che chiama la Rispoli "principessa con la coroncina" e così via. Raccontati come fossero una sorta di Ferragnez in salsa partenopea, i due finiscono in un guaio per aver (pare) organizzato la festa del matrimonio in centro a Napoli senza i permessi necessari e lanciano strali al sindaco De Magistris reo di aver detto che "non sono la Napoli che voglio vedere". Tony Colombo, col piglio dell' eroe senza macchia, dal salotto di Canale 5 sbraita: "Lui vende questa immagine da uomo del popolo, chieda scusa a mia moglie, l' ha violentata psicologicamente, ha offeso la sua famiglia, il suo nome!". La conduttrice a quel punto specifica: "I giornali parlavano di matrimonio con la vedova del boss! [] Ricordiamo che Tina non è indagata e non ha precedenti penali!". Insomma, povera Tina Rispoli. Siamo lì a sollevare tutto questo polverone per una multa alla carrozza coi cavalli. Dalla tv al web: spin-off del matrimonio dell' anno Poi, una settimana fa, esce un' inchiesta di Fanpage. L' inchiesta racconta che Colombo ha cantato per anni a tutte le feste del boss, che nell' ultimo anno il suo management è stato affidato a personaggi loschi, uno addirittura figlio di un boss. Riguardo la figura di Tina, Fanpage restituisce un' immagine della signora che non somiglia esattamente a quella di una Lea Garofalo in salsa dursiana. La vedova del boss si difende con tono lacrimevole: "Perché devo portare questa croce, io non sapevo cosa faceva mio marito e che è camorrista lo dicono gli altri!". Insomma, dopo un numero imprecisato di puntate grazie alle quali Tina Rispoli è diventata un nome noto con 260.000 follower su una pagina Instagram in cui esibisce la sua bella vita, nel salotto di Canale 5 si è costretti ad affrontare il tema "camorra". Dico "costretti" perché chi fosse l' ex marito della Rispoli e cosa lei abbia sempre dichiarato dopo la sua morte, era noto. A inchiodare la coppia dalla D' Urso c' erano esperti magistrati dell' antimafia e giornalisti notoriamente sotto scorta quali Veronica Maya, Riccardo Signoretti, Simona Izzo. Un siparietto imbarazzante in cui ai due, vista la debolezza della controparte, si è concessa l' ennesima opportunità di candidarsi alla beatificazione. E allora, attingendo dalla cronaca, dalla logica, dalle parole di Roberto Saviano e dall' inchiesta di Fanpage, forse è bene ricordare perché Tina Rispoli non è solo una "principessina con la corona" e perché quello di "vedova del boss" non sia un marchio infamante, ma qualcosa da cui lei stessa non ha mai cercato di affrancarsi con la risolutezza che la questione richiederebbe. E perché sia pericoloso farla passare per una donna che porta la croce, inconsapevole di chi fosse il marito, nonostante i 25 anni di matrimonio.

Tina "principessina con la corona"? 10 memo:

1) Il marito, fabbricando una bomba, aveva perso entrambe le mani tanto che era soprannominato "Moncherino". Improbabile che Tina avesse creduto a un incidente in moto o al bricolage.

2) Il marito era un boss a capo degli Scissionisti, non proprio uno spacciatore di hashish. Suo fratello era finito in carcere, al 41-bis. Suo suocero, altro boss, era stato ammazzato. Le faide in cui sono stati coinvolti i Marino hanno mietuto almeno 70 morti, di cui molti innocenti. La Rispoli deve essere stata molto distratta.

3) La Rispoli ha chiamato suo figlio Crescenzo, come l' ex suocero Crescenzo, il boss ammazzato dalla camorra. Difficile credere che omaggiasse San Crescenzo martire.

4) Piccola parentesi: il figlio Crescenzo ha staccato il lobo dell' orecchio a un rivale in amore (50 punti di sutura) ed è finito prima in carcere e poi ai domiciliari, condannato a 4 anni. La Rispoli ha inizialmente affermato che la vittima era caduta e che il tutto era stata "una sciocchezza", poi, quando il figlio è tornato a casa per scontare i domiciliari, lo ha festeggiato con frasi amorevoli su Instragram e una foto del tenero pargolo col disegnino di una corona accanto.

5) Gaetano Marino girava con la scorta. La Rispoli credeva che il marito l' avesse per tenere a bada i fan?

6) Gaetano Marino, nel 2004, era già stato arrestato per droga. La Rispoli era già sua moglie, dunque una vaga idea del fatto che suo marito non lavorasse per una onlus doveva averla.

7) La Rispoli, secondo Fanpage, ha 50 appartamenti intestati per un patrimonio di milioni di euro. Non ha mai spiegato con quali risorse li abbia acquistati.

8) In compenso, durante il processo che vede imputati i presunti killer del marito, ha affermato "Mio marito viveva con la pensione di invalidità".

9) Come affermato dal capo della Squadra Mobile di Latina Carmine Mosca, Tina Rispoli non ha mai collaborato con la giustizia.

10) Riguardo la sua deposizione in aula, il sostituto procuratore ha chiesto la sua incriminazione per falsa testimonianza.

Per chiudere, se tutto questo non bastasse, si potrebbe aggiungere che Tina Rispoli ha usato la tv non per chiedere giustizia per suo marito e per condannare la camorra, ma per raccontarci le sue nozze trash. E mescolare la polvere di stelle con la polvere da sparo è un rischio che la tv non dovrebbe mai correre.

Da "il Fatto Quotidiano" il 5 novembre 2019. Camorra Entertainment è l’inchiesta a puntate di fanpage.it sul mondo dietro al cantante neomelodico Tony Colombo e alla moglie, Tina Rispoli, vedova del boss di Secondigliano Gaetano Marino, ucciso in un agguato durante le faide di Scampia. Sul loro matrimonio, avvenuto a Napoli il 28 marzo scorso, c’è un’inchiesta della Dda di Napoli che vede, tra gli indagati, oltre a Colombo, Claudio de Magistris, fratello del sindaco, due ufficiali della polizia municipale, tre vigili urbani, e due dipendenti comunali. Anche Roberto Saviano ha puntato il dito contro le “messe in scena teatrali” che “banalizzano”: il riferimento è anche agli show tv tipo Barbara D'Urso, dove la coppia da tempo è ospite. "Non credo che quel matrimonio rientri in una ‘sintassi di camorra’ – ha detto Saviano – ma il contesto di quell’unione sancisce un momento di pace nella faida di camorra di Scampia, che così rischia di essere rimossa dalla memoria".

Marco Leardi per davidemaggio.it il 6 novembre 2019. “Attenzione, bisogna essere molto cauti quando si fanno determinate cose“. Così sentenziava Massimo Giletti domenica sera, riferendosi al racconto televisivo del matrimonio di Tony Colombo e bacchettando Barbara D’Urso. Mentre distribuiva patenti sulla corretta informazione, tuttavia, il conduttore dimenticava forse di essere finito lui stesso a sfiorare inavvertitamente quel campo minato di cui si stava facendo segnalatore. Nell’inchiesta di Fanpage.it portata all’attenzione dal conduttore di La7, infatti, spunta anche il nome di Agostino Iacovo, 40enne di Cetraro (Cosenza), noto per essere a capo della Genesis Group, società che ha curato il management di Tony Colombo e Fabrizio Corona. Il soggetto in questione, come riporta la testata online diretta da Francesco Piccinini, è stato condannato in primo grado (ma poi assolto in Secondo grado e Cassazione) per associazione a delinquere, riciclaggio e condannato in via definitiva per reati di percosse, minaccia grave e reati di calunnia. Attualmente è anche imputato, insieme ad altre 15 persone, per false fatturazioni in una maxi inchiesta della Procura di Paola denominata Camaleonte, per aver costruito un castello di 14 società intestato a prestanome con cui riciclava denaro. Ci domandiamo se Massimo Giletti lo avesse mai sentito nominare, ma sembra difficile escluderlo a priori, visto che Iacovo – oltre che agente di Tony Colombo – era manager di Fabrizio Corona, il quale fu più volte ospite di Non è L’Arena. Il conduttore però non si faceva scrupoli ad ospitare il "re dei Paparazzi", che con Iacovo era in stretti contatti e che, su La7, fu anche assurto al ruolo di inviato speciale per un reportage nel Boschetto della droga di Rogoredo. Forse il giornalista riccioluto ha peccato di ingenuità? Forse non sapeva? Restiamo in attesa di sue delucidazioni. Sicuramente, in un’altra occasione, avrebbe potuto evitare di farsi ritrarre assieme a Corona con indosso una maglietta del brand di cui Iacovo – assieme a Fabrizio – è stato socio. Perché, come giustamente ha spiegato lui stesso ieri su La7, l’immagine ha un suo potere di legittimazione e veicola dei messaggi. Talvolta sbagliati o addirittura pericolosi.

Marco Leardi per davidemaggio.it il 6 novembre 2019. Camorra e showbiz. Massimo Giletti se n’è occupato ieri sera su La7, approfondendo gli aspetti più controversi del matrimonio tra il cantante neomelodico Tony Colombo e Tina Rispoli, vedova del boss Gaetano Marino, ucciso per una faida. Nell’occasione, il conduttore ha criticato quelle trasmissioni che hanno raccontato le nozze solo come un evento folkloristico, rischiando così di lanciare messaggi pericolosi: implicito, ma piuttosto intuibile, il riferimento a Barbara D’Urso, che proprio la settimana scorsa aveva ospitato i due sposi in prima serata su Canale5. Appoggiandosi ai contenuti del reportage di Fanpage.it intitolato Camorra Entertainment, Giletti ha evidenziato una verità ben diversa da quella raccontata sinora dai due coniugi. Secondo l’inchiesta giornalistica, Tony Colombo avrebbe conosciuto il boss Marino, che gli avrebbe prestato 8 mila euro. Da lì, il cantante sarebbe diventato una sorta di menestrello di famiglia. Su La7 sono stati approfonditi anche i risvolti mediatici del matrimonio tra Tina e Tony e, al riguardo, Giletti ha attaccato: “Attenzione, bisogna essere molto cauti quando si fanno determinate cose. Un passaggio televisivo di un certo tipo accredita e non non possiamo accreditare queste situazioni“.

Più avanti, il conduttore ha tuonato nuovamente: “Come mai siamo sempre e solo noi a raccontare chi erano i Marino? Io mi piglio le critiche, gli attacchi personali, però sinceramente è curioso che su questa vicenda tutti giochino alla principessa e alla coroncina, però alla fine la verità è ben altra (…) Non è possibile che siamo dei servi passivi o furbi. La nostra responsabilità è enorme, soprattutto quando parliamo a un pubblico che non ha la capacità di sapere di chi si sta parlando. Non tutti sanno chi è Tony Colombo o chi è Tina Rispoli. Ma a che gioco gioca questa televisione?“. Implicita, ma piuttosto evidente, l’allusione al racconto offerto da Barbara D’Urso, che aveva accolto Tina e Tony nel suo studio come principali ospiti. Va precisato che, la settimana scorsa, la conduttrice Mediaset aveva chiesto conto a Colombo delle gravi informazioni portate alla luce da Fanpage.it e che questi si era difeso negando una sua vicinanza alla Camorra. I risvolti dell’inchiesta giornalistica, tuttavia, non erano stati approfonditi nello specifico, come effettuato meritoriamente La7. Non è la prima volta che Giletti bacchetta (in)direttamente la collega di Canale5. Nella puntata del 20 ottobre scorso, il conduttore si era lamentato per lo sfruttamento del caso Prati da parte di alcuni programmi sotto testata. Peccato che egli stesso fosse tornato ad occuparsi della vicenda proprio in un momento in cui non se ne avvertiva la necessità. Allo stesso modo, in questo caso, apprezziamo la scelta del conduttore di approfondire gli aspetti più controversi del matrimonio Colombo, puntando così sull’informazione e non sull’intrattenimento. Giletti ha fatto il suo dovere e gliene diamo atto. Troviamo però fuori luogo il suo vizio di dispensare, ormai a cadenza settimanale, lezioni e patenti sulle corrette modalità di fare tv.

·         Paese che vai, Napoli che trovi.

Paese che vai, Napoli che trovi. Pubblicato martedì, 26 marzo 2019 da Corriere.it. VIVO E LAVORO A NAPOLI. E, come milioni di altre persone, conosco il leggendario aforisma di Johann Wolfgang Goethe dedicato al capoluogo partenopeo: « Vedi Napoli e poi muori ». Figuriamoci viverci! Non avendo alcun personale interesse a morire, meglio essere cauti ed escogitare un modo per allontanare lo spettro dell’ora fatale. L’aforisma recita Vedi Napoli e poi muori ma non specifica di quale Napoli si tratti. Ho cercato su ogni atlante, su ogni mappa, consultato testi di geografi, esploratori e viaggiatori e ho scoperto che al mondo esistono decine di città con questo nome. Ho oggi maggiori speranze per sfatare Goethe. Nell’estate del 2017, le pagine del Corriere del Mezzogiorno - il dorso del Corriere della Sera - hanno ospitato un mio reportage strutturato come un ideale giro del mondo in trenta tappe, tutte rigorosamente napoletane. Accanto ai luoghi di quel viaggio vengono oggi rivelate in questo mio libro anche altre dieci città che condividono con Napoli il loro nome di battesimo. Il Giro del Mondo in 40 Napoli vuole accompagnare il lettore in un viaggio attraverso i continenti, che si apre con la Napoli dello Stato di New York e che, inevitabilmente, si conclude con la più celebre delle Napoli del mondo. Unità di misura dell’intero percorso, il capoluogo partenopeo condivide la sua sorte con trentanove cugine attraversate nelle pagine di questo libroviaggio. Probabilmente l’idea ha iniziato a far capolino nella mia testa una ventina di anni fa, guardando il film Stigmate con Patricia Arquette e Gabriel Byrne: la protagonista, una parrucchiera, dichiarava di essere di Naples, in Florida. Poco tempo dopo mi ritrovai ad Oristano con il regista documentarista Antonello Carboni: dopo un incontro al Teatro Garau, in auto rievocavamo le scene di uno dei nostri film preferiti, Oltre il Giardino di Hal Ashby, e raggiungemmo un’area archeologica. Antonello mi mostrò i resti dell’antica Neapolis, nei pressi dell’attuale Guspini.

QUALCHE ANNO PIÙ TARDI la scena si ripeté a Polignano a Mare: ero con il mio fraterno amico Nico Lioce e fui incuriosito dalla storia dell’incantevole cittadina pugliese, il cui antico nome era Neapolis. Dopo pochi mesi, passeggiando nelle vie di Atene scoprii che un antico borgo nei pressi della capitale greca - oggi inglobato nella metropoli - si chiamava Neapolis. Ma è solo in tempi recenti che il libro ha assunto una sua fisionomia. Ero in viaggio con mio padre nella Provincia di Mendoza, nei pressi della cittadina argentina di San Rafael: i nostri cugini Emanuel, Juan Bauptista e Jesica ci portarono a visitare un ‘fortin’, i resti di un forte ottocentesco circondato, però, dal nulla. In mezzo a questo nulla era nascosta, in un angolino, una piccola cappella votiva dedicata alla Madonna del Santo Rosario di Pompei. La presenza di questa traccia di fede degli emigranti campani mi fece sorridere ma subito generò una domanda inevitabile: «Fin dove si è spinta l’emigrazione napoletana?». Riemersero, in un sol colpo, le immagini delle Neapolis mediterranee da me intercettate nel corso degli anni. E un episodio della storia, stavolta nordamericana, tornava alla memoria: all’indomani della nascita degli Stati Uniti d’America, i primi Presidenti degli USA chie sero a consulenti, architetti, urbanisti e imprenditori di dare ai diversi luoghi del «Paese più grande e importante del mondo» i nomi delle più belle città presenti sulla Terra. Dall’Ottocento in poi fu quindi un trionfo di Paris, Florence, Athens, Venice, London: naturalmente non sfuggì alla regola Napoli, città che grazie alla sua potenza iconografica e alle sue canzoni esercitava un fascino straordinario sui pionieri dell’urbanizzazione americana. 

HO, QUINDI, CAPITO che Napoli è una e multipla: non solo sfogliatelle e mandolini ma anche rodeo texano, ouzo ateniese, carnevale brasiliano, malvasia grecoveneziana, testimonianze dei nativi americani, prelibatezze siciliane e pugliesi, villaggi africani e smart city cipriote. Tutto si nasconde e si svela nel nome di Napoli, ad ogni latitudine. D’altronde, sia il grande Marcello Mastroianni sia il filosofo Gennaro Bellavista - alias Luciano De Crescenzo - l’avevano anticipato in due dichiarazioni quasi contemporanee. «Io amerei vivere su un pianeta tutto napoletano, perché so che ci starei bene, Napoli va presa come una città unica», affermava Mastroianni, mentre De Crescenzo sentenziò: «Io certe volte penso che anche se Napoli, quella che dico io, non esiste come città, esiste sicuramente come concetto, come aggettivo. E allora penso che Napoli è la città più Napoli che conosco e che dovunque sono andato nel mondo ho visto che c’era bisogno di un poco di Napoli». Naples, Neapolis, Nabeul, Napoli, Nauplia, Neopolis o Neapoli sono i nomi delle quaranta Napoli scelte per questo itinerario e probabilmente nel mondo si nasconderanno altri luoghi con lo stesso nome. La tappa più complessa e pericolosa del viaggio è forse proprio l’ultima, quella che - per sorte della Storia - ha avuto maggiore celebrità: quando tocca scrivere di Napoli, affrontare il caso-Partenope e aprire finalmente il dossier della città “dei mille colori”, sembra sempre di giocare con il fuoco. E vengono in mente le parole di Totò, tra i santi protettori laici della città. Nella sua poesia Zuoccole, tamorre e femmene, il Principe de Curtis poneva una questione che attraversa la storia della recente letteratura su Napoli: « Tutte hanno scritto ‘e Napule canzone appassiunate / tutte ‘e bellezze ‘e Napule sò state decantate / da Bovio a Tagliaferri, Di Giacomo a Valente / in prosa, vierze e musica: ma chi po ddi cchiù niente? ». De Curtis evidentemente sentiva sulle sue spalle l’immenso contributo che l’arte, la letteratura e la musica avevano offerto nel proporre Napoli al mondo intero.

E GIÀ ALLORA NAPOLI significava molte cose: un ruolo centrale nell’Europa mediterranea, un’urgenza di autorappresentarsi forse unica al mondo, un patrimonio di canzoni e melodie impareggiabili, un’oleografia persistente. Eduardo, Viviani, Masaniello, Sophia Loren, il presepe, il Golfo e il Vesuvio, le sfogliatelle e i babà, i mandolini e i vicoli, il caffè e la gloria borbonica, la stratificazione culturale e la sciatteria, le chiese e la superstizione. Provando a dare una risposta all’interrogativo di Totò, certamente va riconosciuto che la città non si è mai accontentata di stare ferma a guardare. Napoli è un piano inclinato e tutto viene necessariamente risucchiato in questa città, un po’ lazzara e un po’ felice. Che da oggi è in compagnia di altre trentanove omonime. Sento il dovere di segnalare una piccola assenza, la cittadina calabrese di Borgo Partenope. È vero, non è una Napoli ma mi scuso ugualmente con gli abitanti della provincia cosentina. Ho bisogno di accumulare tappe per un eventuale secondo volume: Goethe incombe.

·         «Lazzaretto Poggioreale: quando il carcere diventa un inferno».

E QUESTA SAREBBE UNA FUGA? Da Il Messaggero il 27 agosto 2019. È durata meno di due giorni la clamorosa evasione dal carcere napoletano di Poggioreale del detenuto polacco Robert Lisowki, in carcere con l'accusa di omicidio. Gli uomini della squadra mobile della questura partenopea lo hanno catturato questa sera in strada a corso Garibaldi, angolo via Giuseppe Porzio, non lontanissimo dalla casa circondariale dalla quale ieri mattina l'uomo era fuggito calandosi con una fune realizzata con lenzuola annodate. Gli investigatori ritenevano che l'uomo, anziché provare a uscire dalla città superando controlli e posti di blocco, avesse cercato di rimanere in zona, contando sull'appoggio di amici: le ricerche concentrate nell'area della stazione ferroviaria centrale hanno portato all'arresto. Un'evasione nelle più classiche modalità dei film di una volta, e infatti bisogna andare indietro di decenni per scovare un precedente analogo. Modalità di fuga che hanno acceso inevitabili polemiche, nel penitenziario dalle cifre record di sovraffollamento. Il cappellano del carcere, don Franco Esposito, sui social ha scritto: «È scappato un detenuto da Poggioreale; embé? Perché stupirsi davanti a una evasione dal carcere? È la cosa più naturale che possa accadere, quello che è innaturale è tenere rinchiuse delle persone in una situazione disumana e degradante. Non sto assolutamente giustificando l'evasione di un criminale ma vorrei spostare l'attenzione sul fatto che carceri come quello di Poggioreale non hanno certamente i requisiti per essere rieducativi e non servono certo al reinserimento della persona detenuta nel tessuto sociale». Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria Spp, che oggi ha tenuto una conferenza stampa dinanzi al penitenziario napoletano, ha chiesto di nuovo «provocatoriamente» che l'istituto di pena di Napoli «venga abbattuto». Dal canto suo, il Provveditorato regionale per la Campania «sta per disporre degli accertamenti amministrativi interni, di routine in casi come questi», e ricorda di aver «già dislocato detenuti di Poggioreale in altri istituti penitenziari», avviando importanti lavori di ristrutturazione della casa circondariale: «Nel corso di questi mesi sono stati circa 300 i detenuti trasferiti in altri istituti, tanto che ad oggi si contano 2076 presenti». Lisowski è a giudizio da giugno scorso (con il rito abbreviato) con l'accusa di aver ucciso a Napoli un giovane ucraino di 36 anni, laureato in Storia, da anni in città e che per vivere faceva il manovale. L'ucraino fu colpito perché intervenne in una lite a difesa di un ragazzo italiano.

Da La Stampa il 25 agosto 2019. Fuga da Poggioreale. Da oltre cento anni non accadeva che un detenuto riuscisse a evadere dal carcere di Napoli. A riuscirci è stato Robert Lisowski, cittadino polacco 32enne, arrestato dalla Squadra Mobile del capoluogo campano il 5 dicembre 2018 per omicidio. Sono in corso ricerche a tappeto da parte di tutte le forze di polizia. È alto circa 1,80, di corporatura magra, carnagione chiara, capelli radi castano chiaro; al momento della fuga aveva la barba e un'andatura claudicante. Chiunque lo vedesse, dice la Questura, è pregato di contattare subito i numeri di emergenza e soccorso pubblico: Lisowski è considerato un personaggio pericoloso. L’uomo si è calato al di là del muro di cinta del carcere di Poggioreale utilizzando una lunga fune. Lisowski sarebbe riuscito a superare il muro perimetrale del carcere dal lato di via Francesco Lauria, quello cioè che affaccia sul Centro direzionale. «Era nell'aria un episodio così grave che segna la fine di una roccaforte dei penitenziari italiani come il “Salvia”, dal quale in oltre 100 anni di storia mai nessun detenuto è riuscito a evadere», fa sapere il sindacato Osapp ricordando che qualche anno fa un tentativo analogo di evasione dal carcere di Poggioreale, scavalcando cioè il muro di cinta, finì male per il detenuto che riportò gravi lesioni fisiche in seguito alla caduta. Il segretario provinciale di Osapp Napoli, Luigi Castaldo, denuncia «la mancanza di personale per oltre 200 unità a discapito della sicurezza di tutti e un sovraffollamento detenuti per oltre 800 ristretti oltre la capacità regolamentare consentita. Dati denunciati e segnalati ovunque, ma un'Amministrazione sorda e una politica assente non hanno dato risposte concrete e tangibili. Non si può più lavorare in queste condizioni». «Dieci unità in servizio in tutta la struttura per duecento detenuti che vanno a messa, forse, sono pochi», dichiara Leo Beneduci, segretario generale dell'Osapp. «Tra l'altro era stato chiesto al direttore che nel periodo estivo in cui il personale, o perché distaccato in altre sedi o perché ha le ferie, venissero sospese le attività trattamentali - aggiunge -. Ma non se ne è parlato proprio, perché per l'attuale amministrazione penitenziaria è maggiormente importante il trattamento dei detenuti e che stiano bene rispetto alla sicurezza». Il segretario generale dell'Osapp aggiunge: «Purtroppo le carceri italiane non garantiscono sicurezza perché ci sono aggressioni, risse ed evasioni che mettono a rischio i cittadini, non solo perché i criminali sono in giro ma anche perché per ricercarli bisogna allertare decine e decine di forze di polizia sul territorio. È un carcere che non rende nessun risultato ai cittadini. Anche l'attuale politica del governo uscente e del ministro Bonafede non ha portato risultati. Aspettiamo altre soluzioni, che al momento non vediamo, conclude Beneduci.

La denuncia del cappellano: «Poggioreale non ha i requisiti per rieducare». L’accusa del cappellano don Franco Esposito. Una settimana prima dell’evasione di domenica del 32enne polacco Robert Lisowski il report del garante nazionale aveva indicato le criticità dell’istituto napoletano. Damiano Aliprandi il 27 Agosto 2019 su Il Dubbio. «I o mi meraviglio non per uno che scappa ma per l’ottanta per cento che dopo aver finito la pena in carcere ritorna a commettere reati e quindi vi rientra. Il carcere ha fallito, il carcere non risponde alla giusta domanda di sicurezza che i cittadini vogliono dalle istituzioni», così ha scritto ieri su Facebook don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale dal quale domenica scorsa è evaso il 32enne polacco Robert Lisowski attraverso una lunga fune. Don Franco non giustifica l’evasione, ma ha voluto spostare l’attenzione sul fatto che carceri come quello di Poggioreale non hanno i requisiti per essere rieducativi e non servono certo al reinserimento della persona detenuta nel tessuto sociale. «Allora mi domando – ha proseguito il cappellano – se il carcere non è questo, qual è il suo compito a cosa serve? Eppure il compito che la Costituzione dà a questa istituzione è quello di far sì che attraverso la pena il detenuto raggiunga una sua maturità sociale prendendo coscienza del male compiuto e iniziando una vita legale nel rispetto delle regole. Quindi se un carcere non riesce a fare quello che la Costituzione gli affida diventa una struttura anticostituzionale e quindi fuorilegge». Sulla caccia a Robert Lisowski all’uomo sono impegnate tutte le forze di polizia. Il caso vuole che le criticità del carcere di Poggioreale sono emerse esattamente una settimana fa attraverso la pubblicazione del report a cura dell’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà. Una situazione impietosa quella del carcere napoletano. Dalle osservazioni poste dal Garante, emerge che si tratta di un edificio vecchio che presenta condizioni materiali che non soddisfano quello che richiede l’ordinamento penitenziario. Le stanze di pernottamento delle persone detenute sono estremamente disomogenee. Si va dai cosiddetti “cubicoli” con i servizi igienici a vista, ai cameroni da 14 persone. Particolarmente degradate alcune sezioni, come quella per persone malate o disabili, con letti a castello anche a tre piani. Condizioni che possono essere considerate in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la tutela delle libertà fondamentale e dei diritti umani che inderogabilmente vieta “trattamenti o pene inumane o degradanti”, secondo l’interpretazione che di tale precetto è data dalla Corte di Strasburgo. A tutto questo si aggiungono casi che potrebbero profilare il rischio maltrattamento. Dopo la pubblicazione, la direttrice del carcere ha reagito dicendo che l’autorità del Garante è stata ingenerosa. E lo ha fatto attraverso la pubblicazione della sua lettera nel giornale on line del ministero della Giustizia. «Ci tengo a ribadire – fa sapere il garante nazionale Mauro Palma – che non è una questione di essere generosi o non generosi, a volte è un po’ come quando si cura una malattia, è importante avere un quadro della situazione nella sua complessità e non accontentarsi di qualche anestetico e di piccoli miglioramenti. Noi le indicazioni le abbiamo riportate nel rapporto e, se si dovesse fare un tavolo di discussione, io ripartirò da quelle raccomandazioni». Sull’evasione, anche il garante della regione Campania Samuele Ciambriello ha detto: «Tre anni fa il ministero delle Infrastrutture ha destinato alla Campania 15 milioni per ristrutturare 5 padiglioni obsoleti del carcere di Poggioreale. In 3 anni sono state fatte solo due visite per verificare lo stato dell’arte dei padiglioni e i lavori non sono mai iniziati. È uno scandalo, una cosa indegna». A Poggioreale, ha ricordato Ciambriello, «l’anno scorso ci sono stati 4 suicidi, nelle carceri della Campania si sono registrati 77 tentativi di suicidio. Se non c’è stata una strage – ha concluso – dobbiamo ringraziare gli agenti della polizia penitenziaria».

Poggioreale tra cameroni “cubicoli” e maltrattamenti. La relazione del garante dopo la visita” non annunciata” di maggio. Damiano Aliprandi, 22 Agosto 2019 su Il Dubbio. Un edificio vecchio che presenta condizioni materiali che non soddisfano quello che richiede l’ordinamento penitenziario. Le stanze di pernottamento delle persone detenute sono estremamente disomogenee. Si va dai cosiddetti “cubicoli” con i servizi igienici a vista, ai cameroni da 14 persone. Particolarmente degradate alcune sezioni, come quella per persone malate o disabili, con letti a castello anche a tre piani. Condizioni che possono essere facilmente considerate in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la tutela delle libertà fondamentale e dei diritti umani che inderogabilmente vieta “trattamenti o pene inumane o degradanti”, secondo l’interpretazione che di tale precetto è data dall’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo. A tutto questo si aggiungono casi che potrebbero profilare il rischio maltrattamento. Parliamo del cosiddetto “mostro di cemento” del carcere di Poggioreale, a Napoli. Ad esporre tutte queste osservazioni è il Garante nazionale delle persone private della libertà che ha svolto la visita non annunciata in carcere suddivisa in due tappe. La prima, durata quattro giorni ( dal 2 al 4 maggio 2019), è stata condotta da una delegazione composta dall’intero Collegio del Garante – Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi – due componenti dell’Ufficio – Giovanni Suriano e Raffaele De Filippo – e da un’esperta del Garante nazionale – Silvia Talini.

La seconda tappa è consistita invece in una visita ad hoc all’Istituto di Santa Maria Capua Vetere per verificare le condizioni di un detenuto che potrebbe essere stato vittima di maltrattamento e trasferito dalla Casa circondariale di Poggioreale il 2 maggio, in coincidenza con l’arrivo della delegazione del Garante. Nella relazione, l’autorità del Garante premette che il primo aspetto che colpisce è la tipologia degli stessi detenuti. Infatti, pur trattandosi di una Casa circondariale, destinata quindi alle persone in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai cinque anni ( o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni), sono oltre 1.000 le persone detenute con una sentenza definitiva o mista su una popolazione totale di 2.370 persone. Il Garante sottolinea che tale fattore è un elemento destabilizzante, soprattutto quando ha più volte avuto sentore di pressioni che soggetti in esecuzione di pena esercitano su soggetti più deboli, spesso con frequenti ingressi e successive uscite, secondo una modalità tipica di una criminalità di strada caratterizzata da intrinseca reiterazione dei reati. «Spesso – si legge nella relazione tali condotte criminali ad alta recidiva discendono da soggettivi stili di vita, condizioni sociali degradate, povertà culturale, ricorso a forme di manovalanza microcriminale connessa a taluni territori». Alcuni reparti hanno ancora i ballatoi, come il reparto “Roma”, altri hanno grandi cameroni, pochissimi spazi comuni per le attività. Il Garante denuncia che «i reparti comunicano – quasi nella loro totalità – il senso di abbandono di uno Stato che sembra non investire realmente nella possibilità di realizzare quanto affermato nella sua Carta e nelle sue leggi». Infine, sul rischio di maltrattamento, il Garante nazionale ha riscontrato alcuni episodi che sono stati oggetto di approfondimento. In particolare, il caso di una persona che, a seguito di crisi di natura psichica, è stata sottoposta a sorveglianza a vista e trasferita il giorno della visita del Garante in un altro Istituto per generici motivi «disciplinari», senza consentire al Garante stesso di incontrarla. Per tale motivo, una parte della delegazione si è recata all’istituto dove tale persona si trovava e ha constatato direttamente i visibili segni di lesioni che aveva su varie parti del corpo. Tale situazione, sulla quale il Garante ha fatto una serie di approfondimenti, è stata oggetto di un esposto alla Procura della Repubblica di Napoli.

«Lazzaretto Poggioreale: quando il carcere diventa un inferno». Nel carcere napoletano di Poggioreale sono recluse circa 2.400 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 1659 posti, scrive Damiano Aliprandi il 28 Febbraio 2019 su Il Dubbio. «Un moderno lazzaretto», così viene definito il carcere di Poggioreale dalla parlamentare europea del gruppo Gue/ Ngl Eleonora Forenza dopo aver visitato l’istituto penitenziario napoletano. La visita è scaturita dopo le tante segnalazioni del movimento “Ex detenuti Organizzati” guidato da Pietro Ioia, dopo gli ultimi tragici eventi come la morte di Claudio Volpe (deceduto il 10 febbraio in circostanze ancora da chiarire, sulle quali sta indagando la procura di Napoli) e dopo le mobilitazioni dei detenuti del padiglione “Firenze”. Emerge un sovraffollamento grave, causato soprattutto da un ricorso massiccio alla custodia cautelare e alla diminuzione delle misure deflattive e alternative. Gravi le criticità per l’assistenza sanitaria, con detenuti psichiatrici che hanno come disponibilità, a detta della europarlamentare, una quantità spropositata e pericolosa di psicofarmaci. Eleonora Forenza ha visitato il carcere domenica scorsa. «Ero assieme a Sandra Berardi – si legge nel suo comunicato -, presidente dell’associazione per i diritti dei detenuti Yairaiha Onlus, che da lungo tempo collabora con me nel percorso di visite delle strutture penitenziarie e denunce delle gravi carenze del sistema carcerario italiano». La europarlamentare spiega che dalla visita, sebbene parziale, hanno «riscontrato condizioni strutturali assolutamente inadeguate, soprattutto sotto il profilo igienico- sanitario. Ad esempio, ad eccezione del padiglione “Genova”, che è stato oggetto di recente ristrutturazione e adeguamento funzionale, con i servizi sanitari separati tra loro e dalla zona letto, nelle celle e cameroni degli altri padiglioni (che arrivano a contenere fino a 10 persone) le cucine sono ricavate in uno spazio angusto, che in origine avrebbe dovuto rappresentare l’antibagno». Snocciola i dati sottolineando che attualmente a Poggioreale sono recluse circa 2.400 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 1659, prevalentemente in media sicurezza, di questi 180 detenuti in Alta Sicurezza 3 (padiglione “Avellino”). Situazione davvero critica nel padiglione Firenze. «Sono collocati – si legge sempre nel comunicato – i detenuti al primo reato e quelli che non sono entrati in carcere nei 10 anni precedenti al nuovo reato. I cameroni vanno da 4 a 10 posti letto, prevalentemente disposti su letti a castello, sovente fino a tre “piani”». Forenza denuncia che questa situazione, a loro parere, non rispetta i parametri minimi di 3 mq a detenuto, stabiliti dalla sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. «Nel caso di Poggioreale – sottolinea – dovrebbe essere preso in considerazione un altro parametro vitale, ovvero la cubatura dei vani detentivi, che in questo caso non appare sempre rispettato. I letti a castello a tre piani, per forza di cose, sono poggiati alla parete dove sono posizionate le finestre impedendone l’apertura e, di conseguenza, è impedita una corretta areazione, fondamentale in presenza di 8- 10 persone in uno spazio che varia dai 18 ai 25 mq. Il corredo e il mobilio fornito appare visibilmente deteriorato, le pareti e i soffitti sono pieni di infiltrazioni e muffe». La europarlamentare fa sapere che nelle scorse settimane i detenuti hanno portato avanti una battitura ad oltranza per denunciare la mancanza di acqua calda, le gravi carenze e ritardi sanitari, il caro vitto e il sovraffollamento ormai cronico. «Dalle testimonianze raccolte – spiega -, e dall’organizzazione dei cameroni riscontrata, emerge che la possibilità di usare l’acqua calda è assai limitata. In alternativa, i detenuti riscaldano l’acqua con fornellini da campeggio». Prosegue denunciando che «l’eccessiva promiscuità di soggetti con le più disparate patologie e disabilità, in assenza di condizioni igienico- sanitarie ottimali, fanno di Poggioreale un moderno lazzaretto». Forenza fa anche un discorso generale sul sovraffollamento cronico che riguarda le carceri italiane e indica che al 31 gennaio scorso si contano oltre 60.000 persone detenute in Italia. «Tale condizione – spiega la eurodeputata – è peggiorata anche per la mancata implementazione delle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) al posto degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e dalle ultime leggi sulla “sicurezza” che hanno portato in carcere migliaia di persone per piccoli reati. A questi – aggiunge – si affiancano le centinaia di persone che si ritrovano a scontare con la detenzione residui di pena o pene minime (al di sotto dei tre anni ma anche meno) a distanza di molti anni dalla commissione del reato, rendendo difficile immaginare un rischio di reiterazione del reato o di fuga». Poi annota che, come spesso succede, hanno «incontrato numerose persone con patologie psichiatriche e disabili. Queste categorie non sembrano ricevere l’assistenza adeguata e spesso sono affidati alle cure del “piantone”, che assiste senza sosta anche più di un disabile o anziano per 3/ 400 euro al mese. Il piantone, o “assistente alla persona”, viene letteralmente sfruttato per sopperire alle carenze croniche e strutturali del sistema carcerario». Ai detenuti con problemi psichiatrici, anche gravi e pertanto incapaci e/ o a ridotta capacità di intendere e di volere, o con personalità tendente all’autolesionismo, denuncia che «le diverse terapie a dosaggio vengono consegnate in una unica soluzione, lasciando quindi nelle disponibilità del malato psichiatrico una quantità spropositata e pericolosa di farmaci». Forenza tralascia in questa sede «di elencare la criticità dei ritardi nell’erogazione delle prestazioni mediche specialistiche, del ruolo della magistratura di sorveglianza o dell’area educativa», perché ormai le ritiene «problemi strutturali del sistema penitenziario, riscontrati in praticamente tutte le strutture visitate sinora». Per il carcere di Poggioreale chiede pubblicamente, e chiederà ufficialmente, «che intervenga immediatamente il Garante Nazionale e il Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, con una ispezione approfondita».

·         Gigi D'Alessio e la Camorra.

Gigi D'Alessio, a La Confessione racconta: "Alla camorra ho regalato un sacco di canzoni", scrive il 22 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Gigi D’Alessio ha inaugurato la nuova stagione del famoso talk show di canale 9 La Confessione. Il conduttore Peter Gomez ha avuto modo di porre al primo ospite del programma alcune domande circa il fenomeno della camorra, con il quale anche i cantanti devono avere a che fare perché parte di un "rito di passaggio". Come riporta Dagospia, il cantante neomelodico ha spiegato, infatti, che Napoli è una città "a parte" in cui per viverci bisogna prestarsi a uno strano circuito. Gomez è andato subito al dunque, chiedendo a D’Alessio: "A Napoli secondo lei bisogna convivere con la camorra?", e lui ha spiegato che "A Napoli bisogna convivere con tutto, è una città a parte. Se vai in ospedale a fare le analisi devi dire: Io sono il cugino di quello, il parente di quell'altro per passare la fila”. A tal proposito, il direttore de Ilfattoquotidiano.it ha ricordato all’interprete l’episodio in cui ha ricevuto un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Gigi è poi stato prosciolto dall’accusa ma ho voluto comunque soffermarsi sulla questione: "Sono andato a cantare ai matrimoni di tutti e nemmeno sapevo dove andavo a cantare perché a Napoli vai a cantare dappertutto. Non è che se ti chiama qualcuno gli chiedi: 'Chi sei? Dammi il certificato penale'". Dunque il cantare ai matrimoni o "l’aver regalato un sacco di canzoni alla camorra", tanto per usare un’espressione di D’Alessio, riguarda non solo gli interpreti neomelodici più in voga al momento ma anche i cantanti più famosi. Infatti, molto sinceramente, Gigi ha ammesso di essere andato per paura di ricevere ritorsioni se non avesse presenziato: "Magari non vai a cantare e che ne sai?".

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 2 febbraio 2019. Ora non sono più solo i politici di destra e sovranisti, come Salvini, che lo attaccano per le sue uscite buoniste sull' immigrazione. E non sono più solo cittadini di altre aree d' Italia seccati per l'immagine negativa del Belpaese che i suoi libri continuano a dare nel mondo. Ora sono gli stessi abitanti di Napoli, i suoi artisti, i suoi comici e musicisti, e i suoi esponenti istituzionali a non poterne più delle prediche di Saviano, a non considerarlo più rappresentativo della città, e tanto meno un profeta in patria. Allora non sorprende che, dopo la vittoria dell'Orso d' oro al Festival di Berlino ottenuta dal film "La paranza dei bambini", tratto dall' omonimo libro di Saviano incentrato sulla criminalità dei ragazzini a Napoli, pochi complimenti e frasi di sostegno siano arrivati allo scrittore, mentre si sia levato, in particolare dai suoi concittadini, un coro di critiche e voci di disappunto. All' autore di Gomorra vengono contestate fondamentalmente tre cose, ossia il fornire una lettura della città parziale, opportunistica e da una posizione di comodo. Il primo a schierarsi contro l'immagine di Napoli fornita da Saviano è stato il sindaco Luigi De Magistris il quale, pur dicendosi «molto contento del trionfo a Berlino del suo film», ha dichiarato di essere «molto meno entusiasta dell'incapacità di Saviano di raccontare la città nel suo corpo, nella sua anima». De Magistris rimprovera a Saviano di «non essersi reso conto di cosa sta accadendo in questi anni a Napoli, dove è prevalente la rinascita culturale» e dove «ci sono insegnanti, poliziotti, carabinieri, magistrati, cittadini che lottano, che si sporcano le mani, che "jettan 'o sang" ("buttano il sangue") per una Napoli diversa». E poi, nota il sindaco, «noi non nascondiamo la camorra, la criminalità» ma «a differenza di Saviano che le racconta solo in testi e film, andiamo a incontrare i feriti, i commercianti e le persone danneggiate». Senza considerare, secondo il sindaco, «l'effetto emulativo che simili film possono avere dal punto di vista pedagogico». Lo schiaffone del primo cittadino ha solo preceduto la levata di scudi da parte di alcuni artisti partenopei, a conferma che non c' è alcun pregiudizio politico o ideologico nei confronti dello scrittore, ma un'insofferenza diffusa e trasversale. Ha cominciato il batterista Marco Zurzolo che, in un post su Facebook, dopo aver definito il successo de "La paranza dei bambini" «una nuova vittoria per la Città di Napoli», si è scagliato contro l'autore di Gomorra: «Non se ne può più», ha scritto, «dei libri di Saviano su una denuncia che beneficia solo il suo business». E ha continuato a provocarlo, suggerendogli sarcasticamente di scrivere un nuovo libro intitolato «"I Neonati della Sanità", bambini che invece di succhiare latte succhiano il sangue dei cittadini onesti». Sarebbe coerente, visto che i bimbi descritti da Saviano paiono tutti criminali Il colpo del ko arriva infine dal comico napoletano Biagio Izzo che, ai microfoni di Radio2, prima se la prende con la serie tv Gomorra, dicendo di non averla «mai fatta vedere ai miei figli» perché «offre un' immagine di Napoli che non mi piace, un' immagine forzata, esasperata» in cui abbondano «frasi veramente toste, brutte, volgari»; e poi attacca frontalmente lo scrittore, sottolineando come sia «facile andare via e prendere le distanze, lasciare la città in balia di questa gente» (Saviano da tempo vive lontano dal capoluogo campano, ndr), mentre il vero «modo per aiutare la tua città è stare qua, continuare ad abitare a Napoli». Come dire: non hai diritto a raccontare la città e tanto meno a denigrarla, se non ci vivi, se non la soffri o non la ami quotidianamente. Troppo facile parlare da fuori. Al di là dell'insofferenza contro lo scrittore, la sollecitazione che viene da queste riflessioni è smetterla di ridurre Napoli a un cliché, che possa essere quello criminale di Gomorra o quello lirico-nostalgico di Elena Ferrante. Lasciamo quelle immagini alla letteratura e al cinema, ma non facciamole coincidere con la realtà. Ci sono molte più cose a Napoli di quante non possano essere contenute nei libri di Saviano.

·         Perché Napoli detesta De Laurentiis.

Napoli e gli spogliatoi non pronti, la rabbia di Ancelotti segno di scollamento tra la città e la squadra. Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Corriere.it. Impalcature, stracci, pennelli e tinozze colme di pittura: gli spogliatoi dello stadio San Paolo sono un cantiere in piena regola e la prima gara casalinga del Napoli si gioca tra meno di 48 ore. Carlo Ancelotti non ha retto allo sconforto ed è bastato il sopralluogo nel ventre dello stadio per mandarlo su tutte le furie. «Sono indignato – ha sbottato dopo la visita nei locali dove sabato la sua squadra dovrà spogliarsi per la sfida contro la Sampdoria - in due mesi si può costruire una casa, non sono stati in grado di rifare i nostri spogliatoi. Come hanno potuto Comune, Regione e Commissari disattendere gli impegni presi?». Difficile far perdere la pazienza all’allenatore del Napoli, ma lo scenario che gli è apparso davanti agli occhi è bastato a farlo andare su tutte le furie, sino a definire «inadeguati e scorretti» i responsabili del clamoroso ritardo nella consegna degli spogliatoi. Il San Paolo è stato oggetto di una ristrutturazione per le Universiadi che si sono svolte a luglio, il Napoli ha chiesto alla Lega di giocare le prime due partite di campionato fuori casa proprio per consentire non soltanto l’ultimazione dei lavori ma anche per evitare che i giocatori si ritrovassero in ambienti dove l’odore della pittura è ancora molto forte e fossero costretti a spogliarsi tra la polvere. «Non è bastato, evidentemente – ha detto Ancelotti – a questo punto vedo un disprezzo verso la squadra e non un attaccamento da parte della città». Una posizione molto dura che ha colpito nel segno, sino a indurre il commissario regionale a rassicurare società sportiva e allenatore . «Le parole di Ancelotti mi feriscono – ha replicato Gianluca Basile – ma entro domani consegneremo i locali e sarà tutto in ordine». Sarà evidentemente una corsa contro il tempo (da stamattina operai al lavoro per gli ultimi ritocchi) anche perché al club toccherà poi far sistemare gli arredi per rendere quanto più confortevole e funzionale lo spogliatoio alla vigilia dei due partite importanti. Sabato c’è la Samp, ma martedì la prima sfida di Champions contro il Liverpool e lo stadio sarà sotto i riflettori internazionali. Il cantiere sarà sicuramente smobilitato, ma ridursi sul filo dei minuti non è stata una soluzione efficace.

Francesco Persili per Dagospia il 12 settembre 2019. “A Napoli è impossibile lavorare…”. All’Aniene per la presentazione del libro di Enrico Vanzina, Aurelio De Laurentiis parla con Dagospia della questione degli spogliatoi del San Paolo (che saranno consegnati oggi) e spara a palle incatenate: “A Bari dove c’è il sindaco Decaro, che è anche presidente dell’Anci, ci abbiamo messo una settimana per fare la convenzione per lo stadio San Nicola, un impianto eccezionale, migliore del San Paolo. A Napoli sono 15 anni che mi lamento. Al Comune hanno avuto tre mesi per fare gli spogliatoi... Mi avessero chiamato, ci avrei messo 10-15 giorni", ribadisce ai microfoni di Sky. ‘O Presidente rimarca come la vicenda del San Paolo sia l’ulteriore conferma dell’esigenza per i club italiani di dotarsi di stadi di proprietà e riguardo alla frase "sull’invidia verso il Nord" che si respira a Napoli (“Devo comprare il Milan per accontentarli?”) chiarisce: “Quella era solo una battuta. Napoli batterebbe Milano dieci a zero se soltanto lo volesse. Purtroppo i napoletani hanno scelto queste amministrazioni. Ma questo è un problema più generale che riguarda l'Italia. Siamo un Paese dal potenziale enorme distrutto dai politici che non sanno sognare…

Maurizio Nicita per gazzetta.it il 12 settembre 2019. La polemica sugli spogliatoi del San Paolo, partita dopo le dichiarazioni del tecnico del Napoli Carlo Ancelotti, sta creando dibattito anche sui social. Anche il presidente Aurelio De Laurentiis ha detto la sua dai microfoni di Sky: "Non definirei polemiche quelle sugli spogliatoi, bensì lamentele che sto esternando da 15 anni. Pur non potendo sostituirmi al Comune nel fare i lavori, io per 15 anni ho continuato a fare manutenzione di parti dello stadio, tipo i tornelli. Li pagammo noi e me li hanno rimborsati dopo circa 9 anni, senza neanche saldare il conto totale. Adesso c'è un commissario e il problema è quello dei soldi dati dall'UE alla Regione. Al Comune hanno avuto tre mesi per fare degli spogliatoi... Mi avessero chiamato, ci avrei messo 10-15 giorni. E ancora oggi li aiutiamo nei lavori mentre loro ci dicono di farlo di nascosto. Lo Stato si svegli!".

Da corrieredellosport.it il 12 settembre 2019. (…) De Laurentiis ha parlato anche del sogno scudetto per il Napoli: "Non bisogna mai dire che uno vuole vincere lo scudetto perché se no facciamo delle affermazioni che appena vengono disattese sembrano delle promesse ai tifosi che non siamo riusciti a portare in avanti. Noi lottiamo sempre per lo scudetto perché se no non sarebbero ormai quattro volte che arriviamo secondi, uno che arriva secondo lo fa per arrivare primo. Poi, un po' le regole del calcio sono sbagliate, un po' la sfortuna, un po' qualche altra cosa ci hanno limitato in questa nostra scalata". 

PERCHÉ DE LAURENTIIS E’ COSÌ DETESTATO A NAPOLI?  Ilaria Puglia per Ilnapolista il 3 maggio 2019. Marino Niola è un antropologo della contemporaneità, scrittore ed editorialista. È stato tra i fondatori del Te Diegum, la chiesa laica e intellettuale nata per santificare il sinistro di Maradona. Rispondendo a Sacchi, qualche mese fa disse che Sarri era riuscito, a Napoli, nell’impresa più difficile: “allenare il pressing”, cosa a cui al Sud non siamo abituati. Pur avendo amato molto l’ex allenatore, pensa che Ancelotti potrà portare benefici molto più grandi al Napoli. Con lui abbiamo parlato di questo, della gestione De Laurentiis e delle contestazioni dei tifosi e anche della città.

Perché De Laurentiis, a Napoli, è tanto odiato?

«Sicuramente fa di tutto per non essere simpatico. Credo non se lo proponga nemmeno, che il suo core business non sia la simpatia ma l’efficacia imprenditoriale. E, su quel piano, i fatti non possono che dargli ragione. Ha rilevato qualcosa che non era nemmeno più una società, ma una larva, un cadavere, lo ha rianimato e l’ha portato a diventare una delle squadre più importanti d’Italia, con un posto di tutto rispetto in Europa. Da questo punto di vista ha ragione lui, i risultati sono innegabili. Non appartiene alla tipologia di presidenti tifosi a cui siamo abituati, che si rovinano per le squadre. Ragiona da imprenditore, tiene sempre il bilancio al primo posto e l’idea che la squadra, come tutte le aziende, debba essere attiva e funzionare. Comprare giocatori a prezzi bassi e poi rivenderli a prezzi maggiorati, come ha fatto con Cavani o con Higuain, sicuramente è un ottimo score imprenditoriale. Ma i tifosi, che non ragionano solo in termini di bilanci, ma di cuore, passioni ed emozioni, vorrebbero altro: a loro non basta l’azienda in attivo».

Eppure dovrebbero bastare i successi raggiunti e una stagione tutt’altro che fallimentare, no?

«Sì. Ma quando ci si abitua a stare sempre ai primi posti si vorrebbe vincere. Una volta l’idea di un secondo o un terzo posto sembrava un’utopia, adesso ci si è abituati e si vorrebbe sempre di più».

Nel suscitare tutta questa antipatia, c’entra qualcosa il fatto che il presidente non sia napoletano?

«Sì, può contare qualcosa, ma non credo sia solo questo. Del resto non necessariamente uno deve essere profeta in patria: veda il caso di Insigne. Forse un napoletano capirebbe meglio gli umori, saprebbe leggerli meglio. De Laurentiis, invece, più che leggere gli umori li vorrebbe correggere e niente dà fastidio ai napoletani quanto l’essere corretti».

Secondo lei ci sono analogie tra la contestazione a De Laurentiis e quella a Ferlaino, con le bombe sotto casa?

«È una contestazione diversa. Quella a Ferlaino veniva dopo tre stagioni esaltanti. Gli anni di Maradona sono stati una specie di droga, un’esaltazione continua. In quegli anni il Napoli ha vissuto al di sopra delle sue possibilità, mentre ora vive secondo le sue possibilità. Questa viene vista come una cosa negativa, perché vivere al di sopra delle proprie possibilità è comodo, ma poi, improvvisamente, arrivano i conti, come successe con Ferlaino».

Il fatto di meritare di più, di pretendere, è qualcosa di tipicamente napoletano?

«Diciamo che è una cosa abbastanza diffusa nei meridionali, non solo nei napoletani: una sorta di vittimismo, perché si pensa di avere sempre meno di quello che si meriterebbe. In generale, i tifosi sono delle bestie strane: proprio perché li spinge la passione, è più difficile che siano lucidi e sereni. Gli striscioni comparsi in città sono qualcosa di viscerale che ad un certo punto scoppia. Probabilmente c’è un’incompatibilità con un’idea, un modello di società calcistica. Tra un’idea che può apparire come arida e fredda, basata solo sulle cifre e sui bilanci, come quella di De Laurentiis, e un’idea dove invece prevalgono la passione, il cuore e il desiderio straripante di vincere a qualunque costo. Mentre, nel caso di De Laurentiis, la questione del costo si pone sempre».

Un’idea di società calcistica considerata talmente incompatibile che si contesta anche Ancelotti perché visto come un’aziendalista…

«Contestare Ancelotti come successo in questi giorni mi sembra un atteggiamento quasi suicida. È uno dei più grandi tecnici degli ultimi 50 anni. Ha vinto tutto, ha vinto dovunque ed è assurdo che venga contestato da persone che ancora non hanno dato conto di sé. Uno deve prima dimostrare di essere un atleta e una persona completa. Prima di fare questo, secondo me non ha neanche il diritto di parlare. Prendersela con Ancelotti, quindi, mi sembra proprio un tiro in porta completamente sbagliato. Questo allenatore è un punto di forza anche per la costruzione della società, per le idee e le relazioni che può avere. Io ho amato molto Sarri, intendiamoci, ma Sarri era una persona bravissima, con delle buone idee, ma senza relazioni che sono ciò che conta. Forse sarà sfuggito a molti che oggi si arrabbiano, ma gli acquisti migliori il Napoli li ha realizzati quando aveva allenatori che avevano un grande prestigio internazionale. È stato così per Benitez e può essere così per Ancelotti. Una persona, per quanto brava, se isolata, non riuscirà mai ad avere quelle relazioni indispensabili che servono ad entrare in certe reti, a convincere i giocatori più prestigiosi. Si ragiona troppo in termini locali, mentre il calcio, oggi, è un fenomeno globale. Ancelotti è un uomo che sta dentro le reti globali e bisognerebbe tenerselo caro».

C’è da preoccuparsi che le contestazioni allontanino lui e altri come Callejon? La città non ha poi questo grande appeal, a leggere anche l’intervista al direttore del CorMez, Enzo d’Errico, che anche della Napoli turistica dice che è una favola che ci raccontiamo ma che la realtà è più complessa…

«La vedo in maniera un po’ diversa. Sappiamo benissimo come si colloca Napoli in certe classifiche, però che ci sia un’ondata turistica cui non eravamo abituati non c’è dubbio, bisogna essere ciechi per non vederlo. Il problema è come gestire questo turismo, cosa farne e in cosa trasformarlo. C’è anche da dire, però, che il fenomeno è abbastanza iniziale. Ma basta passeggiare al centro per vedere quante case sono state ristrutturate e trasformate in B&B, quante attività nuove ci sono, quanti alberghi. Napoli in pochi anni si è proposta tra le città turistiche e prima non lo era. Non dobbiamo dimenticare che, fino a dieci anni fa, il lungomare di Napoli, la sera, era uno spettacolo di una malinconia quasi tragica, da suicidarsi. Invece adesso, potrà non piacere, però è una serie continua di attività. È comunque meglio quello che c’è adesso. Poi si cercherà di migliorare».

Anche se è uno sviluppo spontaneo e non gestito dall’alto?

«In questo momento la città è molto autogestita, anche sul piano politico si ha l’idea di una città non governata, che si autogoverna. Ciò nonostante, accanto a questi segnali oggettivi, ci sono anche dei segnali positivi. La città si arrangia con le proprie forze, come ha sempre fatto».

Lei è tra i fondatori del Te Diegum. Com’è cambiato il calcio da quando l’avete ideato?

«Moltissimo. È diventato un fenomeno economico-finanziario globale. Al tempo del Te Diegum la vendita dei diritti televisivi non aveva il ruolo che ha adesso, tanto è vero che i migliori calciatori venivano in Italia e in Spagna. Adesso in Spagna continuano ad andarci, ma vanno in Inghilterra o Germania perché quei paesi hanno saputo compiere la trasformazione economico-finanziaria che De Laurentiis vorrebbe compiere qui. Quando parliamo del Bayern, del Barcellona o del Real Madrid (in misura minore, perché ha una storia diversa dal Barcellona) stiamo parlando di grandi aziende. Anche la Juventus lo è. In realtà la Juventus vince perché è un’azienda che è una miniera d’oro per la città. Quando vado a Torino, i tassisti – che in maggior parte sono torinisti – dicono che per loro la Juve è una fortuna per quello che arriva in termini di flusso turistico e vendite. Io credo che De Laurentiis abbia in mente un modello di questo tipo. Che poi lo attui velocemente o meno, questo è un altro discorso. Il modello in sé, però, non è sbagliato».

È un modello che è difficile che attecchisca qui?

«In quel caso la colpa non è di De Laurentiis, ma della città».

Nella contestazione al presidente, quanto conta il fatto che lui abbia rotto i ponti con il mondo del tifo organizzato?

«Per quel poco che ne so, conta. De Laurentiis tenta di governare in una città in cui niente è governato: è un impatto duro. D’altra parte è anche ora che qualche presidente, in Italia, metta un freno e delimiti i poteri e gli spazi degli ultràs, che hanno tutto il diritto di fare quello che fanno allo stadio, ma fuori no. Viviamo in un paese dove molto spesso, la domenica, milioni di cittadini sono in mano a frange di ultràs e questa è una cosa vergognosa. Vergognoso e a volte incomprensibile è persino l’atteggiamento delle forze dell’ordine che li lasciano fare. Anche in questo non c’è che da stare con il presidente».

SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         La Puglia muore, grazie al governo PD.

Ospedali da incubo, lo spreco della Puglia: chiudono reparti appena aperti. Le Iene il 22 ottobre 2019. Dopo l’inchiesta sugli ospedali da incubo di Campania e Calabria, Gaetano Pecoraro ci porta in Puglia dove chiudono intere strutture da poco ristrutturate. “Ci massacri così solo perché siamo dei terroni?”. Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, non ha gradito la nostra visita per vedere lo stato della sanità pugliese. Nei mesi scorsi con l’inchiesta de Le Iene sugli ospedali da incubo abbiamo visto strutture inadatte, pazienti ricoperti di formiche e l’ombra della malavita dietro a queste gestioni in Campania e Calabria. Ora Gaetano Pecoraro ci porta in un reparto di chirurgia di un ospedale della provincia di Bari. “Ci sono apparecchi di anestesia nuovissimi, colonna laparoscopica, letti”, ci dice un medico mostrandoci tutto nuovo. Sembra tutto anche più che pronto per l’uso, ma quel reparto verrà chiuso entro la fine del 2020. È il perfetto esempio di quello che sta succedendo da qualche tempo nella sanità pugliese dove molte strutture sanitarie nuove o appena ristrutturate vengono chiuse o declassate. Tutto questo in nome di una riorganizzazione che sta facendo sprecare fiumi di denaro pubblico. Gaetano Pecoraro ci racconta nel suo servizio gli ospedali della Puglia a rischio chiusura. In un caso infermieri e personale medico ci dicono che in tutto il reparto c’è addirittura un solo paziente. Chiediamo spiegazioni al governatore della regione: “Sperperi non ce ne sono”. Ma poi se la prende con Gaetano Pecoraro: “Non solo abbiamo dovuto chiudere, ma in più ci vieni a massacrare!”.

Puglia, ospedali da incubo e macchinari mai usati: indaga la Corte dei conti. Le Iene l'11 dicembre 2019.Con Gaetano Pecoraro abbiamo fatto un giro “da incubo” all’interno degli ospedali della Provincia di Bari prima ristrutturati e poi riconvertiti in ambulatori, tra macchinari nuovissimi mai utilizzati e “controllori” con precedenti penali. Adesso anche la procura della Corte dei conti ha aperto un fascicolo e la Finanza indaga proprio su quelle strutture di cui vi abbiamo raccontato. I macchinari sono nuovissimi e modernissimi, peccato che siano stati messi in strutture pressoché abbandonate, dove non servono a niente. E su quel possibile spreco ha messo gli occhi a Corte dei conti, la cui procura che indaga per capire se quanto vi abbiamo raccontato configuri un danno erariale. A quanto pare i macchinari sarebbero stati acquistati dalla Regione Puglia e poi “parcheggiati” in strutture ospedaliere da riconvertire in ambulatori, sulla base del piano di riconversione sanitaria in atto nella provincia di Bari. Nulla di nuovo per noi de Le Iene, dalle cui inchieste è partita l’indagine di cui vi parliamo. Proprio noi eravamo stati i primi a raccontarvi quello che accadeva nella sanità pugliese, con l’inchiesta di Gaetano Pecoraro sugli “Ospedali da Incubo”. Vi avevamo raccontato di interi reparti appena ristrutturati e subito chiusi e di coloro che avrebbero dovuto verificare, ma che avevano addirittura precedenti penali e nessun concorso pubblico alle spalle. Una di queste strutture da incubo è il Saccone di Terlizzi, che nonostante una ristrutturazione da 13 milioni di euro chiuderà entro la fine del 2020. “C’è stato un business estremo sull’edilizia ospedaliera”, racconta a Gaetano Pecoraro un medico primario dell’Asl di Bari, che preferisce non mostrarsi in volto. “La politica era di costruire ospedali, poi si vede a che cosa servono”, dice la nostra fonte. In corsia il personale ci parla di reparti aperti per un solo paziente: “Milioni di euro buttati nel cesso”. Sale con la vasca per il parto in acqua, stanze e apparecchiature nuove. Qui lo spreco sono anche i medici che lavorano poco o niente come precisa la nostra fonte: “Perché vengono sottratti dove invece servirebbero”. In questa vicenda c’è anche un’assurdità: tutto questo spreco si poteva evitare. La ristrutturazione di questo ospedale è iniziata quando già si sapeva essere superflua. “Perché è a 10 chilometri da quello di Molfetta, 15 da quello di Corato e a 20 dal San Paolo”. La sorte di queste strutture è presto detta: “Dovranno essere riconvertiti in presidi di assistenza per il territorio”, spiega Mario Conca, consigliere regionale. Per avere idea di quello che diventeranno queste strutture, andiamo a vedere quelle chiuse da qualche tempo. Una di queste è l’ospedale di Rutigliano, dismesso nel 2010 e oggi punto di primo intervento.  Siamo andati a vederlo, ma è tutto deserto. Le porte sono sbarrate, proviamo ai citofoni ma solo una persona ci risponde dicendo di non voler aprire. Sono i passanti a spiegarci che cosa succede: “La guardia medica ci diceva che ha paura. Qua c’è da spaventarsi la notte. C’è gente che si droga”. Andiamo all’ex ospedale di Toritto, sempre in provincia di Bari, ma il copione è sempre lo stesso: c’è anche una piscina per riabilitazione che è dismessa, nonostante sia costata 300mila euro. Come questa ce n’è un’altra ad Alberobello e un’altra ancora a Bari. Invece all’ex Santa Maria degli Angeli di Putignano è stato declassato. Oggi si presenta con stanze vuote e attrezzature abbandonate. La nostra fonte spiega:  “La regione Puglia è sotto amministrazione controllata per eccesso di spese. Le dirigenze delle Asl dovrebbero vigilare, ma chi deve gestire non ha fatto i concorsi. Spesso si vince per colloquio e non per titoli. A volte vince chi non può nemmeno partecipare avendo procedimenti penali in corso”. Uno di questi è il direttore Giorgio Saponaro, che avrebbe fatto pressioni per modificare degli atti pubblici. Come ha fatto a vincere un concorso pubblico? Siamo andati a chiederlo a lui, ma non vuole parlarci. Così andiamo da chi ha firmato la delibera per la sua assunzione: il direttore delle risorse umane dell’Asl di Bari. Anche lui però non è stato assunto tramite concorso. “Sono entrati come 15 septies e poi sono stati stabilizzati”, sostiene la nostra fonte. Una norma che permette di saltare i concorsi in casi di necessità e urgenza, ma poi in Puglia sono diventati stabili. Ma della sua assunzione il direttore dell’Asl non vuole parlarne. Così Gaetano Pecoraro va dal presidente della regione Michele Emiliano per chiedergli di questi sprechi. “Lei se parla così rischia di essere querelato perché di sperperi non ce ne sono”, dice. E a proposito degli ospedali chiusi, nonostante le recenti ristrutturazioni, aggiunge: “Erano cattedrali nel deserto fatte da precedenti amministrazioni. Noi abbiamo dovuto chiudere e in più vieni a massacrarci. Lo fai perché siamo terroni?”. E adesso, dopo l’inchiesta della Guardia di Finanza, cosa dirà il presidente Emiliano?

Sanità, il duello tra il governatore e «Le Iene»: «L’ospedale di Terlizzi? Sarà riconvertito». L’ira del presidente: nessun nosocomio è stato chiuso durante il mio mandato. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Ottobre 2019. Michele Emiliano ha risposto colpo su colpo all’intervista dell’inviato della Iene Gaetano Pecoraro (che ha sottolineato all’interlocutore come «la sanità sia piena di sperperi» e «gli ospedali di Rutigliano e Toritto sono abbandonati»). Ne è venuto fuori un corpo a corpo nel quale il governatore della Puglia ha ribattuto all’assioma di una chiusura dell’Ospedale di Terlizzi. In serata Emiliano ha diffuso una nota per puntualizzare la sua posizione: «La disinformazione si combatte con la verità, rispondendo punto su punto, con pazienza, a ogni affermazione errata. Mi tocca rispondere alle Iene e in particolare a Pecoraro che sta portando avanti una inchiesta sulla sanità. L'ho fatto con una serie di post sulla mia pagina Facebook». «In Puglia - ha dichiarato ancora il governatore - da quando sono diventato presidente nessun ospedale è stato chiuso, gli ospedali sono stati riclassificati in applicazione della legge nazionale (il Dm70). Non ce lo siamo inventato in Puglia questo meccanismo, è lo stesso in tutta Italia». «Pecoraro - ha ribadito Emiliano - dice il falso parlando di “festival dello spreco”, non dice che in Puglia abbiamo risanato i conti e in soli quattro anni abbiamo fatto risalire i livelli essenziali di assistenza, passando dal penultimo posto in Italia alla metà alta della classifica, sbloccando migliaia di assunzioni ferme dal 2001». «Tutto questo - ha proseguito - con meno risorse rispetto al nord: la sanità pugliese, a parità di abitanti, rispetto all’Emilia Romagna ha 15mila dipendenti in meno e un budget annuale a disposizione inferiore di 80milioni di euro». «Ci sono ancora molte cose da fare, lavoriamo senza sosta per questo, tutti voi avete il mio numero di telefono proprio per segnalarmi le cose che non vanno. Ma un conto e segnalare lealmente ciò che va migliorato, un conto è dare informazioni false, che poi diventano la base di strumentalizzazioni politiche. La disinformazione si combatte con la verità», ha concluso Michele Emiliano. Il presidente pugliese ha detto a Pecoraro che lo querelerà, e l’inviato delle Iene ha replicato: «Mi quereli puri». 

Ospedali da incubo in Puglia: il reparto è nuovo ma viene chiuso. Le Iene il 23 ottobre 2019. Gaetano Pecoraro ci mostra i paradossi della sanità in Puglia. Ci sono reparti appena ristrutturati che vengono chiusi e chi dovrebbe controllare ha precedenti penali ma non un concorso pubblico alle spalle. Siamo andati a chiedere spiegazioni al governatore Michele Emiliano, che non l’ha presa benissima. L’inchiesta de Le Iene sugli ospedali da incubo arriva in Puglia. Gaetano Pecoraro ci mostra il paradosso di alcune strutture della provincia di Bari. Una di queste è il Saccone di Terlizzi che nonostante la ristrutturazione da 13 milioni di euro chiuderà entro la fine del 2020. “C’è stato un business estremo sull’edilizia ospedaliera”, sostiene un medico primario dell’Asl di Bari che per sicurezza preferisce non mostrarsi in volto. Qui ci sono ospedali con strutture nuove e apparecchiature ma nessuno li usa. “La politica era di costruire ospedali, poi si vede a che cosa servono”, dice la nostra fonte. In corsia il personale ci parla di reparti aperti per un solo paziente: “Milioni di euro buttati nel cesso”. Sale con la vasca per il parto in acqua, stanze e apparecchiature nuove. Qui lo spreco sono anche i medici che lavorano poco o niente come precisa la nostra fonte: “Perché vengono sottratti dove invece servirebbero”. In questa vicenda c’è anche un’assurdità: tutto questo spreco si poteva evitare. La ristrutturazione di questo ospedale è iniziata quando già si sapeva essere superflua. “Perché è a 10 chilometri da quello di Molfetta, 15 da quello di Corato e a 20 dal San Paolo”. Ora la domanda è spontanea: che fine fanno gli ospedali pugliesi che vengono dismessi in un’ottica di ottimizzazione? “Dovranno essere riconvertiti in presidi di assistenza per il territorio”, spiega Mario Conca, consigliere regionale. Per avere idea di quello che diventeranno queste strutture, andiamo a vedere quelle chiuse da qualche tempo. Una di queste è l’ospedale di Rutigliano, dismesso nel 2010 e oggi punto di primo intervento.  Siamo andati a vederlo, ma è tutto deserto. Le porte sono sbarrate, proviamo ai citofoni ma solo una persona ci risponde dicendo di non voler aprire. Sono i passanti a spiegarci che cosa succede: “La guardia medica ci diceva che ha paura. Qua c’è da spaventarsi la notte. C’è gente che si droga”.  Insomma quello che prima era un ospedale, ora è una struttura fatiscente che fa paura al poco personale in servizio. Cambiamo struttura, ma il copione è lo stesso. Andiamo all’ex ospedale di Toritto, sempre in provincia di Bari, dove c’è anche una piscina per riabilitazione che è dismessa nonostante sia costata 300mila euro. Come questa ce n’è un’altra ad Alberobello e un’altra ancora a Bari. Invece all’ex Santa Maria degli Angeli di Putignano è stato declassato. Oggi si presenta con stanze vuote e attrezzature abbandonate. Qui un tempo c’era il reparto di pediatria spostato in un’altra struttura. Andiamo a vederla e sembra uno scantinato, dove non ci sono lavandini e le barelle non entrano. “Questo è stato declassato in virtù della costruzione di un ospedale a Monopoli”, ci spiega una dottoressa. E infatti è già avviato il cantiere per la sua realizzazione. Che senso ha investire in nuove strutture per dismettere quelle da poco ristrutturate? “La regione Puglia è sotto amministrazione controllata per eccesso di spese. Le dirigenze delle Asl dovrebbero vigilare, ma chi deve gestire non ha fatto i concorsi. Spesso si vince per colloquio e non per titoli. A volte vince chi non può nemmeno partecipare avendo procedimenti penali in corso”, sostiene la fonte. Uno di questi è il direttore Giorgio Saponaro che avrebbe fatto pressioni per modificare degli atti pubblici. Come ha fatto a vincere un concorso pubblico? Siamo andati a chiederlo a lui, ma non vuole parlarci. Così andiamo da chi ha firmato la delibera per la sua assunzione: il direttore delle risorse umane dell’Asl di Bari. Anche lui però non è stato assunto tramite concorso. “Sono entrati come 15 septies e poi sono stati stabilizzati”, sostiene la nostra fonte. Una norma che permette di saltare i concorsi in casi di necessità e urgenza, ma poi in Puglia sono diventati stabili. Ma della sua assunzione il direttore dell’Asl non vuole parlarne. Così Gaetano Pecoraro va dal presidente della regione Michele Emiliano per chiedergli di questi sprechi. “Lei se parla così rischia di essere querelato perché di sperperi non ce ne sono”, dice. A proposito degli ospedali chiusi nonostante le recenti ristrutturazioni aggiunge: “Erano cattedrali nel deserto fatte da precedenti amministrazioni. Noi abbiamo dovuto chiudere e in più vieni a massacrarci. Lo fai perché siamo terroni?”.

La Puglia muore, grazie al governo PD (Vendola ed Emiliano) che da decenni ha fallito in tutto. E’ come essere tornati alla miseria e alla povertà degli Anni Cinquanta. Carlo Franza il 2 settembre 2019 su Il Giornale. Mentre c’è chi sussurra che il Presidente della Regione Puglia, Emiliano, stia tessendo la rete per essere nominato ministro degli interni  del Governo Conte, la Regione Puglia vive momenti drammatici. Provate a percorrere la Regione dall’alto in basso, dalla Capitanata (Foggia) patria di Giuseppe Conte, fino al Salento(Lecce), il paesaggio è desolante. La sanità è allo stremo con tanti ospedali chiusi e dell’eccellenza neppure a parlarne visto che chi ha bisogno  per la sua salute deve affrontare i viaggi della speranza; la disoccupazione poi, specie quella giovanile,  è alle stelle, e dei giovani laureati neppure l’ombra visto che tutti, proprio tutti,  rimangono al Nord o vanno all’estero; il turismo non ha strutture, il paesaggio  è diventato spettrale, da incubo, a motivo della peste degli ulivi, la Xylella,  che ormai  ha distrutto milioni di alberi.  Secondo i dati in possesso di Coldiretti a causa della batteriosi e del disseccamento tre alberi di ulivi su quattro sono andati persi in provincia di Lecce, con un calo netto della produzione di oltre il 70 per cento. Il paesaggio che gli occhi colgono ha dell’incredibile, paiono luoghi di spettralità, da horror.  E’ la peste del secolo che ha distrutto milioni di alberi centenari.  Il crollo della produzione di olio ha comportato il rialzo dei prezzi e una serie di conseguenze come la svendita dei frantoi che vengono smontati e inviati in paesi come la Grecia, il Marocco, la Tunisia. La Regione ha assistito inerme a questo dramma paesaggistico, sicchè   il pericolo di desertificazione  è ormai reale e si tratta principalmente di un’area che ad oggi interessa circa 180mila ettari. Secondo le osservazioni sul campo, il disseccamento avanza al ritmo di due chilometri per mese verso nord. Quella terra amata dai poeti Vittorio Bodini e Girolamo Comi, amata nel paesaggio   e  negli  alberi  perchè persino la rivista comiana  “L’Albero” ne elogiava  la struttura e la visione paesaggistica, ebbene quella Puglia sta morendo. Persino la Chiesa ha rispolverato riti che nel Settecento e nell’Ottocento si facevano, ovvero processioni di Santi per frenare invasioni di cavallette, disastri, miseria e altro. Così ha fatto l’Arcivescovo di Lecce, un invito alla speranza, al coraggio dell’impegno civile e una preghiera ai santi patroni (Sant’Oronzo) perché possano trovare un antidoto al disseccamento rapido degli ulivi “che la scienza non è ancora riuscita a trovare”. L’arcivescovo di Lecce, Mons. Michele Seccia, nella conferenza stampa di presentazione della festa patronale di Lecce (dal 24 al 26 agosto), ha lanciato un monito nel timore della desertificazione di un paesaggio che racchiude il senso di tante generazioni di agricoltori e produttori e che costituisce un elemento identitario per tutto il Tacco d’Italia. Seccia ha aggiunto: “Io, da contadino, ho qualche perplessità” lasciando intendere di avere più domande irrisolte che risposte adeguate rispetto all’avanzata del batterio della xylella e alla devastazione del paesaggio agricolo. L’arcivescovo, che lo scorso anno rivolse il suo primo messaggio alla città, dopo la processione, dalla cassa armonica in piazza e non dal sagrato del Duomo, ha sottolineato ancora una volta la necessità di lavorare, ciascuno per quanto nelle proprie possibilità e competenze, per il bene comune. Intanto lo stato della Regione Puglia è fallimentare per il Governo Vendola prima e per il Governo Emiliano oggi.  Si paventa il nome di Emiliano per la poltrona di Ministro dell’Interno perché ebbe a dire(certo parlava per sé): “I pugliesi vogliono dare un segnale all’Italia intera: questa è la terra dell’accoglienza, questa è la terra che risponde a Salvini dicendogli ‘smettila di pensare che il successo politico di qualcuno possa essere costruito sull’odio’. Bari è il simbolo dell’Italia che non si arrende alla chiusura, alla paura. Bari è insieme a tutta la Puglia il segno di un cambiamento”, ha detto Emiliano. In realtà il suo partito in Puglia è un disastro. Alle Europee il M5s è arrivato primo con il 26,29 per cento, come alle Politiche, seguito da Lega al 25,28 (cinque anni fa era lo 0,6 per cento), mentre il Pd è arrivato solo terzo con il 16,64 (sotto anche la media dell’Italia meridionale, ferma al 17,85, e ancora più sotto il risultato nazionale, pari al 22,69 per cento). Al Sud il Pd pugliese non ha eletto neanche un europarlamentare. O meglio, esagerando un po’, si potrebbe dire che il maggior risultato lo ha ottenuto con l’elezione di un leghista. Il cortocircuito pugliese infatti ormai è tale che grazie all’aiuto di un assessore di Emiliano la Lega è riuscita a far eleggere un rappresentante a Bruxelles: l’assessore regionale all’agricoltura Leonardo Di Gioia, di cui i consiglieri del Pd e Leu hanno chiesto le dimissioni, ha fatto campagna alle Europee per Massimo Casanova, proprietario del Papeete Beach e candidato con la Lega (eletto). E intanto mentre la Puglia muore, il governatore ha deciso di spegnere le sue 60 candeline attorniato dal calore dei baresi. “Buon compleanno Michele Emiliano” era scritto sulla torta.   Ecco che è nata così l’idea di una festa pop nella piazza di Largo Albicocca, nel cuore di Bari vecchia tutta a base di focaccia, panzerotti, sgagliozze e birre ghiacciate offerte gratuitamente alle centinaia di cittadini che si sono affacciati per fare gli auguri di persona all’ex sindaco del capoluogo pugliese. “Vi abbraccio tutti uno ad uno – ha detto Michele Emiliano alla folla – molti mi hanno detto: “non hai paura di festeggiare in piazza?”, ma io ho risposto loro che con questa gente al mio fianco non avrò mai paura di niente”. Ora a fine estate mentre impazza il toto ministri con il nome  anche di Michele Emiliano (Ministro dell’Interno), il quale già pensava di ricandidarsi a governatore Puglia nel  quinquennio 2020-2025, pur se il quadro politico  pugliese è da commissariare per via delle negligenze, dell’inettitudine, della mancanza di volontà  a far vivere decentemente una regione che ormai è in stato comatoso. Ma vedrete la Regione nel 2020 sarà in mano alla Lega, col benestare dei santi portati in processione. Carlo Franza

·         Ecco, è Bari…

Mola, lo scandalo delle ville abusive su suolo comunale: mai eseguita la demolizione. La scoperta dopo la denuncia di un consigliere M55, il sindaco conferma dopo verifica degli uffici: ordine di demolizione mai eseguito. Antonio Galizia il 31 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il cartello riporta l’avviso perentorio: «I residenti di questo villaggio sono pregati di chiudere il cancello. Persone estranee potrebbero entrare e rubare tutto». I veri autori del «furto», davvero clamoroso se confermato, sarebbero però proprio coloro che quel cartello hanno affisso. È incredibile quanto emerso nella prima seduta post-ferragostana del consiglio comunale quando, a seguito della interrogazione del consigliere Michele Daniele (M5S) è venuta fuori una storia sconcertante. Il fattaccio è localizzato a Mola nord, sulla litoranea per Torre a Mare, nella zona nota come «ex Tiro al piattello». Qui, in un suolo di proprietà comunale, alcuni privati hanno realizzato una dozzina di ville a mare che sarebbero ville-fantasma, sconosciute al fisco e allo stesso ente comunale, ma regolarmente allacciate all’Enel. Il caso è venuto alla luce grazie ad una ricerca dell’ingegner Daniele: «Dall’esame degli allegati all’ultimo bilancio di previsione – ha spiegato – ho notato la presenza di quest’area nella lista del patrimonio comunale». Le successive verifiche svolte, sia con l’ausilio di «Google map» sia dell’Agenzia del Territorio e dell’Agenzia delle entrate, è emerso che in quell’area comunale, all’insaputa dell’ente proprietario, privati cittadini hanno costruito delle ville residenziali a due passi dal mare. Si tratterebbe quindi di vere e proprie case-fantasma che non risulterebbero ufficialmente esistenti e che solo le sofisticate apparecchiature aereo-fotogrammetriche in dotazione a Google e all’Agenzia del territorio hanno portato alla luce. La segnalazione di Daniele è stata subito raccolta dalle autorità comunali e nei giorni scorsi, come riferito in consiglio comunale, il comandante della Polizia locale maggiore Vito Tanzi ha fatto eseguire una ispezione. Dal sopralluogo è emerso che il terreno comunale era occupato da ville residenziali regolarmente abitate, per questo il comandante ha proceduto con l’identificazione delle persone cui eventualmente contestare l’occupazione abusiva dei luoghi e la costruzione dei manufatti a quanto pare mai concessi con autorizzazione edilizia. «Una vicenda sconcertante», sottolinea Daniele, che ha chiesto anche verifiche all’Ufficio Tributi per capire se questi cittadini siano conosciuti al fisco. «Non lo sono» ha detto il sindaco Giuseppe Colonna, citando la nota del Capo ufficio tributi, Giuseppe Colella, che ha certificato il mancato pagamento dell’Imu (Imposta municipale unica), della vecchia Ici (Imposta comunale sugli immobili), della Tari (tassa rifiuti) e della vecchia Tarsu e Tares oltre agli oneri di urbanizzazione da parte dei proprietari delle ville-fantasma. Sulla incresciosa vicenda, che getta ombre pesanti sulla gestione del territorio (un caso analogo, di ville a mare confiscate e destinatarie di sentenze di demolizione non ancora eseguite, è presente ad un chilometro di distanza, in via La Malfa, sempre sul litorale), il sindaco ha chiesto una dettagliata relazione al responsabile dell’Ufficio urbanistico ingegner Vito Berardi, che così ha ricostruito la vicenda: nel 1992 l’area, nella quale sorse una lottizzazione abusiva, fu acquisita al patrimonio comunale, i privati impugnarono l’ordinanza dapprima davanti al Tar (Tribunale amministrativo regionale) che sentenziò in favore del Comune e successivamente davanti al Consiglio di Stato che confermò la sentenza in primo grado. Dopo le sentenze fu ordinato l’abbattimento delle ville, che in realtà non è stato mai eseguito e probabilmente è decaduto per prescrizione (intanto, il suolo continua ad essere considerato nel patrimonio comunale). Per anni, la vicenda è caduta nell’oblio e solo ora, con l’interrogazione dei Cinquestelle, è venuta clamorosamente alla luce. Il sindaco Colonna, eletto appena un anno fa, ha comunicato all’assemblea che è «in attesa di una relazione completa» da sottoporre alla valutazione dei legali del Comune e del Prefetto, per l’eventuale abbattimento.

Bari, le nonne delle orecchiette finisco sul New York Times: «Troppi controlli, non lavoreremo più». Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 su Corriere.it da Peppe Aquaro. A Bari Vecchia, all’Arco Basso, si starebbe sviluppando una storia che neppure Checco Zalone, Antonio Cassano e Gianrico Carofiglio sarebbero in grado di girare, raccontare o scrivere. Le nonne, madri e figlie della tradizione delle orecchiette fatte a mano davanti allo juso, al basso di casa, tra scalette, archi e porte sempre aperte, sono al centro di un affaire orecchietté. Ne ha parlato il New York Times inviando sul posto un cronista, al quale è bastato superare piazza del Ferrarese, la vetrina di Bari Vecchia con la sua movida, per accorgersi che qualcosa non quadrava intorno alla pasta fatta in casa a forma di piccolo orecchio. Il problema sono le regole: il caso è scoppiato qualche settimana fa, quando tre chili di orecchiette fatte a mano sono state sequestrate dalla polizia municipale in un ristorante di corso Vittorio Emanuele. Le orecchiette non erano tracciate, tanto da non rendere possibile risalire alla provenienza del prodotto. Con eventuali rischi. Che vanno da quelli igienico-sanitari al presunto contrabbando di orecchiette. Per cui le nonnine, abituate a produrre e poi a recapitare nei ristoranti della zona le loro delizie, hanno iniziato a preoccuparsi. La prassi, leggendaria, è più che nota: le nonnette lavorano, impastano e tagliuzzano il serpentone dal quale, con un coltellino magico, prenderà forma l’orecchietta. I turisti ammirati da tanta laboriosità, sorridono e spesso comperano una busta di orecchiette fatte in casa. Sono gli stessi turisti delle crociere del Mediterraneo (e non solo) che hanno contribuito a decretare Bari come la città più bella secondo la guida Lonely Planet. E per un sacchettino di «piccolo orecchio», si potrebbe anche chiudere un occhio, ma il problema nasce quando le orecchiette sono chili e tanti chili ancora. Ma le orecchiette spesso finiscono anche sui tavoli dei ristoranti. Ed è questo di cui parla il New York Times. Chi ha messo le mani in pasta sulla pasta? Non è facile scoprilo. Dicono (ma è tutto vero) che da queste parti, negli anni Novanta, dietro le porte delle laboriose nonne, fossero le sigarette di contrabbando le prime protagoniste di un «commercio» che partiva di notte a fari spenti, tra le onde dal Montenegro. «E noi che cosa ne sappiamo di questi fatti avvenuti tanti anni fa: lasciateci lavorare e basta»: è la voce di Nunzia Caputo e sua mamma Franca Fiore, dagli avambracci possenti, e che paiono disegnati più da Renato Guttuso che da ripetute sedute di fitness. Se si domanda qualcosa di più intorno alla magica semola ed acqua pronta a seccarsi per farsi tonda, le signore dell’Arco Basso, fanno subito quadrato. «Magari potremmo mettere su delle cooperative, stare insieme e vendere le nostre orecchiette in santa pace», ipotizza più di qualcuna. Ma è la signora Caputo a ricordare che, cercando del marcio nella Terra di San Nicola, finiremmo per dimenticarci che la tradizione delle orecchiette fatte a mano dovrebbe essere tramandata alle nuove generazioni: «Adesso, tutti i bambini sanno pure parlare due o tre lingue, ma nessuno insegna loro come stendere la pasta e tirar fuori le orecchiette». Intanto, mentre continua la caccia ai presunti «spacciatori» di orecchiette, con filosofi e storici del posto pronti a dare la colpa di tutto alla «globalizzazione», i classici «tavuir», le madie di legno sulle quali si lavora la pasta, sono lasciati ad asciugare al sole. Accade da sempre. Perché qui, a Bari Vecchia, nel cuore di una città che ha saputo trasformare in lingua un dialetto (cosa che è accaduta soltanto all’ombra del Vesuvio), più che di traffico illegale della tipica pasta, si potrebbe parlare dell’esigenza di eseguire maggiori controlli. Il sindaco di Bari, Antonio Decaro, si sta muovendo proprio in questa direzione: lo scorso ottobre, infatti, è stato multato un ristoratore, il quale aveva nel suo locale delle orecchiette la cui tracciabilità era praticamente dubbia. Con buona pace delle simpatiche nonnine. E delle loro nipoti, le future apprendiste.

Da ilfattoquotidiano.it il 12 dicembre 2019. La “guerra delle orecchiette” diventata un caso internazionale, tanto da conquistare la prima pagina del New York Times. Così è stata ribattezzata la disputa sulle tradizionali orecchiette pugliesi, fatte a mano con pollici e coltelli dalle donne di Bari Vecchia, scoppiata dopo il sequestro e la multa a un ristoratore della città che aveva acquistato le orecchiette proprio dalle pastaie che animano i vicoli del centro storico. Il motivo? La vendita delle orecchiette avviene da sempre direttamente “dal produttore al consumatore” senza però né lo scontrino, né la lista degli ingredienti e neppure la garanzia che la merce sia tracciabile. “Call it a crime of pasta”, “Chiamatelo un crimine di pasta” è il titolo del lungo reportage firmato da Jason Horowitz che parla della norme amministrative che rischiano di uccidere la tradizione centenaria delle pastaie dell’Arco Basso che sono da tempo un’attrazione per i turisti perché lavorano per le viuzze del Borgo antico dove espongono telai e tavolieri con la pasta fresca. Tanto che, oltre a esser state inserite nella top ten delle migliori destinazioni d’Europa da Lonley Planet, sono state scelte anche da Dolce & Gabbana come scenario per alcuni suoi spot pubblicitari con le figlie di Sylvester Stallone che giocavano con quelle piccole creazioni di pasta fra le mani. Non solo, anche Versace ha scoperto come vincente l’accoppiata modelle-orecchiette. La “guerra delle orecchiette” ha scatenato la dura protesta delle pastaie che, come riferisce il New York Times, tengono a precisare che la loro “professione” è comunque tutelata da un regolamento che prevede che “è legale vendere piccole buste per uso personale, ma le spedizioni ai ristoranti hanno bisogno di una licenza”. “Le pastaie non guadagnano molto e temono di dover indossare cuffiette, fare ricevute e pagare le tasse – spiega il reportage -. Riguardo alla possibile proposta di mettersi insieme e vendere i loro prodotti legalmente, Angela Lastella sbotta esasperata: ‘Chi farà la cooperativa?’”. “Queste donne lavorano 10, 15 ore al giorno, sette giorni alla settimana per sostenere i loro mariti e figli disoccupati”, ha detto al Times Francesco Amoruso, 76 anni, la cui madre, una delle pastaie più conosciute della strada, è morta l’anno scorso all’età di 99 anni. “E questo è quello su cui si accaniscono duramente?”. Sì, perché quel “fatto in casa” che è sempre stato considerato un valore aggiunto, ora è diventato invece un difetto, un problema, che rende le orecchiette preparate dalle sapienti mani delle anziane del paese un prodotto pericoloso, senza controlli, senza certificati igienico-sanitari e, sopratutto, “senza scontrini”, come si dice nel linguaggio degli ispettori della Guardia di finanza. “Fino a 20 anni fa Bari vecchia era nota come la "città delle rapine", una zona proibita governata da clan criminali – scrive Horowitz nel suo articolo –. Il furto ha una lunga tradizione qui. Nel 1087 i marinai baresi in cerca di un’attrazione da pellegrinaggio rubarono dall’attuale Turchia le ossa di san Nicola, il modello per Babbo Natale e oggi uno dei patroni di Bari (e patrono, fra le altre cose, dei ladri). Prima della pasta, molte donne anziane della città vendevano sigarette di contrabbando dal Montenegro“, conclude. Insomma, anche il Nyt si è mobilitato perché ora che proprio grazie alle orecchiette e alle loro sapienti fattrici quei vicoli un tempo malfamati, dove è cresciuto Antonio Cassano e dove fino agli anni Novanta le guide turistiche sconsigliavano vivamente di avvicinarsi, sono diventati un’attrazione capace di richiamare star hollywoodiane e milioni di turisti da tutto il mondo, la burocrazia si mette di mezzo. E con le sue norme e i suoi cavilli rischia di distruggere una tradizione secolare che, una volta scomparse le anziane pastaie, potrebbe non avere più seguito.

Datemi una parola e vi solleverò il mondo: i termini scelti dai vip baresi. Abbiamo chiesto ad alcuni rappresentanti della società civile qual è la loro «parola da salvare». Francesca Di Tommaso il 22 Ottobre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Dopo Milano, Torino, Firenze e Bologna, fa tappa anche a Bari il progetto #paroledasalvare presentato dalla Zanichelli. Nell’edizione 2020 del vocabolario della casa editrice, saranno 3.126 le parole contraddistinte da un fiorellino, simbolo grafico che le contrassegna come «parole da salvare» perché sempre meno presenti nell’uso scritto, orale e nei mezzi di informazione. Fino a sabato in piazza Diaz ecco l’installazione-vocabolario, chiamata #AreaZ: una zona a lessico illimitato in cui trovare le parole giuste per esprimere il mondo. Sulla quarta di copertina, un monitor touchscreen proporrà a rotazione 5 dei 3126 lemmi da salvare. Scelta la propria parola da salvare, sarà possibile postarla, con il suo significato, sui propri canali Facebook e Instagram direttamente dallo schermo del vocabolario. Scegliere una parola, una di quelle che ti riempiono il cuore e che non leggi e men che mai ascolti più. Sarà perché «desueta», sarà perché siamo travolti da inglesismi che spacciamo per neologismi. Sarà. In ogni caso, abbiamo chiesto ad alcuni rappresentanti della società civile qual è la loro «parola da salvare».

Antonio Decaro. Mantenersi: è la parola che vorrei assumesse un valore più importante nei nostri dialoghi quotidiani. Una parola, un verbo, all’apparenza ordinario, quasi insignificante nel linguaggio comune, ma che rimanda immediatamente a un gesto a cui tengo particolarmente: tenersi per mano. Mantenersi, nell’accezione più comune, indica l’azione di tenersi in equilibrio in una determinata situazione, e due forze o due pesi sono in equilibrio tra loro quando si incontrano e si assestano, creando una sorta di relazione e di legame (mantenersi a galla per sopravvivere, mantenersi in sella per non cadere). Mantenersi può significare ancora darsi sostegno, aiutare l’altro a stare in una determinata posizione. In qualsiasi accezione scegliamo di declinare il verbo, l’immagine che mi torna alla mente è quella del «tenersi per mano» come gesto di cura, di relazione, di equilibrio, di sostegno. Questo è il concetto che vorrei salvare e salvaguardare per la mia comunità. Una comunità che sa prendersi cura di se stessa, dialogare, sostenersi e mantenersi, tenendosi per mano.

Gigia Bucci. Resilienza: Vorrei usare questa parola in termini figurati e applicarla non solo alla natura ma anche alla società intesa come un insieme di relazioni umane. Credo che soprattutto i giovani abbiano bisogno di un modello di società che reintroduca nel suo agire quotidiano il concetto di solidarietà fatto di piccoli gesti che però insieme ricostituiscono il tessuto dello stare insieme per superare le difficoltà, un individualismo spinto che impoverisce tutti.

Ugo Patroni Griffi. Accorsato. È un meridionalismo, lo so. Ma proprio per questa va salvata. E poi richiama folla, imprenditoria, dinamismo. Ciò che ora manca al meridione. E quindi esprime ottimismo.

Gaetano Sassanelli. Caravanserraglio. Non è una parola, è un sortilegio, certamente inadatto alla sintesi dei giorni nostri che comprime le parole, trasformandole in un estratto di consonanti. Dubito che sia stata qualche chat a ricordarmela: allora capisco. Avevo liquidato quel vocabolario come una nota di colore, come un guizzo simpatico in un grigio lunedì della ennesima sentenza profondamente ingiusta ed invece quella parola così fuori dal tempo, ma paragonabile all’enorme monolite di Kubrick in «2001 odissea nello spazio», si è insinuata subdola nella calma piatta dell’odierno lessico della rete e mi ha provocato, quasi irriso, costringendomi a fare meglio, a pensare meglio. Il maestro Kubrick mi perdonerà, ma quel monolite di parole giganti, piantate lì nel bel mezzo della nostra città, laddove tutto è micro e nulla è mega, in un rabbuiato lunedì, mi ha fatto sentire come la sua scimmia violenta e spaesata; come colui che comprende, con tutta la violenza possibile, che tutto è ormai inevitabilmente mutato; un passaggio epocale coperto dal frastuono delle nostre suonerie, e dal cicaleccio molesto e multiforme delle notifiche dei social, che ha trasformato tutto, perfino le coscienze dei Giudici, che hanno sostituito gli esseri umani imputati, in numeri di procedimenti anonimi e senz’anima, oscurati dal caravanserraglio degli atti. Un monolite di parole, che forse è testimone mesto ed inconsapevole del tracollo della nostra cultura, persa in neologismi maldestri ed esterofili. Eccola, di nuovo, a provocarmi ed a stupirmi con la bellezza di un termine impraticabile per i giorni nostri, ma attualissimo se sol penso alla realtà del tempo in cui viviamo. Penso al caravanserraglio che è diventato il nostro confrontarci, urlato, caotico ed irrispettoso; penso al caravanserraglio del dibattito politico, gridato, violento, inconcludente ed ormai all’inseguimento dichiarato dell’ignoranza e della mediocrità; e penso, quasi ossessionato, al caravanserraglio che è diventata la amministrazione della giustizia a Bari: vilipesa, straziata, mutilata e persa nei falsi proclami di ministri e governi inconcludenti, che la costringono, raminga, a muoversi senza casa per le vie cittadine, mettendo in ginocchio lo stesso diritto di difesa. La scimmia del maestro Kubrick, lo avrebbe distrutto questo caravanserraglio, con tutto il disappunto possibile, conscia che grazie a questo monolite, si sarebbe evoluta, mutata per sempre, trasformata in qualcosa di diverso e di nuovo: da quadrupede in bipede.

Daniela Mazzucca. Riluttanza: s. f. esitanza, refrattarietà, renitenza, resistenza, ritrosia ovvero esitazione, incertezza. In un mondo di persone fortemente competenti su ogni argomento ed altrettanto determinate ad imporsi anche con una certa ferocia affabulativa, fa tenerezza la riluttanza, quasi una parola del timido, di chi è abituato ad approfondire, di chi quasi con pudore vuole dire la sua opinione, si schermisce di fronte ad un complimento mellifluo o peggio ad una offesa, ma con ritrosia abbandona il campo, rosso in volto, piuttosto che reagire violentemente. Riluttanza si declina in tanti modi da Hanif Kureishi «Fare del male a qualcuno è un gesto di riluttante intimità»... sembra quasi di percepire con mano il desiderio combattuto di non voler ferire , forse per educazione o delicatezza d’animo, ma nello stesso tempo di sentire l’istinto a farlo per vendicarsi di un torto subito. L’utilizzo più buffo è nella striscia del 6 agosto 1973 di Charles M. Schultz: «Sebbene suo marito andasse spesso in viaggio per affari, ella odiava stare sola. – Ho risolto il nostro problema, – disse egli. – Ti ho comprato un san Bernardo. Si chiama Estrema Riluttanza. Adesso, quando vado via, sai che ti lascio con Estrema Riluttanza! – Ella lo colpì con un mestolo».

Michele Sgobba. Capocanale (u capecanale). Nel gergo pugliese, il capocanale è il ringraziamento del committente di un'opera importante verso tutti coloro che hanno contribuito al completamento della stessa. Il capocanale era una festa che si svolgeva alla fine dei lavori di una costruzione in concomitanza dell’ultimo colpo di piccone alla chiusa di un canale dopo essere stato terminato e consisteva in un pranzo di ringraziamento, una grande abbuffata offerta dai padroni di casa a tutti i lavoranti. Quando ho iniziato a fare l’architetto il capocanale era una consuetudine che non poteva essere disattesa anche perché tutti i lavoratori non perdevano l’occasione per rivendicarla mentre i proprietari la promettevano nella speranza di accelerare i lavori e di poter finalmente entrare nella propria abitazione. I primi capocanale a cui ho partecipato erano un vero e proprio rito che, per un giorno, vedeva l‘inversione dei ruoli in cui erano i padroni a servire i lavoratori come premio e ringraziamento per il lavoro svolto e l’occasione per ricordare in maniera scherzosa le vicissitudini e le disavventure del cantiere. Col passare del tempo il pranzo preparato in casa è stato sostituito da una mangiata in pizzeria o al ristorante che non ha lo stesso fascino del pranzo preparato e servito dai proprietari ma ha almeno contribuito a conservare la tradizioni. Oggi questa abitudine comincia a perdersi perché spesso i problemi economici non consentono di completare i lavori e i contenziosi tra proprietari e imprese,oggi in continuo aumento, non consentono di avere la serenità giusta per poter celebrare questa antica consuetudine. Conservare questa parola è un auspicio affinché si possa riprendere questa antica consuetudine che riusciva a rasserenare gli animi dopo le inevitabili tensioni dovute al protrarsi dei lavori e a ridare a tutti, proprietari e lavoratori il senso di appartenenza ad una comunità solidale.

Patrizia Del Giudice. La parola è: Natalità Perché rappresenta il drammatico fenomeno delle mancate nascite in questi ultimi anni e per il quale mi sto battendo tra mille ostacoli anche nel mio ruolo istituzionale. Perché è la parola che indica l’infinito. La nascita è in ogni dove ed in ogni gesto,è dare la vita, è la speranza, è la continuità, è il significato più ampio della stessa esistenza del creato. Nascita è legato a noi stessi che possiamo sbagliare e darci una seconda possibilità con la «rinascita», che poi è stato anche il titolo del nostro primo evento voluto a favore delle donne detenute. Ed infine perché nascita è il contrario di morte, di fine, di sbagli.

Filippo Melchiorre. Coerenza.Un modo di pensare/agire che, per chi come me esercita attività politica da quasi un trentennio sempre dalla stessa parte e con lo stesso impegno, è sempre meno praticato da esponenti politici locali e nazionali. E se il vocabolario italiano ci ricorda che per «coerenza» si intende la «conformità tra le proprie convinzioni e l'agire pratico» nella vita politica, oggi, tutto si può dire e tutto si può smentire nell’arco di pochissimi giorni. Un comportamento che è sotto l’occhio di tutti noi.

·         Informazione e Finanza.

IL CLUB DEI JACOBINI. Giuliano Foschini per “Affari e Finanza – la Repubblica” il 30 luglio 2019. Il cielo sopra Bari da qualche giorno ha cambiato colore. Dopo sessant' anni ininterrotti, per la prima volta, alla guida della più grande banca della città, la Popolare di Bari, non c' è più uno Jacobini. Il nuovo presidente del consiglio amministrazione è un nipote della famiglia che da sempre guida l' istituto di credito più importante della città, è vero, il professor Gianvito Giannelli, ma è chiaro a tutti che qualcosa di importante è cambiato: Marco Jacobini, 73 anni, presidente dal 1989, ha ceduto il passo. Una mossa che veniva annunciata da anni ma che a ogni assemblea il figlio di Luigi, che la banca fondò più di sessant' anni fa, rimandava, posticipava, dando una misura classica del levantinismo della città: tutto è rimandabile, tutto si può contrattare, niente è certo. Ed effettivamente domenica 21 luglio qualcosa d' inaspettato era successo. In Fiera del Levante era convocata, dopo parecchi rinvii, l'assemblea dei soci che si è trovata a dover approvare il peggior bilancio della storia della Popolare: un passivo da 420 milioni, gruppi di risparmiatori inferociti che si sono visti deprezzare da 8 a 2 euro i titoli, un default evitato soltanto grazie a una nuova norma ad personam, pensata proprio per la Popolare di Bari e voluta dal governo giallo-verde, quello che aveva dichiarato guerra alle banche, che consente di trasformare le cosiddette Dta (le attività fiscali differite) in crediti d' imposta. Per poter accedere al beneficio, il Governo ha però messo una condizione esplicita. E una, in qualche modo, implicita. Prima, per legge: è necessario che la banca si fonda con un'altra popolare del Sud, operazione che il consiglio di amministrazione del professor Giannelli e dell' amministratore delegato Vincenzo De Bustis ha già cominciato a studiare. Seconda, non detta: Jacobini avrebbe dovuto fare un passo indietro. E così doveva essere fin quando domenica «davanti all' applauso degli azionisti», racconta con gli occhi lucidi uno dei suoi fedelissimi dell' assemblea dei soci che si era tenuta a porte chiuse, Jacobini aveva provato a restare. Niente dimissioni. Anzi dichiarazioni coraggiose all' Ansa che sembravano un cambio di rotta: «Sono e resto il presidente della Popolare» aveva detto, quando tutti sapevano che sarebbe stata solo questione di ore. Perché non poteva essere altrimenti. Non fosse altro per evitare una frattura fra i suoi due figli, Gianluca che era stato il suo braccio destro operativo, e Luigi, che recentemente aveva lavorato al fianco dell' ad De Bustis, Jacobini sapeva che il passo di lato era inevitabile. La politica poteva aiutare una banca ma non più difendere i vertici di un istituto che per colpa di un' operazione non felice - l' acquisizione di Tercas, a onor del vero fortemente sponsorizzata da Bankitalia - ha messo in ginocchio migliaia e migliaia di risparmiatori. La vigilanza non poteva più continuare a chiudere un occhio su una banca a struttura familiare, con padre e due figli nei ruoli cruciali di gestione e controllo. E soprattutto era necessario dare anche un segnale all' esterno, all' opinione pubblica e alla magistratura che sulla Popolare ha un'indagine molto delicata, con al centro proprio Marco, per truffa, false comunicazioni alle Vigilanza. Jacobini ha dovuto dunque mettersi al lato di una banca che era un pezzo di sé: era impossibile capire dove finisse Marco Jacobini e dove cominciasse l'istituto, erano un unico monolite e come tale veniva rappresentato anche all' esterno. Popolare è al centro di tutti gli affari principali della città, eppure gli Jacobini avevano sempre scelto il low profile. Molto poco mondani, si vedevano soltanto in occasioni ufficiali quando era strettamente necessario. Eppure il loro cognome è il più pesante a Bari e per decine di chilometri attorno. Per anni hanno avuto nelle mani il cuore dei baresi con la squadra di calcio, ai quali sono sempre stati molto vicini nell' era Matarrese e Paparesta, prima di arrivare al fallimento disastroso. Sono molto vicini alla Gazzetta del Mezzogiorno, il gigante dell' editoria oggi in grande difficoltà per via dei guai giudiziari del suo editore, Ciancio Sanfilippo, il cui pacchetto di maggioranza è pronto a passare nelle mani - proprio con la benedizione della Popolare - di Sorgente Group di Valter Mainetti. Hanno supportato tutti i più grandi gruppi imprenditoriali della città, in ottimi rapporti con la politica sia a destra sia a sinistra. Hanno però sempre mal digerito le critiche: a questo giornale la Popolare di Jacobini ha minacciato di chiedere 100 milioni di euro di danni se avessimo continuato a scrivere di inchieste e proteste dei risparmiatori. Ma fu un articolo, pubblicato nel 2017 da Affari&Finanza, a mandare su tutte le furie Jacobini: si raccontava tra le altre cose che persino San Nicola, di cui l' ormai ex presidente è devotissimo, si fermava a omaggiare la banca, con un inchino, durante la processione di maggio, la festa dei baresi. A conferma del peso dell' istituto nella storia della città. Un' usanza che per un periodo il nuovo priore della Basilica, Lorenzo Lorusso, aveva sospeso. Ma che, andato via, era stata immediatamente ripresa. E così, il prossimo maggio, anche il Santo sarà sorpreso di non vedere Marco Jacobini lì, sulla porta di casa.

Popolare di Bari. Come anticipato dal nostro giornale Jacobini si è dimesso lasciando la presidenza al nipote Vito Giannelli. Il Corriere del Giorno il 25 Luglio 2019. La decisione è arrivata tre giorni dopo la nomina del nuovo CdAe dall’approvazione di un bilancio con 420 milioni di debiti ed il patrimonio crollato di oltre il 50 per cento. Nominato amministratore delegato Vincenzo De Bustis Figarola. Attorno a tutto questo le ispezioni della Consob , quella ancora in corso di Banca d’Italia, e le inchieste della Procura di Bari, per truffa, false comunicazioni agli organi di vigilanza che vede, a vario titolo, indagati alcuni vertici dell’istituto barese e lo stesso Jacobini . BARI – Il presidente della Popolare di Bari Marco Jacobini in scadenza di mandato a fine anno si è dimesso . Una decisione che arriva a tre giorni dopo la nomina del nuovo Cda. Nella stessa seduta consiliare, Gregorio Monachino, si è dimesso a sua volta dalla carica di direttore generale, venendo nominato per cooptazione nel nuovo membro del consiglio di amministrazione. La Banca ha ringraziato il presidente dimissionario Jacobini e i “componenti del cda uscente per il lavoro svolto“. Al suo posto come domenica scorsa il nostro giornale aveva anticipato è stato nominato il nipote Gianvito Giannelli. “Certo non resto incollato alla poltrona” aveva dichiarato Jacobini al termine del consiglio di amministrazione che aveva eletto il nuovo Cda. Da sempre alla guida  dell’istituto di credito barese, Marco Jacobini  lascia oggi la presidenza della banca in una crisi economica profonda e pesante con una perdita è di 420 milioni) , che si è salvata salvato soltanto da una Legge del Governo che grazie alla possibilità di spostare alcune poste in bilancio, ha consentito di poter evitare il “crack”.

La Banca Popolare di Bari è stata fondata negli anni Sessanta da Luigi Jacobini, il padre dell’attuale presidente appena dimessosi  Marco, e contava su pochi soci.  Marco Jacobini entra nel 1978 in banca ed 11 anni dopo, nel 1989 arriva alla guida comando . Con il passare degli anni arrivano ai vertici  anche i  suo figli Luigi (attuale vicedirettore generale) e Gianluca (condirettore generale). La banca cresce con 29 acquisizioni. Gli azionisti passano da 50 mila a 69 mila in pochi anni. I dipendenti crescono fino agli attuali 3 mila, con centinaia di filiali in varie regioni. La Popolare di Bari  aveva chiuso il bilancio con un rosso profondissimo. Attorno a tutto questo le ispezioni della Consob, quella ancora in corso di Banca d’Italia, e le inchieste della Procura di Bari, per truffa, false comunicazioni agli organi di vigilanza che vede, a vario titolo, indagati alcuni vertici dell’istituto barese e lo stesso Jacobini. La Bpb è finita infatti al centro di alcuni fascicoli aperti dalla Procura di Bari, con  indagini complesse coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, come ad esempio quelle riguardanti alcuni fidi milionari che la banca barese ha concesso ad aziende sull’orlo del fallimento. Un altro filone delle indagine è incentrato sui prestiti rilasciati a degli imprenditori con la condizione che una parte fossero destinati all’acquisto di azioni della Bpb. Nel marzo scorso la Procura barese ha fatto notificare a Marco Jacobini ed  a Vincenzo De Bustis (all’epoca dei fatto direttore generale)  un avviso di conclusione delle indagini per un caso riguardante proprio l’acquisto di titoli azionari.

Si è dimesso il direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno. Cosa aspettava? Il Corriere del Giorno il 31 Luglio 2019. Giuseppe De Tomaso ha capito che il suo ciclo era finito, rassegnando le proprie dimissioni. Una decisione che avrebbe dovuto prendere da molto tempo, ma che ha deciso soltanto ora in vista di un suo pressochè certo previsto imminente licenziamento. Lasciando nello sconforto i suoi devoti “orfanelli ed orfanelle”…E’ trascorso quasi un anno da quando quello che era il principale quotidiano di Puglia e Basilicata, è stato sottoposto il 24 settembre del 2018,  alla gestione giudiziaria per la sentenza di sequestro e confisca del 70% delle quote azionarie della Edisud spa, che fanno capo all’editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. “Ci sembra giusto informarVi che il Vostro giornale ha avviato una procedura societaria, che prende il nome di “concordato preventivo”, che è stata chiesta al Tribunale di Bari, che ha a sua volta ha nominato due Commissari, che ne seguiranno gli sviluppi”. Con una lettera aperta l’ex-editore ha annunciato ai lettori de ‘La Gazzetta del Mezzogiorno’ la scelta pressoché obbligata che permetterebbe “di riportare in equilibrio i conti del giornale, che negli ultimi anni ha sofferto pesantemente della crisi, che ha colpito l’editoria giornalistica”. La situazione dei conti fortemente deficitaria maturata ancor prima dell’atto del sequestro, ha portato a chiudere il bilancio del 2018 con una perdita operativa di oltre 7 milioni (che contribuiscono agli oltre 30 milioni di euro complessivi di debiti maturati).  Una situazione che ha reso inevitabile, ai fini della continuità aziendale imposta dalle norme di legge , da parte del Tribunale di Catania – Sezione misure di prevenzione attraverso i Custodi-Amministratori Giudiziari nominati,  di trovare un acquirente. L’unico a rendersi interessato e disponibile è stato Valter Mainetti amministratore delegato del fondo Sorgente Group Italia proprietario della testata del quotidiano “Il Foglio” e del mensile “Tempi”, che era già socio di minoranza di Edisud spa. La proposta, con il supporto della Banca Popolare di Bari, (fortemente esposta con la precedente gestione) , prevede all’omologa del concordato, prevista fra aprile e settembre del 2020, una importante ricapitalizzazione finanziaria con capitali propri e l’ingresso nel capitale di un partner industriale. Nel frattempo l’avvio del concordato facilita una preliminare contrazione dei costi e accelera la dismissione di alcuni cespiti. Infatti con il parere favorevole del Tribunale di Catania, al quale risponde la gestione commissariale, il cda di Edisud spa  ha chiesto nella seconda metà di luglio al Tribunale di Bari l’ammissione alla procedura di concordato preventivo in continuità , che ha comportato la nomina immediata di due commissari. In particolare la ristrutturazione, che verrà presentata in un piano che Edisud si è impegnata a presentare entro il prossimo ottobre, prevede, oltre allo sviluppo del digitale e la concentrazione delle risorse nell’informazione locale e regionale, di incorporare le sette edizioni attuali in non più di tre, per offrire ai lettori un giornale più completo, rispetto al territorio d’influenza. Importanti sinergie editoriali interesseranno poi le news nazionali e internazionali, unitamente alla pubblicità e al marketing per promuovere intorno al brand giornalistico, forte e unico per la Puglia e Basilicata, come la Gazzetta del Mezzogiorno, eventi e iniziative speciali per coinvolgere, con rinnovata energia e idee, i giovani e il ricco mondo dell’economia e della cultura delle due regioni. “Il giornale che da tanti anni e per tante generazioni è stato vicino al territorio – scrive Edisud nella sua lettera pubblica – è un patrimonio nazionale che oggi non solo va conservato, ma deve essere con urgenza rilanciato tenendo conto delle innovazioni che hanno interessato fortemente anche il settore editoriale. E ciò vuol anche dire una struttura produttiva più snella, unita alla ricerca di economie di scala e sinergie con gruppi editoriali, che permettano di concentrare le risorse giornalistiche alla copertura dell’informazione locale, sul piano di servizio e di cultura”. “La procedura avviata chiede il concorso e il sacrificio di tutti, dai creditori alle maestranze, per preludere ad un solido assetto proprietario – conclude la lettera dell’editore – . Durante questo percorso Vi chiediamo di continuare a starci vicino, anzi ancora di più. Il giornale sarà gradualmente innovato nel contenuto, nella grafica e nella tecnologia. E punterà sempre più ad accompagnare lo sviluppo e a difendere l’orgoglio di una Puglia e Basilicata, le loro città ed aree interne, strategiche per l’economia e la cultura del Paese”.

La Gazzetta del Mezzogiorno ha 130 di storia che hanno visto passare sulle sue pagine grandi firme come Oronzo Valentini, Giuseppe Giacovazzo, dovrà affrontare una sfida difficile. Secondo quanto  prevede il concordato si dovrà infatti riuscire, a riportare rapidamente i suoi conti in equilibrio , peggiorati progressivamente negli ultimi sei anni con la direzione giornalistica di Giuseppe De Tomaso ha visto i propri ricavi da copie vendute scendere del 40%, arrivando a vendere in un bacino di oltre 5 milioni di persone, soltanto 17mila copie. Numeri che hanno conseguentemente comportato il crollo della pubblicità calata del 60%.

Ed oggi finalmente Giuseppe De Tomaso si è “arreso” ed ha capito che il suo ciclo era finito, rassegnando le proprie dimissioni. Una decisione che avrebbe dovuto prendere da molto tempo, ma che ha deciso soltanto ora in vista di un suo pressochè certo previsto licenziamento. Lasciando nello sconforto i suoi devoti “orfanelli ed orfanelle”…

·         Si è spento Federico Pirro giornalista galantuomo.

Bari, a 76 anni muore il giornalista Federico Pirro. Aveva un male incurabile. Il cordoglio del presidente Emiliano e del sindaco Decaro. La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Giugno 2019. “La Puglia oggi piange la scomparsa di Federico Pirro, voce importante e autorevole del giornalismo pugliese - sottolinea in una nota il presidente della Regione Michele Emiliano, ricordando il giornalista scomparso a 76 anni dopo un male incurabile - Una vita dedicata all’informazione e all’impegno pubblico. Ha lavorato alla Gazzetta del Mezzogiorno e poi alla Rai, raccontando e documentando le diverse stagioni e i grandi momenti della storia della nostra regione con grande professionalità e passione civile. Federico Pirro è anche un uomo delle istituzioni: ho avuto l’onore di condividere con lui l’esperienza amministrativa al Comune di Bari, un’esperienza vissuta ogni giorno al servizio della comunità. Non posso non ricordare il continuo impulso di idee che ha contraddistinto l’attività politica di Federico, lo spessore culturale e l’amore infinito per la sua terra che esprimeva in ogni suo intervento. Un amore che ritroviamo tra le pagine dei tanti libri che ha scritto, testimonianza di una vita intera dedicata allo studio, alla ricerca, all’impegno civile in tutte le sue forme. Perdo oggi un amico, con il quale ho avuto l’onore di percorrere insieme un pezzo di strada, una persona che mi ha dato tanto a livello umano. Alla sua adorata famiglia, alla moglie Isa e ai figli Fabrizio e Maurizio, va il mio affetto più sentito”. “Con la scomparsa di Federico Pirro la città di Bari e la Puglia intera perdono uno dei volti più noti e amati del giornalismo locale e un acuto osservatore delle dinamiche dei nostri tempi. Dopo averlo apprezzato nel suo ruolo di caporedattore del TGR Puglia, ho avuto l'opportunità di conoscerlo da vicino nel suo ruolo di consigliere comunale durante la prima amministrazione Emiliano. Credo che la sua preparazione, il suo rigore, la sua autorevolezza abbiano avuto modo di esprimersi in tutti i contesti nei quali ha operato, e mancheranno a tutti noi. Alla sua famiglia e quanti gli hanno voluto bene giunga il più sentito cordoglio mio personale e dell'intera città”, dichiara il sindaco Antonio Decaro.

Si è spento Federico Pirro giornalista galantuomo. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 16 Giugno 2019. Federico Pirro ha dedicato ai diritti, ma anche ai doveri dei giornalisti un generoso impegno sindacale, strettamente vincolato all’etica della professione. E con uno sguardo sempre disponibile rivolto ai più giovani, alle loro difficoltà di accedere a un mestiere affascinante ma spesso corporativo, dove il merito rischia ancora oggi di essere un optional. Il collega ed amico Antonello Valentini che nel ricordarlo  ha scritto che  Federico Pirro “ha dedicato ai diritti, ma anche ai doveri dei giornalisti un generoso impegno sindacale, strettamente vincolato all’etica della professione. E con uno sguardo sempre disponibile rivolto ai più giovani, alle loro difficoltà di accedere a un mestiere affascinante ma spesso corporativo, dove il merito rischia ancora oggi di essere un optional. Federico Pirro è rimasto sempre dalla stessa parte e sapevi di trovarlo lì. Un uomo coerente, leale, “compatto”, fedele a certi valori : dritto alla staffa, ragione e sentimenti.”  Federico me lo ha dimostrato personalmente. Cinque anni quando partì online la rinascita di questo giornale fondato da mio padre e da altri tre colleghi, mi scrisse un messaggio bellissimo via Facebook, che custodisco con orgoglio : “Ciao Antonello, non hai bisogno di ricordare alla gente chi sei e chi era tuo padre. Fai parte a buon diritto della nostra storia, fossi pure figlio di chi avesse svolto altra attività. Vai avanti per la tua strada e sii fiero di quello che stai facendo. Tuo padre ne sarebbe fiero ed orgoglioso. Di qualunque cosa dovessi aver bisogno chiamami, questo è il mio cellulare….!“. Custodisco invece per me gelosamente i suoi consigli e le sue considerazioni sulle vicende che mi hanno convolto per colpa di qualche pennivendolo …Ha ragione  Antonello Valentini, nello scrivere che ci mancheranno la sua intelligenza, la sua ironia, la sua arguzia, la sua onestà, la sua lezione morale, quella capacità di difendere le proprie idee con tenacia ma senza spocchia e senza puzza al naso, disposto a discuterne e a confrontarsi. Perdere un collega, un amico, un esempio di buon giornalismo, è una sofferenza, sopratutto pensando che molti altri che faccio fatica a definire “colleghi” non sono stati capaci di imparare da Federico,  come si fa giornalismo seriamente e con la spina dorsale diritta, come si fa attività sindacale per tutelare una categoria come la nostra, che ormai ha perso dignità e non ha più dei rappresentanti sindacali nell’ Assostampa di Puglia come Federico Pirro, o istituzionali come cioè Oronzo Valentini (per me “zio Nino” ) , il papà di Antonello, mitico direttore della “vera” Gazzetta del Mezzogiorno ed a lungo presidente dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia. Federico Pirro, era da tempo malato, ed  è morto a 76 anni, dopo essere stato a lungo scrittore e  caporedattore della sede regionale pugliese della Rai di cui era stato responsabile fino all’ottobre del 2002, prima di essere rimosso dal suo incarico e dover intraprendere una battaglia sindacale e davanti al giudice del lavoro per il suo reintegro. Una rimozione che imputava al cambio di direzione delle testate regionali dell’epoca dovute al nuovo scenario politico con il governo di centrodestra guidato da Silvo Berlusconi. Pirro è stato corrispondente dalla Puglia per quindici anni del quotidiano La Repubblica. Tra i suoi libri si ricordano: Vilipendio di cadavere – Bari negli anni del dopo Moro; Informare o dire la verità? Bari 900; Bari brucia; La fame violenta – Il linciaggio delle sorelle Porro; Il generale Bellomo – Liberò Bari dai tedeschi, fu fucilato dagli inglesi; 1861 Uniti per forza (sull’Unità d’Italia); Fra le Ombre di Auschwitz; I Monumenti della Grande Guerra; Acciacchi.

Otto mesi fa, Federico sulla sua pagina Facebook, scriveva: “Italia, non sei il mio Paese dove nacqui quando la Resistenza dei miei Padri versava il proprio sangue perchè ne sgorgassero Libertà e Democrazia che cancellassero la tirannide. Italia, non sei il mio Paese se si assassina Stefano Cucchi e sono necessari 9 anni perchè emerga la verità, quella che la buona opinione pubblica già sentiva nelle proprie sensibilità anche se le istituzioni tutrici di cattivi carabinieri ne tappavano bocca e anima. Italia, non sei il mio Paese, antica terra di Diritto, ora addormentata dai poteri, e risvegliata da una sorella sola e fragile, ma ostinata e gonfia di coraggio. Italia, non sei il mio Paese, se trae forza dalla presa di coscienza di un carabiniere che ha vissuto quell’ignominia subendo anni e anni, frazionati in mesi, settimane, giorni, ore minuti, secondi, schiacciato da minacce di colleghi e superiori per trarre da ogni sua cellula la forza perchè riuscisse a far sgorgare la voglia di verità. Italia, non sei il mio Paese se da una qualunque parte dell’Universo Martin Luther King piange il nero gambiano, schiavizzato nel foggiano, ammanettato ad una ruota d’auto dei militi. Anch’io ho pianto. Italia, non sei il mio Paese!“

Ovunque tu sia caro Federico, ti ho voluto bene come ti hanno voluto benne tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerti, di frequentarti e di poter godere della tua sincera e disinteressata amicizia. Un giorno ci incontreremo e potrò rivedere quel sorriso sornione, ma sempre gentile ed educato che ti contraddistingueva. E che non dimenticherò mai. Ciao Federico, mi mancherai.

·         CSM: Nessuno vuole Bari.

Nuovo allarme del Csm: «Nessun magistrato vuole andare a Bari e Foggia». Ed è fuga dai tribunali della Calabria, scrive il 13 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Ci sono sedi giudiziarie «dove nessun magistrato vuole trasferirsi», come «i tribunali di Bari e Foggia», e «sedi dalle quali tutti fuggono (la Calabria fra tutte). Un problema serio del quale il Csm ed il ministro si devono fare carico». E’ il consigliere del Csm Ciccio Zaccaro, a nome dell’intero gruppo di Area, a sollevare la questione al plenum di Palazzo dei marescialli. E a chiedere perciò di "ripensare complessivamente insieme al ministro della Giustizia la materia degli incentivi». Il problema non riguarda solo i tribunali di Bari, Foggia, Reggio Calabria e Catanzaro, ma anche quelli di Messina, Caltanissetta e Napoli Nord (Aversa). E non è una questione che investe solo il Sud: c'è carenza di domande di trasferimento anche per gli uffici giudicanti del Veneto e del distretto di Brescia. E se è certo questo nodo andrà posto al ministro nel tavolo tecnico sulla distribuzione dei posti risultanti dall’aumento delle piante organiche negli uffici giudiziari, non si può non considerare che «gli effetti benefici dell’aumento delle piante organiche si avranno solo fra qualche anno quando sarà completato il piano di assunzioni ed i posti in più in pianta organica saranno realmente completati. Dunque non potranno risolvere le gravi scoperture di organico di oggi». Per questo, ha detto Zaccaro, occorre ripensare gli incentivi, oggi previsti che per chi accetta le “sedi disagiate”: «invece di incentivare i colleghi ad andare nei posti meno ambiti, si deve pensare a vantaggi per chi rimane nelle sedi poco ambite o comunque favorire la migrazione dai posti dove si sta bene a posti dove si sta male».

·         Arrestato Giancaspro ex presidente del Bari Calcio e la sua "cricca".

Arrestato Giancaspro ex presidente del Bari Calcio e la sua "cricca". Il Corriere del Giorno il 18 Maggio 2019. Accuse riciclaggio, peculato e abuso ufficio. L’indagine costituisce uno stralcio dell’inchiesta sul crac dell’azienda Ciccolella di Molfetta. Dalle prime luci dell’alba, i Finanzieri del Nucleo di Polizia Economico -Finanziaria del Comando Provinciale di Bari stanno eseguendo misure cautelari e perquisizioni delegate coordinate dal pm dr.ssa Silvia Curione dalla Procura della Repubblica di Trani nei confronti degli aderenti ad un sodalizio finalizzato alla commissione di vari e gravi reati contro il patrimonio e la Pubblica Amministrazione, costituito da cinque soggetti, colpiti da misure cautelari personali, emesse dal G.I.P. presso il locale Tribunale (una in carcere e le altre agli arresti domiciliari). L’indagine costituisce uno stralcio dell’inchiesta sul crac dell’azienda Ciccolella di Molfetta.  Disposto anche il sequestro preventivo di circa 350mila euro nei confronti degli arrestati e del sindaco di Trani Amedeo Bottaro esponente del Partito Democratico.  Dalle articolate, prolungate e mirate indagini del Gruppo Tutela Spesa Pubblica, articolazione specializzata nel contrasto degli illeciti nella Pubblica Amministrazione e di ogni forma di corruzione, è “emersa l’esistenza di un comitato di affari illeciti, gestito dall’indagato Giancaspro, finalizzati all’ottenimento di appalti pubblici della città di Trani, mediante una strumentale e occulta sponsorizzazione della locale squadra di calcio, la ASD Vigor Trani, realizzata con liquidità provenienti da distrazioni presso altre società riconducibili al gruppo societario di riferimento, tra cui la football club Bari 1908 S.p.A“. Nelle imputazioni si legge che 77 mila euro sarebbero stati sottratti dalla “cassa parcheggi” del Bari Calcio e dai conti correnti della società sportiva barese per finire poi nelle disponibilità della ASD Vigor Trani Calcio per consentire all’allora presidente del Bari, Cosmo Damiano Giancasprocome si legge nelle imputazioni, di “ottenere occasioni di illecito profitto nella città di Trani, come l’affidamento temporaneo della gestione dello stadio comunale a condizioni di favore, la creazione di una newco a partecipazione mista, pubblico-privata, che si sarebbe occupata della commercializzazione dell’energia elettrica e del gas, un progetto di efficientamento energetico della città, l’organizzazione di eventi nell’ambito dell’estate tranese, mediante collusione con pubblici ufficiali compiacenti e predisposizione di bandi di gara su misura”. Secondo la Guardia di Finanza Giancaspro e i suoi sodali, oltre al denaro degli incassi dei parcheggi nelle partite casalinghe della FC Bari,  avrebbero autoriciclato e riciclato nella Vigor Trani Calcio delle somme prelevate senza giustificazione da diverse società riconducibili al ‘Gruppo Giancaspro (Football Club Bari 1908 Spa, Albicocco Srl, Apulia Re Srl, Kreare Impresa srl, Stella Power srl ). Dagli atti si evince che era Giancaspro di fatto a gestire la società sportiva tranese , il quale “decideva quando e a quali calciatori o componenti dello staff dovessero essere pagati gli stipendi, stabilendo anche le modalità di pagamento” e “decideva di cambiare i vertici della società individuando i ruoli gestionali sulla scorta di precise strategie“. Le indagini hanno svelato anche il progetto di “acquisire la squadra molfettese del Borgorosso, con l’intento di intavolare affari anche con il Comune di Molfetta“. I reati contestati al sindaco Bottaroed ai funzionari comunali riguardano la modifica delle condizioni di affidamento dello stadio comunale alla Vigor Trani, per esempio, prevedendo  a carico del Comune e non del concessionario gli interventi di manutenzione , stabilendo un rimborso spese fittizio di 46 mila euro alla società sportiva, che  costituiva in realtà, secondo gli inquirenti, la restituzione delle somme investite dai soci di Giancaspro. Il gip di Trani dr.ssa Lucia Anna Altamura nell’ordinanza di arresto, sostiene che il sindaco di Trani, Amedeo Bottaro, “per ragioni di carattere evidentemente di consenso politico, era giunto a consegnare all’entourage di Giancaspro le chiavi della città”  in cambio della garanzia “di massima disponibilità” da parte del sindaco, che avrebbe concesso ai “sodali” di Giancaspro “una sorta di delega in bianco nella predisposizione di bandi ritagliati su misura per l’imprenditore“. Infatti il Gip evidenzia che “il rilancio delle squadre dilettantistiche, sostenuto finanziariamente da Giancaspro, si era dimostrato soltanto la chiave di accesso nelle amministrazioni locali”. La gip dr.ssa Altamura scrive che Bottaro “con tali scelte operative dimostrava l’asservimento, proprio e soprattutto dell’interesse pubblico del Comune di cui era primo cittadino, agli interessi economici della compagine capeggiata da Giancaspro“. ed il “ritorno” per Bottaro sarebbe stato, secondo gli inquirenti, che “scongiurato il fallimento della squadra di calcio tranese, venisse riportata in auge la gestione dell’amministrazione comunale in carica“. Cosmo Antonio Giancaspro, ex presidente del Bari Calcio,  si trova già agli arresti domiciliari nell’ambito di un altro procedimento penale radicato presso la Procura della Repubblica di Bari, finalizzato all’ottenimento di appalti pubblici nella città di Trani, in cambio di una strumentale e occulta sponsorizzazione della locale squadra di calcio (A.S.D. Vigor Trani), realizzata con liquidità provenienti da distrazioni ai danni di altre società riconducibili al gruppo societario del medesimo Giancaspro, tra cui la fallita Football Club Bari 1908 S.p.A. In tale contesto sono state configurate gravi responsabilità penali in capo al sindaco della città pugliese, Amedeo Bottaro, il cui ufficio è stato sottoposto ad una perquisizione locale, ed ha subito un sequestro di beni del valore di circa 46 mila euro. Bottaro infatti avrebbe “favorito Giancaspro nell’affidamento di appalti di opere e servizi in seno al Comune di Trani, quale contropartita dell’intervento finanziario, in forma occulta, a vantaggio della Vigor Trani mediante l’utilizzo di prestanome“. che sono Michele Amato, Michele Bellomo ed Emanuele Mosconi, sottoposti alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Tratto in arresto, per i medesimi fatti, anche Alberto Altieri, già vicepresidente dell’A.S.D. Vigor Trani Calcio. Agli indagati sono contestati, a vario titolo, i reati di “associazione per delinquere“, “bancarotta fraudolenta“, “autoriciclaggio“, “appropriazione indebita“, “riciclaggio“, “peculato“, “falso e abuso d’ufficio”. I fatti contestati risalgono al periodo settembre 2016-luglio 2018.  Gli indagati in totale sono dieci. Oltre ai cinque arrestati e al sindaco Bottaro, compaiono Leonardo Cuocci Martorano dirigente dell’Area Affari Generali e Istituzionali del Comune di Trani , Carlo Casalino segretario generale del Comune di Trani , Diego Di Tondo consigliere comunale del Pd  e l’istruttore amministrativo Pasquale Ferrante. Il pm Silvia Curione titolare del fascicolo d’indagine ha spiegato in conferenza stampa che “i  primi contatti da parte del Comune di Trani con il gruppo di Giancaspro sono iniziati a settembre 2016. Il gruppo pretese un segno tangibile da parte del sindaco che fu rappresentato in quel momento storico dalla gestione dello stadio comunale, attraverso alcuni funzionari pubblici che risultano indagati. Venne revocato il vecchio affidamento alla società di calcio Trani, si da un affidamento temporaneo senza gara algruppo Giancaspro alle loro condizioni e si elabora il bando per un affidamento definitivo. Emerge che il sindaco Bottaro dà disposizione agli uomini di Giancaspro di predisporre il bando, loro stessi diranno “a nostra immagine e somiglianza” sulla scorta della presunta incapacità dei dipendenti del Comune a occuparsi di questa questione. Bando che noi poi abbiamo trovato in sede di perquisizione“, ha sottolineato il pm. “Sì liquidano come fossero state spese sostenute dalla squadra – aggiunto la pm Curione – quelli che in realtà sono veri e propri rimborsi ai finanziatori. Sia Giancaspro attraverso le sue società come la Fc Bari, sia altri, hanno finanziato la Vigor Trani in ossequio a questo accordo con Bottaro. C’è dunque questa delibera di giunta che costituisce un vero e proprio peculato. C’erano molti progetti di ben altro valore economico che non hanno trovato attuazione, verosimilmente anche per via dell’arresto di Giancaspro nel procedimento barese. I soldi nel Trani sono arrivati anche attraverso finti contratti di compravendita che servivano a spostare soldi dalle società di Giancaspro. Circa 80.000 euro vengono dal Bari Calcio, dai soldi dei parcheggi dello stadio che venivano distratti in contanti“. Il gruppo di Giancaspro e dei suoi sodali pealtro stava costituendo una società mista tra pubblico e privato per la gestione di una serie di affari, tra cui la vendita di energia elettrica e la gestione della Lampara di Trani. In conferenza stampa il procuratore capo di Trani Antonino Di Maioha affermato che  “Se la Procura di Bari non fosse intervenuta su Giancaspro, probabilmente questa operazione a Trani sarebbe stata portata a termine. “Una indagine del genere richiedono una grande competenza da parte degli investigatori che devono leggere decine e decine di provvedimenti amministrativi estremamente complessi” ha dichiarato  il colonnello Pierluca Cassano, comandante del Nucleo Pef della Finanza di Bari.  Il  comandante provinciale della Guardia di Finanza di Bari , Gen. Nicola Altiero ha aggiunto che “I più performanti sistemi anticorruzione -naufragano quando gli autori delle condotte sono le stesse persone che dovrebbero vigilare“. “Dare “le chiavi della città”, parole testuali, ad una associazione per delinquere come è stata riconosciuta dal gip non ci stupisce ma ci indigna. Se i controllori non controllano, non se ne esce. Sono in corso le perquisizioni in tre uffici del Comune” ha concluso il colonnello Giacomo Ricchitelli, comandante del Nucleo tutela spesa pubblica. 

Bancarotta, in cella ex patron del Bari. Indagato anche sindaco di Trani. Nel Trani soldi parcheggi del San Nicola. Altre 4 persone ai domiciliari per reati contro la pubblica amministrazione, tra loro Alberto Altieri, vicepresidente dell'ASD Vigor Trani Calcio, Michele Amato e Emanuele Mosconi. Indagate 10 persone. La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Maggio 2019. La Guardia di Finanza di Bari ha arrestato l’imprenditore Cosmo Damiano Giancaspro, ex patron del Bari Calcio, e altre quattro persone, ritenute suoi prestanome, per i reati, a vario titolo contestati contro il patrimonio e la Pubblica Amministrazione, bancarotta, riciclaggio, auto-riciclaggio, peculato e abuso d’ufficio in concorso con pubblici ufficiali. L’indagine, coordinata dalla Procura di Trani, costituisce uno stralcio dell’inchiesta sul crac dell’azienda Ciccolella di Molfetta. Giancaspro è in carcere, gli altri sono ai arresti domiciliari. Tra gli indagati in stato di libertà per i reati di peculato, falso e abuso d’ufficio c'è anche il sindaco di Trani, Amedeo Bottaro che ha subito un sequestro di beni del valore di circa 46 mila euro. Oltre Giancaspro, anche lui destinatario di un sequestro di beni per 300 mila euro, sono stati arrestati (ai domiciliari) l’ex vicepresidente del Trani Calcio, Alberto Altieri, Michele Bellomo, Michele Amato, Emanuele Mosconi, tutti ritenuti prestanome di Giancaspro. In totale gli indagati sono dieci. Oltre ai cinque arrestati e al sindaco Bottaro, ci sono il dirigente dell’Area Affari Generali e Istituzionali del Comune di Trani Leonardo Cuocci Martorano, il segretario generale del Comune di Trani Carlo Casalino, l'istruttore amministrativo Pasquale Ferrante, il consigliere comunale Diego Di Tondo. Nell’inchiesta della Procura di Trani, Giancaspro che era già ai domiciliari, è indagato nella sua qualità di amministratore di alcune società attraverso le quali avrebbe cercato di entrare in affari con la pubblica amministrazione. Dalle indagini della Guardia di Finanza di Bari, coordinate dal pm di Trani Silvia Curione, è «emersa l’esistenza di un comitato di affari illeciti, gestito dall’indagato Giancaspro, - spiegano gli investigatori - finalizzati all’ottenimento di appalti pubblici della città di Trani, mediante una strumentale e occulta sponsorizzazione della locale squadra di calcio, la ASD Vigor Trani, realizzata con liquidità provenienti da distrazioni presso altre società riconducibili al gruppo societario di riferimento, tra cui la football club Bari 1908 S.p.A.». Agli indagati sono contestati, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere, bancarotta fraudolenta, autoriciclaggio, appropriazione indebita, riciclaggio, peculato, falso e abuso d’ufficio. I fatti contestati risalgono al periodo settembre 2016-luglio 2018. Il sindaco Bottaro, indagato in stato di libertà e destinatario di sequestro e perquisizione presso gli uffici comunali, avrebbe "favorito Giancaspro nell’affidamento di appalti di opere e servizi in seno al Comune di Trani, quale contropartita dell’intervento finanziario, in forma occulta, a vantaggio della Vigor Trani mediante l’utilizzo di prestanome».

LE PAROLE DEL SINDACO BOTTARO - «Sono molto dispiaciuto ma serenissimo come tutte le persone perbene. Mi sono interessato delle sorti della società del Trani così come avrebbe fatto qualsiasi sindaco mosso dall’amore verso la squadra di calcio della sua città ma senza mai compiere illegittimità di qualsiasi natura. Lasciamo lavorare i magistrati. Ai cittadini dico di aver fiducia nel loro sindaco». Lo scrive su Facebook il sindaco di Trani, Amedeo Bottaro, indagato dalla magistratura tranese per i reati di peculato, falso e abuso d’ufficio, nell’inchiesta che oggi ha portato all’arresto dell’ex patron del Bari Calcio, Cosmo Damiano Giancaspro (in carcere) e di altre quattro persone (ai domiciliari), tra le quali gli ex dirigenti della Vigor Trani Calcio, il presidente Michele Amato, il vicepresidente Alberto Altieri e il tesoriere Michele Bellomo. Il sindaco di Trani, Amedeo Bottaro, «per ragioni di carattere evidentemente di consenso politico, era giunto a consegnare all’entourage di Giancaspro le chiavi della città». È uno dei passaggi evidenziati dal gip di Trani Lucia Anna Altamura nell’ordinanza di arresto che ha portato oggi in carcere l’ex patron del Bari Calcio, Cosmo Antonio Giancaspro, e ai domiciliari altre quattro persone, ex dirigenti della Vigor Trani Calcio, nell’ambito di una inchiesta nella quale è indagato lo stesso Bottaro su presunti finanziamenti occulti alla squadra tranese in cambio della garanzia «di massima disponibilità» da parte del sindaco, il quale avrebbe dato ai sodali di Giancaspro «una sorta di delega in bianco nella predisposizione di bandi ritagliati su misura per l'imprenditore». Per il giudice, infatti, «il rilancio delle squadre dilettantistiche, sostenuto finanziariamente da Giancaspro, si era dimostrato soltanto la chiave di accesso nelle amministrazioni locali». Bottaro «con tali scelte operative - scrive il gip - dimostrava l’asservimento, proprio e soprattutto dell’interesse pubblico del Comune di cui era primo cittadino, agli interessi economici della compagine capeggiata da Giancaspro». Il «ritorno» per Bottaro sarebbe stato, secondo gli inquirenti, che «scongiurato il fallimento della squadra di calcio tranese», venisse «riportata in auge la gestione dell’amministrazione comunale in carica».

CRAC BARI CALCIO PER LA GESTIONE DELLO STADIO DI TRANI - Circa 77 mila euro sottratti dalla cassa parcheggi del Bari Calcio e dai conti correnti della società sportiva barese sarebbero finiti nelle casse della ASD Vigor Trani Calcio per consentire all’allora patron del Bari, Cosmo Damiano Giancaspro, di «ottenere occasioni di illecito profitto nella città di Trani, - si legge nelle imputazioni - come l’affidamento temporaneo della gestione dello stadio comunale a condizioni di favore, la creazione di una newco a partecipazione mista, pubblico-privata, che si sarebbe occupata della commercializzazione dell’energia elettrica e del gas, un progetto di efficientamento energetico della città, l'organizzazione di eventi nell’ambito dell’estate tranese, mediante collusione con pubblici ufficiali compiacenti e predisposizione di bandi di gara su misura». Oltre al denaro degli incassi dei parcheggi nelle partite casalinghe della FC Bari, Giancaspro e i suoi presunti sodali avrebbero autoriciclato e riciclato nella Vigor Trani Calcio somme sottratte a diverse società riconducibili al 'Gruppo Giancasprò (Football Club Bari 1908 Spa, Albicocco Srl, Apulia Re Srl, Kreare Impresa srl, Stella Power srl). Dagli atti emerge che a gestire la società sportiva tranese era di fatto Giancaspro, il quale «decideva quando e a quali calciatori o componenti dello staff dovessero essere pagati gli stipendi, stabilendo anche le modalità di pagamento» e «decideva di cambiare i vertici della società individuando i ruoli gestionali sulla scorta di precise strategie». Le indagini hanno rivelato anche il progetto di «acquisire la squadra molfettese del Borgorosso, con l’intento di intavolare affari anche con il Comune di Molfetta». I reati contestati al sindaco Bottaro e ai funzionari comunali riguardano la modifica delle condizioni di affidamento dello stadio comunale alla Vigor Trani, prevedendo, per esempio, gli interventi di manutenzione a carico del Comune e non del concessionario, e stabilendo un fittizio rimborso spese di 46 mila euro alla società sportiva, che in realtà costituiva - secondo gli inquirenti - la restituzione delle somme investite dai soci di Giancaspro. Secondo quanto si apprende il gruppo stava costituendo una società mista tra pubblico e privato per la gestione di una serie di affari, tra cui la vendita di energia elettrica e la gestione della Lampara di Trani. Per il procuratore di Trani Antonino Di Maio: «Se la Procura di Bari non fosse intervenuta su Giancaspro, probabilmente questa operazione a Trani sarebbe stata portata a termine». «Una indagine del genere - ha detto il colonnello Pierluca Cassano, comandante del Nucleo Pef della Finanza di Bari - richiedono una grande competenza da parte degli investigatori che devono leggere decine e decine di provvedimenti amministrativi estremamente complessi». «I più performanti sistemi anticorruzione - aggiunge il comandante provinciale della Finanza, Nicola Altiero - naufragano quando gli autori delle condotte sono le stesse persone che dovrebbero vigilare». «Dare “le chiavi della città”, parole testuali, ad una associazione per delinquere come è stata riconosciuta dal gip - dice il colonnello Giacomo Ricchitelli, comandante del Nucleo tutela spesa pubblica - non ci stupisce ma ci indigna. Se i controllori non controllano, non se ne esce. Sono in corso le perquisizioni in tre uffici del Comune».

LE PAROLE DEL PM IN CONFERENZA STAMPA - Il pm Curione ha poi aggiunto in conferenza stampa: «I primi contatti da parte del Comune di Trani con il gruppo di Giancaspro sono iniziati a settembre 2016. Il gruppo pretese un segno tangibile da parte del sindaco che fu rappresentato in quel momento storico dalla gestione dello stadio comunale, attraverso alcuni funzionari pubblici che risultano indagati. Venne revocato il vecchio affidamento alla società di calcio Trani, si da un affidamento temporaneo senza gara al gruppo Giancaspro alle loro condizioni e si elabora il bando per un affidamento definitivo. Emerge che il sindaco Bottaro dà disposizione agli uomini di Giancaspro di predisporre il bando, loro stessi diranno "a nostra immagine e somiglianza"» sulla scorta della presunta incapacità dei dipendenti del Comune a occuparsi di questa questione. Bando che noi poi abbiamo trovato in sede di perquisizione», ha sottolineato il pm. «Sì liquidano come fossero state spese sostenute dalla squadra quelli che in realtà sono veri e propri rimborsi ai finanziatori. Sia Giancaspro attraverso le sue società come la Fc Bari, sia altri, hanno finanziato la Vigor Trani in ossequio a questo accordo con Bottaro. C’è dunque questa delibera di giunta che costituisce un vero e proprio peculato». «C’erano molti progetti di ben altro valore economico che non hanno trovato attuazione, verosimilmente anche per via dell’arresto di Giancaspro nel procedimento barese. I soldi nel Trani sono arrivati anche attraverso finti contratti di compravendita che servivano a spostare soldi dalle società di Giancaspro. Circa 80.000 euro vengono dal Bari Calcio, dai soldi dei parcheggi dello stadio che venivano distratti in contanti».

·         Bari, sesso e soldi per superare esami.

Bari, sesso e soldi per superare esami: chiesto processo per prof. Richieste e minacce a studentesse da docente Università di Bari, scrive il 9 Aprile 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. La Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per il docente universitario barese 46enne Fabrizio Volpe per i reati di concussione, tentata concussione, violenza sessuale aggravata e tentata violenza sessuale nei confronti di due studentesse. I fatti contestati risalgono agli anni 2011-2015. Il docente avrebbe chiesto, minacciando le presunte vittime, prestazioni sessuali e, ad una delle due, anche denaro per superare gli esami. Stando alle indagini del pm Marco D’Agostino, il professore, titolare della cattedra di Diritto civile del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari, avrebbe costretto, secondo quanto sostiene la Procura, «in più occasioni», tra maggio 2014 e gennaio 2015, una studentessa 23enne a subire atti sessuali nel suo studio professionale privato e poi, dopo averle chiesto «espressamente di avere rapporti sessuali altrimenti non avrebbe di fatto potuto continuare gli studi», e aver ottenuto il diniego della ragazza, si sarebbe fatto promettere la somma di 500 euro ad esame. Per superare quello di Diritto civile, "dopo aver tentato nuovamente di abusare sessualmente della ragazza», si sarebbe fatto consegnare 1.000 euro in contanti. Le concussioni contestate sarebbero avvenute «sotto la esplicita minaccia - si legge nell’imputazione - di impedirle la prosecuzione degli studi universitari o comunque di frapporre ostacoli al suo corretto svolgimento, in quanto persona influente in ambito universitario, in grado di condizionare in positivo e in negativo, grazie alla sua posizione accademica e alle conoscenze dirette con diversi altri docenti, il buon esito degli ulteriori esami che la ragazza avrebbe sostenuto». Tre anni prima, nel 2011, quando Volpe era titolare della cattedra di Diritto privato della facoltà di Giurisprudenza dello stesso Ateneo, avrebbe tentato di ottenere prestazioni sessuali da un’altra studentessa «sotto la minaccia implicita di subire conseguenze negative durante l’imminente esame di istituzioni di diritto privato». La ragazza, all’epoca 20enne al primo anno di Giurisprudenza, si sarebbe rifiutata di concedergli prestazioni sessuali e nell’appello di maggio supervisionato da Volpe fu bocciata (poi promossa due mesi dopo con un altro docente).

·         Michele Emiliano sotto accusa.

Regione Puglia: indagati per corruzione Emiliano e l'assessore Ruggeri per una nomina all’Asp. Il Corriere del Giorno il 16 Ottobre 2019. Inchiesta condotta dal dr. Marco Gambardella, sostituto procuratore della Procura di Foggia all’esito di inda­gini condotte dalla Guardia di finanza di Bari. sull’assessore al welfare Ruggieri , vedrebbero indagato anche il Governatore pugliese Michele Emiliano. Ruggieri è il quarto assessore della Giunta Emiliano indagato dalla magistratura. Ancora una volta un assessore della giunta regionale pugliese guidata da Michele Emiliano viene indagato dalla magistratura. E’ ormai un’impalpabile ricordo l’audizione disciplinare dinnanzi al Csm in cui Emiliano si vantava e millantava di non aver mai avuto nelle sue giunte degli assessori indagati, affermazione smentita subito dopo per ironia della sorte dai procedimenti penali che ha visto coinvolti tre assessori, tutti del Pd: Gianni Giannini, Filippo Caracciolo e Michele Mazzarano (attualmente a processo). Ed ora è arrivato anche il quarto con le indagini a carico dell’ assessore Salvatore Ruggeri, nominato in quota Udc, avviate dal sostituto procuratore di Foggia Marco Gambardella, all’esito di inda­gini condotte dalla Guardia di Finanza di Bari. Ieri mattina Ruggeri assessore al Welfare della Regione Puglia è stato raggiunto da un’ elezione di domicilio, con il quale la Procura di Foggia ha iscritto nel registro degli indagati imputando a suo carico il reato di corruzione. La vicenda è relativa alla procedura di nomina del commissario dell’ Asp-Azienda per i Servizi alla Persona “Castriota e Corropoli” di Chieuti (Foggia). Le Asp sono state istituite per legge regionale per sostituire le funzioni delle Ipab, istituti per l’assistenza e beneficenza, che avevano preso il posto a loro volta di precedenti enti come le Opere Pie. “Ho piena fiducia nella magistratura a cui  sono certo di potere illustrare ogni passaggio di un procedimento rientrante completamente nelle prerogative della politica. – commenta Ruggeri – Procedimento che, tra l’altro, non si è mai concluso, perché la nomina non è mai stata fatta“. L’assessore ha reso noto di aver chiesto di essere ascoltato dai magistrati per chiarire la propria posizione. La vicenda per quanto è stato possibile ricostruire in Regione, si sviluppa tra gennaio e febbraio, è conseguente alla decadenza del consiglio di amministrazione dell’Asp di Chieuti, ente controllato dalla Regione Puglia, che dispose la nomina di un commissario, una nomina “intuitu personae”, che avviene quindi senza alcuna procedura di evidenza pubblica, basandosi esclusivamente su un rapporto fiduciario, ragione per la quale perché Ruggeri sostiene che il procedimento riguarda le prerogative della politica. Nonostante l’incarico di commissario è privo di alcun compenso economico, per i servizi erogati dall’Asp, è molto ambito dalle forze politiche in virtù del consenso, o meglio delle clientele, che ne derivano. Due politici foggiani (padre e figlio) pretendevano che il commissario da nominare fosse espresso dell’Udc e quindi hanno proposto per la nomina , un avvocato che collabora con il gruppo dei Popolari/Udc in Consiglio regionale. Tale richiesta viene opposta dai rappresentanti foggiani del Pd in consiglio regionale che volevano far nominare una persona di area “dem”. Conseguentemente l’istruttoria preparata dagli uffici competenti viene trasmessa al governatore Emiliano per la firma il del decreto di nomina . Inutilmente . Infatti Michele Emiliano a conoscenza della contesa in essere tra Udc e Pd foggiano, ha cercato di evitare ogni frizione politica a pochi mesi dalle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale pugliese. La nomina quindi non è stata fatta e l’Asp di Chieuti è in attesa della nomina di un commissario. In serata il presidente della Regione Puglia ha reso noto su Facebook di aver appreso di essere anche lui indagato nell’inchiesta della Procura di Foggia relativa alla nomina del commissario di una Asp, nell’ambito della quale la magistratura dauna ha notificato ieri un invito a comparire all’assessore regionale al Welfare Salvatore Ruggeri, spiegando di aver “appreso da Ruggeri di essere anche io – scrive – sottoposto ad indagini preliminari”. “L’accusa – scrive  Emiliano – consiste nell’avere ricevuto indicazioni politiche da un consigliere regionale per nominare commissario di una Asp una determinata persona. E ció, nonostante io abbia ritenuto di non accogliere tale indicazione formulatami sin dal febbraio 2019, tanto che nessuna nomina è stata effettuata sino ad oggi. Non ho accolto l’indicazione nominativa ricevuta, avendola ritenuta non pienamente soddisfacente alla luce delle mie prerogative discrezionali. Rispondo dunque per una nomina mai effettuata”. Il governatore pugliese Emiliano come al solito quando accadano vicende del genere, che vedono la presenza incombente della magistratura, ha evitato di commentare le motivazioni sull’iscrizione nel registro degli indagati del suo assessore Ruggieri, nonostante nei casi precedenti che hanno visto assessori della sua giunta indagati ha sempre preteso le dimissioni dalla Giunta dall’interessato in questione . A questo punto il quesito che circola in Regione è il seguente: l’assessore Ruggieri si dimetterà? In molti nutrono più di qualche dubbio, le elezioni si avvicinano…avranno ragione ?

Puglia. Inchiesta sulla sanità, arrestati il consigliere regionale Cera e suo padre ex parlamentare. Il Corriere del Giorno il 17 Ottobre 2019. L’ipotesi accusatoria del pm Marco Gambardella con l’aggiunto Antonio Laronga della Procura di Foggia è conseguente alle intercettazioni telefoniche effettuate dalla Guardia di Finanza sull’utenza telefonica del consigliere regionale Cera, esponente dell’Udc, come l’ assessore regionale Salvatore Ruggeri. Altro che politica, questo è un monnezzaio ! Arresti domiciliari per il consigliere regionale Napoleone Cera, 39 anni, e per il padre Angelo Cera, 67 anni, ex parlamentare, entrambi di Foggia, accusati di concussione. L’ordinanza di misure di custodia cautelare emessa dal gip Carmen Corvino del Tribunale di Foggia a seguito del provvedimento chiesto dal pm Marco Gambardella della Procura di Foggia,  è stata disposta nell’ambito della stessa inchiesta in cui risultano indagati il governatore della Regione Puglia Michele Emiliano e l’assessore al Welfare Salvatore Ruggeri. Gli arresti sono stati eseguiti questa mattina dalla Guardia di Finanza. del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Bari e della Compagnia di San Severo. Nel fascicolo d’indagine si fa riferimento a delle vicende collegate alla sanità foggiana. Il coinvolgimento di Emiliano e Ruggeri è relativo solo alla mancata nomina del commissario della Asp “Castriota e Corropoli” di Chieuti, in provincia di Foggia. E’ stato lo stesso Emiliano, ieri, subito dopo il suo assessore 24 ore prima, a rendere noto via Facebook il proprio coinvolgimento nell’indagine. L’ assessore Ruggeri convocato in Procura si è avvalso della facoltà di non rispondere, riservandosi la possibilità di chiarire i dettagli della vicenda nei prossimi giorni. Nasce da qui la connessione con l’inchiesta “madre”, che ha portato oggi agli arresti domiciliari per Angelo Cera (padre) e Napoleone Cera (figlio). Sulla base di quanto è trapelato vi sarebbero anche altre persone indagate. L’ipotesi accusatoria del pm Marco Gambardella con l’aggiunto Antonio Laronga è relativa alla non avvenuta nomina del commissario della Asp “Castriota e Corropoli” di Chieuti, conseguente alle dimissione del CdA della società di servizi alla persona che controlla tre strutture assistenziali della zona garganica nel Foggiano, ed è conseguente alle intercettazioni telefoniche in possesso della Procura di Foggia effettuate sull’utenza telefonica del consigliere regionale Cera, esponente dell’Udc, come l’ assessore regionale Salvatore Ruggeri. A seguito delle dimissioni del cda della Asp “Castriota e Corropoli”, la Regione Puglia nello scorso febbraio, secondo quanto previsto dalla legge 15/2004 avrebbe dovuto nominare un commissario alla Asp per il periodo di sei mesi. Ed è a questo punto che Emiliano avrebbe invitato il consigliere regionale dell’ Udc Napoleone Cera ad attivarsi elettoralmente per consentire la riconferma di Francesco Miglio a sindaco di San Severo. Un impegno “politico” a fronte del quale vi sarebbe stata la richiesta come contropartita da parte di Cera, di nominare l’ avvocato Cosimo Titta, un “fedelissimo” del consigliere regionale foggiano, del quale è “collaboratore” nel gruppo Udc alla Regione Puglia, a commissario della Asp . Nomina che, peraltro, non è mai stata perfezionata perché Emiliano per ragioni che dovrà spiegare alla magistratura non ha mai firmato il relativo decreto. L’assessore Salvatore Ruggeri, titolare della delega assessorile al Welfare, di fatto è il responsabile dell’istruttoria dopo la quale viene firmato il decreto di nomina del Presidente della Giunta Regionale. La Procura di Foggia evidentemente considera evidentemente Ruggeri parte in causa dell’accordo, anche perché l’ assessore in realtà avrebbe voluto nominare come commissario, Eusebio Ferraro, commercialista salentino ad egli legato. La versione dei fatti divulgata ieri dal governatore Emiliano, secondo cui era libero di “proporre alla giunta qualunque nominativo, senza limiti di qualificazione professionale e senza necessità di procedure ad evidenza pubblica non previste da nessuna legge nazionale o regionale per l’incarico di commissario” ha dunque una sua logica politica, che non esclude però che queste nomina sia di fatto la conseguenza di un voto di scambio, non a caso la Procura di Foggia ritiene evidentemente con le sue iniziative giudiziarie, che queste nomine siano la conseguenza di accordi illeciti e quindi fuorilegge. I dettagli saranno forniti più tardi nel corso di una conferenza stampa che si terrà presso la Procura di Foggia.

Appalti e favori in Regione, in arresto Cera e suo padre: martedì l'interrogatorio. La difesa assicura: col gip chiariranno tutto. Da pm frase un pò populista. La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Ottobre 2019. Saranno interrogati dal gip del Tribunale di Foggia Armando dello Iacovo il 22 ottobre (ore 14:30) l’ex parlamentare dell’UDC Angelo Cera e il figlio Napoleone, consigliere regionale dei Popolari, da ieri agli arresti domiciliari per tentata concussione. I due esponenti politici - secondo l’accusa - hanno esercitato pressioni sui vertici del Consorzio di Bonifica di Capitanata affinché assumessero due persone, nonostante l’ente non avesse la necessità di ricoprire ulteriori posizioni lavorative. «Risponderanno sicuramente alle domande del giudice. Sono determinati a chiarire le loro posizioni e a far emergere i fatti come sono andati realmente», ha detto l’avvocato foggiano Michele Curtotti che difende i Cera, insieme ai colleghi Francesco Paolo Sisto e Rolando Sepe. In merito all’accusa di tentata concussione Curtotti spiega che «su questa accusa sia Angelo Cera che il figlio Napoleone potranno chiarire quali sono state le valutazioni fatte e che si tratta di scelte essenzialmente politiche». Curtotti è anche intervenuto sulle dichiarazioni rilasciate nel corso della conferenza dal procuratore aggiunto Antonio Laronga che ha parlato di «attività clientelare spaventosa» gestita dai due Cera. «Questa è una affermazione che suona un pò populista. Ritengo - conclude il legale - che chiunque eserciti attività politica debba avere contatto con il proprio territorio e con i propri elettori».

LA STOCCATA AD EMILIANO DI FdI-DIT - «Da Emiliano ci saremmo aspettati delle scuse, non una difesa d’ufficio». Lo affermano in una dichiarazione congiunta i consiglieri regionali di Fratelli d’Italia e Direzione Italia, commentando l’indagine della Procura di Foggia nella quale il governatore Michele Emiliano è indagato per concorso in corruzione e nell’ambito della quale ieri sono stati posti agli arresti domiciliari per tentata concussione l’ex deputato Udc Angelo Cera e il figlio Napoleone, consigliere regionale (Popolari). «Francamente - sottolineano i consiglieri - ci saremmo aspettati delle 'scusè alla Puglia da parte del presidente Michele Emiliano, al posto di una nota da "avvocato difensore di se stesso". Ancora una volta il suo spropositato "ego" viene prima di tutto e tutti, anche dei pugliesi». Per i consiglieri, Emiliano agirebbe come se «i suoi assessori fossero "isole" che non agiscono all’interno di un disegno politico e programmatico, ma per conto loro». «In passato, ed Emiliano se lo dovrebbe ricordare bene - aggiungono - un presidente di Regione veniva coinvolto perché bastava il "non poteva non sapere"». «E nell’inchiesta di Foggia come presidente e assessore alla Sanità - chiedono infine i consiglieri - non si è accorto di nulla di quello che avveniva al Cup della Asl di Foggia? E come presidente e assessore all’Agricoltura di tutte le manovre speculative sui Consorzi di Bonifica?». «Lui - concludono - prende atto con soddisfazione che non c'entra nulla? E allora cosa sta a fare alla guida della Giunta regionale se non sa quello che accade intorno a lui?». 

PELLEGRINO E ZINNI: TOTALE FIDUCIA IN EMILIANO - «Totale fiducia nell’operato del presidente Emiliano» viene espressa in una nota dai presidenti dei gruppi consiliari regionali La Puglia con Emiliano, Paolo Pellegrino, e di Emiliano Sindaco di Puglia, Sabino Zinni, in merito alla indagine della Procura di Foggia nella quale il governatore Michele Emiliano è indagato per concorso in corruzione e nell’ambito della quale ieri sono stati posti agli arresti domiciliari per tentata concussione l’ex deputato Udc Angelo Cera e il figlio Napoleone, consigliere regionale (Popolari). «Le dichiarazioni e l’atteggiamento leale del nostro presidente Emiliano - sottolineano Pellegrino e Zinni - ci confermano ancora una volta la sua totale correttezza, nel solco del rispetto che si deve alle istituzioni e allo Stato. E concordiamo su un aspetto: la Procura di Foggia - precisano - faccia tutte le indagini del caso per dimostrare la sua totale estraneità». «Riponiamo pari fiducia - evidenziano - sia nel lavoro dei magistrati, sia nell’operato del nostro presidente. La cui azione di governo, sin dai tempi della sua importante esperienza amministrativa nella città di Bari, è stata sempre indirizzata dalla bussola della trasparenza».

Foggia, dall'emendamento al numeretto per l'appuntamento: «Continue clientele». I dettagli dell'inchiesta che oggi ha portato all'arresto di Angelo Cera e del figlio Napoleone. La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Ottobre 2019. «Oltre ad una attività ricattatoria emerge una attività clientelare spaventosa». Lo ha detto il procuratore aggiunto del Tribunale di Foggia, Antonio Laronga, nel corso della conferenza stampa nella quale sono stati forniti dettagli sull'arresto per tentata concussione dell’ex parlamentare Udc Angelo Cera e del figlio Napoleone, consigliere regionale pugliese (Popolari). «Per entrare nel loro ufficio a San Marco in Lamis - ha spiegato Laronga - si prendevano i biglietti come nei supermercati per lo spaventoso flusso di persone che si recava da loro per chiedere favori di qualunque tipo». La Procura fa sapere che per le due contestazioni di reato, «indebita induzione a dare o promettere utilità» e «corruzione», per le quali il gip ha rigettato la richiesta di arresto, si sta valutando se presentare appello. Ed ecco l'emendamento presentato e poi ritirato che avrebbe potuto comportare la cessazione delle funzioni principali del consorzio di Bonifica di Capitanata. Sarebbe stato questo lo strumento utilizzato dall’ex parlamentare Angelo Cera e da suo figlio Napoleone, consigliere regionale, per costringere i vertici del consorzio di Bonifica ad assumere alcune persone da loro indicate nonostante l’Ente non avesse la necessità di ricoprire ulteriori posizioni lavorative. Per questa vicenda contestata dalla procura di Foggia, i due esponenti politici sono stati messi agli arresti domiciliari con l’accusa di tentata concussione. Per l’accusa, avrebbero fatto pressioni sul presidente del consorzio di bonifica, Giuseppe De Filippo, il direttore generale Santoro Francesco e sul direttore dell’Area Agraria Luigi Nardella utilizzando come minaccia l’emendamento che, scrive il gip nell’ordinanza, venne effettivamente presentato nel dicembre 2018 nella riunione della prima commissione Bilancio della Regione e subito ritirato da Napoleone Cera. Il provvedimento, ha spiegato il procuratore di Foggia Ludovico Vaccaro, «avrebbe comportato l’automatica cessazione delle funzioni principali del Consorzio, trasferite all’AQP, unitamente al personale dipendente». «Successivamente Angelo e Napoleone Cera - si legge nell’ordinanza - richiedevano nuovamente ai vertici del consorzio di assumere le persone da loro segnalare, manifestando loro espressamente come il ritiro dell’emendamento fosse stato un gesto di cortesia nei confronti del Consorzio». In una intercettazione, Napoleone dice al padre: «sto aspettando che mi vengono a trovare, perché adesso abbiamo la riforma del consorzi in consiglio regionale, se non mi vengono a trovare li faccio sparire, capito?».

Foggia, altre indagini in Regione sulla nomina fantasma: «Arrivò la Finanza e si bloccò tutto». La Procura: la delibera non fu portata in giunta perchè arrivarono i militari. Indagati anche il Governatore Emiliano e l'assessore Ruggeri. Massimiliano Scagliarini il 19 Ottobre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La delibera per la nomina del commissario della Asp di Chieuti non è mai stata iscritta all’ordine del giorno della giunta regionale. «Non ho accolto l’indicazione nominativa ricevuta avendola ritenuta non pienamente soddisfacente alla luce delle mie prerogative discrezionali», aveva spiegato Michele Emiliano mercoledì dando notizia dell’indagine a suo carico per corruzione, uno dei tre episodi su cui la Procura di Foggia ha aperto il fascicolo che il giorno seguente ha portato ai domiciliari Angelo e Napoleone Cera, padre e figlio, con l’accusa di tentata concussione per due assunzioni chieste al Consorzio di bonifica della Capitanata. Ma gli investigatori non si arrendono e vanno avanti: sia sulla nomina fantasma, sia sulle pressioni che i Cera avrebbero fatto sui vertici della Asl di Foggia per bloccare l’internalizzazione del servizio Cup salvaguardando così una società appaltatrice a loro vicina. Giovedì la Finanza è dunque tornata negli uffici della giunta regionale proprio per acquisire gli atti dell’istruttoria relativa alla designazione del commissario dell’Azienda servizi alla persona di Chieuti. «Quell’Asp la voglio io visto che non ho preso un cazzo di niente», dice al telefono Napoleone Cera il 6 marzo a una consigliera del Comune di Serracapriola. Il più giovane dei Cera voleva che l’incarico fosse affidato a un suo uomo, l’avvocato Cosimo Titta. Ma – hanno spiegato i funzionari della Regione ai militari – la delibera rimase in bozza proprio perché non c’era il via libera sul nome: la prassi vuole che l’atto arrivi in giunta regionale con uno spazio vuoto, che viene riempito durante la riunione. Dalle telefonate intercettate, però, era sembrato che la decisione potesse essere presa nella seduta del 7 marzo o in quella successiva. Tuttavia proprio in quei giorni – emerge dagli atti - la Procura di Foggia aveva mandato una prima volta i militari in Regione a chiedere informazioni sulle norme che regolano le nomine nelle Asp: forse qualcuno si insospettì e bloccò tutto. Il gip Dello Iacovo ha ritenuto insussistente l’ipotesi corruttiva, perché – scrive – non è provato che Emiliano offrì la nomina in cambio del supporto elettorale per il sindaco uscente di San Severo: il 6 marzo, nell’unica telefonata intercettata in cui con Cera parla sia della Asp sia delle imminenti elezioni comunali, Emiliano – dice il gip – «risponde due volte con un laconico “va bene”» quando il consigliere lo informa che l’assessore Ruggeri «dovrebbe portare una cosa in giunta». Poi il telefono passa ad Angelo Cera, che garantisce a Emiliano l’appoggio a Miglio: «A San Severo faccio una giravolta di 384 gradi, a Foggia avendo fatto le primarie non mi posso muovere, a San Severo faccio come dici tu». Insomma, secondo il gip, ci fu un «tentativo dei Cera di veicolare al presidente della Regione una proposta corruttiva», ma l’accordo non si sarebbe mai concretizzato. E la Procura, che sta valutando il ricorso al Riesame, vuole capire perché. Stesso discorso sulla vicenda della Asl in cui il procuratore aggiunto Antonio Laronga e il pm Marco Gambardella hanno ipotizzato l’induzione illecita da parte dei Cera per salvare l’appalto del call center del Cup affidato alla Gpi. Anche qui, il gip non ha ravvisato i gravi indizi del reato perché agli atti dell’indagine ci sono solo racconti indiretti delle presunte pressioni dei due sul dg Vito Piazzolla. E martedì, oltre all’assessore Ruggeri (che si è avvalso della facoltà di non rispondere) la Procura ha sentito l’amministratore unico della Sanitaservice di Foggia, Massimo Russo, le cui considerazioni telefoniche sulle minacce dei Cera secondo il gip «valgono tanto quanto»: l’accusa cerca dunque elementi più forti. Angelo e Napoleone Cera sono ai domiciliari nell’abitazione di San Marco in Lamis. L’interrogatorio di garanzia è in programma martedì a Foggia. Anche la difesa (avvocati Francesco Paolo Sisto, Michele Curtotti e Rolando Sepe) potrebbe rivolgersi al Riesame.

Foggia, arresto Cera: polemiche sul gip, il fratello ha avuto una nomina da Emiliano. Il giudice aveva «scagionato» il governatore circa il presunto accordo corruttivo. E il giorno degli arresti Emliano su Fb aveva detto «il fatto non sussiste». La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Ottobre 2019. Il fratello del gip foggiano Armando Dello Iacovo, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare per Angelo e Napoleone Cera, è consigliere di amministrazione della Apulia Film Commission su nomina della giunta Emiliano. L’inchiesta giudiziaria che ha scosso il mondo politico pugliese rischia dunque di innescare una polemica politica: Giovanni Dello Iacovo, giornalista, è il portavoce dell’assessore al Bilancio della Regione, Raffaele Piemontese, ed è dipendente a tempo determinato del gruppo Pd in Consiglio regionale. Nessuno ha esplicitamente parlato di conflitto di interesse, ma ieri a Foggia sul punto c’è stata molta tensione, soprattutto nel mondo politico. Il gip Dello Iacovo è persona di indiscusso spessore, e gode di enorme considerazione nell’ambiente giudiziario dove è noto per la sua serietà e professionalità. Il giudice non si è pronunciato direttamente su Emiliano - per il quale la Procura non ha avanzato alcuna richiesta di misure cautelari - ma, decidendo sui Cera, ha stabilito che non ci sono gravi indizi per l’accusa di corruzione che coinvolge anche il governatore. Per il gip c’è «assenza di collegamento» tra la richiesta avanzata da Emiliano ai Cera, ovvero quella di impegnarsi per sostenere alle elezioni comunali il sindaco uscente di San Severo, Francesco Miglio, e quella fatta dai Cera a Emiliano, cioè di nominare un loro uomo come commissario della Asp di Chieuti: tra i due episodi per il gip non ci sarebbe «un collegamento oggettivo o soggettivo». In base a questa valutazione, riportata nell’ordinanza di custodia cautelare, Emiliano, lo stesso giorno degli arresti, ha scritto su Facebook che «il fatto non sussiste»: «Meno male che hanno fatto in fretta a restituirmi serenità e dignità». Martedì il gip Dello Iacovo dovrà tenere l’interrogatorio di garanzia per gli arrestati Angelo e Napoleone Cera.

Le intercettazioni che "svelano accordo corruttivo in Regione": "La nomina è fatta". Ed il fratello del Gip di Foggia lavora per il Pd alla Regione. Il Corriere del Giorno il 21 Ottobre 2019. Il giudice delle indagini preliminari Dello Iacovo è finito al centro di polemiche e dubbi non indifferenti sul proprio operato, per molti incompatibile,  in quanto suo fratello Giovanni di professione giornalista, è componente dell’ufficio stampa del Gruppo Pd alla Regione, nonchè addetto stampa  di Raffaele Piemontese l’assessore regionale al Bilancio,  e persino consigliere di amministrazione di Apulia Film Commission. Le intercettazioni delle conversazioni intercorse fra gli indagati evidenziano un quadro indiziario e probatorio che non trova però riscontro nella “discussa” ordinanza del Gip Armando Dello Iacovo, del Tribunale di Foggia,  nonostante abbia firmato l’ordinanza di custodia cautelare che ha fatto finire i Cera, padre e figlio agli arresti domiciliari, con l’accusa di tentata concussione per aver cercato di fare assumere due persone nel Consorzio di bonifica di Capitanata. Il giudice delle indagini preliminari Dello Iacovo è finito al centro di polemiche e dubbi non indifferenti sul proprio operato, per molti incompatibile,  in quanto suo fratello Giovanni di professione giornalista, è componente dell’ufficio stampa del Gruppo Pd – Regione Puglia, nonchè addetto stampa  di Raffaele Piemontese l’assessore regionale al Bilancio,  e persino consigliere di amministrazione di Apulia Film Commission con nomina dello scorso 19 febbraio. Secondo molti il Gip Dello Iacovo, avrebbe dovuto astenersi per incompatibilità, decisione che però ha ritenuto di non prendere, ed ha contestualmente rigettato la richiesta di arresto per Angelo e Napoleone Cera per le contestate pressioni sulla Asl di Foggia aventi come obiettivo quello di non internalizzare il servizio Cup, e per il presunto accordo con il governatore Michele Emiliano e con l’assessore al Welfare, Salvatore Ruggeri, per nominare un uomo indicato dai Cera alla guida dell’Asp di Chieuti, in cambio dell’appoggio elettorale per le amministrative di Foggia e San Severo che era stato richiesto e sollecitato da Salvatore Ruggeri. Decisione verso la quale la Procura di Foggia si è riservata di ricorrere. L’assessore regionale al Welfare, Salvatore Ruggeri (Udc) intercettato il 6 marzo 2019 tranquillizzava  Angelo e Napoleone Cera (rispettivamente padre ed ex parlamentare dell’Udc, e figlio,  attuale consigliere regionale dei Popolari) dicendo loro:  “Non c’è nessun problema, il nome là lo devo mettere io… ” in relazione alla nomina da effettuare di commissario per la durata di sei mesi all’Asp Castriota e Corropoli di Chieuti , facendo capire che in cambio però i Cera avrebbero potuto ottenere quella nomina per un loro uomo. garantendo il sostegno al centrosinistra nelle elezioni amministrative a Foggia e San Severo, come richiesto dal governatore Michele Emiliano. Per il procuratore capo della Procura di Foggia Vaccaro “si è concretizzata una sorta di scambio tra l’appoggio che i Cera davano a Emiliano e la loro richiesta di nomina”. La telefonata fondamentale è quella del 6 marzo intercorsa fra Emiliano e i Cera, che secondo gli investigatori interloquiscono disinvoltamente in maniera  conseguenziale, dall’argomento “Asp Chieuti” collegandolo alle elezioni. Secondo gli operanti della la polizia giudiziaria che hanno trascritto la conversazione telefonica  Angelo Cera usava in particolare dei “toni perentori” per pretendere il rispetto dell’accordo. Uno scambio quindi, secondo gli investigatori, potrebbe essere stato concordato di persona e successivamente ricordato telefonicamente. Napoleone Cera diceva al Governatore:  “Vedi che Totò Ruggeri dovrebbe portare una cosa in giunta“, “Che cosa?” risponde Emiliano; “ L’Asp di Chieuti “ed Emiliano lo rassicura: “Va bene“. Dopodichè il figlio di Cera aggiunge: “Poi vedi, ho un’altra cosa…. ” ed a propria volta il Presidente della Regione Puglia dice  “Quindi ci vediamo con Piemontese?“, trasferendo l’argomento sul tema “elezioni”. E Cera gli risponde: ” Aspetta, ti voglio passare papà, ti metti d’accordo con lui ” . A questo punto nella conversazione intercettata interviene Angelo Cera, al quale Emiliano chiede: “Ti sei sentito con Piemontese? ” ottenendo per risposta “No, io mi debbo sentire con te, Miché ” . “Va bene” gli risponde Emiliano, e Cera gli precisa “Non ho necessità di sentirmi con Piemontese“; “No, per vedere sul campo” dice Emiliano e Cera replica :”Io su San Severo faccio una…. una giravolta di 384 anche su tutto il territorio, avendo fatto le primarie non mi posso muovere“. Ma è Foggia la vera preoccupazione del presidente della Regione Puglia , e riferendosi all’esponente dell’Udc che partecipò alle primarie del centrodestra e poi portò il suo enorme serbatoio di preferenze a sostegno di Franco Landella, il sindaco di centrodestra, che poi  per ringraziamento lo nominò presidente del consiglio comunale.  “Iaccarino lo possiamo fermare?“, dice Emiliano . “No, non lo puoi fermare perché si è già venduto – gli risponde Angelo Cera – ma io sono convinto che il candidato vostro vince a Foggia” . Emiliano: ” Hai questa impressione? ” ; l’ex deputato Cera gli risponde parlando del candidato del centrosinistra a sindaco di Foggia Pippo Cavaliere, che è stato  sconfitto da Landella  ” No l’impressione, ho la certezza, perché se non vince al primo turno Landella perde al secondo… perché questo qui lo porta la curia vescovile, la procura, lo portano tutti quanti… è una persona per bene… ” Dopo le rassicurazioni elettorali, la conversazione continua. Ma dopo aver  rinnovato l’impegno elettorale, Angelo Cera torna  a parlare sull’Azienda Castriota e Corropoli: “Vedi che su questa cosa di Chieuti ci tengo in maniera particolare proprio io”. Emiliano chiede:  “Ma il disegno di legge là?” ; ” È un’asp ” ; ” Vabbè poi… ” e Napoleone Cera in sottofondo nella telefonata fra il figlio ed Emiliano insiste: “Dì che noi non abbiamo preso niente ” . Ed il figlio  incalza Emiliano : ” Noi siamo usciti a pane asciutto” . E il presidente della Regione Puglia lo rassicura: ” Va bene, un bacio “. Passano alcuni minuti ed Angelo Cera chiama l’assessore regionale Salvatore Ruggeri e e gli dice: “Fammi una cortesia, dipende da come si muove Emiliano su quella delibera lì… mi muoverò io in provincia di Foggia… ” e Ruggeri gli risponde e lo rassicura ” Non ho problemi, io devo mettere il nome lì “; ” Vabbè tu porta la delibera domani e fammi sapere subito “ gli dice Cera. Come noto ed accertato il provvedimento fu effettivamente preparato, ma  non arrivò mai in giunta, venendo bloccato probabilmente a seguito della visita ispettiva della Guardia di Finanza di Bari, che chiedeva chiarimenti  proprio su queste nomine.

Emiliano e Melucci: similia cum similibus (cioè: "i simili con i simili"). E la magistratura indaga su entrambi. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 21 Ottobre 2019. La manifestazione di ieri nella città vecchia di Bari, con cui Emiliano ha annunciato la sua intenzione a candidarsi da falso “civico” non è stato un atto di forza ma bensì un atto di arrogante paura. Lo ha confermato una piazza ma non pienissima come alle precedenti elezioni. Strategicamente presenti molti direttori generali della sanità e dirigenti regionali, che evidentemente sono tutti “devoti” ad Emiliano per le loro cariche ricoperte. Il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, è tornato ad essere “devoto” a Michele Emiliano   ritornando all’ovile della corrente del governatore in occasione della sua ricandidatura alla guida della Regione Puglia, nonostante sia stato proprio il governatore Emiliano, attraverso il lavoro dietro le quinte di Rocco De Franchi con il contributo di Michele Mazzarano e del sindaco di Laterza Gianfranco Lopane a sbarrargli la strada per l’elezione a presidente della Provincia di Taranto, competizione in cui Melucci venne letteralmente doppiato ed “asfaltato” da Giovanni Gugliotti, attuale sindaco di Castellaneta. E’ bene ricordare che nel ballottaggio di due anni fa in occasione delle Elezioni Amministrative al Comune di Taranto Melucci, fu la quarta scelta del centrosinistra  come candidato sindaco,  e che senza il sostegno finale di Emiliano e Michele Pelillo (all’epoca deputato e leader del Pd jonico) non sarebbe mai stato eletto per una manciata di voti superando Stefania Baldassari candidata della società civile sostenuta dal centrodestra, che al primo turno aveva preso 5 mila voti in più dell’attuale sindaco. La manifestazione di ieri nella città vecchia di Bari, con cui Emiliano ha annunciato la sua intenzione a candidarsi da falso “civico” a cui hanno partecipato i sindaci di Bari, Antonio Decaro, di Lecce, Carlo Salvemini , di Brindisi, Riccardo Rossi. quello di Taranto, Rinaldo Melucci,  con la  giunta regionale quasi al completo, incluso il consigliere regionale Salvatore Ruggeri indagato insieme ad  Emiliano nella recente inchiesta in corso della Procura di Foggia per corruzione, in realtà non è stato un atto di forza ma bensì un atto di arrogante paura. Lo ha confermato una piazza ma non pienissima come alle precedenti elezioni. Strategicamente presenti molti direttori generali della sanità e dirigenti regionali, che evidentemente sono tutti “devoti” ad Emiliano per le loro cariche ricoperte,  qualche ex- parlamentare e qualche consigliere comunale. Questa volta Emiliano annuncia la sua candidatura senza passare come di consueto dalle “primarie” del centrosinistra dove avrebbe trovato lo sbarramento del Partito Democratico a cui il Governatore non è più iscritto per salvarsi dagli strali del Csm e della procura Generale della Cassazione, dopo la precedente sanzione disciplinare subita a seguito dei due procedimenti riuniti a suo carico. Una candidatura che sembra forte ma in realtà è molto debole, non potendo contare sui “renziani” rappresentati in Puglia dal ministro Teresa Bellanova, nè tanto meno dal Pd compatto. Figuriamoci poi dal movimento La Giusta Causa guidata dall’avvocato Michele Laforgia, l’associazione che insieme a Sinistra Italiana e ad un’ala del Pd incalza pesantemente il governatore su tempi e modi delle primarie del centrosinistra. Un nervo scoperto per Emiliano che alle critiche di Laforgia che non a caso ieri non era presente alla manifestazione politica del governatore pugliese, reagì così: “Se qualche studio legale ci vuole far perdere le elezioni, può anche farlo. Ma non sarà facile. Io mi batterò come so fare“. Aggiungendo: «”Mi pare che qui ci sia qualcuno che vuole farci perdere le elezioni. Se si candideranno alle primarie e le vinceranno, sarò pronto a dare una mano come feci con Vendola. Salvo che non si tratti di lobbisti mascherati che vogliono farci perdere”. Dichiarazione sopratutto quest’ultima che Emiliano ha dimenticato, confermando la sua nota arroganza decisionista che questa volta però rischia di lasciarlo a piedi. “Siamo grati a chi ci ha preceduto e un pò oggi mi manca. Io e Nichi Vendola non sempre siamo riusciti ad essere come dovevamo e io mi assumo tutte le responsabilità che mi competono, però se non ci fosse stato lui io non sarei qui. Una leadership politica e umana come quella di Nichi oggi mi manca. Se fosse qui oggi io sarei l’uomo più felice del mondo“. Ha detto ieri il presidente della Regione Puglia, “Mi manca Vendola, non quelli che si sono serviti di lui, che sono una cosa diversa, perché fingono di rappresentare una sinistra della quale non hanno mai fatto parte“. Mentre Vendola tace e non commenta, ed altrettanto fa con stile e signorilità l’avvocato Michele Laforgia che per una manciata di voti sei mesi fa non è stato eletto in Parlamento, la reazione più pesante è arrivato dal Movimento 5 Stelle che è stato così attaccato frontalmente da Emiliano; “In Puglia, sia chiaro, con quelli che prima dicevano una cosa e poi ne fanno un’altra, noi la maggioranza almeno al primo turno non la faremo mai, se non ci chiedono scusa di tutte le cose che hanno detto contro di noi, per poi rimangiarsi tutto». Avevano detto che avrebbero spostato il Tap e noi siamo rimasti con il cerino in mano; avevano detto che avrebbero chiuso l’Ilva e non hanno avuto la forza di farlo e non vogliono neanche aiutarci a decarbonizzarla. Con gente così, – ha aggiunto Emiliano – che non rimedita sulle fesserie che ha detto, al Governo non ci vado, e noi vinciamo le elezioni anche senza di loro. Li travolgeremo, travolgeremo le chiacchiere e le infamità che vanno raccontando“. I consiglieri regionali del M5S non hanno fatto attendere l’ immediata replica a Emiliano che ieri ha detto che con i pentastellati “almeno al primo turno» non farà mai alleanze se non chiedono scusa di tutte le cose che hanno detto contro di noi, per poi rimangiarsi tutto”. Questo il duro commento del M5S pugliese:  “Non vogliamo avere niente a che fare con chi governa come ha fatto lui, cercando di raccattare consensi per mantenersi attaccato alla poltrona e distribuendo poltrone pur di aumentare il suo bacino elettorale. Ed è un no che vale per la campagna elettorale e per tutto quello che ci sarà dopo“.  “Emiliano ha provato a ‘comprarè anche noi – sottolinea il M5S – proponendoci tre assessorati in cambio del silenzio su tutti gli altri provvedimenti della Giunta. E siamo stati gli unici a rifiutare l’offerta e andare avanti”. I grillini accusano Emiliano di aver avviato una “finta battaglia contro il gasdotto Tap solo su giornali e tv, limitandosi a chiederne lo spostamento a Brindisi, città letteralmente abbandonata dalla sua Giunta». ed aggiungono “Oggi avrebbe dovuto parlare del suo programma per la Puglia, ma su temi come sanità, consorzi di bonifica, Arif, PSR, fondi per la pesca persi, emergenza rifiuti neanche una parola. Fallimenti evidenti anche ai consiglieri di quella che dovrebbe essere la sua maggioranza, oggi quasi del tutto assenti. Neanche loro hanno avuto il coraggio di presenziare a questa farsa. Pertanto visti i fallimenti e gli scandali giudiziari della sua maggioranza, riteniamo che sia Emiliano a dover chiedere scusa ai pugliesi“. Una posizione questa molto difficile da ricomporre in ogni caso e sede, contrariamente a quanto incredibilmente avvenuto nella Regione Umbria dove il M5S che aveva causato la caduta della giunta di centrosinistra a guida del PD con l’arresto di alcuni esponenti che guidavano l’ente regionale umbro ed il locale Partito Democratico, si sono alleati in questa campagna elettorale in corso sostenendo una candidatura neutrale, per fermare l’ondata del centrodestra a trazione leghista. In Puglia sarebbe pressochè ridicolo e poco credibile sostenere e “spacciare” come “civica” la candidatura di Emiliano solo perchè non ha rinnovato la tessera del Nazareno. Una cosa è certa: se il sindaco di Taranto Melucci è tornato all’ovile di Emiliano, molto è dipeso anche dal ritorno al suo fianco della “pasionaria”, cioè della sua staffista del cuore Doriana Imbimbo  (attualmente sotto processo per “truffa” al Comune di Taranto) che da sempre è un’ “adepta” del governatore pugliese, grazie al quale ha sempre sbarcato il lunario, prima del fatale incontro con Melucci. Chissà cosa penserebbe Emiliano se scoprisse che Melucci avrebbe impedito all’ Avvocatura comunale di Taranto di costituirsi parte civile arrivando addirittura a minacciare pesantemente gli avvocati del Comune di Taranto di trasferirli ed esternalizzare il servizio, circostanza che sembra abbastanza veritiera non essendosi costituito parte civile nel processo appena iniziato il “truffato” e cioè il Comune di Taranto,   ed a seguito di un esposto sono in corso i dovuti accertamenti della Magistratura . Gli indagati potrebbero quindi aumentare nella coalizione di Michele Emiliano, che questa volta non potrà più dire dinnanzi al Consiglio Superiore della Magistratura ed alla Procura Generale della Cassazione che “gli assessori ed amministratori comunali di sua fiducia non hanno mai avuto problemi con la giustizia“. Ed ora inizia anche  il processo con rito abbreviato di Michele Mazzarano. E meno male che Emiliano si professa ancora un magistrato dalla parte della legalità….

Foggia, nuove accuse ai Cera: contestata la corruzione elettorale. Il numero degli indagati sale a 6: oltre quelli di cui già si era a conoscenza, coinvolta anche la consigliera comunale di Manfredonia Rosalia Immacolata Bisceglia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Ottobre 2019. C'è anche la corruzione elettorale tra i reati ipotizzati dalla Procura di Foggia nell’inchiesta che coinvolge Angelo e Napoleone Cera, padre e figlio rispettivamente ex parlamentare e consigliere regionale pugliese dell’Udc, e in cui sono indagati, per altri reati, anche il presidente della Regione Michele Emiliano e il suo assessore al Welfare Salvatore Ruggieri. La nuova ipotesi di reato, relativa alle ultime elezioni Europee, Provinciali di Foggia e Comunali di San Severo e San Giovanni Rotondo, è contenuta nell’avviso di accertamenti tecnici non ripetibili notificato nei giorni scorsi agli indagati per verifiche sui telefoni cellulari sequestrati a Napoleone Cera e all’assessore Ruggieri. Dall’atto si apprende anche che il numero degli indagati è salito a sei. Oltre ai Cera, a Emiliano e Ruggieri e al direttore generale della Asl di Foggia Vito Piazzolla di cui già si era a conoscenza, risulta indagata anche la consigliera comunale di Manfredonia Rosalia Immacolata Bisceglia. Dall’avviso, notificato a tutti gli indagati, si apprende anche che al dg Piazzolla è contestato, oltre al reato di abuso d’ufficio, anche quello di induzione indebita a dare o promettere utilità con riferimento alla procedura di internalizzazione del servizio CUP con affidamento della gestione alla società Sanitaservice della Asl di Foggia. Nella stessa inchiesta, nei confronti del presidente Emiliano, dell’assessore Ruggieri e dei Cera è contestato il reato di corruzione per la nomina (mai fatta) del commissario della A.S.P. 'Castriota e Corropolì di Chieuti. I Cera rispondono anche di un episodio di tentata concussione, per il quale sono attualmente agli arresti domiciliari, relativa alla procedura per nuove assunzioni nel Consorzio per la Bonifica della Capitanata. Le nuove imputazioni di corruzione elettorale contestate a Bisceglia e ai Cera si riferiscono alla promessa di nomina della figlia della consigliera comunale come addetto stampa del consigliere regionale in cambio del voto a Giuseppe Mangiacotti dell’Udc, candidato consigliere alla Provincia di Foggia nel febbraio 2019. Ad Angelo Cera si contesta anche un altro episodio di corruzione elettorale risalente al maggio 2019 relativo alla promessa di assunzioni in enti pubblici, Asl di Foggia, Consorzio per la Bonifica della Capitanata, Regione Puglia e A.S.P. 'Castriota e Corropolì di Chieuti, in cambio del consenso elettorale per Lorenzo Cesa (candidato con Fi alle Europee), Mario Marchese (candidato consigliere al Comune di San Severo) e Giuseppe Mangiacotti (candidato sindaco al Comune di San Giovanni Rotondo). 

Foggia, «È corruzione»: l'accusa insiste sul caso Cera. Anche la Procura va al Riesame contro il «no» all'arresto dei due politici per lo scambio elettorale e le pressioni sulla Asl. Massimiliano Scagliarini il 31 Ottobre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Angelo e Napoleone Cera sono finiti ai domiciliari il 17 con l’accusa di tentata concussione nei confronti dei vertici del Consorzio di bonifica della Capitanata. Ma secondo la Procura di Foggia, che a luglio ne aveva chiesto il carcere, i due politici di San Marco in Lamis meritano l’arresto anche per gli altri due episodi emersi dall’inchiesta, le pressioni sulla Asl per l’appalto del Cup e lo scambio elettorale con il governatore Michele Emiliano che l’accusa ritiene corruttivo. Ecco perché anche l’accusa impugnerà davanti al Riesame l’ordinanza del gip Dino Dello Iacovo, nella parte in cui non ha riconosciuto l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’ex parlamentare Angelo e del consigliere regionale Napoleone per i reati di induzione indebita e di corruzione. I loro difensori hanno già presentato ricorso al Tribunale della Libertà per chiedere l’annullamento delle misure cautelari: l’emendamento al bilancio proposto da Napoleone che toglieva ai Consorzi foggiani la gestione dell’irrigazione - dicono - non sarebbe mai stato approvato, dunque era un’arma di minaccia spuntata. Ma il gip è stato di parere contrario. Dalle carte dell’inchiesta emergono le intercettazioni in cui i Cera, padre e figlio, organizzano continui incontri con chi cerca un posto di lavoro, piuttosto che una raccomandazione per entrare in Polizia. «Sai quante persone fanno la faccia - racconta a una donna - di gente che durante le elezioni, io ero candidato, mi è passata dritta, fiera di andarmi a votare contro, capito? Perché, in quel momento erano loro che determinavano, comandavano, e oggi passano attraverso la mia segreteria, fanno la fila per parlare con me, per dirmi “aiutami”, capito? (...) Sai chi sono i peggiori nemici miei a San Marco? Quelli politici? (...) Gente, famiglie intera che abbiamo collocato, sistemato, oggi ce li abbiamo totalmente contro». Dalle intercettazioni emergono anche i contrasti con altri componenti della maggioranza di centrosinistra alla Regione, in particolare con l’assessore Raffaele Piemontese (che è assolutamente estraneo all’inchiesta). Napoleone Cera ne parla quando, dopo essersi intestato il merito di aver fatto rinnovare l’incarico del direttore generale della Asl di Foggia, Vito Piazzolla (anche lui indagato), lavora per ottenere anche la conferma del direttore sanitario Sandro Scelzi che per la Procura sarebbe un suo «fedelissimo»: nel colloquio tra i due si dice che Piemontese avrebbe preferito un altro nominativo. «Non ti preoccupare, che in queste ore darò battaglia, stai tranquillo, vedi a quello che ti dico io», dice Napoleone a Scelzi (che non è indagato e che gli aveva detto: «Vabbè, io mo lavorerò su Cerignola per te»). Cera junior mostra di soffrire il collega assessore: «Con me non ha capito che è cambiata la musica, cioè, forse non ha capito lui, che fa il gradassone e cose che sembra che è arrivato all’apice del coso. Non ha capito che io non lo faccio campare più? Cioè, non ha capito proprio! (...) Cioè, io sarò costretto a leggere tutte le delibere, dalla mattina alla sera, per rompergli il cazzo, dalla mattina alla sera...». Va detto che queste espressioni - a giudizio della Procura - non vanno lette solo nell’ambito di una contrapposizione sulle nomine: Napoleone Cera - per l’accusa - voleva il rinnovo dell’incarico di Piazzolla per poi bloccare l’internalizzazione dell’appalto del Cup affidato tutt’ora a una società amica. «Il timore che senza mezzi termini il Cera esprime - secondo il pm Marco Gambardella - è senza dubbio indicativo delle motivazioni che lo portano a coltivare i buoni rapporti col Piazzolla: motivazioni che evidentemente non hanno nulla a che vedere con il desiderio di vedere una persona capace a capo di una struttura di vitale importanza quale la Asl Foggia».

Foggia, l'inchiesta sui Cera va avanti. La Procura: «Emiliano incontrò i sindaci». Lunedì l'udienza al Riesame sul caso della nomina (non fatta): i legali dei due politici chiedono che tornino in libertà: mai fatte pressioni. Massimiliano Scagliarini il 03 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Vedi che m’ha chiamato Paolo Campo, che ha detto che adesso ti chiamava». È il 2 maggio, nel pieno della trattativa - mai andata in porto - per nominare alla Asp di Chieuti un fedelissimo di Napoleone Cera. E agli atti dell’inchiesta di Foggia, che domani approda davanti ai giudici del Riesame, c’è una intercettazione che l’accusa ritiene fondamentale: dimostrerebbe l’interesse politico del governatore Michele Emiliano ad accontentare il capogruppo Udc, finito ai domiciliari il 17 ottobre - insieme al padre Angelo - per un episodio di tentata concussione ai danni dei vertici del Consorzio di bonifica della Capitanata. I difensori dei due Cera hanno impugnato l’ordinanza del gip Dino Dello Iacovo. Ma anche la Procura si è rivolta al Tribunale della Libertà contro il «no» all’arresto per gli altri due episodi emersi dall’inchiesta della Finanza: le pressioni (ritenute indebite) sulla Asl di Foggia e - appunto - il presunto scambio con il presidente della Regione, che ai Cera aveva chiesto un aiuto elettorale a favore del sindaco di San Severo e per questo - sempre secondo l’accusa - avrebbe dovuto garantire loro la scelta del commissario della Asp. Un piccolo ente che gestisce tra l’altro una casa di riposo. Ma nel lungo tira e molla sulla nomina, mai avvenuta, c’è questa intercettazione in cui Napoleone Cera informa il prescelto per la nomina, il suo assistente Cosimo Titta, della telefonata ricevuta da Paolo Campo. Cioè dal capogruppo Pd in Regione, foggiano anche lui. «Dice: “Ma quello da Manfredonia deve andare a fare il commissario all’Asp di Chieuti, ma come fa ad andare a fare là... eppure non si prende un euro”, ho detto: “Ma mica lo fa per i soldi”». Campo (che non è indagato e nulla ha a che fare con l’inchiesta) pone un tema politico, ma svela che la scelta di nominare un uomo di Cera non piace: «Eh, dice che hanno fatto casino in giunta, Piemontese (l’assessore al Bilancio, anche lui foggiano, ndr) e gli altri, capito?». Titta afferra subito: «La cosa alla fine che a lui interessa è quella, la nomina del direttore generale». La conversazione si muove in realtà su binari errati, perché Cera è convinto che la delibera sia passata («Ti hanno nominato! Ti ha nominato!») e spiega a Titta il perché di quella telefonata di Campo: «Vorrebbe che tu ti dimettessi manco nominato, hai capito?». E alle perplessità del giovane avvocato di Manfredonia, il capogruppo Udc risponde secco: «Devi dire “Paolo, io faccio quello che mi dice il partito” (...), basta, stop, hai capito?». (...) No, tu gli devi dire “Io sono molto amico a Totò Ruggeri», l’assessore al Welfare che per questa storia è indagato con i Cera e con Emiliano per corruzione. Il punto è qui. «Dice che domani i sindaci di Chieuti e Serracapriola vanno a parlare con Emiliano perché non sono d'accordo con questa nomina», spiega Napoleone a Titta: «Va bene, però, devono spiegare anche le ragioni, non penso che possono dire “io non sono d’accordo su questa nomina perché quello per venire da Manfredonia deve pagare le spese della benzina”». «E comunque, per muoversi tutto il Pd tu immagina che cazzo...», è la considerazione di Cera junior. Cui Titta aggiunge: «C’è qualcosa sotto». Agli atti dell’inchiesta risulta effettivamente l’incontro di Emiliano con i sindaci della zona. E la Procura, per dimostrare che esiste un rapporto di scambio tra i voti al sindaco di San Severo e la nomina di Titta, vuole capire proprio perché Emiliano non abbia mai firmato la delibera. Perché non c’è stato l’accordo politico tra Pd e Udc, come ha spiegato il governatore in una lettera a Repubblica Bari? Oppure perché la Finanza andò in Regione a prendere gli atti e qualcuno mangiò la foglia? Il gip Dello Iacovo ha escluso l’esistenza del rapporto corruttivo, e inoltre - va detto - Emiliano è anche il capo della coalizione di centrosinistra, quindi si occupa legittimamente di elezioni comunali. L’accusa ritiene però che Emiliano lavorò per imporre quella nomina perché aveva bisogno dei voti dei Cera. 

Nuova indagine sul capo gabinetto di Emiliano, perquisizioni. Il Corriere del Giorno il 20 Novembre 2019. I fatti contestati risalgono agli anni 2016-2018. Stefanazzi e Ladisa sono indagati anche in un’altra inchiesta della Procura di Bari che coinvolge il presidente Emiliano per presunti illeciti legati al finanziamento della campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017. I finanzieri hanno acquisito documentazione nella sede della società Ladisa dove si è svolto il corso e nella sede di una società di formazione. Perquisizioni sono state eseguite ieri dalla Guardia di Finanza nei confronti di Claudio Michele Stefanazzi, capo di gabinetto del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, di sua moglie Milena Rizzo e dell’imprenditore barese Vito Ladisa. La Procura di Bari ipotizza i reati di truffa aggravata e abuso d’ufficio. I finanzieri hanno acquisito documentazione nella sede della società Ladisa dove si è svolto il corso e nella sede di una società di formazione. L’inchiesta della Guardia di Finanza, coordinata dal pm Savina Toscani, riguarda un corso di formazione (Pfa, piano formativo aziendale)  finanziato dalla Regione Puglia, fatto presso la società Ladisa Srl e gestito dalla società per la quale lavorava la moglie di Stefanazzi. I fatti contestati risalgono agli anni 2016-2018. Stefanazzi e Ladisa sono indagati anche in un’altra inchiesta della Procura di Bari che coinvolge il presidente Emiliano per presunti illeciti legati al finanziamento della campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017. Nella serata di ieri in un lungo post su Facebook, Claudio Stefanazzi ha sostenuto che “tutta la documentazione relativa al piano, ovvero i calendari dell’attività di formazione, l’indicazione delle sedi di svolgimento, dei docenti, dei discenti, del personale coinvolto sono inseriti e custoditi in una piattaforma informatica della Regione Puglia, quali atti pubblici. Falsificare queste carte – scrive ancora – appare effettivamente piuttosto difficile. Gli atti pubblici depositati presso la regione comunque attestano il regolare ed effettivo svolgimento delle attività di formazione connesse al Piano“.

Lo sfogo su Facebook del capo di Gabinetto. “Stasera, appena rientrato come ogni sera a Lecce da Bari, sono stato raggiunto da una telefonata di un giornalista che mi chiedeva notizie di una indagine a mio carico e di una perquisizione avvenuta presso la sede della società dove lavorava, fino ad un anno fa, mia moglie. Non avendone avuto notizia mi sono informato ed effettivamente mi è stato riferito che, stamattina la Guardia di Finanza si è recata presso la società. Ho cosi scoperto che io e mia moglie siamo indagati, senza però aver avuto alcuna notifica in merito . Io sarei accusato di essere “amministratore di fatto” della società. Ovviamente non sono mai stato amministratore di fatto di quella società. Ci mancherebbe. L’accusa riguarda la gestione, da parte della società di cui mia moglie era dipendente fino ad un anno fa, di un PFA, Piano Formativo Aziendale. Il Piano Formativo Aziendale è uno strumento di finanziamento di iniziative di formazione della Regione Puglia a beneficio di tutte le aziende per la riqualificazione delle competenze dei propri lavoratori. Il bando in questione è a sportello, cioè non sottoposto a scadenze, e i requisiti di ammissibilità delle imprese sono: essere micro, piccola media o grande impresa secondo la definizione comunitaria; garantire il cofinanziamento obbligatorio a carico dell’azienda previsto nel bando; presentare la documentazione amministrativa e contabile prevista dal l’istruttoria (tra cui certificato antimafia); presentarla secondo le modalità telematiche previste dall’avviso. Tutti coloro che richiedono un PFA e che rispettano i requisiti menzionati, vengono finanziati. Tutta la documentazione relativa al piano, ovvero i calendari dell’attività di formazione, l’indicazione delle sedi di svolgimento, dei docenti, dei discenti, del personale coinvolto oltre alla descrizione del piano formativo e documentazione amministrativo/contabile sono inseriti e custoditi in una piattaforma informatica della regione Puglia, quali atti pubblici. Contestare la effettività della attività formativa effettuata significherebbe coinvolgere nell’eventuale reato una miriade di pubblici funzionari. Falsificare queste carte appare effettivamente piuttosto difficile. Gli atti pubblici depositati presso la regione comunque attestano il regolare ed effettivo svolgimento delle attività di formazione connesse al Piano. Ne pare esservi profili di discrezionalità nella gestione, lato amministrazione pubblica, dei suddetti Piani. Inoltre la filiera amministrativa preposta alla gestione del Piano è del tutto estranea alla mia sfera di influenza. Come è noto, il modello organizzativo che è stato adottato nel 2015, separa, attraverso la istituzione del segretariato generale della presidenza, ricoperto da altre persona, la funzione amministrativa, rimessa al segretario generale quale vertice della macchina amministrativa regionale, da quella di indirizzo politico, esercitata anche dal Gabinetto del presidente. Nessun potere di gestione amministrativa mi è attribuita, in particolare quella di ultima istanza nei ricorsi gerarchici. Temo sia irrilevante sottolineare, come è noto ad ogni ufficio della Regione, che non è mio costume non dico interferire ma nemmeno interagire con li stessi uffici per questioni relative alla ordinaria attività amministrativa. L’’ipotesi che io sia, di quella società amministratore di fatto è, appunto, una ipotesi che dico subito essere infondata. Nel ribadire la nostra totale estraneità ai fatti contestati e la assoluta fiducia nell’operato della magistratura, non posso che rammaricarmi dell’ennesima fuga di notizie. Questa volta l’atto giudiziario è avvenuto a 150 km da Bari, quindi, esclusa la accidentale scoperta da parte di qualche passante occasionale, debbo constatare che, ancora una volta, la stampa viene a conoscenza di vicende che riguardano una sfera molto riservata della vita di ognuno di noi, prima dei diretti interessati“.

Il collaboratore di Emiliano utilizzando "false attestazioni" avrebbe ottenuto fondi pubblici senza averne diritto. Il Corriere del Giorno il 21 Novembre 2019. Nell’ attuale indagine coordinata sempre dal procuratore aggiunto Giorgio Lino Bruno e dalla pm Savina Toscani della Procura di Bari, secondo quanto è possibile rilevare dal decreto di perquisizione, le società Ladisa e Dinamo e avrebbero ottenuto un “ingiusto vantaggio patrimoniale” a seguito all’approvazione del piano formativo “Smart Food Ladisa”. “Da una attenta analisi della vicenda che sta interessando il mio capo di Gabinetto non emerge allo stato alcun elemento a conferma delle ipotesi accusatorie. La magistratura ha il diritto/dovere di svolgere tutte le verifiche necessarie, ricordo anche in favore dell’indagato, e quindi si rimane in attesa di conoscere l’esito tutti gli accertamenti per le eventuali determinazioni di mia competenza”, con queste parole ieri il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, “assolveva” il suo stesso sodale e collaboratore. L’indagine ha origine dagli approfondimenti d’indagine effettuati in un’altra inchiesta, cioè quella che coinvolge proprio il presidente Emiliano per presunti illeciti connessi al finanziamento della campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017. In quel fascicolo infatti sono indagati, oltre al governatore, anche Stefanazzi e Ladisa, in quanto secondo la ricostruzione degli inquirenti, Ladisa avrebbe pagato per conto di Michele Emiliano una fattura da 59mila euro alla società di comunicazione torinese Eggers 2.0, che aveva curato la campagna. L’inchiesta successiva, quella che coinvolge Claudio Stefanazzi, capo di Gabinetto del governatore Michele Emiliano è incentrata attorno alla determina 784 del 3 ottobre del 2016 con la quale vennero ammesse le società Ladisa Spa e Dinamo Srl ad finanziamento di 1milione e 388 mila euro per il piano formativo “Smart Food Ladisa“, dei quali ben 694mila euro erano contributo pubblico a fondo perduto . Secondo le indagini ed accertamenti della Procura di Bari e della Guardia di Finanza, entrambe le società ottennero un “ingiusto profitto” in quanto sarebbe emerso che avrebbero prodotto “false attestazioni in ordine all’attività di formazione svolta”. Martedì scorso la Guardia di Finanza di Bari ha sequestrato tutta la documentazione ed i relativi supporti informatici del piano di formazione ed ai contatti intercorsi tra le società, gli imprenditori, Stefanazzi ed i funzionari della Regione Puglia. Le persone indagate per questi fatti sono cinque in quanto oltre a Stefanazzi, compare anche sua moglie Milena Rizzo, entrambi considerati dagli inquirenti “amministratori di fatto” della Dinamo srl con sede a Lecce, oltre a Domenico, Sebastiano e Vito Ladisa. La Procura, infatti, sta procedendo ad individuare altri “pubblici ufficiali della Regione Puglia” che secondo l’ipotesi investigativa , avrebbero contribuito ad aiutare le due società per far ottenere loro il finanziamento pubblico, e quindi  il numero degli indagati è destinato ad aumentare. I reati per cui si procede a vario titolo sono di  “truffa aggravata” ed “abuso in atti di ufficio“. Nell’ attuale indagine coordinata sempre dal procuratore aggiunto Giorgio Lino Bruno e dalla pm Savina Toscani della Procura di Bari, secondo quanto è possibile rilevare dal decreto di perquisizione, le società Ladisa e Dinamo e avrebbero ottenuto un “ingiusto vantaggio patrimoniale” a seguito all’approvazione del piano formativo “Smart Food Ladisa” che venne approvato con una determinazione del dirigente della Sezione formazione professionale della Regione Puglia. Dopo il semaforo verde al piano presentato, le due società “e per esse – come emerge documentalmente- rispettivamente di amministratori unici Domenico Ladisa e Luca Marasco, quest’ultimo succeduto formalmente nella carica a Milena Rizzo” avrebbero costituito un raggruppamento temporaneo di imprese per l’attuazione del piano di riqualificazione dei lavoratori. L’ 80% dei 694mila euro pubblici, cioè circa 555mila euro, sarebbe stato riservato alla Ladisa ed il restante 20% per 138mila euro alla Dinamo srl. I magistrati inquirenti ipotizzano che gli indagati a seguito alla richiesta di anticipazione della somma di 347.200 euro, avrebbero  di fatto ottenuto un “ingiusto profitto” di 319.300 euro erogato con atto dirigenziale della Regione Puglia del 21 novembre 2017 attraverso la produzione di “false attestazioni in ordine all’attività di formazione svolta con riferimento all’indicazione dei docenti e dei lavoratori frequentatori le sessioni di formazione, alla consegna del materiale didattico/cancelleria“ed inoltre “compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a conseguire fraudolentemente l’ulteriore importo di 220.558 euro a titolo di erogazione del saldo del contributo pubblico ammesso, con richiesta formulata dalla ditta il 21 giugno 2018, contestualmente alla comunicazione di chiusura delle attività formative“. Qualcuno potrebbe spiegare ad Emiliano che lui da tempo perde colpi  in materia di giustizia, non a caso ogni suo ricorso come presidente della regione Puglia, viene rigettato ? Dovrebbe avere un maggior rispetto per la toga (in aspettativa) di cui è titolare, sopratutto nei confronti dei magistrati inquirenti della Procura di Bari, che indagano anche lui peraltro in altro procedimento. L’ arroganza serve a ben poco. I consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle, attaccano a viso aperto Emiliano e le sue affermazioni sulla “attenta analisi“: “Rispetti il lavoro della magistratura. Non spetta a lui assolvere qualcuno prima della chiusura delle indagini e poi cercare di correggere il tiro concedendo alla magistratura il diritto d’indagare. Piuttosto ci saremmo aspettati che chiedesse le dimissioni del capo di Gabinetto Stefanazzi, come fatto in passato per i suoi assessori, anche se non indagati. Ma neanche questo può più fare, dal momento che essendo lui stesso coinvolto in tre inchieste, dovrebbe essere il primo a staccarsi dalla poltrona. Lui e Stefanazzi devono dimettersi. Ormai è chiaro che gli stia sfuggendo la situazione di mano: il consigliere Napoleone Cera ai domiciliari con l’accusa di induzione indebita a dare o promettere utilità, l’assessore Ruggeri indagato per corruzione nell’inchiesta sulla nomina del commissario dell’Asp di Chieuti e l’ex assessore Caracciolo su cui abbiamo letto la notizia della chiusura delle indagini con le accuse di corruzione e turbativa d’asta. Decisamente troppo per chi fa della legalità la sua bandiera. È necessario che Emiliano venga in Consiglio a riferire su quanto sta succedendo, senza dare vita alle scenate a cui ci ha abituati“. I grillini dimenticano il consigliere regionale Mazzarano, a processo a Taranto per voto di scambio. Anche nel centrodestra i consiglieri regionali di Fratelli d’Italia vanno  all’attacco. E sempre a partire dalle parole del governatore: “Emiliano poteva risparmiarsi l’attenta analisi della vicenda che sta riguardando il suo Capo di Gabinetto. Noi siamo sempre garantisti e confidiamo nel lavoro della magistratura. Lo siamo stati anche nei confronti dei suoi ex assessori defenestrati dalla giunta senza che lui avesse fatto la stessa analisi che invece ha riservato oggi a Stefanazzi e qualche giorno fa all’assessore al Welfare, Ruggeri. Sarà un caso che nelle inchieste che hanno investito sia Stefanazzi che Ruggeri sia lui stesso indagato e quindi prima di chiedere le loro dimissioni avrebbe dovuto dare le sue. È questo garantismo di Emiliano a doppio binario che dovrebbe far riflettere tutti: la doppia morale a seconda della convenienza è spesso un brutto vizio del centrosinistra”.

Fuga di notizie su Emiliano: sequestrati cellulari di 2 giornalisti. Fnsi: violata segretezza fonti. I fatti si riferiscono ad aprile scorso. I Carabinieri hanno eseguito una copia forense di una parte del contenuto della memoria dei telefoni. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Ottobre 2019. I carabinieri hanno sequestrato - e restituito dopo aver fatto copia di una parte del contenuto - i telefoni cellulari dei giornalisti de La Gazzetta del Mezzogiorno, Massimiliano Scagliarini e Nicola Pepe, nell’ambito delle indagini sulla presunta fuga di notizie relativa all’inchiesta a carico del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, sulla base di un provvedimento disposto dalla Procura di Bari, a firma del procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno e dal pm Savina Toscani. Stando all’ipotesi della Procura e alla denuncia dello stesso Emiliano, tale fuga di notizie consentì al governatore di venire a conoscenza dell’indagine a suo carico prima della notifica dell’avviso di garanzia per abuso d’ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilità e false fatture. Nell'inchiesta sono indagati i due giornalisti per favoreggiamento personale e «pubblici ufficiali da identificare» per divulgazione di notizie riservate. Gli investigatori hanno sequestrato i telefoni dei due giornalisti - che sono stati subito restituiti dopo aver effettuato una copia dei file e dei dati contenuti - «ritenuta l’indispensabilità - si legge nel decreto - della rivelazione della fonte informativa ai fini della prova del reato di divulgazione di notizie riservate e dell’individuazione dei pubblici ufficiali che hanno messo terze persone al corrente di notizie che dovevano restare segrete». La ricostruzione dei fatti che ha portato all’apertura dell’indagine per fuga di notizie e a quelli odierni di sequestro «scaturirebbe da dichiarazioni rese dallo stesso presidente della Regione nei confronti miei e di un altro collega», dichiara in una nota Pepe, assistito dall’avvocato Francesco Paolo Sisto. «Pur apprezzando la compostezza delle operazioni di pg, cui ho prestato massima collaborazione acconsentendo immediatamente alla copia forense nella consapevolezza della correttezza della mia condotta, - dice Pepe - nutro seri dubbi sulla legittimità dell’atto di sequestro del telefono di un giornalista. Il giornalista non può essere infatti obbligato a rivelare, a prescindere da ogni valutazione da chi procede alle indagini, le fonti delle sue notizie». Scagliarini, difeso dall'avvocato Gaetano Castellaneta, precisa di non aver «mai preannunciato ad alcuno l'imminenza di atti di indagini, e non ho mai incontrato il presidente Michele Emiliano alla vigilia della perquisizione di aprile, cosa di cui dà atto la stessa Procura. Il mio mestiere - aggiunge - e' trovare notizie e pubblicarle, cosa che ho fatto anche in questa occasione. Resta l'assurdità di un atto, l'acquisizione del telefono cellulare, tesa a individuare le mie fonti in barba alla tutela costituzionale garantita all'attività giornalistica».

ASSOSTAMPA: ATTACCO SEGRETEZZA FONTI - Disporre perquisizioni e sequestri degli strumenti di lavoro di un giornalista al solo fine di scoprire chi gli ha rivelato una notizia, è una pratica da condannare perché, come più volte ribadito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, rappresenta un attacco alla segretezza delle fonti dei giornalisti» dichiarano la Federazione nazionale della Stampa italiana e l’Associazione della Stampa di Puglia, esprimendo «solidarietà» al collega. «Non è compito dei cronisti tenere nascoste le notizie. Al contrario, sempre secondo la giurisprudenza della Cedu, spesso ignorata dagli inquirenti, i giornalisti - continuano - sono tenuti a pubblicare tutte le notizie che hanno una rilevanza per l'opinione pubblica. Nessun dubbio che i cittadini avessero il diritto di sapere che il presidente della Regione Puglia era indagato. Che la notizia fosse ancora coperta da segreto nulla rileva ai fini della pubblicazione. Se fuga di notizie c'è stata, gli inquirenti dovrebbero cercare il responsabile o i responsabili altrove, magari negli stessi uffici della Procura, lasciando perdere perquisizioni e sequestri a carico dei giornalisti che, è ancora la Cedu a dirlo, rappresentano un attacco al diritto di cronaca e al diritto dei cittadini ad essere informati». L'INTERVENTO DEL CDR DELLA GAZZETTA - Il Comitato di redazione della Gazzetta del Mezzogiorno esprime solidarietà ai colleghi Massimiliano Scagliarini e Nicola Pepe destinatari di un decreto di consegna e decreto di perquisizione personale e locale emesso dalla Procura di Bari con l'aggiunto Lino Giorgio Bruno e il pm Savina Toscani. L'ipotesi di reato è favoreggiamento personale. La Procura indaga sulla fuga di notizie che avrebbe consentito al presidente della Regione Puglia Michele Emiliano di conoscere in anticipo la scorsa primavera di una imminente perquisizione ai suoi danni nell'ambito di un'inchiesta giudiziaria a carico dello stesso governatore. Un fascicolo, quest'ultimo, che parte da una denuncia dello stesso Governatore. I colleghi non sono stati materialmente perquisiti perché hanno spontaneamente consegnato il loro cellulare sbloccato, consentendo al consulente della Procura di effettuare una copia forense. Il cellulare è dunque stato sequestrato e poi restituito ai colleghi dopo le attività necessarie ad effettuare la copia. Alle operazioni hanno assistito l’avv. Gaetano Castellaneta, legale di fiducia del giornale, per il collega Scagliarini e l'avv. Francesco Paolo Sisto per il collega Pepe. Il comportamento dei carabinieri, va detto, cui sono state delegate le indagini, è stato esemplare nonché assolutamente rispettoso nei confronti di entrambi i colleghi. Ciò non toglie che il Cdr ritiene quanto accaduto un fatto molto grave che incide pesantemente sulla libertà d'informazione. Disporre un atto così invasivo nel tentativo di scoprire le fonti di un giornalista contrasta con una giurisprudenza consolidata della Corte europea dei diritti dell'uomo che tutela la segretezza delle fonti dei giornalisti in nome di un principio superiore qual è il diritto dei cittadini ad essere informati. Scavare nel cellulare di un giornalista professionista alla ricerca delle sue fonti sembra andare in una pericolosa direzione opposta rispetto a questi principi. Il giornalista, anche alla luce del disposto dell'art. 200 del c.p.p., non può essere infatti obbligato a rivelare, a prescindere da ogni valutazione da chi procede alle indagini, le fonti delle sue notizie».

Puglia, Emiliano indagato per l'incarico a Spina: abuso d'ufficio. Notificata proroga delle indagini al Governatore. Secondo avviso di garanzia in due mesi. Massimiliano Scagliarini il 12 giugno 2019. Francesco Spina è stato dichiarato decaduto da sindaco di Bisceglie a fine agosto 2017, e dunque in base al decreto Severino non avrebbe potuto ricevere alcuna nomina prima di due anni. Invece il 28 luglio 2017 è stato designato dalla giunta regionale come consigliere della società pubblica InnovaPuglia, quella che si occupa degli appalti centralizzati. È per questo che venerdì scorso la Procura di Bari ha fatto notificare al governatore Michele Emiliano un avviso di proroga delle indagini con l’ipotesi di abuso d’ufficio: il secondo avviso di garanzia in due mesi.

Indagini sui finanziamenti milionari della Regione Puglia alla Ladisa Ristorazione. Il Corriere del Giorno il 13 Giugno 2019. Nel fascicolo a carico del governatore e del suo capo di gabinetto sbuca il maxi finanziamento al colosso barese della ristorazione che avrebbe pagato la campagna elettorale di Emiliano per le primarie del PD. Non è un buon momento per il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, sopratutto dal lato giudiziario, dopo aver ricevuto un avviso di proroga delle indagini preliminari nell’ambito dell’ inchiesta sulla nomina di Francesco Spina, ex sindaco di Bisceglie, a consigliere di amministrazione dell’agenzia regionale Innovapuglia. con un compenso da 20mila euro l’anno. Al centro della prima inchiesta che ha coinvolto il governatore Michele Emiliano indagato ad aprile per “abuso d’ufficio” e “induzione indebita a dare o promettere utilità“, reato questo contestato anche al capo di gabinetto del presidente della giunta, Claudio Stefanazzi, e agli imprenditori Vito Ladisa (della società Ladisa di Bari) Giacomo Mescia (della società Margherita di Foggia) e Pietro Dotti, titolare dell’agenzia di comunicazione pubblicitaria Eggers di Torino. Il punto di partenza da cui sono state avviate le verifiche è quella dei presunti illeciti nel finanziamento della campagna elettorale per le primarie del Pd nel 2017, in cui Michele Emiliano sfidò Matteo Renzi e Andrea Orlando nella corsa per la segreteria nazionale. La creatività della sua campagna di comunicazione del costo 64 mila euro venne affidata alla società Eggers di Torino, di proprietà dell’imprenditore pubblicitario Pietro Dotti, il cui intervento ed operato venne contestato dal governatore pugliese che probabilmente cercava un alibi alla figuraccia fatta alle primarie. Chiaramente l’agenzia Eggers voleva essere pagata per il suo lavoro , mentre Emiliano non voleva pagare, e per questo motivo Pietro Dotti ottenne dal Tribunale un decreto ingiuntivo nei confronti di Emiliano, come lo stesso imprenditore torinese ha confermato e documentato in un interrogatorio subito dopo le perquisizioni di aprile. Il debito di Emiliano secondo la Procura venne saldato per 59 mila proprio dalla Ladisa per 24 mila euro dalla Margherita di Mescia. E’ proprio per quella fattura della società Eggers, che  Ladisa afferma invece di avere pagato per una propria campagna di comunicazione, costituirebbe la chiave di volta per accertare se i rapporti fra il Presidente della Regione Puglia e l’imprenditore barese di fatto siano il corrispettivo di un accordo . Gli investigatori ipotizzano che mentre Ladisa avrebbe estinto il debito personale di Michele Emiliano , in cambio la Regione avrebbe garantito sostegno finanziario con fondi “pubblici”, grazie all’acquisizione di commesse pubbliche che nell’erogazione di contributi e finanziamenti pubblici. La Ladisa era una delle aziende candidate all’ aggiudicazione del mega-appalto per le mense ospedaliere del valore complessivo di 260 milioni di euro , successivamente bloccato e provvisoriamente sostituito con gare ponte delle singole Asl. Non è un caso che nel decreto di perquisizione eseguito lo scorso 9 aprile, la Procura della Repubblica avesse dato ampio mandato alle Fiamme Gialle di cercare in casa di Vito Ladisa e nella sede aziendale anche documenti relativi “ai procedimenti amministrativi svolti o in corso di svolgimento e all’emissione, da parte della Regione, anche di finanziamenti e contributi“. Pochi mesi dopo la campagna per le primarie del Pd, grazie a una delibera della giunta regionale approvata su proposta del presidente il 5 aprile 2018 arrivarono all’azienda non pochi contributi e finanziamenti. La Guardia di Finanza ha acquisito dal Dipartimento Sviluppo Economico della Regione Puglia il documento che diede il semaforo verde al finanziamento da 12 milioni di euro con fondi Por Fesr per il “progetto RE-Star” della Ladisa nella zona industriale di Bari , che riguardava la “ristorazione 4.0”, con un investimento da 27 milioni, 12 dei quali di fondi europei . L’indagine è condotta dalla Guardia di Finanza di Bari, coordinata dal procuratore aggiunto Giorgio Lino Bruno e dalla pm Savina Toscani con la supervisione del procuratore capo Giuseppe Volpe, che ha avocato a sé il fascicolo sulla fuga di notizie, che grazie ad una soffiata di uno dei tanti giornalisti baresi suoi “sodali”, consentì a Emiliano l’ 8 aprile scorso di conoscere in anticipo della imminente perquisizione, che era stata programmata per l’11 aprile.

Michele Emiliano indagato per abuso d’ufficio: “Nominò a Innovapuglia il sindaco di Bisceglie violando la Legge Severino”. Il Corriere del Giorno il 12 Giugno 2019. Quello che Emiliano non dice che la nomina che lui considera legittima sulla base a un parere dell’ Anac, in realtà altro non era che un semplice atto di segnalazione dell’ Autorità Anticorruzione al Parlamento a cui si proponeva di escludere dalla Severino alcuni casi di inconferibilità, tra cui la nomina in incarichi senza poteri di gestione: suggerimento questo che però non è mai stato recepito dal legislatore. Quindi resta da capire da dove Emiliano tragga le sue imbarazzanti deduzioni ed auto-assoluzioni. Nuovi problemi con la giustizia per il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano al quale è stato notificato un altro avviso di proroga delle indagini preliminari per “abuso d’ufficio”. La vicenda riguarda  la nomina, a luglio 2017, di Francesco Spina (ex sindaco di Bisceglie) come consigliere della società Innovapuglia, che gestisce gli appalti centralizzati della Regione. Una nomina che di fatto ha violato la Legge Severino che vieta l’assegnazione di incarichi pubblici a chi nel biennio precedente abbia fatto parte della giunta e del consiglio di Comuni con più di 15mila abitanti. Il provvedimento è stato notificato ad Emiliano venerdì scorso, al termine di un’inchiesta condotta dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Bari su delega del pm dr.ssa Chiara Giordano,  titolare del fascicolo. Emiliano già due mesi fa, aveva ricevuto un altro avviso di garanzia dalla Procura della Repubblica di Bari, insieme al suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi, e tre imprenditori, i quali avevano finanziato la campagna elettorale nel 2017 durante la campagna elettorale per le “primarie” del Pd .

Spina, sindaco di Bisceglie fino ad agosto del 2017, in base alle norme previste dalla legge Severino non avrebbe potuto ricevere incarichi prima di due anni. La nomina nel consiglio di InnovaPuglia è stata decisa dalla giunta regionale a fine luglio 2017 incurante delle norme di legge . Spina è stato indagato anche per “falso” in quanto, al momento dell’accettazione dell’incarico avrebbe firmato una dichiarazione in cui attestava di non trovarsi in situazioni di conflitto di interessi. Immediata la reazione del governatore pugliese, che ha diramato una nota commentando la vicenda: “È tutto regolarissimo. Non abbiamo nessuna preoccupazione” ha detto Emiliano, secondo il quale “l’inconferibilità è stata esclusa dall’Anac e dagli uffici del Gabinetto del Presidente perché Spina è un semplice consigliere di amministrazione senza deleghe. La inconferibilità dei sindaci riguarda solo il ruolo di presidente con deleghe o di amministratore delegato. In caso di consiglieri di amministrazione senza deleghe non sussiste”. A sentire la versione di Emiliano che spesso e volentieri dimentica di non essere un giudice, ma soltanto un magistrato in aspettativa (peraltro sanzionato dal Consiglio Superiore della Magistratura)  “il reato tecnicamente non sussiste”. Quello che Emiliano non dice che la nomina che lui considera legittima sulla base a un parere dell’ Anac, in realtà altro non era che un semplice atto di segnalazione dell’ Autorità Anticorruzione al Parlamento a cui si proponeva di escludere dalla Severino alcuni casi di inconferibilità, tra cui la nomina in incarichi senza poteri di gestione: suggerimento questo che però non è mai stato recepito dal legislatore. Quindi resta da capire da dove Emiliano tragga le sue imbarazzanti deduzioni ed auto-assoluzioni. Emiliano passa al contrattacco: “I reati che invece sussistono ed anzi si ripetono (e che sono stati da me già denunziati al Procuratore della Repubblica) – ha aggiunto il presidente della Regione Puglia – sono quelli dei pubblici ufficiali che veicolano notizie coperte dal segreto istruttorio, che poi vengono diffuse, determinando una rivelazione del segreto di ufficio e conseguentemente un danno alla mia immagine con dettagli privi di alcun rilievo penale. Non discuto la notizia della richiesta di proroga delle indagini – ha aggiunto l’ex pm antimafia – ma la minuziosa descrizione del merito dell’indagine dettagliatamente riportata dalla stampa ed ignota al diretto interessato, perché non descritta neanche nella citata richiesta. A questo punto, accanto al rapido accertamento della verità,  è inevitabile – e sono fiducioso – che la magistratura faccia di tutto per individuare questi pubblici ufficiali che si pongono al di fuori della legge anziché tutelarla“. Anche in questo caso Emiliano cade nel ridicolo, in quanto fu proprio un giornalista a rendergli noto che si indagava su di lui, e non lo apprese certamente da un articolo di giornale o dal web… La Procura di Bari dovrà ora esaminare la documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza e stabilire se l’indagine merita di andare avanti o procedere alla proposta di archiviazione al giudice per le indagini preliminari.

Bufera su Spina, ostriche e suite: i rimborsi d’oro dell’ex sindaco di Bisceglie. Esposto di un consigliere comunale di Bisceglie: il Comune ha speso in trasferte 65mila euro in 5 anni. Massimiliano Scagliarini il 13 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nell’ottobre 2014, per partecipare al Salone del Gusto di Torino, l’allora sindaco di Bisceglie, Francesco Spina, ha prenotato una junior suite al Best Western Luxor: 460 euro per tre notti. E per tornare a casa, ha preso l’aereo da Linate, dove è arrivato in taxi: 620 euro. Una vera e propria passione quella per i taxi, che insieme a ostriche e mozzarelle di bufala sembrano essere i preferiti di Spina. Lo ha scoperto un giovane consigliere comunale di Bisceglie, Giuseppe Losapio. Dopo aver notato che all’albo pretorio non venivano pubblicate le liquidazioni delle trasferte degli amministratori, come prevede la legge, ha fatto un accesso agli atti. Il risultato sono 98 determine di liquidazione emesse tra il 2013 e il 2018, per un totale di 65.674 euro, una montagna di carta finita in un esposto che Losapio ha protocollato lunedì al segretario generale del Comune, responsabile dell’anticorruzione. La parte del leone la fanno, ovviamente, le trasferte del sindaco Spina. Che a Roma il 18 giugno 2013 ha pernottato all’hotel Forum spendendo 205 euro per una notte, mentre l’11 maggio 2016, ha mangiato alla crostaceria Sa Tanca di via Palermo spendendo 110 euro, mentre il 1° giugno 2017 ha scelto la classica Ambasciata d’Abruzzo di via Pietro Tacchini, ai Parioli, per un pranzo per due persone da 220 euro. In precedenza, ad aprile 2014, ha mangiato all’ostricheria La Rosetta, dietro il Pantheon, dove andava spesso: altri 100 euro, nell’ambito di una missione di un giorno che - scrive Losapio - è costata 553,90 euro. E tutto questo nonostante la legge (un decreto ministeriale del 2011) imponga un massimale di 184 euro per giorno di missione fuori sede e di 58 euro a pasto. L’esposto nota che circa il 40% delle spese (che riguardano tutti gli amministratori e non solo il sindaco) è stato rimborsato su autocertificazione, dichiarando cioè di aver smarrito le ricevute. E nota ancora che nelle determine di liquidazione sono finiti scontrini e ricevute di ogni genere, anche per le cose più piccole: due euro di cioccolate Lindt all’Autogrill di Fiorenzuola, due stecche di gianduia Venchi all’aeroporto di Torino, 56 euro di latticini al caseificio di Caianello (acquistati dall’allora vicesindaco), due pacchetti di Pall Mall alla stazione di servizio di Mirabella sulla Napoli-Canosa. «Nello specifico - scrive Losapio - risultano rimborsi per caffè, colazioni e pasti che fanno insorgere dubbi in merito all’effettivo numero di partecipanti autorizzati alle missioni, rispetto a quello deliberato». E poi, appunto, ci sono i taxi, che il Comune di Bisceglie ha rimborsato anche nei giorni in cui la missione era avvenuta con l’auto di servizio, spendendo ogni volta diverse centinaia di euro. Per non parlare dei rimborsi per il carburante: a fronte di un consumo stimato da viaMichelin di 90 euro per 780 km andata e ritorno, il carburante di un Bisceglie-Roma e viceversa è stato pagato 160 euro a marzo 2015 e 210 a febbraio 2017. Spina non ha ritenuto di rispondere ad una telefonata e a un messaggio Whatsapp in cui la «Gazzetta» chiedeva chiarimenti.

Emiliano, la Procura indaga su chi finanziò le primarie Pd. Acquisiti bilanci e conti bancari. «Spesi 63mila euro, solo piccoli contributi», scrive Massimiliano Scagliarini il 21 Aprile 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La campagna di Michele Emiliano per le primarie Pd del 2017 è costata circa 100mila euro. E dopo le perquisizioni della scorsa settimana che hanno fatto emergere l’apertura di un fascicolo per abuso d’ufficio e induzione indebita nei confronti del governatore della Puglia, la Procura di Bari sta passando al setaccio l’elenco dei suoi finanziatori: vuole capire da dove sono venuti i soldi, come sono stati spesi e vuole verificare se chi ha pagato abbia poi ricevuto qualcosa in cambio dalla Regione. Il Nucleo di polizia economico finanziaria di Bari ha infatti acquisito anche il rendiconto delle primarie Pd di Emiliano, un documento che le stesse regole dei Democratici avevano previsto di rendere pubblico (cosa mai avvenuta). Sono stati acquisiti anche i rendiconti bancari dell’associazione Piazze di Puglia, la stessa che nel 2015 si era occupata della campagna elettorale di Emiliano per le Regionali. La differenza, però, è evidente. Mentre le elezioni (e i relativi contributi) sono disciplinate per legge, le primarie rispondevano solo ai limiti previsti nel regolamento del Pd: non più di 250mila euro di spese, divieto assoluto di affissioni 6x3 e di spot televisivi, obbligo di rendere noti i finanziatori per cifre superiori a 5mila euro. Il rendiconto prodotto da Emiliano, che è stato presentato due volte, si è fermato a 63.400 euro e nella seconda versione comprende - appunto - anche i 24mila euro (riportati sottoforma di «prestazione di servizi») che l’avvocato Giacomo Mescia, imprenditore dell’eolico nonché coindagato, ha versato alla Eggers di Torino a fronte della fattura da 65mila euro per servizi di comunicazione che l’entourage del governatore ritenne di dover contestare perché la campagna elaborata dall’agenzia guidata da Vittorio Dotti era troppo «ispirata» a quella che Debora Serracchiani aveva utilizzato per le Regionali del 2013. Quella fattura pagata da Mescia, secondo l’indagine portata avanti dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno e dal pm Savina Toscani, sarebbe però falsa. E - da qui l’accusa di induzione indebita - Mescia si sarebbe impegnato a pagare (a fronte di un decreto ingiuntivo emesso nei confronti di Emiliano come persona fisica) dietro le pressioni del presidente e del suo entourage. Ma, in cambio, potrebbe aver ottenuto qualche favore. Quella di Emiliano per le primarie Pd del 2017 è stata una campagna low-cost. La voce di spesa più rilevante è costituita dalle affissioni di  manifesti 70x100, curate da una agenzia calabrese che per risparmiare ha prenotato soltanto spazi comunali (meno costosi rispetto a quelli gestiti da privati). Le altre voci di costo sono, appunto, quelle per la  stampa, la spedizione e i costi vivi di gestione della campagna: l’auto a noleggio, il carburante, gli alberghi. Tutto - spiegano fonti vicine a Emiliano - regolarmente rendicontato. Mentre i finanziatori (in gran parte persone vicine al presidente, professionisti o altri eletti del Pd) avrebbero tutti versato meno di 5mila euro, così da non far scattare l’obbligo di rendere noti i nomi: non ci sarebbero comunque banche, imprese edili o aziende del mondo dei rifiuti. E va detto pure che quelle furono primarie a metà, perché il 6 aprile Emiliano si ruppe il tendine d’achille ballando in piazza in Calabria e portò avanti la campagna dalla sedia a rotelle. L’inchiesta nei confronti di Emiliano, partita con una lettera anonima, è stata aperta a giugno dello scorso anno. A fine marzo la Procura ha chiesto e ottenuto la proroga delle indagini per altri 6 mesi. L’ipotesi è che oltre ad aver indotto due imprenditori a farsi carico delle sue spese, Emiliano abbia effettuato una nomina illegittima in una società regionale: di qui l’accusa di abuso d’ufficio contestata al solo presidente.

Michele Emiliano indagato a Bari: "Illeciti nelle primarie Pd in cui sfidò Matteo Renzi". Il governatore pugliese accusato di abuso d'ufficio con il suo capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi. L'inchiesta su presunti illeciti durante la campagna elettorale per la guida del partito nel 2017, scrivono Giuliano Foschini e Chiara Spagnolo il 10 aprile 2019 su La Repubblica. Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, e il suo capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi, sono indagati in un'inchiesta su presunti illeciti commessi durante la campagna elettorale per le primarie del partito democratico, nell'aprile 2017, nelle quali il governatore pugliese sfidò Matteo Renzi, poi eletto segretario. L'indagine della guardia di finanza di Bari, coordinata dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno, coinvolge 5 persone. Oltre al presidente della Regione Puglia, Emiliano e al suo capo di gabinetto Stefanazzi, sono indagati tre imprenditori, due di una azienda barese che avrebbe finanziato con 65mila euro parte della campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017 e un altro, titolare della agenzia di comunicazione, creditrice della somma, che curò quella campagna. Ai pubblici amministratori la magistratura barese contesta i reati di induzione indebita in concorso con gli imprenditori e abuso d'ufficio, ai soli imprenditori le false fatture fatte per giustificare quel pagamento. L'indagine ha portato la guardia di finanza negli uffici della Regione, ad acquisire documentazione su delega della Procura. La visita degli investigatori era stata preannunciata a Emiliano lunedì 8 aprile, da parte di una persona che è stata poi denunciata dal governatore. "Lo stesso lunedì 8 aprile chiedevo al procuratore della Repubblica di Bari di potere denunciare i fatti a mia conoscenza al fine di ottenere la massima tutela da possibili violazioni del segreto istruttorio di natura strumentale atteso il mio ruolo pubblico - ha spiegato Emiliano in una nota - Questa mattina alle 9, come anticipato dalla fonte indicata al procuratore della Repubblica il giorno prima, la Guardia di finanza di Bari mi chiedeva di potere verificare alcune chat del mio telefono e mail relative agli scambi di messaggi con alcuni soggetti di interesse dell'ufficio. Contemporaneamente identica acquisizione è stata effettuata al mio Capo di Gabinetto". "Abbiamo fornito piena collaborazione - ha concluso il presidente della giunta regionale - al fine di consentire l'acquisizione di tutti gli elementi utili, nella convinzione di avere operato con assoluta correttezza e rispetto delle leggi".

Mic. All. per il Messaggero l'11 aprile 2019. Una fattura da 65mila euro costa al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, l' iscrizione sul registro degli indagati. Quei soldi sarebbero stati utilizzati per finanziare la campagna elettorale per le primarie del Pd, nell' aprile 2017, nelle quali il governatore pugliese aveva sfidato Matteo Renzi, poi eletto segretario. L' inchiesta è della Procura di Bari e coinvolge anche il capo di Gabinetto del politico, Claudio Stefanazzi, e tre imprenditori: due sono dell' azienda barese che avrebbe staccato l' assegno, l' altro è il titolare dell' agenzia di comunicazione, creditrice della somma, che aveva curato la campagna. I due pubblici ufficiali sono accusati di induzione indebita a dare e promettere utilità - in concorso con gli altri tre indagati - e abuso d' ufficio, mentre gli imprenditori devono rispondere di false fatturazioni, effettuate, secondo i pm, per giustificare il pagamento.  Ieri la Guardia di finanza, coordinata dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno, ha acquisito documentazione nella sede della Presidenza della Regione Puglia, comprese alcune chat sul cellulare di Emiliano e di Stefanazzi, e varie mail contenute nei loro computer. La visita degli inquirenti per Emiliano non è stata una sorpresa: due giorni fa ha denunciato ai pm di essere stato avvisato di quel blitz. «Ho denunciato una violazione del segreto istruttorio - ha detto il governatore pugliese - Lunedì 8 aprile sono venuto a conoscenza che giovedì 11 sarei stato oggetto di un' attività di acquisizione di documenti e dati da parte della GdF in relazione ai finanziamenti percepiti in occasione della mia campagna per le primarie del Pd del 2017. La fuga di notizie, in piena violazione del segreto istruttorio, precisava ulteriori fatti e circostanze». Emiliano ha aggiunto di avere chiesto al procuratore di Bari «di potere denunciare i fatti per ottenere la massima tutela da possibili violazioni del segreto istruttorio di natura strumentale, atteso il mio ruolo pubblico». Il politico ha anche spiegato i contorni dell' inchiesta a suo carico: «La questione attiene a verifiche sulla natura dei pagamenti di una società di comunicazione che ha curato parte della mia campagna elettorale, e con la quale era insorto un contenzioso giudiziario. Abbiamo fornito piena collaborazione, nella convinzione di avere operato con assoluta correttezza».

Campagna primarie 2017, indagato Emiliano. Procura chiede proroga indagini. «Violato segreto istruttorio». Coinvolti nell'indagine anche il suo capo di gabinetto e tre imprenditori dalla Procura di Bari per una vicenda che riguarda una fattura da 65.000 euro pagata da due imprenditori baresi ad un'agenzia di comunicazione, scrive il 10 Aprile 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Una proroga delle indagini di sei mesi è stata notificata ieri dalla Guardia di Finanza di Bari, su disposizione della magistratura barese, contestualmente alle acquisizioni e perquisizioni nella Presidenza della Regione Puglia e nelle aziende riconducibili agli imprenditori indagati in concorso con il governatore pugliese, Michele Emiliano. Nel provvedimento, a firma del gip Antonella Cafagna su richiesta del procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno e del sostituto Savina Toscani, sono elencati i nomi dei cinque indagati e i reati ipotizzati nei loro confronti. Oltre al presidente Emiliano, accusato di abuso d’ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilità (entrambi i fatti risalenti al 2018) e concorso in reati tributari per l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, sono indagati il suo capo di gabinetto, Claudio Michele Stefanazzi, gli imprenditori Giacomo Pietro Paolo Mescia, Vito Ladisa e Pietro Dotti. Gli accertamenti della Guardia di Finanza di Bari, disposti dalla Procura nell’ambito dell’inchiesta nella quale è indagato il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, riguardano eventuali procedimenti amministrativi svolti e in corso di svolgimento e l'eventuale emissione da parte di uffici della Regione Puglia di provvedimenti relativi alla società di ristorazione Ladisa Srl. È uno dei particolari che emergono dall’indagine che ieri ha portato i finanzieri baresi negli uffici della Presidenza della Regione per acquisizione di documenti e dati e nella stessa azienda, i cui uffici sonno stati perquisiti perché nell’inchiesta è indagato l’amministratore Vito Ladisa. La Gdf era alla ricerca di «finanziamenti, contributi regionali, contratti di appalto, delibere e determine» e di documenti relativi alla registrazione nelle scritture contabili della fattura dell’ottobre 2017, dell’importo di circa 59 mila euro, emessa dall’agenzia di comunicazione torinese Eggers 2.0 nei confronti di Ladisa. La perquisizione ha portato anche a sequestro di documenti. Il sospetto degli inquirenti è che ci sia un collegamento tra il pagamento della fattura alla Eggers (che aveva un credito nei confronti di Emiliano di cui aveva curato la campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017) e eventuali rapporti di lavoro delle aziende pugliesi che hanno poi pagato quel debito e la Regione. I finanzieri stanno ricostruendo, infatti, anche i rapporti tra l’imprenditore barese con il presidente Emiliano nonché con alcuni dei suoi collaboratori e con il titolare della società di comunicazione, Pietro Dotti.

COSA È SUCCESSO IERI - Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, è indagato con il suo capo di gabinetto e tre imprenditori dalla Procura di Bari per una vicenda che riguarda una fattura da 65.000 euro pagata da due imprenditori baresi ad una agenzia di comunicazione che ha curato la sua campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017. I reati contestati a vario titolo sono induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso di ufficio e false fatture. L’indagine della Guardia di Finanza di Bari, coordinata dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno, coinvolge 5 persone. Oltre al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano e al suo capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi, sono indagati tre imprenditori, due di una azienda barese che avrebbe finanziato con 65mila euro parte della campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017 e un altro, titolare della agenzia di comunicazione, creditrice della somma, che curò quella campagna. Nell’ambito dell’indagine, i finanzieri baresi oggi hanno acquisito documentazione nella sede della Presidenza della Regione Puglia. Ai pubblici amministratori la magistratura barese contesta i reati di induzione indebita in concorso con gli imprenditori e abuso d’ufficio, ai soli imprenditori le false fatture fatte per giustificare quel pagamento. «Ho denunciato ieri alla Procura della Repubblica una violazione del segreto istruttorio», ha dichiarato il governatore pugliese, Michele Emiliano. «Lunedì 8 aprile sono infatti venuto a conoscenza che giovedì 11 sarei stato oggetto di una attività di acquisizione di documenti e dati da parte della GdF in relazione ai finanziamenti percepiti in occasione della mia campagna per le primarie del Pd del 2017. La fuga di notizie in piena violazione del segreto istruttorio precisava ulteriori fatti e circostanze». «Lo stesso lunedì 8 aprile - prosegue Emiliano - chiedevo al Procuratore della Repubblica di Bari di potere denunciare i fatti a mia conoscenza al fine di ottenere la massima tutela da possibili violazioni del segreto istruttorio di natura strumentale atteso il mio ruolo pubblico. Denunciavo i fatti martedì 9 aprile al Procuratore della Repubblica redigendo regolare verbale». «Questa mattina alle ore 9 - prosegue Emiliano - come anticipato dalla fonte indicata al Procuratore della Repubblica il giorno prima, la Guardia di finanza di Bari mi chiedeva di potere verificare alcune chat del mio telefono e mail relative agli scambi di messaggi con alcuni soggetti di interesse dell’ufficio. Contemporaneamente identica acquisizione è stata effettuata al mio Capo di Gabinetto». «La questione - spiega ancora Emiliano - attiene a verifiche sulla natura dei pagamenti di una società di comunicazione che ha curato parte della mia campagna elettorale, e con la quale era insorto un contenzioso giudiziario».

EMILIANO: «ABBIAMO FORNITO PIENA COLLABORAZIONE» - «Abbiamo fornito piena collaborazione al fine di consentire l’acquisizione di tutti gli elementi utili, nella convinzione di avere operato con assoluta correttezza e rispetto delle leggi». Ha aggiunto il governatore in merito all'indagine della guardia di finanza che questa mattina ha acquisito documentazione nella sede della Presidenza della Regione Puglia. «Questa mattina alle ore 9, come anticipato dalla fonte indicata al Procuratore della Repubblica il giorno prima - precisa il governatore - la Guardia di finanza di Bari mi chiedeva di potere verificare alcune chat del mio telefono e mail relative agli scambi di messaggi con alcuni soggetti di interesse dell’ufficio. Contemporaneamente identica acquisizione è stata effettuata al mio Capo di Gabinetto». «Avere appreso preventivamente di atti giudiziari che poi effettivamente si sono svolti cosi come mi era stato anticipato mi ha molto colpito e mi auguro che tale circostanza consenta alla Procura della Repubblica di Bari di accertare sino in fondo la verità a tutela mia personale, della funzione da me esercitata, e soprattutto della comunità che rappresento». Lo afferma il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, in relazione alla fuga di notizia da lui denunciata sull'inchiesta che lo riguarda. «Questo - conclude - rende doverosa la verifica della correttezza di tutti gli accertamenti in corso per garantirne la non strumentalizzazione, nonostante la violazione del segreto istruttorio verificatasi nel caso di specie».

SISTO (FI): SCONCERTA IL SUO TENTATIVO DI SOVVERTIRE GRAVITÀ DELLA NOTIZIA, RILANCIANDO - «Noi siamo sempre garantisti: la presunzione di non colpevolezza vale per tutti, e dunque anche per i pubblici ministeri che scendono in politica. Ma ciò che davvero sconcerta è il tentativo di Michele Emiliano di sovvertire, con un puerile e plateale diversivo, la gravità evidente della notizia, addirittura rilanciando». Lo dichiara il deputato e coordinatore di Forza Italia per Bari e provincia Francesco Paolo Sisto commentando l'indagine a carico del presidente della Regione Puglia e del suo capo di gabinetto, indagati con l'accusa di abuso d'ufficio e induzione indebita. La vicenda riguarderebbe una fattura da 65mila euro pagata da due imprenditori baresi a una agenzia di comunicazione che ha curato la campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017. Intanto, Emiliano ha presentato alla procura di Bari una denuncia per violazione del segreto istruttorio. «Che Emiliano sia venuto a conoscenza in anteprima delle mosse della polizia giudiziaria a suo carico è un fatto ancora più inquietante di quanto gli viene contestato», dichiara Sisto e conclude: «Il governatore pugliese è un politico da dimenticare, anche per questo».

Indagati Emiliano e il suo capo di Gabinetto per le primarie Pd 2017, scrive l'11 Aprile 2019 IL Corriere del Giorno. L’indagine della Guardia di Finanza di Bari, affidata alla pm Savina Toscani e coordinata dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno, coinvolge tre imprenditori, i due fratelli baresi Sebastiano e Vito Ladisa titolari una azienda barese di ristorazione che avrebbe finanziato con 65mila euro parte della campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017 e un altro, titolare della agenzia di comunicazione torinese Eggers che fa capo a Pietro Dotti, creditrice della somma, che curò quella campagna. Michele Emiliano, magistrato in aspettativa ed attuale presidente della Regione Puglia, ed il suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi e altre tre persone sono indagati per una vicenda che riguarda la campagna per le primarie nazionali del Pd del 2017. I reati ipotizzati dalla Procura della Repubblica di Bari sono di “abuso d’ufficio“, “induzione indebita a dare o promettere utilità” e “false fatture”. La vicenda è venuta alla luce a seguito della perquisizione subita ieri mattina dal governatore e dal suo capo di gabinetto ad opera della Guardia di Finanza. Le Fiamme Gialle hanno acquisito il contenuto di alcune chat e di alcune email. L’indagine della Guardia di Finanza di Bari, affidata alla pm Savina Toscani e coordinata dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno, coinvolge tre imprenditori, i due fratelli baresi Sebastiano e Vito Ladisa titolari una azienda barese di ristorazione che avrebbe finanziato con 65mila euro parte della campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017 e un altro, titolare della agenzia di comunicazione torinese Eggers che fa capo a Pietro Dotti, creditrice della somma, che curò quella campagna. Nell’ambito dell’indagine, i finanzieri baresi oggi hanno acquisito documentazione nella sede della presidenza della Regione Puglia. Ai pubblici amministratori la magistratura barese contesta i reati di induzione indebita in concorso con gli imprenditori e abuso d’ufficio, ai soli imprenditori le false fatture fatte per giustificare quel pagamento. Nel pomeriggio di ieri è stato lo stesso Emiliano a darne notizia con un comunicato a rendere noto che si era rivolto , a sua volta, agli uffici della Procura di Bari per denunciare la violazione del segreto istruttorio in quanto  lunedì mattina, 8 aprile, un giornalista aveva anticipato a Emiliano la visita della Guardia di Finanza per il giovedì successivo (quindi oggi) , ma  i militari hanno anticipato l’operazione. “Lunedì 8 aprile sono infatti venuto a conoscenza che giovedì 11 sarei stato oggetto di una attività di acquisizione di documenti e dati da parte della GdF in relazione ai finanziamenti percepiti in occasione della mia campagna per le primarie del Pd del 2017” scrive Emiliano “La fuga di notizie in piena violazione del segreto istruttorio precisava ulteriori fatti e circostanze. Abbiamo fornito piena collaborazione al fine di consentire l’acquisizione di tutti gli elementi utili, nella convinzione di avere operato con assoluta correttezza e rispetto delle leggi. Questa mattina alle ore 9, come anticipato dalla fonte indicata al Procuratore della Repubblica il giorno prima – precisa il governatore  pugliese – la Guardia di Finanza di Bari mi chiedeva di potere verificare alcune chat del mio telefono e mail relative agli scambi di messaggi con alcuni soggetti di interesse dell’ufficio. Contemporaneamente identica acquisizione è stata effettuata al mio Capo di Gabinetto“. Emiliano ha spiegato che “la questione attiene a verifiche sulla natura dei pagamenti di una società di comunicazione che ha curato parte della mia campagna elettorale e con la quale era insorto un contenzioso giudiziario“. La contestazione rivolta agli indagati è che i fratelli  Sebastiano e Vito Ladisa , titolari di una grande azienda di preparazione di pasti, su pressione del Presidente della Regione Puglia  e del suo capo di gabinetto Stefanazzi, sarebbero stati indotti a pagare la campagna elettale di Michele Emiliano all’agenzia di comunicazione Dotti di Torino. Secondo la tesi difensiva sostenuta dai collaboratori di Michele Emiliano che seguono da vicino la vicenda, il governatore si sarebbe rivolto all’azienda torinese e questa avrebbe preparato una campagna di comunicazione. A pagare il conto si sarebbe offerto l’avvocato foggiano Giacomo Pietro Paolo Mescia, da sempre puntuale “sponsor” di Emiliano ed il governatore pugliese avrebbe accettato il contributo del legale. Il legale foggiano tramite una sua società la Margherita srl, proseguono i collaboratori di Emiliano avrebbe anticipato, con 20 mila euro, parte del pattuito,  ma successivamente, lo staff di Emiliano avrebbe scoperto che la campagna di comunicazione preparata era la stessa predisposta alcuni mesi prima per Debora Serracchiani l’ex vice segretaria del Pd ed ex presidente del Friuli Venezia Giulia e da qui sarebbe nato il contenzioso : la richiesta della società torinese di incassare quanto pattuito; la contestazione di Emiliano secondo il quale i 20mila euro pagati da Mescia bastavano ed avanzavano. Da questo contenzioso era scaturita l’emissione di un decreto ingiuntivo richiesto al Tribunale dalla società piemontese. A causa di tutto ciò  sostengono i collaboratori di Emiliano, con la lettura del decreto ingiuntivo tutto era noto, anche i pagamenti dell’avvocato foggiano. Una teoria poco credibile in quanto il decreto ingiuntivo lo conoscono solo gli attori: cioè chi chiede il pagamento e la controparte. La società Margherita srl secondo l’ipotesi di accusa della Procura di Bari  aveva ottenuto il 22 settembre 2016 l’autorizzazione unica per installare un parco eolico da 30 MW nel territorio di San Severo, impianto in attesa di autorizzazione fin dal 2009: l’accusa ritiene che l’autorizzazione e il contributo elettorale possano in qualche modo essere collegati. L’ avvocato Mescia al momento non risulterebbe coinvolto nell’indagine, che viene coordinata dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno. L’ ipotesi di reato accusatoria, invece, si basa sulla circostanza che i fratelli Ladisa avrebbero pagato la somma reclamata dall’imprenditore torinese Pietro Dotti , “sollecitati” dal governatore e dal suo capo di gabinetto. Agli imprenditori baresi coinvolti vengono contestate le false fatture, emanate per giustificare il pagamento. “Avere appreso preventivamente di atti giudiziari che poi effettivamente si sono svolti così come mi era stato anticipato – dichiara Emiliano nel comunicato di ieri pomeriggio – mi ha molto colpito. Mi auguro che tale circostanza consenta alla procura della Repubblica di Bari di accertare sino in fondo la verità a tutela mia personale, della funzione da me esercitata e soprattutto della comunità che rappresento“. Emiliano però si guarda bene dal raccontare perchè chieda a due imprenditori che forniscono i propri servizi a molteplici enti pubblici, di pagare la sua campagna elettorale. E forse sarebbe il caso di scavare anche nel passato.  La legge è e deve essere uguale per tutti. Sopratutto per Michele Emiliano. Il fatto che sia venuto a conoscenza in anteprima tramite un giornalista barese delle mosse della polizia giudiziaria a suo carico è un fatto ancora più inquietante di quanto gli viene contestato. Ci auguriamo  quindi di sapere anche chi è il giornalista che ha “spifferato” l’inchiesta al governatore pugliese. Anche se il Consiglio di disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti di Bari, spesso e volentieri dorme sulle questioni deontologiche…

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 12 aprile 2019. Tocca fare i complimenti al governatore pugliese Michele Emiliano, anche se fino a cinque mesi fa era del Pd e, prima di conoscerli bene, sponsorizzava un accordo tra i dem e i grillini. Poi, quando li ha messi a fuoco, se ne è pentito amaramente. Vulcanico uomo de panza da 110 chili almeno, è il primo politico messo sotto la lente dai magistrati che ha il coraggio di sfidarli apertamente, probabilmente aiutato dal fatto di essere tuttora un membro della casta in toga, sebbene in aspettativa. Il dettaglio non è trascurabile, ma ci vogliono comunque attributi d' acciaio per vedersi contestati i reati di abuso d' ufficio e induzione indebita a dare o promettere utilità e presentarsi in Procura per denunciare gli altri. Dell' inchiesta ci importa poco in questa sede, anche perché da sempre non siamo usi a processare i politici sulla stampa prima che le accuse contro di loro siano corroborate da una sentenza di condanna. E considerato che, nove volte su dieci, il verdetto di colpevolezza non arriva, non vogliamo unirci al coro mediatico che spesso arreca danni irrimediabili ai nostri amministratori indagati e, statisticamente, innocenti. Da Cota a Mastella, da Del Turco a Ignazio Marino, assolto proprio due giorni fa, troppe sono le carriere politiche, a destra come a sinistra, affossate da indagini finite in nulla. Molto spesso poi chi è stato mandato a casa agitando le manette è stato sostituito da governanti peggiori di lui. Valga per tutti l' esempio della Capitale: se il Pd, e in particolare il romanissimo presidente dei Dem di allora, Matteo Orfini, non avessero costretto il triste chirurgo Marino a dimettersi da sindaco cavalcando la mannaia giudiziaria, forse oggi non ci troveremmo la Raggi in Campidoglio. Quello che ci preme qui ergere a esempio di come si deve fare, e che ci fa applaudire con vigore un uomo del quale non condividiamo le opinioni politiche, è la decisione di Emiliano di presentarsi dai magistrati di Bari per denunciare una fuga di notizie sull' inchiesta che lo vede sul banco degli accusati, costringendo la Procura che lo indaga a fare accertamenti su se stessa. Il governatore pugliese ha saputo da un giornalista che la Guardia di Finanza avrebbe svolto una perquisizione nei suoi confronti tre giorni prima che questo accadesse e senza attendere il fatto ha gridato il suo «non ci sto». Esperto di tribunali, il governatore ha fatto scoppiare il bubbone, mettendo il dito nella piaga del sistema, ovverosia l' orrido vezzo tribunalizio di far filtrare alla stampa in qualche modo le notizie riservate riguardanti gli indagati eccellenti così da fornire ampia eco mediatica ai processi. Lo schema è collaudato e l' effetto garantito: l' imputato si presenta già alla prima udienza come condannato dall' opinione pubblica, che quando ha l' occasione di infilzare un potente non se la fa mai perdere. La condanna politica scatta così immediata, con tanti saluti alla verità giudiziaria, che viene accertata solo anni dopo, quando la frittata è fatta e non si può rimediare a eventuali sbagli, che poi nessuno è chiamato a pagare, perché il poveretto, inquisito da potente, da assolto ormai non conta più nulla. La prassi è talmente inveterata che ormai nessuno se ne stupisce, tantomeno la denuncia. In genere chi è indagato non protesta perché teme di peggiorare la propria situazione, ed è su questo che contano i monatti di notizie riservate. Emiliano lo ha fatto, e questo ne fa un difensore della legge. Nel codice di procedura penale l' avviso di garanzia è strumento a tutela dell' indagato. La prassi mediatico-giudiziaria l'ha trasformato in una campana a morto per chiunque lo riceva. L' atto del governatore pugliese rende giustizia a molti. Per inciso, l' attività giudiziaria in questione riguarda i finanziamenti a Emiliano per le primarie del Pd del 2017, dove il governatore è arrivato terzo con il 10%, a sessanta punti dal vincitore Matteo Renzi. Ma non hanno nulla di più urgente e rilevante di cui occuparsi i magistrati in Puglia?

L'inchiesta su Emiliano, ora nel mirino finiscono le nomine. Oltre al fascicolo per induzione indebita relativa a una fattura delle primarie pagate da due imprese, si indaga anche per abuso d'ufficio, scrive Massimiliano Scagliarini il 13 Aprile 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. L’ipotesi che i due imprenditori possano essere stati costretti ad accollarsi le spese di comunicazione sostenute da Michele Emiliano per partecipare alle primarie del Pd del 2017. Ma anche quella che il governatore della Puglia - nell’autonomia che la legge gli conferisce attraverso atti monocratici - possa aver assunto una decisione illegittima come ad esempio una nomina. Il fascicolo della Procura di Bari deflagrato mercoledì con una serie di perquisizioni (e con la denuncia del presidente, che ha detto di essere stato preavvertito dell’imminente intervento della Finanza) ipotizza infatti oltre al reato di induzione indebita a dare o promettere utilità (a carico di Emiliano, del suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi e degli imprenditori Giacomo Mescia e Vito Ladisa), anche quello di abuso d’ufficio a carico del solo governatore. Le norme in questo caso sono molto chiare. L’induzione indebita, in precedenza raccolta sotto l’ombrello della generica concussione, è il reato del pubblico ufficiale che induce qualcuno (nell’ipotesi: i due imprenditori) a fare qualcosa contro la propria volontà (il pagamento delle due fatture emesse dalla Eggers di Torino per la consulenza di comunicazione prestata a favore di Emiliano). A differenza della concussione, l’induzione indebita non prevede una costrizione: è per questo che viene punito anche chi è stato indotto. È ben diversa l’accusa di abuso d’ufficio, che la Procura (l’aggiunto Lino Giorgio Bruno e la pm Savina Toscani) in sede di richiesta di proroga delle indagini ha ritenuto di dover contestare solo a Emiliano. La differenza è che, in questo caso, il governatore non è sospettato di aver chiesto nulla in cambio: semplicemente, di aver fatto un atto contrario alla legge o ai regolamenti. Come, appunto, una nomina avvenuta in assenza di requisiti. Ecco perché nelle perquisizioni di mercoledì nella sede della giunta regionale a Bari, la Finanza ha acquisito - oltre ad alcuni documenti - sia i contenuti del cellulare del presidente sia il computer della sua segretaria particolare. La ricerca potrebbe infatti essere concentrata sugli incontri e gli appuntamenti di Emiliano, la cui iscrizione nel registro degli indagati risale a giugno 2018: sono gli accertamenti eseguiti dopo quella data ad aver convinto la Procura a formulare le ipotesi provvisorie di reato, stabilendo la necessità di procedere attraverso le perquisizioni. Dopo le dichiarazioni di mercoledì in cui ha detto di aver denunciato in Procura a Bari di essere stato avvertito in anticipo delle perquisizioni (su questo è aperto un fascicolo affidato al procuratore Giuseppe Volpe, al momento nei confronti di ignoti), Emiliano sembra aver scelto un profilo più basso. Ieri ha detto di non essere «per niente amareggiato» dall’avvio dell’indagine. E, del resto, risulta che il presidente della Regione non abbia nemmeno nominato un proprio avvocato di fiducia: in sede di perquisizione ha accettato l’avvocato di ufficio indicato nel provvedimento, rinunciando alla presenza del legale durante le operazioni. Ma l’inchiesta intanto va avanti. La Finanza dovrà infatti esaminare i contenuti del materiale sequestrato in Regione e negli uffici degli imprenditori coinvolti, per poi riferire alla Procura. Gli indagati stanno valutando se rivolgersi al Tribunale del Riesame, una mossa che in questi casi serve a capire qualcosa in più sugli elementi in mano all’accusa. La Procura ha ottenuto dal gip Antonella Cafagna altri sei mesi per proseguire gli accertamenti. E per accertare, ad esempio, se quelle due fatture che Mescia e Ladisa hanno pagato all’imprenditore Pietro Dotti (pure lui indagato, per false fatturazioni) abbiano avuto come contropartita «finanziamenti, contributi regionali, contratti di appalto». Per Mescia è finita nel mirino l’autorizzazione unica emessa nel 2016 per un parco eolico a San Severo, provvedimento di competenza degli uffici in cui non ha alcun ruolo né il presidente della Regione né il suo capo di gabinetto. Per Ladisa, titolare dell’omonimo gruppo nazionale del settore delle mense, i sospetti sono concentrati sugli appalti delle Asl. Ma l’imprenditore barese (assistito dall’avvocato Michele Laforgia) in sede di perquisizione ha precisato ai militari di non aver ricevuto alcun appalto della Regione da quando, nel maggio 2015, Emiliano ne è diventato presidente.

I pm setacciano i messaggi di Emiliano. Avviati controlli sugli appalti alle due società sotto inchiesta, scrive il 12 Aprile 2019 Il Corriere del Giorno. La Procura ha chiesto al Gip di Bari una proroga di sei mesi Al vaglio le mail e i Whatsapp del governatore. Gli inquirenti cercano riscontri alle loro ipotesi investigative accusatorie, spulciando fra gli appunti, le agende, le conversazioni telefoniche e le mail acquisite, potendo contare ancora su sei mesi grazie alla proroga notificata agli indagati, concessa su richiesta della procura dal Gip dr.ssa Cafagna del Tribunale di Bari. Il lavoro investigativo dei militari della Guardia di Finanza del Comando Provinciale di Bari  si concentra sui messaggi Whatsapp e le mail intercorse tra il governatore B, il suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi, e gli imprenditori Sebastiano e Vito Ladisa (fratelli contitolari della Ladisa srl) e l’ avvocato foggiano Giacomo Pietro Paolo Mescia (titolare della Margherita srl ) per fare luce sulle presunte irregolarità contestate agli indagati nella gestione della campagna di comunicazione organizzata in occasione delle primarie del 2017 per la conquista della segreteria nazionale del Partito Democratico. Si ipotizza sulla base delle indagini investigative in corso,  che il governatore Emiliano  in concorso con Stefanazzi avrebbe indotto due imprenditori a saldare il proprio conto  alla società di comunicazione che ha curato la campagna elettorale, con la quale era in corso un contenzioso in sede civile. L’inchiesta è partita da una segnalazione anonima che, però, conteneva in allegato un decreto ingiuntivo di pagamento ottenuto dalla società di comunicazione  Eggers di Torino nei confronti di  Michele Emiliano per il mancato pagamento di 65mila euro per la campagna elettorale per le primarie del Partito Democratico. Il finanziamento delle campagne elettorali da parte di privati è assolutamente lecito, la magistratura barese, però, vuole capire se, come viene ipotizzato, le aziende abbiano ricevuto utilità e/o favori in cambio. Una vera e propria labirinto di messaggi e conversazioni che gli investigatori, coordinati dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno e il pubblico ministero Savina Toscani, dovranno analizzare per fare chiarezza in questa torbida vicenda di scambio elettorale e tangenti politiche. Agli indagati è stata notificata una proroga dell’indagine di sei mesi, disposta dal Gip dr.ssa Antonella Cafagna che consentiranno agli investigatori di analizzare con la massima attenzione ogni dettaglio sul materiale acquisito dagli uffici della Regione Puglia e dalle aziende finite sotto indagine. Il presidente Emiliano, è accusato di “abuso d’ufficio“, “concorso in reati tributari” per l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, “induzione indebita a dare o promettere utilità” ed insieme a lui  sono indagati il suo capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi, gli imprenditori Giacomo Pietro Paolo Mescia del gruppo Margherita srl, Vito Ladisa, titolare di un’azienda di preparazione pasti e Pietro Dotti della società torinese Eggers, che ha firmato campagne elettorali di persone note nel panorama della politica nazionale a cui  è contestato il solo reato di false fatture, risalente al periodo giugno-ottobre 2017. Secondo  i magistrati,  Emiliano e Stefanazzi“in concorso tra loro e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso abusando delle rispettive qualità” avrebbero indotto in occasione delle primarie del PD nel 2017 le società di Ladisa e Mescia “entrambe in rapporti con la Regione Puglia per finanziamenti, contributi e concessioni di servizio a dare o promettere indebitamente, ciascuno per la propria parte, il denaro/l’utilità consistita nel pagamento del credito , pari a complessivi 65 mila euro vantato nei confronti di Emiliano da Eggers per l’attività di Consulenza di comunicazione e marketing” . Negli atti della procura di Bari è riportato che “In particolare a fronte di tali operazioni Dotti emetteva la fattura per l’importo complessivo di 24.400,00 nei confronti di Margherita srl e la fattura per l’importo di 59.028, 64 nei confronti di Ladisa, entrambe per operazioni inesistenti“. La fattura pagata da Ladisa, secondo la tesi difensiva dell’azienda barese, potrebbe però riguardare la campagna “Yes You Green” che l’azienda ha commissionato nel 2018 alla società torinese Eggersper sostenere l’immagine eco sostenibile delle mense. Le indagini, condotte dalla Guardia di Finanza, comprendono anche eventuali procedimenti amministrativi svolti (o in fase di svolgimento) e l’eventuale emissione da parte di uffici della Regione Puglia di provvedimenti , delibere, appalti concessi alla Ladisa srl. I finanziari hanno perquisito il quartier generale dell’azienda  nella zona industriale  di Bari  per acquisire documenti e dati informativi. L’oggetto principale del controllo era la ricerca di “finanziamenti, contributi regionali, contratti di appalto, delibere e determine” e di documenti che attestano la fattura dell’ottobre 2017 (importo di circa 59 mila euro emessa dall’agenzia di comunicazione torinese Eggers. L’ ipotesi investigativa degli investigatori  è che ci sia un collegamento tra il pagamento della fattura alla Eggers che vantava un credito nei confronti di Emiliano avendogli ideato e gestito la comunicazione per le primarie del PD  nel 2017, ed eventuali rapporti di lavoro delle aziende pugliesi che avrebbero poi pagato quel debito e la Regione. Le Fiamme Gialle infatti, stanno ricostruendo anche i rapporti intercorsi tra l’imprenditore barese con il presidente Emiliano nonché con alcuni dei suoi collaboratori e con  Pietro Dotti il titolare della società di comunicazione torinese Eggers . Gli inquirenti cercano riscontri alle loro ipotesi investigative accusatorie,  spulciando fra gli appunti, le agende, le conversazioni telefoniche e le mail acquisite,  potendo contare ancora su sei mesi grazie alla proroga notificata agli indagati, concessa su richiesta della procura  dal Gip dr.ssa Cafagna del Tribunale di Bari,  per accertare se i rapporti con le aziende che pagarono le fatture sospette in realtà siano una sorta di ricompensa delle società pugliesi ad Emiliano per  “finanziamenti, contributi regionali, contratti di appalto” . In parole più semplici basandosi sull’ipotesi accusatoria della Procura di Bari, il il governatore Emiliano avrebbe indotto le due società pugliesi a pagare il debito con la società torinese. A questa inchiesta si intreccia anche l’indagine per fuga di notizie generata dalla denuncia (strumentale, secondo noi n.d.r.)  depositata dal governatore Emiliano  che potrebbe riguardare e coinvolgere un giornalista che in maniera ignobile, anziché pubblicare la notizia, avrebbe informato Michele Emiliano riferendogli particolari dell’indagine in corso nei suoi confronti  ancor  prima che la Guardia di Finanza si presentasse negli uffici della  Presidenza della Regione Puglia. L’Ordine dei giornalisti di Puglia si è svegliato dal suo consueto e noto  “torpore” ed ha innanzitutto chiesto conferma al procuratore di Bari, Giuseppe Volpe se la persona che ha rivelato il segreto istruttorio su un’indagine a carico del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, è un giornalista.  “È un fatto gravissimo  se l’autore è un giornalista va deferito al Consiglio di disciplina” scrive l’ Ordine dei Giornalisti in una nota. Il Consiglio di Disciplina Territoriale dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia ha quindi richiesto nel rispetto delle leggi e della riservatezza necessaria delle indagini, di conoscerne l’identità e l’acquisizione di quegli atti necessari per avviare un eventuale procedimento disciplinare per accertare la violazione delle regole deontologiche anche in assenza di ipotesi di reato. Quello che sfugge all’Ordine di Puglia, è che essendoci un procedimento penale in corso, ogni e qualsiasi attività disciplinare si interrompe.

Csm, caso Emiliano. La procura generale chiede “ammonimento” per il Governatore della Regione Puglia, scrive il 25 Gennaio 2019 Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno. Il procedimento è stato aggiornato al 14 febbraio, per consentire al sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione di poter esaminare nuovi atti presentati dalla difesa di Emiliano, ed effettuare la sua replica, e quindi arrivare il collegio ad una decisione. Dopo una sospensione durata circa  sei mesi il procedimento disciplinare della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura, è ripreso ieri a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, confermando le competenze del Csm sui comportamenti “politici” del magistrato barese Michele Emiliano  in aspettativa e fuori ruolo da oltre un decennio per gli incarichi istituzionali-politici ricoperti nel tempo. Emiliano è stato assistito nella propria difesa dal magistrato Armando Spataro ex procuratore capo di Torino, in pensione dallo scorso 1 gennaio e dalla professoressa Isabella Loiodice per gli aspetti del diritto costituzionale. Michele Emiliano notoriamente attratto dalle telecamere e taccuini della stampa, in questa occasione ha negato il proprio consenso alle riprese televisive di Telenorba e persino all’emissione radiofonica di Radio Radicale, (che in precedenza in altre udienze aveva autorizzato)  invece a parer nostro sarebbero state necessarie ed opportune per una questione di trasparenza e rispetto nei confronti di coloro i quali dovranno votare per le primarie nel Pd pugliese per l’indicazione del nuovo candidato alla Presidenza della Regione Puglia le cui elezioni si svolgeranno nel giugno 2020.

Il sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione Carmelo Sgroi ha svolto una breve sintetica requisitoria riepilogativa dell’impianto accusatorio nei confronti di Michele Emiliano, poichè l’attuale collegio giudicante del Csm (il terzo dall’ avvio dal procedimento avvenuto nell’ottobre 2014) è cambiato a seguito del rinnovo delle cariche del Consiglio Superiore della magistratura , ed ha riproposto nuovamente la richiesta di condanna con l’”ammonimento“, la sanzione più lieve prevista dal regolamento, nei confronti del governatore della Puglia Michele Emiliano, accusato di aver violato il divieto per i magistrati di iscriversi a partiti politici e di partecipare in maniera sistematica e continuativa alle loro attività. Molto correttamente il vicepresidente del Csm David Ermini, al contrario del suo predecessore Giovanni Legnini, si è astenuto a presiedere il collegio giudicate della sezione disciplinare nel procedimento nei confronti di Emiliano, essendo stato in un recente passato responsabile giustizia del Partito Democratico, durante la segreteria di Matteo Renzi. Il collegio giudicante, è stato quindi presieduto dal consigliere Fulvio Gigliotti (laico, professore di diritto privato indicato dal M5S), e dai consiglieri Michele Cerabona (laico, avvocato indicato da Forza Italia), Corrado Cartoni (magistrato, Magistratura Indipendente), Giuseppe Cascini (magistrato, Area) Piercamillo Davigo, (magistrato, Autonomia e Indipendenza), Marco Mancinetti (magistrato, Unicost). Nella sua arringa difensiva Armando Spataro, ha premesso che “Emiliano ha sempre proposto istanza al CSM per esercitare quei mandali politici elettivi, e non  è incolpato di aver fatto l’ amministratore pubblico”, e sostenuto che è “impossibile svolgere il mandato di amministratore nelle istituzioni senza partecipazione attiva nella vita di un partito” aggiungendo che il suo ruolo istituzionale “è al servizio della collettività, funzione “alta” del ruolo politico come amministratore pubblico“, ricordando che vi è “una lunga lista di colleghi magistrati che hanno ricoperto ruoli politici come lui”. I difensori di Emiliano hanno quindi concluso chiedendo “l’assoluzione di Emiliano per insussistenza dell’addebito disciplinare, estinzione del procedimento disciplinare, di dichiarare il fatto di “scarsa rilevanza”, richiedendo una nuova trasmissione degli alla Corte Costituzionale, a seguito anche delle eccezioni poste ed argomentate dalla Prof.ssa Avv. Isabella Loiodice. Il procedimento è stato aggiornato al 14 febbraio, per consentire al sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione di poter esaminare nuovi atti presentati dalla difesa di Emiliano, ed effettuare la sua replica, e quindi arrivare il collegio ad una decisione.

Ammonito Emiliano, il Csm punisce con un buffetto il governatore dem. Da toga non avrebbe dovuto iscriversi al Pd, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 15 Febbraio 2019, su Il Dubbio. Il lunghissimo procedimento disciplinare a carico di Michele Emiliano si è concluso con l’ammonimento, la pena più blanda prevista per gli illeciti commessi dalle toghe. Una sanzione che non impedirà ad Emiliano, terminata l’esperienza politica, di concorrere per qualche incarico di vertice in magistratura. La sentenza è stata emessa ieri mattina dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Il presidente della Regione Puglia, toga fuori ruolo, era accusato di essersi iscritto al Pd in contrasto con quanto indicato nelle norme che vietano ai magistrati l’appartenenza ad un partito politico. L’iscrizione di Emiliano al Pd risale al 2007. Solamente ad ottobre del 2014, dopo un’istruttoria durata undici mesi, il procuratore generale della Corte di cassazione aveva però chiuso le indagini sul magistrato pugliese, chiedendo al Csm la fissazione dell’udienza di discussione. Era stato sollevato anche il conflitto di legittimità davanti la Corte costituzionale relativamente alla citata norma, il dl 109 del 2006, che vieta appunto ai magistrati l’iscrizione ai partiti politici. La questione di legittimità costituzionale era stata ritenuta infondata con la sentenza 170 del 4 luglio 2018, che aveva confermato il divieto di iscrizione ad un partito sia per i magistrati in servizio che per quelli, come Emiliano, fuori ruolo. Appresa la decisione della Consulta, Emiliano aveva subito dichiarato di non più voler più rinnovare la tessera del Pd una volta scaduta. Una decisione «dolorosa ma inevitabile», affermò a caldo. Con il mancato rinnovo dell’iscrizione al Pd, Emiliano era stato immediatamente escluso dall’Assemblea e dalla Direzione nazionale dem. Nel 2017 Emiliano aveva addirittura sfidato Matteo Renzi, candidandosi senza successo alla segreteria nazionale del Pd. Il collegio giudicante era presieduto dal laico del M5s Fulvio Gigliotti, in sostituzione del vice presidente del Csm, David Ermini (Pd), che per motivi di opportunità aveva deciso di astenersi. Ad assistere Emiliano Armando Spataro, ex procuratore di Torino. Sul fronte legislativo, del disegno di legge in materia di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati, ripresentato (il dl venne depositato la prima volta nel 2001, ndr) la scorsa primavera dal forzista Pierantonio Zanettin, ex consigliere del Csm, si sono invece perse le tracce in Parlamento. «Il buffetto dato oggi dalla sezione disciplinare del Csm a Michele Emiliano non risolve il problema fra politica e magistratura», ha dichiarato Antonio Leone.

Magistrati in politica, il Csm "ammonisce" Michele Emiliano per il suo ruolo nel Pd. Accusato di avere violato il divieto per le toghe di iscriversi a un partito politico e partecipare alla sua attività, il governatore pugliese è stato condannato dalla sezione disciplinare alla pena più lieve, scrive Liana Milella il 14 febbraio 2019 su La Repubblica. "Io non ci sto". Il governatore della Puglia Michele Emiliano contro il Csm, che vede al suo vertice David Ermini. Una polemica in 'famiglia', anche se Ermini, renziano ormai senza tessera del Pd da quando è diventato vice presidente dell'organo di autogoverno dei giudici, non ha presieduto la sezione disciplinare, di cui abitualmente è a capo, nelle ore in cui questa ha elaborato il verdetto contro Michele Emiliano, che da Pd è stato diretto competitor alla segreteria del partito contro Renzi. Adesso, dopo quattro anni di 'processo' disciplinare, è stato 'ammonito'. Non poteva iscriversi al Pd, come invece ha fatto, perché, pur in aspettativa, quindi con la toga nell'armadio, tuttavia dal 2004 in avanti ha continuato a essere un magistrato. Con gli obblighi che un magistrato ha per via dell'ordinamento giudiziario voluto dall'allora premier Berlusconi e dal Guardasigilli leghista Castelli nell'ormai lontano 2005, ma alla fine entrato in vigore con il ministro della Giustizia Mastella, quindi in pieno governo Prodi. "Divieto di iscriversi a un partito politico". La norma è chiara. Ma Emiliano - e con lui il suo prestigioso difensore, l'ex procuratore di Torino e super toga oggi in pensione Armando Spataro - è convinto del contrario, perché a suo dire un giudice in aspettativa per mandato politico deve anche essere libero di "fare politica" e quindi elaborare dall'interno le idee di un partito. Lui ha fatto così. Lascia il posto di potente pubblico ministero a Bari, con tanto di inchieste sulla corruzione in politica, nel 2004 per correre a sindaco. Vince. Non gli basta. Corre ancora, e vince di nuovo, per il vertice della Regione Puglia. Diventa un 'politico' a tutti gli effetti, al punto da diventare anche presidente del Pd pugliese. Per dieci anni il caso Emiliano non è un caso. Poi, nel 2014, un procuratore generale della Cassazione puntiglioso come Pasquale Ciccolo dà credito e fa vagliare un esposto contro di lui. Parte l'azione disciplinare. E siamo a oggi, alla condanna all'ammonimento, in verità un vero e proprio buffetto sulla guancia, la pena più lieve possibile, che però a Emiliano non piace per niente. Protesta subito. Premette: "Non meritavo l'azione disciplinare". E quanto alla condanna è drastico: "Valuterò la motivazione della sentenza ai fini della impugnazione nei successivi gradi, nella speranza che questa vicenda sia l'occasione per il legislatore di intervenire per evitare gli equivoci sin qui verificatisi". È polemico quanto basta: "Accetto la meno grave delle sanzioni disciplinari previste per i magistrati con serenità e con rinnovata determinazione nello svolgimento del mio incarico di presidente della Regione Puglia. La sanzione è la più tenue e non ha alcun effetto pratico sull'esercizio delle mie funzioni, ma ciononostante ritengo di non averla meritata". Già, Emiliano va avanti, come del resto ha sempre fatto. Almeno fino al 3 dicembre, quando ormai il Csm sta arrivando alla stretta finale sul suo caso. E allora lui spedisce una lettera al circolo del quartiere Murat-San Nicola di Bari per comunicare che non rinnoverà la tessera del Pd. La racconta così: "Sinceramente a me non è che la tessera mi cambia nulla. Quindi continuerò a essere il riferimento, credo, della gran parte della maggioranza degli iscritti del Pd della Puglia. Continuerò a essere il riferimento di molte liste civiche che in Puglia stanno operando. Insomma, nella sostanza non cambia niente, però io voglio rispettare la sentenza della Corte costituzionale che ha introdotto una novità, che la mia aspettativa per mandato elettorale non è sufficiente per separare il mio ruolo di magistrato dalla politica. Occorre che io non faccia la tessera e quindi io ho obbedito come sono abituato a fare". Sì, quel 3 dicembre Emiliano lancia un segnale al Csm, forse augurandosi un'assoluzione, che invece non è arrivata. Dichiara di accettare la sentenza della Consulta che il 4 luglio 2018, con la firma di Nicolò Zanon, in realtà precipita come una spada sulla sua testa. Niente iscrizione ai partiti, neppure per chi è in aspettativa. Un no a Emiliano e a Spataro che avevano chiesto al Csm di sollecitare un nuovo responso della Corte. Un paletto che, una volta messo, era impossibile da aggirare per il Csm in sede disciplinare. Una Consulta che poi conferma se stessa, e la sentenza firmata dall'ex vice presidente Paolo Maddalena che già nel 2009 aveva posto gli stessi obblighi per Luigi Bobbio, rampante pm di Napoli entrato in politica con An nel 2001, ma poi punito dal Csm. Una continuità negli anni, dal 2009 al 2018 che gli stessi magistrati non contestano. Perché sono loro i primi a sostenere che, una volta entrata in politica, la toga non può teorizzare le "porte girevoli", non può e non deve tornare indietro, ma trovare un altro lavoro nell'ambito della Pubblica amministrazione. I tentativi di leggi sulle toghe in politica finora non hanno avuto successo. L'ultimo si è arenato tra le polemiche nella precedente legislatura. Adesso tocca al Guardasigilli Alfonso Bonafede provarci.

Magistrati in politica, il Csm "ammonisce" Emiliano per la sua carica nel Pd. La replica: «Non me lo merito». A governatore Puglia condanna a sanzione più lieve, scrive La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Febbraio 2019. La sezione disciplinare del CSM ha condannato il governatore della Puglia Michele Emiliano alla sanzione dell’ammonimento (la più lieve) per aver violato la norma che vieta ai magistrati di essere iscritti e far politica attiva all’interno dei partiti. Emiliano ha ricoperto ruoli dirigenziali nel Pd pugliese e si era anche candidato alla segreteria nazionale del partito in alternativa a Matteo Renzi. «Accetto la meno grave delle sanzioni disciplinari previste per i magistrati con serenità e con rinnovata determinazione nello svolgimento del mio incarico di Presidente della Regione Puglia. La sanzione è la più tenue e non ha alcun effetto pratico sull'esercizio delle mie funzioni, ma ciononostante ritengo di non averla meritata». Lo afferma Michele Emiliano in una nota dopo la condanna che gli ha inflitto la Sezione disciplinare del Csm all’ammonimento, che aggiunge: «Valuterò la motivazione della sentenza ai fini della impugnazione nei successivi gradi, nella speranza che questa vicenda sia occasione per il legislatore di intervenire per evitare gli equivoci sin qui verificatisi». «Essere il primo ed unico magistrato italiano al quale si è contestata nel pieno dello svolgimento di un mandato politico ad elezione diretta l’appartenenza ad un partito politico, mi fa sentire un caso da laboratorio ancora da approfondire», afferma Emiliano, che evidenzia come la complessità teorica della vicenda abbia «costretto il Csm a rimettere la questione alla Corte Costituzionale dopo undici anni dalla mia iscrizione al partito». «Sono sempre stato convinto, come tutti gli altri numerosi magistrati eletti, come me iscritti a un partito, che l'aspettativa - che mi è sempre stata regolarmente concessa per l'espletamento del mio mandato di sindaco e di presidente della Regione - mi rendesse a questi fini un cittadino eletto come tutti gli altri, abilitato a partecipare alla formazione dell’indirizzo politico degli enti da me governati all’interno dei partiti. Scopro oggi che ciò che vale per altri sindaci e Presidenti, secondo il Csm, non vale per me e, quindi, per tutti i Magistrati eletti in incarichi politici. Questi dovranno costruire l’indirizzo politico con metodo innovativo rispetto alle previsioni della Costituzione, seguendo l’indirizzo della Corte Costituzionale che ha rimesso al CSM il compito di precisare fino a che punto si possa avere a che fare con i partiti da parte di un eletto magistrato». In modo dichiarato -prosegue ancora Emiliano- la Procura Generale ha promosso l’azione disciplinare per conoscere l'indirizzo del CSM in materia che mai era stato chiarito in precedenza.

Emiliano atto finale. Per il CSM è colpevole, scrive il 14 Febbraio 2019 Il Corriere del Giorno. Le richieste della difesa, dopo una lunga camera di consiglio durata circa 45 minuti, sono state rigettate ed il collegio disciplinare ha ritenuto Michele Emiliano colpevole, infliggendogli la sanzione dell’ammonimento. Nell’udienza odierna dinnanzi alla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura il governatore della Regione Puglia Michele Emiliano, alla quale è arrivato in ritardo in quanto impegnato con il Ministro dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio ed oltre 4000 agricoltori che manifestavano a causa dei danni subiti per la xylella, giusto in tempo per presenziare alla lettura della decisione della sezione disciplinare che lo ha ritenuto colpevole delle accuse a suo carico. Il suo difensore Armando Spataro ex procuratore capo di Torino, ha richiesto di avere visione dei provvedimenti di archiviazione adottati dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, in casi analoghi nei confronti di altri magistrati, le cui decisione sono citate nella memoria depositata dal sostituto procuratore generale della Cassazione dr. Carmelo Sgroi. Il difensore ha insistito nella sua richiesta di non punibilità per la scarsa rilevanza del fatto, ricordando che Emiliano è stato autorizzato da oltre un decennio a candidarsi e rivestire le cariche pubbliche sinora ricoperte. L’altro difensore del governatore pugliese, l’avvocato Loiodice ha continuato a sostenere la necessità di Emiliano di essere iscritto al Pd per poter esercitare il suo ruolo e funzione di Sindaco prima e Governatore dopo. L’ accusa rappresentata dal dr. Sgroi ha spiegato che i vari procedimenti citati dalla Procura Generale della Cassazione sono relativi ad altri magistrati che hanno ricoperto analoghe cariche elettive istituzionali, ricordando che una cosa è la partecipazione ad una competizione elettorale, ben altra cosa è l’iscrizione ed attività organica interna ad un partito. E quindi Emiliano ha violato la Legge a partire dal 2007. Emiliano, secondo il pg, “ha violato la norma attuativa della prescrizione posta nell’articolo 98, terzo comma, della Costituzione”, garanzia si legge ancora nell’atto di incolpazione “dell’esercizio indipendente e imparziale della funzione giudiziaria e valevole anche in relazione ai magistrati che non svolgano temporaneamente detta funzione, per essere collocati fuori del ruolo organico della magistratura”. Le richieste della difesa, dopo una lunga camera di consiglio durata circa 45 minuti, sono state rigettate dal collegio disciplinare che ha ritenuto Michele Emiliano colpevole infliggendogli la sanzione dell’ammonimento per aver violato la norma che vieta ai magistrati di essere iscritti e far politica attiva all’interno dei partiti. Emiliano infatti ha ricoperto ruoli dirigenziali nel Pd pugliese e si era anche candidato alla segreteria nazionale del partito in contrapposizione a Matteo Renzi. Partito dal quale nelle settimane scorse, non ha rinnovato l’iscrizione. “Il mio ruolo da magistrato lo impone” spiegò. Peccato per lui che se ne sia accorto un pò troppo tardi. “Accetto la meno grave delle sanzioni disciplinari previste per i magistrati con serenità e con rinnovata determinazione nello svolgimento del mio incarico di Presidente della Regione Puglia. La sanzione è la più tenue e non ha alcun effetto pratico sull’esercizio delle mie funzioni, ma ciononostante ritengo di non averla meritata”, è quanto afferma in una nota Michele Emiliano dopo la condanna che gli ha inflitto la Sezione disciplinare del Csm ed aggiunge: “Valuterò la motivazione della sentenza ai fini della impugnazione nei successivi gradi, nella speranza che questa vicenda sia occasione per il legislatore di intervenire per evitare gli equivoci sin qui verificatisi”. “Essere il primo ed unico magistrato italiano al quale si è contestata nel pieno dello svolgimento di un mandato politico ad elezione diretta l’appartenenza ad un partito politico, mi fa sentire un caso da laboratorio ancora da approfondire” continua Emiliano nella sua nota   evidenziando come la complessità teorica della vicenda abbia “costretto il Csm a rimettere la questione alla Corte Costituzionale dopo undici anni dalla mia iscrizione al partito”. “Sono sempre stato convinto, come tutti gli altri numerosi magistrati eletti, come me iscritti a un partito, che l’aspettativa – che mi è sempre stata regolarmente concessa per l’espletamento del mio mandato di sindaco e di presidente della Regione – mi rendesse a questi fini un cittadino eletto come tutti gli altri, abilitato a partecipare alla formazione dell’indirizzo politico degli enti da me governati all’interno dei partiti. Scopro oggi che ciò che vale per altri sindaci e Presidenti, secondo il Csm, non vale per me e, quindi, per tutti i Magistrati eletti in incarichi politici. Questi dovranno costruire l’indirizzo politico con metodo innovativo rispetto alle previsioni della Costituzione, seguendo l’indirizzo della Corte Costituzionale che ha rimesso al CSM il compito di precisare fino a che punto si possa avere a che fare con i partiti da parte di un eletto magistrato”. Sulla vicenda è intervenuto l’eurodeputato Raffaele Fitto: “Solo un cartellino giallo? Per anni Michele Emiliano ha violato un chiaro dispositivo di legge che vieta ai magistrati di prendere la tessera di un partito e oggi il Csm gli dà uno scappellotto. Lo ammonisce con la più blanda delle sanzione previste. La storia politica della Puglia è stata ed è costellata di questi episodi: magistrati che il giorno prima indossavano la toga e il giorno dopo erano militanti e candidati. E – conclude – sarebbero serviti molti più cartellini rossi per evitare una degenerazione che in diversi casi ha rischiato di compromettere la credibilità della magistratura ed ha visto condizionare in modo grave ed imbarazzante la storia della politica pugliese”.

·         Puglia, la nuova sede del Consiglio è costata 16 milioni in più dell'appalto.

Puglia, la nuova sede del Consiglio è costata 16 milioni in più dell'appalto. Chiusi i conti dell'opera: spesi 56 milioni in tutto, ma l'impresa ne chiede altri 24 per i due anni di stop del cantiere. Massimiliano Scagliarini il 05 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. I lavori per la costruzione della nuova sede del Consiglio regionale sono costati 56,2 milioni, 16 in più rispetto al valore dell’appalto del 2012. La Regione ha approvato il quadro economico definitivo dell’opera, per tenere conto delle cinque perizie di variante e (anche) del taglio dei costi delle ormai famose plafoniere, su cui - dopo le polemiche e l’avvio delle inchieste - gli uffici hanno imposto un taglio di 562mila euro. Ma la partita non è conclusa, perché sull’appalto pende una maxirichiesta di danni da 24 milioni di euro presentata dall’impresa costruttrice. Il gruppo composto da Debar, Guastamacchia e Monsud ha infatti iscritto riserve per via del fermo cantiere dovuto alle problematiche del progetto dell’opera: per quasi due anni i lavori sono stati fermi per dipanare il contenzioso, e così l’impresa chiede alla Regione di essere risarcita per le attrezzature immobilizzate. La questione è nelle mani di un collegio arbitrale, per la ricerca di un componimento bonario: gli uffici sono pronti a riconoscere una cifra rilevante ma molto più bassa, tra i 4 e i 5 milioni di euro, cifra che si ottiene applicando le norme di legge in materia. Se però l’arbitrato dovesse fallire, si finirà davanti ai giudici. L’appalto della nuova sede di via Gentile, a Bari, è stato per mesi al centro di polemiche, non solo per i ritardi ma anche per i costi che - secondo alcune interrogazioni dei grillini - sarebbero stati eccessivi, in particolare per alcune delle varianti in corso d’opera. Varianti che, ha spiegato la Regione, sono dovute alla necessità di adeguare un progetto nato già vecchio, ad esempio sul fronte del risparmio energetico. Un progetto che, va ricordato, è stato scelto con un procedimento che per la giustizia è risultato truccato. Sui costi della nuova sede, però, bisogna intendersi. Il valore finale dell’appalto (i 56,2 milioni) è appunto la spesa per le opere realizzate, cresciute di 16 milioni rispetto all’appalto iniziale di cui ben 11 milioni sono l’effetto della quinta variante, quella oggetto delle polemiche in cui sono comprese anche le plafoniere: su quest’ultima voce, a gennaio scorso il responsabile del procedimento ha imposto al direttore dei lavori di rivedere i costi, applicando il prezzo di listino delle luci effettivamente montate e non quello - molto più alto - che risultava dai preventivi. In questo modo è stato ottenuto un risparmio pari a 516mila euro, esattamente la cifra che la Corte dei conti aveva ipotizzato di contestare a titolo di danno erariale. L’impresa alla fine ha dovuto accettare questa e altre imposizioni. Ai 56,2 milioni bisogna però aggiungere tutte le spese aggiuntive, già previste e comunque inevitabili in qualunque appalto pubblico: Iva e oneri previdenziali (14,9 milioni), costi di progettazione e direzione lavori (11,2 milioni, di cui 5,3 vanno ai progettisti e 4,9 a direttore dei lavori e collaudatori) e altri oneri accessori. In totale si arriva appunto a 87,1 milioni di euro, ovvero la somma inizialmente prevista come quadro economico dell’opera. Il trasferimento nella nuova sede è operativo da febbraio, anche se l’opera non è in realtà completata (sono in corso altri lavori sia all’interno che all’esterno). L’ultima variante è servita a ottenere una classe energetica migliore (classe A4) rispetto a quanto previsto inizialmente, mentre altre opere aggiuntive sono state definitivamente stralciate.

Regione Puglia: rimborsi d'oro agli avvocati, anche per incarichi di 15 anni fa. Un funzionario nel mirino: «Non ha rispettato le tariffe stabilite». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Ottobre 2019. Il merito è del gruppo consiliare dei Cinque Stelle. In estate, sollevando dubbi su due disegni di legge per debiti fuori bilancio, i grillini hanno innescato una serie di controlli da cui è emerso il problema: parcelle per vecchi contenziosi legali (parliamo dell’era Fitto) liquidate a tariffe notevolmente più alte rispetto a quelle spettanti. Creando così alla Regione un potenziale danno milionario.  Non c’è solo la possibile truffa sui rimborsi dei contributi unificati, da cui è nata un’indagine che la Procura di Bari ha affidato alla Finanza e che vede nel mirino quattro dipendenti (tra cui un legale interno) già trasferiti ad altre mansioni. L’Avvocatura regionale sta infatti facendo i conti anche con le liquidazioni d’oro ai legali esterni. Dopo l’altolà dei grillini, la coordinatrice Rossana Lanza ha fatto verificare una serie di determine di liquidazione di parcelle emesse nel corso del 2018. Sulle prime 23 è emerso che c’erano somme pagate in più agli avvocati interessati (perché non era stato rispettato il valore delle controversie) oltre che delle duplicazioni di pagamenti. Il meccanismo va spiegato. Quando affida un incarico a un avvocato esterno, la giunta regionale fissa il valore della controversia: è il parametro da cui dipende la tariffa professionale cui il legale deve attenersi per compilare la parcella. Prima di pagare, la Regione dovrebbe appunto verificare la rispondenza di quanto richiesto a quanto concordato: e questo controllo sembrerebbe non essere stato fatto. Tutte le parcelle di cui parliamo erano affidate allo stesso liquidatore, che a questo punto verrà sottoposto a procedimento disciplinare per una ipotizzata grave negligenza. Il funzionario al momento risulta in malattia, così come alcuni dei quattro dipendenti coinvolti nella presunta truffa dei rimborsi delle marche da bollo. Ma intanto le verifiche a ritroso sulle liquidazioni vanno avanti. E se per i pagamenti duplicati si può, pacificamente, chiedere i soldi indietro, per quelli a tariffe maggiori del concordato l’affare si complica, perché il legale interessato potrà opporsi, innescando altro contenzioso. Di certo però si tratta di un danno erariale. Va detto che la giunta Emiliano ha tagliato in maniera sensibile il ricorso agli avvocati esterni (incarichi per circa 300mila euro l’anno, dieci volte meno rispetto al 2013-2014). Ma qui parliamo di incarichi molto risalenti, in un epoca in cui non era obbligatorio nemmeno assumere l’impegno di spesa (si pagava e basta): ecco perché ogni volta che arriva una di queste vecchie parcelle è necessario predisporre il disegno di legge per approvare il debito fuori bilancio. La questione delle liquidazioni d’oro delle parcelle è parallela a quella dei contributi unificati non dovuti. Anche qui, il problema è emerso dopo una verifica interna: uno dei legali dell’Avvocatura si è insospettito per una richiesta di chiarimenti per una domanda di rimborso che non aveva mai presentato. Sono saltati fuori così decine di moduli di richiesta, che facevano riferimento a fascicoli per i quali il contributo unificato (la «tassa» degli atti giudiziari) non era nemmeno dovuta. Parliamo di oltre 100mila euro, in un solo anno, spesso rimborsati in contanti. Sarà la Procura a stabilire cosa sia realmente avvenuto.

Puglia, bluff abolizione vitalizi: la spesa aumenta, assegno anche alla Gentile. Cancellati 6 anni fa, il conto sale sempre. Tra i 215 assegni anche quello da 5mila euro all'ex assessore. Massimiliano Scagliarini il 15 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. In Puglia i vitalizi sono stati aboliti dal 1° gennaio 2013, ma i diritti acquisiti non si toccano. E dunque chi ha maturato i requisiti previsti dalla vecchia legge cancellata a furor di popolo, può ancora chiedere l’assegno con le regole precedenti. Regole particolarmente favorevoli grazie al metodo retributivo, oggi definitivamente accantonato. Così, alla vigilia delle ferie, il Consiglio regionale ha erogato altri due vitalizi. Il primo riguarda l’ex assessore alla Salute, Elena Gentile, parlamentare europeo uscente, che ha infatti chiesto l’assegno dal 3 luglio, il giorno successivo alla fine dell’esperienza a Bruxelles. La Gentile è stata consigliere regionale da maggio 2005 a giugno 2014, dunque con sette anni di anzianità contributiva valida tra i banchi di quella che all’epoca era la sede di via Capruzzi: avendo compiuto 65 anni, l’ex assessore ha potuto chiedere l’assegno pieno senza abbattimenti, per un totale di 5.186 euro lordi al mese. Una cifra che si sommerà al vitalizio di Bruxelles, e alla normale pensione: la Gentile è medico della Asl di Foggia, anche se alla scadenza del mandato da deputato europeo ha chiesto l’aspettativa. Ha ottenuto il vitalizio anche l’ex consigliere regionale brindisino Maurizio Friolo. In questo caso, però, l’ex esponente di Forza Italia dovrà accontentarsi di 3.286 euro lordi al mese, perché oltre ad aver maturato solo cinque anni di anzianità contributiva liquidabile, l’avvocato brindisino ne ha chiesto l’erogazione anticipata a 55 anni che comporta un abbattimento dell’assegno di circa il 25%. Oggi il Consiglio regionale eroga 215 assegni vitalizi, per un costo di circa 14,5 milioni di euro: 156 sono trattamenti diretti, il resto sono di reversibilità. Ma anche a dispetto dell’abolizione dei vitalizi e della norma approvata a maggio che imporrà il ricalcolo a partire da gennaio, la spesa nei prossimi anni non potrà che aumentare o comunque non diminuire. Questo perché ci sono circa una quarantina di consiglieri che hanno maturato i requisiti soggettivi previsti dalla vecchia legge, ma per un motivo e per l’altro non hanno chiesto la liquidazione dell’assegno: perché sono troppo giovani, ad esempio, o perché ricoprono un altro incarico politico incompatibile. Ma un giorno o l’altro, come è loro diritto, passeranno alla cassa. C’è poi, appunto, il meccanismo delle reversibilità, che garantisce agli eredi dei consiglieri il 65% dell’assegno diretto. A luglio ne ha usufruito la vedova di Angelo Salamino, consigliere dal 1995 al 2000, deceduto il 4 giugno a 78 anni: la reversibilità vale 3.104 euro lordi. Somma quasi uguale per l’eredita del consigliere brindisino Rosario Rinaldi, scomparso a 89 anni, anche lui tra i banchi di via Capruzzi nella stessa legislatura di Salamino. Il ricalcolo che scatterà da gennaio colpirà tutti, assegni diretti e reversibilità, ma il risparmio previsto (2,3 milioni l’anno) sarà solo virtuale perché inizialmente i soldi verranno accantonati in previsione degli inevitabili ricorsi da parte degli interessati.

SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Fuggi da Foggia.

FUGGI DA FOGGIA. Vin. Dam. per “il Messaggero” il 14 aprile 2019. Da metà degli anni Ottanta ad oggi sono oltre 300 i delitti di sangue attribuibili alla mafia foggiana. Una criminalità spietata, senza scrupoli, forse la più brutale in Italia anche se meno famosa della Camorra o della Ndrangheta. Non a caso, gli inquirenti della Direzione antimafia la paragonano per efferatezza a Cosa Nostra corleonese, quella di Totò Riina. «Sono un killer. Gli sparo in testa a quel bastardo, quel cornuto»: qualche anno fa un esponente della criminalità organizzata parlava così di un investigatore della squadra mobile di Foggia, la frase venne intercettata dalla Dda di Bari durante un' inchiesta sul clan Moretti-Pellegrino-Lanza. Gli inquirenti furono costretti ad intervenire immediatamente perché erano più che certi che al telefono il sicario non stesse millantando, sarebbe entrato in azione in pochi giorni. Questa telefonata fotografa quello che è la mafia della Capitanata, una criminalità aggressiva, ritenuta dalla Dna tra le più pericolose d' Italia nonostante negli anni passati sia stata sottovalutata. Forse proprio questa sottovalutazione ha portato i clan foggiani, in particolare quelli dell'area garganica, ad espandersi e creare alleanze con la Camorra, con le altre mafie pugliesi, ad esempio con la salentina Sacra Corona Unita, e con la criminalità estera: Albania, Montenegro, Serbia, Croazia i collegamenti diretti. La mafia garganica, la più spietata della provincia di Foggia, nasce da famiglie di contadini e allevatori: iniziarono a farsi la guerra per dissidi di vicinato, ma poi le famiglie si trasformarono in clan e gli affari ebbero una evoluzione. Questo cambiamento non è stato intercettato durante gli anni Novanta dagli investigatori e oggi, secondo i dati del Viminale, la provincia foggiana è al terzo posto per numero di omicidi volontari (dati 2018). La pericolosità dei clan è raccontata anche dai nove negozi e bar fatti esplodere in meno di un mese a Foggia tra gennaio e febbraio scorsi. Sparatorie, attentati dinamitardi, grande disponibilità di armi: la Società Foggiana, da distinguere dalle cosce del Gargano e da quelle dell' area di Cerignola, è un corpo paramilitare. È sempre in questo territorio che nascono anche i rapinatori di tir e portavalori: bande specializzate, batterie composte da 6 a 10 persone ciascuna, che agiscono con estrema forza e precisione. Difficilmente sbagliano un colpo, agiscono come un corpo speciale armato, vengono preparati nei minimi dettagli e possono disporre di armi e mezzi che nemmeno le forze dell' ordine hanno. Basti pensare che la polizia ha dovuto dirottare sulle strade del Tavoliere una delle sue Ferrari per provare a stargli dietro. Rapine, estorsioni e traffico di droga e armi sono i principali affari illeciti, gli affiliati sono il terrore dei commercianti, costretti a pagare il pizzo per non vedere la propria attività rasa al suolo. La criminalità organizzata foggiana è storicamente legata alla Camorra campana: iniziò ad avere una sua configurazione verso la fine degli Anni '70 ed i primi '80, quando, a seguito delle mire espansionistiche della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, si registrò la nascita in Puglia della Nuova Camorra Pugliese. La Dda fa risalire la nascita della Società foggiana al 5 gennaio del 1979, quando gli esponenti dei diversi clan dell' epoca si riunirono in un albergo sulla statale che collega Foggia a San Severo e ricevettero la benedizione di Cutolo. La tradizione è quella del familismo mafioso tipico della Ndrangheta e della ferocia spietata della Camorra cutoliana; la modernità, invece, è la vocazione agli affari, la capacità di infiltrazione nel tessuto economico-sociale, la scelta strategica di colpire i centri nevralgici del sistema economico della provincia, e cioè, l' agricoltura, l' edilizia e il turismo, è quanto si legge nell' ultima relazione della Dia.

·         In memoria del Maresciallo Vincenzo Carlo Di Gennaro.

“VE LA FARÒ PAGARE, VI SPARO”. Angela Balenzano per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2019. Aveva promesso di vendicarsi per una perquisizione che i carabinieri gli avevano fatto tre giorni fa. «Ve la farò pagare, vi sparo». E ieri mattina ha sparato a bruciapelo alla prima pattuglia che ha trovato sul suo cammino. Giuseppe Papantuono, 65 anni, pregiudicato, ha ucciso il maresciallo Vincenzo Carlo Di Gennaro, 47 anni e ferito il militare 23enne, Pasquale Casertano. È accaduto nella piazza principale di Cagnano Varano, piccola cittadina sul Gargano, nel Foggiano: il killer è stato bloccato da un' altra pattuglia dei carabinieri e dagli agenti della polizia municipale. Subito dopo la cattura il ministro dell' Interno Matteo Salvini ha postato la fotografia dell' assassino sul suo profilo Twitter. «Io sono contro la pena di morte - ha scritto - ma un infame che ammazza un uomo, un carabiniere, che sta facendo il suo lavoro, non merita di uscire di galera fino alla fine dei suoi giorni». In caserma Papantuono si è avvalso della facoltà di non rispondere e in serata è stato sottoposto a fermo per omicidio volontario aggravato, tentato omicidio e porto e detenzione di armi. La dinamica racconta, pur se ci sono alcuni aspetti che devono essere chiariti, che la pattuglia era in piazza Giannone, centro del paese, per alcuni controlli del territorio. Il pregiudicato era a piedi e quando ha visto i militari ha fatto loro cenno di avvicinarsi. I carabinieri gli si sono affiancati e hanno aperto il finestrino. L' uomo ha estratto la pistola calibro 9 che aveva nel giubbotto e ha fatto fuoco praticamente a bruciapelo. I proiettili hanno colpito Di Gennaro all' addome e il militare più giovane al braccio e al fianco. Quest' ultimo, nonostante le ferite, ha continuato a guidare per 400 metri, sino a una postazione del 118, nella speranza di poter salvare il collega. Per il maresciallo però era troppo tardi. Era originario di San Severo dove viveva con il padre. Il militare più giovane è stato ricoverato all' ospedale Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo e, nel pomeriggio, il premier Giuseppe Conte è andato a trovarlo. I colleghi di Di Gennaro hanno coperto l' auto di servizio con un drappo tricolore. Qualche giorno fa Papantuono aveva subito una perquisizione per droga (i militari lo avevano trovato in possesso di stupefacenti) e in quella occasione aveva pronunciato le minacce di morte. «È un fatto di estrema gravità - ha detto il procuratore di Foggia Ludovico Vaccaro - per l' assoluta mancanza di un motivo consistente. I controlli di qualche giorno fa del tutto legittimi non possono giustificare quanto è accaduto. Ha ucciso un carabiniere tentando di ucciderne un altro». Il pregiudicato era stato arrestato a San Giovanni Rotondo il primo febbraio del 2017 per lesioni personali e porto abusivo di un coltello: aveva colpito un uomo alle spalle aggredendolo per strada per ragioni banali. «Una vita umana vale il mondo intero» ha scritto il Comando Generale dell' Arma su Facebook per ricordare il maresciallo. Il premier, in visita al Politecnico di Bari per l' inaugurazione dell' anno accademico, ha chiesto alla platea un minuto di silenzio. Lo avevano appena informato dell' assassinio. «È un giorno triste - ha detto scuro in volto - perché poco fa, nel mio Gargano, il maresciallo Di Gennaro è caduto in servizio e un altro carabiniere che era con lui è rimasto ferito».

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2019. «Sapete, don Andrea, il mio petto ora è gonfio d' orgoglio», dice il signor Luigi, 84 anni, il papà del maresciallo Vincenzo Di Gennaro. Nella casa di via Michele Zannotti, a San Severo, il signor Luigi, contadino in pensione, ha appena ricevuto la telefonata del comandante generale dell' Arma, Giovanni Nistri. «Sono orgoglioso - confida il vecchio padre, dopo la telefonata, a don Andrea Tirelli, parroco della vicina chiesa di San Bernardino, che lo è andato a trovare - perché mio figlio Vincenzo è morto sul campo, facendo il suo dovere. Lui era amatissimo a Cagnano Varano, in tanti gli volevano bene. Adesso, però, caro don Andrea, si è fatto tardi, mi devo ritirare. Passi da me nei prossimi giorni. Voglio ricevere l' unzione degli infermi. Sapete, già soffro di cuore e dopo la morte di mia moglie e adesso pure di mio figlio, è diventato un dolore troppo grande da sopportare. E io voglio morire in pace». Nella parrocchia di San Bernardino se lo ricordano in tanti, il maresciallo Di Gennaro. Da ragazzo faceva parte del Gruppo Scout, il San Severo 3. Ma, religiosissimo, aveva continuato a frequentare la chiesa anche dopo aver iniziato la carriera militare, nel '95, a 23 anni. Dopo il biennio per allievi marescialli, ecco la prima destinazione: stazione di Mirto Crosia, Cosenza, nel '97. Ci resterà 10 anni, fino al 2007, quando arriva la nuova sospiratissima nomina, Cagnano Varano, Foggia, appena 50 chilometri da casa. Così, ogni volta che era libero dal servizio, il maresciallo Di Gennaro tornava a San Severo a fare visita all' anziano genitore rimasto solo (la moglie Lucia era morta nel 2013, l' altra figlia Elena fa l' insegnante a Roma) e ad abbracciare la fidanzata, Stefania Gualano, estetista. Insieme a lei Vincenzo aveva mille progetti: innanzitutto quello di sposarsi e poi andare a vivere in una casa da poco acquistata, facendo i sacrifici col suo stipendio di 2 mila euro, nella zona della Divina Provvidenza. Il capitano Carlo Venturini, 32 anni, comandante della compagnia di Vico del Gargano, da cui dipende Cagnano, ha ricordi limpidissimi di lui: «Vincenzo era devoto alla sua famiglia, all' Arma, a Padre Pio e alla Juventus...», dice il capitano che dopo tante lacrime versate ora accenna un sorriso, accarezzando il ricordo di quell' ultima mattina in cui si erano visti di persona. La mattina del 13 marzo scorso, dopo la notte Champions di Juve-Atletico Madrid finita 3 a 0 con la tripletta di Cristiano Ronaldo. «Vincenzo era al settimo cielo», racconta Venturini, ex capo del nucleo operativo radiomobile di San Giovanni Rotondo, che in queste ore sta ricevendo da decine di colleghi dell' intera regione testimonianze commoventi sul maresciallo Di Gennaro: «Si spendeva per gli altri - racconta il capitano - Era il confessore del paese. Una vecchietta di Cagnano Varano lo andava spesso a trovare perché diceva che di notte vedeva un fantasma e allora lui stava lì per intere mezz' ore a rassicurarla. In caserma, con Vincenzo, erano in nove, di cui tre carabinieri giovanissimi: a loro, si può dire, ha fatto da padre». Era un carabiniere buono, ma anche molto operativo. A settembre scorso aveva diretto un maxi sequestro di quasi un quintale di marijuana; a febbraio poi aveva partecipato all' operazione «Far West», un colpo durissimo inferto alla nuova mafia del Gargano, specializzata in bombe, armi e droga. Ma quando tornava in borghese, il maresciallo Di Gennaro, da uomo normale prendeva la macchina e se ne andava a pregare al santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo oppure a Vieste insieme a Stefania a mangiare 'o ciambott , la zuppa di pesce locale. Ieri, dopo il martirio, i suoi colleghi hanno coperto con il tricolore l' auto di servizio dentro cui è stato ucciso: «Perché quella bandiera - piange, il capitano Venturini - lo rappresentava».

Cagnano Varano, carabiniere ucciso in strada, Pm: «Delitto senza motivo». Domani autopsia, funerali martedì. L'omicida, un pregiudicato 64enne, ha sparato contro la pattuglia dell'Arma nella piazza del paese, scrive il 13 Aprile 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. L’omicidio del maresciallo Vincenzo Di Gennaro e il ferimento del suo collega Pasquale Casertano sono «totalmente privi di motivazioni». L’assassino, il pregiudicato Giuseppe Papantuono, «nei giorni scorsi aveva subito due controlli: nel primo fu trovato in possesso di alcune dosi di cocaina; alcuni giorni dopo fu fermato per possesso di un coltello. Fu condotto in caserma per il sequestro e rilasciato. In maniera generica aveva detto: 'Ve la farò pagare'». Così il procuratore di Foggia Ludovico Vaccaro. Giuseppe Papantuono «era in strada e ha chiamato i carabinieri. Non appena il militare ha abbassato il finestrino, l’uomo ha sparato. Si è fermato solo quando il caricatore era vuoto. Voleva impossessarsi anche delle pistole dei militari. Poi si è aggrappato allo sportello dell’auto dei militari ed è rimasto aggrappato fino a quando l’auto non ha svoltato a sinistra. A quel punto è caduto». «Siamo tutti affranti da questo episodio terribile. Un gesto terribile - ha detto Vaccaro - che ferisce l’Arma, tutte le forze dell’ordine e il Paese intero».

SAREBBE DIVENTATO PRESTO COMANDANTE - Nel decreto di fermo notificato a Giuseppe Papantuono «non abbiamo contestato la premeditazione: la scelta è stata quella di attendere le sue dichiarazioni prima di procedere a questa accusa». Lo ha precisato il procuratore di Foggia, Ludovico Vaccaro, in conferenza stampa. A Papantuono viene contestato l’omicidio aggravato del maresciallo Vincenzo Di Gennaro, il tentato omicidio del suo collega Pasquale Casertano e il porto abusivo di arma. «L'indagato durante l'interrogatorio ha preferito avvalersi della facoltà di non rispondere», ha aggiunto Vaccaro. «Era un bravissimo maresciallo che sapeva fare il carabiniere a tutto tondo: disponibile nei confronti della popolazione più debole e determinato con i criminali». Lo ha detto il comandante provinciale dei Carabinieri di Foggia, col. Marco Aquilio, in conferenza stampa. "Ha trascorso gran parte della sua carriera in Calabria. Dieci anni fa è arrivato in provincia di Foggia. Sicuramente a breve sarebbe diventato comandante di stazione». «Il carabiniere Pasquale Casertano, nonostante la giovane età, ha avuto prontezza di riflessi: benché ferito, aveva un proiettile conficcato a pochi centimetri dall’aorta, ha trovato la forza di partire con la macchina, raggiungere la guardia medica e prestare il suo soccorso al maresciallo fino a quando non sono intervenuti gli aiuti». Per il procuratore di Foggia, Ludovico Vaccaro, quello che colpisce nella vicenda dell’agguato mortale di ieri alla pattuglia dei carabinieri di Cagnano Varano è «l'atteggiamento culturale che porta a reagire a dei controlli e a sparare contro lo Stato: tutto questo esprime un livello di avversione verso lo Stato. In questa mentalità ci vedo il collegamento con la criminalità organizzata».

LE REAZIONI DEI FAMILIARI - «Era un grande lavoratore. Amava la sua divisa ed era un servitore vero dello Stato». Lo ricorda così Luigi Di Gennaro, il padre di Vincenzo il maresciallo dei carabinieri ucciso ieri a Cagnano Varano. "Questi sono tutti i ricordi di mio figlio», precisa l’uomo nella sua di San Severo, dove viveva con il figlio e dove accoglie amici e parenti che gli portano il proprio cordoglio. «Era molto cattolico e devoto a San Pio. Era un credente - aggiunge - e me lo hanno ucciso. I delinquenti me lo hanno ammazzato». Poi il ricordo del figlio, un uomo a detta di tutti di grande umanità. «Si presentava - racconta il padre - con il sorriso anche quando era serio. Era bravissimo. Amava la sua divisa, la indossava con amore. Ne era molto rispettoso. Ha avuto una decina di encomi durante la sua carriera. Me lo hanno ammazzato. Ma è la vita», dice in preda alla disperazione. «Avevamo costruito una casa e stavamo progettando il matrimonio. Però già convivevano e ci volevamo molto bene": è commossa Stefania Gualano, la compagna del maresciallo dei carabinieri Vincenzo Di Gennaro, ucciso ieri a Cagnano Varano. «Era un bravissimo ragazzo - aggiunge - era veramente in gamba. Sorrideva sempre, anche quando aveva difficoltà». «Bisogna andare sempre avanti, diceva. C'erano i momenti in cui era giù di morale però lui andava avanti perché diceva che la vita continua. Bisogna lottare e andare avanti», conclude la donna visibilmente commossa. COSA È ACCADUTO IERI - Un carabiniere in servizio presso la stazione di Cagnano Varano è rimasto ucciso questa mattina durante un conflitto a fuoco avvenuto nella piazza principale del paese. La vittima si chiamava, Vincenzo Carlo Di Gennaro, era maresciallo maggiore, aveva 46 anni che era il vicecomandante della stazione. Secondo la prima ricostruzione, il killer - che è stato poi arrestato - Giuseppe Papantuono,, 64 anni, stamattina era a piedi e ha avvicinato l'auto dei Carabinieri contro la quale ha sparato con una pistola calibro 9. I proiettili hanno ferito mortalmente il sottufficiale, mentre altre due pallottole hanno raggiunto all'addome e a un braccio un altro militare, il 23enne Pasquale Casertano. La pattuglia stava intervenendo, a quanto pare, per una lite in famiglia. Papantuono, che qualche giorno fa era stato sottoposto a una perquisizione per droga, è stato bloccato e arrestato da altri militari intervenuti sul posto. Il maresciallo ucciso, come già detto, era vicecomandante della stazione carabinieri di Cagnano Varano, in sevizio dal 2013. Non era sposato e viveva a San Severo (Foggia) con il padre. L’arma del delitto sarebbe già stata recuperata. In merito al pregiudicato bloccato nell’immediatezza del fatto, Aquilio ha precisato: «È una persona censurata, a noi già nota. Stiamo facendo tutto il possibile per assicurarlo alla giustizia con tutti gli elementi più solidi che possiamo raccogliere». Il Premier Conte, a Bari per l'inaugurazione dell'anno accademico e per altre due visite a Mola e a Ruvo, ha annunciato la visita in ospedale, a San Giovanni Rotondo, al carabiniere ferito: «assolutamente la sua vita è salva e potrà recuperare» ha detto Conte.

LE MINACCE DEL KILLER AI CARABINIERI - «Ve la farò pagare»: è quanto avrebbe affermato dopo un controllo dei carabinieri avvenuto qualche giorno fa Giuseppe Papantuono, il pregiudicato di 64 anni che questa mattina ha ucciso il maresciallo Vincenzo Di Gennaro e ferito il militare Pasquale Casertano. Minacce che il pregiudicato avrebbe fatto dopo aver saputo della denuncia che sarebbe scattata perché era stato trovato in possesso di quattro dosi di cocaina. «Queste affermazioni fanno parte del fascicolo che è ancora coperto da segreto istruttorio», sottolineano i Carabinieri. Intanto si apprende che dopo essere stato bloccato, Papantuono è stato condotto immediatamente in caserma. Lì è stato sedato perché era particolarmente agitato. Tra non molto sarà ascoltato da magistrati e carabinieri. L'ABBRACCIO DI CONTE ALLA FAMIGLIA DEL MARESCIALLO - «A Foggia per stringere in un abbraccio i familiari del maresciallo Vincenzo Di Gennaro, ucciso questa mattina a Cagnano Varano. Un servitore dello Stato colto di sorpresa e caduto in servizio, nel pieno esercizio delle sue funzioni. Il Governo, l’Arma dei Carabinieri e il Paese intero gli sono debitori e sono al fianco della famiglia che vive la sofferenza di questa perdita». Lo scrive il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla sua pagina Fb.

IL RICORDO: ERA BUONO, STAVA PER SPOSARSI - Aveva una compagna e stava organizzando tutto per le nozze, Vincenzo Di Gennaro il maresciallo dei carabinieri ucciso oggi a Cagnano Varano. A raccontarlo alcuni colleghi dell’Arma. Il maresciallo aveva già da qualche tempo una relazione sentimentale con una donna di San Severo, con la quale stava decidendo la data delle nozze. I colleghi lo ricordano come «la bontà fatta persona». Era impegnato anche nel mondo del volontariato, e, raccontano, era molto devoto a San Pio da Pietrelcina. La vittima, celibe, era molto conosciuta e apprezzata in paese. «Lo conoscevo bene perché veniva spesso ad acquistare nella mia ferramenta materiale elettrico per la caserma» - racconta il signor Giuseppe che ha un’attività commerciale a poche decine di metri dal luogo della tragedia. «Conosciamo bene anche il fermato - incalza il commerciante - in paese è chiamato "Chiacchiared» perché lui e la sua famiglia - dice l’uomo - avevano la chiacchiera facile».

IL CORDOGLIO DI MATTARELLA - «Ho appreso con profondo dolore la notizia del tragico episodio di Cagnano Varano nel quale è rimasto ucciso il Maresciallo maggiore Vincenzo Carlo Di Gennaro e ferito il carabiniere Pasquale Casertano. In questa dolorosa circostanza desidero esprimere a lei, signor Comandante Generale, e all’Arma dei Carabinieri la mia solidale vicinanza. La prego di far pervenire ai familiari del Maresciallo Maggiore di Gennaro le espressioni della mia commossa partecipazione al loro cordoglio e al militare ferito un augurio di pronto ristabilimento». Lo ha scritto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato al Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni Nistri.

EMILIANO: UN FATTO INSOPPORTABILE - Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, intervenendo alla inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico di Bari, ha ricordato in apertura il "grave episodio che ha riguardato il maresciallo dei carabinieri Di Gennaro», ucciso nel Foggiano, «che rende questo intervento pesante». Emiliano, magistrato in aspettativa, ha sottolineato che «avendo lavorato per anni accanto a queste persone, per me un fatto del genere è insopportabile». «E ci ricorda - ha concluso - delle tante persone, alle quali dedico questo intervento, senza le quali questo paese non starebbe in piedi, ma di cui si sente parlare solo in queste tragiche circostanze».

ANM: EMERGENZA LEGALITÀ A FOGGIA - «Il sanguinoso episodio richiama, ancora una volta, l’attenzione sulla grave emergenza della legalità che da tempo ormai affligge il territorio della provincia di Foggia impedendone lo sviluppo coerentemente con le proprie potenzialità». Lo dichiara in una nota la Giunta distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati di Bari, che comprende anche il territorio di Foggia, esprimendo «sgomento» per «la notizia della morte del maresciallo dei carabinieri Vincenzo Di Gennaro, ucciso mentre svolgeva un compito del suo ufficio». L’Anm, manifestando «il proprio cordoglio ai parenti della vittima del dovere e la vicinanza alle forze dell’ordine impegnate nel contrasto alle attività criminose nel difficile territorio della Capitanata», «evidenzia la imprescindibilità - conclude la nota - di un potenziamento degli organici delle forze dell’ordine e della magistratura impegnati a fronteggiare la critica situazione».

"Ha sparato l'intero caricatore". Così il killer ha crivellato i carabinieri. L'omicidio del carabiniere avvolto nel mistero: "È senza motivo". Spunta l'odio per le perquisizioni, scrive Claudio Cartaldo, Domenica 14/04/2019, su Il Giornale. Pian piano si delineano meglio i contorni dell'efferato omicidio di ieri, quando un uomo a Cagnano Varano ha aperto il fuoco contro un carabiniere. Ammazzandolo. A spiegare cos'è successo alle 10 di mattina nella piazza centrale del paese nel Foggiano è procuratore capo di Foggia Ludovico Vaccaro. Un atto di "estrema gravità" che "colpisce tutto lo Stato". "Giuseppe Papantuono ieri mattina ha chiamato i carabinieri che stavano transitando in quella strada con l'auto di servizio - dice il pm - I carabinieri si sono fermati e quando il maresciallo ha abbassato il finestrino per chiedere cosa fosse accaduto Papantuono ha sparato contro i due militari, sparando tutti i proiettili che vi erano nel caricatore della pistola". Si è fermato solo quando non aveva più proiettili da esplodere. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, dopo aver colpito a morte Vincenzo Carlo Di Gennaro, maresciallo di 46 anni, e il collega si 23 che era alla guida, l'assassino ha cercato di rubare loro le pistole di ordinanza. Con prontezza di spirito di Pasquale Casertano, ferito al fianco e a un braccio, ha premuto sull'acceleratore per portare il collega in ospedale. L'omicida invece "si è aggrappato allo sportello e ha pronunciato frasi di rabbia", venendo trascinato per alcuni metri. Poi è caduto a terra ed è stato fermato da agenti della polizia locale e da altri militari". L'uomo, pregiudicato di 65 anni, è stato fermato con l'accusa di omicidio con l'aggravante di averlo compiuto nei confronti di un pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni. La premeditazione non è stata contestata. "È giusto procedere per gradi - spiega il procuratore - ci sono indubbiamente degli elementi, ma la scelta è stata quella di aspettare anche la sua versione". Intanto si cerca di capire il motivo del gesto. Ieri si era parlato di una possibile ritorsione per alcuni controllo realizzati nei giorni precedenti dall'Arma sul pregiudicato: in una occasione era stato pizzicato con della droga, nella seconda con un coltello. In quell'occasione aveva minacciato i militari: "Ve la farò pagare". Nulla, però, aveva fatto temere il peggio. "Il gesto del soggetto non si inserisce in logica di criminalità organizzata - insiste Vaccaro - ma si tratta di un gesto sconsiderato di una persona. L'episodio non è agganciato a logiche di criminalità organizzata e non si inserisce in finalità o metodologie di tipo mafioso, altrimenti sarebbe intervenuta l'antimafia. Ma è la dimostrazione che la criminalità ha assunto sul territorio una aggressività enorme". Secondo il procuratore capo, però, dietro c'è una "situazione drammatica sotto il profilo culturale". "Una persone sottoposta a due controlli, assolutamente fondati - dice il pm - ha una reazione aggressiva verso lo Stato che si è 'permessò di sottoporre a controllo. In questo senso l'episodio non va sottovalutato".

Il killer era stato condannato. Ma libero di uccidere il carabiniere. Il killer che ha ucciso a sangue freddo il maresciallo dei Carabinieri Vincenzo Carlo Di Gennaro a Cagnano Varano era a piede libero dopo un condanna in primo grado, scrive Angelo Scarano, Domenica 14/04/2019, su Il Giornale. Il pregiudicato Giuseppe Papantuono, l'uomo che ha ucciso a sangue freddo il maresciallo dei Carabinieri Vincenzo Carlo Di Gennaro a Cagnano Varano era a piede libero dopo un condanna in primo grado e attendeva il processo di appello. Il killer era stato arrestato in flagranza di reato nel febbraio del 207 per porto e detenzione di coltello subito dopo aver accoltellato in un bar un 44enne che aveva riportato una lesione alla schiena. A confermare questa circostanza è stato il pubblico ministero del Tribunale di Foggia, Ileana Ramundo: "E' stato processato e condannato alla pena di un anno di carcere per lesioni. Attualmente la sentenza di condanna è in fase di appello". E solo qualche giorno fa il killer era stato denunciato per il porto di coltello. Su questo secondo episodio, il pm ha aggiunto: "Si tratta di un'ipotesi contravvenzionale e una contravvenzione non prevede l'arresto, non prevede una misura cautelare, non lo prevede il codice. È stata avanzata la richiesta di emissione di decreto penale di condanna per legge. Per cui, questi sono i precedenti che sostanzialmente gravavano sul soggetto". Ma i precedenti legati al killer e la sua libertà nonostante una condanna scatenano le polemiche anche sul fronte politico. E il senatore della Lega, Roberto Calderoli afferma: "Fermo restando che il criminale pregiudicato che ieri nel foggiano ha trucidato a sangue freddo il maresciallo Vincenzo Di Gennaro, e ferito il suo giovane collega, deve marcire in galera per il resto dei suoi giorni, oggi mi faccio una domanda: ma perché un pregiudicato con precedenti per spaccio, che solo due anni fa aveva accoltellato una persona, era libero? Il punto è sempre lo stesso, da mesi: le leggi ci sono, le forze dell’ordine fanno il loro dovere e arrestano i criminali, ma se poi per mille motivi questi criminali tornano subito liberi ecco cosa succede. Qualche giorno fa abbiamo pianto un ragazzo a Torino ucciso senza un perché da un criminale con sentenza in giudicato eppure rimasto inspiegabilmente libero. E oggi piangiamo un carabiniere ucciso da un delinquente che in un normale stato di diritto avrebbe dovuto trovarsi in carcere. Non voglio fare polemica, ma questa è la realtà". E di certo le polemiche su quanto accaduto a Cagnano Varano non si fermeranno qui...

Ma per la droga l'arresto poteva scattare. Insieme al coltello, in occasione dell'ultimo fermo, Patantuono aveva anche "alcune dosi di cocaina", scrive Luca Fazzo, Lunedì 15/04/2019, su Il Giornale. Non si può tenerli dentro tutti. È da questa ovvietà che bisogna partire per capire come fosse possibile che uno come Giuseppe Patantuono si aggirasse liberamente per Foggia nonostante fosse - notoriamente e visibilmente - un pericolo pubblico. Con un coltello aveva trafitto un tizio due anni fa, con un coltello era stato sorpreso di nuovo poche settimane orsono. Eppure non solo era a piede libero, ma aveva modo di bazzicare senza ostacoli i giri malavitosi dove ha potuto procurarsi l'arma con cui ha assassinato il carabiniere. L'analisi del percorso processuale di Patantuono non sembra lasciare molto spazio ai sospetti di buonismo giudiziario che prendono corpo spesso in queste circostanze. Nel 2017 l'uomo viene arrestato in flagrante con il coltello con cui ha appena colpito un conoscente. Si tratta di una coltellata assai superficiale, visto che la prognosi è di venti giorni appena. Si prende un anno di carcere: siamo più o meno nella fascia centrale del range di pena (da sei mesi a tre anni) che il codice penale prevede per le lesioni personali. Impossibile, in questa fase, mettere Patantuono in carcere: la custodia cautelare è prevista solo per i reati puniti con un massimo di cinque anni. L'uomo ha dunque il diritto di aspettare a piede libero che la pena divenga definitiva. Ma anche a quel punto non andrebbe dentro, perché la condanna rientra ampiamente nell'affidamento ai servizi sociali. Ancora più difficile sarebbe stato mettere in cella Patantuono due settimane fa, quando è stato fermato per il possesso di un coltello: reato punito con l'arresto, impossibile la custodia cautelare. Il sistema, dunque, ha funzionato: eppure il maresciallo Di Gennaro è morto. Ed era, palesemente, una morte che si sarebbe potuta evitare. Perché il sistema è fatto di meccanismi stupidi, che distinguono i reati ma non le persone, tra chi esce dimenticandosi lo sbucciapatate in tasca e chi invece gira armato per cercare guai, pronto a usare il coltello come userebbe una pistola. Ma per questo servirebbe un approccio ragionato e non contabile ai casi. Che invece affogano nella routine. Però c'è un dettaglio: insieme al coltello, in occasione dell'ultimo fermo, Patantuono aveva anche «alcune dosi di cocaina». Qui invece l'arresto poteva scattare, se c'erano indizi che non fosse per uso personale. Ma sui dettagli - quanta «polvere», come confezionata - il procuratore glissa.

Cagnano Varano, la compagna del carabiniere ucciso: "Avevamo costruito la casa per dopo le nozze". La donna commossa ricorda Di Gennaro: "Era un bravissimo ragazzo, sempre sorridente". Il ricordo del padre: "Era un servitore vero dello Stato. Me lo hanno ammazzato. Ma è la vita", scrive Tatiana Bellizzi il 14 aprile 2019 su La Repubblica. Una dignità e una compostezza che lasciano senza parole, quelle di papà Luigi, della sorella Lucia e della compagna Stefania Gualano: i familiari di Vincenzo Di Gennaro, il maresciallo ucciso per strada da un pregiudicato a Cagnano Varano. Hanno atteso amici e conoscenti nel piccolo appartamento al primo piano a San Severo. La porta è aperta e papà Luigi accoglie tutti con un sorriso che denota grande educazione, seduto sul divano a fiori. Al suo fianco la figlia e la cognata. "Me lo hanno ucciso. Quei delinquenti me lo hanno ammazzato - dice papà Luigi, agricoltore 84enne - Vincenzo amava  la sua divisa ed era un vero servitore dello Stato. Aveva profondo rispetto della sua uniforme. Ha ricevuto numerosi  di encomi per le azioni eroiche compiute durante la sua carriera". Poi l'ripete come una sorta di preghiera laica: "Me lo hanno ammazzato. Ma questa è la vita". Un passaggio anche sulla fede del figlio maresciallo dell'Arma. "Era credente, molto cattolico. Devotissimo a san Pio: sono tutti i ricordi che ho di mio figlio". Poi si rivolge a Stefania: "Lei è mia nuora, la compagna di mio figlio. Racconta qualcosa di Vincenzo". E lei: "Vincenzo sorrideva sempre, sia nelle difficoltà sia nella vita. Bisogna  andare sempre avanti, mi diceva. C'erano i momenti in cui era giù di morale, affranto, però diceva di non mollare mai perché la vita continua.  Avevamo costruito una casa e stavamo progettando il matrimonio.  Però già da qualche mese convivevamo e ci volevamo molto bene". Lucia, la sorella di Vincenzo preferisce non parlare. "Non me la sento, scusatemi", dice ai cronisti che cercano di raccogliere il suo ricordo. E intanto continua ad accogliere parenti ed amici che affollano la casa. Ha voluto portare la vicinanza alla famiglia Di Gennaro anche il comandante della Legione carabinieri Puglia, il generale Alfonso Manzo. Una visita in forma privatissima proprio per abbracciare il padre. E di grande compostezza ha parlato anche il procuratore capo di Foggia, Ludovico Vaccaro: "Mi ha colpito la reazione di Stefania, la  compagna del maresciallo Di Gennaro. Ha provato un dolore molto forte, ma ha mantenuto una grande dignità". Lo ricorda come un grande carabiniere anche il comandante provinciale dell'Arma, il colonnello Marco Aquilio. "Era un bravissimo maresciallo che sapeva  fare il carabiniere a tutto tondo: disponibile  nei confronti della popolazione più debole e determinato con i criminali. Ha trascorso gran parte della sua carriera in Calabria. Dieci anni fa è arrivato in provincia di Foggia. Sicuramente a breve sarebbe diventato comandante di stazione".

Una amara riflessione sulla morte del carabiniere Di Gennaro, scrive il 14 Aprile 2019 un Anonimo delle Forze dell’ Ordine su Il Corriere del Giorno. Ma in quale paese pensa di vivere il nostro Ministro? La sua promessa si sfalderà come neve al sole davanti agli automatismi degli sconti  di pena, delle lungaggini procedurali, degli errori e dei disguidi dei tribunali di cui nessuno pagherà le conseguenze, delle buone condotte un tanto al chilo, delle misure alternative usuali, delle scarcerazioni facili. Sappiamo benissimo che nessuno intitolerà piazze o vie cittadine in ricordo del Maresciallo Vincenzo Carlo Di Gennaro, spietatamente crivellato di colpi nell’adempimento del suo dovere nella violenta provincia di Foggia.  Nessuno special in tv, né alcuna inchiesta giornalistica. La notizia, già relegata in coda ai telegiornali, domani finirà nell’oblio in cui precipitano gli anonimi uomini delle forze dell’ordine, costretti ad operare nel totale disordine. D’altronde a chi può interessare la morte di uno sbirro di campagna? Uno di quelli che, senza scorta e senza maschera, opera nella stessa città in cui vive. Uno di quelli che affronta i delinquenti faccia a faccia e li arresta esponendosi totalmente, per poi rincontrarli il giorno dopo nello stesso bar dove fa colazione. Uno di quelli che la mattina accompagna i propri figli nell’identica scuola frequentata dai figli dei mafiosi a cui dà la caccia quotidianamente. Uno dei tanti eroi senza gloria e senza voce. Uno per cui nessuna autorità si costituirà parte civile. “Questo assassino non uscirà più di galera!”, tuona il Ministro dell’Interno, e non si comprende se sia l’ingenuità o la rabbia impotente a fargli declamare una promessa che non potrà mantenere.  Più che invocare il carcere a vita, bisognerebbe chiedersi per quale recondito motivo l’assassino, pur se pluripregiudicato e affiliato alla mafia, era libero di girare per il paese a caccia di Carabinieri da trucidare. Come si può mai invocare il carcere a vita se quella bestia appena l’anno scorso, beneficiando degli arresti domiciliari che non si negano a nessuno, dopo essere evaso ed aver accoltellato alle spalle un uomo nella via centralissima del paese, era stato nuovamente posto dalla magistratura agli arresti domiciliari! Ma in quale paese pensa di vivere il nostro Ministro? La sua promessa si sfalderà come neve al sole davanti agli automatismi degli sconti  di pena, delle lungaggini procedurali, degli errori e dei disguidi dei tribunali di cui nessuno pagherà le conseguenze, delle buone condotte un tanto al chilo, delle misure alternative usuali, delle scarcerazioni facili. Si è forse scordato il Ministro che questo è il paese in cui è lecito sputare in faccia ad un poliziotto? In cui è corretto opporre resistenza alla forza pubblica nella convinzione di star subendo un torto, anche se poi quel torto si rivela inesistente? In cui anche ai più efferati criminali vengono riconosciute quelle “tempeste emotive” che invece vengono negate a chi ogni giorno rischia la vita in un posto di blocco. Lasciate perdere, non fate promesse inutili e dimenticatevi anche del Maresciallo Di Gennaro. Anche io al suo posto preferirei essere dimenticato piuttosto che il mio nome fosse usato per intitolare una stanza della Camera dei Deputati, o una via di Roma. Lascino pure che su quelle targhe campeggino altri nomi… ognuno ha gli eroi che si merita.

Sovraffollamento a Foggia, la visita del capo del Dap. Il Sappe: ci sono 620 detenuti su 358 posti, gli agenti sono solo 250, scrive  Damiano Aliprandi il 19 Marzo 2019 su Il Dubbio. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha potuto constatare di persona il sovraffollamento nel penitenziario di Foggia. È il sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) a darne notizia. «Vogliamo ricordare – si legge in una nota stampa del sindacato – che il 27 febbraio scorso una delegazione del Sappe aveva visitato il carcere di Foggia rilevando delle gravi criticità ed una sicurezza ridotta praticamente a zero». Il Sappe sottolinea che «il carcere di Foggia per capienza di detenuti è il secondo della regione Puglia con un sovraffollamento pari a circa l’ 80% dei posti disponibili regolamentari ( 358 con 620 detenuti), mentre l’organico della polizia penitenziaria che nel 2001 era superiore alle 350 unità, si è ridotto a poco più di 250». Il sindacato quindi si augura che «la visita nel carcere di Foggia costringa il capo del Dap a correre ai ripari in quanto la situazione penitenziaria della regione Puglia detiene un sovraffollamento di detenuti di circa il 165%, mentre il dato nazionale non arriva al 20%. Senza dimenticare che nella nostra regione ci sono le carceri più affollate della nazione a partire da Taranto con un sovraffollamento del 210%. Ci aspettiamo – conclude – perciò dei provvedimenti urgenti, prima che situazione possa esplodere con riflessi tragici per tutti». Quindi altro che fake news il problema del sovraffollamento carcerario non solo è reale, ma anche urgente. Prendendo in esame il solo carcere di Foggia, sono più vicini i “tempi bui” (sino al 2012- 2013) quando le presenze medie nel penitenziario erano 750 con punte di 780 reclusi, che ne facevano quindi il secondo penitenziario per sovraffollamento degli 11 istituti pugliesi. I numeri degli ultimi mesi dicono infatti che la popolazione carceraria nel penitenziario più grande della Capitanata oscilla sopra le 600 presenze. L’ultimo dato ufficiale ricavabile dalle statistiche del Dap, è del 2 febbraio scorso quando nella struttura alla periferia di Foggia al rione delle Casermette c’erano 603 detenuti ( il sindacato Sappe parla di 620 presenze), contro le 365 capienze ottimali, che poi sarebbero 340 secondo altri conteggi che escludono le celle inagibili. Di questi 602 reclusi, 21 erano donne – e Foggia ha l’unica sezione detentiva femminile della provincia – e 87 gli stranieri. L’allarme sul sovraffollamento della casa circondariale lo aveva rilanciato nel dicembre scorso il Cosp, coordinamento sindacale penitenziario, parlando «di numero record di 630 detenuti a fronte di 340 posti» e lo ribadisce ora il Sappe. Al livello nazionale, ricordiamo, risultano quasi diecimila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Nel frattempo, stamane alle 11, una delegazione del Partito Radicale e dell’osservatorio carceri dell’Unione camere penali italiane, incontrerà il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede presso la sede del ministero in via Arenula. La questione posta al centro dell’incontro è proprio quella del sovraffollamento penitenziario e della necessaria legalità, da conquistare, dell’esecuzione penale nel nostro Paese. La delegazione del Partito Radicale sarà composta da Rita Bernardini, Giuseppe Rossodivita, Elisabetta Zamparutti e da Gianpaolo Catanzariti, responsabile nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. 

SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Ecco, è Taranto.

Medicina a Taranto, Turco: «Lezioni possono riprendere». In settimana convocato un Tavolo Università Taranto per programmare un Corso di Laurea in Medicina con indirizzo specialistico in prevenzione e sicurezza sul lavoro. La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Novembre 2019. «Possono ricominciare le attività didattiche del canale formativo su Taranto del Corso di Laurea in Medicina di Bari. Il Miur ha inviato questa mattina al Rettore dell’Università di Bari la lettera con le specifiche indicazioni. Gli studenti già iscritti che intendono continuare a frequentare a Taranto le lezioni, potranno quindi farlo». Lo rende noto il senatore tarantino Mario Turco, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla Programmazione Economica e agli Investimenti. Le lezioni a Taranto erano state sospese a otto giorni dall’avvio per problemi di accreditamento. Turco annuncia che «in settimana verrà convocato a Roma il Tavolo Università Taranto per programmare un Corso di Laurea in Medicina su Taranto, con un indirizzo specialistico in prevenzione e sicurezza sul lavoro. Un vivo ringraziamento a tutti gli attori che si sono impegnati in queste ultime settimane, affinché una così importante occasione per il territorio non venisse dispersa». «Adesso però - conclude il sottosegretario - occorre scrivere un’ulteriore e significativa pagina per il polo universitario Taranto»

Taranto, chiusura Medicina: «Problemi di accreditamento». Il ministro Fioramonti ha fatto sapere che promuoverà una riunione a Roma per trovare adeguate soluzioni. Maria Rosaria Gigante il 24 Ottobre 2019 su la Gazzetta del Mezzogiorno. Per il canale del corso di Medicina a Taranto, ci sono problemi di accreditamento in quanto l’Università di Bari non ha effettuato tutte le procedure previste. A confermarlo ieri alla Gazzetta, dopo la nota stampa di martedì sera del Rettorato dell’Università di Bari con cui si comunicava la sospensione delle attività didattiche del corso di Medicina partite lo scorso 18 ottobre a Taranto e «trasferite» a Bari da lunedì prossimo, è l’Ufficio stampa del ministro della Pubblica Istruzione, Lorenzo Fieramonti. Gli uffici al ministero stanno valutando il tutto – si fa sapere - e, comunque, nei prossimi giorni, il Ministro convocherà un incontro per risolvere la questione Taranto. La decisione di Uniba era stata comunicata a mezzo stampa martedì sera ed arrivava – si diceva – a seguito della riunione di venerdì scorso con gli studenti. Riunione in cui – come è noto – studenti e genitori, in gran parte provenienti dal Barese, avevano contestato il fatto che, poco chiaro il bando evidentemente, erano stati costretti con lo scorrimento della graduatoria ad immatricolarsi sui 60 posti ancora disponibili nella nuova sede di Taranto, giudicata del tutto inadeguata per una serie di ragioni. Numerose e pesanti le reazioni di istituzioni, politici ed amministratori ieri a Taranto mentre le lezioni han continuato a volgersi regolarmente presso la Cittadella della Carità (43 studenti presenti sugli oltre 55 immatricolati su 60 posti disponibili, ndr). Il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, non ha usato mezzi termini: «Sto ancora aspettando di conoscere dall’Università degli Studi Aldo Moro per via formale le motivazioni di questa inqualificabile marcia indietro (decreto ancora ieri non disponibile, ndr), non concordata con le istituzioni e la comunità». Una «accelerazione insensata» in considerazione dell’imminente incontro col ministro Fieramonti, incalza Melucci che non esclude la via del ricorso amministrativo (raccolta la disponibilità gratuita di molti avvocati, dicono intanto i consiglieri comunali Lupo e Stellato, ndr) dopo aver già sospeso l’altro ieri sera gli effetti dell’accordo di programma triennale siglato mesi fa (1 milione e 200 mila euro per l’Università più 250 mila all’attivazione di Medicina). «Se ci sono problemi di accreditamento e qui questo canale è illegale, perché le lezioni non sono state sospese già da oggi (ieri, ndr)?» si chiede, intanto, il direttore dell’Ufficio formazione dell’Asl Ta, Donato Salfi, che ha proceduto all’attivazione di quanto di competenza dell’azienda sanitaria dove si lavora anche sul fronte delle clinicizzazioni. L’altro ieri, tra le altre cose, è stato fornito un primo elenco di «ade», attività formative calendarizzate sin dal primo anno con gli studenti. Attivato anche un «help desk» al quale gli studenti hanno posto anche questioni organizzative. Le perplessità riguardano ora anche i docenti regolarmente nominati a garantire il calendario delle lezioni fissato sino a Natale. Oggi, intanto, convocato in seduta straordinaria urgente il Senato accademico dell’Università di Bari proprio sulla questione Taranto.

A 8 GIORNI DAL VIA. Taranto, il bluff facoltà di Medicina: Rettore Bari dice stop a lezioni. Solo quattro su 55 iscritti (per una disponibilità massima di 60 posti) sono tarantini. Sin dall'inizio le lamentele degli studenti baresi e degli altri provenienti prevalentemente da fuori provincia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Ottobre 2019. Dopo soli otto giorni dall’avvio delle lezioni, il rettore dell’Università di Bari, Stefano Bronzini, comunica la sospensione delle attività nella sede didattica di Taranto del corso di Laurea in Medicina e Chirurgia. La decisione è stata assunta, informa una nota dell’Università, a seguito di un confronto serrato con gli studenti.

Solo quattro su 55 iscritti (per una disponibilità massima di 60 posti) sono tarantini. E sin dall’avvio del corso si sono registrate le lamentele degli studenti baresi e degli altri provenienti prevalentemente da fuori provincia, costretti a recarsi a Taranto (nella sede della Cittadella della carità) per le lezioni. «I candidati che hanno espresso preferenza per la sede didattica di Taranto e/o a detta sede assegnati in base alle graduatorie pubblicate sul sito di Ateneo - è detto in una nota dell’Università di Bari - sono ammessi alla frequenza dei corsi di Laurea magistrale in Medicina e Chirurgia presso la sede didattica di Bari. Il provvedimento decorre da lunedì 28 ottobre 2019». Le modalità di ammissione «agli insegnamenti svolti nella sede didattica di Bari si aggiunge - saranno pubblicate sul sito Uniba a cura della Presidenza della Scuola di Medicina, entro venerdì 25 ottobre, ore 13. Il Rettore ringrazia tutti gli artefici istituzionali del progetto 'Medicina Tarantò che hanno partecipato al comune desiderio di costituzione di una realtà formativa anche in ambito sanitario, certo che il cammino intrapreso potrà trovare piena realizzazione in un prossimo futuro». Ieri il ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, a Taranto per la cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico, aveva sottolineato l’importanza dell’attivazione del corso di laurea nel capoluogo ionico.

SINDACO MELUCCI: SONO RAMMARICATO - «Pur comprendendo gli impedimenti di natura tecnico-amministrativa, non possiamo non esprimere un profondo rammarico al magnifico rettore ed al Miur per la frettolosa decisione di frenare questo avvio, che tanto entusiasmo e tanta speranza avevano già ingenerato nella città. Taranto meritava uno sforzo maggiore e una logica meno ingessata, considerato il suo storico contributo al Paese». Lo afferma il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci commentando la decisione del rettore dell’Università di Bari, Stefano Bronzini, di sospendere le attività nella sede didattica di Taranto del corso di Laurea in Medicina e Chirurgia ad appena otto giorni dall’avvio delle lezioni. «Abbiamo convintamente e materialmente sostenuto l’Università degli Studi Aldo Moro in ogni fase di questo insediamento - aggiunge Melucci - che ci sembra solo per motivazioni burocratiche e qualche futile interesse di parte stia slittando di almeno un anno». «Ora - aggiunge il primo cittadino - ci attendiamo chiarezza ed atti formali per assicurare il corso del 2020-21. Fino ad allora saremo nostro malgrado costretti a sospendere gli effetti e le contribuzioni di cui al recente accordo di programma siglato tra il Comune di Taranto e l’Università degli Studi Aldo Moro. Università che sentiamo di tutti i pugliesi e che forse qualcuno anacronisticamente ritiene ancora esclusivamente barese». Melucci conferma «la massima collaborazione al professor Bronzini e alla sua struttura, ma adesso chiediamo un serio ed articolato piano di rilancio della presenza universitaria a Taranto, fondamentale per la auspicata svolta della comunità ionica. E, da questo punto di vista, saremo disposti a tutto pur di assicurare dignità a Taranto e ai nostri giovani».

TURCO (PUGLIA CON EMILIANO): DECISIONE AFFRETTATA - «Una decisione affrettata, discutibile e che ci lascia totalmente allibiti e con l’amaro in bocca. Taranto non merita questo dietrofront. Non si può gettare la spugna dopo appena poche settimane. Ogni sistema, ogni nuova iniziativa va rodata e discussa con il territorio, prima di prendere decisioni così repentine. Faremo di tutto affinché Medicina resti a Taranto». Così il consigliere regionale de La Puglia con Emiliano, Giuseppe Turco, sulla sospensione delle attività didattiche della neonata Facoltà di Medicina a Taranto.

Medicina, chiude Taranto: 60 posti, 4 candidati «Meglio Bari». Pubblicato mercoledì, 23 ottobre 2019 su Corriere.it da Ferruccio Pinotti. La città ionica aveva messo a disposizione fondi e strutture, ma il rettore Bronzini ha rinunciato. L’irritazione di Taranto: «L’Univeriostà Aldo Moro è di tutti i pugliesi, non solo di Bari». In tempi in cui c’è in Italia una pesante carenza di medici, c’è una facoltà di medicina che chiude i battenti perché a fronte dei 60 posti disponibili si sono presentati solo 4 candidati. Partito lo scorso 14 ottobre, è infatti già chiuso il corso di laurea in Medicina e chirurgia aperto a Taranto dall’Università di Bari. La decisione è del rettore Stefano Bronzini e accoglie le proteste degli studenti iscritti a Bari che non hanno accettato la sede di Taranto. Il corso di Taranto è articolato su 60 posti, ma solo 4 hanno scelto come sede la città ionica. È stato così necessario , attraverso lo scorrimento della graduatoria, riempire i posti vuoti dirottando gli studenti da Bari a Taranto. Un trasferimenti che gli studenti hanno contestato già durante l’inaugurazione ufficiale del corso. Nella nota dell’Università di Bari, si afferma che il rettore Bronzini «a seguito dell’incontro con gli studenti tenutosi nella sede didattica di Taranto, ha assunto la seguente decisione: i candidati che hanno espresso preferenza per la sede didattica di Taranto o a detta sede assegnati in base alle graduatorie pubblicate sul sito di Ateneo, sono ammessi alla frequenza dei corsi di Laurea magistrale in Medicina e Chirurgia presso la sede didattica di Bari. Il provvedimento - segnala il rettore - decorre da lunedì 28 ottobre 2019». Le modalità di ammissione agli insegnamenti svolti nella sede didattica di Bari, si spiega, saranno pubblicate sul sito Uniba a cura della presidenza della Scuola di Medicina, entro venerdì 25 ottobre, ore 13. Il rettore, dice ancora l’Università di Bari, «ringrazia tutti gli artefici istituzionali del progetto «Medicina Taranto» che hanno partecipato al comune desiderio di costituzione di una realtà formativa anche in ambito sanitario, certo che il cammino intrapreso potrà trovare piena realizzazione in un prossimo futuro». Per Taranto ed i il suo territorio martoriato dalla vicenda dell’Ilva si tratta però di una sconfitta faticosa da digerire. Il Comune, in una nota, afferma: «pur comprendendo gli impedimenti di natura tecnico-amministrativa, non potevamo non esprimere un profondo rammarico al rettore ed al Miur per la frettolosa decisione di frenare questo avvio, che tanto entusiasmo e tanta speranza avevano già ingenerato nella città. Taranto - per l’amministrazione comunale - meritava uno sforzo maggiore e una logica meno ingessata, considerato il suo storico contributo al Paese». «Ora - dice il Comune di Taranto - ci attendiamo chiarezza ed atti formali per assicurare il corso del 2020-21. Fino ad allora - annuncia il Comune - saremo nostro malgrado costretti a sospendere gli effetti e le contribuzioni di cui al recente accordo di programma siglato tra il Comune di Taranto e l’Università degli Studi Aldo Moro. Università - conclude il Comune di Taranto - che sentiamo di tutti i pugliesi e che forse qualcuno anacronisticamente ritiene ancora esclusivamente barese». Il sindaco Rinaldo Melucci conferma «la massima collaborazione al professor Bronzini e alla sua struttura, ma adesso chiediamo un serio ed articolato piano di rilancio della presenza universitaria a Taranto, fondamentale per la auspicata svolta della comunità ionica. E, da questo punto di vista, saremo disposti a tutto pur di assicurare dignità a Taranto e ai nostri giovani».

Grazie...alla Regione Puglia Taranto perde anche la Frecciarossa. Il Corriere del Giorno il 23 Ottobre 2019. Nel frattempo i soliti “politicanti” tarantini  sono tutti impegnati…  alla ricerca di uno stipendio di consigliere regionale, o di qualche “poltrona” negli enti e società regionali, stanno cercano di trovare rifugio e candidatura nella liste elettorali che il governatore sta organizzando, violando ancora una volta le normative disciplinari per i magistrati, tagliando nastri, annunciando eventi che non tengono e prendendo letteralmente per i fondelli i cittadini del capoluogo jonico. Era l’11 dicembre 2016 quando alle ore 5:48 del mattino il presidente della Regione Puglia, senza alcun invito ed ufficialità si era presentato sui binari della Stazione di Taranto per salire a bordo con i suoi collaboratori che lo seguono, filmano e fotografano,  per il primo viaggio della Freccia Rossa in partenza da Taranto. Piccolo particolare…quel treno partiva da Taranto e viaggiava esclusivamente grazie al contributo della Regione Basilicata (e non della Regione Puglia) in quanto da Salerno a Taranto viaggia a 70 km/h in mancanza della rete ferroviaria necessaria per l’ Alta Velocità, che la Regione Puglia ha finalizzato solo sulla tratta barese! In questi giorni mentre i soliti “politicanti” tarantini  sono molto impegnati…  alla ricerca di uno stipendio di consigliere regionale, o di qualche “poltrona” negli enti e società regionali, stanno cercano di trovare rifugio e candidatura nella liste elettorali che il governatore sta organizzando, violando ancora una volta le normative disciplinari per i magistrati, tagliando nastri, annunciando eventi che non tengono e prendendo letteralmente per i fondelli i cittadini del capoluogo jonico, è arrivata la notizia che dal 15 dicembre prossimo non ci sarà più alcun collegamento ferroviario veloce , come confermato dall’orario Trenitalia verificabile online, la città di Taranto non sarà più collegata su quella che era la tratta Taranto-Milano su cui viaggia il treno Frecciarossa 1000 intitolata all’atleta pugliese Pietro Mennea .

Emiliano alla ricerca di visibilità salvo sparire quando serve qualcosa per Taranto. Un ennesima sconfitta di Emiliano e di quella politica tarantina che pende dalle sue labbra, con il cappello da elemosiniere in mano, dopo la figuraccia della mancata facoltà universitaria di Medicina a Taranto chiusa ancor prima di aprire Gli archivi delle dichiarazioni di Emiliano lette oggi, consentono solo di ridere: “E’ il viaggio inaugurale del Frecciarossa che parte da Taranto”, dichiarava il governatore Emiliano, “il Frecciarossa aggancia l’alta velocità a Salerno, sia chiaro, non stiamo dicendo che partirà a 300 all’ora, però un impegno che avevamo preso tanto tempo fa con la città di Taranto è stato mantenuto ed è stato mantenuto, devo dire, anche grazie alla Basilicata che ha fatto uno sforzo economico notevole. Noi accompagneremo questo sforzo e cercheremo di fare in modo che tutti i treni italiani in passato che partivano da Taranto verso il Nord, adesso vengano recuperati attraverso l’aggancio all’alta velocità. Questo treno”,   proseguiva Emiliano, “impiega circa due ore ad arrivare a Potenza, tre per arrivare a Salerno e quindi è chiaro che è ancora un viaggio lungo, però è un treno che consente, sia pure con molti sacrifici, di essere agganciati all’alta velocità”. Ma oggi stranamente Emiliano tace. Come tutti i suoi “servi” sciocchi, compresi i consiglieri regionali del centrosinistra eletti in provincia di Taranto.

Trasporti: stop Freccia Rossa, tutte le bugie di Emiliano, Borracino e Giannini. Il Corriere del Giorno il 26 Ottobre 2019. Le parole di Emiliano sono “il manifesto della contraddizione”. E l’ assessore Giannini dice il falso quando sostiene che 40 persone a tratta rappresenta lo 0,02% della sola Taranto, in quanto i 29.565 viaggiatori l’anno rappresentano il 15% del totale, il 7,5% a tratta. Qualcuno lo spieghi anche all’assessore Borracino ormai diventato il megafono di Emiliano a Taranto e provincia.  Il comitato “non pendolari” di Potenza risponde all’assessore ai Trasporti della Regione Puglia, Giovanni Giannini, che ha dichiarato che la Regione Puglia non ha mai assunto l’impegno di partecipare ai costi di Trenitalia per il FrecciaRossa del mattino Taranto-Roma-Milano via Potenza-Salerno-Napoli. Da metà dicembre, infatti, il FrecciaRossa in questione partirà solo dalla Basilicata, Regione che partecipa ai costi, e non più da Taranto come è stato sinora in quanto la Puglia non si è fatta carico della sua quota di partecipazione finanziaria. A Giannini che afferma che la Regione Puglia non si è mai impegnata per una partecipazione ai costi, il comitato risponde citando quanto il governatore di Puglia, Michele Emiliano, disse a Taranto all’avvio del nuovo collegamento, l’ 11 dicembre 2016. Per il comitato, le parole di Emiliano sono, come riportato dall’ AGI-Agenzia Italia  “il manifesto della contraddizione” perché, secondo il comitato, Emiliano in quell’occasione sostenne che “il Frecciarossa aggancia l’alta velocità a Salerno. Sia chiaro: non stiamo dicendo che partirà a 300 all’ora, però è un impegno che avevamo preso tanto tempo fa con la città di Taranto – sostenne  Emiliano nel 2016 – ed è stato mantenuto, devo dire, anche grazie alla Basilicata che ha fatto uno sforzo economico notevole. Noi accompagneremo questo sforzo e cercheremo di fare in modo che tutti i treni italiani in passato che partivano da Taranto verso il Nord, adesso vengano recuperati attraverso l’aggancio all’alta velocità”. Il comitato “non pendolari” osserva poi che “le Regioni, a fini di miglioramento del servizio, possono intervenire finanziariamente anche sui treni “a mercato“. Per esempio da anni – si cita – la Regione Friuli-Venezia Giulia eroga un contributo a Trenitalia affinché alcuni “Frecciargento” Roma-Venezia e viceversa, siano prolungati a e da Pordenone e Udine. Idem per le relazioni Basilicata-Lombardia e Calabria-Trentino. “Per attivare ulteriori Frecciargento-Frecciarossa (oltre a quelli già esistenti Puglia-Caserta-Roma) la Regione Puglia – si afferma – dovrebbe supplire con proprie risorse, ma non vuole farlo”. Secondo il comitato, “la boutade dei soldi pubblici che non si possono utilizzare per finanziare linee di trasporto nazionale, è una falsità montata ad arte che riduce la politica a rancore e tifoseria”continua l’ AGI-Agenzia Italia. Il comitato contesta poi Giannini anche sul punto che i passeggeri che salgono e scendono a Taranto dal FrecciaRossa sono una quota esigua rispetto ai 460 posti di dotazione del treno. Per il comitato, “il dato giornaliero (81 utenti) confonde l’opinione pubblica e la indirizza a proprio favore. Se 40 persone a tratta rappresenta lo 0,02% della sola Taranto, i 29565 viaggiatori l’anno rappresentano il 15% del totale, il 7,5% a tratta. Dato ben diverso – sostiene il comitato rispondendo all’assessore della Regione Puglia – e molto più significativo rispetto a quello giornaliero”. Inoltre, sostiene ancora il comitato, “non ci risulta affatto che il Frecciarossa lucano impieghi 6 ore per raggiungere la Capitale. Il sito di Trenitalia indica un tempo di percorrenza di 5h e 19m, mentre il collegamento più veloce da Bari, con interscambio, si attesta sulle 5h e 16m. Il Frecciarossa lucano infatti, permette ai tarantini di raggiungere Napoli in sole 4h (invece delle 5h via Bari) e Firenze in 7h ( invece delle 7h 09m con 3 cambi via Bari)”. Infine il comitato “non pendolari” contesta a Giannini “un collegamento diretto Taranto-Bari che possa migliorare l’interscambio con i Bari-Roma”. Per il comitato, si tratta dell’ “ennesimo tentativo di gettare fumo negli occhi ai propri cittadini da parte di chi, in tutti i modi e ormai da mesi, cerca unicamente una scusa per non parlare di cose concrete. L’Intercity 612 – si afferma – impiega 1h 08m con la sola fermata di Gioia del Colle. Ne consegue che un regionale diretto Taranto-Bari impiegherebbe non meno di 1h 06m. Solo 2 minuti in meno – si conclude – del collegamento attuale con bus”. Nessuno si è accorto che Emiliano ed ha mai detto nulla sulla nomina alla presidenza di Aeroporti di Puglia di Tiziano Onesti retribuito con 60mila euro l’anno , che è anche il presidente di Trenitalia. Una coincidenza forse l’avvio dei lavori per il potenziamento della rete ferroviaria per portare l’alta velocità a Bari. Altro che Sindaco di Puglia….!!!  L’obiettivo delle Ferrovie dello stato è di “terminare entro il 2026 la Roma-Bari in 3 ore, che vuol dire 2 ore da Napoli e collegare due grandi città per creare un’unica grande area metropolitana”   affermava lo scorso 4 giugno 2019 l’amministratore delegato di Fs Gianfranco Battisti che, in occasione del decennale delle Frecce, ha ricordato come “l’Alta Velocità ha cambiato il Paese dal punto di vista logistico“. Secondo Battisti “è il più grande progetto infrastrutturale dal dopoguerra ad oggi e credo che i dati dimostrino che trasportiamo oltre 40 milioni di passeggeri l’anno. Gli obiettivi da perseguire sono aumentare il livello qualitativo, l’offerta e cercare di estendere la rete, che oggi è solo su circa mille Km“. Quanto agli investimenti, “in generale – confermava Battisti – proseguono massicciamente non solo sull’Alta Velocità ma anche su tutta la rete. Abbiamo qualcosa come 2 miliardi di euro di investimenti sull’implementazione della rete – ha concluso – e per il Traporto regionale sono in arrivo 106 nuovi treni entro l’anno“. Non ricordiamo di aver letto ed ascoltato una sola parola dei deputati e senatori jonico-salentini in tale occasione, così come neanche i consiglieri regionali eletti a Taranto che ora si stracciano le vesti (metaforicamente parlando) pronunciarono una sola parola. E tutto questo, secondo noi,  gli elettori non devono e non possono dimenticarlo se hanno ancora un briciolo di dignità. La Salcef insieme ad un raggruppamento di imprese (RTI) si è aggiudicata nei giorni scorsi  la realizzazione di una tratta della nuova linea ad alta velocità Napoli – Bari. I lavori riguarderanno la progettazione e l’esecuzione della tratta Frasso Telesino – Telese, in particolare la realizzazione della nuova sede ferroviaria, comprese le opere civili connesse, per un valore di circa 230 milioni di euro. Il nuovo tracciato si estende per circa 30 km, di cui 5.721 m in galleria, e prevede la demolizione di 16 km di binario della linea storica. L’opera fa parte di un più ampio progetto per la costruzione della prima linea AV/AC che unirà i capoluoghi della Puglia e della Campania: una nuova infrastruttura strategica per la mobilità del Sud Italia, che entrerà a far parte del Corridoio ferroviario europeo TEN-T Scandinavia – Mediterraneo. Come commentare tutto ciò ? Molto semplice: invitare tutti i pugliesi a mandare a casa una classe politica che vive di menzogne, di nomine politiche e di finanziamenti agli “amici degli amici”. Un Presidente della Regione “serio”, sopratutto in quanto magistrato in aspettativa, con tutte le di indagini giudiziarie a suo carico si sarebbe dimesso immediatamente. Ma per prendere una decisione seria e rigorosa del genere, bisogna essere appunto delle persone serie e per bene. A voi Emiliano sembra esserlo ?

·         Giochi Mediterraneo 2026 tra vero e falso.

Giochi Mediterraneo 2026, è ufficiale: la sede sarà Taranto. Ritorno in Puglia dopo circa 30 anni. A Patrasso l'assemblea del Comitato internazionale ha dato l'ok. Nicola Pepe il 24 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. E' ufficiale. La 20esima edizione dei Giochi del Mediterraneo si svolgerà a Taranto. Il verdetto è arrivato questo pomeriggio a Patrasso ai lavori dell'assemblea generale del Comitato internazionale (Cijm) che ha decretato la località in cui si svolgeranno i Giochi dal 13 al 22 giugno del 2026 (il rinvio di un anno era stato chiesto dallo stesso comitato per motivi organizzativi ed evitare la concorrenza di altri tornei internazionali). Alla proclamazione del capoluogo jonico come sede dei Giochi era presente una delegazione pugliese guidata dal Governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano. Il comitato organizzatore, presieduto dall'algerino Ammar Addadi, ha scelto Taranto dopo aver esaminato il corposo dossier di candidatura messo a punto da Asset e Coni. E' la seconda volta nella storia dei Giochi (di cui l'Italia detiene il primato nel medagliere con 2303 riconoscimenti) che viene scelta la Puglia: l'ultima volta risale al 1997 quando il capoluogo pugliese fu sede della 13esima edizione della manifestazione. E si tratta della quarta volta in Italia dopo Napoli (1963) e Pescara (2009). La candidatura di Taranto, in particolare, si reggeva su alcuni fattori fondamentali: la riqualificazione degli impianti sportivi esistenti (le nuove costruzioni saranno solo due) nonchè l'allargamento del perimetro di azione alle altre province pugliesi spingendosi sino a Matera proprio per ridurre i costi e coinvolgere più territori. E, infine, non sarà necessario costruire alcun villaggio sportivo per gli atleti, visto che utilizzeranno le strutture esistenti a Castellaneta Marina. Nelle 108 pagine sono previsti a giugno dieci giorni di gare che interesseranno 30 discipline sportive, comprese quelle paralimpiche. Le risorse in campo, secondo le stime elaborate da Governo, Coni, Regione Puglia, Asset e Comune di Taranto dovrebbero essere circa 290 milioni di euro, ovviamente spalmati in sette anni. Di questi, il Governo ne metterà a disposizione circa 100. Per realizzare i Giochi, in conclusione, saranno necessari almeno 65 impianti che dovranno ospitare le gare, maschili e femminili, di 23 diverse discipline sportive (7 quelle di squadra). L'Italia, come detto, è prima nella classifica del medagliere: in circa 70 anni di Giochi ha conquistato 876 ori, 741 argenti e 686 bronzi.

EMILIANO: PER NOI GIOIA E RESPONSABILITA'. «Per noi - ha detto il presidente Michele Emiliano - è una grande responsabilità e una bellissima vittoria, siamo entusiasti ma in pochi secondi siamo passati dalla gioia alla responsabilità di dover organizzare nei prossimi sei anni tutto a puntino perché questi giochi siano i più belli che siano mai stati organizzati sino ad oggi». «La Regione Puglia si carica un onere economico notevolissimo per l'organizzazione di questi giochi e ci auguriamo di avere al nostro fianco anche il Governo nazionale. Il Comune di Taranto sta lavorando bene. Questi Giochi del Mediterraneo a Taranto fanno venire in mente quella rabbia determinata e disciplinata di Pietro Mennea, icona non solo dello sport italiano, ma di questi giochi che hanno dentro, è inutile negarlo, un segno del riscatto e della volontà di Taranto di guardare al futuro, senza dimenticare il presente, ma con l'intenzione di ritornare a essere una delle grandi capitali del Mediterraneo. I giochi possono svolgere questa funzione e noi ce la metteremo tutta perché ciò avvenga».

SINDACO MELUCCI: SIAMO NELLA STORIA. «Taranto è nella storia. Taranto è ormai una realtà di punta nazionale e non più o non soltanto per l'industria. Taranto si sta comportando da vera capitale di mare. Ora andiamo avanti a testa alta e lavoriamo tutti insieme per continuare a cambiare in meglio il volto di questa città, che il mondo realmente ci invidia, per farci trovare pronti all’appuntamento del 2026». Lo afferma il sindaco Rinaldo Melucci per l’assegnazione dei Giochi del Mediterraneo 2026. «Siamo stati ripagati di due anni di lavoro intensissimo, ma - aggiunge il primo cittadino - sapevamo che Taranto ha ancora tanta energia e tanta bellezza da esprimere. Desideriamo ringraziare tutti quelli che hanno contribuito a questo traguardo incredibile. È un giorno di grandi emozioni, lo dedichiamo a tutti i tarantini e in particolare a quanti in questi anni, per vari motivi, hanno sofferto e avevano quasi perduto la speranza in un futuro diverso». Quello «che avverrà in riva allo Ionio - conclude Melucci - va ben oltre lo sport, ne siamo convinti. Godiamoci questo momento tutti insieme, senza alcun distinguo».

LE PAROLE DI MONS. SANTORO. «La notizia dell’assegnazione a Taranto dei Giochi del Mediterraneo è di quelle che riempiono di speranza ed entusiasmo. Leggo le innumerevoli dichiarazioni di soddisfazione dei tanti che si sono impegnati per raggiungere questo traguardo: a loro va il mio ringraziamento per l’ottimo lavoro». Lo afferma l’arcivescovo metropolita Filippo Santoro sull'assegnazione dei Giochi del Mediterraneo 2026. «Finalmente - aggiunge - la città intera pare sentirsi parte di un progetto condiviso, pronta a collaborare con orgoglio alla sua riuscita: è un’opportunità che va oltre i giochi stessi e che ci aiuta a ricostruire una comunità per troppo tempo lacerata». Adesso, sostiene mons. Santoro, «viene la parte complicata, dobbiamo contribuire tutti a sfruttare al massimo questa assegnazione e a far sì che non diventi un’altra occasione persa: abbiamo le competenze, le intelligenze e l'esperienza per fare del nostro meglio. Taranto guardi ai Giochi - conclude il vescovo metropolita - come a un’occasione per cominciare a costruire un futuro diverso, a misura degli uomini e delle donne che la abitano. Mutuo l’incitamento sportivo che è quanto mai adeguato al momento: forza Taranto». 

Taranto candidata "solitaria" italiana per i Giochi del Mediterraneo del 2025: il solito fumo negli occhi. Il Corriere del Giorno il 2 Agosto 2019. Il Governo ha preso atto dell’unica candidatura italiana, che prevede pero una spesa pubblica di 250 milioni che graverà in buona parte sulle tasche dei contribuenti. In caso di aggiudicazione, peraltro i Giochi si svolgeranno a Taranto ed in una ventina di Comuni di altre tre province (Lecce, Brindisi e Bari). Il trionfalismo prematuro della politica dei soliti “venditori di fumo”, che questa volta comprende anche i deputati pugliesi eletti nel M5S. Nessuna altra città italiana infatti ha avanzato la propria candidatura. Un progetto costato circa mezzo milione di euro, che prevede investimenti pubblici per circa 250 milioni di euro , 100 dei quali messi a disposizione dall’attuale Governo (ma quanto regge questo Governo ?) . Un evento “semi clandestino” che non ha mai cambiato, nè migliorato lo stato dell’economia locale, e le cui precedenti organizzazioni notoriamente non hanno mai portato alcun successivo flusso turistico o palcoscenico internazionale, passando nel dimenticatoio persino dei diritti televisivi. Le precedenti edizioni già disputate dei Giochi del Mediterraneo sono diciotto. A causa di inadempienze la diciassettesima edizione del 2013 si è svolta a Mersin, Turchia e non a Volos, in Grecia. La diciottesima edizione si è svolta a Tarragona, in Spagna nell’estate 2018 e non nel 2017. Le nazioni che hanno ospitato più edizioni dei giochi sono l’Italia e la Spagna, che ne hanno organizzate tre. Seguono poi Turchia e Tunisia con due e infine Egitto, Libano, Grecia, Algeria, Croazia (Jugoslavia), Marocco, Siria e Francia con una edizione ciascuno. La conferma proviene dalla circostanza che nessuna altra città del Mezzogiorno si è candidata. Il Comune di Taranto invece, che non naviga nell’oro, essendo uscita da pochi mesi dal dissesto finanziario, vuole ospitare la ventesima edizione dei Giochi del Mediterraneo in calendario nel 2025, cioè fra 6 anni ! Incredibilmente persino il Ministro per il Sud, la “grillina” Barbara Lezzi si è lasciata ubriacare dall’enfasi pre-elettorale, commentando “Questa è una bella notizia per tutta la Puglia“. Resta da capire a questo punto quale sia la bella notizia, considerato che quella di Taranto è l’unica candidatura italiana. Un commento quello della Lezzi , a dire il vero, che nessuno si aspettava, soprattutto dopo che in un recente passato il M5S per voce della Sindaca di Roma Virginia Raggi aveva rifiutato e bloccata la candidatura della Capitale a giocarsela per organizzare le Olimpiadi a Roma, così come la Sindaca di Torino Chiara Appendino (M5S) si è sfilata dalla candidatura congiunta Milano-Torino ad organizzare le Olimpiadi Invernali che sono state successivamente aggiudicate all’ Italia, dopo l’accordo raggiunto dal Comune di Milano con quello di Cortina d’ Ampezzo. Secondo il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci (Pd) un rinvio della decisione, in sostanza, sarebbe potuto costar caro: “Abbiamo tirato un bel sospiro di sollievo. Il sì del Consiglio dei ministri qualifica definitivamente la nostra ambizione“. Piccolo particolare , un ambizione che nessun altro comune d’ Italia aveva. L’assegnazione dei Giochi del Mediterraneo del 2025 verrà ufficializzata sabato 24 agosto in Grecia a Patrasso. E’ a dir poco ridicolo quanto scrive un quotidiano locale, sostenuto  dalle “mancette” (o markette ?) pubblicitarie del Comune di Taranto che questa mattina ha scritto “La muscolarità della designazione del Comune di Taranto, sostenuta da un dossier ben argomentato assieme alla Regione Puglia, ha smontato poco alla volta le aspirazioni delle avversarie“, e tutto ciò peraltro senza aver mai preso visione o conosciuto alcun progetto delle altre città candidate. Il sindaco Melucci con la sua notoria sfacciataggine, a sua volta ha dichiarato “Usando un gergo sportivo abbiamo fatto squadra. E certamente il brand Italia ha inciso sulla fuga delle nostre ipotetiche rivali“. Resta da capire di quale “brand Italia” parla e chi sarebbe fuggito al cospetto di una città, Taranto che al momento non alcun impianto sportivo degno di partecipare ad una qualsiasi competizione internazionale! Una candidatura che ha consentito ai parlamentari eletti in Puglia del Movimento 5 Stelle di cercare di prendersi qualche merito sulla base del nulla. Come si fa a non ridere quanto il “grillino” Paolo Lattanzio, capogruppo in commissione cultura alla Camera dice : “Da questo appuntamento internazionale potremo trarre benefici sul fronte del rilancio di Taranto in termini di riconversione economica. I Giochi faranno sì che Taranto non sia identificata solo con l’ingombrante presenza dell’ex Ilva“. A cui si aggiunge l’ex-portaborse ora deputato poi il deputato Giovanni Vianello che dichiara in una nota “Ciò che mi conforta è il messaggio di speranza garantito dall’aver raggiunto in gruppo un obiettivo importante“, dimenticando che al momento non è stato raggiunto ancora nulla!

ESCLUSIVO: tutte le "fake news" del dossier Giochi del Mediterraneo. E più di qualche "problema"... sul Comitato Promotore. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 25 Agosto 2019. Mentre la comitiva di giornalisti e pennivendoli in servizio permanente effettivo per il Comune di Taranto lautamente ricompensati da “mancette & markette” pubblicitarie era impegnata a raccontare da Patrasso, siamo andati a spulciare pagina dopo pagina il Dossier di candidatura per l’organizzazione dei XX Giochi del Mediterraneo, manifestazione notoriamente priva di alcuna importanza e ritorno mediatico, al punto tale che nessun’altra città italiana nell’ultimo decennio ha avanzato la propria candidatura. Sarebbe molto interessante sapere chi ha pagato il viaggio dei giornalisti al seguito della delegazione pugliese, e soprattutto farlo sapere anche al Consiglio di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia… O forse il viaggio a spese del contribuente in Grecia rientrava nelle mancette pubblicitarie recentemente elargite dal Comune di Taranto per oltre 160mila euro ai soliti “amici degli amici”…? In ogni caso faremo istanza di accesso agli atti amministrativi dei vari enti pubblici coinvolti per accertarlo. Statene pur certi. E con questo reportage inizia la nostra inchiesta a puntate. Se qualcuno dei cosiddetti giornalisti locali avesse fatto realmente il proprio mestiere, avrebbe potuto raccontare delle “belle” sulle “balle” contenute del “Dossier” e farsi anche quattro risate sul discorso letto dal Sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, che questa volta almeno si è astenuto dall’utilizzare le solite 4 parole ad effetto in inglese che conosce, e che ama ripetere continuamente. I giornalisti pugliesi dovrebbero studiare e rileggersi  il “Testo unico dei doveri del giornalista” la cui inosservanza può determinare la responsabilità disciplinare dell’iscritto all’Ordine. Infatti all’Articolo 2 (Fondamenti deontologici) è chiaramente indicato che il giornalista non “accetta privilegi, favori, incarichi, premi sotto qualsiasi forma (pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, regali, vacanze e viaggi gratuiti) che possano condizionare la sua autonomia e la sua credibilità“. Quindi come avrebbero potuto scrivere liberamente o verificare quello che scrivevano, quando sopravvivono grazie alle mancette del Comune di Taranto, e qualcuno di questi addirittura si è fatto la sua società (con appena 500 euro di capitale sociale….) spacciandosi in giro per nuovo editore di Radio Cittadella della Curia Arcivescovile senza in realtà esserlo, incassando la bellezza di 10mila euro dal Comune di Taranto! Lo abbiamo quindi fatto noi del CORRIERE DEL GIORNO, andando a spulciare un dossier che fonti “confidenziali” dicono essere costato al contribuente circa mezzo milione di euro, redatto da Raffaele (ma per tutti Elio) Sannicandro, commissario straordinario dell’ ASSET l’Agenzia regionale strategica per lo sviluppo ecosostenibile del territorio (il solito carrozzone pubblico inutile) della Regione Puglia.  Sannicandro, ingegnere è stato assessore della Giunta Emiliano al Comune di Bari (nel 1° mandato allo Sport e nel 2° all’ Urbanistica).

Ma chi è Sannicandro? Ex numero uno del Coni pugliese, Sannicandro, l’ attuale commissario dell’  Asset (l’Agenzia regionale strategica per lo sviluppo ecosostenibile del territorio), ha un passato imbarazzante. avendo ricevuto nell’ottobre 2017 la censura da parte del Comitato olimpico nazionale, a seguito della quale si dovette dimettere da delegato Coni della provincia di Bari. L’ex signore dello sport pugliese era finito nella bufera a causa dell’affidamento della progettazione preliminare della pista di atletica nello stadio di Barletta che fu di Pietro Mennea (finanziamento da 3,5 milioni, studio di fattibilità da 785mila euro), al nipote, Luca La Bombarda, e al collega di studio, Pierino Profeta. Che garanzie di trasparenza, legalità, correttezza può quindi dare una persona del genere ? Ancora una volta Michele Emiliano si distingue per le sue nomine “border line”. Il caso “Sannicandro”, venne sollevato dal quotidiano La Repubblica nel marzo 2016, aveva indotto il presidente del Coni Giovanni Malagò ad aprire un’inchiesta per violazione del regolamento sul conflitto di interessi. Il Codice di comportamento sportivo, infatti, parla chiaro: “i tesserati, gli affiliati e gli altri soggetti dell’ordinamento sportivo – si legge all’articolo 10 – sono tenuti a prevenire situazioni, anche solo apparenti, di conflitto con l’interesse sportivo, in cui vengano coinvolti interessi personali o di persone ad essi collegate“. Ed è stato proprio a causa della “sussistenza anche solo apparente di un conflitto di interessi “ e “considerando le finalità anche preventive della norma suddetta” – riportava il provvedimento firmato dal Garante – che Sannicandro, in qualità di membro del consiglio nazionale Coni, ricevette la sanzione disciplinare. “A seguito di una segnalazione, con relativa documentazione, da parte del Procuratore Generale dello Sport – recitava il testo della nota stampa del Coni – il Garante del Codice di comportamento sportivo ha deciso di infliggere la sanzione della censura al membro del Consiglio Nazionale del Coni, Raffaele Sannicandro. La Giunta ha anche recepito le dimissioni da delegato Coni della provincia di Bari dello stesso Sannicandro“. L’ex presidente dello sport barese , già assessore al Comune di Bari ed al Comune di Giovinazzo, si è dovuto “accontentare”, si fa per dire, del ruolo di guida della nuova Asset. (questo il suo atto di nomina – vedi qui) e di appena….108mila euro di stipendio! Il 24 ottobre 2017 il Consiglio regionale pugliese aveva approvato a maggioranza il disegno di legge istitutivo dell’ Asset quale organismo tecnico operativo a supporto della Regione Puglia che è andata a sostituire la vecchia Arem l’ Agenzia regionale per la mobilità della Regione Puglia nella quale peraltro Sannicandro era già stato nominato dal governatore Michele Emiliano a febbraio 2017.

Ecco chi votò per l’ approvazione sull’istituzione dell’ Asset organismo per la definizione e la gestione delle politiche per la mobilità, la qualità urbana, le opere pubbliche, l’ecologia e il paesaggio:  23 favorevoli: : Blasi; Campo; Caracciolo; Cera; Colonna; Di Gioia; Giannini; Lacarra; Leo; Liviano; Loizzo; Longo; Mazzarano; Mennea; Nunziante; Pellegrino; Pentassuglia; Piemontese; Pisicchio; Santorsola; Turco; Vizzino; Zinni;, 4 contrari: Bozzetti; Di Bari; Laricchia; Trevisi; e 8 astenuti: Caroppo; De Leonardis; Franzoso; Gatta; Manca; Marmo; Perrini; Ventola, assenti dall’aula al momento del voto: Abaterusso; Barone; Borraccino; Casili; Conca; Congedo; Damascelli; Galante; Morgante; Pendinelli; Romano; Stea; Zullo;

Taranto “Città dei due mari” o “Capitale di mare”? La circostanza più divertente è che sulla prima pagina del “dossier” è scritto “ È chiamata “la città dei due mari”, Taranto, bagnata dal Mar Grande e dal Mar Piccolo“. Qualcuno forse del Comune di Taranto deve aver dimenticato recentemente di ricordarlo per informare correttamente l’agenzia di comunicazione barese, beneficiaria di ben 7mila euro di soldi pubblici per realizzare lo slogan “Taranto Capitale del Mare” ed un logo reperibile sul web per una decina di euro!

Il Sindaco Melucci e l’ennesima “mancetta” (o marketta ?) pubblicitaria alla stampa locale. Il dossier riporta quanto segue: “momento di sintesi la candidatura ad ospitare i Giochi, occasione imperdibile per Taranto per dimostrare tutte le sue capacità e per poter valorizzare al meglio l’eredità che un tale evento porta con sé in termini di infrastrutture, investimenti, visibilità, marketing, turismo“, e continua paragonandosi, sconfinando nel ridicolo attestando che “Fondamentale risulterà la capacità di “fare sistema” fra attori nazionali e soprattutto locali, nell’ottica di una partnership virtuosa, come quella già sperimentata, a livello nazionale, per la candidatura alle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026″. Onestamente paragonare i Giochi del Mediterraneo con le Olimpiadi Invernali, e Taranto con Milano, e Cortina d’ Ampezzo con i paesini pugliesi coinvolti , è qualcosa che sconfina nel ridicolo, per non dire patetico! Per non parlare poi di affermazioni degne di essere annoverate fra le “fake news” più imbarazzanti, sostenendo che “La presentazione pubblica della candidatura – svoltasi a Taranto, presso il Palazzetto dello Sport “Valentino Mazzola”, lo scorso 3 maggio 2019, in occasione della sottoscrizione dello Statuto del Comitato Promotore – ha avuto una rilevante e positiva eco nei media (stampa, emittenti radiotelevisive, web) e nell’opinione pubblica, che segue con entusiasmo e fiduciosa attesa le varie fasi del procedimento di candidatura” dimenticandosi di raccontare quanti soldi pubblici ha elargito il Comune di Taranto in “mancette” pubblicitarie ai media locali. E non a caso nessun quotidiano di rilievo nazionale se ne è mai occupato, e non a caso sul sito dell’ Asset compaiono solo testate locali! Leggere poi che il soggetto “Comitato Promotore della candidatura di Taranto ai XX Giochi del Mediterraneo del 2025” è un ente no profit, riconosciuto dal Codice Civile italiano, ci lascia perplessi, perchè non è dato sapere quanto ed a chi costerà questo Comitato promotore. Per non parlare poi del Comitato Organizzatore (OCMG) che sarà costituito entro 6 mesi dall’assegnazione della XX edizione dei Giochi – fatta salva eventuale proroga formalmente accordata dal Presidente del Comitato Internazionale dei Giochi del Mediterraneo (ICMG) – e avrà sede nel centro della città di Taranto, in un prestigioso edificio storico di proprietà pubblica. L’organismo direttivo ed esecutivo dell’OCMG sarà composto dai seguenti soggetti: Rappresentante italiano del Comitato Olimpico Internazionale (IOC), non facente parte dell’ICMG EC; Presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI), Sindaco della Città di Taranto, o suo delegato; Presidente della Regione Puglia, Sottosegretario allo Sport, o suo delegato; Ministro per il Mezzogiorno, o suo delegato; Enti e Personalità autorevoli dello sport, della società, della cultura, dei quali non viene indicato chi li sceglie e sulla base di quali requisiti. La solita “lottizzazione” pre-elettorale ? Molto probabile, conoscendo le abitudini …di Emiliano e Melucci. Per capire poi la pochezza ed inadeguatezza del Comitato che ha analizzato il dossier, basta vedere che vengono indicate strutture al momento non esistenti, che invece vengono indicate come esistenti, vedi lo Stadio del Nuoto di Taranto, impianto sportivo che al momento non esiste ! Ma non è finita. Infatti ancora una volta la compagnia di giro di Michele Emiliano continua a prendere per i fondelli l’intera provincia jonica sulla questione dell’aeroporto di Grottaglie, promettendo l’apertura ed il funzionamento per i voli civili. In realtà nel “Dossier” veine scritto ben altro e cioè che: “ L’aeroporto “Arlotta” di Taranto-Grottaglie, con preminente funzione cargo-logistica, è attualmente interessato da ulteriore potenziamento e ampliamento quale infrastruttura strategica europea per la crescita del sistema industriale e di ricerca avanzata a servizio del comparto aeronautico e aerospaziale: sarà il primo spazioporto italiano destinato ad accogliere voli suborbitali. Dotato di una pista con lunghezza di 3.200 m e di ampiezza di 45 m, distante in auto 18 km e 13 minuti dal centro di Taranto e 47 Km e 35 minuti dal Villaggio Mediterraneo, in occasione dei Giochi ospiterà specifici voli charter a servizio degli Atleti e della Famiglia olimpica”.

AEROPORTO “ARLOTTA” – AEROPORTO DI TARANTO-GROTTAGLIE. In pratica gli eventuali turisti che volessero venire in Puglia a seguire i Giochi del Mediterraneo dovranno continuare ad utilizzare l’ Aeroporto di Bari o quello di Brindisi, quindi l’ Aeroporto di Grottaglie e Taranto non avrebbero alcun beneficio! Per non parlare poi della questione “porti” sostenendo che ” L’organizzazione dei Giochi a Taranto potrà contare su ben 3 porti: Taranto, Brindisi e Bari.  Il Porto di Taranto, situato immediatamente al di fuori della città e gestito dall’Autorità di Sistema Portuale del Mar Jonio, è un nodo logistico completo, tra i più importanti e strategici d’Italia“. Peccato che l’incompetente e disinformato estensore del “dossier” che chiaramente non poteva essere contraddetto da chi in Grecia non conosce il territorio e tantomeno ha mai verificato sul posto, cioè in Puglia, quanto millantato nel dossier di Sannicandro. Forse è il caso di ricordare all’ Avv. Sergio Prete, presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Jonio, che ieri festeggiava con un gruppetto di squallidi individui e patetici consiglieri comunali, la decisione finale, che da tre anni la stazione turistica portuale non è mai terminata !!! E che il porto di Taranto è da sempre ad esclusiva vocazione e fruizione industriale. Particolari questi che l’ex-agente marittimo Rinaldo Melucci, attuale Sindaco pro-tempre di Taranto, conosce molto bene. Infatti non a caso nel dossier i porti di Bari e Brindisi verranno utilizzati, Brindisi “per la logistica e per il trasporto passeggeri, specie per gli eventi programmati nel Cluster di Brindisi e Lecce”, mentre il Porto di Bari sarà complementare “per la logistica e per il trasporto passeggeri“. Legittimo porgersi una domanda: quali società di trasporto passeggeri faranno delle linee di crociera o passeggeri per i Giochi del Mediterraneo ? La risposta ve l’anticipiamo noi, essendo molto facile e semplice: nessuna! Ma la follia umana-organizzativa si evince quando viene attestato che ” il trasporto degli Atleti con servizio navetta riservato, in partenza dal parcheggio di interscambio presso ilVillaggio Mediterraneo, con destinazione tutte le sedi dei Giochi (siti competitivi e di allenamento, MedalPlaza, siti di cerimonia, eccetera) secondo programma; il trasporto della Famiglia Olimpica con servizio navetta riservato, in collegamento anche a chiamata dall’albergo di residenza, verso tutte le venues dei Giochi secondo programma“. Il “Villaggio Mediterraneo“ è il “regalo” fatto dalla ritrovata accoppiata Emiliano-Melucci ad un noto imprenditore massafrese, tale Tonino Albanese (pluri-indagato, e prossimo al rinvio a giudizio della Procura di Taranto) che è uno degli azionisti di riferimento del complesso turistico di Castellaneta Marina dove verrà insediato il “Villaggio Mediterraneo” . Taranto, capitale del mare, o del malaffare e della monnezza ? Ai posteri l’ardua sentenza...

·         Il magistrato Pietro Argentino non prende pace neanche a Matera...

Il magistrato Pietro Argentino non prende pace neanche a Matera...Una vera e propria “guerra” tra magistrati tra le province di Potenza e Matera che ricadono sotto lo stesso distretto di Corte d’Appello e che senza alcun dubbio non rasserena le turbolenze provenienti dagli scandali al Csm con il caso Palamara. Antonello de Gennaro il 28 Giugno 2019 su Il Corriere del Giorno. Potrei iniziare questo articolo scrivendo: “io questo lo conosco bene…” ma in realtà personalmente non lo conosco affatto, ma conosco e so molto bene quante ne ha combinate, conosco i suoi “adepti” e protetti, conosco le sue avventure sentimentali, e so quante ne ho dovute subire dinnanzi al suo  breve (per fortuna della giustizia ) periodo a Taranto di procuratore facente funzione, allorquando ha “pilotato” (o meglio sostenuto) spericolate iniziative di alcuni magistrati a lui molto vicini, e del suo giornalista “ventriloquo” di fiducia, con una vera e propria persecuzione accusatoria da me subita che è stata smentita dall’ufficio di ben tre Gip del Tribunale di Taranto, del Tribunale del Riesame di Taranto che ha visto prevalere le mie ragioni e l’insussistenza delle accuse nei miei confronti. Per non parlare poi della richiesta di arresto formulata nei miei confronti con primo firmatario Pietro Argentino, finita nel tritacarte delle follie giudiziarie, non venendo accolta dal Gip del Tribunale di Taranto dr. Tommasino, in quanto era chiaro e lampante che il vero ed unico obiettivo di alcuni magistrati in servizio a Taranto, era unicamente quello di mettermi a tacere ed impedirmi di fare sino in fondo il mio lavoro di giornalista. Per non parlare poi del vano tentativo di “comprarmi” proponendomi consulenze a pagamento (puntualmente rifiutate !) facendomi contattare  da un avvocatessa di Martina Franca, tale Beatrice Conserva, la quale per un periodo è stata “pubblicamente” la sua compagna convivente, a seguito di una temporanea separazione di Argentino con sua moglie, le cui liti urlate sono ancora oggetto di gossip nel palazzo in cui vivevano. Tutte miserie umane. Non contento a suo tempo Argentino e le sue due colleghe tarantine proposero ricorso in Cassazione, ottenendo la pessima figura che meritavano. Infatti il procuratore generale della  Cassazione chiese il rigetto del ricorso per “inammissibilità“, che il collegio della  5a sezione della Suprema Corte condivise, rigettando i teoremi della Procura di Taranto(sotto la gestione pro-tempore) di Argentino ritenendolo “inammissibile” . Una figura peggiore, un magistrato nel corso della carriera, non la può fare. Ma invece toccò ad Argentino, insieme alle colleghe Giovanna Cannarile (successivamente trasferita dal Csm a Lecce) e Rosalba Lopalco che con lui avevano controfirmato il ricorso,  rivelatosi sterile ed insussistente. Per non definirlo ridicolo ! Ha ragione chi ha scritto che “Parlare di guerra tra toghe è decisamente troppo“, ma assistere alla “guerriglia” giudiziaria che il magistrato Argentino  sta cercando di scatenare in Basilicata è veramente troppo. Pietro Argentino nato a Lizzano il 28 settembre 1952, è procuratore capo della Procura di Matera dal luglio del 2017 , dopo aver fatto il procuratore aggiunto a Taranto dal maggio 2013 sino alla sua attuale nomina che potrebbe essere l ‘ultima  prima del suo pensionamento che dovrebbe decorrere dal 1 ottobre 2022, cioè fra tre anni al compimento dei suoi 70 anni. Una nomina peraltro ottenuta con il minimo dei voti necessari (undici) dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura. Argentino adesso chiede di processare  Laura Triassi, di fatto il “numero due” della Procura di Potenza,  Amerigo Palma Gip dello stesso Tribunale e tre componenti giudicanti del Collegio penale del capoluogo di regione, Aldo Gubitosi, Francesco Rossini e Natalia Catena quest’ultima trasferitasi nel Lazio, con un’azione che rappresenta una situazione incresciosa. E’ stato proprio Argentino  con un proprio esposto, a chiedere ai giudici calabresi di valutare l’operato dei colleghi potentini in relazione a un procedimento che lo aveva visto prima “testimone“ e subito dopo indagato per falsa testimonianza nel 2014 quando era Procuratore aggiunto a Taranto  e quindi sottoposto alla giurisdizione del Tribunale di Potenza.  Tutto ha origine da un procedimento che noi del CORRIERE DEL GIORNO conosciamo molto bene…cioè quello a carico dell’ex-pm  Matteo Paolo Di Giorgio condannato in via definitiva dalla Suprema Corte di Cassazione a 8 anni di carcere con la grave e pesante l’accusa di aver abusato della sua toga per interferire nella vita politica di Castellaneta Marina ed in particolare del Sen. Rocco Loreto. Nel febbraio del 2014 Argentino venne ascoltato dal collegio penale come testimone , ma quando nel successivo aprile il tribunale pronunciò la sentenza di primo grado, venne disposta la trasmissione degli atti alla procura per un’ipotesi di reato di “falsa testimonianza” a carico di Argentino e dell’ex procuratore capo di Taranto. Incredibilmente fu lo stesso Argentino a sollecitare alla Procura di Potenza l’avvio di un fascicolo che si chiuse con una richiesta di archiviazione formulata dal Pm Laura Triassi, accolta dal Gip dr. Amerigo Palma, ritenendo non veritiere alcune sue dichiarazioni, basandosi sul fatto che Argentino qualora avesse agito diversamente avrebbe dovuto fare una “pacifica ammissione di aver, sia pur nel lontano 2006, ingiustamente accusato” una persona, e venne ritenuto “non è punibile per il delitto di falsa testimonianza, in forza dell’esimente di cui all’art. 384 comma primo del codice penale, il testimone che, come nella specie, abbia reso false dichiarazioni al fine di sottrarsi al pericolo di essere incriminato per un reato commesso in precedenza e in ordine al quale, al momento in cui è stato ascoltato, non vi erano indizi di colpevolezza a suo carico”. L’ attuale Procuratore di Matera si è sentito leso dalla decisione del Tribunale di Potenza trasmettere gli atti alla Procura senza approfondire alcuni fatti, lamentando un’ipotesi di abuso d’ufficio e calunnia. Non contento…è arrivato addirittura a censurare sia la richiesta di archiviazione in suo favore, che secondo lui, sarebbe stata strumentalmente basata sull’esimente dell’art. 384, ma anche il successivo dispositivo del Gip che avallava integralmente la richiesta del Pm, fatti per i quali Argentino sostiene di aver subito un abuso d’ufficio da parte dei colleghi di Potenza. Non si comprende quale…Secondo le motivazioni di archiviazione dei Pm calabresi l’esito delle indagini non avrebbe consentito di riscontrare alcuna sussistenza di eventuali reati, sia sotto il profilo materiale quanto per gli insufficienti riscontri in ordine alla ricorrenza dell’elemento psicologicamente normativamente richiesto. Mancherebbero gli elementi anche solo minimamente sintomatici di una volontà o intento di orientare la decisione in danno di Argentino. La vicenda sarebbe stata molto complessa mentre è necessaria una piena consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato per poter integrare e ravvedere il reato di calunnia , che non sarebbe stato ravvisato nella condotta dei giudici potentini, così come nella  condotta della Pm Triassi la quale, pur condividendo la ricostruzione di “non credibilità” di Argentino, aveva ritenuto applicabile nei suoi confronti l’esimente prevista dall’art. 384 comma primo del codice penale, basandosi su un convincimento fattuale e giuridico, seppure ritenuto non condivisibile. Una decisione per la quale anche  i Pm calabresi non ravvedono elementi tali da far ritenere una volontarietà nel fare un danno ingiusto al collega all’epoca in servizio a  Taranto o un vantaggio patrimoniale a terzi. Ed altresì non ci sarebbe stata nessuna volontà di arrecare danno ad Argentino nella decisione con cui il dr. Palma Gip del Tribunale di Potenza ha disposto l’archiviazione definitiva. Il procuratore di Matera, originario di Lizzano (Taranto) ed il suo legale, il prof. Luigi Fornari, a seguito della richiesta di archiviazione firmata dai Pm calabresi Vincenzo Capomolla e Vito Valerio, hanno depositato una lunga memoria presentando ricorso al Gip del Tribunale di Catanzaro richiedendo di formulare l’imputazione coattiva o, eventualmente di effettuare altri accertamenti.  ed hanno  con cui chiedono la formulazione dell’imputazione o di imporre ai Pm nuove indagini affinchè il fascicolo non finisca in archivio . Argentino lamenta  per quanto riguarda il collegio giudicante, come non abbia ricevuto il previsto avviso al testimone (cioè se stesso) sulla presunta contraddittorietà delle sue dichiarazioni poi giudicate in sentenza che sono state giudicate dal Tribunale di Potenza in “stridente contrasto” con quelle di un altro testimone. Aggiungendo  una serie di elementi per sostenere la propria verità di quanto affermato, per accusare il Collegio del Tribunale penale potentino di aver dolosamente voluto ignorare,  arrivando a giudicar alcuni passaggi difficilmente comprensibili “se non tenendo presente la malafede dei componenti del Collegio”. Argentino chiede nello stesso modo la loro imputazione coattiva e, in subordine, delle nuove ulteriori indagini nei confronti della Pm Laura Triassi e del Gip Amerigo Palma, cioè di coloro che l’avevano prosciolto ed archiviato ! A sostegno delle accuse nei loro confronti, oltre alla ricostruzione degli elementi del procedimento “madre” (che peraltro si è concluso definitivamente) , fa riferimento ad una registrazione di un colloqui tra due persone interessate dal procedimento principale. Persone che a aprile del 2015 già sarebbero stati a conoscenza dell’esistenza del decreto di archiviazione nei confronti di Argentino, e che aggiungono di sapere che “doveva essere fatto subito” e che parlano di un ufficiale minacciato dal Pm, che a giugno conoscono il contenuto del decreto di archiviazione e che addirittura ad agosto ne saranno in possesso, sapendo che la richiesta di non archiviare presentata da Argentino è stata rigettata e che così l’allora procuratore aggiunto di Taranto sarebbe stato fregato ed escluso dalla corsa a Procuratore capo di Matera (dopo essersi candidato anche per quella di Lecce !) in quanto sottoposto a procedimento disciplinare dal quale si è salvato grazie a “pressioni” politiche in suo favore, con lo zampino del pm romano Luca Palamara, come evidenziato nei giorni scorsi dai quotidiani La Repubblica ed il Fatto Quotidiano. L’azione di Argentino nasconde un altro obiettivo: quello di danneggiare la pm Triassi nella sua corsa a procuratore aggiunto di Potenza. Un incarico assegnato a Raffaello Falcone, oggi coordinatore della sezione «fasce deboli» — contro il quale la Triassi hanno vinto il ricorso al Tar: i giudici amministrativi hanno ritenuto che entrambi avessero i titoli per coprire quell’incarico. Laura Triassi, che all’epoca di “Mani pulite” era uno dei gip più impegnati, ha vinto però anche altri due ricorsi: quelli contro Francesco Curcio, a lungo a Napoli e oggi procuratore di Potenza, e quello contro Anna Maria Lucchetta, ex pm della Dda e oggi procuratore a Nola. Rispetto a Curcio, per esempio, la Triassi può vantare l’esperienza di procuratore facente funzioni: la maturò a Potenza subito dopo la nomina di Giovanni Colangelo a capo dei pm di Napoli. Il Csm ha impugnato tutte queste sentenze davanti al Consiglio di Stato: la linea è quella di attendere il secondo grado di giudizio e poi, dopo avere letto le motivazioni, decidere se confermare le stesse nomine, magari con motivazioni diverse, o modificarle: in qualche circostanza è già accaduto, ma è molto difficile immaginare quale ruolo andrebbero a ricoprire i magistrati che dovessero lasciare l’incarico attuale. Intanto i tempi si allungano, mentre le esigenze di giustizia, richiederebbero un organico al completo. Tutti questi ricorsi vinti, inoltre, evidenziano lo scollamento tra la linea della giustizia amministrativa e l’operato del Csm, da molti criticato per i criteri troppo autoreferenziali con i quali procede alle nomine. E questo ormai è sotto gli occhi di tutti. Una vera e propria “guerra” tra magistrati tra le province di Potenza e Matera che ricadono sotto lo stesso distretto di Corte d’Appello e che senza alcun dubbio non rasserena le turbolenze provenienti dagli scandali al Csm con il “caso Palamara”. E infatti proprio il Consiglio Supremo della Magistratura, che ha già un fascicolo disciplinare aperto nei confronti di Argentino per un’altra vicenda legata alla sua permanenza a Taranto, e potrebbe quindi interessarsi anche questo inedito scontro a distanza, perché da un punto di vista “ambientale” tra le toghe dello stesso distretto di Corte d’Appello, la vicenda che affonda le radici nel passato e che si trascina fino ad oggi, appare sempre di più difficilmente componibile. Una vicenda che sembra aver messo la parola “fine” alla carriera di Pietro Argentino.

·         Muore Martino Scialpi: truffato di Stato.

Totocalcio, dal 1981 cercava di incassare un 13 da un miliardo di lire: è morto a 67 anni. Martino Scialpi, venditore ambulante di Taranto, aveva ingaggiato una battaglia giudiziaria con il Coni, che aveva sempre sostenuto di non aver ricevuto la schedina nell'archivio corazzato. La Repubblica il 7 giugno 2019. E' morto senza riuscire a incassare il 13 al Totocalcio da circa un miliardo di lire che sosteneva di aver realizzato il primo novembre del 1981: è la storia di Martino Scialpi, il commerciante ambulante di 67 anni di Martina Franca (Taranto) che aveva ingaggiato con il Coni un'estenuante battaglia giudiziaria. La vincita, però, non gli è stata mai riconosciuta perché il Coni ha sempre sostenuto che la schedina non sia mai arrivata all'archivio corazzato del Totocalcio. Scialpi fu processato e assolto in via definitiva nel 1987 dall'accusa di truffa con la restituzione della schedina originale. Per quasi 38 anni ha combattuto una battaglia giudiziaria, inseguendo il sogno di incassare quella vincita che oggi, con la rivalutazione monetaria, corrisponderebbe a una decina di milioni di euro. Il commerciante, assistito dall'avvocato Guglielmo Boccia, ha intrapreso numerose azioni legali e nell'ultimo periodo pare si fossero aperti degli spiragli per una definizione positiva della controversia. Scialpi ha sostenuto per le spese legali e i viaggi per raggiungere i tribunali di mezza Italia oltre 500mila euro, più della cifra che avrebbe dovuto incassare ma che per una serie di cavilli e di ritardi e lui sosteneva, di omissioni, gli è sempre stata negata. Probabilmente, le iniziative legali saranno portate ancora avanti dagli eredi. Lo scommettitore qualche anno fa ha scritto un libro, Ho fatto 13, per raccontare la sua incredibile storia e quel sogno di una vita, che non ha potuto coronare.

Totocalcio, dal 1981 cercava di incassare il 13. Ma muore a 67 anni. Martino Scialpi rivendicava una vincita miliardaria al Totocalcio. Ma il Coni non gli ha mai pagato la schedina. Claudio Cartaldo, Venerdì 07/06/2019, su Il Giornale.  Ci ha provato per 40 anni. Battaglie giudiziarie, indagini, assoluzioni. L'unico obiettivo è rimasto sempre quello: incassare il magico 13 al Totocalcio. Una impresa non da tutti i giorni e che quando capita può, anzi poteva, svoltare la vita. Martino Scialpi, un commerciante ambulante di Martina Franca (Taranto) dal lontano 1981 stava cercando di farsi riconoscere dal Coni la schedina vincente. Non ci è riuscito. Mentre il contenzioso sembrava andare verso una soluzione, Scialpi è morto all'età di 67 anni. Senza mai incassare la vincita miliardaria. La schedina risale al novembre del 1981. La Lazio era in serie B e sulla panchina della Juve siedeva il Trap. Altri tempi e altre scommesse. Quel giorno Scialpi decide di tentare la fortuna del 13 e insieme ad altre quattro persone indovina tutti i risultati. "Sono ricco", avrà pensato. E invece non incasserà mai una lira. Il Coni, infatti, non ha mai versato al commerciante quel miliardo di lire tanto sperato perché ha sempre sostenuto che la schedina, considerata autentica, non sia mai arrivata all'archivio corazzato del Totocalcio. Un'indagine interna attribuì lo smarrimento "alla caduta accidentale del blocchetto contenente la schedina, con il conseguente inspiegabile e increscioso accaduto". Poi un'altra indagine relazione ipotizzò il furto (Scialpi venne indagato e poi assolto nel 1987). In Tribunale però non è mai riuscito a far valere le sue ragioni. Solo nel marzo del 2016, a seguito di una denuncia presentata da Scialpi nel 2014, si era aperto uno spiraglio: la procura di Potenza aveva iscritto nel registro degli indagati ben 36 persone, tra esponenti del Coni, magistrati, ufficiali della Guardia di finanza, avvocati e dirigenti dell'Azienda Monopoli di Stato. Il gip aveva accolto la richiesta di opposizione all'archiviazione mentre il giudice civile del Tribunale di Roma, Federico Salvati, aveva invitato le parti a trovare una conciliazione. La cifra, in fondo, è di tutto rispetto. Con le varie rivalutazioni e il cambio, quel 13 alla schedina del Totocalcio varrebbe circa 10 milioni di euro. Non pochi. "Ho fatto 13", è il titolo del libro scritto da Scialpi qualche anno fa. Un modo per raccontare la sua vicenda, sicuramente unica e particolare. Dopo la morte dello scommettitore (che solo di spese legali e viaggi per i tribunali di tutta Italia avrebbe speso qualcosa come 500mila euro), ora gli eredi potrebbero continuare la sua battaglia. E trasformare in realtà il desiderio di Martino: incassare quel magico 13.

Il destino di Martino, muore senza riscuotere il 13 miliardario. Pubblicato mercoledì, 12 giugno 2019 su Corriere.it. E morto a 67 anni. Quasi quaranta li ha trascorsi a guerreggiare con lo Stato, attraverso un’infinità di contenziosi e procedimenti nei tribunali. Fino all’ultimo istante della sua vita. Senza riuscire ad averla vinta. Martino Scialpi, venditore ambulante, era nato a Martina Franca. Nel 1981 aveva fatto tredici al totocalcio, o almeno così ha sempre sostenuto. La vincita, quella domenica di novembre appena iniziato, fu di un miliardo, tre milioni e 51 mila lire. Soldi che il commerciante non ha mai visto perché la vincita non gli è stata mai riconosciuta. Scialpi fu processato con l’accusa di aver truffato lo Stato. Ma venne assolto in via definitiva nel 1987 con la restituzione della schedina originale che ha sempre mostrato come una reliquia. Così per quasi 38 anni ha combattuto una battaglia giudiziaria. Su due fronti si sono schierati il Coni e un giocatore con la passione del Lotto e del Totocalcio. Nello scontro giuridico durato decenni si sono mescolati rivendicazioni di un diritto e il principio della sua avversione sostenuta da vari stadi dell’organismo burocratico statale. Pur non negando l’autenticità della schedina, il Ministero delle Finanze e il Coni si sono sempre rifiutati di pagare. La matrice del tagliando, hanno sostenuto, non è mai arrivata all’archivio corazzato del Totocalcio. Non c’era tra le matrici vincenti. La schedina giocata da Scialpi in una tabaccheria di Ginosa quindi o è stata rubata o andata dispersa. Il commerciante ambulante ha dichiarato di aver speso più di 500 mila euro in ricorsi legali e in viaggi per raggiungere i tribunali di mezza Italia, più della cifra che avrebbe dovuto incassare. Qualche anno fa ha pure scritto un libro, «Ho fatto 13», per raccontare la sua storia e il sogno di cambiare vita con il miliardo della vincita (con la rivalutazione monetaria, oggi corrisponderebbe a una decina di milioni di euro). Nell’infinita querelle , nel 2016 un tribunale aveva iscritto nel registro degli indagati 36 persone per abuso d’ufficio, tra cui i vari presidenti del Coni che si sono succeduti in oltre 30 anni di cause, 11 magistrati dei tribunali di Taranto, Bari e Roma, ufficiali della Guardia di Finanza, un dirigente dell’Azienda Monopoli di Stato e alcuni avvocati del foro di Roma, di Taranto e dell’Avvocatura dello Stato. Considerata la complessità della vicenda e l’impasse a cui si era giunti, un giudice civile aveva sollecitato le parti a tentare una conciliazione in considerazione - scriveva nell’ordinanza - sia dell’obiettiva incertezza dell’esito della lite (resa palese dalle contrastanti ordinanze del 9 febbraio e 14 marzo 2012), sia della particolarità della vicenda oggetto di causa. Il Coni non ha aderito alla richiesta. Scialpi non s’è mai arreso. A costo di perdere molto, il tempo tra faldoni e atti giudiziari, il matrimonio (ha divorziato dalla moglie) e molti soldi spesi in debiti contratti per pagare gli avvocati. Un infarto lo ha stroncato. Ma non è detto che la vicenda si sia conclusa con il suo decesso. Ci penseranno molto probabilmente gli eredi a continuare la battaglia.

·         Solite indagini a Taranto.

Taranto: "Resta nuda sotto la toga se vuoi laurearti". Docente universitario (ora in pensione) accusato di proposte sessuali alle studentesse. Il Corriere del Giorno 9 Maggio 2019. Il professore universitario adesso in pensione assistito dall’avvocato Salvatore Maggio,  ha negato qualsiasi tipo di approccio illecito con le studentesse, contestando un complotto ai suoi danni, che ha a sua volta denunciato. Un docente universitario di 73 anni, da tempo andato in pensione,  è accusato dalla Procura di Taranto di essersi reso responsabile presso l’Università degli Studi Aldo Moro, Dipartimento di Taranto, nel periodo compreso fra il 2012 e il 2016 di un duplice tentativo di concussione, molestie con abuso di potere e di autorità, violenza sessuale e abuso d’ufficio per aver alterato l’esame di una studentessa alla quale aveva aumentato il voto, fissato in trenta e lode, rispetto a quello (di 28) che le aveva assegnato altro docente. Secondo l’accusa rappresentata  dal pm Antonella De Luca della Procura della Repubblica di Taranto il professore  avrebbe manifestato  anche morbose passioni nei confronti di quattro giovani studentesse universitarie che il magistrato ha già identificato e indicato come “persone offese“, richiedendo il rinvio a giudizio del docente universitario. la cui decisione adesso passerà al vaglio del giudice delle udienze  preliminari di Taranto. Parte offesa nel procedimento è  anche l’ Università degli Studi Aldo Moro, Dipartimento di Taranto, la cui reputazione ha probabilmente risentito della serie di episodi squallidi il primo dei quali risale al 2012, per i quali sono rimaste vittime alcune studentesse. Nel 2012 una studentessa che adesso ha 27 anni era finita nelle attenzioni morbose del professore , che l’aveva invitata a raggiungerlo in un incontro privato nel suo studio, minacciandola che se si fosse rifiutata di accettare di avere dei rapporti sessuali con lui, non le avrebbe fatto superare un’esame, richieste queste che vennero rifiutate, e  la ragazza peraltro venne costretta a restare nello studio del professore con la porta chiusa a chiave, e a subire le offese verbali dell’uomo con l’uso di espressioni volgari, quanto di fronte al rifiuto della studentessa il docente universitario l’avrebbe umiliata ed offesa anche verbalmente dicendole “Non fare la stronza altrimenti ti denuncio, facendo credere che hai compiuto atti osceni in luogo pubblico“. Sulla base della ricostruzione della pm De Luca, a questo episodio, ne avrebbero fatto seguito altri quattro, ai danni di 3  diverse studentesse. La pmDe Luca nella richiesta di rinvio a giudizio bei confronti del docente universitario parla di atti di palpeggiamenti al seno e di inviti alla giovane di “recarsi nello studio di Bari per la correzione della tesi in abiti succinti”, preferibilmente in bermuda e maglietta color salmone. Sempre ai danni di quest’altra ragazza, che adesso ha compiuto trent’anni, il professore le avrebbe detto che se voleva laurearsi, doveva presentarsi in sede di laurea “completamente nuda, indossando la sola toga“. La studentessa si era rifiutata rivolgendosi ad un’assistente universitaria. Due altri episodi contenuti nella richiesta di rinvio a giudizio sono relativi a fatti più recenti avvenuti a marzo e settembre 2016. Il docente universitario è accusato di aver molestato sessualmente nel marzo 2016 una studentessa di 26 anni. Mentre è accusato di aver mostrato interesse sessuali nei confronti di una di una 24enne, a settembre 2016 facendole prima dei complimenti fisici inadeguati e non graditi dalla ragazza che si è vista modificare anzi il voto finale in sede di esame, nonostante fosse stato diretto da altro docente. Gli approcci sessuali, di cui sarebbe responsabile il professore, sono contenuti agli atti del procedimento che la pm De Luca ha condotto nel riserbo più assoluto, supportati dalle indagini della polizia giudiziaria, dalle documentazioni acquisite nel 2017 dall’Università degli Studi di Bari , sulla base di una relazione del novembre 2017 dei Carabinieri della Stazione di Leporano (Taranto) , a cui ha fatto seguito di una querela presentata in Procura dallo stesso docente nel gennaio 2018. Il professore universitario adesso in pensione assistito dall’avvocato Salvatore Maggio,  ha negato qualsiasi tipo di approccio illecito con le studentesse, sostenendo a sua volta di essere vittima un complotto ai suoi danni, che a sua volta ha denunciato.

Truffa ai danni dello Stato. La Guardia di Finanza sequestra beni e disponibilità finanziarie ad un dipendente pubblico ed un medico, scrive il 29 Gennaio 2019 Il Corriere del Giorno. Il dipendente del Ministero della Giustizia, in servizio presso il Tribunale di Taranto come operatore giudiziario amministrativo, ora in pensione, nell’arco temporale di oltre due anni, ha prodotto certificazioni attestanti riposi medici per un totale di 243 giorni, cioè circa 8 mesi! Finanzieri del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Taranto hanno eseguito un decreto di sequestro preventivo “per equivalente” di beni e disponibilità finanziarie per un totale di 32 mila euro, nei confronti di un dipendente pubblico Pasquale Chyurlia e del medico Giovanni D’ Arcangelo, entrambi residenti a Taranto. Il provvedimento cautelare, emesso dal G.I.P. dr.ssa Paola R. Incalza del Tribunale di Taranto, su richiesta del P.M. dr. Remo Epifani, della locale Procura della Repubblica –  consegue ad indagini condotte dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto guidato dal Ten. Colonnello Antonio Marco Amatucci, all’esito delle quali è stato accertato che il Chyurlia  dipendente del Ministero della Giustizia, in servizio presso il Tribunale di Taranto come operatore giudiziario amministrativo, ora in pensione, nell’arco temporale di oltre due anni, ha prodotto certificazioni attestanti riposi medici per un totale di 243 giorni, cioè circa 8 mesi ! In particolare, è emerso che in 80 dei suindicati giorni “di malattia”, egli ha partecipato a manifestazioni sportive tenutesi sia in Italia che all’estero, in qualità di arbitro e/o componente di commissioni di gara di una Federazione Sportiva Italiana. Il dipendente pubblico ed il medico compiacente che ha prodotto le false certificazioni sanitarie, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria, in concorso, per il reato di truffa aggravata continuata ai danni dello Stato. L’ importo di 32 mila euro è equivalente al complessivo danno erariale cagionato, riferito alle retribuzioni percepite nelle giornate di “malattia” dedicate invece alle citate attività sportive, nonché delle tasse evase riferite ai compensi elargiti al funzionario pubblico dalla Federazione Sportiva, non indicati dallo stesso nelle dichiarazioni dei redditi.

Dirigenti e funzionari del Comune di Taranto denunciati. La Guardia Costiera sequestra stabilimento balneare. Il Corriere del Giorno il 17 Maggio 2019. La gravità della situazione accertata consiste nella gestione a dir poco non trasparente di pratiche amministrative di competenza del Comune di Taranto con il coinvolgimento di dipendenti dell’ amministrazione comunale. I militari della Guardia Costiera di Taranto, guidati dal Comandante Giorgio Castronuovo, hanno dato quest’oggi esecuzione ad un provvedimento di sequestro disposto dalla Procura di Taranto, relativo al complesso balneare Maracaibo Beach in località Morrone/Torretta del Comune di Taranto, composto da diverse strutture, tra cui il locale-bar della litoranea salentina, con annessa “area di somministrazione coperta e scoperta”, oltre agli impianti di stoccaggio e smaltimento reflui dell’attività commerciale, con le relative pertinenze per un totale di più di 2000 mq., tutte opere ricadenti in parte su area demaniale marittima ed in parte sulla confinante proprietà privata. Incredibilmente i titolari dello stabilimento “Maracaibo Beach” si auto-descrivevano sui social come “una spiaggia libera attrezzata, che soddisfa le esigenze di ogni fascia d’età. Ottimo recarvisi con famiglia o fra amici. Lo stabilimento balneare Maracaibo Beach è una vera e propria perla del territorio: il fiore all’occhiello della nostra bellissima e invidiata litoranea. Esiste da circa dieci anni ed è gestito da uno staff giovane e competente, con la simpatia e la cortesia di Mary e Raffaele”. Le strutture sequestrate in realtà erano difformi o prive dei titoli edilizi, di quelli paesaggistici e sanitari – ed erano state realizzate in aree sottoposte a stringenti vincoli paesaggistici/ambientali ed idrogeologici, tra cui quello relativo alla presenza di cordoni dunali e macchia mediterranea. La prolungata attività di indagine  condotta dai militari della Guardia Costiera di Taranto sotto il coordinamento del pm dr. Mariano Buccoliero della locale Procura della Repubblica,  iniziata al termine della scorsa stagione estiva, ha consentito di accertate che le relative concessioni demaniali marittime a partire dall’anno 2012 sino al 2018, erano state  rilasciate illegittimamente dal Comune di Taranto in violazione di più norme, avendo omesso la prevista istruttoria e concesso aree inconcedibili perché sottoposte, per legge, a vincoli paesaggistici e quindi meritevoli di particolare tutela. In particolare, l’attività investigativa condotta dagli ufficiali della Polizia Giudiziaria operante, ha messo in luce come le strutture incriminate determinassero il deturpamento delle bellezze naturali costiere e del sistema dunale. Gli accertamenti hanno così consentito il deferimento all’Autorità Giudiziaria di ben sei dirigenti e funzionari del Comune di Taranto, oltre ai titolari delle stesso stabilimento, con conseguente emissione da parte della stessa Autorità Giudiziaria dei relativi avvisi di garanzia. I reati contestati ai titolari dell’impianto balneare, spaziano dal deturpamento di bellezze naturali alle violazioni in materia paesaggistico-edilizia, mentre ai funzionari e dirigenti comunali è stato contestato il reato di abuso di ufficio, avendo quest’ultimi, con l’aggravante della continuità, con azioni ed omissioni esecutive di un inconfutabile disegno criminoso, procurato intenzionalmente un ingiusto vantaggio economico alla parte, favorendo l’esercizio abusivo della stessa attività commerciale. La gravità della situazione accertata consiste nella gestione a dir poco non trasparente di pratiche amministrative di competenza del Comune di Taranto con il coinvolgimento di dipendenti dell’ amministrazione comunale. Questi i nomi degli indagati dalla procura della Repubblica di Taranto : Michele Matichecchia, dirigente ed attuale comandante del corpo di Polizia Locale, Carmine Pisano (già indagato in passato per altri abusi sottaciuti) attuale dirigente dello Staff dell’Ufficio di Gabinetto del Sindaco di Taranto  , l’ architetto Marcello Vuozzo, i funzionari Gaetano Paladino, Maria Ausilia Mazza, l’ex dirigente  Marta Basile (rientrata in servizio a Bari dopo una “dura” polemica con il Sindaco di Taranto) , oltre chiaramente ai coniugi titolari dello stabilimento abusivo sequestrato.

Chiuse le indagini sui rimborsi ai consiglieri comunali di Taranto: la Procura chiede il processo per 13 indagati, scrive il 23 Gennaio 2019 Il Corriere del Giorno. Nei confronti di alcuni degli ex consiglieri comunali gravano due accuse: quella di aver certificato un lavoro fittizio, o in alternativa di aver aumentato di proposito gli emolumenti contrattuali, per accedere con maggiore ampiezza ai rimborsi che la legge riconosce ai lavoratori dipendenti che vengono eletti il consiglio comunale. Il pm Daniela Putignano della Procura della repubblica di Taranto che aveva già richiesto quale magistrato di turno il sequestro per equivalente di beni per 240mila euro, disposto dal Gip dr.ssa Vilma Gilli , equivalente all’importo che il Comune di Taranto ha liquidato nel periodo intercorrente tra il 2012 e il 2014 per rimborsare alle imprese, come previsto dalla Legge,  gli stipendi lordi dei consiglieri che sarebbero state intascate indebitamente dagli ex consiglieri comunali di Taranto, attraverso la notifica agli indagati, ha chiuso  l’indagine avviata dal pm Lanfranco Marazia (ora trasferitosi ed in servizio presso la Procura di Bari) nei confronti degli esponenti politici e delle società che di fatto, come accertato dalla Guardia di Finanza, avevano simulato l’esistenza di un contratto di lavoro. Nei confronti di alcuni degli ex consiglieri comunali gravano due accuse: quella di aver certificato un lavoro fittizio, o in alternativa di aver aumentato di proposito gli emolumenti contrattuali, per accedere con maggiore ampiezza ai rimborsi che la legge riconosce ai lavoratori dipendenti che vengono eletti il consiglio comunale. 13 le persone indagate per truffa e concorso: gli ex consiglieri comunali Cosimo Gigante, Filippo Illiano, Rosa Perelli, Giovanni Ungaro, l’attuale consigliere comunale Mario Cito, i quali a seguito dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ricevuto potranno presentare memorie, richiedere interrogatorio, ed eventualmente previa legittima motivazione chiedere delle nuove indagini suppletive. Fra gli indagati compaiono anche i presunti datori di lavoro: Alessandro Gigante, amministratore unico della “Laboratorio Analisi dottor Ragusa”, e il 64enne Cosimo Gigante (cugino ed omonimo del consigliere comunale), amministratore della società “Laboratorio Analisi Teresa Di Giacomo” per il consigliere comunale Cosimo Gigante. Il commercialista Andrea Castellaneta e Francesca Allegretti, entrambi amministratori e rappresentanti legali nel corso degli anni della società “Data Entry Oregon” che si occupa di elaborazione dati, in concorso con Filippo Illiano. Richiesto il processo anche a carico di Isidora Fasano, rappresentante legale della “Fasano Ottavio & C. Srl”, e di Giovanni Sollima quale socio ed amministratore della “Forniture Servizi Generali Snc”, in relazione alle due assunzioni di Giovanni Ungaro contestate dalla procura nelle due rispettive società. Contestata ad Angela Seprano rappresentante legale della «W&B srl» l’assunzione a tempo indeterminato dell’ex-consigliere Rosa Perelli, che secondo la Procura sarebbe stata fittizia ed esclusivamente finalizzata per ottenere dal Comune di Taranto, rimborsi per circa 11mila euro. Chiude l’elenco degli indagati per cui viene chiesto dal magistrato il processo, Giovanni Mastrovito, rappresentante legale della società “Telebasilicata Matera srl” che gestisce l’emittente televisiva Tbm, al quale vengono contestati i pagamenti degli stipendi erogati dal 2002 in contanti “anche per importi eccedenti la soglia prevista dalle norme antiriciclaggio” a Mario Cito, ai quali vengono i contestano rimborsi erogati dal Comune di Taranto per un importo di circa 19mila euro. Tutta la documentazione sull’indagine, come sempre, è stata pubblicata integralmente sempre e soltanto dal CORRIERE DEL GIORNO sin dallo scorso 3 luglio 2018.

·         Taranto ed i 23 "furbetti del cartellino".

Andavano a fare la spesa durante orario di lavoro, 23 indagati Marina Militare Taranto. Sono 17 uomini e 6 donne dipendenti civili accusati di truffa aggravata ai danni di ente pubblico, scrive l'11 Aprile 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Un avviso di conclusione delle indagini preliminari, con l’ipotesi di reato di truffa aggravata ai danni di ente pubblico, è stato notificato dal procuratore aggiunto di Taranto, Maurizio Carbone, a 23 dipendenti civili del Ministero della Difesa (in servizio presso enti della Marina militare). Secondo l’accusa, gli indagati si allontanavano dal posto di lavoro per andare a fare la spesa o sbrigare altre faccende, senza timbrare il cartellino marcatempo e risultando regolarmente al proprio posto. In 21, a quanto si è appreso, sono in servizio alla caserma «Mezzacapo» di via Principe Amedeo e altri due presso la direzione amministrativa della Marina militare con sede in via Acton. Nello specifico, il provvedimento riguarda 17 uomini e 6 donne. Gli indagati sono stati pedinati e video-ripresi dalla Guardia di finanza, che ha poi inviato l’informativa al magistrato inquirente. Le contestazioni riguardano i primi mesi del 2017. La Marina militare, è detto in una nota del Comando Marittimo Sud, «conferma il pieno sostegno all’azione della Polizia Giudiziaria e della Magistratura nel contrasto a tali reati, che oltre ai danni arrecati all’erario, danneggiano l'immagine della Forza Armata e soprattutto di coloro che quotidianamente svolgono con onore, dignità e sacrificio il proprio dovere in servizio». Il Comandante Marittimo Sud, ammiraglio di divisorie Salvatore Vitiello, «profondamente deluso - conclude la nota - dalla vicenda, ha dichiarato come siano sempre opportuni i controlli da effettuare periodicamente».

Indagati 23 "furbetti del cartellino" in caserma a Taranto: ecco i nomi, scrive il 9 Aprile 2019 Il Corriere del Giorno. I finanzieri hanno identificato dei dipendenti pubblici che si erano allontanati senza alcuna giustificazione praticamente tutti i giorni, mentre per alcuni indagati la contestazione invece riguarderebbe una paio di  giornate. Secondo il procuratore aggiunto Carbone alcuni degli indagati avrebbero falsificato persino gli orari di uscita. Dall’inchiesta sull’assenteismo dei dipendenti pubblici condotta dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone, avvalendosi del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto guidati dal Col. Gianfranco Lucignano sono 23 i nuovi “furbetti del cartellino” scoperti dai finanzieri, dipendenti nella Caserma Militare “Carlo Mezzacapo” dove hanno sede diversi uffici delle forze armate, soliti a timbrare il cartellino e subito dopo, senza alcun autorizzazione, si assentavano per poi rientrare al loro posto di lavoro dopo ore ed ore. Per tutte le persone iscritte nel registro degli indagati è stata contestata dal Procuratore Aggiunto Carbone l’ipotesi di reato di “truffa aggravata“. Nel capo di imputazione ipotizzato dal magistrato nell’avviso di conclusione delle indagini , l’accusa rivolta a tutti gli indagati è praticamente la stessa: “perché, nella qualità di dipendente del Ministero della Difesa, in servizio presso la Caserma Mezzacapo, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, mediante artifizi e raggiri consistiti nell’essersi in più occasioni allontanato dal proprio posto di lavoro durante il normale orario di servizio, omettendo di timbrare con l’apposito cartellino marca tempo l’orario di entrata e di uscita, in particolare dopo aver fatto registrare la propria presenza, mediante la timbratura del badge personale, si allontanava in maniera ingiustificata dal luogo di lavoro, per periodi intermedi, senza far risultare con analoga marcatura la propria assenza“. Le Fiamme Gialle hanno filmato per mesi e mesi gli accessi della Caserma “Carlo Mezzacapo”  ubicata a Taranto via Principe Amedeo constatando dei dipendenti che ripetutamente dopo aver timbrato il proprio cartellino poco dopo si assentavano dall’ufficio senza alcuna legittima ragione o giustificazione. I finanzieri hanno effettuato  tutti i necessari riscontri del caso avvalendosi anche dei registri delle presenze ed hanno potuto accertare e comprovare che nessuno di loro per quei giorni aveva presentato un permesso o un’autorizzazione che consentisse loro di lasciare regolarmente il posto di lavoro. I finanzieri del comando provinciale della Guardia di Finanza di Taranto non si sono però fermati al solo controllo dei documenti o ai filmati,  pedinando i dipendenti infedeli che si recavano alcune volte persino nell’adiacente Mercato Fadini per fare la spesa. In un caso gli investigatori della Guardia di Finanza hanno atteso che una donna, dipendente presso la Caserma Mezzacapo,  finisse di effettuare i suoi acquisti per poi fermarla per verificare se fosse in possesso della ricevuta fiscale per gli acquisiti.  La donna innervositasi con i finanzieri per il tempo che richiedeva il controllo, si rivolgeva loro dicendo “Non mi fate perdere tempo che sto lavorando!“.  Praticamente una confessione resa spontaneamente ai finanzieri.  I finanzieri hanno identificato dei dipendenti pubblici che si erano allontanati senza alcuna giustificazione praticamente tutti i giorni, mentre per alcuni indagati la contestazione invece riguarderebbe una paio di  giornate. Secondo il procuratore aggiunto Carbone alcuni degli indagati avrebbero falsificato anche gli orari di uscita: secondo quanto contenuto nell’ avviso di conclusione delle indagini, alcuni dei dipendenti pubblici “provvedeva, in concorso con ignoti, mediante alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza a timbrare il suo badge con orario successivo all’uscita, allontanandosi in maniera ingiustificata dal luogo di lavoro, senza farvi più rientro“. In parole più semplici i dipendenti in questione timbravano il cartellino facendo risultare un orario successivo a quello dell’ uscita reale dal proprio posto di lavoro. Comportamento questo che secondo  la Procura di Taranto  “traeva in inganno il datore di lavoro che gli corrispondeva la retribuzione anche per il tempo in cui lo stesso non era presente nel luogo ove doveva prestare attività lavorativa“. Fra gli indagati compaiono anche numerosi militari , in prevalenza appartenenti alla Marina Militare, il cui operato è al vaglio per dovuta competenza della Procura Militare. A Taranto infatti quando c’è da fare i “furbetti” …la Marina è sempre in prima fila, nell’indifferenza dei vertici che sono un pò troppo distratti dalle varie mondanità, salvo poi cercare di scaricare responsabilità, manifestando fiducia nella Magistratura ordinaria.

La festa dei furbetti statali è finita! Come annunciato recentemente dal ministro della Funzione pubblica, Giulia Bongiorno, in arrivo i nuovi controlli che la Guardia di Finanza metterà in atto contro i cosiddetti “furbetti del cartellino” ed anche  contro quei dipendenti pubblici che “sfruttano in modo assolutamente improprio la legge 104”. Le aree di intervento che vedranno in azione i finanzieri sono delineate in un documento di 14 pagine del Comando Generale delle Fiamme Gialle trasmesso ai Comandi regionali e a quello delle Unità Speciali.

il ministro della Funzione pubblica, Giulia Bongiorno. Gli accertamenti saranno esercitati anche “in materia di incompatibilità e cumulo di incarichi nel pubblico impiego” e riguarderanno “l’osservanza delle disposizioni vigenti sul controllo dei costi e sui controlli di regolarità amministrativa volta in particolare a garantire l’efficacia dei servizi resi ai cittadini e alle imprese”. Le verifiche saranno svolte in collaborazione con l’Ispettorato per la Funzione Pubblica che si vedrà attribuiti “compiti di vigilanza sul buon andamento della Pubblica Amministrazione”. Il contrasto all’illegalità nella Pubblica amministrazione, è scritto nella direttiva, “costituisce per la Guardia di Finanza un obiettivo prioritario che s’inquadra nella più ampia missione istituzionale di vigilanza in materia di spesa pubblica”. Come e quando scatteranno i nuovi controlli. Secondo quanto emerge dal documento di 14 pagine i controlli scatteranno “al concretizzarsi di specifiche condizioni rappresentate dall’emergere di esigenza di tutela dell’integrità dei bilanci pubblici a fronte dell’acquisizione e della disponibilità di dati, notizie, risultanze su possibili forme di illecito in danno dei medesimi”. Nel dettaglio, la Guardia di Finanza parla di elementi, “che devono essere connotati da una certa consistenza” anche “non tale da configurare nell’immediato una ipotesi di rilievo penale” e che possono derivare “dallo svolgimento, a opera dei Reparti, di autonome attività di intelligence, di controllo del territorio o di analisti ottenute dall’incrocio di elementi tratti dalle banche dati a disposizione”. Ed inoltre anche: “da comunicazioni ricevute da Enti esterni, Organi ispettivi o di vigilanza, altri soggetti istituzionali o privati; da Segnalazioni Operative Qualificate provenienti dal Nucleo Speciale Anticorruzione; da riscontri acquisiti a seguito dell’esecuzione di servizi in altri settori della missione istituzionale; e da risultanze comunque in possesso del Reparto”.

·         Il Maresciallo Giancarlo Inguscio ed i Cavalieri messapici.

Tre nuovi cavalieri Messapici. Particolarmente soddisfatto si è mostrato il comandante dei carabinieri Inguscio già insignito della Medaglia d’Oro al Merito Civile, scrive venerdì 15 dicembre 2017 La Voce di Manduria. C’era anche un manduriano d’origine e due che hanno svolto attività nella città messapica tra le 18 persone che ieri sono state insignite di onorificenze dal prefetto di Taranto. Si tratta dell’ingegnere manduriano Giuseppe Stranieri e dei militari, Carlo Balestra e Giancarlo Inguscio, il primo già comandante dell’allora tenenza della Guardia di Finanza di Manduria, ora al comando provinciale di Taranto e il secondo già maresciallo della caserma carabinieri di Manduria ed ora comandante della stazione di Fragagnano. I tre hanno ricevuto il titolo di cavaliere. In rappresentanza del comune di Manduria, per l’onorificenza concessa all’ingegnere Stranieri, era presente la commissaria della città Messapica, Francesca Adelaide Garufi. Particolarmente soddisfatto si è mostrato il comandante dei carabinieri Inguscio già insignito della Medaglia d’Oro al Merito Civile. Il 20 luglio 1997, a Bibione, in provincia di Venezia, in occasione di una violenta tromba d’aria, il militare Giancarlo Inguscio coordinò e partecipò personalmente alle operazioni di soccorso che consentirono di trarre in salvo numerose persone, tanto da meritarsi la Medaglio d’Oro al Merito Civile.

Il Maresciallo Giancarlo Inguscio è Cavaliere della Repubblica, scrive il 2 gennaio 2018 Corriere Salentino. Al neretino Giancarlo Inguscio, maresciallo dell’Arma dei Carabinieri e Comandante della stazione di Fragagnano (Taranto), è stata conferita l’onorificenza di Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana. La cerimonia si è svolta nei giorni scorsi presso la Prefettura di Taranto. Istituito nel 1951, l’Ordine al merito della Repubblica è nato con lo scopo di ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, dell’economia e nell’impegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici e umanitari, nonché per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari. Inguscio, infatti, nel corso della sua brillante carriera militare si era già meritato nel 1998 la Medaglia d’Oro al Merito Civile, per aver salvato numerose vite umane in occasione di una violenta tromba d’aria a Bibione, in provincia di Venezia. Inguscio in quella occasione coordinò e partecipò personalmente alle operazioni di soccorso che consentirono appunto di trarre in salvo numerose persone. A luglio scorso, in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Paolo Borsellino, l’amministrazione comunale neretina gli ha conferito una targa con l’intento di far emergere e premiare azioni e valori positivi espressi da quanti, tra residenti e nativi della città, si distinguono nell’opera di servizio allo Stato e alla comunità, ovvero nella promozione della cultura e della scienza, della pratica del volontariato in ambito sociale, sanitario, educativo, ambientale, culturale e sportivo, nella crescita e nello sviluppo solidaristico della comunità locale ovvero in azioni di coraggio, abnegazione e spirito di servizio.

Fragagnano orgogliosa del suo Comandante Inguscio. In Prefettura, alla presenza delle alte cariche provinciali, la cerimonia di onorificenza, scrive Eleonora Boccuni il 14/12/2017 su Quotidiano Post. La solenne cerimonia si è svolta stamani in Prefettura, alla presenza di alcune delle più alte cariche provinciali. Si è svolta stamani, alle ore 10,00 circa, presso la sede della Prefettura del capoluogo ionico, la solenne cerimonia durante la quale sono state consegnate le onorificenze ad alcuni illustri personaggi della provincia tarantina. Tra i luminari, di rilevante importanza, la figura del Comandante della Stazione dei Carabinieri di Fragagnano, Maresciallo Giancarlo Inguscio (originario di Nardò), in passato in servizio nella caserma di Manduria, il quale, a seguito della comunicazione pervenutagli tramite missiva, ha ricevuto per l’appunto, stamani – giovedì 14 dicembre – il conferimento dell’onorificenza in oggetto. E’, altresì, basilare rammentare che all’insigne Maresciallo gli è stata conferita la Medaglia d’Oro al Merito Civile, in quanto, il 20 luglio 1997, a Bibione, in occasione di una violenta e devastante tromba d’aria, egli coordinò e partecipò in prima persona alle operazioni di soccorso che consentirono di trarre in salvo numerose vite. A tal proposito, l’assegnazione della suddetta assieme a una targa e un documento attestante testuali parole che, di seguito, riportiamo: “A vent’anni dal conferimento della Medaglia d’Oro al Merito Civile per essersi distinto per coraggio e abnegazione, nell’opera di salvataggio di numerose vite umane presso la località di Bibione, per aver continuato a dare lustro a quelle azioni, con comportamenti esemplari che rendono orgogliosa l’intera cittadinanza“. La cerimonia si è svolta nella sede della Prefettura alla presenza del Prefetto, Donato Giovanni Cafagna, del Questore di Taranto, Stanislao Schimera, del Comandante Provinciale dei Carabinieri di Taranto, Colonnello Andrea Intermite e della massima assise cittadina fragagnanese, Dott. Giuseppe Fischetti, oltre alle ulteriori e distinte cariche che hanno ricevuto il suddetto riconoscimento. Le dichiarazioni del primo cittadino fragagnese, Giuseppe Fischetti, in merito all’importante conferimento assegnato al Comandante della Stazione dei Carabinieri di Fragagnano, Maresciallo Giancarlo Inguscio. “L’onorificenza assegnata al Comandante della Stazione dei Carabinieri di Fragagnano, Maresciallo Giancarlo Inguscio – esordisce Fischetti – è, sicuramente, motivo d’orgoglio per l’intera comunità cittadina. Il Maresciallo è un uomo eccelso, dai valori radicati nel tempo, dai sani principi morali e dedito alla vita militare“. Il sindaco del piccolo comune ionico, tende, giustamente, a mettere in risalto la figura del Comandante Inguscio, descrivendolo non solo come uomo militare, bensì, come uomo sempre attento e vigile affinché si rispettino le norme relative alla condotta morale ed etica della società. “Personalmente – prosegue – lo ringrazio per il lavoro che ha svolto e continua a svolgere ne nostro paese. La sua è, sicuramente, una figura che emerge e diviene – al contempo – esempio per tutti noi. Si impone – conclude Fischetti – una dichiarazione di orgoglio da parte di tutto il nostro tessuto sociale“.

Il comandante della stazione carabinieri di Fragagnano, Inguscio, insignito a Nardò. Al sottufficiale dell’Arma già insignito della Medaglia d'Oro al Merito Civile. Il 20 luglio 1997, a Bibione, in provincia di Venezia, scrive martedì 18 luglio 2017 La Voce di Manduria. Il comandante della stazione carabinieri di Fragagnano, maresciallo Giancarlo Inguscio, in passato in servizio nella caserma di Manduria, sarà protagonista, domani 19 luglio, di una manifestazione che si terrà a Nardò, suo comuna di origine, per ricordare il venticinquesimo anniversario della morte di Paolo Borsellino. Nel corso della cerimonia, il sindaco neretino, Pippi Mellone, conferirà una targa al sottufficiale dell’Arma già insignito della Medaglia d'Oro al Merito Civile. Il 20 luglio 1997, a Bibione, in provincia di Venezia, in occasione di una violenta tromba d’aria, il militare Giancarlo Inguscio coordinò e partecipò personalmente alle operazioni di soccorso che consentirono di trarre in salvo numerose persone, tanto da meritarsi la Medaglio d’Oro al Merito Civile. «Il proposito dell’amministrazione comunale – si legge in un comunicato stampa del Comune di Nardò - è quello di far emergere e premiare azioni e valori positivi espressi da quanti, tra residenti e nativi della città, si distinguono nell'opera di servizio allo Stato e alla comunità, ovvero nella promozione della cultura e della scienza, della pratica del volontariato in ambito sociale, sanitario, educativo, ambientale, culturale e sportivo, nella crescita e nello sviluppo solidaristico della comunità locale ovvero in azioni di coraggio, abnegazione e spirito di servizio.

Fulcro dell’iniziativa di domani a Nardò sarà il ricordo del giudice Borsellino ucciso dalla mafia attraverso una cerimonia che si terrà alle ore 18,30 nell’aula consiliare “Renata Fonte” di Palazzo Personè. All’evento parteciperanno, tra gli altri, Francesco Mandoi, procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Antonio De Donno, già procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Lecce, Claudio Palomba, prefetto di Lecce, e i sindaci dei Comuni della provincia di Lecce. Saranno presenti inoltre gli scout del Gruppo Scout Nardò 2.

·         La Stampa Monnezza.

Il trionfalismo prematuro dei sindacalisti dell' Assostampa Puglia "specialisti" in diffamazioni. Alcune domande a cui non risponderanno mai...Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 14 Dicembre 2019. Non era evidentemente della stessa opinione del Gip Cafagna del Tribunale di Bari, il pm Fabio Buchicchio della Procura della Repubblica di Bari che aveva richiesto il rinvio a giudizio dell’allora presidente del sindacato giornalistico pugliese Raffaele Lorusso, richiesta confermata dal magistrato persino in udienza. Secondo il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari, Antonella Cafagna, redigere  diffondere un comunicato sindacale (diffamandoci !) , con la scusa di voler denunciare un potenziale pregiudizio per i diritti dei lavoratori è “legittimo esercizio della libertà sindacale“, non costituisce una diffamazione. Non era evidentemente della sua stessa opinione il pm Fabio Buchicchio della Procura della Repubblica di Bari il quale aveva richiesto il giudizio dell’allora presidente del sindacato giornalistico pugliese Raffaele Lorusso, richiedendone persino in udienza il suo rinvio a giudizio. Un giudizio iniziato con appena…4 anni di ritardo da parte del Tribunale di Bari, che è veloce solo quando deve giudicare qualche politico! Il Gup ha accolto la tesi difensiva e ha disposto il “non luogo a procedere “ ai sensi dell’ art. 425 c.p.p. di Raffaele Lorusso e non perché “il fatto non sussiste” (previsto dall’ art. 530 C.P. ) come scrive qualche incompetente anonimo giornalista barese. La circostanza più vergognosa è leggere la solita nota “anonima” pubblicata ad opera delle solite manine (ben note) della Gazzetta del Mezzogiorno, che dimenticano di avere avuto per oltre 20 anni un editore attualmente sotto processo per “concorso esterno in associazione mafiosa” e di scrivere per un giornale confiscato e sottoposto a procedura pre-fallimentare. Ma chissà come mai….qualche “giornalista” anonimo, che forse si vergogna di firmarsi, tutto questo non lo racconta ai lettori della Gazzetta! Secondo quanto riporta la Gazzetta del Mezzogiorno di ieri nella sua edizione online, i fatti risalgono al 2014 e riguardano la vertenza del “Corriere del Giorno di Puglia e Lucania“, edito dalla fallita “Cooperativa 19 Luglio“. Ma la Gazzetta non spiega ai suoi sempre di meno lettori che la collocazione in amministrazione straordinaria della cooperativa e la cessazione delle pubblicazioni nonostante gli oltre 25 milioni di euro di contributi pubblici a fondo perduto erogati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri all’editrice del quotidiano cartaceo Corriere del Giorno di Puglia e Lucania nei loro ultimi 10 anni di attività editoriale, fallito a marzo 2014 con una massa debitoria di oltre 5 milioni di euro. Invece la Gazzetta preferisce occuparsi di noi scrive che  “a marzo 2014, a distanza di pochi mesi era stato registrato al Tribunale di Roma “Il Corriere del Giorno”, pubblicato online”, quasi come se avessimo rubato qualcosa o truffato qualcuno, manifestando non soltanto una slealtà professionale ed editoriale, ma anche la loro propensione alla menzogna mistificando la realtà dei fatti. Per non parlare di una evidente inconfutabile macroscopia ignoranza giuridica! Una registrazione la nostra più che legittima, ed un attività giornalistica che continua positivamente da 5 anni mentre altri organi di informazione, a partire proprio dalla Gazzetta del Mezzogiorno sono sull’orlo del fallimento con un’imminente licenziamento di numerosi giornalisti, dal quale  siamo certi, i “soliti sindacalisti” cercheranno di salvare prima se stessi e poi forse anche gli altri colleghi. Il vecchio Corriere del Giorno di Puglia e Lucania chiuso e fallito da oltre 5 anni! “La circostanza era stata denunciata alla Polizia Postale dai colleghi del Corriere del Giorno di Puglia e Lucania” scrive l’anonimo redattore di questa fake-news , il quale ha sostenuto che  “a parte la piccola variazione nel nome della testata, avevano segnalato anche il danno potenziale rappresentato dalla sostanziale riproduzione del logo della loro testata” dimenticando o meglio omettendo di raccontare ai sempre meno lettori del giornale confiscato (il loro ! ) , che quella denuncia è finita nel cestino della carta straccia, venendo archiviata  dalla Procura competente. Denuncia questa che quindi costituiva una calunnia che non abbiamo perseguito giudiziariamente solo e soltanto per non rovinare ulteriormente dei giornalisti già finiti in mezzo ad una strada per le loro evidenti limitate capacità giornalistiche ed editoriali. Ma forse siamo stati troppo buoni…La denuncia nei nostri confronti (archiviata) e peraltro all’epoca dei fatti coperta da segreto istruttorio fu utilizzata da Raffaele Lorusso ( o da chi per lui…che non ha mai avuto il coraggio di venire allo scoperto) , all’epoca presidente dell’Associazione della Stampa di Puglia, che come racconta la Gazzetta del Mezzogiorno  “in una nota, pubblicata anche sul sito del sindacato dei giornalisti pugliesi, segnalò il pregiudizio che la pubblicazione di una testata quasi uguale a quella che aveva cessato le pubblicazioni qualche mese prima avrebbe potuto rappresentare per i 15 giornalisti e gli 8 poligrafici della cooperativa “19 Luglio”, in quanto la testata era l’unico bene da poter mettere sul mercato nella procedura di liquidazione.“ Scrive la Gazzetta del Mezzogiorno ieri: “Per il contenuto di quel comunicato l’allora presidente dell’Associazione Stampa di Puglia fu querelato per diffamazione a mezzo stampa dalla proprietà della testata “Il Corriere del Giorno”, diventando oggetto di una campagna denigratoria da parte del direttore responsabile del giornale online, Antonio detto Antonello De Gennaro, giornalista professionista iscritto all’Ordine del Lazio.“ La solita mano “anonima” aggiunge: “Il provvedimento del Gup del Tribunale di Bari ha riconosciuto la correttezza dell’operato di Raffaele Lorusso, con la formula piena “il fatto non sussiste“” . E qui ancora una volta dicono il falso, in quanto la sentenza non è stata ancora depositata , ma la decisione è stata soltanto letta in udienza ai sensi dell’ art. 425 c.p.p con la decisione di  “non luogo a procedere” e quindi le affermazioni scritte sono solo frutto di fantasia della Gazzetta del Mezzogiorno! E secondo voi poteva mancare il trionfalismo dell’ Assostampa ? Certo che no ! Infatti eccolo : “Si tratta di un risultato importante per l’Associazione della Stampa di Puglia e per tutto il sindacato – afferma Bepi Martellotta, presidente del sindacato pugliese dei giornalisti – Questa associazione è da sempre schierata al fianco dei colleghi. Raffaele Lorusso, attuale segretario generale della FNSI, in quella come in tutte le altre vertenze, ha cercato di tutelare gli interessi dei giornalisti. Il provvedimento del Gup rende giustizia degli insulti rivolti a lui e al sindacato da parte di un iscritto all’Ordine che si è distinto più volte per aggressioni, non solo verbali, nei confronti dei colleghi e i cui comportamenti meriterebbero maggiore attenzione da parte dei competenti organismi ordinistici di disciplina“. In realtà al contrario, gli insulti li abbiamo ricevuti noi, ed infatti non siamo mai stati querelati nè dall’ Assostampa nè dalla FSNI. Ma tutto ciò il “sindacalista” Martellotta non ha il coraggio, o come si suol dire le “palle”, per raccontarlo ai lettori. Gli insulti in realtà li meriterebbe Martellotta in prima persona allorquando calpesta la verità, omettendo di raccontare che l’esposto disciplinare presentato dal suo vice Cosimo (Mimmo) Mazza nei mie confronti e le successive decisioni arbitrarie dai consigli disciplinari (regionale e nazionale) sono state annullate rase al suolo da una sentenza del Tribunale Civile di Roma, che ha legittimato e visto prevalere le mie ragioni !

Martellotta dimentica inoltre di raccontare che in realtà è il suo caro “”vice” Mimmo Mazza ad essere sotto procedimento disciplinare in Puglia, su richiesta del Consiglio Nazionale dell’ Ordine e del Consiglio Nazionale di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti, oltre ad essere “indagato” da diverse Procure (Taranto, Bari e Roma) e citato per danni per i suoi articoli ritenuti diffamatori. Come mai queste cose i sindacalisti baresi non le raccontano e scrivono ?

In ogni caso la decisione del Gup di Bari, non è definitiva , come si vorrebbe far credere, in quanto presenteremo ricorso in Appello.

Ecco le nostre domande “pubbliche” all’ Assostampa di Puglia.

La 1a domanda a cui vorremmo tanto che il sindacato pugliese ci rispondesse. Come mai non dicono nulla sulla questione che nel Tribunale di Taranto all’atto della registrazione (luglio 1984) esistevano altre due testate inserite in rispettivi fallimenti e cioè il “CORRIERE DEL GIORNO” ed il “CORRIERE DEL GIORNO NUOVO” editati da due differenti società. Possibile che dei “certosini” sindacalisti non si siano mai accorti e che non abbiano mai fiatato a suo tempo?

La 2a domanda a cui vorremmo tanto che il sindacato pugliese ci rispondesse. Ma qualcuno di voi ha mai studiato legge, si è mai informato ? Lo sapete cari sindacalisti che dopo due anni di non pubblicazione una testata è “libera” e che quindi il CORRIERE DEL GIORNO era libero da qualsiasi privilegio e/o proprietà ? Lo sapete  che quel giornale è stato fondato nel 1947 da quattro coraggiosi giornalisti fra cui mio padre e non certo da quegli scribacchini sindacalisti che hanno portato al fallimento ed alla chiusura del Corriere del Giorno di Puglia e Lucania, i quali si auto-assegnavano stipendi da “CORRIERE DELLA SERA” facendo assumere nella cooperativa di cui erano soci e dipendenti (di se stessi quindi) sorelle, figli e parenti vari?

La 3a domanda a cui vorremmo una risposta dal sindacato pugliese. Come mai i giornalisti della Cooperativa 19 luglio che editava il Corriere del Giorno di Puglia e Lucania, non si sono mai costituiti in una nuova cooperativa dando vita ad una nuova edizione del loro “giornaletto” tarantino, come invece ha fatto la cooperativa che edita il quotidiano IL MANIFESTO, peraltro il commissario liquidatore era lo stesso e cioè tale dr. Damiani? O forse era meglio approfittare della disoccupazione e gravare sulle casse sofferenti dell’ INPGI e dello Stato? 5 anni di inutili attese e speranze: un giornale fallito non lo vuole nessuno! Il semplice fatto che dopo 5 anni nessuno abbia mai ipotizzato o pensato di rimettere in vita un giornale fallito come il Corriere del Giorno di Puglia e Lucania, scritto da giornalisti incapaci che hanno fatto fallire il proprio giornale di cui erano comproprietari e dipendenti, spiega ogni cosa. Altro che la “Federazione Nazionale della Stampa Italiana può così serenamente proseguire nella sua quotidiana opera di difesa dei diritti dell’informazione“, come ha dichiarato trionfalmente il suo difensore Avv. Francesco Paolo Sisto, deputato barese di Forza Italia.  Come dicevano i nostri “padri” latini: “similia cum similibus”.  Ma che dichiarazioni ci si poteva aspettare da un legale come l’ Avv. Sisto, cioè colui che  difende Silvio Berlusconi (che lo ha profumatamente ripagato con un seggio blindato e garantito alla Camera) , cioè l’artefice dell’editto bulgaro contro Enzo Biagi e Michele Santoro?

Come mai l’ Assostampa di Puglia, ed il CdR della Gazzetta del Mezzogiorno non proferisce neanche una parola sulla circostanza che il loro caro collega sindacalista Mimmo Mazza, dopo aver venduto il proprio cosiddetto lavoro giornalistico sotto forma di “marketta” pubblicitaria al Sindaco di Taranto ( di cui abbiamo ampia documentazione) attraverso una sua nuova società, recentemente  si è messo  a vendere pubblicità agli enti pubblici per una semiclandestina radio privata di proprietà della Curia di Taranto? Sarebbe divertente conoscere la posizione del sindacato che elegge fra i suoi delegati al prossimo congresso regionale pugliese una loro iscritta e cioè la pubblicista tarantina Doriana Imbimbo, la “staffista” del sindaco Melucci rinviata a giudizio per truffa al Comune di Taranto dalla locale Procura?

E questo cari amici lettori, sarebbe il giornalismo libero ed indipendente pugliese millantato e decantato dai sindacalisti dell’ Assostampa e dai loro “cuginetti” dell’ ordine pugliese ? Allora a malincuore, questa volta,  mi tocca dire che Marco Travaglio ha veramente ragione !

Elezioni, giornalismo (?) e fake news ! Antonello de Gennaro Su Il Corriere del Giorno il 25 Maggio 2019. Eh si cari lettori, questa è la vera stampa “monnezza”, altro che l’inquinamento ambientale di Taranto…A pochi giorni dalla chiusura della campagna elettorale, mi trovavo a Taranto, dove ne ho viste veramente di tutti i colori. Partiamo con ordine per ricostruire il tutto. Nella sala consiliare del Comune di Taranto, è stato presentato un libro su Forza Italia, scritto dal deputato forzista Fabrizio Cicchitto, un ex socialista della sinistra, risultato iscritto nella loggia massonica deviata di Licio Gelli, che è stato introdotto da Giuseppe De Tomaso, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno quotidiano barese attualmente confiscato dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catania che ha mandato a processo il suo editore Mario Ciancio di Sanfilippo accusandolo di “concorso esterno in associazione mafiosa“. Presente anche l’ Avv. Paolo Sisto di Bari, “nominato” ( cioè eletto senza bisogno di venire votato personalmente dai cittadini)  in Parlamento dal suo “cliente” Silvio Berlusconi, che difende quale imputato nel processo a suo carico sulle escort baresi che frequentavano (lautamente ricompensate) le “eleganti cene” berlusconiane di Palazzo Grazioli a Roma e Villa San Martino ad Arcore.

Seduto in prima fila il caposervizio della redazione di Taranto, Mimmo Mazza, condannato anni fa a 7 mesi di carcere per dei brogli elettorali compiuti (allorquando faceva il presidente di seggio elettorale in rappresentanza del PCI – n.d.a) ) salvatosi successivamente in appello ( tribunale-giudizio di 2° grado) grazie all’intervenuta sopraggiunte “prescrizione“. Quella stessa prescrizione che lo ha salvato nel mesi scorsi anche da un procedimento disciplinare a suo carico dinnanzi al Consiglio di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, composto guarda caso…da due collaboratori (pagati a 5 euro ad articolo) della Gazzetta del Mezzogiorno: tale Vittorio Ricapito da Taranto, ed il bitontino Raffaele Capaldi. Un’ archiviazione disciplinare per “prescrizione” che è costata una denuncia penale al Collegio di Disciplina dei Giornalisti pugliesi,  già  manifestatosi nella sua illegalità con la precedente nomina illegittima e quindi illegale (da noi denunciata) Nicola Colajanni, che a seguito del nostro articolo fu costretto alle dimissioni.

Ma il più “bello”….(si fa per dire)  è arrivato fra giovedì e venerdì quando la Gazzetta del Mezzogiorno, nella sua “deficitaria” ed ormai intangibile edizione di Taranto e provincia (dove vende appena circa 1.000 copie al giorno) ha pubblicato un “selfie” fornito loro dal consigliere comunale Mario Cito mandato a processo per una squallida storia di rimborsi e truffe al Comune di Taranto, integrandolo in un “articoletto” chiaramente privo di firme in cui si ipotizzava un accordo fra Cito e la Lega alle elezioni europee di domani.

Una FAKE NEWS questa immediatamente smentita dai vertici regionali della LEGA , come di seguito riportiamo testualmente: “Con riferimento all’articolo odierno pubblicato nell’ edizione di Taranto della Gazzetta del Mezzogiorno, si smentisce ogni e qualsiasi ipotesi di candidatura nella Lega dell’ attuale consigliere comunale Mario Cito e di appartenenti al movimento politica At6. La fotografia pubblicata, prosegue la nota, è uno delle migliaia di selfie fatti da Matteo Salvini ad Ostuni in occasione della sua presenza elettorale di martedì scorso. Non si scambi dunque la partecipazione libera e spontanea da cittadino con accordi politici che smentiamo categoricamente. Tanto dichiarano il coordinatore regionale e quello provinciale di Taranto della Lega Puglia On. Luigi D’Eramo e Sen. Roberto Marti.”

Ma le “fake news” dei pennivendoli tarantini della Gazzetta del Mezzogiorno sono continuate. Infatti ieri il quotidiano barese che i magistrati siciliani hanno confiscato, ha proseguito nella propria disinformazione politica, circostanza a dir poco grave, soprattutto in quanto esercitata a sole 48h dal voto, sostenendo e scrivendo che “la foto ha naturalmente creato molti mal di pancia all’interno della Lega, specie in chi ha timore di perdere lo strapuntino appena conquistato in vista delle elezioni regionali dell’ anno prossimo” aggiungendo, peraltro senza alcun documento o dichiarazione probatoria da parte di nessuno:  “Confermiamo da parte nostra i contatti fra la Lega e Cito“.

Evidentemente alla Gazzetta del Mezzogiorno sono incapaci di leggere e documentarsi, allorquando parlano di  uno “strapuntino” inesistente: D’Eramo e Marti sono infatti entrambi parlamentari e quindi non hanno alcun interesse personale alle prossime regionali pugliesi e tantomeno cercano uno “strapuntino”. Quindi cosa confermano  dalla Gazzetta di Taranto? Di scrivere falsità ?  Questo era già molto ben noto. Nessuna meraviglia.

Un’altra giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno di Taranto, tale Maristella Massari, che ha “origini” e simpatie di Forza Italia (salvo poi fare la sindacalista sinistrorsa nella sua professione)  si è dilettata in uno pseudo editoriale, degno al massimo di qualche giornaletto di campagna o di condominio, lamentando la mancanza di attenzione per Taranto da parte dei “leaders” nazionali in campagna elettorale per le Europee. Qualcuno le ricordi, probabilmente non se ne è accorta, che che qualche settimana fa sono venuti a Taranto il vicepremier Luigi Di Maio e 5 ministri del Governo Conte, ma soprattutto le spieghi che i “leaders” nazionali dei partiti , quando ci sono degli “Election Days” (cioè si vota per più elezioni, cioè comunali, regionali, con nazionali o europee) , vanno soltanto in quelle città in cui il voto è molteplice.

Non a caso Matteo Salvini si è recato a fare dei comizi elettorali in Puglia soltanto laddove si votava anche per le elezioni comunali, e cioè Bari, Lecce, Gioia del Colle (BA) ed Ostuni (BR). Il destino, purtroppo per Cito e gli esperti scribacchini esperti di “FAKE NEWS” della Gazzetta del Mezzogiorno di Taranto ( O se preferite...La  Mazzetta del Mezzogiorno, come la definì  anni fa con uso titolo il quotidiano LA REPUBBLICA) ha voluto che il sottoscritto fosse a Lecce ed a Ostuni, nel backstage del palco, unico giornalista, regolarmente accreditato dalla Lega ed autorizzato dal Ministero dell’ Interno, e posso garantirvi che a partire da Matteo Salvini, il capo della sua segreteria Andrea Paganella e per finire ai deputati pugliesi e responsabili territoriali presenti ad Ostuni, Lecce, Bari, Gioia del Colle,  nessuno di loro ha mai incontrato o parlato con Mario Cito.

Quindi la FAKE NEWS della Gazzetta del Mezzogiorno nella sua edizione in questo caso non soltanto è eclatante, ma doppia, e testimoniale. Altro che “Confermiamo da parte nostra i contatti fra la Lega e Cito” che ha farfugliato ieri qualcuno della redazione tarantina della Gazzetta in veste rigorosamente “anonima”. E poi alla Gazzetta del Mezzogiorno si lamentano che hanno 35 milioni di euro di debiti e che  vendono soltanto 17mila copie al giorno in un bacino di circa 5 milioni di lettori (Puglia e Basilicata ) e non ricevono da mesi i loro stipendi. Sarà per questo che i giornalisti Mimmo Mazza e Maristella Massari, rispettivamente caposervizio ( e non caporedattore come ama farsi chiamare )  e vice capo servizio della redazione tarantina, della Gazzetta si prestavano ad intervistare il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci in eventi e manifestazioni di piazza, pubblicando le interviste sul loro giornale nelle pagine speciali (cioè quelle delle “markette” pubblicitarie a pagamento) , a fronte del pagamento di 3mila euro ? Eh si cari lettori, questa è la vera stampa “monnezza”, altro che l’inquinamento ambientale di Taranto…

·         Monnezzopoli e Tamburrano: Il "Palazzo" politico trema.

"Monnezzopoli". Al via il processo a Tamburrano e la "cricca" dello smaltimento. Il Corriere del Giorno il 5 Novembre 2019. Attesi ulteriori sviluppi giudiziari in relazione altri tronconi dell’indagine condotta dalla Guardia di Finanza che da tempo ha concluso le proprie indagini, depositando la propria relazione alla Procura di Taranto sulle evoluzioni degli affari “facili” e sporchi  che sarebbero stati intrapresi dai principali coinvolti in concorso con altri indagati “eccellenti”. E’ partito dinnanzi al Tribunale Penale di Taranto il processo  collegato all’inchiesta della Guardia di Finanza di Taranto sulle autorizzazioni ambientali “allegre” rilasciate dalla Provincia di Taranto, all’epoca della presidenza del “forzista” Martino Tamburrano. Puntuali ed attese le richiesta di costituzione di parte civile e  relativa istanza di risarcimento presentate dal Comune di Grottaglie rappresentato in udienza dall’ avv. Giuseppe Losappio, che ha presentato una richiesta di risarcimento per 10 milioni di euro, mentre il Comune di Sava assisto dall’avvocato Francesco Nevoli si è limitata ad un milione di euro. L’ Amministrazione Provinciale di Taranto, difesa dall’avv. Andrea Starace, non ha quantificato il danno ma ha avanzato una richiesta di provvisionale di 250mila euro. I difensori degli imputati  a loro volta si sono opposti alle costituzioni avanzate ed  il collegio giudicante del Tribunale guidato dal giudice Patrizia Todisco , si è riservato per una decisione che verrà sciolta nella prossima udienza che si svolgerà l’ 11 novembre, giorno in cui per ironia della sorte, è anche l’onomastico del principale imputato Martino Tamburrano . Il giudizio immediato in corso dinnanzi al Tribunale di Taranto, riguarda  tutti gli imputati destinatari dell’ordinanza di misura cautelare disposta dal Gip dr.ssa Vilma Gilli, e quindi oltre a Tamburrano, l’imprenditore di San Marzano di San Giuseppe (Ta) Pasquale Lonoce, quale amministratore di fatto della società  2Lecologica s.r.l. società attiva nel settore della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti,  il procuratore speciale della società Linea Ambiente Srl,  Roberto Natalino Venuti,  e l’ ex dirigente del quarto settore Pianificazione e Ambiente della Provincia di Taranto,  che sono tuttora sottoposti alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Tamburrano  viene accusato di aver preteso ed ottenuto, come emerge dalle intercettazioni delle Fiamme Gialle  una tangente di 5mila euro al mese, un Suv Mercedes del valore di oltre 50mila euro e un contributo di 250mila euro per finanziare la campagna elettorale di sua moglie, Maria Francavilla, candidatasi per Forza Italia  senza riuscire ad essere eletta al Senato in occasione delle Elezioni Politiche del 2018,  in cambio del rilascio dell’autorizzazione in favore della società Linea Ambiente Srl, all’ampliamento della discarica Torre Caprarica di Grottaglie,  e pilotare la gara d’appalto gestita da Cangelosi e Natuzzi per la gestione dei rifiuti solidi urbani a Sava. Le imputazioni a loro carico sono le stesse : due per  il reato di “corruzione” , una delle quale viene contestata ai quattro imputati  in concorso con i due figli del Lonoce ed un suo nipote; la seconda invece soltanto a carico a Martino Tamburrano e Pasquale Lonoce, una per  il reato di “turbativa d’asta” sempre a carico del Tamburrano e Lonoce, in concorso con Federico Cangialosi  ex -presidente dell’ AMIU Taranto e  Cosimo (per tutti) Mimmo Natuzzi  direttore tecnico dell’AMIU Taranto,  per il loro operato congiunto quali presidente e membro della Commissione di gara per la Raccolta di Rifiuti Solidi Urbani nominata dal Comune di Sava. Con la richiesta di applicazione del rito immediato cautelare, la Procura di Taranto guidata dal procuratore capo Carlo Maria Capristo aveva così “blindato”  le prove acquisite e raccolte dalla Guardia di Finanza, a fondamento  delle accuse di concorso in corruzione per l’autorizzazione concessa, nell’area di Grottaglie, al sopralzo della discarica di Torre Caprarica, e per l’affidamento del servizio di igiene urbana e ambientale del Comune di Sava, successivato revocato in autotutela dall’ente comunale. A questi ultimi appalti si erano interessati sia Venuti che Lonoce, che avevano esercitato delle pressioni su Tamburrano e sull’ex dirigente della Provincia Natile.  La difesa degli imputati  dinnanzi alla richiesta di rito immediato della Procura , aveva scelto la via del giudizio diretto davanti al tribunale, per potersi difendere attraverso il dibattimento. Attesi ulteriori sviluppi degli altri tronconi dell’indagine condotta dalla Guardia di Finanza che da tempo ha concluso le proprie indagini, depositando la propria relazione alla Procura di Taranto sulle evoluzioni degli affari “facili” e sporchi  che sarebbero stati intrapresi dai principali coinvolti in concorso con altri indagati eccellenti, indagine per la quale era stata ottenuta una proroga delle indagini. A breve verranno notificate le decisioni della Procura che riguarderebbero per il reato di “intralcio alla giustizia” anche un noto imprenditore massafrese, iscritto nel registro degli indagati, e cioè Tonino Albanese, proprietario del Gruppo CISA spa di Massafra, che sarebbe stato colui che tramite un colloquio con Roberto Natalino Venuti, avvisò la “cricca” che erano intercettati dalle Fiamme Gialle.

Taranto, tangenti ex provincia: chiesto giudizio immediato per Tamburrano. Pm inoltra al gip la richiesta di processo con rito immediato. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2019. La Procura di Taranto ha chiesto al gip il giudizio immediato per l’ex presidente della Provincia di Taranto Martino Tamburrano (Forza Italia), per il dirigente della Provincia Lorenzo Natile, l’imprenditore di San Marzano di San Giuseppe, Pasquale Lonoce (titolare di una società attiva nel settore della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti), e per il procuratore speciale della società-gestore della discarica di Grottaglie Roberto Venuti. Questi furono arrestati e portati in carcere il 14 marzo scorso nell’ambito di una inchiesta della Guardia di finanza che svelò presunti affari illeciti e accordi corruttivi per l’autorizzazione e l'ampliamento della discarica di Grottaglie e per la gara d’appalto per i servizi di raccolta rifiuti del Comune di Sava. I reati contestati sono, a vario titolo, corruzione e turbata libertà degli incanti. Proseguono invece le indagini per gli altri indagati, anche per quelli che finirono agli arresti domiciliari: Rosalba Lonoce (figlia di Pasquale), l’ex presidente Amiu Federico Cangialosi, e il direttore tecnico dell’Amiu Mimmo Natuzzi (presidente e membro della Commissione di gara per la Raccolta di Rifiuti Solidi Urbani nominata dal Comune di Sava). Il gruppo, costituito dall’ex presidente della Provincia, dal dirigente Natile e dagli imprenditori operanti tra l’altro nel settore dello smaltimento e gestione rifiuti, secondo l’accusa avrebbe tratto vantaggi in denaro e beni attraverso atti corruttivi che hanno consentito notevoli indebiti guadagni. In particolare Tamburrano (tuttora detenuto), per sbloccare l'autorizzazione all’ampliamento della discarica Torre Caprarica di Grottaglie e pilotare la gara d’appalto per la gestione dei rifiuti solidi urbani a Sava, avrebbe ricevuto una tangente di 5mila euro al mese, un’auto Mercedes del valore di 50mila euro e un contributo di 250mila euro per finanziare la campagna elettorale di sua moglie, Maria Francavilla, candidata (non eletta) al Senato per Forza Italia alle politiche del 2018. 

"Monnezzopoli": chiesto giudizio immediato per Tamburrano ex-presidente della Provincia di Taranto e la sua "cricca". Il Corriere del Giorno il 25 Luglio 2019. Proseguono invece le indagini per gli altri indagati Rosalba Lonoce (figlia di Pasquale), l’ingegnere Federico Cangialosi ex presidente dell’ Amiu di Taranto , e Mimmo Natuzzi  direttore tecnico dell’Amiu, e nei confronti di Antonio Albanese, presidente del Gruppo CISA di Massafra, che rivelò alla “cricca” attraverso il Venuti  che venivano intercettati dalla Guardia di Finanza.. I reati contestati sono, a vario titolo, corruzione e turbata libertà degli incanti. Il procuratore aggiunto Maurizio Carbone ed il sostituto procuratore della repubblica Enrico Bruschi della Procura di Taranto hanno formulato richiesta al Gip del tribunale jonico il giudizio immediato per l’ex presidente della Provincia di Taranto Martino Tamburrano (esponente di Forza Italia), per Pasquale Lonoce  di San Marzano di San Giuseppe, amministratore di fatto dell’ azienda 2Lecologica Srl,  operante nel settore della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, per Lorenzo Natile dirigente del quarto settore Pianificazione e Ambiente della Provincia di Taranto, e per Roberto Venuti procuratore speciale della società Linea Ambiente Srl proprietaria della discarica di Grottaglie,  che comunque restano nel proprio stato di detenzione. I reati contestati sono, a vario titolo, di “corruzione“ che viene contestata ai quattro indagati, in concorso con tre figli di Lonoce, e “turbata libertà degli incanti” nei confronti di Tamburrano e Lonoce, in concorso con Cangialosi e Natuzzi. I quattro vennero arrestati e portati in carcere dalla Guardia di Finanza lo scorso 14 marzo a seguito dell’ordinanza di arresto convalidata dal Gip dr.ssa Vilma Gilli nell’ambito di un’indagine che portò alla lucegrazie ad una serie di intercettazioni telefoniche ed ambientali  gli affari illeciti e accordi corruttivi della “cricca” che manovrava al di fuori della legalità ottenere per l’autorizzazione e l’ampliamento della discarica Torre Caprarica di Grottaglie e per aggiudicarsi la gara d’appalto per i servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti del Comune di Sava. poi revocato in autotutela dall’ente comunale savese guidato dall’ Avv. Dario Iaia. Proseguono invece le indagini per gli altri indagati Rosalba Lonoce (figlia di Pasquale), l’ingegnere Federico Cangialosi ex presidente dell’ Amiu di Taranto , e Mimmo Natuzzi  direttore tecnico dell’Amiu  nelle sue vesti di presidente e membro della Commissione di gara per la Raccolta di Rifiuti Solidi Urbani nominata dal Comune di Sava , tutti finiti agli arresti domiciliari,  e nei confronti di Antonio Albanese, presidente del Gruppo CISA di Massafra, che rivelò alla “cricca” attraverso il Venuti  che venivano intercettati dalla Guardia di Finanza. Il gruppo di faccendieri che faceva riferimento all’ex presidente della Provincia Taranto, secondo l’impianto accusatorio della Procura di Taranto alla luce delle approfondite indagini delle Fiamme Gialle,  avrebbe ricevuto vantaggi in denaro e beni attraverso degli atti corruttivi che hanno portato loro dei notevoli guadagni illeciti. Tamburrano  tuttora ristretto nel carcere di Taranto  avrebbe richiesto e percepito una tangente di 5mila euro al mese, un Suv Mercedes del valore di oltre 50mila euro ed un contributo di 250mila euro come finanziamento della campagna elettorale di sua moglie, Maria Francavilla, candidatasi al Senato alle Elezioni Politiche del 2018 per Forza Italia, senza riuscire ad essere eletta, per sbloccare l’autorizzazione all’ampliamento della discarica Torre Caprarica di Grottaglie e pilotare la gara d’appalto per la gestione dei rifiuti solidi urbani a Sava. A seguito della richiesta di rito immediato della Procura di Taranto, i difensori degli imputati possono scegliere due strategia, e cioè o andare a giudizio direttamente, sperando di poter dimostrare nel processo la propria assoluzione ed estraneità ai fatti che vengono contestati agli imputati; o in alternativa richiedere il rito abbreviato, che comporta la riduzione ad 1/e della pena massima prevista dal codice penale. La decisione inaspettata della Procura ha bloccato ieri  gli avvocati Giuseppe Modesti e Carlo Raffo difensori di Martino Tamburrano , i quali hanno rinunciato al previsto ricorso davanti al tribunale del Riesame, che era fissato proprio per ieri .

"Monnezzepoli". Martino Tamburrano resta in carcere: occorre tutelare le ulteriori indagini. Corriere del Giorno il 19 Giugno 2019. Analoga decisione è arrivata dal Tribunale del Riesame di Taranto , collegio presieduto dal Giudice Giovanni Caroli, che ha ha rigettato il ricorso avanzato dagli avvocati dell’imprenditore Natalino Venuti. accusato  di “concorso in corruzione” unitamente a Martino Tamburrano, l’imprenditore Pasquale Lonoce, Lorenzo Natile all’epoca dei fatti responsabile del 4° settore Pianificazione e Ambiente della Provincia di Taranto. Dopo il parere negativo della Procura della Repubblica  di Taranto rappresentata  dal procuratore aggiunto dr. Maurizio Carbone e il pubblico ministero dr. Enrico Bruschi, titolari dell’inchiesta della Guardia di Finanza, che hanno evidenziato la necessità di tutelare l’inchiesta in corso, in merito all’istanza di scarcerazione dell’ex-presidente della Provincia di Taranto  Martino Tamburrano, coinvolto nel procedimento sulle attività illegali che sarebbero state attuate dall’ex presidente della Provincia per controllare e “pilotare” le autorizzazioni in materia ambientale,  è arrivato il “no” anche dal Gip dr.ssa Vilma Gilli del Tribunale di Taranto, che ha pienamente accolto e condiviso le argomentazioni della procura, ed ha rigettato l’istanza della difesa avanzata dagli avvocati Giuseppe Modesti e Carlo Raffo, i quali puntavano almeno ad ottenere per Tamburrano la misura dei domiciliari in sostituzione della detenzione in carcere. La Procura aveva evidenziato nel suo parere negativo, confutando la tesi dei legali di Tamburrano, che verteva sulla tesi della presunta insussistenza delle ipotesi di corruzione, opposte dalla difesa dell’indagato, ed evidenziando la necessità di tutelare gli accertamenti investigativi in corso da ogni tipo di condizionamento ed inquinamento delle prove, che potrebbe avvenire in quanto vi sono altri  indagati liberi e quindi, di effettuare azioni di disturbo all’acquisizione delle Fiamme Gialle di ulteriori prove. Il Gip Gilli  dopo aver valutato le argomentazioni della difesa e dell’ accusa,  sulla base degli atti in suo possesso , è arrivata al convincimento che non sarebbe stato possibile garantire la necessaria tutela per il prosieguo delle indagini, in caso di applicazione dell’eventuale rigettato beneficio degli arresti domiciliari. Il Giudice per le indagini preliminari  ha osservato che il quadro indiziario “non è mutato alla luce dell’alternativa lettura dei fatti offerta dalla difesa, nella propria istanza, posto che essa si basa non su dati probatori diretti, a confutazione di quelli indicati nell’ordinanza genetica ma su elementi presuntivi o deduttivi, non convincenti o difficilmente verificabili”   convenendo alle argomentazioni della Procura,  ha confermato la sussistenza esistenza di un “quadro cautelare immutato”. Nella sua ordinanza il Gip ha motivato che la circostanza che Tamburrano non goda più di cariche politiche, non influisce minimamente in suo favore,  considerando che nel recente passato, anche dopo la sua decadenza di Presidente della Provincia di Taranto, aveva “proseguito a occuparsi di affari connessi con la materia dei rifiuti e delle discariche, vantando presso terzi di poter ottenere autorizzazioni e titoli” tutto ciò “in virtù della rete di relazioni personali e professionali che aveva intessuto durante l’esercizio delle sue funzioni pubbliche; rete che i fatti hanno dimostrato essere costituita anche da relazioni e attività illecite“. In pratica secondo il Gip la circostanza di assenza attuale di cariche istituzionali di Martino Tamburrano non assume alcun “carattere dirimente” e secondo la dottoressa Gilli, esiste il pericolo che possa reiterare analoghi reati,  e quindi una sua scarcerazione potrebbe arrecare danni e disturbo alle ulteriori acquisizioni probatorie degli inquirenti propedeutici alla conclusione delle indagini che proseguono senza alcuna sosta. Analoga decisione è arrivata dal Tribunale del Riesame di Taranto , collegio presieduto dal Giudice Giovanni Caroli, che ha ha rigettato il ricorso avanzato dagli avvocati dell’imprenditore Natalino Venuti. accusato  di “concorso in corruzione” unitamente a Martino Tamburrano, l’imprenditore Pasquale Lonoce, Lorenzo Natile all’epoca dei fatti responsabile del 4° settore Pianificazione e Ambiente della Provincia di Taranto,  per i rispettivi ruoli ricoperti nell’adozione della delibera di ampliamento della discarica Torre Caprarica di Grottaglie, e per la ulteriore contestazione della Procura nei confronti di Tamburrano e Lonoce per l’affidamento del servizio di igiene urbana e ambientale del Comune di Sava, dal quale potrebbero arrivate delle altre “sorprese”. Nel frattempo delle nostre fonti bene informate ci riferiscono che anche l’imprenditore massafrese Antonio (per tutti Tonino) Albanese, presidente della discarica della CISA spa di Massafra, sia molto agitato e preoccupato per la sua rischiosa posizione di “indagato”,  nello stessa indagine in corso della Guardia di Finanza sulla “monnezzopoli” tarantina , e per il blocco delle autorizzazioni concesse dalla Provincia di Taranto per il raddoppio del termovalorizzatore Appia Energy spa di Massafra, di cui è rappresentante legale e socio al 49%, che gli sono costate una recente richiesta di rinvio a giudizio dalla Procura di Taranto.  E’ proprio il caso di dire: “E’ la monnezza, bellezza !“ A volte non basta avere un parente ufficiale della Guardia di Finanza o ospitare nelle  strutture alberghiere i convegni dei magistrati…

Corruzione: 7 arresti a Taranto, anche ex presidente provincia Tamburrano. Nell’ambito di un'inchiesta sull'iter amministrativo per la concessione dell’autorizzazione all’ampliamento della discarica di Grottaglie-contrada Torre Caprarica, scrive il 14 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Sette persone, tra cui l’ex presidente della Provincia di Taranto Martino Tamburrano (Forza Italia), sono state arrestate dalla Guardia di finanza nell’ambito di una inchiesta della Procura sull'iter amministrativo per la concessione dell’autorizzazione all’ampliamento della discarica di Grottaglie-contrada Torre Caprarica. I reati contestati sono, a vario titolo, quelli di corruzione e turbata libertà degli incanti.

7 arresti a Taranto per corruzione. Il "Palazzo" politico trema, scrive il 14 Marzo 2019 Il Corriere del Giorno. La richiesta di arresti porta la firma del sostituto procuratore della repubblica della Procura di Taranto, dr. Enrico Bruschi, accolta dal Gip dr.ssa Vilma Gilli che ha firmato l’ordinanza restrittiva. Sono in corso importanti arresti effettuati dalle Fiamme Gialle a Taranto per una vicenda di corruzione, fra i quali un “noto” politico, ed un dirigente di un ente pubblico a lui molto vicino da sempre. La richiesta di arresti porta la firma del sostituto procuratore della repubblica della Procura di Taranto, dr. Enrico Bruschi, accolta dal Gip dr.ssa Vilma Gilli che ha firmato l’ordinanza restrittiva.  I nomi degli arrestati a Taranto per corruzione. Arrestati il “noto” politico Martino Tamburrano ex presidente della Provincia di Taranto e Sindaco di Massafra, ed il dirigente della Provincia Lorenzo Natile. La richiesta di arresti porta la firma del sostituto procuratore della repubblica della Procura di Taranto, dr. Enrico Bruschi, accolta dal Gip dr.ssa Vilma Gilli che ha firmato l’ordinanza restrittiva. Sono in corso importanti arresti effettuati dalle Fiamme Gialle a Taranto per una vicenda di corruzione, fra i quali il “noto” politico Martino Tamburrano ex presidente della Provincia di Taranto e Sindaco di Massafra, ed il dirigente della Provincia Lorenzo Natile (proveniente dal Comune di Massafra), a lui molto “vicino” da sempre, che aveva ruolo e competenze nell’ente provinciale sull’ urbanistica, attività produttive, ambiente ed ecologia. La richiesta di arresti porta la firma del sostituto procuratore della repubblica della Procura di Taranto, dr. Enrico Bruschi, accolta dal Gip dr.ssa Vilma Gilli che ha firmato l’ordinanza restrittiva.

ESCLUSIVA. I nomi degli arrestati a Taranto per corruzione. Trema il "Palazzo" della politica, scrive il 14 Marzo 2019 Il Corriere del Giorno. Il “noto” politico Martino Tamburrano ex presidente della Provincia di Taranto e Sindaco di Massafra, ed il dirigente della Provincia Lorenzo Natile, il dirigente dell’AMIU Taranto, Cosimo (Mimmo Natuzzi). La richiesta di arresti porta la firma del sostituto procuratore della repubblica della Procura di Taranto, dr. Enrico Bruschi, accolta dal Gip dr.ssa Vilma Gilli che ha firmato l’ordinanza restrittiva. Arresti “eccellenti” quelli effettuati dal Nucleo di polizia economica finanziaria della Guardia di Finanza di Taranto guidato dal Ten. Col. Antonio Marco Antonucci nel corso dell’operazione denominata “T.Rex” per vari reati contestati sono, tra gli altri, quelli di corruzione, e turbata libertà degli incanti. L’inchiesta ha origine dal provvedimento di elevazione della discarica di Grottaglie. Delle 7 misure cautelari 4 prevedono la custodia in carcere, mentre le restanti 3 agli arresti domiciliari. La richiesta di arresti porta la firma del sostituto procuratore della repubblica della Procura di Taranto, dr. Enrico Bruschi, accolta dal Gip dr.ssa Vilma Gilli che ha firmato l’ordinanza restrittiva. Fra gli arrestati tradotti in carcere il “noto” politico Martino Tamburrano ex presidente della Provincia di Taranto e Sindaco di Massafra, ed il dirigente della Provincia Lorenzo Natile (proveniente dal Comune di Massafra), a lui molto “vicino” da sempre, che aveva ruolo e competenze nell’ente provinciale sull’ urbanistica, attività produttive, ambiente ed ecologia. L’operazione vede impegnati finanzieri nelle provincie di Taranto, Roma, Bari e Milano, per l’esecuzione dei provvedimenti e delle perquisizioni presso uffici pubblici e numerose sedi societarie. Le indagini riguardano, in particolare, l’iter amministrativo per la concessione dell’autorizzazione all’ampliamento della discarica di Grottaglie–contrada Torre Caprarica, meglio nota con il nome “LaTorre Caprarica”, gestita dalla società Linea Ambiente (exEcolevante) di Rovato (Brescia) controllata dalla Linea Group Holding.

Tutti i nomi degli altri arrestati: Pasquale Lonoce(carcere), il figlio Matteo Lonoce candidato in una lista civica facente capo a Tamburrano alle ultime elezioni amministrative del Comune di Taranto, in cui risultò primo dei non eletti, e la figlia Federica Lonoce(domiciliari), il procuratore speciale della società-gestore della discarica di Grottaglie Roberto Venuti, il dirigente dell’ AMIU Taranto Cosimo (Mimmo) Natuzzi presidente e membro della Commissione di gara per la Raccolta di Rifiuti Solidi Urbani, l’ex presidente di AMIU Taranto municipalizzata Federico Cangelosi, commercialista, indicato e recentemente nominato dal Sindaco di Taranto Rinaldo Melucci come componente nella commissione “tecnica” per il Termovalorizzatore dell’ amministrazione comunale jonica. Il gruppo, costituito dall’ex presidente della Provincia Martino Tamburrano, e dal dirigente Natile dello stesso Ente e da imprenditori operanti tra l’altro nel settore dello smaltimento e gestione rifiuti, ha tratto vantaggi in denaro e beni attraverso atti corruttivi che hanno consentito notevoli indebiti guadagni. “Per me Martino è più mafioso di Totò Riina. Totò Riina è un coglione rispetto a lui”. Parole forti, forse esagerate quelle pronunciate dal “corruttore” Pasquale Lonoce presenti nelle 190 pagine dell’ordinanza cautelare contenente numerose intercettazioni. Lo sfogo di Lonoce con un altro indagato è eloquente: “Fatturato 700mila Euro con lui… 700/800 quelli che sono stati…metà dei quali… sono andato a pagarli adesso. Trecentocinquantamila…e per altri …Duecentocinquanta li ho dati a coglione per le elezioni e annessi e connessi … Solo di cene se ne sono andate 30mila euro al mese”. Nella tangente richiesta da Tamburrano era incluso anche il sostegno elettorale ed economico per la candidatura al Senato della moglie Maria Francavilla in occasione delle ultime elezioni politiche, in cui sostenuta dalla coalizione Lega-Fratelli d’ Italia-Forza Italia. Secondo le indagini delle Fiamme Gialle, Tamburrano incassava la somma di 5mila euro al mese. Lonoce esasperato dalle sue continue richieste intercettato, si lamenta: “Quindicimila Euro al mese esco…. Ieri sera 800 euro con lei se ne sono andati. Per dirti, e tutte le sere e tutte le sere, quante volte quello va a mangiare e pago io, va con quelli e pago io. Oh! In media, quindicimila-ventimila euro al mese esco fatti i conti. Una cosa che siamo noi tre, perché siamo amici, un altro conto che quelli li hanno messi tutti a carico mio. Adesso questo altro fatto qua, dei terminali, là, i computer, i telefonini per i figli dei figli, le cose. Eh! Non li va a ritirare se non li pago. Weh coglione!”. Per il pm Bruschi della Procura di Taranto i 5mila euro “con il passare del tempo andava via via aumentando in quanto il presidente della Provincia avanzava richieste sempre più esose e pressanti”. Tra le tangenti compare anche un Suv Mercedes 220 GLC che Tamburrano ritira da un rivenditore di zona (D’ Elia) il quale a sua volta era perfettamente a conoscenza della vicenda al punto che suggeriva a Tamburrano di adottare delle precauzioni: “Martino io direi due, tre mesi lasciala stare intestata a me… hai capito? Se no capi… si può pensare, hai capito? Se la è intestata prima lui, a fine anno, a dicembre, Puff e la…Quattro cinque mesi se no, perché poi la dobbiamo fatturare in un certo modo, noi a lui e conviene”. Arrestati anche un membro della Commissione di gara per la Raccolta di Rifiuti Solidi Urbani di del Comune di Sava (Taranto), di 2 imprenditori attivi nel settore della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, nonché del procuratore speciale di una società gestore di una discarica ubicata nel comune di Grottaglie. Si è accertato, anche attraverso l’ausilio di intercettazioni, che la società proprietaria della discarica di Grottaglie – Contrada Torre Caprarica – aveva terminato la sua attività di raccolta in quanto il sito era ormai colmo, senza possibilità di poter conferire ulteriori RSU. Nell’agosto del 2017 la Provincia di Taranto, dopo i pareri negativi degli organi preposti, aveva respinto inizialmente la richiesta di ampliamento. Il procuratore legale della società sfruttando i buoni uffici di un imprenditore sammarzanese, (cioè del Comune di San Marzano di San Giuseppe in provincia di Taranto) ha iniziato a tessere stretti rapporti illeciti con il Presidente della Provincia di Taranto Tamburrano, finalizzati a valutare nuovamente, la richiesta “rigettata” di rilascio dell’autorizzazione per il sopraelevamento della discarica di ulteriori 15 metri rispetto al livello di colmata. A fronte di tali accordi, l’ex Presidente della Provincia si è attivamente adoperato per nominare un nuovo comitato tecnico ed il compiacente Natile Dirigente del Settore Ambiente, figura fino ad allora ricoperta dal segretario provinciale. I pubblici ufficiali, a fronte di tale impegno contrario ai propri doveri, ricevevano denaro e altre utilità, tra queste ultime l’ex presidente della Provincia otteneva, tra le altre, contributi per finanziare la campagna elettorale della moglie Maria Francavilla alle ultime elezioni politiche per il Senato.

NOTA. Ai nostri lettori: precedentemente è stata pubblicata una foto che ritraeva l’On. Avv. Gianfranco Chiarelli (totalmente estraneo alla vicenda giudiziaria da noi trattata) accanto alla candidata Maria Francavilla. Ci scusiamo con l’interessato che ribadiamo non ha alcun coinvolgimento nell’inchiesta. L’accordo corruttivo era talmente esplicito che il ritardo nel completamento dell’iter amministrativo aveva generato le vibrate rimostranze del corruttore che lamentava, per ogni giorno di inattività un mancato guadagno costituito dai ricavi derivanti dal conferimento in discarica dei rifiuti. Le modalità di corresponsione delle “tangenti” si sono rivelate particolarmente ingegnose e innovative e, per lo più, concordate nel corso di incontri conviviali tra gli indagati ignari di essere ascoltati e pedinati. I fondi da destinare ai pubblici ufficiali infedeli venivano costituiti attraverso l’affidamento dei lavori di sanificazione della discarica alle società riconducibili all’imprenditore sammarzanese. I pagamenti per tali prestazioni, risultati sovrafatturati, erano in buona parte destinati a corrispondere il prezzo della corruzione. Il rappresentante legale della discarica, attraverso l’intermediazione del titolare di un autosalone, donava all’ex presidente della Provincia di Taranto, quale ulteriore compenso illecito, una autovettura di lusso del valore commerciale di circa 50 mila euro. La gestione degli affari illegali da parte dell’ex Presidente della Provincia di Taranto si è spinta fino all’affidamento diretto, all’imprenditore di San Marzano, di lavori per somma urgenza e necessità in occasione degli eventi di calamità naturale verificatisi nell’estate del 2018, facendo fruttare compensi per ulteriori 95 mila euro circa. Infine, è stato accertato che Martino Tamburrano si è prodigato per pilotare anche la gara di appalto per i servizi di raccolta rifiuti del Comune di Sava, influendo sul giudizio tecnico di due professionisti corrotti, facenti parte della commissione di gara, permettendo di far vincere l’appalto allo stesso imprenditore amico, attraverso una delle sue imprese.

ESCLUSIVA: le carte integrali dell'inchiesta "Monnezzopoli", scrive il 21 Marzo 2019 Il Corriere del Giorno. Gli atti dell’ordinanza di cautelare che hanno portato in carcere l’ex-presidente della Provincia di Taranto Martino Tamburrano ed altre 6 persone, 4 delle quali sono finite in carcere mentre le restanti 3 poste agli arresti domiciliari. Indagati l’imprenditore Tonino Albanese, e tre pubblici ufficiali infedeli: Tonino Bucci (Carabinieri) Lacorte e Marzella (Guardia di Finanza).  Il CORRIERE DEL GIORNO mantiene la sua linea di “trasparenza” pubblicando tutti gli atti dell’ordinanza di cautelare che hanno portato in carcere  Martino Tamburrano l’ex-presidente della Provincia di Taranto ed altre 6 persone, 4 delle quali sono finite in carcere  mentre altre 3 sono state poste agli arresti domiciliari, e che vede fra gli indagati  il sindaco di San Marzano di San Giuseppe Giuseppe Tarantino , il luogotenente dei Carabinieri  Antonio, per tutti Tonino Bucci(prossimo al congedo) ed i due finanzieri infedeli sospesi dal servizio, i marescialli Lacorte (originario di San Marzano di S. Giuseppe) e Marzella (originario di Massafra)  . La pubblicazione continua con il secondo “blocco” di 20 pagine.

Anche il nostro giornale è entrato in possesso della relazione conclusiva della Guardia di Finanza alla Procura della Repubblica di Taranto, ma a differenza di qualche sprovveduto giornalista locale  (che per questo motivo è stato denunciato) noi non pubblichiamo alcun  stralcio di indagine quando è coperto dal segreto istruttorio. Non siamo abituati a fare i “primi della classe” come altri che si illudono poveretti… di esserlo.

Tangenti per la discarica di Grottaglie, 7 arresti: anche ex presidente della Provincia di Taranto (Forza Italia) Martino Tamburrano. Martino Tamburrano arrestato dalla guardia di finanza nell'ambito di una inchiesta sull'iter amministrativo per la concessione dell'autorizzazione all'ampliamento della discarica. I reati contestati sono corruzione e turbata libertà degli incanti. Contributi anche per la campagna elettorale della moglie alle ultime politiche, scrive Chiara Spagnolo il 14 marzo 2019 su La Repubblica. C'è anche l'ex presidente della Provincia di Taranto - ed ex sindaco di Massafra - Martino Tamburrano di Forza Italia tra le sette persone arrestate al termine di un'indagine della guardia di finanza di Taranto sull'ampliamento della discarica di Grottaglie. Secondo la Procura ionica, l'iter amministrativo per la concessione delle autorizzazioni per ingrandire l'impianto di contrada Torre Caprarica sarebbe stato falsato, in cambio di tangenti. I reati contestati sono corruzione e turbata libertà degli incanti. Quattro i provvedimenti di custodia cautelare in carcere, nei confronti dell'ex presidente della Provincia Tamburrano, del dirigente della Provincia Lorenzo Natile, dell'imprenditore di San Marzano di San Giuseppe, Pasquale Lonoce (titolare di una società attiva nel settore della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti), e del procuratore speciale della società gestore della discarica di Grottaglie Roberto Venuti. Ai domiciliari sono finiti Rosalba Lonoce (figlia di Pasquale), l'ex presidente Amiu Federico Cangialosi, e l'ex dirigente Amiu Mimmo Natuzzi (presidente e membro della Commissione di gara per la Raccolta di Rifiuti Solidi Urbani). Il gruppo, costituito dall'ex presidente della Provincia, da un dirigente dello stesso ente e dagli imprenditori operanti tra l'altro nel settore dello smaltimento e gestione rifiuti, secondo l'accusa ha tratto vantaggi in denaro e beni attraverso atti corruttivi che hanno consentito notevoli indebiti guadagni. Una tangente di 5mila euro al mese e la promessa di un'auto di lusso, una Mercedes Glc: è questo, secondo gli inquirenti, il corrispettivo dell'accordo corruttivo in base al quale l'ex presidente della Provincia di Taranto Martino Tamburrano ha adottato, con il dirigente della Provincia Lorenzo Natile, la determina dirigenziale 45 del 5 aprile 2018, per l'ampliamento della discarica di Grottaglie-Torre Caprarica in favore della società Linea Ambiente srl, in violazione del principio di imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione. L'ex presidente della Provincia avrebbe ricevuto la tangente da Roberto Natalino Venuti, procuratore speciale di Linea Ambiente srl per il tramite di Pasquale Lonoce, amministratore di fatto della società 2Lecologia Srl (i due amministratori della stessa azienda risultano indagati a piede libero). Sarebbe stata creata una provvista economica per il pagamento delle somme mediante due contratti di prestazioni di servizi del valore rispettivo di circa 556mila euro e di un milione e 500mila euro tra Linea Ambiente Srl e 2Lecologia Srl, per importi "artatamente sovrastimati rispetto al valore reale". Contratti per i quali la emissione di fatture veniva gestita da Rosalba Lonoce (finita ai domiciliari). L'accordo corruttivo, sostengono gli inquirenti, era "talmente esplicito che il ritardo nel completamento dell'iter amministrativo aveva generato le vibrate rimostranze del corruttore che lamentava, per ogni giorno di inattività, un mancato guadagno costituito dai ricavi derivanti dal conferimento in discarica dei rifiuti". Nell'agosto del 2017 la Provincia di Taranto, dopo i pareri negativi degli organi preposti, aveva respinto la richiesta di ampliamento della discarica di Grottaglie. Il procuratore legale della società, sfruttando i buoni uffici dell'imprenditore di San Marzano, avrebbe iniziato a tessere stretti rapporti illeciti con il presidente della Provincia Tamburrano, finalizzati a valutare nuovamente la richiesta rigettata di rilascio dell'autorizzazione per il sopraelevamento della discarica di ulteriori 15 metri rispetto al livello di colmata. L'allora presidente della Provincia, sempre secondo l'accusa, si adoperò per nominare un nuovo comitato tecnico e un dirigente del settore Ambiente, figura fino ad allora ricoperta dal segretario provinciale. I pubblici ufficiali, a fronte di tale impegno e dell'affidamento dei lavori di sanificazione della discarica alle società riconducibili all'imprenditore sammarzanese, avrebbero ricevuto denaro e altre utilità. I pagamenti, risultati sovrafatturati, erano in buona parte destinati a corrispondere il prezzo dell'accordo corruttivo. Il rappresentante legale della discarica, attraverso l'intermediazione del titolare di un autosalone, avrebbe inoltre donato a Tamburrano, quale ulteriore compenso illecito, una autovettura di lusso del valore commerciale di circa 50mila euro. Secondo quanto stabilito dalla procura Tamburrano si sarebbe prodigato per pilotare anche la gara di appalto per il servizio integrato di igiene urbana ed ambientale di Sava, sempre in provincia di Taranto, del valore di due milioni e 800mila euro, indetta dal Comune attraverso la Stazione unica di Montedoro. Tamburrano avrebbe influito sul giudizio tecnico di due professionisti, l'ex presidente Amiu Federico Cangialosi, e l'attuale dirigente tecnico dell'Amiu di Taranto Mimmo Natuzzi (presidente e membro della Commissione di gara per la raccolta di rifiuti solidi urbani nominata dal Comune di Sava), permettendo di far vincere l'appalto allo stesso imprenditore amico, Pasquale Lonoce, che lo aveva contattato per l'ampliamento della discarica di Grottaglie. Quest'ultimo è ritenuto amministratore di fatto della Universal Service, che si aggiudicò il servizio. Secondo quanto ricostruito dalle indagini Tamburrano avrebbe ottenuto anche contributi per finanziare la campagna elettorale della moglie alle ultime elezioni politiche per il Senato. È stato accertato, anche attraverso l'ausilio di attività tecniche, che la società proprietaria della discarica aveva terminato la sua attività di raccolta in quanto il sito era ormai colmo, senza possibilità di poter conferire ulteriori rifiuti solidi urbani.

Taranto, ex presidente Tamburrano in carcere per le discariche «Soldi per campagna elettorale della moglie». Nell’ambito di un'inchiesta sull'iter amministrativo per la concessione dell’autorizzazione all’ampliamento della discarica di Grottaglie-contrada Torre Caprarica, scrive il 14 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Sette persone, tra cui l’ex presidente della Provincia di Taranto Martino Tamburrano (Forza Italia), sono state arrestate dalla Guardia di Finanza nell’ambito di una inchiesta della Procura sull'iter amministrativo per la concessione dell’autorizzazione all’ampliamento della discarica di Grottaglie - contrada Torre Caprarica. Le ordinanze (4 in carcere e 3 agli arresti domiciliari) sono state disposte dal Gip Gilli su richiesta dei pm Carbone e Bruschi. I reati contestati sono, a vario titolo, quelli di corruzione e turbata libertà degli incanti. Sono state eseguite numerose perquisizioni in tutta la Puglia, anche nell'abitazione di un noto ingegnere di Triggiano (Ba) Federico Cangialosi ex direttore dell'Amiu di Taranto del settore rifiuti. Tamburrano, già sindaco di Massafra, avrebbe fatto parte di un gruppo costituito anche da un dirigente della stessa Provincia e da imprenditori che operano nel settore dello smaltimento e della gestione dei rifiuti, che avrebbe tratto vantaggi in denaro e beni attraverso atti corruttivi. Sempre secondo l'accusa, dall'imprenditore Pasqualino Lonoce ha avuto 250mila euro per finanziare una campagna elettorale per il Senato della moglie, Maria Francavilla. Si è accertato che la società proprietaria della discarica di Grottaglie aveva terminato la sua attività di raccolta in quanto il sito era ormai colmo, senza possibilità di poter conferire ulteriori rifiuti. Ad agosto del 2017 la Provincia di Taranto aveva respinto la richiesta di ampliamento. Una tangente di cinquemila euro al mese e la promessa di un’auto di lusso, Mercedes Glc: è questo, secondo gli inquirenti, il corrispettivo dell’accordo corruttivo in base al quale l’ex presidente della Provincia di Taranto Martino Tamburrano ha adottato, con il dirigente della Provincia Lorenzo Natile, la determina dirigenziale 45 del 5 aprile 2018, per l’ampliamento della discarica di Grottaglie-Torre Caprarica in favore della società Linea Ambiente srl, in violazione del principio di imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione. L’ex presidente della Provincia, secondo quanto riportato nel capo d’imputazione, avrebbe ricevuto la tangente da Roberto Natalino Venuti, procuratore speciale di Linea Ambiente srl per il tramite di Pasquale Lonoce, amministratore di fatto della società 2Lecologia SRrl (i due amministratori della stessa azienda risultano indagati a piede libero). Sarebbe stata creata una provvista economica per il pagamento delle somme mediante due contratti di prestazioni di servizi del valore rispettivo di circa 556mila euro e di 1.500.000 euro tra Linea Ambiente Srl e 2Lecologia Srl, per importi «artatamente sovrastimati rispetto al valore reale». Contratti per i quali la emissione di fatture veniva gestita da Rosalba Lonoce (finita ai domiciliari). L’accordo corruttivo, sostengono gli inquirenti, era "talmente esplicito che il ritardo nel completamento dell’iter amministrativo aveva generato le vibrate rimostranze del corruttore che lamentava, per ogni giorno di inattività, un mancato guadagno costituito dai ricavi derivanti dal conferimento in discarica dei rifiuti». L’ex presidente della Provincia di Taranto si sarebbe prodigato per pilotare anche la gara di appalto per il servizio integrato di igiene urbana ed ambientale di Sava (Taranto), del valore di due milioni e 800mila euro, indetta dal Comune attraverso la Stazione unica di Montedoro. Tamburrano avrebbe influito sul giudizio tecnico di due professionisti, l’ex presidente Amiu Federico Cangialosi, e l'attuale dirigente tecnico dell’Amiu di Taranto Mimmo Natuzzi (presidente e membro della Commissione di gara per la raccolta di rifiuti solidi urbani nominata dal Comune di Sava), permettendo di far vincere l’appalto allo stesso imprenditore amico, Pasquale Lonoce, che lo aveva contattato per l'ampliamento della discarica di Grottaglie. Quest’ultimo è ritenuto amministratore di fatto della Universal Service, che si aggiudicò il servizio. I NOMI DEGLI INDAGATI: Martino Tamburrano (61 anni, di Massafra), Pasquale Lonoce (55 anni, di San Marzano di San Giuseppe), Roberto Natalino Venuti (di Cesano Maderno - MB), Lorenzo Natile (63 anni, di Castellaneta Marina), Federica Lonoce (21 anni, di San Marzano di San Giuseppe), Rosalba Lonoce (35 anni, di San Marzano di San Giuseppe), Matteo Lonoce (27 anni, di San Marzano di San Giuseppe), Federico Cangialosi (42 anni, di Triggiano - Ba), Cosimo Natuzzi (46 anni, di Taranto). 

Tangenti sulla discarica: «Tamburrano fu avvisato delle intercettazioni». L'ex presidente della Provincia in cella con l'ex giudice Nardi al centro di vicende di corruzione, scrive Massimiliano Scagliarini il 16 Marzo 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il veicolo è un sms, un messaggio su Whatsapp o anche una mail che contiene un link: basta un «clic» per essere catapultati su una pagina web civetta che, in realtà, contiene un trojan. È una sorta di programma-spia, quello che gli inquirenti definiscono «captatore»: il virus grazie a cui la Finanza ha potuto utilizzare i cellulari come microspie. Ascoltando così i colloqui dell’imprenditore Pasquale Lonoce, che si sfogava per le centinaia di migliaia di euro spesi per «oliare» l’ex presidente della Provincia, Martino Tamburrano affinché autorizzasse l’ampliamento della discarica di Grottaglie. Un grave episodio di corruzione per cui giovedì sono entrambi finiti in carcere insieme ad altre due persone. Tuttavia, dicono gli atti dell’inchiesta condotta dall’aggiunto Maurizio Carbone e dal pm Enrico Bruschi, qualcuno aveva avvertito i due complici delle intercettazioni informatiche in corso. L’utilizzo dei trojan è oggi sempre più diffuso. Ma, oltre a limiti tecnologici (non tutti i modelli di cellulari e non tutte le versioni software sono penetrabili, o comunque non a costi ragionevoli), esistono precisi limiti di legge: nell’inchiesta della Procura di Taranto i «captatori» hanno sostituito le intercettazioni ambientali. Come ad esempio il 6 luglio scorso, quando il trojan installato sul cellulare di Lonoce (un Iphone X) registra la discussione con Tamburrano a proposito della Mercedes Glc da 49mila euro che - secondo l’accusa - il politico di Forza Italia avrebbe ricevuto insieme a consistenti somme di denaro a fronte dell’ok all’ampliamento della discarica. Lonoce spiega perché ha fatto acquistare l’auto con una serie di cambiali emesse (almeno sulla carta) da Tamburrano. «Che allora se non mi trovo io no, che lo salvo a quello, prende la 740 e la intesta, e le cambiali? Comunque gli faccio fare le cambiali, tutte cose, meno male eh quello mi sentì a me: “Fammi vedere il pagamento della macchina” (...). E quanto l’hai pagata e come l’hai pagata, che se prendi 2mila non puoi fare una cambiale di 4mila». Un trojan era stato installato anche sul cellulare di Tamburrano (un vecchio modello Android), ed ha consentito di ascoltare la conversazione con Lonoce in cui i due parlano della commissione aggiudicatrice dell’appalto per la raccolta rifiuti di Sava: anche quello, secondo l’accusa, sarebbe stato truccato in cambio di soldi e di assunzioni. Ma proprio il trojan sul cellulare di Lonoce ha consentito alla Finanza di registrare gli indizi di una possibile (e grave) fuga di notizie. Durante una cena, l’11 luglio, l’imprenditore ha raccontato a Tamburrano che Roberto Venuti, il manager di Linea Ambiente (la società controllata da A2A che possiede la discarica di Grottaglie), gli aveva riferito di intercettazioni in corso sul cellulare dell’allora presidente Tamburrano e dello stesso imprenditore. La Procura è convinta che quelle riferite a Venuti da un altro notissimo imprenditore del settore non fossero millanterie. Tanto che Lonoce, il 16 luglio, si presenta da un rivenditore di San Giorgio Jonico per far resettare i suoi cellulari. «L’operazione di bonifica - annota il gip Gilli - si concretizzava in una operazione di reset, con distruzione dei dati “in chiaro” del telefono non intercettabili (conversazioni Whatsup o a mezzo di altri social network, foto, sms presenti in memoria in epoca antecedente alla intercettazione), con ciò pregiudicandosi anche il sequestro probatorio del telefono ed estrazione di copia-immagine dallo stesso, operazione che era impossibile eseguire con il captor, per l’alta evoluzione tecnologica del telefono posseduto dal Lonoce». L’Iphone X è infatti uno dei modelli per i quali a oggi l’inoculazione del trojan è impossibile (con le ultime versioni di iOs) o comunque molto complicata e comunque limitata. Per la fuga di notizie è indagato un maresciallo dei Carabinieri, spesso commensale di Tamburrano, che sarebbe stato a conoscenza di alcuni atti investigativi tanto da rivelare al presidente l’esistenza di una indagine a carico della moglie, Maria Francavilla, per fatti diversi da quelli relativi alla discarica. E per l’episodio che ha fatto emergere l’esistenza delle intercettazioni è al vaglio la posizione dell’imprenditore che avrebbe avvertito Venuti: la posizione delle celle telefoniche rende credibile l’ipotesi che ci sia stato un incontro tra i due, e la fonte dell’imprenditore potrebbe essere stata un maresciallo della Finanza.

Intanto l’inchiesta va avanti per esplorare altri filoni. Gli indagati sono almeno 11, comprese le due persone (parenti di Lonoce) per cui il gip non ha concesso i domiciliari. Le perquisizioni disposte giovedì dalla Procura, anche a carico di persone non indagate, non hanno portato a scoprire somme di denaro contante che potrebbero far pensare a tangenti. Tamburrano è nel carcere di Taranto, nella stessa cella di Michele Nardi, l’ex gip di Trani arrestato per associazione e delinquere e corruzione.

 "MONNEZZOPOLI". Fra gli indagati dalla Procura di Taranto anche Antonio Albanese, scrive il 19 Marzo 2019 Il Corriere del Giorno. Albanese è stato indagato dalla Procura di Taranto per aver concorso a rivelare un segreto istruttorio, e cioè la circostanza che la “cricca” che ruotava intorno a Martino Tamburrano, erano intercettati dalla Guardia di Finanza. Il nome è “pesante” non solo fisicamente e finanziariamente, ed infatti i quotidiani locali ed i siti web si guardano bene dal farne il nome, venendo “riforcillati” dalla pubblicità delle sue aziende, come la CISA spa di Massafra e l’ Hotel Casa Isabella di Mottola in provincia di Taranto.

Quel nome il CORRIERE DEL GIORNO non ha problemi a farlo non avendo mai ricevuto pubblicità e soldi da quell’ imprenditore che ha un nome e cognome: Antonio (per gli amici Tonino) Albanese, meglio noto a Massafra con il soprannome “Surgicchio“. Albanese è stato indagato dalla Procura di Taranto per aver concorso a rivelare un segreto istruttorio, e cioè la circostanza che la “cricca” che ruotava intorno a Martino Tamburrano, da sempre molto legato a “Surgicchio“, erano intercettati dalla Guardia di Finanza, contribuendo in tal modo al depistaggio delle indagini in corso della Procura di Taranto, affidate al pm dr. Enrico Bruschi coordinate dal procuratore aggiunto dr. Maurizio Carbone. Questi sono i passaggi estratti dall’ordinanza firmata dal Gip dr.ssa Vilma Gilli, da leggere con attenzione, in cui si parla di Albanese, ma anche del giornalista Mimmo Mazza, capo servizio della Gazzetta del Mezzogiorno a Taranto, da sempre molto “vicino” (anche pubblicitariamente)  a Tonino Albanese. A questo punto Albanese avrà la correttezza istituzionale di dimettersi da consigliere della Camera di Commercio di Taranto e dalla vicepresidenza di CONFINDUSTRIA Taranto ? Conoscendolo abbiamo più di qualche dubbio…

Tangenti e rifiuti, i finanzieri nel municipio di Sava per la gara sulla spazzatura. Secondo la magistratura, sulla gara aveva messo gli occhi l’imprenditore sanmarzanese Pasquale Lonoce, arrestato nel blitz con la figlia Rosalba (ai domiciliari), il quale avrebbe chiesto i «favori» dell’allora presidente..., scrive Nazareno Dinoi sabato 16 marzo 2019 su La Voce di Manduria. Mentre l’altro ieri a Taranto, a Massafra e in altre città italiane i militari della Guardia di Finanza eseguivano gli arresti dei sette indagati dell’inchiesta «T.Rex», tra cui l’ex presidente della Provincia di Taranto, Martino Tamburrano, nel comune di Sava l’attività investigativa delle fiamme gialle non si arrestava. Più o meno quando i destinatari delle misure restrittive entravano in carcere, due sottufficiali dello speciale corpo di polizia economica e finanziaria del comando provinciale di Taranto, facevano ingresso negli uffici municipali savesi dove acquisivano faldoni contenenti i verbali e tutta la corrispondenza relativa alla gara d’appalto per l’affidamento del servizio integrato di igiene urbana (raccolta porta a porta e conferimento della spazzatura) aggiudicata con un ribasso del 7,28% alla «Universal Service» della famiglia Lonoce di San Marzano di San Giuseppe, presunta dispensatrice di tangenti. I finanzieri, che si sono presentati su delega dei due pubblici ministeri titolari dell’inchiesta, il procuratore aggiunto Maurizio Carbone con il sostituto procuratore Enrico Bruschi, erano interessati a tutto il materiale della procedura di gara, gestita per conto del comune di Sava dalla stazione appaltante unica dell’Unione dei comuni di Montedoro, per un importo di 2.827.661 a base d’asta. Tra i documenti sequestrati, anche le determine dirigenziali di nomina dei componenti della commissione composta dall’ingegnere Federico Cangialosi (presidente), dal professore Mario Latronico (componente esperto) e da Cosimo Natuzzi, quest’ultimo tra gli arrestati dell’atro ieri. Secondo la magistratura, sulla gara aveva messo gli occhi l’imprenditore sanmarzanese Pasquale Lonoce, arrestato nel blitz con la figlia Rosalba (ai domiciliari), il quale avrebbe chiesto i «favori» dell’allora presidente della Provincia, Tamburrano. L’imprenditore Lonoce, incontrando il politico, come si legge nelle carte dell’inchiesta, faceva esplicito riferimento ai componenti della commissione dell’appalto di Sava e lo invitava ad attivarsi per contattarli per l’aggiudicazione. E «Tamburrano – scrive il gip Vilma Gilli che ha firmato le richieste cautelari -, per nulla stupito della richiesta, spiegava solo che l’unico ostacolo poteva essere che i due (commissari, NdR) si erano già impegnati per favorire altri dando per scontato che l’aggiudicazione non potesse prescindere da accordi illeciti e favoritismi». Una conversazione captata dalle cimici presenti nell’ufficio della presidenza della Provincia, registra quella che per gli investigatori è stata la pistola fumante che proverebbe l’aggiustamento della gara a favore dei Lonoce. Tamburrano si rivolge ad un interlocutore (secondo gli inquirenti il presidente della commissione di gara, Cangialosi): «io non ti ho chiamato per questo, ti ho chiamato per questo». Le cimici registrano il rumore dell’apparecchio distruggidocumenti elettrico. «Beh?», risponde l’uomo. E Tamburrano: «siete impegnati?». L’interlocutore risponde di no e chiede: «ma come sta a soldi?». Tamburrano non esita a rispondere: «benissimo … tiene i soldi veri, quelli veri!». Si sente una risata da parte dell’altro. Il dialogo prosegue con l’elencazione di date e si conclude con il presidente che si raccomanda: «acqua in bocca».Se per i finanzieri l’altro ieri era importante acquisire le carte di un’indagine che a quanto pare è solo agli inizi, per il sindaco di Sava, Dario Iaia, il dilemma era un altro: trovare una soluzione che assicurasse la raccolta dei rifiuti visto che il contratto con la Universal Service (destinato all’estinzione) sarebbe dovuto partire proprio quel giorno. La soluzione che offre serenità anche ai venti dipendenti è stata infine trovata grazie ad un’ordinanza contingibile e urgente firmata da Iaia che affida provvisoriamente il servizio alla società Igeco affidataria del precedente bando di gara.

 Tangenti gara d’appalto pilotata. Tamburrano, ex presidente della provincia jonica, lascia intendere che anche Dario IAIA “doveva essere accontentato”, scrive Giovanni Caforio il 19 marzo 2019 su Viva Voce. E’ questo che emerge nell’ordinanza delle misure cautelari del Tribunale di Taranto dell’Ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Leggendo questo atto pubblico, quasi 200 pagine, ci sono tantissime intercettazioni ambientali che vedono attori protagonisti, alcuni di loro già arrestati, che in modo spudorato e scriteriato parlano di tangenti e soldi che corrono come un fiume da una parte all’altra. Il primo è Martino Tamburrano, ex presidente della provincia jonica agli arresti, spregiudicato nel chiedere soldi all’azienda del sammarzanese Lonoce, azienda questa che tra l’altro ha “vinto” la gara d’appalto sulla raccolta differenziata nel nostro paese e che ora è nell’occhio del ciclone dei magistrati Carbone e Bruschi. Ci vorrebbero giornate intere a leggere, e ad ascoltare, le conversazioni di tutti gli arrestati e di moltissimi imputati che, a vario titolo, sono entrati in questa grande inchiesta condotta in modo certosino dalla Procura tarantina. Tornando a Tamburrano è da mettere in risalto la continua richiesta di denaro fatta, ed ottenuta, dalla ditta di Lonoce. Una Mercedes da 50mila euro, 5mila euro al mese a libro paga e quasi 250mila euro dati per la campagna elettorale alla moglie di Tamburrano, sempre da Lonoce, per sostenere la campagna elettorale della stessa che la vedeva candidata alle elezioni politiche dello scorso anno. Risultato, quest’ultimo della candidata? Trombata, politicamente s’intende! E il tema di questa mega inchiesta parte dalla discarica di Grottaglie, tristemente famosa per un inversimile accumulo di rifiuti che ha superato alla lunga i livelli di guardia. Ma andiamo A ciò che è riportato nelle intercettazioni telefoniche e che riguardano il nostro paese. Martino Tamburrano dice al telefono in una delle tantissime conversazioni con Lonoce: “E che dobbiamo fare mo, non la dobbiamo prendere Sava?”

Lonoce Pasquale rispondeva positivamente, asserendo: “Prendiamola”.

E questo era riferito alla gara d’appalto sulla raccolta differenziata fatta lo scorso anno dal nostro Comune.

Tamburrano precisava: “Dico a lui prendi una decina di carte e cammina, diglielo a quello di farlo, hai capito?”

Decina di carte che s’intendono 10mila euro. E nell’ordinanza delle misure cautelari viene specificato questo: “Significando verosimilmente l’intenzione di corrompere i componenti della Commissione di gara attraverso la dazione di una tangente di diecimila euro”. Infatti, i due componenti della Commissione comunale sulla gara d’appalto della raccolta differenziata sono stati di seguito arrestati. Dal carteggio dell’inchiesta emerge che “Tamburrano giungeva ad ipotizzare con Lonoce che anche il sindaco del Comune di Sava dovesse essere accontentato e nell’eventualità invitava Lonoce a provvedervi”. Per la cronaca: ieri mattina ci sono stati gli interrogatori degli arrestati e appena sapremo qualcosa terremo informati i nostri lettori.

Gara d’appalto pilotata. “Chiediamo un immediato Consiglio monotematico in cui il sindaco IAIA possa chiarire tutto”, scrive il 17 marzo 2019 Viva Voce. Nota stampa del Movimento Civico Uniti per Sava: Nei giorni scorsi, il Comune di SAVA è stato SCOSSO dalla VICENDA GIUDIZIARIA legata all’arresto, tra gli altri, di un ex PRESIDENTE della provincia di TARANTO e di un IMPRENDITORE del SETTORE della RACCOLTA e SMALTIMENTO dei RIFIUTI. L’impresa finita nell’occhio del CICLONE della magistratura inquirente è la UNIVERSALSERVICE, che si è aggiudicata la GARA indetta dal comune di SAVA per la #RACCOLTADIFFERENZIATA dei prossimi due anni. Il nuovo servizio, prima affidato alla IGECO, avrebbe dovuto prendere il via il 15 MARZO. E non sembra un caso che la MAGISTRATURA sia intervenuta il GIORNO PRIMA che iniziasse. All’ex presidente della provincia TAMBURRANO verrebbe contestato, tra gli altri reati, quello di avere “PILOTATO” la GARA indetta dal comune di SAVA in favore della UNIVERSAL SERVICE. Secondo gli INQUIRENTI, Tamburrano si sarebbe servito del PRESIDENTE e di un  MEMBRO della  COMMISSIONE AGGIUDICATRICE (pure loro agli arresti). La COMMISSIONE, composta da tre persone, fu nominata a suo tempo dal R.U.P. (Responsabile Unico del Procedimento) del SERVIZIO ECOLOGIA del comune di SAVA, dott.ssa Luigina Soloperto. Immediatamente dopo che la POLIZIA GIUDIZIARIA ha proceduto agli arresti, il Sindaco IAIA, forse perchè PRESSATO dagli ORGANI DI STAMPA, ma anche per provvedere alla SOSTITUZIONE della UNIVERSAL SERVICE con altra azienda – onde evitare vuoti nel servizio di RACCOLTA DIFFERENZIATA -, si è preoccupato di diffondere un COMUNICATO. In esso, il Sindaco manifesta STUPORE per l’accaduto, e preannuncia la COSTITUZONE di PARTE CIVILE da parte dell’Ente in qualità di parte LESA! A tale proposito, il MOVIMENTO CIVICO UNITIperSAVA, voce critica e sentinella dell’operato dell’Amministrazione Comunale di SAVA, – per la verità SEMPRE DISINVOLTA in tante operazioni di SPESA PUBBLICA -, NON RAVVISA IL CARATTERE DI PRIORITA’ con il quale il Sindaco IAIA si è affrettato a comunicare la possibilità per il comune di costituirsi parte civile. Piuttosto, UNITIperSAVA ritiene quanto mai NECESSARIO un INTERVENTO del PRIMO CITTADINO sulla PROPRIA POSIZIONE PERSONALE. Atteso che il suo nome compare nei colloqui tra gli arrestati, INTERCETTATI dalla polizia giudiziaria e DIFFUSI dagli INQUIRENTI, il primo ATTO DI RESPONSABILITA’ e di RISPETTO per i CITTADINI è di CHIARIRE. Conseguentemente, UNITIperSAVA auspica la CONVOCAZIONE con URGENZA di un CONSIGLIO COMUNALE MONOTEMATICO, nel quale il Sindaco possa riferire sull’accaduto.

Legislatura 18 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-00820. Pubblicato il 7 novembre 2018, nella seduta n. 55.

LOMUTI, CRUCIOLI, D'ANGELO, LANNUTTI, DI NICOLA - Al Ministro della giustizia. - Premesso che:

alcuni dei fatti riportati nella presente interrogazione sono stati già oggetto di precedenti atti di sindacato ispettivo della XVII Legislatura, 4-06370 e 4-06628, a prima firma del senatore Buccarella, dirette al Ministro pro tempore della giustizia, ai quali ci si riporta integralmente, tenendo conto che gli stessi non hanno mai ottenuto alcuna risposta;

inoltre, la questione che si intende sottoporre con il presente atto, fu evidenziata già dall'on. Zazzera (IDV) nel 2010 (AC 4-07339);

sul punto, un articolo della testata "TarantoBuonaSera" del 13 luglio 2016 riporta un allarmante quadro riferito alla circoscrizione del Tribunale di Taranto, nella quale ci sarebbero circa 750 case all'asta, con l'effetto inevitabile della perdita della propria abitazione per numerose famiglie;

per quanto riguarda il Tribunale di Taranto, nel corso degli ultimi anni, diversi cittadini hanno lamentato abusi e violazioni di legge da parte di magistrati chiamati a decidere le loro controversie, con grave nocumento per i loro diritti;

i suddetti atti di sindacato ispettivo, infatti, riportano casi emblematici di cittadini opponenti a procedimenti di esecuzione immobiliare che lamentano procedure anomale, se non illegittime, da parte degli organi decidenti e di loro ausiliari, appartenenti al Tribunale di Taranto;

in particolare, gli atti ispettivi citati riportavano i casi dei signori Montemurro, Provveduto, Bello, Spera, e dei coniugi Notarnicola;

le doglianze riguardano vendite a prezzo vile, mancato rispetto delle procedure, rigetto di ricorsi giuridicamente immotivati o con anomala repentinità, quasi inesistenza di turnazione dei magistrati che si occupano di aste, denunce (anche penali) inerenti a un vero e proprio "sistema" aste nel Tribunale tarantino, condotte discutibili o inclini a favorire le banche;

nell'atto 4-06628 veniva riportata la denuncia penale del signor Delli Santi, depositata presso la Questura di Taranto in data 23 settembre 2016 (inviata per conoscenza anche al Ministro pro tempore della giustizia), nella quale, premettendo il suo stato di fallito ed esecutato da ben 30 anni, avrebbe lamentato che presso il Tribunale di Taranto esistono meccanismi che creerebbero un sistema (da lui definito "criminale, consolidato ed efficace") finalizzato ad espropriare i falliti ed esecutati. Inoltre, nella denuncia, sarebbe stata evidenziata l'esistenza di una rete di collegamenti tra i tribunali di Taranto e Potenza, per cui, a suo dire, le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nel precedente atto di sindacato ispettivo 4-06370 in riguardo alla vicenda della signora Spera;

la gravità dei fatti è stata evidenziata anche dalla testata on line "Basilicata24" attraverso un articolo del 4 novembre 2016, che, descrivendo il sistema illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari, ha finanche prodotto un video di conversazione avvenuta presuntivamente nello studio di un curatore fallimentare, da cui si ricaverebbe che un ausiliario di un magistrato avrebbe richiesto all'imprenditore, per conto del magistrato, una somma di denaro di circa 20.000 euro per chiudere ogni questione, con tanto di fissazione di incontro successivo con il magistrato stesso presso il quarto piano del Tribunale di Taranto;

sempre la testata on line lucana, nelle date del 18 marzo 2017 e 20 marzo 2018, ha pubblicato due interviste all'avvocato Anna Maria Caramia, del foro di Taranto, simbolo delle denunce riportate nel presente atto di sindacato ispettivo riguardanti i tribunali di Taranto e Potenza, nelle quali, oltre a riportare alcuni dei casi già descritti, si evidenzia un'evoluzione in peius della situazione. Lo stesso legale sarebbe intervenuto più volte sulla non astensione dei magistrati tarantini delle sezioni esecuzioni e fallimenti nei casi di amicizie o inimicizie, nonché sulle trattazioni anche in altre fasi dello stesso magistrato che si era già occupato della questione in giudizi e gradi aventi ad oggetto le stesse questioni. Consta agli interroganti che l'avvocato Anna Maria Caramia sia destinataria di due esposti all'ordine degli avvocati su istanza del presidente del Tribunale di Taranto e del presidente dell'ordine degli avvocati. Ella ha motivo di ritenere che le suddette azioni siano frutto della volontà di impedirle di continuare la propria azione a difesa dei vessati da parte del tribunale;

considerato che, a giudizio degli interroganti:

dai fatti esposti si evincerebbero importanti anomalie occorse nell'ambito delle procedure fallimentari e di esecuzione immobiliare presso il Tribunale di Taranto, così come per la chiusura della magistratura potentina competente a valutare gli esposti presentati contro i colleghi tarantini;

purtroppo, nel nostro Paese, si registra un importante numero di omicidi-suicidi dovuti alla crisi ed alla facilità con cui viene tolta ai cittadini la prima casa, con la conseguenza di spingere anche le persone anziane a covare e a realizzare azioni estreme;

a giudizio degli interroganti, tali anomalie, impongono che sia disposta un'ispezione, senza ritardo, presso gli organi di giustizia che abbiano trattato le questioni evidenziate, in particolare presso il Tribunale e la Procura di Taranto, sezione distaccata della Corte di appello di Taranto e presso il Tribunale e la Procura di Potenza,

si chiede di sapere se ricorrano i motivi per intraprendere le opportune iniziative ispettive previste dall'ordinamento presso gli organi deputati all'applicazione del diritto e al funzionamento della giustizia nel tarantino e nel potentino, con particolare riferimento al Tribunale di Taranto, alla Procura di Taranto, alla sezione distaccata di Taranto della Corte di appello, al Tribunale di Potenza e alla Procura di Potenza, onde verificare se quanto lamentato dai soggetti coinvolti corrisponda al vero e, in caso di verifica positiva, se non ricorrano le condizioni di adozione di necessari provvedimenti a tutela delle parti e del corretto esercizio della funzione giurisdizionale.

·         Processo Ilva ed i soliti noti.

La Procura di Taranto smentisce l'ambientalista Angelo Bonelli. Il Corriere del Giorno il 4 Luglio 2019. Il comunicato stampa ricostruisce la verità di quanto accaduto sul presunto coinvolgimento dell’ Avv. Amara nel confronto intercorso tra la Procura Taranto e la struttura commissariale di ILVA in amministrazione straordinaria, con dovizia di particolari e testimoniante sicuramente attendibili e smentisce l’esponente dei Verdi, Angelo Bonelli, ripetutamente “trombato” dagli elettori alle elezioni regionali nel Lazio e politiche a Taranto, il quale non contento, ancora una volta ha perso una buona occasione per tacere parlando a sproposito e per sentito dire dai suoi “adepti” locali . Con un comunicato stampa firmato dal Procuratore Capo di Taranto Carlo Maria Capristo in serata è stato smentito quanto dichiarato dall’ex consigliere comunale di Taranto Angelo Bonelli (ripetutamente “trombato” dagli elettori alle elezioni regionali nel Lazio e politiche a Taranto) sul presunto coinvolgimento dell’ Avv. Amara nel confronto intercorso tra la Procura Taranto e la struttura commissariale di Ilva in amministrazione straordinaria, richiamato nel comunicato stampa a firma dell’esponente dei Verdi. “Si rendono doverose alcune precisazioni per correttezza di informazione. Come risulta in atti, l’ Avv. Amara non ha mai ricevuto alcun incarico per il procedimento penale “Ambiente Svenduto“, né tanto meno per la specifica vicenda del patteggiamento di Ilva in as, quale Ente incolpato ai sensi del dlgs231/2001. Il suddetto legale, quale mero consulente – di supporto alla struttura commissariale- in materia ambientale, rappresentata dal Prof. Laghi, ha preso parte soltanto a n.3 dei n.26 incontri collegiali sul tema, limitandosi esclusivamente a presenziare al confronto“. “La Procura è sempre stata rappresentata da tutti i componenti del pool che seguiva il processo ambiente svenduto composto dal Procuratore Capo, dal Procuratore Aggiunto Argentino (all’epoca dei fatti, poi trasferitosi a Matera – n.d.r. ) sostituti procuratori dott.ri Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile (trasferita a Lecce– n.d.r. ), Remo Epifani, Raffaele Graziano”  Il comunicato continua: “In occasione dell’ incontro avvenuto 24 ottobre 2016, hanno presenziato anche il Procuratore Capo di Milano dr. Francesco Greco ed i Sostituti Mauro Clerici e Stefano Civardi, in ragione delle connessioni sostanziali e processuali intercorrenti con i procedimenti pendenti presso il Tribunale di Milano a carico della famiglia Riva (Bancarotta Ilva)” . “La struttura commissariale di Ilva è sempre stata rappresentata dal difensore e procuratore speciale Avv. Angelo Loreto ( a lato nella foto n.d.r.), materiale estensore e sottoscrittore dell’istanza di patteggiamento verso la quale è stato prestato il consenso della Procura. Avverso ordinanza di rigetto del patteggiamento è stato proposto dalla struttura commissariale Ilva ricorso per Cassazione. La Suprema Corte, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso, ha riconosciuto la fondatezza dei vizi di legittimità dell’ordinanza stessa, che potrebbe quindi essere impugnata al termine del processo di primo grado” conclude il comunicato che ricostruisce la verità di quanto accaduto con dovizia di particolari e testimoniante sicuramente attendibili e smentisce Angelo Bonelli, che ancora una volta ha perso una buona occasione per tacere parlando a sproposito e per sentito dire dai suoi “adepti” locali. Angelo Bonelli nella sua palese “ignoranza” in materia giudiziaria, aveva richiesto nel pomeriggio con un suo comunicato stampa (che il CSM ha letteralmente ignorato) che “il Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbe con celerità intervenire e sospendere dalle funzioni il procuratore capo della repubblica di Taranto dr. Carlo Maria Capristo ed accertare che rapporti c’erano tra il procuratore e l’avvocato Amara nella vicenda Ilva“. Forse è il caso che qualcuno spieghi a Bonelli che non si rimuove un procuratore capo soltanto perchè iscritto nel registro degli indagati, che peraltro è un atto dovuto e di garanzia nei confronti dell’indagato secondo quanto previsto per Legge e dal Codice Penale . Ben altra cosa è essere rinviato a giudizio o imputato in un processo. Trattasi quindi, come dicevamo, di “ignoranza giudiziaria“. Che spiega anche come mai il signor Angelo Bonelli da 10 anni a questa parte si candidi inutilmente dappertutto con chiunque senza successo. Infatti, la legge non ammette ignoranza…!

Ex Ilva, Fabio Riva assolto da accusa di bancarotta. Per il giudice Lidia Castellucci il fatto non sussiste. La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Luglio 2019. Fabio Riva, uno dei componenti della famiglia ex proprietaria dell’Ilva di Taranto, è stato assolto oggi dal gup di Milano Lidia Castellucci nel processo con rito abbreviato e con al centro due accuse di bancarotta per il crac della holding che controllava il gruppo siderurgico. «Il fatto non sussiste», ha stabilito il giudice assolvendo l'imputato, che era assistito dall’avvocato Salvatore. Nell’ottobre del 2017 Fabio Riva, difeso nel processo abbreviato anche dal legale Gian Paolo Del Sasso, e il fratello Nicola Riva si erano visti respingere dall’allora gup Chiara Valori la richiesta di patteggiamento (rispettivamente a 5 e a 2 anni), concordata con la Procura, nell’ambito del filone di indagine principale dell’inchiesta milanese sulla bancarotta, ritenendo la pena «incongrua». La prima bocciatura da parte di un altro giudice risaliva al febbraio del 2017. Nel febbraio 2018, poi, Nicola Riva aveva patteggiato 3 anni, mentre Fabio aveva scelto la strada dell’abbreviato (la Procura nel processo aveva chiesto una condanna a più di 5 anni). In precedenza, invece, nel maggio del 2017 aveva patteggiato 2 anni e mezzo Adriano Riva, fratello di Emilio, l’ex patron del colosso siderurgico scomparso nel 2014, firmando anche la transazione di rinuncia a quegli 1,1 miliardi sequestrati nell’inchiesta sul crac della holding che controllava l’Ilva. Somma che, con l’aggiunta di altri 230 milioni versati dalla famiglia, è stata poi destinata in gran parte per la bonifica ambientale dell’area su cui sorge lo stabilimento tarantino. A inizio 2017, tra l’altro, il gip Maria Vicidomini aveva bocciato sia le istanze dei Riva sulle pene ritenute troppo basse (tra i 2 e i 5 anni) che l’intesa con cui i Riva avevano dato l’assenso a far rientrare in Italia gli 1,33 miliardi di euro per metterli a disposizione della bonifica ambientale dello stabilimento tarantino. Intesa che poi, però, si era sbloccata di fronte a un altro giudice.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 6 luglio 2019. Stessa imputazione di bancarotta dell' Ilva della famiglia Riva ex proprietaria dell' acciaieria di Taranto, medesimi gli atti raccolti dalla Procura di Milano, identico il contesto nel quale negli ultimi tre anni il fratello e due figli dello scomparso patron Emilio Riva avevano più volte chiesto di patteggiare la pena: perciò ieri sorprende l' abissalmente opposto esito. L' ex presidente del gruppo Fabio Riva, che in precedenza si era visto respingere un patteggiamento ritenuto da altri giudici troppo basso intorno ai 5 anni, e per il quale la Procura chiedeva una condanna analoga, è stato assolto nel rito abbreviato dalla gip Lidia Castellucci «perché il fatto non sussiste»: e quindi perché a non sussistere è proprio quella bancarotta Ilva per la quale lo zio e il fratello di Fabio Riva, cioè Adriano e Nicola, avevano invece già patteggiato rispettivamente 2 anni e mezzo nel maggio 2017 e 3 anni nel febbraio 2018. Il contrasto di giudicati sulla bancarotta Ilva, ove dovesse cristallizzarsi nei futuri gradi di Appello e Cassazione l' assoluzione di Fabio Riva che la Procura impugnerà sicuramente, determinerebbe per Nicola Riva la possibilità di ottenere la revisione e dunque l' annullamento del proprio patteggiamento (un po' come qualche mese fa è avvenuto per Giulia Ligresti nel processo Fonsai dopo l' assoluzione dei coimputati per insussistenza della medesima accusa da lei patteggiata). Per Adriano Riva ciò non è più possibile perché è morto poche settimane fa, mentre è prevedibile che la Procura a questo punto chieda l' archiviazione dei residui coindagati dei Riva. La sentenza non avrà invece ripercussioni sulla mostruosa cifra (1 miliardo e 100 milioni, più poi altri 230) sequestrata nel 2013 dal gip milanese Fabrizio D' Arcangelo in trust dell' isola di Jersey in una inchiesta dei pm Stefano Civardi e Mauro Clerici sugli «scudi fiscali» operati dalla famiglia Riva, somma che proprio Adriano Riva aveva messo sul piatto della sua richiesta di patteggiamento e che poi è andata a finanziare la bonifica ambientale dell' area su cui sorge lo stabilimento tarantino ceduto intanto agli indiani di Arcelor: quei soldi, infatti, restano lì perché, oltre ad essere vincolati nella transazione da una specifica normativa che escludeva l' impatto di futuribili assoluzioni, furono comunque sequestrati per un titolo di reato diverso dalla bancarotta giudicata ieri, e cioè per «trasferimento fraudolento di valori». Comprensibile la soddisfazione dei difensori Giampaolo Del Sasso e Salvatore Scuto: infatti per Fabio Riva, presente in aula, non si aggrava così la posizione giudiziaria che lo vede in questo momento scontare in detenzione domiciliare una condanna definitiva a 6 anni e 3 mesi, per associazione a delinquere e truffa ai danni dello Stato, in relazione all' indebita percezione societaria nel 2008-2013 di 100 milioni di euro di contributi della «legge Ossola» alle imprese che esportavano.

Mister Ilva alla sbarra per nulla. Nicola Porro, Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. Ieri Fabio Riva, uno dei componenti della famiglia a cui hanno scippato l'Ilva di Taranto, è stato assolto da un coraggioso giudice, Lidia Castellucci, a Milano. L'accusa era quella di bancarotta per il crac della holding che controllava l'impianto siderurgico. Il giudice Castellucci ha stabilito che «il fatto non sussiste». Conviene fare un passo indietro e ricordare l'ubriacatura giudiziaria che investì la famiglia e che portò all'espropriazione dell'azienda, nell'assordante silenzio generale, compresa la Confindustria di Emma Marcegaglia, all'arresto dei componenti della famiglia, al commissariamento dell'Ilva, alla sua conseguente insolvenza e alla svendita a un gruppo straniero, che è cronaca di questi giorni. Nel luglio del 2012 i Riva vennero arrestati e gli impianti sequestrati per l'ipotesi di disastro ambientale, ancora tutta da dimostrare: anzi, la relazione tecnica con la quale si procedette è tutta in discussione. Dopo un anno l'azienda fu commissariata e, secondo le valutazioni ufficiali dell'epoca, era dotata di un patrimonio netto di 4 miliardi di euro. Con la gestione commissariale la produzione fu dimezzata, le perdite si aggirarono tra i 50 e gli 80 milioni al mese e il patrimonio, nel giro di pochi mesi, fu bruciato. All'inizio del 2015 il Tribunale di Milano decretò l'insolvenza della società: fallita. E qui arriviamo al filone milanese che completa l'accerchiamento giudiziario. Incredibilmente i Riva, estromessi dal luglio del 2012 dall'azienda (arrestarono persino il direttore di stabilimento), commissariata dal giugno del 2013 e dichiarata insolvente nel 2015, furono accusati di aver mandato a carte all'aria un'azienda che non guidavano più da anni e che con loro, al contrario, prosperava. Roba da pazzi. Il punto delicato è che i Riva, a cui avevano tolto tutto, libertà, dignità e altiforni, continuavano ad avere una parte dei loro affari che andavano alla grandissima: i forni elettrici. Che non hanno nulla a che vedere con Taranto. Con quattro miliardi di fatturato, sono un gioiellino che ancora resiste. Ebbene, l'inchiesta di Milano rischiava di contagiare anche la parte buona delle loro attività: non che Taranto sia la cattiva, ma per l'universo mondo, oggi come allora, sembra un disastro. Ecco perché nel 2017 i fratelli Riva, Nicola e Fabio, chinano la testa e, con l'accordo della procura di Milano, mettono sul piatto più di un miliardo di euro chiedendo di patteggiare. Un prezzo caro per guadagnarsi la libertà di poter continuare a fare affari. Ma non fanno i conti con la furia giustizialista. Nonostante l'accordo sia stato fatto con la Procura, i giudici non ci stanno e sostengono che il patteggiamento per bancarotta richiesto da Fabio prevede una pena «incongrua»: cioè i due anni di pena previsti non bastano ai giudici, sono troppo pochi. D'altronde i Riva vengono definiti «criminali abituali». E così arriviamo a ieri. Ad un altro giudice che, riguardo a quella accusa di bancarotta, si legge le carte. E probabilmente vede l'impossibilità di condannare qualcuno per un'ipotesi di reato commesso in un'azienda che non guida più da anni. La Castellucci decide dunque che il «fatto non sussiste». Grazie a questa sentenza anche Nicola, uno dei due fratelli che nel frattempo ottiene un patteggiamento, potrà rivedere la sentenza. E si potrà mettere la parola fine su una delle accuse più incredibili di questi anni. Hanno accusato i Riva, a cui da anni avevano sottratto l'azienda, di averla fatta fallire. Due dei perseguitati sono morti e mai sapranno che giustizia terrena è stata fatta. Val la pena fare un'ultima considerazione generale sul patteggiamento. Molti imprenditori, e non solo, utilizzano questo strumento. Non già perché si sentano colpevoli, ma per ridurre il danno di una macchina infernale che si chiama giustizia penale. E che quando in questo Paese si salda con la cattiva informazione, diventa una morsa da cui conviene uscire prima possibile: meglio il metadone dell'eroina? Non sempre. Ai Riva è stato negato il metadone e da soli, almeno in questa storia, ne sono usciti puliti.

Ilva: che fine ha fatto il miliardo sequestrato ai Riva. Pubblicato martedì, 18 giugno 2019 da Michelangelo Borrillo e Milena Gabanelli su Corriere.it. Tornando ai conti: in cassa sono rimasti circa 450 milioni, né allocati né spesi. Dovrebbero essere destinati ad altri interventi di bonifica dell’area Ilva, che però sono attualmente sotto sequestro, come quelle delle discariche adiacenti alla gravina Leucaspide, alla Cava Mater Gratiae e quella delle collinette che separano l’acciaieria dal quartiere Tamburi. Che, da «ecologiche» — avrebbero dovuto preservare il quartiere dall’inquinamento dell’acciaieria — si sono trasformate in altre discariche, così inquinate che i ragazzi iscritti alle vicine scuole «De Carolis» e «Deledda» nell’ultimo anno scolastico hanno dovuto frequentare le lezioni in aule di altri istituti. Un paradosso, visto che si tratta di due scuole (su un totale di 5) rimesse a norma, nel 2016, con 9 milioni di euro di un’altra bonifica, quella dell’area Sin (Sito di interesse nazionale) di cui è commissario dal 2014 Vera Corbelli. Considerando che per le aree sequestrate ogni intervento andrà pensato di concerto con l’autorità giudiziaria, con i 450 milioni da allocare, per ora i nuovi commissari potranno fare ben poco. Per questo c’è il timore che possano essere dirottati altrove, nonostante una norma li vincoli al risanamento di Taranto. Perché una legge (la 123 dell’agosto 2017) può essere superata da un’altra, se il governo lo volesse per decreto. L’inquinamento di Taranto non riguarda solo l’aerea ex Ilva. Come dimostra anche la bonifica dell’area Sin, individuata nel 2000, quando si prese atto che le industrie del Novecento — da quelle belliche delle due guerre mondiali, fino alle cementerie, alle raffinerie e all’acciaieria — non avevano la stessa coscienza ambientale di oggi. E inquinavano. Con tutte le conseguenze nefaste del caso: nell’arco di 14 anni, dal 2002 al 2015, nel Sin di Taranto sono nati 600 bambini malformati e si sono registrati oltre 40 tumori in età pediatrica e nel primo anno di vita, come emerge dall’aggiornamento dello studio epidemiologico Sentieri. Con questi dati, si capisce perché il nuovo ospedale da 715 posti letto su 6 piani, non solo è uno degli investimenti più rilevanti del Contratto istituzionale di sviluppo per l’area di Taranto, ma è un simbolo per la città dell’acciaio. Stanziati i 200 milioni: il progetto risale al 2012, il bando per la costruzione al 2018. In questo contesto confuso, nelle scorse settimane sono emerse altre due variabili. La prima è politico-istituzionale: il ministero dell’Ambiente ha infatti deciso di modificare le prescrizioni anti-inquinamento per l’acciaieria ArcelorMittal Italia, firmando un decreto per riesaminare l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). Cosa cambierà? Per ora non si sa. Il ministro Sergio Costa (M5S) si è limitato a far sapere che «si procederà eventualmente fissando più adeguate condizioni di esercizio». Eventualmente. Ma l’incertezza non piace ad ArcelorMittal. «Abbiamo preso un impegno — ha dichiarato l’ ad Matthieu Jehl — e fatto un contratto con Ilva con un certo quadro di leggi. Dobbiamo andare avanti con la certezza che questo quadro c’è». Il quadro, però, lo sta modificando anche ArcelorMittal. E qui interviene la seconda variabile, quella industriale. Il gruppo guidato dalla famiglia indiana Mittal, infatti, a meno di dieci mesi dall’accordo ha deciso per lo stabilimento di Taranto di dar via alla cassa integrazione. A causa della crisi di mercato.

Ilva, processo per disastro ambientale a Taranto, è il giorno di Vendola. L'ex governatore ha respinto ogni ipotesi di atteggiamento morbido nei confronti dell’ex proprietà dello stabilimento siderurgico, scrive il 27 Febbraio 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. È in corso dinanzi alla Corte d’assise di Taranto l’interrogatorio di Nichi Vendola, ex presidente della Regione Puglia, tra i 47 imputati (44 persone fisiche e tre società) del processo per il presunto disastro ambientale causato dall’Ilva. Risponde di concussione aggravata in concorso per presunte pressioni sull'Arpa (l'Agenzia regionale per l’ambiente) in favore dell’Ilva. L’ex governatore ha respinto ogni ipotesi di atteggiamento morbido nei confronti dell’ex proprietà dello stabilimento siderurgico e ha aggiunto di non aver mai pensato di non confermare l’ex direttore generale di Arpa Puglia Giorgio Assennato, così come sostenuto dall’accusa. Vendola ha poi sostenuto che, durante il suo mandato, la Regione ha prodotto leggi regionali all’avanguardia per il contrasto dell’inquinamento ambientale a Taranto. I fatti contestati all’ex governatore pugliese risalgono al periodo compreso tra il 22 giugno 2010 e il 28 marzo 2011. Tra gli imputati ci sono Fabio e Nicola Riva, componenti della famiglia che era proprietaria dello stabilimento, accusati insieme con dirigenti ed ex «fiduciari» di associazione per delinquere, disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. A giudizio anche politici e dirigenti ministeriali.

Vendola ai giudici di Taranto: "Ilva unica colpevole dell'inquinamento", scrive il 27 Febbraio 2019 Il Corriere del Giorno. L’ex governatore pugliese Nichi Vendola oggi a Taranto sul banco degli imputati accusato di concussione nel processo “Ambiente Svenduto”. Per la procura di Taranto avrebbe esercitato pressioni sull’Arpa per ammorbidire i rilievi e le relazioni sull’attivita ispettiva condotta nei confronti della proprietà e dirigenti dello stabilimento ILVA di Taranto.  Si è svolto oggi dinanzi alla Corte d’assise di Taranto l’interrogatorio di Nichi Vendola, l’ex presidente della Regione Puglia, seduto sul banco dei 47 imputati del processo, responsabili secondo i magistrati di Taranto per il presunto disastro ambientale dell’Ilva. Vendola è accusato di concussione aggravata in concorso per presunte pressioni sull’ Agenzia regionale per l’ambiente (ArpaPuglia) in favore dell’Ilva. Fatti che risalgono al periodo compreso tra il 22 giugno 2010 e il 28 marzo 2011. L’ex governatore pugliese ha declinato ogni responsabilità ipotizzata dall’accusa di aver assunto un atteggiamento “morbido” nei confronti dell’ex proprietà dello stabilimento siderurgico, ed ha precisato di non aver mai pensato di non voler confermare l’ex direttore generale di Arpa Puglia Giorgio Assennato, e tantomeno di voler  “ammorbidire” i rilievi e le relazioni sull’attività ispettiva condotta nei confronti dell’Ilva, come invece sostenuto dalla procura tarantina, che in questo processo, udienza dopo udienza sta vendendo sgretolarsi il proprio castello accusatorio. Accuse queste che Vendola ha nettamente respinto, e   ricordato rispondendo alle domande del pm Remo Epifani, di aver voluto lui sia il rilancio dell’Arpa che l’insediamento di Assennato proprio per tenere sotto controllo in modo efficace le questioni ambientali. Vendola è stato interrogato sia da due avvocati delle parti civili che dal suo stesso avvocato di fiducia. Quella dell’Iva non è l’unica disavventura giudiziaria per Vendola. Infatti nel 2009, venne indagato con l’accusa di aver esercitato pressioni per ottenere le nomine di alcuni dirigenti della sanità pugliese, venendo prosciolto dal Giudice per le Udienze Preliminari che ritenne che non vi fossero profili “penalmente rilevanti”. Vendola ha aggiunto che, nel corso del suo mandato di Governatore, la Regione ha prodotto leggi regionali all’avanguardia per il contrasto dell’inquinamento ambientale a Taranto.  Nel processo è coinvolto anche un assessore di Vendola, Nicola Fratoianni, attuale deputato, che è accusato di “favoreggiamento”. Secondo l’accusa, Fratoianni avrebbe fornito ai magistrati una versione dei fatti favorevole a Vendola, per nascondere le sue responsabilità; contestazione per la quale risponde in giudizio anche l’ex dg di Arpa Puglia, Assennato. L’ onorevole Fratoianni verrà sottoposto ad interrogatorio nell’udienza del prossimo 4 marzo ed Assennato il giorno dopo, il 5 di marzo.

"Traditori, vergogna, siete morti a Taranto!": pesante contestazione ai deputati del M5S eletti a Taranto, scrive il 17 Febbraio 2019 Il Corriere del Giorno. Per riportare la calma è dovuta intervenire la Digos. I contestatori hanno manifestato la loro delusione soprattutto per la “questione Ilva”, ricordando che i candidati al Parlamento in campagna elettorale avevano fatto il pieno di voti promettendo ed assicurando la chiusura dello stabilimento siderurgico e la riconversione industriale. Dura contestazione da parte di un gruppo di cittadini e ambientalisti oggi a Taranto nei confronti di alcuni deputati del M5S, presenti a Taranto per presentare il Reddito di Cittadinanza, la Pensione di Cittadinanza, Quota 100 e le altre misure varate dal governo M5s-Lega. Al tavolo erano presenti i deputati tarantini Giovanni Vianello e Gianpaolo Cassese e la barese Anna Macina, portavoce del M5S alla Camera e Membro della I Commissione (Affari costituzionali). Per riportare la calma è dovuta intervenire la Digos. I contestatori hanno manifestato la loro delusione soprattutto per la “questione Ilva”, ricordando che i candidati al Parlamento in campagna elettorale avevano fatto il pieno di voti promettendo ed assicurando la chiusura dello stabilimento siderurgico e la riconversione industriale. “Ci avete preso in giro tutti – hanno urlato i manifestanti – Siete venuti a parlare di chiusura davanti alla fabbrica. Poi vi siete alleati con Salvini e dite che è colpa del Pd se la fabbrica continua a produrre. Siete spariti da Taranto e ora sparirete anche da Roma”. Alla contestazione hanno partecipato anche i soliti attivisti del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, i quali avevano sostenuto nel marzo/giugno 2017 la candidatura dei due consiglieri comunali (Nevoli e Battista) eletti nella lista del Movimento Cinque Stelle. Massimo Battista, operaio Ilva, attivista dei Liberi e Pensanti lo scorso 11 settembre ha lasciato il movimento dichiarandosi indipendente in consiglio comunale a Taranto, in aperta polemica con il vicepremier Di Maio sulla questione Ilva. L’altro consigliere eletto, il candidato sindaco Francesco Nevoli, nei giorni scorsi si è dimesso dalla carica di consigliere comunale e dal movimento. Gli subentrerà Rita Corvace, anche lei attivista dei Liberi e Pensanti, che è da tempo in rotta con i Cinque Stelle. La Corvace si dichiarerà indipendente, e quindi il M5S non avrà più alcun rappresentante nel Consiglio comunale di Taranto, pur esprimendo cinque parlamentari e un’eurodeputata. A questo punti, lecito chiedersi se verranno nuovamente rieletti a Taranto e provincia. Abbiamo più di qualche dubbio

Sull'Ilva di Taranto l'ultima giravolta dei Cinque Stelle: "Inquinamento? Inutile allarmismo". Il movimento di Di Maio aveva superato il 50 per cento dei consensi promettendo la chiusura dello stabilimento. Ma il siderurgico è al suo posto, e ora è “costruito ad arte” anche il rischio inquinamento, scrive Paolo Russo l'11 aprile 2019 su La Repubblica. "Non voglio essere negazionista perché rimango coerente con la posizione di sempre, estremamente critica nei confronti del siderurgico che ad oggi non ha ancora dimostrato di non essere un rischio per la salute". Ma le relazioni di Arpa e Asl consegnate al sindaco di Taranto "confermano che c'è stato un inutile allarmismo scatenato a tavolino". Lo sostiene il deputato tarantino Giovanni Vianello (M5S). A Taranto il movimento di Di Maio aveva superato il 50 per cento dei consensi alle ultime elezioni promettendo la chiusura dello stabilimento. Ma il siderurgico è al suo posto, e ora è “costruito ad arte” anche il rischio inquinamento. Una dichiarazione che segue di poche settimane la marcia per i bambini morti di tumore. E l'ultima relazione sull'aumento di diossina nel latte materno. Vianello aggiunge che spesso "ci si addentra in un contesto privo di qualsiasi aderenza scientifica, caratterizzato dalla presenza di politici che creano preoccupazione fra le persone e da pseudo ambientalisti fortemente politicizzati e interessati a primeggiare contro la forza politica di turno, i quali proprio per questo fomentano l'allarmismo, confondono la cittadinanza e intercedono nello sviluppo di un'opinione pubblica disinformata e a caccia di scoop inesistenti". Secondo Vianello, "siamo di fronte a un vero e proprio disagio sociale che da troppe settimane tiene sotto scacco la città di Taranto e la sua amministrazione: gli ultimi report di Asl e di Arpa in mio possesso - conclude - sono chiari ed escludono qualsiasi tipo di situazione d'emergenza, sia dal punto di vista ambientale che sanitario, del resto non si possono chiudere gli occhi davanti a 60 anni di inquinamento selvaggio". Anche su Tap e Xylella, per rimanere in Puglia, il movimento di Di Maio aveva rapidamente cambiato posizione dopo il voto e le promesse. La malattia che uccide gli ulivi è passata da “bufala” a “ecatombe da fermare”.

Taranto: c'era una volta il M5S....Scrive il 23 Aprile 2019 Il Corriere del Giorno. Una evoluzione impensabile un anno fa quando i leader grillini arrivavano a Taranto osannati dalla gente, a cui avevano promesso e garantito non solo il reddito di cittadinanza ma anche la chiusura dello stabilimento siderurgico ex-ILVA ora ArcelorMittal. Incredibile ma vero. Per motivi di sicurezza collegati all’arrivo nel capoluogo jonico del vicepremier Luigi Di Maio , nonchè ministro dello sviluppo economico e del lavoro, e leader politico del Movimento 5 Stelle, che arriva domani mercoledì 24 aprile a Taranto, accompagnato dei ministri Barbara Lezzi (Ministro del Sud), Giulia Grillo (Ministro della Salute), Sergio Costa (Ministro dell’ Ambiente) e Alberto Bonisoli (Ministro dei Beni culturali) per presenziare al Tavolo istituzionale per il  Cis (Contratto istituzionale di sviluppo), addirittura sono stati deviati addirittura i percorsi degli autobus cittadini ! Una evoluzione impensabile un anno fa quando i leader grillini arrivavano a Taranto osannati dalla gente, a cui avevano promesso e garantito non solo il reddito di cittadinanza ma anche la chiusura dello stabilimento siderurgico ex-ILVA ora ArcelorMittal. Il Contratto di sviluppo per l’area di Taranto che comprende anche i Comuni di Statte, Crispiano, Massafra e Montemesola, inizialmente stipulato per 33 interventi, ne comprende oggi 39 per un valore di poco superiore al miliardo di euro (+16,5% rispetto alla dotazione finanziaria iniziale). Invitalia ha fornito anche un quadro riassuntivo ad oggi del Cis che comprende  10 interventi conclusi per un valore di 92,3 milioni di euro; 9 interventi in fase di realizzazione per un valore di 452 milioni di euro; 10 interventi in progettazione per un valore di 357 milioni di euro e 10 interventi in riprogrammazione per un valore di 105 milioni di euro. Tutti investimenti pianificati e finanziati in realtà dai precedenti governi Renzi-Gentiloni. Di Maio ha fatto sapere che incontrerà le associazioni ambientaliste che hanno annunciato una protesta con presidio davanti alla Prefettura, che faranno seguito alle precedenti contestazioni nei confronti degli esponenti grillini accusati di non aver rispettato le promesse sull’ex Ilva. ha convocato per il primo pomeriggio, in un incontro specifico alle 14.30, anche 23 tra associazioni, comitati e movimenti, compresi i gruppi che chiedono la chiusura dello stabilimento siderurgico.  Sono stati invitati le associazioni Ail, Abfo Taranto, Associazione contro le barriere, Attiva Lizzano, Comitato Art.32 Statte, Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, Comitato No inceneritore Massafra, Contramianto onlus, Fondo Antidiossina, Genitori Tarantini,  Giustizia per Taranto, Isde Taranto, Legamjonici,  Peacelink, Piano Taranto, Tuttamialacittà,  Tamburi Combattenti,  , Wwf Taranto, Legambiente, Lega Tumori, Taranto Lider, Tribunale Diritti del Malato, Vigiliamo per la discarica. Alcune di queste associazioni ha annunciato a partire dalle 10.30,  un sit-in sotto la Prefettura, allorquando comincerà la riunione del Cis . Questi attivisti hanno annunciato tramite socialnetwork ed i soliti comunicati, che scenderanno “in piazza contro le politiche di Di Maio e di tutto il governo giallo-verde che, come quelli precedenti, ha deciso di immolare la nostra città in nome della produzione a danno della salute, e che vede, fra gli altri scempi, la Lega fra gli investitori di ArcelorMittal”. Legambiente con una nota ha reso nota la sua posizione:  “Ribadiamo al Ministro Di Maio la richiesta già due volte formalizzata circa la assoluta necessità che si proceda al più presto, e con i provvedimenti normativi più rapidi, come potrebbe essere un decreto legge, ad istituire la Viias (Valutazione integrata impatto ambientale e sanitario) per lo stabilimento siderurgico di Taranto”. L’associazione chiede inoltre a Di Maio “di sollecitare gli Amministratori Straordinari di Ilva spa a dare una informazione dettagliata e completa sullo stato delle bonifiche e sull’utilizzo delle risorse messe loro a disposizione, e che si proceda rapidamente ad istituire e mettere a disposizione di tutti i cittadini un portale in cui vengano indicati, prescrizione per prescrizione, in maniera chiara e di facile lettura, gli interventi previsti, le scadenze, i risultati”. Legambiente chiede sulla  nota vicenda della discutibile “immunità penale”, “che in Parlamento si adottino provvedimenti che ne definiscano dettagliatamente l’ambito e che la circoscrivano unicamente alla stretta esecuzione delle opere previste nell’Aia e nel Piano Ambientale” e “di affrontare il tema dei risarcimenti della città e dei cittadini di Taranto” e riguardo al Cis, “che si proceda al più presto a finanziare le opere previste per la città vecchia e ad accelerare le bonifiche del Mar Piccolo e quelle previste dall’applicazione dell’Aia del 2011 per garantire l’approvvigionamento di acqua dello stabilimento siderurgico utilizzando, invece che acqua potabile, i reflui affinati provenienti dagli impianti di depurazione, oltre alle opere per la creazione del polo museale dell’Arsenale“. Resta da chiedersi a che titolo, con quali competenze, e sopratutto con quali ruoli riconosciuti legalmente queste associazioni possano confrontarsi con le Autorità dello Stato, e sindacare sull’operato di Arcelor Mittal, che è bene ricordare, è una società privata, che ha investito sullo stabilimento siderurgico italiana, circa 5 miliardi di euro, garantendo l’attività industriale ed occupazionale del più grande stabilimento siderurgico d’ Europa. Nel frattempo la Commissione europea ha acceso “semaforo verde” al gruppo Liberty House ritenendolo idoneo acquirente degli impianti siderurgici ArcelorMittal, ceduti da quest’ultima, nell’ambito degli impegni assunti da ArcelorMittal con l’ Antitrust europea per rilevare il Gruppo  Ilva in base alle norme comunitarie sulle concentrazioni. Nel maggio dello scorso anno infatti l’ Antitrust europea aveva autorizzato  l’acquisizione di ArcelorMittal, del gruppo Ilva a determinate condizioni, obbligandola a cedere alcuni di impianti di acciaieria ubicati in Europa ad un acquirente solido. Tra i beni alienati vi sono  sono impianti di produzione in alcuni siti europei, tra i quali: un’acciaieria in Romania a Galati, una in Cechia ad Ostrava,  ed impianti di finitura in  Belgio, Italia, Lussemburgo e Macedonia settentrionale. Non può e non deve passare inosservato l’autoscioglimento (per dimissioni) del Gruppo M5S in Consiglio Comunale a Taranto,  con Uno scenario impensabile, che dimostra ancora una volta la mancanza non solo di esperienza e capacità gestionale politica del movimento guidato da Luigi Di Maio, ma anche di una imbarazzante limitata visione politica. La stagione delle promesse al “popolo” è finita. Come hanno dimostrato le ultime elezioni regionali in 7 regioni, che hanno visto i consensi del Movimento Cinque Stelle letteralmente dimezzarsi ovunque. E le Regionali in Puglia si svolgeranno fra circa 12 mesi.

Gli arrabbiati dell’Ilva a Di Maio: «Inaffidabile». Il ministro a Taranto per la “fase 2”. I comitati contro i grillini, che nella città hanno preso il 50% promettendo la chiusura della fabbrica: «inattendibili e colpevoli, hanno disatteso le promesse». Scrive il 24 aprile 2019 Il Dubbio. Il ministro Luigi Di Maio ( atteso oggi a Taranto insieme ai ministri 5 Stelle Giulia Grillo, Barbara Lezzi, Alberto Bonisoli e Sergio Costa per il Tavolo istituzionale permanente) si congratula coi commissario per «il senso delle istituzioni e per il lavoro svolto insieme che ha portato alla chiusura dell’accordo Ilva- Arcelor Mittal», che per il leader 5 Stelle è «la migliore intesa possibile nelle peggiori condizioni possibili, grazie alla quale abbiamo preteso e ottenuto che non fosse licenziato alcun lavoratore e che fossero decisamente migliorati i termini ambientali». Ora, conclude Di Maio, «inizia la Fase 2». Tutt’altro, invece, lo stato d’animo dei comitati tarantini, che si preparano ad accogliere il ministro con toni decisamente meno entusiastici. «Riteniamo in 5 Stelle completamente e penosamente inattendibili sotto il profilo politico, colpevoli di aver abusato della collaborazione e del lavoro di tanti componenti del Comitato, disattendendo poi ogni programma elettorale», sono le parole pesanti di Virginia Rondinelli, a nome del “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” ( quello che da anni organizza il 1 maggio alternativo della città), che si sta preparando assieme ad altri per un sit- in di protesta all’arrivo dei ministri. che in campagna elettorale avevano promesso di chiudere l’Ilva, prendendo il 50% dei voti. Non certo l’accoglienza che Di Maio vorrebbe, per parlare di «progettare e realizzare il futuro di Taranto, concentrandoci sulle attività di bonifica e di rilancio economico e sociale».

ILVA FUNESTA PER DI MAIO. Pietro Ricci per “la Repubblica” il 25 aprile 2019. Più che blindata, irraggiungibile. Per l' arrivo del vice premier Luigi Di Maio nella città dell' Ilva, con i ministri dell' Ambiente Sergio Costa, del Sud Barbara Lezzi, della Salute Giulia Grillo e dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, gli isolati che inglobano la Prefettura diventano una zona rossa: non si entra senza accredito. I residenti di via Cavour e via Massari non la prendono bene. «Ci tengono sotto sequestro dalle 6 del mattino» protesta una signora che rientra a casa tra i jersey presidiati da agenti e carabinieri in assetto antisommossa. In Piazza del Carmine sono duecento ad animare la protesta contro il governo del cambiamento che non è riuscito a cambiare Taranto. Qualche striscione irride Matteo Salvini, ma il più bersagliato è Di Maio «l' ingannapopolo». Il sit-in si trasforma presto in un' assemblea tra le associazioni ambientaliste in cui decidere se partecipare al tavolo sociale che la compagine pentastellata ha convocato in Prefettura, dopo l' incontro con le istituzioni locali. Non tutti accetteranno l' invito arrivato come un biglietto last minute il giorno prima. E molti di coloro che si accomodano davanti al vicepremier parleranno anche meno dei 5 minuti previsti e poi fileranno via. Tra questi anche Carla Lucarelli, la mamma di Giorgio Di Ponzio morto a 15 anni il 25 gennaio scorso per un sarcoma: «Caro ministro, le porto i saluti di Mauro Zaratto. Si ricorda di lui e di quando si commosse ascoltando la sua storia?» ha detto rievocando la morte di un altro figlio di Taranto. «Da allora - ha aggiunto - non è cambiato nulla, tranne la morte di altri bambini come mio figlio. C' è poco da riderci sopra perché ci sono i filmati della campagna elettorale che ha fatto su Taranto. Ora ci sono le europee e lei è venuto a fare passerella. Accetterò una stretta di mano seria quando prenderà decisioni serie per Taranto, cioè la chiusura delle fonti inquinanti. Taranto è bella quando serve». Questa della campagna elettorale è un chiodo fisso dei manifestanti. Anche Michele Riondino, l' attore tarantino schierato con le associazioni e ideatore del Primo Maggio alternativo a quello dei sindacati in piazza San Giovanni a Roma, è diretto: «Con le promesse di chiusura qui avete raccolto il 50% dei voti, ma non li rivedrete più», sentenzia. «Abbiamo aspettato mesi e guarda caso siamo ancora sotto elezioni». Già. Di Maio vede l' appuntamento elettorale e sa quanto decimato sia il consenso per i 5 Stelle all' ombra dell' Ilva: «Io farò di tutto per conquistare la fiducia dei tarantini, so che è un popolo arrabbiato e ha ragione a esserlo» dirà poi. Ma l' operazione recupero non sarà semplice. A Taranto porta i nuovi commissari che avranno il compito di accelerare la spesa del miliardo di euro messo a disposizione dal contratto di sviluppo su Taranto per tecnologie clean tech, Tecnopolo del Mediterraneo e tecnologie applicate all' ambiente. Promette un monitoraggio a breve e un nuovo appuntamento il 24 giugno. Ma a Taranto porta soprattutto l' abrogazione dell' immunità penale per i gestori dell' ex Ilva e della nuova Arcelor Mittal, contenuta nel decreto Crescita. L' immunità sarebbe scaduta nel 2023 invece perderà efficacia già ad agosto. Senza dimenticare il documento con cui il gip Benedetto Ruberto a febbraio ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dei decreti Salva Ilva secondo i quali l' immunità è scaduta il 30 marzo scorso. Il governatore Michele Emiliano ha qualche dubbio: «Voglio leggere la norma», dice uscendo dal vertice. E diventa un giallo nella conferenza stampa finale quando Alessandro Marescotti, di Peacelink, sfida il vicepremier a leggere la norma: «Il testo non dice questo». «Accetti la possibilità che il governo possa fare qualcosa di buono e aspetti che il testo sia pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale», replica Di Maio. Non resta che aspettare.

Ex Ilva di Taranto, mamma rifiuta la stretta di mano a Di Maio: "Si ricorda di mio figlio morto?". Il vicepremier: "Per i vertici dell'acciaieria non c'è più immunità penale. C'è un miliardo ma non è stato speso". Scrive il 24 aprile 2019 La Repubblica. "Servono provvedimenti urgenti per evitare che altri bambini come mio figlio muoiano". Lo ha detto Carla Lucarelli, mamma di Giorgio Di Ponzio, il 15enne morto lo scorso 25 gennaio a Taranto a causa di un sarcoma raro. La donna ha partecipato all'incontro in prefettura a Taranto, tra i ministri del governo Conte in particolare il ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio, e alcune associazioni cittadine che ha fatto seguito al tavolo permanente del Contratto istituzionale di sviluppo dell'area jonica. "Le porto i saluti di Mauro, si ricorda di lui si commosse ascoltandolo?", ha affermato rivolgendosi a Di Maio e ricordando di quando a settembre il vicepresidente del Consiglio a Roma si commosse ascoltando Mauro Zaratta, un altro papà di un bimbo scomparso dopo una malattia che sarebbe legata all'inquinamento. "Da allora non è cambiato nulla, l'unica cosa è che altri bambini sono morti come mio figlio", ha aggiunto Lucarelli e ai giornalisti che le riferivano le parole del ministro Di Maio che ha detto di non aver mai avuto intenzione di chiudere il siderurgico ha commentato: "C'è solo da riderci sopra, perché ci sono i filmati dove parla durante la campagna elettorale che ha fatto su Taranto. E la solita presa in giro, ora ci sono le europee ed è venuto a fare passerella. Di nuovo Taranto si presta ad essere una campagna elettorale". "L'abbraccio non lo accetto", ha continuato. "Accetterò una stretta di mano seria nel momento in cui prenderà le decisioni serie per Taranto, cioè la chiusura delle fonti inquinanti, adesso basta. Taranto è bella quando serve". "Sono venuto qui anche per chiedere conto del miliardo di euro disponibili per Taranto ma che non è stato speso". Il vicepremier, Luigi Di Maio, nella città dell'ex Ilva per presiedere il tavolo del Contratto istituzionale di sviluppo, è passato subito all'attacco. Poi ai giornalisti ha aggiunto: "Sono tornato dopo tanti mesi perché volevo portare i fatti e capisco la rabbia della città. Comunque, posso dire che con il decreto crescita è stata abolita 'immunità penale per chi gestisce il siderurgico". La replica del ministro ai genitori che lo contestano è dura:  "Non permetto a nessuno di dire che abbiamo morti sula coscienza a Taranto. Vengo dalla Terra dei fuochi, ho avuto familiari morti. Noi abbiamo fatto tutto il possibile e nelle peggiori condizioni possibili, ma le riconversioni hanno dei tempi". In prefettura ci sono anche i ministri della Salute, Giulia Grillo; dell'Ambiente, Sergio Costa; del Sud, Barbara Lezzi; e il responsabile dei Beni culturali, Alberto Bonisoli. Presenti anche il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, la commissaria governativa per le Bonifiche, Vera Corbelli e i sindaci di Taranto e dei comuni vicini.

L'annuncio di Di Maio. "Sono qui per dire che ieri, martedì 23 aprile, in consiglio dei ministri abbiano abolito l'immunità penale che permetteva ai vertici di Ilva di potere godere di alcune esimenti legate a reati ambientali e ad alcuni reati odiosi che hanno fatto tanto male ai cittadini di Taranto". "Non è una vittoria del governo ma è una vittoria dei tarantini". In realtà "si chiama esimente e - ha spiegato il vicepremier - doveva durare altri quattro anni e mezzo, ma invece ad agosto di quest'anno cesserà di esistere".

Le reazioni. "Come previsto la sgradevole propaganda di Di Maio ha colpito ancora. Ha annunciato che il Decreto crescita ha abolito l'immunità penale per i manager ex Ilva, ma l'esimente non è più efficace dal 30 marzo del 2019": lo ha denunciato il coordinatore nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli. "Il decreto legge 1/2015 - ha aggiunto - con le modifiche introdotte con il Dl 98 del 2016 stabilisce che, per quanto attiene l'affittuario o acquirente e dopo l'entrata in vigore del decreto del 29 settembre 2017, l'operatività dell'esimente, immunità, ha un limite temporale di 18 mesi dall'approvazione del suddetto Dpcm, ovvero la scadenza è quella del 30 marzo 2019. Questo è scritto nella legge senza possibilità alcuna di una diversa interpretazione. Di Maio quindi oggi, facendo il furbo ha annunciato che ha abolito una norma la cui efficacia è cessata il 30 marzo scorso". Su Facebook il commento del presidente Emiliano: "Come avevamo previsto il Governo ha inserito l'eliminazione delle immunità penali per i gestori dell'ex Ilva. Questa sembra una buona notizia soprattutto per noi che avevamo adito la Corte Costituzionale al fianco del gip di Taranto per fare dichiarare l'incostituzionalità dei decreti salva-Ilva. Aspetto ovviamente di vedere in cosa consiste realmente la norma".

Città blindata. Il centro di Taranto  è stato isolato con carabinieri e poliziotti a presidio dell'area intorno alla prefettura. A distanza, in piazza Giovanni XXIII, le associazioni ambientaliste, di quartiere e civiche che manifestano contro il governo. "Siete la vergogna d'Italia" l'urlo scandito dai cittadini. E poi il cartello con la scritta "Di Maio ingannapopolo vattene": il riferimento è alle promesse non mantenute di chiusura del Siderurgico, cavallo di battaglia della campagna elettorale delle elezioni politiche del 2018; cinque parlamentari tarantini eletti con il M5S in recenti manifestazioni pubbliche hanno subito pesanti contestazioni.

Le proteste. "Siamo qui per dire al signor Di Maio che lui e i parlamentari Cinque Stelle hanno tradito il mandato elettorale. Hanno preso qui il 47 per cento dei voti perché ci avevano fatto una promessa: chiudere Ilva. E non l'hanno mantenuta", spiega Vincenzo Fornaro che è consigliere comunale ma è un ex allevatore, il primo a cui furono abbattuti i capi di bestiame per contaminazione da diossina. "Dimenticano - aggiunge - di non essere più alla opposizione. Hanno fatto 12 decreti per salvare l'Ilva e invece ne bastava uno per salvare Taranto. Oggi dimostrano che hanno paura di venire qui, Di Maio non ha il coraggio di venire in piazza. Prima dicevano di farsi scortare dalla gente ora si fanno scortare dagli agenti", conclude. Un gruppetto di quattro persone del meetup grillino è stato contestato al grido di "traditori", "bruciate quella bandiera". I quattro avevano una bandiera Cinque stelle.

Ex Ilva, Di Maio a Taranto: «Non ho mai pensato di chiudere stabilimento». Associazioni lasciano tavolo: «È teatrino». Vertice istituzionale con cinque ministri, ma la contestazione parte sotto tono. Scrive il 24 Aprile 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno.  Ilva, si dimettono i commissari, arrivano i nuovi. Di Maio: «Capisco rabbia tarantini, ma voglio che mi ascoltino». «Soni qui per dire che ieri in consiglio dei ministri abbiano abolito l’immunità penale che permetteva ai vertici di Ilva di potere godere di alcune esimenti legate a reati ambientali e legate ad alcuni reati odiosi che hanno fatto tanto male ai cittadini di Taranto». Lo ha detto il vicepremier Luigi Di Maio arrivando a Taranto dove a breve parteciperà in prefettura al tavolo permanete per il Contratto istituzionale di Sviluppo (Cis) con altri quattro ministri M5s. «Non è una vittoria del governo - ha aggiunto Di Maio - ma è una vittoria dei tarantini. So benissimo che i tarantini discendono dagli spartani ma ci sono tante altre battaglie da vincere. E’ sicuramente rilevante che nel Decreto Crescita venga introdotta una norma che abolisce l'immunità penale». In realtà «si chiama esimente e - ha spiegato il vicepremier - doveva durare altri quattro anni e mezzo, ma invece ad agosto di quest’anno cesserà di esistere». «Per quanto riguarda Taranto c'è oltre un miliardo di euro che non si sta spendendo. Io sono qui per portare avanti questo tavolo. Tornerò qui il 24 giugno, esattamente tra due mesi, in modo tale che quello che decideremo al tavolo sarà verificato e vedremo come si staranno spendendo i soldi stanziati». Lo ha dichiarato il Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio parlando con i giornalisti prima di iniziare nella prefettura ionica la riunione del tavolo permanente per il Contratto istituzionale di Sviluppo (Cis) per Taranto. «Non è una questione - ha precisato il vice premier - di dire se ci sono altri soldi, qui prima di tutto bisogna spendere bene quelli che ci sono». Quanto alla questione del Siderurgico, Di Maio ha ribadito che «il grande lavoro da fare adesso è avviare una fase 2 per l’ex Ilva perchè da una parte ci sono gli insediamenti produttivi che porta avanti ArcelorMittal e dall’altra quello che compete all’Ilva in amministrazione straordinaria. Ieri si sono dimessi i commissari con cui abbiamo lavorato per la chiusura dell’accordo con ArcelorMittal e li ringrazio per il lavoro svolto e per la loro sensibilità istituzionale».

Di Maio a Taranto: «Abbiamo abolito l'immunità penale ai vertici di Ilva». «Adesso con i tre commissari che abbiamo nominato noi lavoreremo a un nuovo progetto: quello di più investimenti nelle bonifiche, che devono continuare, e dall’altro nel liquidare tutte le aziende che devono avere ancora i soldi. Con un obiettivo: la riconversione economica di questo territorio». Così il vicepremier Luigi Di Maio a margine della riunione del Tavolo permanente per il Cis per Taranto, in corso nella prefettura ionica. «So che i tarantini - ha aggiunto - hanno sentito parlare troppo di riconversione economica. Noi cercheremo di farlo seriamente, a differenza del passato. Volevo venire qui con i fatti e posso dire che i tarantini oggi hanno vinto una battaglia sull'immunità penale ma ne devono vincere ancora tante altre e io farò di tutto per conquistarmi la loro fiducia. So che è un popolo arrabbiato». Di Maio ha evidenziato la necessità di «rivedere tutto il sistema dell’accertamento dell’impatto sanitario sia dell’Ilva che degli altri insediamenti produttivi. C'è una richiesta forte che viene dai cittadini di Taranto». «Se qualcuno mi chiedeva di chiudere lo stabilimento (siderurgico di Taranto, ndr) e mandare ventimila persone in mezzo a una strada, questa non è mai stata la mia idea di ministro dello Sviluppo economico. Adesso c'è la fase due, tutto quello che ancora dobbiamo fare per estinguere il debito che tutti gli italiani hanno con i tarantini». Lo ha detto il ministro per lo Sviluppo economico, Luigi Di Maio, parlando nel corso del tavolo per il Cis Taranto. «Nessuno - ha sottolineato - può pretendere di avere fiducia in bianco dai cittadini italiani e ancor di più di questa terra. L’unica cosa che noi possiamo fare per far riguadagnare fiducia verso le istituzioni della Repubblica, è far funzionare le cose che devono funzionare. Il nostro obiettivo con questo tavolo è metterci a disposizione». E sul caso Siri commenta: «Quello che noi stiamo chiedendo sul caso Siri è un ulteriore atto di fiducia, perché questa fiducia va rinnovata con i gesti concreti». «Io e Matteo Salvini - ha aggiunto - abbiamo fatto grandi cose insieme in questi primi mesi di governo. Abbiamo anche rischiato processi, procedure di infrazione comunitaria e tanto altro». «E abbiamo fondato questo governo - ha concluso - sul rapporto di fiducia che si è concretizzato tra noi nella firma di quel contratto di governo». «Nell’ambito del tavolo istituzionale abbiamo pensato di creare tre gruppi di lavoro, coordinati dai ministri: il primo su Salute e sociale, il secondo su Lavoro, Imprese e Innovazione e il terzo su Riqualificazione urbana». Ha poi annunciato il ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, durante il Tavolo permanente del Contratto istituzionale di sviluppo. Il primo gruppo «dovrà anche rivedere - ha aggiunto il vice premier - il decreto interministeriale del 2013 sulla Valutazione del danno sanitario. Il gruppo su Lavoro, Imprese e Innovazione potrà occuparsi anche del Tecnopolo previsto in Legge di Bilancio. E quello sulla Riqualificazione urbana potrà riservare particolare attenzione alla blue economy. Questo Tavolo - ha detto ancora Di Maio - è importante per analizzare i temi della differenziazione della vocazione economica di questa città». «Essere qui oggi significa lavorare all’altra fase che è quella della riconversione economica. Perché qualsiasi cosa ci siamo detti a questo tavolo l'abbiamo detta con un orizzonte temporale. Quando si parla di riconversione economica, di programmazione di un territorio, stiamo parlando anche di tempi che sopravviveranno ai nostri mandati politici». «A nome di tutto il governo - ha ribadito - voglio dire che qui nessuno si illude di aver preso il testimone per l’ultima volta, anche noi passeremo il testimone. E il nostro dovere è dare continuità ad un percorso che può essere migliorato». "Vorrei rassicurare tutte le amministrazioni, istituzioni e stakeholders privati che sono qui - ha precisato - che il nostro obiettivo è non toccare le piene prerogative degli enti locali». Quanto al rallentamento di alcuni processi emersi nel corso del tavolo, Di Maio ha spiegato che «nel decreto Crescita e nello Sblocca cantieri, due decreti legge che nei prossimi sessanta giorni vedranno attività parlamentare molto intensa, abbiamo una serie di materie competenti per affrontare normative che magari non stanno funzionando. Possiamo emendare».

LE ASSOCIAZIONI LASCIANO IL TAVOLO - Alcune associazioni ambientaliste e comitati di cittadini, tra cui Giustizia per Taranto, hanno abbandonato la riunione alla quale sono stati invitati dal vicepremier e ministro per lo Sviluppo economico, Luigi Di Maio, e alla quale partecipano altri quattro ministri oggi nel capoluogo jonico in occasione del tavolo permanente sul Contratto istituzionale di sviluppo per Taranto. «Rifiutiamo questo teatrino elettorale», hanno detto in un documento letto da un loro portavoce e consegnato a Di Maio, prima di lasciare la riunione. Nel documento le associazioni rivolgono alcune domande al governo. Tra queste si chiede perché, in fase di accordo con ArcelorMittal, cioè i nuovi proprietari della ex Ilva, non sia stata richiesta la Valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario (Viias)

LE DICHIARAZIONI DEI MINISTRI GRILLO, LEZZI, COSTA E BONISOLI - Una cabina di regia formata da alcuni ministeri tra cui Ambiente, Salute, Mise e Sud, «fornirà ogni sei mesi, attraverso un osservatorio, i dati epidemiologici» sulla città di Taranto «per conoscere la reale situazione sanitaria del territorio e quindi da lì indirizzare politiche sanitarie adeguate». Lo ha sottolineato il ministro per la Salute, Giulia Grillo, intervenendo al tavolo per il Cis Taranto. «I fattori di rischio dal punto di vista dell’insorgenza di vari tipi di patologie - ha spiegato - non sono solo ambientali, e intervengono insieme nel determinare l’insorgere a di alcune patologie». «Quello che ci sta a cuore - ha concluso - è predisporre azioni che riducano l’esposizione a fattori di rischio e quindi le patologie che da questi derivano». «La vera cura che si può dare a questa città, così come a tutto il Sud, è spendere bene le risorse che ci sono. I soldi ci sono e sono già allocati non solo a Taranto ma alle tante realtà che vivono situazioni di disagio, ma fino ad oggi, purtroppo, c'è stata molta sciatteria», perché «quando le istituzioni non fanno le istituzioni ma fanno solo politica, molto spesso si arenano progetti e nuove possibilità per i cittadini». Lo ha detto il ministro per il Sud, Barbara Lezzi, nel corso del tavolo per il Contratto istituzionale di sviluppo di Taranto. Lezzi ha sottolineato la «dipendenza economica di questa città dall’impianto siderurgico (ex Ilva ora ArcelorMittal, ndr), e il vero cambiamento che noi potremo portare a questa città sarà darle una alternativa, un’altra opportunità». Per il ministro, «il senso di rabbia che a giusta ragione provano cittadini di Taranto è dovuto alla impossibilità di avere in questo momento una alternativa per questa città». Infine Lezzi ha sottolineato che «ogni due mesi porterò qui un crono programma che dovrà essere rispettato». «Per noi - ha concluso - questa città ha un alto valore politico», e lo dimostra che a «presiedere il tavolo è Luigi Di Maio». «La questione ambientale la si affronta facendo sistema. Ho chiesto di costituire un tavolo permanente sia qui presso la prefettura sia presso il ministero per l’Ambiente con la commissaria» straordinaria per le bonifiche «Corbelli: l’obiettivo è che i dati siano condivisi, che lo strumento dell’informazione sul territorio sia unica, penso al portale, e che i dati siano anche divulgativamente proposti, per evitare una informazione male interpretata». Lo ha sottolineato il ministro per l’Ambiente, Sergio Costa, intervenendo al tavolo per il Cis Taranto. «Stiamo coltivando l’idea - ha spiegato - di costituire un protocollo di lavoro tra ministri, condividendolo anche con gli enti locali, e poi un tavolo tecnico, vedendoci qui ogni due mesi circa, per condividere non solo il dato ma il progress sul quale si sta lavorando». «In modo tale che la linea sia trasparente - ha concluso il ministro - senza ombre, e che ci permetta di riassestarla volta per volta».

LE PAROLE DI EMILIANO - Come avevamo previsto il Governo ha inserito nel decreto crescita l’eliminazione delle immunità penali per i gestori dell’ex Ilva di Taranto. Questa sembra una buona notizia soprattutto per noi che avevamo adito la Corte Costituzionale al fianco del GIP di Taranto per fare dichiarare l'incostituzionalità dei decreti salva-Ilva. Aspetto ovviamente di vedere in cosa consiste realmente la norma». Lo scrive su Facebook il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. «Bisogna evitare che l’Ilva continui a uccidere la popolazione perchè di questo si tratta. Il processo in corso davanti alla Corte d’Assise parla di questo e naturalmente noi, avendo la Regione Puglia, negoziato con l'Unione europea condizioni di finanziamento importanti per cambiare le tecnologie in modo tale da renderle sicure, siamo pronti a collaborare». Lo ha dichiarato il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano parlando con i giornalisti a margine del Tavolo permanente per il Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) per Taranto. «Ovviamente, se l’Ilva - ha aggiunto - non fosse mai esistita o sparisse di colpo penso che qui organizzeremmo una festa che durerebbe un paio di mesi. Resta il fatto che questo coraggio la Repubblica italiana non ce l’ha. Venti miliardi per reindustrializzare l’Ilva non ce li hanno e quindi il nostro destino in questa fase è quello di tenerci l’Ilva ma certamente non come è stata progettata nel secolo scorso». Deve essere «una fabbrica - ha insistito Emiliano - completamente diversa e deve essere dal punto di vista tecnologico completamente rivoluzionata. Se queste condizioni non verranno rispettate è chiaro che per noi la collaborazione anche con questo governo sarà impossibile come è stata impossibile col governo precedente». 

LA REPLICA DELLA FIOM - «È sorprendente che il Ministro Luigi Di Maio abbia scoperto oggi l’esistenza di oltre 1 miliardo di euro per le operazioni di bonifica e di ambientalizzazione dello stabilimento di Taranto. Si tratta del denaro sequestrato alla famiglia Riva, in precedenza proprietaria dell’impianto ex Ilva, che da tempo era destinato a queste operazioni». Lo afferma Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil in una nota. «Tanto entusiasmo, quando sono passati mesi senza dare inizio a questi interventi annunciati oggi - aggiunge -. La Fiom da tempo rivendica la valutazione preventiva dell’impatto sanitario, come uno dei punti principali della nostra iniziativa sindacale. I metalmeccanici sono coloro che dentro lo stabilimento, direttamente nel processo produttivo, possono verificare l’andamento del piano industriale e ambientale; e allo stesso tempo sono coinvolti come cittadini nel processo di verifica e di monitoraggio delle attività di risanamento ambientale. In questo senso riteniamo indispensabile un coinvolgimento formale al tavolo istituzionale per la riqualificazione della città di Taranto e dell’ex Ilva, fin dal prossimo incontro previsto per il 24 giugno.». Per la Fiom «Sono passati ormai 8 mesi da quando abbiamo firmato l’accordo in sede ministeriale il 6 settembre 2018, e non c'è mai stata nessuna convocazione delle parti che hanno sottoscritto l’intesa per il passaggio alla nuova proprietà Arcelor Mittal, salvaguardando tutti i posti di lavoro. Si rende quindi necessaria la convocazione di un tavolo al Ministero dello Sviluppo Economico in tempi rapidi». «Ci sono tre cose che volevo condividere. Il primo aspetto è il termine di responsabilità. A Taranto c'è un patrimonio dal punto di vista culturale immenso, probabilmente uno dei principali giacimenti culturali non ancora sfruttati che abbiamo in Italia. Abbiamo il dovere di valorizzare questa ricchezza». Lo ha sottolineato il ministro per i Beni Culturali Alberto Bonisoli intervenendo alla riunione del Tavolo permanente per il Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) per Taranto, in corso nella prefettura ionica. «Il secondo aspetto - ha precisato Bonisoli - è quello dell’opportunità. Noi stiamo ragionando sull'opportunità di creare sul territorio centinaia se non migliaia di posti di lavoro. Ci vorrà del tempo, ci vorranno delle azioni coordinate, ma il gioco che stiamo affrontando è veramente quello di una grande potenzialità che poi si tradurrà in occasioni di lavoro che serviranno anche alla riconversione economica di questo territorio». Il terzo «aspetto - ha chiarito il ministro - è la necessità del coordinamento. Non penso che in questo momento a Taranto manchino le risorse finanziarie. Io stesso sono qui a parlarvi di decine di milioni di euro, che per il mio ministero sono cifre importanti. Ho sentito parlare di miliardi di euro, vuol dire che le risorse non mancano. Stiamo parlando di un contesto che deve essere un pò la stessa polare degli investimenti che verranno fatti». «Stiamo parlando - ha puntualizzato Bonisoli - di un coordinamento tra le diverse azioni, di un progetto che abbia un senso e che quindi non guardi solamente all’immediato ma cerchi di traguardare l’obiettivo che si vuole raggiungere ed è un qualcosa di più ambizioso».

LEGAMJONICI: INCONTRO CON DI MAIO INUTILE - «Pur avendo ricevuto l’invito, il Comitato Legamjonici non presenzierà all’incontro dei ministri con le associazioni ambientaliste tarantine. La decisione è dettata dalla consapevolezza della totale inutilità dell’incontro che, anzi, sarebbe stato opportuno convocare per discutere, nel concreto, di temi di fondamentale importanza come la chiusura programmata dello stabilimento siderurgico, la sua riconversione e il reimpiego dei lavoratori». Lo annuncia Daniela Spera, portavoce del Comitato Legamjonici contro l'inquinamento, una delle 23 associazioni convocate per il primo pomeriggio di oggi dal vice premier Luigi Di Maio, a Taranto per presiedere la riunione del Tavolo permanente del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis), presenti i ministri Costa, Lezzi, Grillo e Bonisoli. Il comitato «ritiene che la chiusura delle fonti inquinanti sia elemento imprescindibile e preliminare a qualunque seria ipotesi di rilancio del territorio tarantino o attività di bonifica. L'invito del ministro Di Maio, inoltre, risulta essere tardivo in quanto giunto decisamente fuori tempo massimo. Ed infatti, l'avvenuta cessione dell’ormai ex Ilva ad Arcelor Mittal caratterizza pienamente l’azione di un Governo che, come già più volte accaduto in passato, anche con altri colori politici, ha inteso abdicare alle proprie prerogative consegnando la salute dei cittadini nelle mani di chi ha come unico scopo il proprio profitto economico. Valgono per questo Governo - conclude Legamjonici - le stesse obiezioni già mosse nei confronti dei Governi passati».

PEACELINK: GOVERNO NON HA MANTENUTO LE PROMESSE - «Solidarizziamo con i cittadini che protestano perché il governo non ha mantenuto le promesse. Taranto continua a registrare eccessi di mortalità nei quartieri più vicini alle emissioni industriali». Lo afferma Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, una delle 23 associazioni convocate per il primo pomeriggio di oggi dal vice premier Luigi Di Maio, a Taranto per presiedere la riunione del Tavolo permanente del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis), presenti i ministri Costa, Lezzi, Grillo e Bonisoli. «I ministri, nel contratto di governo, si erano impegnati - osserva Marescotti - a chiudere le fonti inquinanti. Una promessa disattesa. Ma il colmo si è avuto quando il ministro Di Maio ha dichiarato in un proprio videomessaggio dell’8 settembre scorso, che erano state installate tecnologie a Taranto che riducono del 20% le emissioni nocive. Noi vogliamo far sapere a tutti che le emissioni nocive a Taranto non sono state ridotte del 20%. Anzi: sono aumentate. I dati delle centraline Ispra e Arpa parlano chiaro». Le emissioni della cokeria dello stabilimento siderurgico «dal 1 novembre 2018 al 31 marzo 2019 - spiega Marescotti - sono aumentate rispetto al corrispondente periodo di 12 mesi prima: + 23% PM10 (polveri sottili, cancerogene), + 32% PM2,5 (polveri molto sottili, cancerogene), + 92% IPA (idrocarburi policiclici aromatici, cancerogeni)». Al ministro Costa «evidenzieremo che, da quando si è insediato - sostiene l’ambientalista - questo governo, la diossina è ricaduta su Taranto non è diminuita ma è aumentata».

LA PROTESTA - C'è un’ampia «zona rossa» off limits per i non accreditati intorno alla Prefettura di Taranto, dove si riunisce il Tavolo permanente per il Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) di Taranto, sotto la presidenza del vice premier e ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio. Presenti anche i ministri Sergio Costa, Barbara Lezzi, Giulia Grillo e Alberto Bonisoli. C'è un sit-in di protesta, ad alcune centinaia di metri di distanza, di cittadini e ambientalisti. Non molti rispetto agli annunci della vigilia, forse anche per la convocazione specifica voluta da Di Maio per associazioni e comitati. «Di Maio inganna popolo vattene» è la scritta che campeggia su uno dei cartelli esibiti: il riferimento è alle promesse non mantenute di chiusura del Siderurgico, cavallo di battaglia della campagna elettorale delle elezioni politiche del 2018; cinque parlamentari tarantini eletti con il M5S in recenti manifestazioni pubbliche hanno subito pesanti contestazioni. 

Di Maio a Taranto. E' finito il feeling con le associazioni ambientaliste. Il Corriere del Giorno il 25 Aprile 2019. Il vice premier: “Mai avuto intenzione di chiudere lo stabilimento”. Alcune associazioni hanno abbandonato il tavolo con i ministri, altre hanno detto le cose peggiori per sfogare la loro rabbia, delusione e dichiarare : “‘E’ un teatrino, mai più fiducia in voi”. “Sono qui per dire che ieri in consiglio dei ministri abbiano abolito l’immunità penale che permetteva ai vertici di Ilva di potere godere di alcune esimenti legate a reati ambientali e legate ad alcuni reati odiosi che hanno fatto tanto male ai cittadini di Taranto” ha detto il vicepremier Luigi Di Maio arrivando a Taranto partecipando in Prefettura al tavolo permanente per il Contratto istituzionale di Sviluppo (Cis)con i ministri i ministri Costa, Lezzi, Grillo e Bonisoli. “L’esimente doveva durare altri quattro anni e mezzo, ma ad agosto di quest’anno cesserà di esistere” ha detto Di Maio “c’è oltre un miliardo di euro per Taranto che non si sta spendendo per vedere come si staranno spendendo i soldi stanziati” annunciando che tornerà tra due mesi il 24 giugno. “Non è una vittoria del governo ma è una vittoria dei tarantini – ha aggiunto Di Maio – So benissimo che i tarantini discendono dagli spartani ma ci sono tante altre battaglie da vincere“. “Se qualcuno mi chiedeva di chiudere lo stabilimento e mandare ventimila persone in mezzo a una strada, questa non è mai stata la mia idea di ministro dello Sviluppo economico. Adesso c’è la fase due, tutto quello che ancora dobbiamo fare per estinguere il debito che tutti gli italiani hanno con i tarantini”. Lo ha detto il Ministro per lo Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, parlando nel corso del tavolo per il Cis Taranto. “Nessuno può pretendere di avere fiducia in bianco dai cittadini italiani e ancor di più di questa terra. L’unica cosa che noi possiamo fare per far riguadagnare fiducia verso le istituzioni della Repubblica, è far funzionare le cose che devono funzionare. Il nostro obiettivo con questo tavolo è metterci a disposizione“. Nelle ore di riunioni trascorse in Prefettura a Taranto, offerta alla visione di tutti in diretta streaming sulla pagina Facebook di Di Maio, i rappresentanti dei comitati tarantini gli dicono le cose peggiori per sfogare la loro rabbia, delusione e dichiarare : “mai più fiducia in voi”. Ieri a Taranto è celebrato un vero e proprio  funerale di un rapporto politico che prima c’era. Di Maio e gli altri ministri del governo M5S-Lega sembrano 5 ‘imputati’ alla sbarra di un processo che i portavoce di tantissime associazioni ambientaliste e per la salute dei cittadini di Taranto non si sono lasciati scappare. Aspettavano Di Maio da tempo. Lo aspettava al varco l’ex consigliere comunale del M5s Massimo Battista: “Luigi, ti do del tu, ci conosciamo…“, il tono è ricercatamente pseudo-amichevole: “Voglio sapere cosa è successo da quell’incontro che abbiamo avuto al Mise nel giugno scorso in cui abbiamo parlato di chiusura dell’Ilva? Ora vieni a Taranto a dire che non hai mai voluto chiudere la fabbrica!”. Di Maio ha aspettato la conclusione del giro di tavolo per rispondere. Difendendosi con armi spuntate. Sostenendo che “il contratto con gli acquirenti ArcelorMittal l’aveva firmato già il mio predecessore Calenda, questa è stata la ‘variabile impazzita’, noi l’abbiamo scoperto tra le politiche e l’insediamento del governo. Se l’avessimo annullato, loro potevano ricorrere al Tar e prendersi l’Ilva con i 3mila licenziamenti. Cioè senza trattativa. Invece la trattativa l’abbiamo fatta e non ci sono stati esuberi…”. Quindi ritorna sull’immunità  parlando di nuove tecnologie per inquinare meno e promette la “Vias”, cioè la Valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario, “la possono fare con un atto amministrativo i ministri Grillo e Costa”. La promessa di “riconversione” di fatto seppellisce definitivamente la vecchia promessa in campagna  elettorale di chiusura dell’Ilva che aveva consentito al M5S di sfiorare il 50% dei consensi alle ultime elezioni politiche. Di Maio ha chiesto “scusa” per i tempi lunghi, “il governo ha fatto tutto il possibile nelle peggiori condizioni possibili: possiamo non essere d’accordo e rimarremo in disaccordo ma vi prego rivediamoci il 24giugno“. E quando un giornalista gli chiede : e se il governo sarà caduto? “Mai – assicura il vicepremier del M5S nonostante il rapporto che sembrerebbe molto incrinato con il dirimpettaio Matteo Salvini: “Non vogliamo far cadere il governo, abbiamo tante cose da fare tra le quali tornare a Taranto“.

Le "fakenews" di Di Maio sull’ex-Ilva di Taranto smentite dai fatti. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 28 Aprile 2019. Legittimo chiedersi a questo punto:  cosa ha fatto in questi mesi il governo per l’ex-Ilva? A noi risulta poco, o meglio nulla ! Tant’è che soltanto 48 ore prima della calata dei ministri a Taranto, qualcuno si è accorto che era possibile annullare la norma sulle immunità penali, che in realtà erano già scadute, quindi decadute a fine marzo 2019, cioè praticamente un mese fa. Per poter dare ai lettori il peso del livello vergognoso di “fake news”  pronunciate da Luigi Di Maio in occasione dell’incontro avuto a Taranto con il tavolo con le associazioni e i comitati di cittadini occorre partire da questa affermazione sulla cessione dello stabilimento ex-ILVA : “Voglio dare una notizia a tutti: quel contratto con Mittal era già firmato dal mio predecessore, soltanto che era segreto” con la solita litania “è colpa di quelli di prima”, che è una colossale menzogna. Patetico l’ex portaborse tarantino del M5S tale Giovanni Vianello, successivamente diventato deputato grillino, che se l’era presa con gli “pseudoambientalisti” dopo la sceneggiata sul “delitto perfetto” non contento  del suo post in cui sosteneva  che “gli ultimi report di ASL e di ARPA in mio possesso sono chiari ed escludono qualsiasi tipo di situazione d’emergenza, sia dal punto di vista ambientale che sanitario”. sostenendo che da quando il M5S è al Governo ha iniziato ad occuparsi dell’ Ilva,  la situazione non sarebbe più così pericolosa come era appena due anni fa. Solo che le cose non sono cambiate drasticamente come si millantava per  rassicurare la cittadinanza, in perfetta coesione con  il “mantra” del ministro dello Sviluppo Economico che tira sempre fuori l’ormai noiosa ripetuta giustificazione “è colpa di quelli di prima”. Di Maio ha cercato così di sviare le polemiche sulle false promesse fatte in campagna elettorale dal M5S quando promettevano di chiudere l’Ilva. Una promessa che ha consentito al M5S di  fare il pieno di voti a Taranto. Infatti quel contratto innanzitutto non era segreto e non è stato “scoperto” dal MoVimento 5 Stelle ma bensì da questo giornale che state leggendo, che lo ha scovato depositato regolarmente e “pubblicamente” nelle banche dati delle Camere di Commercio. I termini dell’accordo  che erano stati discussi e negoziati per mesi fra il Governo, Arcelor-Mittaled i sindacati, infatti erano riservati tra le parti come è giusto che sia,  ma mai segreti. Tant’è che della bozza di accordo ne parlavano in molti anche sui giornali che erano riusciti ad avere qualche anticipazione. Soltanto successivamente quando le organizzazione sindacali dissero di “no” il ministro Carlo Calenda predecessore di Luigi Di Maio, alla guida del Ministero dello Sviluppo Economico fece pubblicare sul sito del MISE lo schema della bozza di accordo proposta dal Ministero. Quindi Di Maio avrebbe potuto dire a Taranto qualsiasi cosa ad eccezione di non essere a conoscenza che ci fosse stata una gara per la cessione dell’acciaieria e che  la multinazionale franco-indiana Arcelor-Mittal se la fosse aggiudicata. Anche perché dell’acquisizione del Gruppo ILVA  si era interessata  l’Antitrust Europea dando parere positivo , ed anche perché l’Avvocatura dello Stato si era già espressa  sulla gara a giugno 2017. Sempre questo giornale che state leggendo, rese noto per primo ed unico in Italia (mi chiamò persino in tarda sera lo staff di Di Maio)   della decisione dell’Avvocatura dello Stato anticipandone l’ufficialità. Ad onor del vero fu proprio Di Maio successivamente a secretare per settimane il parere espresso dall’Avvocatura., in  cui si diceva che il nuovo Ministro aveva la facoltà di annullare la gara soltanto in presenza di un “interesse pubblico concreto ed attuale, particolarmente corroborato”. Che Di Maio non ha mai rinvenuto. Ma per manifestarlo Di Maio avrebbe dovuto prendersi la responsabilità di farlo. Cosa che non è avvenuta per due motivi: innanzitutto perchè non c’era nessun altro eventuale acquirente interessato, in quanto la “cordata” concorrente e soccombente aveva fra i propri azionisti una società di Cassa Depositi e Prestiti, e cioè lo Stato!  Il secondo motivo consisteva nella circostanza che a settembre 2018 scadeva la proroga concessa dall’Amministrazione Straordinaria di Ilva,  e conseguentemente in mancanza di una decisione in tal senso del Ministero, il Gruppo Arcelor-Mittalaveva pieno diritto di prendere possesso del Gruppo ILVA. Continuare a sostenere ( o meglio millantare) ancora oggi  di un accordo segreto,  riporta alla nostra memoria analoga (non)decisione dei grillini quando  scoprirono  di non poter fermare il TAP perché “era già stato firmato un accordo altrettanto segreto”. Un accordo così tanto segreto….. che in realtà era stato ratificato in Parlamento, dove in quel momento il M5S era all’opposizione. Inoltre segreto di Pulcinella a parte, occorreva ricordare a Di Maio (e nessun giornalista presente a Taranto lo ha fatto)  che egli stesso  si era preso i meriti dell’accordo chiuso con Arcelor-Mittal, circostanza che conferma che molto probabilmente non lo considerava in definitiva un  fatto così negativo.  Su quell’accordo, infatti,  non a caso è apposta la firma di Di Maio e quindi spetta a lui adesso gestire tutto quello che è previsto nel contratto. Legittimo chiedersi a questo punto:  cosa ha fatto in questi mesi il governo per l’ex-Ilva? A noi risulta poco, o meglio nulla ! Tant’è che soltanto 48 ore prima della calata dei ministri a Taranto, qualcuno si è accorto che era possibile annullare la norma sulle immunità penali, che in realtà erano già scadute, quindi decadute a fine marzo 2019, cioè praticamente un mese fa. Quindi cosa ha fatto il governo gialloverde ? In realtà  ha soltanto riscritto le norme esistenti senza abolire l’immunità come invece ha sostenuto a Taranto il ministro. Quando  un professore di un istituto tecnico a capo di un’associazione locale ha chiesto davanti a tutti al vicepremier Di Maio di leggere il testo della nuova norma sull’immunità, guarda caso si è rifiutato di farlo. Di Maio non sapendo a che santo votarsi per uscire da una situazione a dir poco imbarazzante allora ha ricordato che c’è un miliardo di euro da spendere che però non si sta spendendo. Peccato però che quei soldi  stanziati dal CIPE a seguito di provvedimenti del Governo Renzi nel 2015 e successivamente dal Governo Gentiloni , soldi che in parte peraltro sono stati già  spesi ! Ma le “fake news”  a 5 stelle di Di Maio e dai suoi burocrati “riciclati” non sono finite. Quando lo stesso professore tarantino durante l’incontro ha ricordato al ministro quando a pochi giorni dall’accordo in cui annunciava che il M5S e il governo avevano risolto la crisi Ilva , nel settembre del 2018, aveva annunciato in un video messaggio  un taglio delle emissioni.: “Abbiamo installato tecnologie a Taranto che riducono del 20% le emissioni nocive» . Anche in questo una “fake news” a 5 stelle.  emissioni però non sono diminuite, sono aumentate. Secondo un’associazione tarantina si registra nella cokeria dello stabilimento ex-Ilva di Taranto  un incremento del + 160% per il benzene, del + 140% per l’idrogeno solforato e del +195% per gli IPA totali. Sono tutti inquinanti cancerogeni e anche neurotossici. L’Arpa Puglia per quanto riguarda le polveri sottili misurate attorno alla cokeria,  ha registrato  un incremento fra il +18% e il +23% per il PM10 (a seconda del campionatore ENV o SWAM) e del 23% per il  PM2,5. Quindi non sono mai state installate le tecnologie che Luigi Di Maio aveva annunciato che erano state installate . Di Maio si è giustificato sostenendo che quelle tecnologie non sono ancora attive e presenti in quanto “nel cronoprogramma ancora non sono previste” in quanto le operazioni di bonifica che termineranno nel 2023 . Legittimo chiedere a Di Maio: perché nel settembre 2018 ha fatto credere ai tarantini ed agli italiani che i filtri fossero già stati installati? Alla luce di queste “anomalie” o meglio, “fake news” a 5 Stelle appare più legittimo e normale che qualcuno possa chiedersi in che modo sia stata risolta la crisi dell’Ilva, se il famoso “cronoprogramma” non indica solo i tempi da rispettare per il risanamento ambientale ma anche quelle delle assunzioni di coloro che attualmente sono state poste in cassa  integrazione. Ma come dicevano un tempo “Se Atene piange , Sparta non ride” . Cosa è venuta a fare a Taranto  la ministra della Salute Grillo che non ha aperto bocca durante l’incontro . Sarebbe stato interessante apprendere  in che anno ci sarà il picco dei tumori a Taranto ? La ministra della Salute, che supponiamo sia andata a Taranto per parlare dell’ex-Ilva, non ha saputo rispondere ad alcuna domanda. E sapete perchè ? Perché “si deve documentare”. Ma come fa un ministro ad andare in posto senza essersi documentata ? Era forse un atto di presenza da bella statuina o cosa altro ? Cosa ha fatto il “Governo del Cambiamento”  in questi mesi a parte fare annunci in diretta Facebook su fatti che non sono corrispondenti al vero? Ma probabilmente nel M5S e nel governo gialloverde qualcuno immagina che a Taranto si possa morire o ammalarsi “secondo il cronoprogramma”! O forse qualcuno pensa di poter governare a lungo limitandosi a dare sempre la colpa “a quelli di prima”?

Alessandro Marescotti: Il prof di Taranto che ha gelato Di Maio “Prima applaudiva ora abbassa lo sguardo”. Grillo venne qui e mi invitò sul palco. Sull’Ilva però i 5S ci hanno tradito. Per questo gli ho detto che fanno solo pubblicità ingannevole. Giuliano Foschini il 28 aprile 2019 su La Repubblica. Alessandro Marescotti, professore di italiano in una scuola superiore, è da quasi vent’anni il grillo parlante di Taranto. È stato lui, con la sua associazione Peacelink, a fare partire il primo processo contro le cockerie dell’Ilva. Lui a dare il via al maxiprocesso (in corso) Ambiente Svenduto, che portò agli arresti della famiglia Riva. Lui, in un video visto nelle ultime ore milioni di volte (e che gli è costato anche gli insulti dei militanti 5S s...

"Ministro mi guardi!". L'ambientalista mette in riga Di Maio sull’Ilva. Il leader di Pacelink Marescotti contesta i dati forniti dal ministro 5 Stelle sulle riduzioni delle emissioni novice del colosso industriale. Stefano Damiano, Domenica 28/04/2019, su Il Giornale. “Ministro mi guardi, non sono mai state installate”. Il leader dell’associazione ambientalista Peacelink, Alessandro Marescotti, contesta il ministro dello Sviluppo economico sull’Ilva, rispetto alle promesse fatte da Di Maio di ridurre le emissioni nocive del colosso industriale di Taranto. Durante l’audizione delle associazioni ambientaliste sul caso Ilva il rappresentante di Peacelink (associazione di volontariato pacifista impegnata a Taranto nel contrastare l’inquinamento industriale) nel prendere parola ha contestato i dati forniti l’8 settembre 2018 dal ministro dello Sviluppo economico che garantiva la riduzione del 20% delle emissioni nocive degli stabilimenti attraverso l’installazione di tecnologie idonee. È stata “pubblicità ingannevole” ha detto Marescotti che durante la relazione ha incalzato più volte il vicepremier: “Ministro mi guardi, non sono mai state installate”. Poi l'ambientalista ha fornito i dati dell’associazione: “Abbiamo avuto un aumento del 23% delle emissioni di polveri sottili e del 32% di quelle ultra sottili e un aumento del 92percento degli idrocarburi policicli aromatici e questi – ricorda il rappresentate di Peacelink – sono Cancerogeni”.

Il dramma di Taranto non merita la sfida di chi vuole piazzare la battuta più ad effetto. Sergio Costa, Ministro dell’ Ambiente, su Il Corriere del Giorno il 29 Aprile 2019. “Una drastica riduzione delle emissioni diffuse di polveri sarà, peraltro, assicurata dalla copertura completa dei parchi minerari, i cui tempi sono stati anticipati con l’addendum ambientale, e come previsto entro il 30 aprile sarà rispettato il primo step: la chiusura del 50% dei parchi minerari, la parte più vicina al Tamburi. Quindi tra pochi giorni saranno fermate le polveri verso questo quartiere cosi martoriato.” In molti ieri mi avete segnalato del fumo nero in uscita dall’altoforno 4 di Arcelor Mittal, ex Ilva, a Taranto. Ci siamo immediatamente attivati con Ispra. Si è trattato di un blocco emergenziale dell’impianto. Se succede una volta, è un conto, ma pare proprio si verifichi un po’ troppo spesso. I tecnici stessi mi hanno confermato che questo ripetersi del blocco “Non può essere considerato normale”. Abbiamo immediatamente chiesto ad Arpa i dati della qualità dell’aria connessi all’emissione dei fumi e sappiamo che per questi eventi non esiste una prescrizione ad hoc. Per quanto possa sembrare assurdo, è cosi. Stiamo lavorando anche su questo, per porre rimedio a venti anni di far west normativo sulla pelle dei tarantini. Ma per cambiare queste leggi, come abbiamo detto al tavolo a Taranto, mercoledì scorso, dobbiamo procedere con la Valutazione del danno sanitario integrato in funzione preventiva con il ministro della Salute Giulia Grillo e, in base ai dati che emergeranno, lavorare sulle prescrizioni dell’Aia. Aia che potrebbe essere riaperta se la Regione Puglia rivedesse il piano localizzato della qualità dell’aria. Comunque, anche in assenza di questo, procederemo con la valutazione del danno sanitario preventivo, che i cittadini di Taranto chiedono da molti anni.

Chi ha visto il video della risposta di Luigi Di Maio in diretta streaming, dopo aver ascoltato tutte le associazioni, sa bene con quale spirito siamo andati a Taranto.  Siamo andati a Taranto con i primi risultati e offrendo a istituzioni, comitati, associazioni e cittadini, un percorso da costruire insieme per il risanamento e la conversione economica e ambientale della città. Non è una gara a chi dice la frase più ad effetto, a chi mette in difficoltà gli altri e per questo si sente di aver vinto. Nessuno vince in una tragedia come questa. Si può solo camminare insieme per risolvere i problemi. Sento che occorre nuovamente fare chiarezza sui numeri, sapendo bene che i limiti di legge non bastano, che i cronoprogramma non sono sufficienti, che per troppi anni le leggi sono state cucite su misura dell’industria e che i tarantini tutti ne stanno subendo le conseguenze.  Abbiamo impostato il percorso necessario per cambiare le norme scritte dai governi precedenti. Ma è altrettanto importante fare chiarezza sui numeri diffusi in queste settimane. È stato detto che la riduzione del 20% delle emissioni inquinanti annunciata con il passaggio ad Arcelor Mittal non sarebbe vera: è chiaro che tale riduzione è riferita, come intuibile, al quadro emissivo post-adeguamento, ossia una volta attuati gli interventi dettati dal DPCM del 2017 più l’addendum ambientale. Sono stati già installati i filtri elettrostatici che corrispondono alle migliori tecnologie in questo campo e nel 2021 ci saranno quelli a manica che in tutta Europa costituiranno una best practice. Riguardo la questione dei rilevamenti di idrocarburi policiclici aromatici in area cokeria, in primo luogo bisogna spiegare una differenza sostanziale: la riduzione delle emissioni di un impianto, che sono monitorate all’uscita dei camini, sono differenti dal monitoraggio a terra, che sono i valori cui fanno riferimento alcune associazioni. I due valori non sono comparabili. Non stiamo parlando, quindi, di numeri prodotti da centraline installate all’interno di contesti abitati bensì di dati provenienti da strumentazioni poste nelle immediate vicinanze della fonte inquinante. Sono due cose differenti perchè hanno due scopi diversi. E, riguardo al PM10, PM2,5 e benzene, le medie annuali rilevate nel 2018, confrontate con il 2017, nella centralina di monitoraggio della rete ex ILVA, ora Arcelor Mittal, all’esterno dello stabilimento, in via Orsini nel Quartiere Tamburi, non registrano significative variazioni e i valori rispettano i limiti previsti dalla normativa italiana. Si parla di alcuni picchi registrati (quello delle diossine è tale in una sola stazione di rilevamento, e Ispra sta verificando questa anomalia), ma in questi mesi ci sono stati anche picchi negativi, di riduzione, solo che non vengono segnalati. L’importante è il valore di salvaguardia, che non è stato superato.  Infine, una drastica riduzione delle emissioni diffuse di polveri sarà, peraltro, assicurata dalla copertura completa dei parchi minerari, i cui tempi sono stati anticipati con l’addendum ambientale, e come previsto entro il 30 aprile sarà rispettato il primo step: la chiusura del 50% dei parchi minerari, la parte più vicina al Tamburi. Quindi tra pochi giorni saranno fermate le polveri verso questo quartiere cosi martoriato. Chiaramente non stiamo dicendo che ci accontentiamo dei valori di legge, dei cronoprogramma, della normativa esistente. Stiamo lavorando per cambiare lo stato delle cose, e abbiamo proposto alle associazioni di camminare insieme, ognuno con le proprie idee. Nessuno vuole convincere nessuno. Ma il dramma di Taranto non merita questa sfida che vediamo in questi giorni di chi vuole piazzare la battuta più ad effetto. Lavoriamo insieme per cambiare le cose. Noi il 24 giugno saremo in città per il check sui primi due mesi di lavoro. Ci vediamo lì.

·         Tamburi ed Arcelor Mittal. Chi non vuole l’ex Ilva.

ARCELORMITTAL. Una fonte di lavoro per impedire l'esodo e l'emigrazione.

I foraggiati dallo Stato la vogliono far chiudere. A loro non importa il risanamento. Nulla importa se ivi ci lavorano migliaia di giovani e, per questo, si mantengono migliaia di famiglie. Forse i pochi lavoratori che nel Sud Italia non sono sfruttati o pagati a nero. Nulla interessa se preme prima a quei lavoratori, che ivi ci lavorano, che l'industria siderurgica non inquini.

Il Natale triste di Taranto intossicata dalla diossina e dalla demagogia. Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 da Goffredo Buccini su Corriere.it. La foto sorridente di Nadia Toffa accanto al bancone del Minibar. E, dall’altra parte della piazza, la chiesa operaia di Tamburi, col mosaico di Gesù che dall’abside, in mezzo a lavoratori e ciminiere, benediceva nel 1967 un mondo nuovo di dignità e progresso ormai sepolto. Troppi funerali, troppa paura, troppe umiliazioni. Ignazio D’Andria, storico padrone del bar, è un piccolo frammento della cupa epopea che incatena Taranto da oltre mezzo secolo, e mastica amaro. Il nuovo reparto di oncologia pediatrica dell’ospedale viene intitolato alla memoria di Nadia, che per realizzarlo qui si impegnò con le Iene, e con lui raccolse 700 mila euro lanciando la maglietta «ie jesche pacce pe te», io esco pazzo per te. Ignazio tiene la maglietta come una reliquia e lamenta che non l’hanno invitato, «i papaveri tutti alla cerimonia e, a me, mi snobbano». A caccia di consenso, molti politici sgomitano in questo palco della disperazione affacciato sull’acciaieria più grande, amata e odiata d’Europa, e sulle sue ciminiere che un pezzo di magistratura vuole chiudere e un pezzo tenere aperte come in una sciarada (se si spegne Afo2, i restanti due altiforni potrebbero seguire a ruota). La demagogia intossica quasi quanto la diossina. Tra ricorsi e cause pendenti dal tribunale di Milano a quello tarantino, miraggi di intervento pubblico e guerre di religione sullo scudo penale per ArcelorMittal, la vita della fabbrica (e di quasi 11 mila lavoratori più seimila dell’indotto) è sabbia di clessidra che sta finendo. Quella fine, ha calcolato l’autorevole istituto Svimez, brucerebbe tre miliardi e mezzo del Pil nazionale, di cui 2,4 al Sud. «Il vostro Pil non vale la vita dei nostri bambini», mi sibila, citando un rabbioso slogan di qui, Francesca Martinese, tre figli, impiegata di call center a 1.000 euro di stipendio e moglie di un operaio Ilva che ne prende 1.700: «Spendo un sacco di soldi in farmacia a comprare medicine per la mia bambina più piccola che respira male. Sai cosa me ne importa del vostro Pil?». Un po’ dovrebbe, perché Svimez ha ora calcolato per il Corriere anche l’impatto su Taranto e provincia: qui svanirebbe il 25% del Pil, l’80% del valore aggiunto industriale. Tra stipendi e consumi, effetti diretti, indiretti e indotti «si rischia la desertificazione», dice Luca Bianchi, direttore dell’istituto: «Ora ognuno avrà un’idea fantasiosa e folgorante per Taranto. Ma noi abbiamo davanti l’incubo di Bagnoli: il nulla». Quando le faccio osservare i rischi di una povertà incombente, Francesca non fa una piega: «Vuol dire che al posto di due magliette ne compreremo una». Suo marito, Fabio Cocco, da 17 anni all’acciaieria, mi racconta che, ancora da operaio dell’indotto, vide bruciare vivo un compagno, «strillava: aiutatemi!». Si è dimesso dal direttivo Fiom perché il sindacato vuole la fabbrica aperta, ma gli hanno respinto le dimissioni. Crede, o meglio spera, «nelle bonifiche», mito fondante dell’ambientalismo tarantino e del successo dei Cinque Stelle. Ora i grillini sono caduti dal cuore di molti, avendo promesso a suo tempo una chiusura secca «delle fonti inquinanti». E, per capire quanto sia verosimile una bonifica che impieghi i futuri disoccupati dell’ex Ilva in caso di chiusura, basta ricordare che, nel 2012, i periti della Procura valutavano in otto miliardi la cifra necessaria a bonificare. Contare sullo Stato è un miraggio. Così rischia di risolversi al peggio la dicotomia infame tra lavoro e salute che ha perseguitato questa città per decenni: i tarantini potrebbero infine non avere né l’uno né l’altra. La prospettiva del buco nero e tossico, come Bagnoli o Crotone, si coglie bene nella sede degli industriali di via Lupo. Da una riunione in corso si sente la voce di Antonio Marinaro, il presidente, che arringa i suoi: «Sto cercando di salvare gli imprenditori di Taranto, se no il 2015 è alle porteee!». Qui il 2015 è l’anno orribile in cui, al passaggio di gestione dopo i Riva, lo Stato non pagò 150 milioni di lavori già fatti dalle aziende dell’indotto. «Fu un bagno di sangue», mi spiega poi Marinaro, «e temiamo che una nuova compagine con lo Stato dentro ci faccia lo stesso scherzo». Le trattative con Arcelor- Mittal sono un macigno su un Natale che già conta tante piccole dismissioni: «La crisi dell’Ilva che seguì al 2012 portò persino un calo nella vendita del pane». Le luminarie non bastano a rallegrare una via D’Aquino dove sotto le vetrine degli stilisti compaiono i graffiti degli antagonisti, «Ilva is a killer». Luigi Sportelli, Camera di Commercio, segnala «un grande declino delle attività commerciali e molte aziende in sofferenza». Francesco Bardinella, segretario degli edili Cgil mi fa notare che in dieci anni 700 imprese del suo settore hanno chiuso i battenti: è crisi lunga e profonda. Singolare la coincidenza di opinioni tra i due sulla bozza di decreto del governo circolata per Taranto: «Un polpettone», «una corsa disperata a buttare qui qualcosa purchessia» (nella bozza, accanto all’Ilva, si parla persino di bande musicali: e sempre senza coperture). Così, il Natale di Taranto uccide soprattutto la speranza, vuoi in Roma, vuoi nel vicino. Giorgio Assennato, che da ex capo dell’Arpa è stato il papà dell’epidemiologia locale, sostiene che molti politici barino e che molti dati allarmanti siano da prendere con le molle, specie quelli sui tumori infantili nei quali «numeri assoluti assai piccoli possono spostare percentuali assai grandi». Non è facile spiegarlo a Francesca che la scorsa primavera ha visto la scuola di sua figlia, accanto alle famigerate «collinette» dell’Ilva, chiusa tre mesi dal sindaco «per inquinamento». Nella città dove neppure il diritto allo studio è più garantito, il prossimo tuo, se non un nemico, è almeno uno che ti imbroglia.

Ilva, il paradosso Arcelor-Mittal: se abbassa la produzione ci guadagna. Le Iene il 10 dicembre 2019. Gaetano Pecoraro, nel servizio in onda stasera su Italia1 a Le Iene, incontra alcuni ex operai belgi di Arcelor-Mittal, che a Taranto ha annunciato di voler licenziare 4700 persone. E uno di loro avanza il sospetto che il gruppo franco-indiano lo stia facendo per una pura speculazione finanziaria. Vi sveliamo il meccanismo. Arcelor Mittal, la multinazionale dell’acciaio che ha appena annunciato di voler licenziare 4700 operai dell’Ilva di Taranto, lo sta facendo per una speculazione finanziaria? È il dubbio tremendo che emergerebbe dalla scoperta di Gaetano Pecoraro, che nel servizio in onda stasera a Le Iene su Italia1 torna a parlare della drammatica situazione in cui versa lo stabilimento pugliese, comprato dal gruppo franco-indiano Arcelor-Mittal. Proprio nei giorni in cui decine di migliaia di persone sono scese in piazza per lo sciopero generale contro i licenziamenti annunciati a Taranto, Le Iene volano in Belgio, per raccogliere le testimonianze di chi è già passato dal dramma della perdita del posto di lavoro in Arcelor-Mittal. E uno di quegli operai belgi licenziati, Frédéric, racconta a Gaetano Pecoraro una storia incredibile: “Hanno regalato a Mittal le quote di CO2 per produrre, ovvero i permessi per inquinare. E Mittal se le rivende in borsa, perché c’è un mercato di queste quote”. La Iena incontra poi l’esperta di un'ong che si occupa di monitoraggio del livello dei gas inquinanti e del loro mercato, che spiega i meccanismi di questo lucrosissimo business.

Ex Ilva, Ong rivela: Mittal guadagna da vendita quote Co2. In sette anni il colosso dell'acciaio avrebbe ottenuto dall'Europa 1,8 miliardi di euro. Quindi,se lasciasse Taranto continuerebbe a guadagnare. Vincenzo Chiumarulo (Ansa) l'11 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Secondo la Ong internazionale «Carbon market watch», il colosso dell’acciaio ArcelorMittal ottiene profitti anche dalla vendita delle quote di emissione di C02, i cosiddetti «permessi di inquinare» che le sono stati assegnati gratuitamente dall’Italia per consentirle di produrre nel nostro Paese. La notizia, rivelata ieri da «Le Iene», viene confermata all’ANSA dalla policy officer della Ong (che si occupa del monitoraggio delle politiche europee sul clima), Agnese Ruggiero. Le quote - spiega Ruggiero - vengono vendute sul mercato Ets, l'Emission trading system, nato nel 2005 quando l’Ue ha deciso di dare un incentivo a inquinare di meno, stabilendo un tetto massimo di emissioni e il conseguente scambio di quote. I "permessi di inquinare», infatti, quando eccedono perché ad esempio si riduce la produzione, possono essere rivenduti su apposite piattaforme online tra cui la 'European Energy Exchange (EEX)', e l’ICE Futures Europe. «Attraverso il mercato Ets - spiega Ruggiero - tra il 2008 e il 2015 ArcelorMittal ha guadagnato in Europa circa 1,8 miliardi di euro». E quindi, anche se chiudesse lo stabilimento di Taranto o riducesse la produzione, continuerebbe comunque a guadagnare. «Se l’impianto chiudesse nell’arco dell’anno in cui le quote sono state già ottenute - evidenzia Ruggiero - la società potrebbe tenerle e quindi rivenderle. Se invece di chiudere, decidesse di ridurre la produzione entro il limite del 49%, potrebbe comunque mantenere il 100% delle quote e continuare a vendere quelle che saranno in eccesso in seguito al calo della produzione». Ogni quota, che corrisponde a una tonnellata di C02, costa ad oggi 25 euro. Secondo uno studio di Carbon market watch, che ha riguardato tutti i settori più inquinanti, «in Europa tra il 2008 e il 2015 le imprese hanno guadagnato 25 miliardi di euro con la compravendita di quote di Ets». «Dal 2021 - evidenzia Ruggiero - questo non sarà più possibile poiché cambieranno le regole e a un cambio di produzione uguale o maggiore del 15% corrisponderà una assegnazione proporzionale di quote». «L'Italia e gli altri paesi dell’Ue - spiega Ruggiero - ogni anno fanno un Piano nazionale in cui le vengono assegnate quote in base a una stima delle emissioni fatta su quelle degli anni precedenti. A seconda del settore e del tipo di industria e del livello di efficienza dell’impianto, le aziende ricevono un tot di quote». I “permessi di inquinare”, però, non sono gratis per tutti. Se l’acciaieria è uno dei settori che beneficia dell’assegnazione gratuita delle quote, il settore energetico no. «Deve comprarle - evidenzia Ruggiero - e il ricavato va a finire nelle casse dello Stato».
«Il sistema degli Ets - prosegue - ha ridotto molto le emissioni nel settore energetico che le quote le acquista: in sei anni si sono ridotte del 20%. Non ha molto funzionato nel settore industriale, dove l'assegnazione è gratuita». Perché, conclude Ruggiero, «se devo pagare di più per inquinare, cercherò di inquinare meno; ma se ricevo le quote gratuitamente, non ho nessun costo e dunque nessun interesse a inquinare meno». 
Licenziamenti all'Ilva di Taranto: ArcelorMittal ci guadagna? Le Iene l'11 dicembre 2019. Gaetano Pecoraro vola in Belgio per farsi raccontare dagli ex operai come ArcelorMittal ha comprato le acciaierie locali per poi licenziare gran parte del personale. Una strategia che vuole applicare anche in Italia? Noi abbiamo scoperto un meccanismo in base al quale la crisi dell’Ilva di Taranto potrebbe far guadagnare milioni all’azienda. Dietro i 4.700 licenziamenti annunciati da Arcelor-Mittal per l’acciaieria Ilva di Taranto c’è un preciso piano di speculazione finanziaria? Se lo chiede Gaetano Pecoraro, che torna con una nuova puntata della sua inchiesta sullo stabilimento pugliese, da mesi al centro di un durissimo braccio di ferro tra il gruppo franco-indiano e il nostro Governo. La Iena è volata in Belgio per incontrare alcuni degli ex operai dello stabilimento locale di ArcelorMittal, licenziati e caduti in una spirale di depressione dalla quale è difficile uscire. Il più informato sulle presunte politiche dell’azienda sembra Frederic, che a Gaetano Pecoraro racconta: “Si diminuisce il personale, si licenziano gli operai e ogni volta si accetta e si crede che andrà bene anche così ma alla fine dei conti chiudono tutto. Hai presente un limone? Lo spremi, lo spremi e poi lo butti via”. “Avevamo un’industria molto grande, era su un’area di 40 chilometri”, spiega ancora Frederic, operaio di quella fabbrica che ai tempi della massima produzione dava un lavoro a quasi 10mila persone, sfornando 4.000 tonnellate di ghisa al giorno. Nel 2006 però arriva il signor Mittal, imprenditore indiano leader mondiale della produzione dell’acciaio. “Dovevamo fare un sacco di investimenti, ne hanno fatto qualcuno poi hanno smesso”, prosegue Frederic. “Quando Arcelor ha preso il controllo, ha voluto ottenere un rendimento anche del 10-15% sul capitale investito, un profitto esagerato, una cosa che non si è mai vista in siderurgia. E poi piano piano abbiamo capito che volevano chiudere”. Nel 2011 infatti il gruppo annuncia la chiusura dei due altiforni e un paio di anni dopo si ferma tutta la fase a caldo, cioè la vera e propria produzione dell’acciaio. Secondo gli stessi  commissari nominati dal governo italiano, dietro le decisioni di Arcelor Mittal sull’Ilva di Taranto ci sarebbe una precisa strategia industriale, tesa a “uccidere un proprio importante concorrente”. Vale a dire comprando aziende concorrenti solo per poi farle chiudere, a proprio esclusivo vantaggio. In Belgio lo scontro sociale era arrivato a livelli altissimi, da guerriglia urbana, ma l’azienda non ha receduto dalle proprie posizioni.  “Abbiamo combattuto ma sapevamo che avremmo perso”, racconta Luigi, ex operaio belga di origini siciliane. È uno dei primi a perdere il lavoro e dopo il licenziamento è iniziata una spirale fatta di alcol e depressione, che gli ha fatto perdere sia la moglie che la casa, che ha dovuto vendere. “C’è stato anche chi ha tentato il suicidio”, ci racconta l’ex operaio. La vita di questi lavoratori è segnata per sempre, come quella di Jobie, che ha perso tutto: “Non vado più in vacanza, si contano i soldi a fine mese, non ho più una moglie. Tra noi c’è chi ha cominciato a bere, non c’era un bel clima nelle case e il morale era a terra. Molti non hanno più trovato lavoro”. A morire, accanto alla vita di questi operai, anche gli stessi quartieri che prima ospitavano la produzione dell’acciaio. Un produzione, racconta ancora Frederic, forse non attentissima al tema della sicurezza e della salute. “I lavoratori erano sempre tutti neri, come dei minatori, un sacco di fumi e di gas. Ho avuto colleghi che si sono ammalati di cancro, era normale se lavoravi lì”. E quando abbassiamo la camera ci dice una cosa che se vera sarebbe molto grave: “Era il sindacato che doveva fare le analisi ma i sindacati sono molto legati con i politici. Quindi i sindacati non fanno le analisi”. Copione simile anche in Romania, dove la più grande acciaieria del paese, che impiegava 20mila persone, fu acquistata nel 2003 da ArcelorMittal e appena 8 anni dopo aveva solo 700 dipendenti! Con Gaetano Pecoraro abbiamo scoperto un meccanismo che, se confermato, getterebbe un’ombra lunghissima sulle politiche industriali di colossi come ArcelorMittal. Ridurre drasticamente la produzione potrebbe infatti essere redditizio perché in gioco ci sono le quote di Co2 per produrre, ovvero i “permessi per inquinare”. E così se si produce meno, a causa della riduzione del personale e della produzione, queste quote ottenute varrebbero oro. Ce lo spiega meglio Frederic “Se le rivende in Borsa perché c’è un mercato di queste quote. Ed è un regalo, perché Mittal non le ha mai pagate. È la stessa cosa in tutta Europa”. Un meccanismo applicabile anche al nostro paese? Per cercare di capirne di più intervistiamo Agnese Ruggiero, esperta della ong “Carbon market watch”, che si occupa di inquinamento industriale e del mercato di questi permessi. “Tramite il mercato di emissioni l’industria pesante tra il 2008 e il 2015 ha ricavato circa 25 miliardi di euro. Arcelor Mittal ha fatto un profitto di 1 miliardo e 800 milioni, con questo mercato, in 5 anni”. Stiamo parlando dunque di un profitto ricavato dalla vendita delle quote gratuite di Co2 assegnate dall’Unione Europea e il tutto senza neanche che ci sia stata una diminuzione delle emissioni inquinanti nell’ambiente. Un sistema che, secondo un giornalista di Europa Today, in Italia, a fronte del licenziamento a Taranto di 4.700 lavoratori, potrebbe fruttare all’azienda un profitto di 400 milioni di euro!  

Ex Ilva, il tribunale rigetta la richiesta dei commissari di prorogare l'uso dell'altoforno 2. L'impianto del siderurgico di Taranto era stato sequestrato e dissequestrato più volte nell'inchiesta sulla morte dell'operaio Alessandro Morricella. La Repubblica il 10 dicembre 2019. Il Tribunale di Taranto ha rigettato la richiesta di proroga presentata dai commissari dell'Ilva in As sull'uso dell'Altoforno 2, sequestrato e dissequestrato più volte nell'inchiesta sulla morte dell'operaio Alessandro Morricella. Mentre governo e ArcelorMittal tentano di individuare un percorso condivisibile per arrivare a un nuovo accordo sul turnaround dell'ex Ilva, tutti gli stabilimenti dell'ultimo colosso siderurgico italiano, sono fermi per lo sciopero indetto dai sindacati. E la tegola arriva in serata con la decisione del tribunale. Significa che scatta il possibile inizio delle operazioni di fermata degli impianti dal 13 dicembre. Anche se c'è un ulteriore spiraglio: fare ricorso al Tribunale del riesame. Intanto lo sciopero proclamato da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm ha ottenuto adesioni che in alcuni casi sono del 100%, con il 90% a Taranto e l'80% a Genova e Novi Ligure. Lo sciopero è iniziato alle 23 di ieri e si concluderà alle 7 di domani. Il messaggio dei sindacati a Governo e ArcelorMittal è sempre lo stesso "no esuberi". Mentre Confindustria Taranto chiede al Governo di prevedere una "No tax Area" per l'area di Taranto. Da parte del governo, il ministro dell'economia Roberto Gualtieri, intercettato davanti a Palazzo Chigi assicura a chi ha manifestato a Taranto: che in manovra è stato "approvato un fondo apposito" per sostenere il piano di sviluppo di Taranto. Quanto all'Ilva, ha aggiunto: "stiamo definendo un piano molto ambizioso per il rilancio di Ilva e delle acciaierie, nel segno della sostenibilità e del lavoro". Il ministro Stefano Patuanelli ribadisce l'obiettivo del Governo di fare dell'Ilva di Taranto "il primo esempio europeo di una riconversione sostenibile del siderurgico. Lo stato vuole poter entrare nello stabilimento - ha aggiunto dai microfoni di Radiouno - per controllare e garantire non solo la produzione ma anche le modalità di produzione e il rispetto dell'ambiente". Dal governo i sindacati si aspettano "una decisione chiara e netta sul risanamento ambientale, sulla tutela e garanzia dei livelli occupazionali e la continuità produttiva. Con o senza ArcelorMittal", dice il segretario generale della Uilm Rocco Palombella. I sindacati non si fidano di ArcelorMittal perché, dicono, "è gravemente inadempiente rispetto all'accordo del 2018, e al Governo chiedono "una linea chiara". La ricerca di creare un percorso definito è l'impegno di questi giorni nei contatti quotidiani fra Mise-ArcelorMittal-Commissari e fra i due ministeri ai quali il premier Conte ha affidato il compito di trovare una soluzione che, sembra ormai acquisito, avrà una presenza dello Stato con una quota che permetta un controllo sull'effettiva realizzazione del piano. Il Piano di risanamento e sviluppo, che si sta delineando, avrà una rete di protezione occupazionale di almeno 5 anni e vedrebbe l'Ilva di Taranto come parte essenziale di un più ampio piano di rilancio della città e dell'area di Taranto. La decisione del Tribunale di Taranto sull'uso dell'Altoforno 2, arriva dopo una serie di sequestri e dissequestri nell'inchiesta sulla morte dell'operaio Alessandro Morricella. I commissari chiedevano un anno di tempo per ottemperare alle prescrizioni di automazione del campo di colata. La decisione è del giudice Francesco Maccagnano, dinanzi al quale si svolge il processo sulla morte di Morricella, che si esprimerà tra l'11 e il 12 dicembre.

ILVA. Il Tribunale di Taranto nonostante il parere favorevole della Procura rigetta l' istanza di proroga per AFO2. Il Corriere del Giorno il 10 Dicembre 2019. La decisione del giudice del Tribunale di Taranto Francesco Maccagnano, che non ha tenuto in alcun conto il parere della procura di Taranto comporterebbe l’ inizio delle operazioni di spegnimento degli impianti a partire dal 13 dicembre. Un’ennesima manifestazione dello “Stato contro lo Stato” sulla vicenda ILVA. La Procura ed i legali dei Commissari governativi sono già al lavoro per fare ricorso al Tribunale del Riesame. Questa mattina si era svolto un incontro durato circa due ore fra la delegazione governativa dei tecnici del Mise e del Mef, guidata da Francesco Caio, per illustrare ai rappresentanti di ArcelorMittal il piano industriale del Governo per l’ Ilva di Taranto, quando è arrivata la notizia da Taranto che il giudice del dibattimento del Tribunale jonico Francesco Maccagnano, ignorando la richiesta della Procura, ha rigettato l’istanza avanzata dai commissari governativi dell ‘ ILVA in Amministrazione Straordinaria con la quale si chiedeva una proroga di 12 mesi per ottemperare alle prescrizioni di automazione del campo di colata dell’ altoforno AFO2. Una decisione che comporterebbe l’ inizio delle operazioni di spegnimento degli impianti a partire dal 13 dicembre data in cui scadono i tre mesi precedentemente concessi dal Tribunale del Riesame per ottemperare alle prescrizioni. La pm Antonella De Luca della Procura della repubblica di Taranto aveva concesso parere favorevole, indicando nuove prescrizioni, alla richiesta di proroga avanzata dai commissari di ILVA in Amministrazione Straordinaria  dopo aver esaminato la relazione depositata dal custode giudiziario del siderurgico, Barbara Valenzano. dirigente della Regione Puglia, considerata molto “vicina” ed allineata alle posizioni del Governatore Michele Emiliano. La decisione del giudice Maccagnano, dinanzi al quale si svolge il processo sulla morte dell’ operaio Alessandro Morricella, si esprimerà tra domani ed il prossimo 12 dicembre. I legali dei Commissari governativi sono già al lavoro per fare ricorso al Tribunale del Riesame. Secondo il giudice l’altoforno AFO2 al momento non sarebbe sicuro per gli operai e quindi concedere il tempo richiesti per procedere all’ultimazione della messa in sicurezza secondo il teorema a dir poco discutibile del Tribunale, significherebbe far prevalere il diritto al lavoro sul diritto alla salute, mettendo così a rischio l’economia e l’occupazione di un’intera provincia, quella di Taranto, il cui 70% dell’economa è di fatto “Ilva-dipendente“. Il contropiano presentato dal Governo è sicuramente lontano dagli intenti di ArcelorMittal, elencati nelle slide del nuovo piano industriale illustrato da Lucia Morselli, Ad di Arcelor Mittal Italia, lo scorso 4 dicembre scorso al Mise . Dopo un mese di trattative la richiesta iniziale di 5 mila esuberi presentata lo scorso 4 novembre da Lakshmi Mittal al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è scesa di ben poco, fermandosi a 4.700 tagli, di cui 2.900 a partire dal 2020. Nel dettaglio. La proposta di ArcelorMittal prevede la riduzione degli attuali 10.789 dipendenti , cioè quelli “garantiti” del piano originario presente nel contratto firmato il 6 settembre 2018 , a 6.098 nel 2023, con 2.891 esuberi a partire dal 2020 ed altri 1.800 previsti nei successivi tre anni, cioè dopo che ArcelorMittal prevedeva lo spegnimento dell’ altoforno Afo2 sostituendolo con un forno elettrico ad arco che assorbirebbe minor mano d’opera, con un aumento della produzione fino a 6 milioni dal 2021, in risalita quindi dei 4,5 milioni di tonnellate attuali. Ma adesso è arrivato da Taranto il nuovo problema giudiziario “ad orologeria” su Afo2, che è bene ricordare era una delle due giustificazioni ( o pretesti come sosteneva il premier Conte) insieme alla scomparsa dello “scudo penale” per iniziativa del M5S a firma di Luigi Di Maio, che aveva spinto ArcelorMittal a comunicare lo scorso 4 novembre il proprio recesso contrattuale. Da allora, nessuno dei due punti è stato rimosso. Il salvataggio dell’ex ILVA di Taranto a questo punto si complica sempre di più. “I lavoratori dell’Ilva, dopo 32 ore di sciopero e una grande manifestazione a Roma, non sono nemmeno riusciti a tornare a casa  — ha dichiarato ieri sera Rocco Palombella segretario generale della Uilm —  e trasmettere alle proprie famiglie un po’ di fiducia, che è arrivata la doccia gelata della decisione del Giudice di rigettare l’istanza dei commissari sulla continuità di marcia dell’altoforno 2“. ” Non voglio giudicare la decisione del Giudice – aggiunge il leader Uilm – ma ritengo che questa situazione sia l’ultimo tassello di una trattativa sempre più in salita, che vede allontanarsi una soluzione che vada nella direzione della tutela della salute, della salvaguardia dell’ambiente, della garanzia dei livelli occupazionale e della continuità produttiva“. ” Anche in questa situazione drammatica – concluda Palombella –  mi sento di trasmettere un messaggio di speranza nei confronti dei lavoratori e del lavoro che porteranno avanti le istituzioni. Con la fermata dell’altoforno 2 si prefigurano scenari preoccupanti che potrebbero portare fino alla chiusura dello stabilimento di Taranto e alla fermata degli altri siti italiani del gruppo. Questa decisione, inoltre, potrà inasprire il contenzioso tra Arcelor Mittal e lo Stato italiano”. La decisione del giudice del Tribunale di Taranto infatti complica senza alcun dubbio l’esito della trattativa in corso fra il Governo ed i Mittal, che non può prescindere dall’uso di AFO2, senza del quale gli impianti dello stabilimento siderurgico di Taranto sarebbero inutilizzabili produttivamente. Per dovere di cronaca occorre segnalare che il giudice Maccagnano fa parte della stessa sezione penale del Tribunale di Taranto presieduta dall’ ex Gip  Patrizia Todisco, da sempre “acerrima” nemica dello stabilimento siderurgico di Taranto. Solo una coincidenza? La parola adesso passa al Tribunale del Riesame di Taranto che ha molto spesso dato prova di assoluto equilibrio, annullando delle discutibili decisioni di qualche giudice a caccia di eccessivo protagonismo derivante da posizioni ideologiche e politiche che i magistrati dovrebbero rigorosamente evitare.

Taranto, l'ex Ilva si ferma: giudice dice no a proroga Afo 2. La rabbia dei lavoratori a Roma. Braccia incrociate fino alle 7 di domattina. La Gazzetta del Mezzogiorno. Mentre Governo e ArcelorMittal tentano di individuare un percorso condivisibile per arrivare a un nuovo accordo sul turnaround dell’ex Ilva, tutti gli stabilimenti dell’ultimo colosso siderurgico italiano, sono fermi per lo sciopero indetto dai sindacati. E una tegola arriva in serata: il giudice rigetta la richiesta di proroga per l’attività dell’Afo2 avanzata dai commissari al tribunale di Taranto. Questo tradotto vuol dire il possibile inizio delle operazioni di fermata degli impianti dal 13 dicembre. Anche se c'è un ulteriore spiraglio: fare ricorso al Tribunale del riesame. Intanto lo sciopero proclamato da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm ha ottenuto adesioni che in alcuni casi sono del 100%, con il 90% a Taranto e l’80% a Genova e Novi Ligure. Lo sciopero è iniziato alle 23 di ieri e si concluderà alle 7 di domani. Il messaggio dei sindacati a Governo e ArcelorMittal è sempre lo stesso «no esuberi». Mentre Confindustria Taranto chiede al Governo di prevedere una «No tax Area» per l’area di Taranto. La decisione del Tribunale di Taranto sull'uso dell’Altoforno 2, arriva dopo una serie di sequestri e dissequestri nell’inchiesta sulla morte dell’operaio Alessandro Morricella. I commissari chiedevano un anno di tempo per ottemperare alle prescrizioni di automazione del campo di colata. La decisione è del giudice Francesco Maccagnano, dinanzi al quale si svolge il processo sulla morte di Morricella, che si esprimerà tra l’11 e il 12 dicembre. Da parte del Governo, il ministro dell’economia Roberto Gualtieri, intercettato davanti a Palazzo Chigi assicura a chi ha manifestato a Taranto: che in manovra è stato «approvato un fondo apposito» per sostenere il piano di sviluppo di Taranto. Quanto all’Ilva, ha aggiunto: «stiamo definendo un piano molto ambizioso per il rilancio di Ilva e delle acciaierie, nel segno della sostenibilità e del lavoro». Il ministro Stefano Patuanelli ribadisce l’obiettivo del Governo di fare dell’Ilva di Taranto «il primo esempio europeo di una riconversione sostenibile del siderurgico. Lo stato vuole poter entrare nello stabilimento - ha aggiunto dai microfoni di Radiouno - per controllare e garantire non solo la produzione ma anche le modalità di produzione e il rispetto dell’ambiente». Dal Governo i sindacati si aspettano «una decisione chiara e netta sul risanamento ambientale, sulla tutela e garanzia dei livelli occupazionali e la continuità produttiva. Con o senza ArcelorMittal», dice il segretario generale della Uilm Rocco Palombella. I sindacati non si fidano di ArcelorMittal perché, dicono, «è gravemente inadempiente rispetto all’accordo del 2018, e al Governo chiedono «una linea chiara». La ricerca di creare un percorso definito è l’impegno di questi giorni nei contatti quotidiani fra Mise-ArcelorMittal-Commissari e fra i due ministeri ai quali il premier Conte ha affidato il compito di trovare una soluzione che, sembra ormai acquisito, avrà una presenza dello Stato con una quota che permetta un controllo sull'effettiva realizzazione del piano. Il Piano di risanamento e sviluppo, che si sta delineando, avrà una rete di protezione occupazionale di almeno 5 anni e vedrebbe l’Ilva di Taranto come parte essenziale di un più ampio piano di rilancio della città e dell’area di Taranto.

EMILIANO: EVENTUALE CHIUSURA COSTEREBBE CIRCA 20 MILIARDI - Costerebbe circa 20 miliardi di euro in 15 anni l’eventuale scelta di chiudere l’ex Ilva di Taranto, bonificare le aree e 'ricondizionare' il sito produttivo per poter affrontare anche la questione occupazionale di un impianto siderurgico che oggi impiega circa 15mila lavoratori, circa 6mila dei quali nell’indotto. Lo ha detto in sostanza il governatore della Puglia, Michele Emiliano, rispondendo a domande alla trasmissione televisiva Tagadà dell’emittente La7. "Questo è il calcolo che abbiamo fatto», ha precisato. Emiliano ha sottolineato anche che il calcolo è stato compiuto nel vagliare diverse ipotesi per affrontare la vertenza ex Ilva. Se il siderurgico «dovesse invece continuare a funzionare, la Regione Puglia si è espressa da tempo per la decarbonizzazione. Una volta ci prendevano in giro per la decarbonizzazione, ora invece - ha aggiunto - pare che il Governo sia orientato a questa scelta».

CANTIERE TARANTO: CONFINDUSTRIA A GOVERNO, NO TAX AREA - «Portare avanti la No Tax Area, già ipotizzata dal sindaco, per tutto il territorio jonico; adottare misure legislative e fiscali di carattere straordinario che pongano le condizioni, oltre che per i complessi processi di bonifica, per una riconversione socio-culturale, di infrastrutturazione e ambientalizzazione del territorio». Così Confindustria Taranto, in una lettera al Governo con le proposte, anche un piano dell’indotto ex Ilva - ora gestita da Arcelor Mittal - per il 'Cantiere' lanciato le scorse settimane dal premier Conte.  «Rilanciamo il nostro appello al presidente del Consiglio ad esserci tutti, con le nostre idee e le nostre proposte, in quel Cantiere che in questi giorni il Governo sta allestendo per Taranto, e rinnoviamo la proposta di mettere a fattor comune le istanze che arrivano dagli enti, dalle associazioni, dagli ordini professionali del territorio». Il presidente di Confindustria Taranto, Antonio Marinaro, lo sottolinea nella lettera aperta indirizzata al premier «e ai ministri a vario titolo coinvolti» dal 'Cantiere Tarantò. «In questi giorni, in cui la questione dell’ex Ilva - aggiunge - è ancora una volta costantemente alla ribalta locale e nazionale, un dato emerge, preponderante, su tutti: la città vuole partecipare al progetto di ricostruzione e riconversione della grande fabbrica, o perlomeno valutarne da vicino le fasi di riorganizzazione complessiva». Fra le proposte che presenterà Confindustria Taranto «c'è, tra le altre, quella di uno specifico progetto 'Indotto Taranto' - spiega Marinaro - finalizzato alla definizione di un modello trasparente e sostenibile di relazioni tra fabbrica e sistema produttivo dell’indotto territoriale che preveda la creazione di un sistema di qualificazione dei fornitori incentrato su concrete specializzazioni produttive, compliance e legalità».

FURLAN (CISL), MOBILITAZIONE FINCHÈ NON AVREMO RISPOSTE - «Finché non avremo le risposte alle questioni che un anno fa abbiamo aperto insieme, noi continueremo nella mobitazione, nella nostra lotta. Non ci bastano i cambiamenti di modi, abbiamo bisogno di risposte». Così la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, dal palco della manifestazione con Cgil e Uil per il lavoro. «In un anno non è cambiato nulla. Abbiamo bisogno di chiudere le vertenze aperte, 160 a cui ogni giorno se ne aggiunge una, di togliere dall’incertezza oltre trecentomila lavoratori e lavoratrici. Il clima è un pò peggiorato, altro che migliorato". «Abbiamo bisogno di risposte a partire da Ilva, Alitalia, Whirlpool, Mercatone uno: in tutti i settori abbiamo vertenze aperte con minacce o veri e propri licenziamenti di migliaia e migliaia di uomini e donne. Mai così in basso. Vogliamo che queste vengano risolte e vogliamo dare un messaggio chiaro alle multinazionali: non si viene in questo Paese a fare shopping e poi a buttare via imprese e chi ci lavora dentro». Così la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, rimarcando dalla piazza della manifestazione unitaria che «gli accordi non sono carta straccia». Furlan manda anche «un messaggio chiaro al governo e alla politica: basta mettere le imprese al centro delle liti interne ai partiti e alla maggioranza. Ci vuole serietà in queste cose, quella che finora è sempre mancata». LANDINI (CGIL): SERVE CAMBIAMENTO, UNITI CE LA FAREMO - «Il mondo del lavoro unito chiede il cambiamento del Paese: si mettano in testa che non si cambia senza e contro i lavoratori. Noi non abbiamo paura, non ci rassegniamo e andiamo avanti finché non otteniamo risultati. Uniti ce la possiamo fare». Così il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, dal palco della manifestazione nazionale unitaria «per il lavoro» in corso in piazza Santi Apostoli a Roma.

PER IL MOMENTO A TARANTO NESSUNA OCCUPAZIONE - Un piccolo gruppo di manifestanti al sit in di Taranto avrebbe voluto occupare gli uffici della direzione ArcelorMittal, presidiata da un cordone della Digos e della Guardia di Finanza, ma la maggioranza ha deciso, anche grazie alla mediazione del segretario nazionale dell’Usb, Sergio Bellavita, che sarà una prossima assemblea a valutare eventuali altre forme di mobilitazione. Questa assemblea potrebbe tenersi venerdì, dopo l’incontro di giovedì in programma al Mise, presieduto dal ministro Patuanelli, con le organizzazioni sindacali e i Commissari dell’Ilva in As.

«Il governo non ceda ai ricatti - incalza Usb a Taranto con associazioni e comitati - Mittal se ne deve andare. Non vogliamo alcun accordo. La fabbrica va chiusa perché uccide e non può essere risanata». Il sitin Usb a Taranto è in concomitanza con la manifestazione nazionale a Roma. «Questa - rilevano - deve essere una battaglia comune. Non ci devono essere divisioni tra cittadini e lavoratori. Gli operai possono essere reimpiegati».

ILVA. Il Tribunale di Taranto nonostante il parere favorevole della Procura rigetta l' istanza di proroga per AFO2. Il Corriere del Giorno il 10 Dicembre 2019. La decisione del giudice del Tribunale di Taranto Francesco Maccagnano, che non ha tenuto in alcun conto il parere della procura di Taranto comporterebbe l’ inizio delle operazioni di spegnimento degli impianti a partire dal 13 dicembre. Un’ennesima manifestazione dello “Stato contro lo Stato” sulla vicenda ILVA. La Procura ed i legali dei Commissari governativi sono già al lavoro per fare ricorso al Tribunale del Riesame. Questa mattina si era svolto un incontro durato circa due ore fra la delegazione governativa dei tecnici del Mise e del Mef, guidata da Francesco Caio, per illustrare ai rappresentanti di ArcelorMittal il piano industriale del Governo per l’ Ilva di Taranto, quando è arrivata la notizia da Taranto che il giudice del dibattimento del Tribunale jonico Francesco Maccagnano, ignorando la richiesta della Procura, ha rigettato l’istanza avanzata dai commissari governativi dell ‘ ILVA in Amministrazione Straordinaria con la quale si chiedeva una proroga di 12 mesi per ottemperare alle prescrizioni di automazione del campo di colata dell’ altoforno AFO2. Il parere della Procura era favorevole ma con le prescrizioni  che riguardavano l’adozione, da parte di ArcelorMittal, affittuario dello stabilimento siderurgico di Taranto, delle nuove procedure operative individuate da ILVA in Amministrazione Straordinaria. Nella relazione del custode giudiziario Valenzano è stato evidenziato proprio questo punto, a seguito del quale il custode ha dato atto a ILVA di aver depositato entro il 13 novembre scorso (termine previsto, ), l’analisi di rischio ma ha altresì evidenziato che ArcelorMittal non aveva applicato le modificate procedure operative e finalizzate ad ottenere più sicurezza sull’impianto. La decisione del giudice Maccagnano comporterebbe l’ inizio delle operazioni di spegnimento degli impianti a partire dal 13 dicembre data in cui scadono i tre mesi precedentemente concessi dal Tribunale del Riesame per ottemperare alle prescrizioni. Ma anche in questo caso sarà nuovamente il Riesame di Taranto a dire l’ultima parola in merito, ancor prima ci si si rivolga alla Suprema Corte.

La pm Antonella De Luca della Procura della repubblica di Taranto aveva concesso parere favorevole, indicando nuove prescrizioni, alla richiesta di proroga avanzata dai commissari di ILVA in Amministrazione Straordinaria  dopo aver esaminato la relazione depositata dal custode giudiziario del siderurgico, Barbara Valenzano. dirigente della Regione Puglia, considerata molto “vicina” ed allineata alle posizioni del Governatore Michele Emiliano. La decisione del giudice Maccagnano, dinanzi al quale si svolge il processo sulla morte dell’ operaio Alessandro Morricella, si esprimerà tra domani ed il prossimo 12 dicembre. I legali dei Commissari governativi sono già al lavoro per fare ricorso al Tribunale del Riesame. Secondo il giudice l’altoforno AFO2 al momento non sarebbe sicuro per gli operai e quindi concedere il tempo richiesti per procedere all’ultimazione della messa in sicurezza secondo il teorema a dir poco discutibile del Tribunale, significherebbe far prevalere il diritto al lavoro sul diritto alla salute, mettendo così a rischio l’economia e l’occupazione di un’intera provincia, quella di Taranto, il cui 70% dell’economa è di fatto “Ilva-dipendente“.

Si è di fronte ad una situazione paradossale: da un lato, infatti, ci sono i giudici del tribunale milanesi che hanno invitato Arcelor Mittal a non spegnere gli altoforni e a continuare la produzione; dall’altro un giudice tarantino tarantina che impone lo spegnimento. L’ennesimo scontro istituzionale all’interno dello Stato. Senza l’ altoforno AFO2 rimangono in funzione solo gli altri due altoforni, Afo1 e AFO4: ognuno dei due altoforni infatti può produrre al massimo due milioni di tonnellate di acciaio l’anno, e soli quattro milioni di tonnellate sono pochi legittimando di fatto i 4.700 esuberi dichiarati dall’azienda. Per rimettere in esercizio l’  AFO5, il più grande altoforno d’Europa, attualmente spento per opere di in ristrutturazione, occorre non poco tempo ed ingenti investimenti. Al momento infatti, gli altoforni elettrici restano ancora solo un’idea contenuta in un progetto. “Nonostante tutte le proroghe della facoltà d’uso di cui ha beneficiato Ilva Spa, concesse espressamente oppure implicitamente, si impone a questo giudice rilevare che il termine richiesto per l’adempimento delle residue prescrizioni (pari, nella sua estensione massima, a 14 mesi) appare poco più del triplo del termine originariamente concesso dalla Procura” scrive Maccagnano nel provvedimento di 29 pagine “il termine richiesto risulta troppo ampio, in palese contrasto con tutte le indicazioni giurisprudenziali e normative, e dunque tale da comprimere eccessivamente l’interesse alla salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei lavoratori“. Per il giudice Maccagnano i tempi di proroga complessivi chiesti da ILVA (14 mesi totali con due step intermedi a 9 e 10 mesi), nonché quello “di poco meno di tre mesi già riconosciuto dal Tribunale della Libertà comporti in sacrificio eccessivo delle esigenze cautelari sussistenti nel caso in specie, e dunque de bene dell’integrità psicofisica dei lavoratori”.

Il contropiano presentato dal Governo è sicuramente lontano dagli intenti di ArcelorMittal, elencati nelle slide del nuovo piano industriale illustrato da Lucia Morselli, Ad di Arcelor Mittal Italia, lo scorso 4 dicembre scorso al Mise . Dopo un mese di trattative la richiesta iniziale di 5 mila esuberi presentata lo scorso 4 novembre da Lakshmi Mittal al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è scesa di ben poco, fermandosi a 4.700 tagli, di cui 2.900 a partire dal 2020. Nel dettaglio. La proposta di ArcelorMittal prevede la riduzione degli attuali 10.789 dipendenti , cioè quelli “garantiti” del piano originario presente nel contratto firmato il 6 settembre 2018 , a 6.098 nel 2023, con 2.891 esuberi a partire dal 2020 ed altri 1.800 previsti nei successivi tre anni , cioè dopo che ArcelorMittal prevedeva lo spegnimento dell’ altoforno Afo2 sostituendolo con un forno elettrico ad arco che assorbirebbe minor mano d’opera, con un aumento della produzione fino a 6 milioni dal 2021, in risalita quindi dei 4,5 milioni di tonnellate attuali. Ma adesso è arrivato da Taranto il nuovo problema giudiziario “ad orologeria” su Afo2, che è bene ricordare era una delle due giustificazioni ( o pretesti come sosteneva il premier Conte) insieme alla scomparsa dello “scudo penale” per iniziativa del M5S a firma di Luigi Di Maio, che aveva spinto ArcelorMittal a comunicare lo scorso 4 novembre il proprio recesso contrattuale. Da allora, nessuno dei due punti è stato rimosso. Il salvataggio dell’ex ILVA di Taranto a questo punto si complica sempre di più. “I lavoratori dell’Ilva, dopo 32 ore di sciopero e una grande manifestazione a Roma, non sono nemmeno riusciti a tornare a casa  — ha dichiarato ieri sera Rocco Palombella segretario generale della Uilm —  e trasmettere alle proprie famiglie un po’ di fiducia, che è arrivata la doccia gelata della decisione del Giudice di rigettare l’istanza dei commissari sulla continuità di marcia dell’altoforno 2“. ” Non voglio giudicare la decisione del Giudice – aggiunge il leader Uilm – ma ritengo che questa situazione sia l’ultimo tassello di una trattativa sempre più in salita, che vede allontanarsi una soluzione che vada nella direzione della tutela della salute, della salvaguardia dell’ambiente, della garanzia dei livelli occupazionale e della continuità produttiva“.

Rocco Palombella segretario generale della Uilm. ” Anche in questa situazione drammatica – concluda Palombella –  mi sento di trasmettere un messaggio di speranza nei confronti dei lavoratori e del lavoro che porteranno avanti le istituzioni. Con la fermata dell’altoforno 2 si prefigurano scenari preoccupanti che potrebbero portare fino alla chiusura dello stabilimento di Taranto e alla fermata degli altri siti italiani del gruppo. Questa decisione, inoltre, potrà inasprire il contenzioso tra Arcelor Mittal e lo Stato italiano”. La decisione del giudice del Tribunale di Taranto complica senza alcun dubbio l’esito della trattativa in corso fra il Governo ed i Mittal, che non può prescindere dall’uso dell’ altoforno AFO2, senza del quale gli impianti dello stabilimento siderurgico di Taranto sarebbero produttivamente inutilizzabili. Per dovere di cronaca occorre segnalare che il giudice Maccagnano fa parte della stessa sezione penale del Tribunale di Taranto presieduta dall’ ex Gip  Patrizia Todisco, da sempre “acerrima” nemica dello stabilimento siderurgico di Taranto. Solo una coincidenza? La parola adesso passa al Tribunale del Riesame di Taranto che ha molto spesso dato prova di assoluto equilibrio, annullando delle discutibili decisioni di qualche giudice a caccia di eccessivo protagonismo derivante da posizioni ideologiche e politiche che i magistrati dovrebbero rigorosamente evitare. 

Ex Ilva: lo Stato di diritto vacilla quando la magistratura impera sugli altri poteri. Giuliano Cazzolla, giuslavorista, su Il Corriere del Giorno il 12 Dicembre 2019. A prescindere da come si pronuncerà il Tribunale del Riesame non si può negare la persistenza di un clima di ostilità da parte della magistratura ionica nei confronti di quello stabilimento. L’ex ILVA vive da sette anni sotto assedio, senza una guida e priva di una visione per il futuro. “La magistratura entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari”. A noi ragazzi della scuola media quella storia veniva raccontata così: il valoroso Francesco Ferrucci giaceva a terra agonizzante per le ferite ricevute in combattimento. A lui si accostava Maramaldo che lo finiva a coltellate. Ma l’eroe, prima di spirare, infamava il suo assassino con parole destinate a sopravvivergli per secoli: “Vile, tu uccidi un uomo morto”. Ignoro quali pensieri abbiamo attraversato la mente dei lavoratori dell’ex ILVA (ora anche ex Arcelor Mittal) quando hanno saputo che il Tribunale di Taranto aveva respinto la richiesta di proroga, avanzata (sic!) dalla procura, della chiusura dell’altoforno n.2 (che una precedente ordinanza aveva fissato per il 13 dicembre se nel frattempo non fosse stato automatizzato). “Il termine richiesto – ha stabilito il giudice – risulta troppo ampio, in palese contrasto con tutte le indicazioni giurisprudenziali e normative, e dunque tale da comprimere eccessivamente l’interesse alla salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei lavoratori”. L’ordinanza si è abbattuta come un violento starnuto su di un precario castello di carte, proprio nel momento in cui è in corso il tentativo di cercare una soluzione – sempre più difficile – per mantenere in vita lo stabilimento. La società franco-indiana aveva motivato la sua intenzione di ritirarsi dall’operazione-acciaio ritenendo impossibile realizzare gli obiettivi produttivi e di risanamento ambientale a cui era impegnata, se costretta a chiudere l’altoforno come imposto dalla magistratura tarantina. La vertenza era poi finita nella morsa di un paradosso giudiziario, dopo l’intervento della Procura di Milano, la “madre” di tutte le procure d’Italia. Alla società era stato ordinato di spegnere e contemporaneamente di lasciare in funzione l’altoforno più importante dello stabilimento. In sostanza, con la minaccia di rispondere penalmente (ecco dove sta la necessità di un usbergo contro l’accanimento giudiziario) sia della continuità del funzionamento che della chiusura degli impianti. Questa contraddizione era apparsa talmente evidente a tutti che si era riaperto un negoziato avente per oggetto le dure condizioni dettate da Arcelor Mittal per rimanere. A prescindere da come si pronuncerà il Tribunale del Riesame non si può negare la persistenza di un clima di ostilità da parte della magistratura ionica nei confronti di quello stabilimento. L’ex ILVA vive da sette anni sotto assedio, senza una guida e priva di una visione per il futuro. Sostanzialmente in apnea, in una condizione cioè in cui è quasi impossibile gestire un’unità produttiva. Ma il caso dello stabilimento tarantino pone problemi più seri e inquietanti che riguardano la tenuta dello Stato di diritto. A questo proposito è interessante leggere il saggio “Il diritto penale totale: punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi” (Il Mulino) un lepidus libellus di Filippo Sgubbi, già professore di Diritto penale in importanti Atenei italiani. Sgubbi non si limita a sottolineare il predominio assunto dalla magistratura sulle altre funzioni dello Stato, ma denuncia una vera e propria trasformazione sia del giudizio che dello stesso diritto penale, coinvolto in un’inquietante prospettiva in cui la giurisprudenza non diventa, soltanto e impropriamente, fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo. “L’apparato penale costruito per definire l’area dell’illecito e per legittimare l’applicazione delle sanzioni – spiega Sgubba – diventa il supporto per l’adozione di scelte decisionali di governo economico-sociali”. La “distorsione istituzionale” viene così spiegata: “la decisione giurisprudenziale diventa – secondo l’autore – una decisione non soltanto di natura legislativa, quale regola di comportamento, ma anche di governo economico-sociale imperniato sull’opportunità contingente”. Ma la critica (“le norme penali così assumono un ruolo inedito. Sono fattori non di punizione, ma di governo”) non si ferma qui. “Il sequestro di aree, di immobili, di un’azienda o di un suo ramo, il sequestro di un impianto industriale e simili incide direttamente sui diritti dei terzi. Con tali provvedimenti cautelari reali – prosegue Sgubba – la magistratura entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari”. Filippo Sgubbi non cita degli esempi concreti. Ma le sue considerazioni, ad avviso di chi scrive, non si discostano dal profilo del caso ex ILVA.

All’ombra di Palazzo Chigi. Ilva, ecco gli affari privati del fedelissimo di Giuseppe Conte, inviato del Governo a Taranto. Mario Turco, senatore Cinque stelle e sottosegretario, ha molti interessi nella città dell'acciaieria, dove è nato e cresciuto. Una girandola di amicizie e incarichi, alcuni sul filo del conflitto d'interessi. Vittorio Malagutti e Gloria Riva  l’11 dicembre 2019 su L’Espresso. La modestia, almeno a parole, non gli fa difetto. A metà settembre, nella sua prima intervista da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Mario Turco raccontò di aver pensato a «uno scherzo», quando Giuseppe Conte gli telefonò per annunciargli la nomina. Da qualche settimana, però, l’esibito understatement dell’esordiente al governo ha lasciato il posto a un attivismo mediatico da politico di prima fila, tra dichiarazioni ai giornali, note ufficiali e interventi sui social. Ha imparato in fretta, Turco. Solo due anni fa era un anonimo commercialista pugliese. Un ricercatore universitario a digiuno di politica e di partiti. Adesso gioca da pivot nella squadra di Conte a palazzo Chigi e come sottosegretario alla presidenza del Consiglio segue in prima persona le partite più complicate, a cominciare dall’Ilva. La rapidissima ascesa del professore, come ama farsi chiamare, è partita proprio dalla città dell’acciaieria, dove il suo nome è ancora al centro di una ragnatela di affari e di rapporti. Arruolato dai Cinque stelle poche settimane prima delle elezioni, Turco è sbarcato in Senato grazie al trionfo grillino a Taranto e ben presto il futuro sottosegretario si è conquistato quella fama da secchione appassionato di bilanci che ha messo le ali alla sua carriera. Tre mesi fa, infatti, durante la faticosa trattativa per la formazione del nuovo esecutivo, Conte era alla ricerca di un esperto di numeri e di finanza, un tecnico in grado di affrontare i dossier più delicati di politica economica. Ecco Turco, quindi, che agli occhi del premier incaricato aveva anche la non secondaria qualità di essere difficilmente incasellabile in una delle numerose fazioni in cui si divide la truppa dei parlamentari pentastellati. In altre parole, il senatore tarantino sembrava il candidato ideale per un incarico a diretto riporto del presidente del Consiglio, un collaboratore da cui era lecito attendersi dedizione assoluta. La sua figura ricorda quella dello stesso Conte. Un tecnico estraneo alla politica, ma di provata competenza in campo giuridico ed economico, che passati i cinquant’anni risponde alla chiamata dei Cinque stelle e si trova all’improvviso proiettato al governo. Di certo a Palazzo Chigi non si era mai visto, neppure ai tempi del leghista bocconiano Giancarlo Giorgetti, un sottosegretario con un mandato così ampio in materia di investimenti pubblici, di programmazione e sviluppo della politica economica. Secondo quanto recita il decreto di nomina, spetta per esempio a Turco il coordinamento di “specifiche iniziative volte a fronteggiare situazioni straordinarie di crisi in ambiti territoriali locali”, un ruolo che gli attribuisce anche la facoltà di partecipare a tutti i tavoli istituzionali dove si discutono gli interventi nelle aree del Paese in difficoltà. In cima alla lista delle emergenze c’è l’Ilva. E allora non sembra un caso che Conte abbia affidato una delega specifica per seguire la complessa vicenda proprio a Turco, nato e cresciuto a Taranto. «È un incentivo alla paralisi economica», ha tagliato corto di recente il sottosegretario parlando del polo siderurgico. Pollice verso anche sulla multinazionale Arcelor-Mittal, che avrebbe a suo tempo comprato lo stabilimento pugliese solo per evitare che «venisse rilevato dai suoi concorrenti». Una posizione tranchant che si fa più sfumata quando dalle dichiarazioni di principio si passa ai programmi concreti. Del resto, l’anno scorso, i Cinque stelle hanno fatto man bassa di voti proprio predicando la chiusura degli impianti. E, appena eletto, anche Turco chiedeva «un nuovo contratto di programma che puntasse alla riconversione economica dell’area di Taranto». Adesso che il senatore pugliese è approdato al governo, le promesse del recente passato hanno fin qui partorito niente più che un elenco di obiettivi proiettati in un futuro indefinito. Un piano gradualista che finisce per scontentare tutti: gli ambientalisti che pretendono lo stop immediato all’impianto e anche i sindacati preoccupati per la sorte di migliaia di posti di lavoro. Turco si barcamena. Da mesi ormai fa la spola tra Roma e Taranto per gettare acqua sul fuoco delle polemiche e illustrare ai suoi concittadini nuovi futuribili scenari di sviluppo a base di «infrastrutture, cantieristica navale, una piattaforma logistica dell’agroalimentare». Il sottosegretario gioca in casa e sa bene come muoversi. Nel suo passato non ci sono meet up grillini, nessuna partecipazione militante alle storiche battaglie dei Cinque Stelle. In compenso, quando Luigi Di Maio diede via libera alla sua candidatura, l’aspirante senatore, forte di un brillante curriculum accademico, era già ben inserito negli ambienti che contano della sua città. Di lunga data, per esempio sono i rapporti con Luigi Sportelli, imprenditore collezionista di poltrone che è approdato al vertice della Camera di commercio locale dopo avere a lungo presieduto Confindustria Taranto. Non pare un caso, allora, che Turco sia stato chiamato nel collegio sindacale di alcune società in qualche modo riconducibili a Sportelli. L’elenco comprende la Oda, holding di famiglia dell’imprenditore, e la controllata Sincron, attiva nella produzione di software, ma ci sono anche aziende a capitale pubblico come Agrimed e Distripark, entrambe partecipate dalla Camera di commercio. Il neo senatore grillino non ha rinunciato a questi incarichi neppure dopo l’elezione in Parlamento. Così, una volta al governo, si è trovato a promuovere interventi che coinvolgevano enti in cui era personalmente coinvolto. È il caso delle già citate Agrimed e Distripark, che nei piani del governo avrebbero dovuto dare impulso a nuove attività destinate in prospettiva ad attutire le ricadute negative sulla città di un eventuale ridimensionamento dell’Ilva. In realtà, entrambe sono rimaste inattive, ma con amministratori e sindaci per anni regolarmente retribuiti. Agrimed aveva come mission la gestione di progetti di sviluppo in campo agricolo. Distripark invece era nata ormai una ventina di anni fa per gestire un centro logistico collegato al porto. I fondi pubblici destinati a finanziare l’iniziativa, circa 12 milioni, sono però bloccati per motivi burocratici. Proprio Turco, in veste di rappresentante del governo, ha annunciato che le due società verranno quanto prima dotate delle risorse necessarie per mettersi finalmente in moto. Nel frattempo, il 28 ottobre, lo stesso Turco ha lasciato il collegio sindacale di Agrimed, mentre compare ancora nell’organo di controllo contabile di Distripark. Una banale dimenticanza? Può darsi. «Mi sono dimesso da tutti gli incarichi professionali appena nominato sottosegretario», ha dichiarato Turco a L’Espresso. Di certo la vicenda delle due società a capitale pubblico conferma che a marzo dell’anno scorso il futuro senatore grillino, a dispetto del rinnovamento predicato dai Cinque Stelle, era un professionista già ben introdotto nelle stanze del potere locale. Ottime anche le sue entrature a palazzo di giustizia, dove la cognata di Turco è giudice civile. Il fratello Angelo invece è notaio. In qualità di commercialista, il sottosegretario ha ricevuto numerosi incarichi di curatore fallimentare. Fa capo a lui anche una partecipazione del 22 per cento nella società di famiglia Terus, che a Taranto gestisce l’agenzia di assicurazioni della compagnia francese Axa. I genitori del senatore, confermano i documenti catastali, possiedono un ingente patrimonio immobiliare: almeno una decina di appartamenti in palazzi del centro di Taranto, a cui va aggiunta una villa al mare nella stessa località balneare a pochi chilometri dalla città dove anche i due figli Mario e Angelo possiedono una casa. Sul piano professionale l’ascesa di Turco è passata anche attraverso l’esperienza di docente all’università del Salento, ramo finanza aziendale, con la qualifica di professore aggregato, cioè un ricercatore al quale vengono affidati anche compiti di insegnamento. Quello del senatore tarantino è quindi un incarico a tempo, che non presuppone la partecipazione a un concorso nazionale, come per i professori associati e per quelli ordinari. Nella banca dati del ministero dell’Istruzione, al nome del sottosegretario corrisponde la qualifica di ricercatore. Una questione di titoli, certo, ma anche di sostanza. Dal marzo dell’anno scorso infatti, da quando è diventato un politico a tempo pieno, Turco non può più essere considerato professore aggregato, al contrario di quanto si legge nel suo curriculum pubblicato in rete sul sito del governo.

Intervista a Bentivogli: “Ilva, pasticcio di pm e politici, a pagare sono i lavoratori”. Giulio Seminara il 12 Dicembre 2019 su Il Riformista. «È la solita storia italiana: un pasticcio politico-giudiziario sulla pelle dei lavoratori». Marco Bentivogli, Segretario generale Fim-Cisl, dopo l’annuncio di ArcelorMittal di mandare in cassa integrazione 3.500 lavoratori non nasconde la sua rabbia. L’iniziativa è successiva alla decisione del tribunale di Taranto di rigettare la richiesta di proroga presentata dai commissari dell’Ilva sull’uso dell’Altoforno 2, sequestrato a più riprese dopo l’incidente mortale occorso all’operaio Alessandro Morricella nel 2015. «Questa non ci voleva. In poco tempo i cassintegrati totali dell’Ilva sono diventati più di 5300, tutti privi di un vero piano industriale che metta insieme lavoro e ambiente. La colpa è anche della passività dei commissari straordinari che in questi anni non hanno messo in sicurezza l’Altoforno 2. Per questo ritengo che la decisione del giudice sia formalmente corretta».

Cosa sta succedendo a Taranto?

«È una storia assurda, con la politica e la magistratura protagoniste, e tutta a danno dei lavoratori. C’è stato un flipper giudiziario sull’asse Milano-Taranto che vedeva una procura favorevole alla proroga e un’altra contraria, una procura che mette sotto inchiesta l’azienda se apre l’Altoforno e un’altra che interviene se invece viene chiuso. Non ha aiutato il presidente di regione Michele Emiliano che ha cambiato idea in continuazione. Oggi ArcelorMittal ha un alibi in più per dire che in Italia non si può lavorare e forzare la mano con il governo».

Appunto, il governo?

«L’esecutivo è confuso e diviso, c’è chi sogna la nazionalizzazione dell’Ilva con qualche privato dentro, e sarebbe un disastro, e chi vuole realizzare l’accordo del settembre 2018 con ArcelorMittal, l’opzione più ragionevole. Al tempo prevedemmo zero esuberi e il risanamento ambientale per ridurre gli effetti inquinanti sul territorio. Noi chiediamo al governo di essere garante di questo accordo. Altro che nazionalizzazioni e capitani coraggiosi “de noantri” che fanno affari coi soldi dei contribuenti. Io non ho nostalgia dell’Ilva pubblica, una storia di inquinamento e tangenti. ArcelorMittal non ha colpe sugli errori compiuti nei 55 anni di vita dell’impianto, ma solo dal 1 gennaio 2019. Una multinazionale che investa e stia nel mercato globale ci vuole per forza. E poi, qualcuno ha alternative vere da proporre?»

Quali proposte per rilanciare l’Ilva?

«Dobbiamo crederci, il mercato dell’acciaio è tutt’altro che finito, ma bisogna fare un nuovo piano industriale. Dobbiamo automatizzare anche gli altri Altoforni per evitare nuove tragedie (caso Morricella, ndr) e fare le bonifiche ambientali. Potremmo produrre grandi quantità di preridotto direttamente a Taranto, continuando a usare il gas. Si parla di forni elettrici ed ibridi ma non si sa con quali soldi, tecnologie e impatto ambientale».

ILVA. I commissari dello Stato depositano ricorso al riesame contro la decisione del Tribunale di Taranto. Il Corriere del Giorno il 18 Dicembre 2019. Il ricorso dei commissari dell’ ILVA in amministrazione straordinaria al Tribunale dell’ Appello contro la decisione del giudice Francesco Maccagnano di respingere l’istanza di proroga della facoltà d’uso. Con ogni probabilità l’udienza verrà celebrata il 30 dicembre, sulla base del calendario delle discussioni dei ricorsi già fissato dal Tribunale. I difensori dell’ ILVA in Amministrazione Straordinaria hanno deposito oggi il ricorso alla cancelleria del Tribunale del Riesame di Taranto, contro la decisione assunta dal giudice Francesco Maccagnano, facente parte della stessa sezione penale presieduta dall’ ex-Gip Patrizia Todisco ( ritenuta per i trascorsi il nemico giudiziario n° 1 dell’ ILVA), di respingere l’istanza di proroga della facoltà d’uso dell’Altoforno 2 dello stabilimento siderurgico ex-ILVA di Taranto, condotto in gestione da ArcelorMittal. Adesso si aspetta di conoscere la data dell’udienza che con ogni probabilità verrà celebrata per il 30 dicembre, sulla base del calendario delle discussioni dei ricorsi già fissato dal Tribunale. La prima data utile successiva per la possibile fissazione dell’udienza è quella del 7 gennaio, ma è troppo vicina all’ultima fase delle operazioni dello spegnimento dell’impianto, già avviate con la massima urgenza dalla custode giudiziaria Valenzano, su disposizione del giudice Maccagnano. In caso di mancato accoglimento del ricorso da parte del Riesame, il cronoprogramma predisposto dal custode giudiziario dell’area a caldo Barbara Valenzano prevede che, “le modifiche impiantistiche che saranno implementate dall’8 gennaio 2020 in poi non consentiranno la successiva ripresa del normale esercizio dell’AFO2“. Il 18 gennaio 2020, invece, quando è previsto il completamento della fase di abbassamento carica dell’Altoforno, partirebbe il “colaggio della salamandra“, che è la foratura del crogiolo e nel colaggio degli ultimi fusi, un’ operazione questa che durerebbe almeno due giorni. L’impianto a quel punto non potrebbe essere più utilizzato se non a seguito di procedure ed operazioni tecnologiche che durerebbero circa 6-7 mesi.  L’altoforno dovrà mantenere per ragioni di sicurezza e per garantire un regime termico adeguato, un livello minimo produttivo di 4.800 tonnellate al giorno fino all’ultima fase dello spegnimento. Sono tre gli scenari che si ipotizzano a questo punto: se non verrà trovata un’intesa di principio prima dell’udienza di venerdì allora giocoforza si andrà allo “scontro” in udienza con la discussione e la decisione del giudice nei giorni successivi; in alternativa prima dell’udienza potrebbe essere raggiunto un accordo sui “macrotemi’ e le parti chiederanno di comune accordo un rinvio dell’udienza alla settimana successiva o a gennaio per i negoziati. Terza ed ultima ipotesi: le parti avranno bisogno di qualche giorno in più per trovare l’intesa di massima e chiederanno un rinvio al 23 dicembre o a dopo le feste. Ieri da quanto si è saputo, il negoziato tra le due parti è andato avanti per tutto il giorno alla ricerca dell’accordo di massima per proseguire nelle trattative. Quando i legali di ArcelorMittal hanno capito che c’erano ancora dei punti su cui non si è raggiunta un’ intesa, conseguentemente come passaggio procedurale obbligato (ieri scadeva il termine) e precisano “non come mossa aggressiva”, ha deciso di depositare in tarda serata la memoria che contrasta il ricorso cautelare d’urgenza presentato dai commissari che ritengono illegittimo l’addio all’ex Ilva da parte della multinazionale. Ad ogni modo, è stato chiarito che le trattative sono proseguite anche oggi in modo intenso per arrivare ad un’intesa di massima e ad una conseguente richiesta congiunta di rinvio dell’udienza, un rinvio che diventerebbe utile, poi, per definire un accordo in tutti i dettagli necessari. Il giudice nelle scorse settimane aveva rinviato il procedimento a venerdì 20 per consentire alla “trattativa di svolgersi sulla base delle intese e degli impegni assunti“. Con la presentazione, poi, nei giorni scorsi del nuovo piano di Mittal, però, il quadro era cambiato, perché le affermazioni del gruppo sugli esuberi erano state ritenute assolutamente inaccettabili dai commissari dell’ex Ilva. Il negoziato, comunque, anche dopo la presentazione di quel piano “inaccettabile”, è andato avanti e sta proseguendo ancora.  ArcelorMittal, vincendo la gara un anno fa circa, e firmando il contratto, si era impegnata a garantire, indipendentemente dalla situazione del mercato, 10mila posti di lavoro e a pagare, in caso contrario, una penale di 150mila euro per ogni lavoratore lasciato a casa. In sostanza, per l’ex Ilva si può sì trattare sulla revisione degli accordi presi, ma non certo sul caposaldo del contratto che è l’aspetto occupazionale. Il punto non ancora risolto per l’accordo di massima, premessa della trattativa tra ArcelorMittal e i commissari dell’ex Ilva, è la mancata definizione dell’entità, della misura e della modalità degli interventi degli eventuali soggetti pubblici e privati italiani che potrebbero entrare nell’operazione per rivitalizzare il polo siderurgico italiano. Da quanto si è appreso, questo è uno dei motivi che ha portato ieri il gruppo indiano a depositare una memoria nella causa civile in corso a Milano. L’altoforno 2 “è ‘vitale’ per l’impianto di Taranto e l’intero polo industriale“ e il suo “spegnimento imporrà di spegnere anche gli altri due altoforni attivi presso lo stabilimento di Taranto perché presentano caratteristiche tecniche analoghe”. I legali del gruppo franco-indiano nella memoria depositata a Milano scrivono: “La Magistratura penale ha anche stabilito che l’omessa esecuzione delle Prescrizioni non è imputabile ad ArcelorMittal, bensì ad ‘anni di inadempimento colpevole’” dei commissari dell’ex Ilva. Una considerazione seppure veritiera che sicuramente non rappresenta un messaggio distensivo nel corso della trattativa.

ArcelorMittal deposita la memoria nella causa dinnanzi al Tribunale di Milano. Il Corriere del Giorno il 17 Dicembre 2019. Rimane da capire se l’azione di contrastare con una memoria scritta contro il ricorso dei commissari, relativa alla richiesta di risoluzione contrattuale dell’ex Ilva, sia orientata ad una rottura del negoziato o se invece si tratti solo di un’iniziativa procedurale e ci siano ancora degli spazi di manovra nelle trattative. I legali di ArcelorMittal, gli avvocati Romano Vaccarella e Ferdinando Emanuele, dopo una lunga giornata di incontri e riflessioni hanno deciso di depositare ieri in cancelleria nel Tribunale di Milano la memoria per contrastare il ricorso cautelare d’urgenza dei commissari dell’ ILVA , assistiti dagli avvocati Giorgio De Nova ed Enrico Castellani, nella causa in corso a Milano. La memoria di fatto, però, sarà a disposizione delle parti nella causa solo a partire da domani, e bisognerà capire se l’iniziativa del gruppo franco-indiano lascerà ancora aperto lo spazio necessario per una prosecuzione delle trattative. Il giudice del Tribunale di Milano aveva rinviato il procedimento a venerdì prossimo per agevolare la “trattativa” da “svolgersi sulla base delle intese e degli impegni assunti“. Trattativa che però con la presentazione nei giorni scorsi del nuovo piano di Mittal, conseguente alla disposizione del Tribunale di Taranto di chiusura dell’altoforno AFO2 , aveva cambiato lo stato delle trattative, e le affermazioni del gruppo franco-indiano sugli esuberi erano state ritenute inaccettabili dai commissari dell’ ILVA. Scadeva ieri il termine per ArcelorMittal per il deposito di una memoria per contrastare il ricorso cautelare d’urgenza presentato dall’ ILVA in Amministrazione Straordinaria e dopo una lunga giornata contraddistinta da continue riunioni tra avvocati, quella memoria, che rischia di costituire la fine del negoziato, e quindi anche in queste ultime ore ci sono state delle nuove riflessioni. La mossa dei legali infatti va nella direzione opposta alla prevista richiesta congiunta di rinvio dell’udienza del 20 dicembre per favorire le trattative in corso. Quindi adesso sarà necessario capire, se l’iniziativa del gruppo ArcelorMittal di contrastare con una memoria scritta il ricorso dei commissari, contro l’addio dall’ex ILVA, sia propedeutica ad una rottura del negoziato o se, invece secondo a quanto trapelato, costituisca soltanto un passo procedurale e e quindi ci siano ancora degli spazi per le trattative.

Dagospia il 18 Dicembre 2019.  Da “Radio Cusano Campus”. Il ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli (M5S) è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sul piano di transizione 4.0.

“Abbiamo fatto valutazioni rispetto a tutto il piano 4.0 che è stato molto utile alle nostre imprese, che però i dati 2018-19 ci mostravano in flessione rispetto agli investimenti –ha spiegato Patuanelli-. Quando si chiede alle aziende di rinnovare i macchinari, poi l’impresa non ha più modo di investire su altro. Noi abbiamo ragionato su come rilanciare gli investimenti 4.0, lo abbiamo fatto con 7 miliardi e con il credito d’imposta. Anche chi non ha utili può accedervi e anche le imprese che sono in regime forfettario. E’ una questione che ci consente di allargare del 40% la platea verso le piccole imprese. E’ stato molto importante il metodo. Dal primo giorno ho cominciato a dialogare con tutte le associazioni di categoria per trovare una soluzione che fosse condivisa con tutti gli interessati. Quando si parla di impresa bisogna parlare prima con gli imprenditori. Ne emerso un lavoro che credo sia stato ben accolto da tutto il settore produttivo. Da un lato è vero che c’è un po’ di volontà conservatrice in alcuni settori in particolare, però in realtà dagli incontri fatti con gli imprenditori ho visto una grande volontà di innovare anche da parte del piccolo imprenditore. Ormai ci sono tante nuove tecnologie che arrivano, indipendentemente dal fatto che noi lo vogliamo o meno. Bisogna essere pronti a guidare l’arrivo di queste tecnologie per non subirle”.

Sulle difficoltà delle imprese. “C’è la necessità di investire in strumenti anti-ciclici nei settori d’impresa per ottenere quel beneficio di competitività che ti permette di andare avanti. Nel momento di difficoltà l’imprenditore sa che deve fare investimenti per restare sul mercato. Bisogna cogliere le occasioni di innovazioni perché l’innovazione porta a maggiore competitività. Il momento economico dei Paesi europei è molto complicato, non basta ovviamente parlare di nuove tecnologie, è necessario garantire alle imprese la giusta liquidità per poter investire”.

Chiusura Ferriera di Servola ed ex Ilva di Taranto. “La ferriera di Servola aveva una produzione decisamente inferiore rispetto a quanto può produrre l’ex Ilva di Taranto, e ci sono molti meno lavoratori, che abbiamo già deciso come ricollocare. A Taranto stiamo cercando di abbandonare il carbone, dobbiamo accelerare sul piano ambientale. Non è che stiamo abbandonando i cittadini di Taranto ad una produzione siderurgica pari a quella di 20 anni fa. Noi come governo siamo intenzionati ad investire anche direttamente in un processo di decarbonizzazione. Rispetto allo spegnimento di Afo2 vedremo cosa deciderà il tribunale del riesame. Per quanto riguarda la tutela legale non c’è alcun diritto di recesso riguardo una norma perché nessun contratto può essere vincolato al rispetto di una norma.  Il problema che ha avuto Mittal non è stato quello dello scudo, ma un problema industriale, di impossibilità non contingente di rispettare il piano. L’inadempienza non è dello Stato, ma dell’imprenditore che ha fatto male i calcoli. Cerchiamo di affrontare il problema dando anche una prospettiva al territorio, extra Ilva. Bisogna far arrivare su quei territori i tanti stanziamenti che ci sono da anni per creare un’alternativa seria a livello occupazionale”.

Sul caso banca Popolare di Bari. “C’è una difficoltà degli organi di vigilanza di svolgere fino in fondo il loro compito di vigilanza. Non è possibile che si presentino ciclicamente questi casi. Non si può continuare in questo modo perché poi a farne le spese sono i cittadini che investono in obbligazioni. E’ però la seconda volta, da quando il M5S è al governo, che si interviene in tempo per non creare danni ai cittadini. Va fatto un ragionamento molto serio sui controlli degli istituti di vigilanza perché è inaccettabile che si continui così”.

Paolo Colonnello e Monica Serra per “la Stampa” il 18 Dicembre 2019. È uno scontro a tutto campo. Da una parte gli avvocati di Arcelor Mittal che accusano i commissari di Ilva di «anni di inadempimento colpevole» e la Procura di Milano di essere entrata a gamba tesa nel procedimento civile davanti al tribunale delle imprese. Dall' altra la Procura milanese che risponde acquisendo un nuovo rapporto della Gdf e valutando un inasprimento delle accuse in un' inchiesta finora, ufficialmente, senza indagati. Infine i giudici di Taranto che ordinano la chiusura dell' Altoforno 2, spingendo Mittal ad annunciare la cassa integrazione per 3. 500 operai. «Una provocazione ai sindacati e al governo», tuona Giustino D' Uva, segretario generale di Confintesa Metalmeccanici. Un tutti contro tutti dove, tra i pochi spiragli di dialogo, si rammenta nella memoria come l' ad del gruppo, Lucia Morselli, abbia «compiuto ogni ragionevole sforzo finalizzato a ridurre la tensione e agevolare una risoluzione bonaria della controversia». Altro che magazzini svuotati («siamo stati costretti a svuotarli per evitare spargimenti di polveri») e altoforni distrutti («utilizziamo il metodo della "salamandra" per non creare danni»): Arcelor Mittal rivendica di aver agito nella massima correttezza perché «non ha alcun interesse a distruggere l' avviamento aziendale» dell' Ilva di Taranto come qualcuno vorrebbe far credere. Così si legge nella memoria depositata dagli avvocati Ferdinando Emanuele e Giuseppe Scassellati Sforzolini, legali del colosso franco-indiano, in vista dell' udienza di venerdì davanti al giudice delle imprese del Tribunale di Milano, chiamato a decidere sul ricorso cautelare dei commissari, proposto per preservare gli impianti dell' acciaieria. È come se, notano i legali di Arcelor, si chiedesse «di far funzionare le macchine rischiando l' accusa di disastro ambientale». Stretti tra l' incudine giudiziario di Milano e il martello ambientale di Taranto, la società cerca di tenere aperta la trattativa con il governo. Non a caso, venerdì potrebbe esserci una richiesta congiunta di rinvio dell' udienza in attesa di ulteriori passi con il governo. Ma si tratta di una tregua abbastanza fragile visti i toni utilizzati da Arcelor Mittal nella memoria, dove si accusano apertamente i commissari di aver tentato «chiaramente di cavalcare l'onda mediatica e istituzionale montata negli ultimi mesi, alimentata anche da inappropriate dichiarazioni governative». La strada insomma appare ancora tutta in salita e all' orizzonte si profilano scontri a più livelli. Con la Procura di Milano innanzitutto, di cui viene chiesta esplicitamente l' estromissione dalla causa civile rivendicando il «diritto a un vero processo civile nel pieno rispetto del contraddittorio» a costo, minacciano i legali della società, di rivolgersi alla Corte europea dei Diritti dell' uomo.

Accordo raggiunto tra Arcelor Mittal ed i commissari dell'ILVA in Amministrazione straordinaria. Il Corriere del Giorno il 20 Dicembre 2019. Intesa tra le parti nel giorno dell’udienza al tribunale di Milano: “Tempo fino al 31 gennaio per rivedere il contratto”. Udienza rinviata al 7 febbraio. Critiche dai sindacati: “Noi non coinvolti”. Arcelor Mittal: “Previsti anche investimenti in tecnologia verde anche con l’intervento pubblico, il governo garantirà i livelli di occupazione”.  Oggi era fissato il secondo appuntamento davanti al giudice per discutere del ricorso cautelare urgente che ILVA in Amministrazione Straordinaria ha presentato a novembre (articolo 700 del Codice di procedura civile) per ribattere all’atto di citazione presentato da ArcelorMittal nei confronti dei commissari e per contrastare la decisione del gruppo franco-indianodi recedere dal contratto firmato a settembre 2018. Come auspicato ed anticipato dal nostro giornale è stata raggiunta in extremis un’intesa “last minute”, nel giorno dell’udienza programmata al Tribunale di Milano, tra i commissari straordinari dell’ex ILVA ed Arcelor Mittal, che hanno raggiunto un accordo sulle cui basi negoziare la revisione del contratto originario di affitto e vendita degli stabilimenti e per l’operazione finanziaria di rilancio dello stabilimento siderurgico di Taranto. Quindi si tratta di un’intesa raggiunta a tornare intorno al tavolo e a rinegoziare i termini dell’impegno della multinazionale nello stabilimento, nel tentativo di scongiurare che la questione sfoci invece in una disputa giudiziaria. L’accordo è stato siglato dai tre commissari dell’ex ILVA Francesco Ardito, Alessandro Danovi ed Antonio Lupo, che hanno ricevuto il semaforo “verde” dal ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli. Soddisfatta anche l’ amministratore delegato di Arcelor Mittal Italia . “E’ stato firmato un accordo nell’interesse del Paese”, ha commentato il commissario Danovi. “Siamo soddisfatti“, ha aggiunto Claudio Sforza  direttore generale dell’ex ILVA  . “Nell’udienza a porte chiuse Arcelor Mittal – avrebbe detto nell’udienza a porte chiuse Lucia Morselli amministratore delegato in Italia del gruppo franco indiano – farà il possibile per continuare nella produzione, anche se non potrà mantenere gli impegni sulla capacità produttiva, presi nella scorsa udienza, perché nel frattempo, lo scorso 10 dicembre, è arrivato il provvedimento del giudice di Taranto sullo stop all’altoforno 2. “Uno dei legali di Arcelor Mittal ha spiegato che le parti hanno posto le basi per un negoziato che si svolgerà fino al 31 gennaio al fine di raggiungere un accordo vincolante. Nelle quattro pagine (scritte in inglese) dell’accordo tra i commissari straordinari dell’ex ILVA ed Arcelor Mittal, le parti hanno sottoscritto “un impegno per elaborare un nuovo piano industriale“, riferisce uno degli avvocati della trattativa, dopo che i rappresentanti delle società sono usciti dall’aula del primo piano del Palazzo di Giustizia di Milano. L’udienza, su richiesta anche dei legali dell’azienda, è stata rinviata così al 7 febbraio 2020 . Arcelor Mittal  ha poi spiegato con una nota che  “AM InvestCo ha firmato un accordo non vincolante con i commissari Ilva nominati dal governo che costituisce la base per continuare le trattative riguardanti un piano industriale per Ilva, incluso un investimento azionario da parte di un ente partecipato dal governo. Il nuovo piano industriale prevede investimenti in tecnologia verde da realizzarsi anche attraverso una nuova società finanziata da investitori pubblici e privati. I negoziati proseguiranno fino a gennaio 2020. Nel frattempo, nel corso dell’audizione che si è tenuta oggi, i Commissari Ilva e AM InvestCo hanno chiesto un ulteriore rinvio fino alla fine di gennaio 2020 della richiesta delle misure provvisorie avanzate dai commissari Ilva”. I punti su cui le parti hanno trovato un pre-accordo riguardano, quindi, il cosiddetto acciaio «verde», ovvero il parziale abbandono dell’attuale ciclo integrale basato sulla trasformazione dei minerali e utilizzo sia del preridotto di ferro negli altiforni, sia di due forni elettrici; e gli investimenti da effettuare, con lo Stato pronto ad arrivare, anche attraverso le controllate, a un miliardo. Nel protocollo d’intesa firmato tra le parti si legge che “Le parti riconoscono che l’attuazione del nuovo piano industriale», chiamato nuovo green deal «renderà necessari alcuni impianti di produzione di tecnologia verde e potrebbe richiedere che il Piano ambientale sia di conseguenza modificato, nel qual caso le parti coopereranno in buona fede al fine di raggiungere tale modifiche il più presto possibile”.

Ex Ilva, accordo tra Arcelor Mittal e i commissari: "Tempo fino al 31 gennaio per rivedere il contratto". Critiche dai sindacati. Intesa tra le parti nel giorno dell'udienza al tribunale di MIlano. L'udienza rinviata al 7 febbraio. L'azienda: "Previsti anche investimenti in tecnologia verde anche con l'intervento pubblico, il governo garantirà i livelli di occupazione". Le organizzazioni dei lavoratori: "Noi non coinvolti". La Repubblica il 20 Dicembre 2019. Intesa in extremis tra i commissari straordinari dell'ex Ilva e Arcelor Mittal. Nel giorno dell'udienza programmata al Tribunale di Milano le due parti hanno raggiunto un accordo di base per negoziare la revisione del contratto originario di affitto e vendita degli stabilimenti e per l'operazione finanziaria di rilancio del polo siderurgico con base a Taranto. Di fatto quindi si tratta di un'intesa a tornare intorno al tavolo e a rinegoziare i termini dell'impegno della multinazionale nello stabilimento, nel tentativo di scongiurare che la questione sfoci invece in una disputa giudiziaria. L'accordo è stato siglato dall'amministratore delegato di Arcelor Mittal Italia Lucia Morselli e dai tre commissari dell'ex Ilva Francesco Ardito, Alessandro Danovi e Antonio Lupo, autorizzati dal ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli. "Siamo soddisfatti", ha detto il direttore generale dell'ex Ilva Claudio Sforza. "E' stato firmato un accordo nell'interesse del Paese", ha sottolineato il commissario Danovi. Arcelor Mittal - ha spiegato Morselli nell'udienza a porte chiuse - farà il possibile per continuare nella produzione, anche se non potrà mantenere gli impegni sulla capacità produttiva, presi nella scorsa udienza, perché nel frattempo, lo scorso 10 dicembre, è arrivato il provvedimento del giudice di Taranto sullo stop all'altoforno 2. E' questo in sintesi ciò che avrebbe detto nell'udienza a porte chiuse l'ad del gruppo franco indiano Lucia Morselli impegnandosi a fare il possibile per continuare nella produzione. Le parti - ha spiegato uno dei legali di Arcelor Mittal - hanno posto le basi per un negoziato "che si svolgerà fino al 31 gennaio al fine di raggiungere un accordo vincolante. L'udienza, su richiesta anche dei legali dell'azienda, è stata rinviata così al 7 febbraio del prossimo anno. Nelle quattro pagine (scritte in inglese) dell'accordo tra i commissari straordinari dell'ex Ilva e Arcelor Mittal, le parti sottoscrivono "un impegno per elaborare un nuovo piano industriale", riferisce una fonte legale dopo che i rappresentanti delle società sono usciti dall'aula del primo piano del Palazzo di Giustizia di Milano. A proposito del nuovo piano, Arcelor Mittal ha poi spiegato con una nota che il progetto "prevede investimenti in tecnologia verde da realizzarsi anche attraverso una nuova società finanziata da investitori pubblici e privati". "Il Governo italiano si spiega -, alla luce dell'interesse strategico nazionale delle attività di Ilva e del suo impegno per realizzare il 'nuovo accordo verde', è fortemente impegnato a preservare il business come impresa corrente e gli attuali livelli di occupazione sulla base e coerenti con il nuovo piano industriale attualmente in discussione tra le Parti, che mira a produrre circa 8 milioni di tonnellate di acciaio entro il 2023".  "Le parti riconoscono che l'attuazione del nuovo piano industriale", chiamato 'nuovo green deal' "renderà necessari alcuni impianti di produzione di tecnologia verde e potrebbe richiedere che (...) il Piano Ambientale sia di conseguenza modificato, nel qual caso le parti coopereranno in buona fede al fine di raggiungere tale modifiche il più presto possibile", si legge nel protocollo di intesa siglato oggi.

Le critiche dei sindacati. L'intesa però incontra lo scetticismo se non una vera e propria opposizione da parte dei sindacati: 'Non conosciamo ancora i contenuti dell'accordo raggiunto tra l'amministrazione straordinaria e ArcelorMittal. E' stato un percorso inedito e di un'inaudita gravità che non ha visto il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali. Sarebbe intollerabile scoprire, dopo la pubblicazione del documento, che ci sia stata un'intesa che rende superflua la trattativa con le organizzazioni sindacali, così come accaduto con il governo Gentiloni", ha dichiarato il segretario della Uilm Rocco Palombella. "Non siamo disponibili ad una trattativa a tempo ancor più se sul tavolo c'è la spada di Damocle dei licenziamenti. Un negoziato non si avvia con una data di 'scadenza'", ha dichiarato invece la numero uno della Fiom Francesca Re David. Più cauto il segretario Fim Cisl Marco Bentivogli: "Siamo sempre disponibili al confronto ma in un mese ribaltare gli assunti di queste premesse che non vanno, ci sembra un'operazione tutta in salita".

Roberto Giovannini per “la Stampa” il 21 dicembre 2019. L' intesa definitiva ancora non c'è; ci sarà tempo per definirla entro il 31 gennaio. Ma intanto si sblocca il braccio di ferro tra governo e ArcelorMittal sul destino del gruppo ex Ilva. Dopo giorni di stallo e una situazione che sembrava non prendere più abbrivio, ieri mattina in Tribunale a Milano l' amministratore delegato di ArcelorMittal Lucia Morselli e i tre commissari dell' ex Ilva, Francesco Ardito, Alessandro Danovi e Antonio Lupo (ovviamente su indicazione del ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli) hanno firmato un heads agreement per negoziare e concludere - appunto entro gennaio prossimo - un' intesa che vedrà la ristrutturazione del vecchio contratto di affitto e vendita degli stabilimenti, e una generale operazione finanziaria di rilancio del polo siderurgico con base a Taranto. Che prevederà l' ingresso dello Stato nel capitale ex-Ilva e la creazione di una «newco» per la decarbonizzazione dell' acciaieria pugliese. Di conseguenza, ArcelorMittal rinuncia al tentativo di abbandonare Ilva e conferma la sua presenza in Italia. E il governo rinuncia a perseguire le vie legali per obbligare l' azienda a rispettare il vecchio contratto. Se non ci sarà intesa, il prossimo 7 febbraio si torna in tribunale dal giudice Claudio Marangoni. Ieri, giorno dell' udienza sul ricorso cautelare e d' urgenza per fermare l' addio della multinazionale, che lo scorso 4 novembre aveva annunciato di voler sciogliere il contratto di affitto e di acquisto, le cose sono andate tranquillamente. «Siamo abbastanza soddisfatti; questo è solo un pre-accordo, ora c' è un percorso da fare, ma ci sono elementi per poter lavorare», commenta Claudio Sforza, dg dell' Ilva in amministrazione straordinaria. Morselli, invece, davanti a telecamere e taccuini è rimasta muta. Salvo, poi, intervenire in aula per «ribadire gli impegni assunti nella scorsa udienza», ma con riserva in quanto sul tavolo c' è la questione del' Altoforno 2: lo scorso 10 dicembre è arrivato il provvedimento con cui il giudice di Taranto ha negato la proroga al suo utilizzo e ora si è in attesa dell' esito del ricorso al Tribunale del Riesame, che dovrebbe arrivare nella prima settimana di gennaio. E se dovesse essere confermato lo stop di AfO2, le ricadute potrebbero essere ben più pesanti: il conseguente blocco degli altri due impianti con le stesse caratteristiche e una calo notevole della produzione. In una nota, ArcelorMittal ha spiegato che il progetto in discussione col governo «prevede investimenti in tecnologia verde da realizzarsi anche attraverso una nuova società finanziata da investitori pubblici e privati». Ma nel documento non si parla di esuberi, né si mette nero su bianco l' impegno economico che viene assunto. Il memorandum, che si apre con la premessa del governo a mantenere i livelli occupazionali, prevede, oltre alla soglia di produzione dell' acciaio fissata in 8 milioni di tonnellate all' anno entro il 2023, l' istituzione di questa «newco» che investirà in impianti a tecnologia verde nel sito di Taranto, abbandonando quindi il carbone. Cosa che, da un lato, potrebbe portare a modificare il piano ambientale e a un ulteriore «accordo sindacale coerente» con il piano. Questo l' accordo di massima: se non dovesse andare a buon fine si andrà avanti con la causa. Scettici sono i sindacati. Il leader Uilm Rocco Palombella tuona contro il loro mancato coinvolgimento; la numero uno della Fiom Francesca Re David si dice «indisponibile a una trattativa a tempo, ancor più sotto la spada di Damocle dei licenziamenti». E per il segretario Fim Marco Bentivogli, «siamo sempre disponibili al confronto, ma in un mese ribaltare gli assunti di queste premesse che non vanno sembra un' operazione tutta in salita».

Conte a Taranto: «Sull’ex Ilva lo Stato ci mette la faccia». La madre di un ragazzo ucciso dal mieloma: «Gli ho detto che la fabbrica va chiusa». Pubblicato martedì, 24 dicembre 2019 da Corriere.it. «Sono venuto qui per portare l’attenzione del governo. E quando dico il governo, dico dell’intera Nazione per questa comunità ferita, per questa comunità sofferente»: lo ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Taranto, all’uscita dell’ospedale Santissima Annunziata dove ha incontrato i medici e i genitori dei bambini ricoverati nel reparto di Oncoematologia Pediatrica intitolato a Nadia Toffa. In seguito, il presidente del Consiglio, insieme al presidente della regione Puglia Michele Emiliano, ha incontrato anche i lavoratori dell’impianto siderurgico ArcelorMittal riuniti in assemblea. In quest’occasione Conte ha ribadito il suo impegno nei confronti dei lavoratori dell’ex Ilva: «Stiamo lavorando al piano industriale», ha detto Conte, «abbiamo ormai confermato che lo Stato ci metterà la faccia. Vogliamo migliorare (il piano industriale, ndr), lo vogliamo rendere sempre più decarbonizzato». All’ospedale Santissima Annunziata Conte ha incontrato, tra gli altri, anche Carla Luccarelli, madre di Giorgio di Ponzio, il ragazzo morto l’anno scorso per un raro mieloma messo in relazione con l’inquinamento che potrebbe essere stato provocato dallo stabilimento siderurgico ex Ilva. Luccarelli, che presiede l’associazione Giorgio Forever, ha raccontato così il suo colloquio con il presidente del Consiglio: «Gli ho detto che questo è il primo Natale senza mio figlio. Gli ho lasciato un altro pro memoria. Gli ho detto che la fabbrica va chiusa, altrimenti poi ci ammaliamo. All’inizio non ha risposto. Lui ha detto che stanno lavorando per la decarbonizzazione». Il premier, all’uscita dall’ospedale, si è rivolto ai giornalisti che lo incalzavano sulla sua presenza a Taranto alla Vigilia di Natale: «Una passerella? No, è una passerella perché ci siete voi. Io non vi ho chiamato. Ora, per favore, non mi seguite, andate dalle vostre famiglie come è giusto che sia». «Questo passaggio, qui questa sera, vuole essere un passaggio discreto», ha aggiunto Conte, «mi imbarazza rilasciate qualche dichiarazione. Ma ormai l’avete saputo, farò anche un passaggio allo stabilimento Ilva».

ANSA il 25 dicembre 2019. Una passerella a Taranto? "No, è una passerella perché ci siete voi. Io non vi ho chiamato. Ora, per favore, non mi seguite, andate dalle vostre famiglie come è giusto che sia". Lo afferma il premier Giuseppe Conte in un punto stampa da Taranto.

Da ilsole24ore.com il 25 dicembre 2019. «Lo Stato ci metterà la faccia nell’Ilva» e il decreto legge «Cantiere Taranto», di prossima approvazione, è la risposta del Governo e della Nazione a una «comunità ferita e sofferente». Sono le assicurazioni che fornisce il premier Giuseppe Conte nella sua visita a Taranto alla vigilia di Natale. Una visita che si è snodata in tre tappe: l'ospedale Santissima Annunziata, dove ha incontrato nell'androne al pian terreno i genitori dei bambini ricoverati a Oncoematologia Pediatrica (è il reparto da pochi giorni intitolato a Nadia Toffa), il consiglio di fabbrica di ArcelorMittal, dove ha visto sindacalisti e delegati, infine il centro di accoglienza notturna San Cataldo, ricevuto dall'arcivescovo Filippo Santoro. Futuro dell'Ilva e futuro di Taranto, i punti richiamati dal premier. Agli operai, afferma Conte, «porto il messaggio che stiamo lavorando. Stiamo lavorando al piano industriale. Abbiamo ormai confermato che ci sarà il coinvolgimento dello Stato», aggiunge riferendosi alla partecipazione del pubblico accanto all'investitore privato. E sul progetto della “nuova” Ilva - per il quale amministrazione straordinaria, emissione dello Stato e ArcelorMittal hanno raggiunto un preaccordo lo scorso 20 dicembre -, Conte evidenzia: «Lo vogliamo migliorare, lo vogliamo rendere sempre più decarbonizzato». In sostanza, ridurre il peso del carbon coke nel ciclo produttivo per avere un’acciaieria meno impattante e con minori emissioni inquinanti. «Lo Stato - rileva Conte - è una garanzia per tutti. È una garanzia anche per quanto riguarda il controllo interno all’azienda e per lo stabilimento produttivo. È una garanzia per la comunità cittadina e per la comunità nazionale». Per il rilancio della città, Conte fa invece affidamento sul decreto legge chiamato «Cantiere Taranto». Un insieme di interventi ad ampio raggio che vanno dalle bonifiche alla sanità, dalla cultura alla riqualificazione urbana per finire agli sgravi contributivi (sino al 100 per 100) per le imprese che assumono lavoratori Ilva. «Per il Cantiere Taranto abbiamo già delle misure - annuncia il premier -. Le abbiamo già approvate, altre le stiamo mettendo a punto. Nel complesso, sta venendo una bella risposta». È questa, aggiunge sul decreto legge, «la risposta che offriamo per questa città. Sono molto fiducioso. Sono molto fiducioso - sottolinea Conte - perché l'Italia é una Nazione del G7. È impossibile che l'Italia non riesca a rilanciare una città. Se il Sistema Italia si concentra e decide che per Taranto è venuta l'ora del riscatto, state tranquilli che il riscatto ci sarà». «Sono venuto qui per portare l'attenzione da parte del Governo - sostiene il premier -. E quando dico il Governo, dico dell'intera Nazione per questa comunità ferita, per questa comunità sofferente». «Sono venuto un po’ di tempo fa - dichiara Conte riferendosi alla precedente visita dell'8 novembre -. Avevo promesso che il Sistema Italia, il Governo per primo, avrebbe lavorato per restituire a questa comunità quel che merita, quel che non ha avuto in tutti questi anni, nei decenni passati, e cercare di alleviare le sofferenze che si sono sedimentate. E sono aumentate nel corso nel tempo». Con il premier - che ha incontrato anche il sindaco Rinaldo Melucci -, in visita il governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano, accolto da qualche contestazione al suo arrivo nella sala del consiglio di fabbrica del siderurgico. In ArcelorMittal, infine, Conte è stato ricevuto dall'amministratore delegato Lucia Morselli.

Emiliano, Morselli e Melucci: "Ora stiamo insieme". Della serie al ridicolo non c'è mai fine...! Il Corriere del Giorno il 27 novembre 2019. In serata è arrivata la notizia da Milano l’udienza della causa civile a Milano che si è svolta ieri mattina all’interno della quale è stata comunicata il cronoprogramma per il riassortimento dei magazzini. Tutto grazie al vero intervento risolutivo e cioè quello delle Procure di Milano e Taranto . Ci sarebbe voluta la presenza di Roberto Giacchetti durante un assemblea per le primarie del PD quando disse ad Emiliano : “avete la faccia cole il culo”, alla conferenza stampa “farsa” di ieri con l’ad Arcelor Mittal Italia Lucia Morselli , il governatore Michele Emiliano e il sindaco Rinaldo Melucci nella consueta parte degna del suo soprannome di “Sergente Garcia” con il quale ormai viene chiamata ed indicato da tutta Taranto. Ascoltare Emiliano dire che “per la prima volta mi sono sentito a casa” e Melucci aggiungere “Momento di ricucitura” e la Morselli affermare “L’acciaieria non finisce con un perimetro, esce da questa cerchia in cui sembra definita ed entra nelle case di tutti i dipendenti – ha dichiarato la numero uno di Am Italia per la prima volta dal suo subentro al cospetto della stampa locale (profumatamente “legata” cioè retribuita pubblicitariamente dal gruppo franco-indiano) – abbiamo costruito una comunione d’intenti e sappiamo che stiamo insieme“. Dire “Adesso sappiamo che stiamo insieme”, il giorno dopo in cui la Regione Puglia ed il Comune di Taranto si sono costituiti nel giudizio di Milano contro Arcelor Mittal Italia, relativo al ricorso cautelare presentato dai commissari contro il tentativo di sottrarsi agli obblighi contrattuali stipulati del gruppo franco-indiano. La conferenza stampa fortemente voluta da Emiliano a fini elettori (a giugno 2020 si vota per il rinnovo del Consiglio regionale) come di consueto ha quindi rasentato il ridicolo. La Morselli ha dichiarato sulla questione pagamenti che c’è stata “qualche difficoltà nei giorni scorsi, non voglio minimizzare perché sono cose molto serie. Con l’aiuto del presidente e del sindaco siamo riusciti a trovare rapidamente una soluzione. Una soluzione anche immaginando un percorso di coordinamento tra realtà produttiva locale e acciaieria di Taranto“. Sarà cioè costituita una specie di task force tra i fornitori dell’indotto ed appalto e l’amministrazione di Arcelor Mittal per evitare malintesi e difficoltà: si incontreranno con cadenza mensile “ma faccio un invito a loro per qualsiasi chiarimento, dubbio: siamo aperti e disponibili tutti i giorni”. Resta da chiedersi, visto che nessun giornalista in conferenza stampa si è degnato di domandarlo, cosa c’entrino un governatore regionale ed un sindaco nelle procedure di pagamento di un’azienda facente parte di un Gruppo come Arcelor Mittal Italia quotato in Borsa . E sopratutto come mai siano “aperti e disponibili tutti i giorni” allorquando nei giorni precedenti, come dimostrato su alcuni programmi televisivi nazionali, ai loro centralini amministrativi non rispondeva nessuno, fino al vero intervento risolutivo e cioè quello delle procure di Milano e Taranto. In serata è arrivata la notizia da Milano l’udienza della causa civile a Milano che si è svolta ieri mattina all’interno della quale è stata comunicata il cronoprogramma per il riassortimento dei magazzini. Fonti hanno riferito che Lucia Morselli Ad di ArcelorMittal Italia “ha garantito il normale funzionamento degli impianti e la continuità produttiva” fino al prossimo 20 dicembre per consentire alle parti di trovare i presupposti per una trattativa che possa arrivare a un accordo per mantenere la produttività all’ex Ilva. Lo ha deciso il giudice Claudio Marangoni del Tribunale di Milano nel procedimento sul ricorso d’urgenza dei commissari ILVA in A.S.  contro l’addio di ArcelorMittal, presenti come parti la Procura di Milano, la Regione Puglia e il Comune di Taranto. I legali dell’associazione di consumatori del Codacons hanno annunciato di essersi costituiti nel procedimento civile.

L’avvocato penalista Daniele Ripamonti difensore di ArcelorMittal ha detto che la trattativa “è già in corso”, trovando conferma nelle dichiarazioni “Ci sono le basi per una trattativa che possa arrivare ad un accordo“, dell’ avvocato Enrico Castellani, legale dei commissari Ilva, e Ferdinando Emanuele, legale civilista di ArcelorMittal.

Paolo Bracalini per “il Giornale” il 22 novembre 2019. I Cinque stelle forse distruggeranno l'economia italiana ma nel frattempo ci avranno regalato momenti di straordinario buonumore. Concentrati sulle sciocchezze sparate dalle varie Barbara Lezzi («il Pil aumenta perché la gente accende i condizionatori», «al posto dell' Ilva sviluppiamo la miticultura»), Laura Castelli («mi ritengo un tecnico. Ho lavorato in un Caf») e Danilo Toninelli («in migliaia usano il traforo del Brennero»), abbiamo colpevolmente ignorato altre perle nascoste nella truppa di miracolati in Parlamento. Invece tra loro si nascondono potenziali fenomeni ancora tutti da scoprire e valorizzare. Tipo Patty L' Abbate, da Polignano a Mare, «economista ecologica». La signora è senatrice dal 2018, nonché capogruppo dei grillini alla Commissione Ambiente. Descrive così la propria mission: «Proseguo la mia missione di determinata guerriera al servizio di Gaia (teoria ecologista a cui faceva riferimento anche Casaleggio senior, ndr), divulgando un nuovo modello sistemico, economico - ecologico, inclusivo e collaborativo, uno stile di vita più responsabile, in grado di guarire il cuore umano dalla malattia endemica del narcisismo». Appassionata di «maratone di aerobica, serate di power yoga, fitness» è convinta che «la nostra società occidentale condivide concetti che fanno parte di una visione ormai obsoleta, la risoluzione dei nostri problemi esiste, ma richiede un radicale mutamento di percezione, di valori». Ovviamente è una grande sostenitrice della plastic tax e combatte le trivelle («no alla ricerca di petrolio sul nostro territorio»). È anche molto esperta di decrescita (cosa che al M5s riesce benissimo) e di un particolare tipo di economia circolare, quella degli escrementi. L'Abbate sogna proprio città piene di autobus che marciano a combustibile fecale, insomma dei cacca-bus. Più che green economy, una brown economy. L' ha spiegato lei in un post, citando una sperimentazione fatta in Gran Bretagna: «Tutti parlano di buste biodegradabili. Per andare controcorrente parliamo di cacca, precisamente dell' economia circolare della cacca. Il Bio-Bus alimentato a escrementi, in grado di correre per 300 chilometri con un serbatoio pieno, produce meno anidride carbonica rispetto agli equivalenti alimentati a combustibili fossili. Un vero esempio di economia circolare, un rifiuto che diventa risorsa, in questo caso si trasforma in combustibile prezioso. E poi il lampione alimentato a cacca di cane». Un servizio di trasporti urbani fatti di cacca. Molti utenti della romana Atac si ritroverebbero a pieno nella descrizione. Anche sull'Ilva la senatrice si è dimostrata all' altezza di un ruolo primario nel Movimento in campo economico, almeno quanto la viceministra Castelli. In un confronto al Tg2Post con il segretario della Fim (metalmeccanici) Marco Bentivogli, uno che la questione la conosce a fondo, si è esibita in un numero che non verrà facilmente dimenticato. Dopo avere mandato in confusione tutti dicendo a Bentivogli che «la necessità di rispondere è quella che io rispondo alle esigenze dei cittadini non alla sua privata», messa di fronte alla domanda se fosse favorevole o contraria allo scudo penale per Ilva, l' ha buttata in caciara come uno studente impreparato all' interrogazione. Prima con un «decarbonizzazione!», quindi lanciando la suggestiva idea di far funzionare l' Ilva a idrogeno. Incalzata infine dalla conduttrice sullo scudo penale, ha trovato una risposta da antologia, diventata subito virale sui social: «Lei mi fa una domanda che per me non ha importanza». Quindi se si dialoga con la senatrice L' Abbate bisogna ricordarsi di farle le domande che interessano a lei, non quelle che interessano a chi le fa. In alternativa si può sempre parlare di deiezioni canine come combustibile.

"Ilva? No, grazie! Meglio un allevamento di cozze". Il sottosegretario M5s Turco lancia una proposta shock. Oggi Patuanelli incontra i sindacati. Carmelo Caruso, Venerdì 25/10/2019, su Il Giornale. Per rilanciarla hanno proposto di chiuderla, per salvare Taranto chiesto di spegnerla. In attesa di realizzarle entrambe sono tornati al loro insuperabile classico: al posto dell'Ilva meglio un allevamento di cozze. Attenzione, tuttavia: non si tratta dell'ennesimo sbuffo, non è il fumo dalle narici di un parlamentare del M5s, ma è la convinzione bizzarra, e di governo, di un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. A formularla, in un'intervista rilasciata ieri al Foglio, è Mario Turco, senatore pugliese eletto con il M5s, docente di Economia all'Università del Salento. Giuseppe Conte lo ha voluto a Palazzo Chigi e gli ha affidato l'importante delega alla programmazione economica e agli investimenti. Se le parole avessero un senso, Turco dovrebbe favorire nuove aperture anziché avere come missione la chiusura della più grande acciaieria d'Europa. Taranto? «Può e deve pensare al suo futuro senza vederlo legato allo stabilimento dell'ex Ilva». L'Ilva? «È stata una risorsa nei decenni passati, ma ormai è un incentivo alla paralisi della città». Ma è l'Ilva ad avere paralizzato la città o è l'ideologia di Turco da futura paralisi? La verità è che da anni nessuna - e tra le poche grandi aziende italiane, tanto più in un settore strategico come quello della siderurgia - era stata tanto criminalizzata dalla politica, sequestrata per via giudiziaria e una comunità, in questo caso la tarantina, manipolata e costretta a dover scegliere tra il diritto alla salute e la disoccupazione come orizzonte. 20 mila dipendenti in tutto, 8 mila solo a Taranto, per l'ex ministro Carlo Calenda (artefice dell'accordo che ha portato alla guida i franco-indiani di Arcelor Mittal, poi ratificato da Di Maio), la sua chiusura significherebbe perdere un punto di Pil, rinunciare a una produzione da 6 milioni di tonnellate di acciaio. Come calcolato dallo Svimez, equivale a scavare un buco da 24 miliardi di euro che neppure un oceano di cozze permetterebbe di ricoprire. E invece l'allevamento è la soluzione auspicata da Turco: «Non c'è dubbio. Diversi settori della tradizione tarantina sono stati sacrificati» ha risposto il sottosegretario riferendosi proprio alle cozze. E se l'idea è di suo inconsistente, il momento per esternarla è a dir poco il meno adatto. Proprio tre giorni fa, i senatori M5s hanno costretto il Pd a votare la soppressione dello scudo penale per Arcelor Mittal. Non è un'immunità o un'autorizzazione a inquinare, ma solo lo scudo che i vertici della società chiedono per poter attuare il necessario piano di risanamento. Lo chiedono al ministro Stefano Patuanelli che per oggi ha fissato al Mise un incontro insieme ai sindacati. La speranza è che Patuanelli non ascolti Turco e Beppe Grillo, altro professionista della decrescita che in passato consigliava: «Al posto dell'Ilva si potrebbe fare un parco archeologico e delle torri centri di alpinismo». Qui, ad alta quota, c'è solo la fesseria.

Barbara Lezzi e M5s, la ricetta per salvare Taranto: dopo l'Ilva, cozze e alpinismo. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. Morire per smettere di inquinare. In pratica, è questa la vera proposta per Taranto del M5S. Al Movimento ora toccherà iniziare a fare i conti con le conseguenze dalle scelte fatte sull' Ilva. Mittal ha ufficializzato l' addio e Giuseppe Conte non ha idea di come svegliarsi dall' incubo: più di 10.000 persone a casa in una città di 200.000 anime dove la disoccupazione è già ben oltre il 40%. Un terremoto, tanto che il premier si è messo a lanciare appelli ai suoi per dare suggerimenti (definiti "pensierini") che possano aiutarlo a superare la crisi. Purtroppo, però, i grillini in questi anni hanno già detto la loro su cosa fare dopo la morte dell' acciaieria. E si tratta di materiale preoccupante: una lunga serie di progetti deliranti, tra parchi a tema, centri di alpinismo, allevamenti di cozze, misteriosi eco-lavori e assunzioni di massa di operai da parte dello Stato.

TUTTI A CASA. Come noto, la grande protagonista della campagna anti-Ilva dei Cinquestelle è sempre stata Barbara Lezzi, capofila della squadretta di parlamentari che rifiuta di reintrodurre lo scudo penale necessario per poter gestire l' industria senza finire automaticamente in galera. In assenza di quelle tutele legali, è impossibile evitare la chiusura. Il problema, però, è che la politica pugliese vuole proprio questo: prima di diventare ministro per il Sud, aveva più volte sostenuto la necessità di eliminare quello che ha definito uno «stabilimento che dà solo morte» e una «fonte inquinante che deve essere fermata». Meglio mandare tutti a casa. E poi? Turismo e cozze. Allevamenti di mitili per reimpiegare gli operai. In un' intervista di giugno a RadioUno aveva ben illustrato il suo pensiero: «Stiamo facendo degli investimenti in una città che, con il siderurgico, era stata votata al sacrificio per il Pil nazionale. È giusto che Taranto vi contribuisca, ma può farlo anche con altri investimenti che guardino al futuro. È una bella città di mare di cui si parla solo per l' ex-Ilva, ma ha, per esempio, una lunga tradizione nell' attività di mitilicoltura, che non può essere dimenticata». Un' ideona successivamente rilanciata anche dal sottosegretario grillino. Mario Turco. Siamo alla frutta (di mare). Con la Lezzi si muoveva a braccetto anche Luigi Di Maio, che in un video di qualche annetto fa (2015) sosteneva che ci fosse un modo semplice per evitare il disastro, ovvero far assumere dallo Stato tutti i licenziati: «Prendiamo i lavoratori, facciamogli bonificare quell' area, formiamoli per eco-lavori» e successivamente puntiamo su «turismo e agroalimentare». Certo, chi non vorrebbe andare in vacanza sui terreni dell' ex acciaieria o comprare una bella burrata prodotta dove prima sorgeva un altoforno? Ci sarebbe poi un piccolo problema di costi. Dove prendere i soldi per questa titanica opera di bonifica e per l' assunzione di 10.000 persone? Mistero. Così come resta fantascientifica l' idea di risolvere tutto con degli "eco-lavori".

IL FONDATORE. Il Movimento, tuttavia, crede molto nel potere dei sogni, come insegna Beppe Grillo. Il comico l' anno scorso sosteneva che ci fossero 2,2 miliardi di euro di fondi Ue da investire. Il tutto per realizzare un «piano di riconversione che punta su ricerca, innovazione, energie rinnovabili, turismo sostenibile e archeologia industriale» (Ricetta descritta dai redattori del Blog delle Stelle, testo sacro dei Cinquestelle, già nel 2016). L'idea era quella di seguire l' esempio tedesco: «Potremmo fare come hanno fatto nel bacino della Ruhr» diceva Grillo «dove non hanno demolito, hanno bonificato, hanno messo delle luci, hanno fatto un parco archeologico di industria del paleolitico lasciando le torri per fare centri di alpinismo, i gasometri per centri sub più grossi d' Europa, sono state aperte un sacco di attività dentro e gli stessi minatori che lavoravano lì oggi sono guide turistiche, fanno un milione di visitatori l' anno e hanno dato posto a 10mila persone». Nella Ruhr ci sono voluti decenni per raggiungere quegli obiettivi, ovviamente con ben altri budget. E comunque lungo la strada molti posti di lavoro sono svaniti. Per non parlare del riferimento alle torri da alpinismo in Puglia. Peraltro, già all' epoca Grillo citava il reddito di cittadinanza come rimedio. Come dire: creeremo disoccupati, ma daremo loro qualcosa per non morire di fame. C' è poi un' ultima curiosa proposta che vale la pena di citare. Sempre il Blog delle Stelle riguardo a Taranto annunciava di voler «scommettere sull' economia circolare potenziando la filiera dei rifiuti». Un piano un po' vago. Chissà se oggi, dopo aver visto le prodezze della Raggi, i grillini avrebbero ancora il coraggio di parlare del pattume come risorsa semplice da utilizzare. Lorenzo Mottola

Il "teorema delle cozze" della senatrice grillina Barbara Lezzi. Il Corriere del Giorno il 12 Novembre 2019. Da vicepresidente della Commissione Bilancio di Palazzo Madama, la Lezzi ha pubblicato tempo fa un video su Facebook in cui spiegava che “il Pil nel secondo trimestre 2017 è aumentato perché ha fatto molto caldo ed in tanti sono corsi ad accendere i condizionatori”. Cosa aspettarsi da chi ha solo un diploma di perito industriale, e per vent’anni ha fatto l’ impiegata in un’azienda di forniture per orologi di Lecce? Nella sua carriera politica le sconfitte Lezzi le ha collezionate soprattutto nella sua terra natìa, la Puglia, dove alle ultime elezioni ha vinto nel suo collegio promettendo lo stop all’odiato gasdotto della Tap, strombazzato dai megafoni della campagna elettorale Movimento Cinque Stelle, che secondo Alessandro Di Battista poteva essere bloccato in 15 giorni, ed invece è in corso . La firma della Lezzi, con tanto di documento d’identità, risulta in un documento in cui si chiede la cancellazione del Trans Adriatic. Un impegno che aveva portato la candidata salentina ad accumulare nel suo collegio un bottino di 107mila preferenze alle ultime politiche del 2018. Proprio lo scorso luglio, nel corso delle sue ospitate tv, la ministra “trombata” da Di Maio, continuava a mostrarsi preoccupata per la posidonia presente nelle acque di approdo del gasdotto e si era spesa fino a dichiarare su La7: “Io adesso voglio sfidare chiunque a stendere un asciugamano sopra un gasdotto”. Imprecisioni a parte, tre mesi dopo la stessa Lezzi dichiarò: “Abbiamo le mani legate”. E a legarle le mani, si è giustificata subito la ministra, sarebbe stata la Lega, che invece voleva l’opera. Il gasdotto è andato avanti, contro il suo volere. Nel 2013 quando venne eletta per la prima volta al Senato, si mise in aspettativa e vola a Roma, finendo poco dopo sui giornali per aver assunto come assistente parlamentare la figlia del suo compagno. Nel 2016 diventa mamma del piccolo Cristiano Attila. E, da vicepresidente della Commissione Bilancio di Palazzo Madama, pubblica poi un video su Facebook in cui spiega che “il Pil nel secondo trimestre 2017 è aumentato perché ha fatto molto caldo ed in tanti sono corsi ad accendere i condizionatori“…. Non contenta, successivamente la Lezzi sostenne in tv che per ridurre il numero dei parlamentari non ci sarebbe stato bisogno di una riforma, ma bensì di un semplice decreto da preparare in un paio di settimane…. Classe 1972, di Lequile (Lecce), la Lezzi non è nuova alle gaffe televisive. Un diploma di perito industriale, impiegata per vent’anni in un’azienda di forniture per orologi di Lecce, nel suo curriculum denso di papere e imprecisioni ne ha accumulato più di una. Barbara Lezzi, oggi è il simbolo “grillino” della vicenda-Ilva (quale prima firmataria dell’emendamento al decreto imprese che il 22 ottobre scorso ha eliminato l’immunità per i gestori dell’acciaieria), e giorno dopo giorno, dichiarazione dopo dichiarazione, la chiusura dell’ILVA sembra essere la sua “partita della vita”. La senatrice Barbara Lezzi, già famosa per le sue fantasiose teorie macroeconomiche (sul Pil e condizionatori), a proposito dell’ ILVA, tempo fa disse: “Taranto è una città meravigliosa che non deve vivere necessariamente di siderurgia, può rilanciare la produzione di mitili”. Ma per sua sfortuna, sui social network qualcuno, dopo aver consultato i dati dell’ ISPRA e dell’ Europarlamento, le ha fatto le “pulci” e questo è il risultato:

L’ ILVA nel 2018 ha fatturato 2.2 miliardi di euro;

In Puglia si producono annualmente 10.137 tonnellate di cozze nere (più o meno il consumo personale… di Michele Emiliano durante un mandato !);

I molluschi nero-arancio hanno un prezzo medio alla produzione di 1,33 euro per kg e un prezzo medio di vendita di 3,19 eu/kg generando quindi un valore aggiunto, more or less, di 1,86 eu/kg.

Per compensare il mancato fatturato dell’ ILVA, la città di Taranto dovrebbe produrre 689.655,152 Tonnellate di cozze, cioè 11 volte la produzione totale italiana e circa 2 volte e mezza la produzione totale dei Paesi UE. In poche parole secondo i teoremi della perita aziendale leccese, incredibilmente arrivata a fare (per fortuna per poco tempo) la ministra della repubblica, bisognerebbe convertire a mitilicoltura l’intero mar Ionio, l’intero mar Adriatico ed una consistente porzione del canale di Sicilia. Chiaramente i pesci muti! “Ce ne rendiamo conto – ha scritto su Twitter l’editorialista di Libero, Paolo Becchi – che oltre 10.000 posti di lavoro andranno persi al Sud perché la senatrice Lezzi, per vendicarsi della sua esclusione dal Governo Conte 2, ha guidato la protesta dei senatori pentastellati contro lo scudo penale?“. Ed anche l’ex ministro dello Sviluppo Carlo Calenda che seguì in prima persona il dossier della cessione di Ilva ad Arcelor Mittal rincara la dose: “La fabbrica più importante d’Europa – accusa l’ex Pd in studio a L’aria che tira su La7 – salta per le ambizioni politiche della Lezzi che vuole diventare governatrice della Puglia“. Noi ci chiediamo: si può mandare in Parlamento una persona del genere ? Si possono affidare all’incompetenza di questa perita, le sorti dell’intera produttività jonico-tarantina, e dell’ 1,4 del PIL italiano ?

Barbara Lezzi, Pietro Senaldi: la grillina che odia il Nord, come vuole fargliela pagare. Libero Quotidiano il 2 Dicembre 2019. Da ministra del «far nulla» a ex ministra «non ci sto», ecco la travolgente carriera della grillina Barbara Lezzi, specialista nel porre ostacoli. Pugliese, i cinquestelle, che nella Regione hanno preso nel 2018 una messe di voti, l' avevano piazzata al dicastero per il Sud, più che per le sue capacità, per premiarla del fatto di aver travolto D' Alema nel collegio di Nardò, a tutt' oggi unica impresa nel curriculum della signora. Barbara ha avuto un modo curioso di interpretare la sua missione. Il Mezzogiorno affonda nell' immobilismo ma, anziché darsi da fare per vivacizzarlo e attrarre investimenti, la grillina ha pensato che la salvezza del Sud passasse per la deindustrializzazione di quel poco che è rimasto e, soprattutto, per la demonizzazione del Nord. Così ha trascurato la sua terra dedicandosi alla guerra al Settentrione. Più che un guerriero meridionale, la Lezzi è un' erinni anti-nordista. Nel governo gialloverde è stata la nemica numero uno delle istanze autonomiste di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. La sua opera è stata così impalpabile, perdente e ricca di gaffe da risultare una specie di Toninelli in gonnella, con in peggio il fatto che se almeno il ministro delle Infrastrutture aveva un buon carattere, così che attaccarlo era un po' come sparare sulla Croce Rossa, la ex titolare del dicastero del Sud è invece di un' antipatia e di un' aggressività rare. La differenza si è vista quando, con il cambio di governo, Di Maio ha dovuto sacrificarli, con la Grillo e la Trenta, per manifesta incompetenza. Il Toninelli ha abbozzato e si è rifugiato in uno sdegnato silenzio. La Lezzi ha cominciato a rompere le scatole non solo ai leghisti ma anche ai grillini, rei di lesa maestà. Tanto da far saltare la mosca al naso perfino a Travaglio, il giornalista più pentastellato della Repubblica, il quale non ha esitato a definirla «ministra ottusangola».

OBIETTIVO SABOTAGGIO. Anche ieri la signora ha voluto rompere le uova nel paniere ai suoi colleghi e alleati. «Fermerò l' autonomia», ha minacciato dopo il primo via libera alla legge da parte del suo conterraneo, il ministro piddino Boccia, non certo un ultras delle Curve Nord. Intendiamoci, non che l' autonomia di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna sia vicina e neppure che si sappia come sarà; semplicemente, il governo ha dato un primo via libera alla legge quadro per le Regioni, senza peraltro vincere le perplessità dei governatori Fontana e Zaia, che attendono di vedere quale sarà il contenuto reale della normativa. Questo però è bastato perché l' amazzone pugliese insorgesse dichiarando che «non c' è nessuna ragione per un' accelerazione» e giurando di «riuscire a fermare questo delirio». Visto gli esiti delle battaglie intraprese dalla ex ministra, per gli autonomisti potrebbe essere anche una buona notizia. La Lezzi era infatti in prima linea contro il Tap. Sosteneva che avrebbe danneggiato le spiagge perché sarebbe stato impossibile per i bagnanti «stendere i loro asciugamani sul gasdotto»; il che è sicuro, dato che esso passa a dieci metri di profondità sotto il mare. Altra memorabile lotta, purtroppo questa vicina al successo, è quella per la chiusura dell' Ilva. Malgrado poi lo abbia smentito, Barbarella ha dichiarato che avrebbe visto bene un allevamento di cozze tarantine al posto dell' acciaieria. Sul fronte ArcelorMittal, la grillina dà il meglio di sé. Ha avuto un ruolo di primissimo piano, tanto per intendersi, nel levare lo scudo penale alla multinazionale indiana, dandole la giustificazione per minacciare di alzare le tende e spuntare condizioni ottimali per restare. A scapito dei posti di lavoro degli operai tarantini e dell' aria che respirano le loro famiglie.

RE MIDA AL CONTRARIO. Insomma, la signora ha il tocco inverso rispetto a re Mida, è capace di trasformare l' oro in letame. Senza più poltrona ministeriale, ormai è una scheggia impazzita. Forte di una lunga esperienza nel rappresentare la parte più becera e demagogica dell' elettorato grillino, imperversa quotidianamente nelle cronache parlamentari con dichiarazioni mirate a mettere in difficoltà chi l' ha sostituita al governo e chi dal governo l' ha cacciata, in particolare il capo di M5S, Di Maio. In queste ore in cui l' esecutivo giallorosso traballa, Barbara è una delle poche a mettere d' accordo tutti: grillini e piddini, nordisti e sudisti, leghisti e sardine la giudicano indistintamente un cocktail mortale tra incompetenza e livore. Non si sa se parla più perché non capisce o perché rosica. La salvezza è che ormai conta perfino meno di quel che vale. Pietro Senaldi

Barbara Lezzi, il suo unico merito è aver umiliato Massimo D'Alema. Ma ha ucciso il Sud. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano l'11 Novembre 2019. Fra i malanni del Sud c' è l' assurdità tutta italiana di un ministero per il Sud. Basta guardare ai danni politici, materiali e biologici che negli anni si sono cumulati sul Mezzogiorno d' Italia, per capire che la scelta di un dicastero dedicato è una boiata pazzesca. Se non ci credete, figuratevi l' immagine di Barbara Lezzi: l'erinni salentina del governo gialloverde aveva battagliato per la chiusura dell' Ilva e mietuto voti nel suo collegio pugliese promettendo l' altolà al gasdotto transadriatico («Voglio sfidare chiunque a stendere un asciugamano sopra un gasdotto», aveva azzardato incurante del fatto che il gasdotto era progettato a 10 metri di profondità). Risultato: la Tap si farà ma l'Ilva rischia davvero di saltare in aria per via del noto emendamento della Lezzi con il quale il nuovo governo giallorosso ha tolto lo scudo penale per Arcelor-Mittal. Comunque vada a finire la vicenda, resterà a futura memoria il sentore della vendetta perseguita dalla Lezzi, sia pure sotto il legittimo ombrello emotivo della difesa dall'inquinamento ambientale, per la mancata riconferma nel suo ministero. Sarebbe interessante un parere di Beppe Grillo al riguardo, lui che della Lezzi è considerato quasi un padre e che dell' Ilva voleva fare un parco turistico, ma oggi è strenuamente impegnato nella difesa dell' innaturale connubio tra il Movimento Cinque stelle e l' ex nemico Pidiota E intanto Barbara avanza a testa alta in Senato, forte delle debolezze altrui, incapace di perdonare chi l'ha scaricata dopo aver condonato le incertezze che hanno punteggiato una carriera così fulminea nella sua biodegradabilità. La si ricorda con indulgenza quando vestì i panni improvvisati della sociologa (lei è perita aziendale) concentrata nel giustificare una lontana impennata del Pil (era il 2007) «perché ha fatto molto caldo e in tanti sono corsi ad accendere i condizionatori»; e la si perdonò nella sua qualità di costituzionalista, allorché si disse certa che per ridurre il numero dei parlamentari bastasse un decreto legge da approvare in quindici giorni, altro che riforma della Carta Resta il mistero su cosa abbia potuto fare per le istanze del Meridione l' agrodolce e spensierata ministra ottusangola (copyright feroce di Marco Travaglio) che voleva informare i cittadini «a 370 gradi» e che adesso, giunta al secondo mandato (in teoria l' ultimo, ma chissà), incrudelisce sugli ex sodali grillini e recrimina sul miraggio di un Parlamento da aprire «come una scatoletta di tonno»; un sogno remoto in omaggio al quale, nell' ormai lontano 2013, si era presentata in Senato munita appunto di apriscatole.

IL SUCCESSORE. Che dire, ora, del suo successore Giuseppe Provenzano da San Cataldo-Caltanissetta? Competente senza dubbio, in quanto vicedirettore dello Svimez e membro del Comitato di redazione della Rivista economica del Mezzogiorno, Provenzano non viene dal nulla e ha lavorato nella Giunta siciliana di Rosario Crocetta (assessorato all' Economia). Adesso si ritrova precipitato in tivù a difendere un bidone vuoto di senso ma ricco di pretese. Il ragazzo (è nato nel 1982) s' impegna e alterna sonore banalità propagandistiche - «Questo governo non è contro il Nord ma amico del Sud perché così è amico di tutta l' Italia» - a più realistiche ammissioni: «Non basta essere meridionali per essere anche meridionalisti, anzi la storia ci ricorda che spesso sono stati proprio i meridionali i principali nemici del Mezzogiorno». Perché il punto è esattamente questo: fatta eccezione per il predecessore della Lezzi, il professore di economia politica e maestro di buone relazioni Claudio De Vincenti, già titolare della Coesione territoriale e del Mezzogiorno in quota Partito democratico nel governo Gentiloni, chiunque abbia occupato il posto che fu della Lezzi ha issato l' ideale stendardo del Masaniello infelice o è svaporato nel dimenticatoio. Il Sud, come il Nord e come il Centro d' Italia, avrebbe bisogno di libertà e autodisciplina, di esami di maturità e calci nel sedere; invece aspetta quattrini e continua a rimanere vittima di un malinteso senso di solidarietà statalista che sconfina nella rivendicazione borbonica o nel piagnisteo furbetto. Una patologia che nasce, paradosso nel paradosso, con l' epica liberale berlusconiana, quando Gianfranco Miccichè associò le deleghe sudiste al suo ministero dello Sviluppo nel 2005, seguìto cinque anni dopo da Raffaele Fitto. Ma la Coesione territoriale ha offerto al cono di luce mediatico pure altri incomprensibili fenotipi che con l' unità o la disunità d' Italia sembravano non avere nulla a che vedere. Vedi l'indipendente torinese Fabrizio Barca, in realtà sinistrissimo uomo d' élite, ministro tecnico nel governo Monti di cui gli annali menzionano l' oscuro periodare con cespugliose citazioni brandite in modo più o meno disinvolto, tipo quella sul «catobleba» (un leggendario quadrupede esotico) attinta da Plinio il Vecchio e usata per simboleggiare il difficile rapporto tra cittadini e amministrazione pubblica. E a proposito di esseri leggendari, chi serba memoria di Carlo Trigilia da Siracusa? Risposta esatta: nessuno. Eppure egli risulta essere fra i massimi esperti viventi dei guai clientelari che affliggono il Mezzogiorno, una reincarnazione del Gramsci che si accigliava di fronte alle congenite insufficienze delle «pagliette meridionali» o del Vincenzo Cuoco che biasimava il fallimento dell' esportazione della democrazia a Napoli nel 1799. Ebbene, il buon Trigilia volava alto e anche lui ha vanamente posseduto le deleghe alla Coesione territoriale (governo Letta, 2013), ovvero il travestimento burocratico per occuparsi del Sud Italia senza portafoglio ma con l' obbligo morale di denunciarne l' eterno sottosviluppo.

MEDAGLIE AL DISVALORE. E qui ritorniamo a Barbara Lezzi, il cui merito principale consiste forse nell' aver umiliato Massimo D' Alema nel suo collegio di Nardò alle consultazioni nazionali del 2018 (107mila preferenze contro 500). Oggi, piantata a mezza via tra Caparezza e Alessandro Di Battista, la sua figura viene bersagliata da ogni lato con accuse pesantissime: Carlo Calenda dice che «l' investimento più rilevante degli ultimi 40 anni nel Mezzogiorno salta per le ambizioni politiche di Barbara Lezzi»; Luigi Di Maio confida di non riuscire più a controllarla dacchè lei ha deciso d' intestarsi la dissidenza disorganizzata all' interno del Movimento Cinque stelle. Ma sono soltanto le ultime medaglie al disvalore appuntate sul petto di un equivoco chiamato ministero per il Sud, impalpabile omaggio alla terra del rimorso prigioniera dei suoi perenni tumulti feudali. Alessandro Giuli

Luca Telese per “la Verità” il 12 novembre 2019.

Voterà lo scudo?

(Sospiro). «No, mai: non voterò nessuno scudo e le spiego perché». Barbara Lezzi, ex ministro del Sud. Firmataria dell' emendamento dello scandalo, inseguita da tutti, oggetto di mille strali. Parla poco, pochissimo. Ma stavolta non si sottrae a nessuna domanda. E spiega la sua verità.

Senatrice Lezzi, tutto il mondo la cerca, e lei dove è finita?

(Ride) «Sono qui, non mi sono mai mossa, mi trova in Parlamento dove lavoro tutti i giorni».

Lei è la firmataria dell' ormai celebre scudo di immunità penale su Ilva...

«Scriva che ne sono orgogliosa».

...che ha fatto scappare gli indiani.

«Eh no! Io non ho fatto scappare nessuno».

Sallusti dice che lei è una segretaria che fa danni.

«Ho lavorato 21 anni in azienda e ne sono anche orgogliosa. Comunque Mittal non se ne può andare».

Questo lo decide lei?

«Lo decide un giudice. Ma Mittal è tenuta a operare da un contratto stipulato con lo Stato italiano».

Vuole negare che quel contratto prevedesse lo scudo?

«Questa è la prima fake news. Il contratto non contiene nessuno scudo».

D'accordo, ma la garanzia è riconosciuta nel piano ambientale che è parte del contratto.

«Non accetti questa semplificazione».

Ma è una norma riconosciuta nell'articolo 27.5.

«Faccia molta attenzione alle parole: in questo equivoco è il cuore della controversia con Mittal».

La garanzia è prevista da quell'articolo, dunque il suo emendamento l'ha cancellata.

«No. Non c'è nessuna immunità riconosciuta: l' articolo 27.5 del contratto prevede il diritto di recesso di Mittal se una nuova norma "rendesse impossibile portare avanti il piano ambientale"».

E non è così?

«Assolutamente no! Non c'è nessuna norma che renda impossibile questo lavoro. Lo scudo lo avevano i commissari del governo: fu introdotto dal decreto Renzi del 2015.

Nell'aprile del 2019, quando questa norma è stata abrogata, nessuno l' ha più chiesta».

Perché i commissari sono tranquilli?

«Perché a loro non serve nessuna immunità speciale».

E perché?

«Perché esiste l'articolo 51 del codice di procedura penale, che tutela chiunque stia ottemperando a un obbligo che derivi da una autorità o da una norma giuridica».

E secondo lei è questa la fattispecie?

«Secondo la legge italiana! La stessa con cui lavorano tutti gli imprenditori italiani I manager di Mittal, come quelli di prima, sono già non punibili. Come gli attuali commissari, perché stanno ottemperando agli obblighi del decreto».

E tutti i dubbi?

«Propaganda e balle».

Ma allora perché Mittal se ne vuole andare?

«Io sospetto che, dal momento in cui non hanno rispettato il piano industriale e occupazionale, ogni pretesto fosse buono».

Ma lei non gliene ha regalato uno?

«Uno vale l' altro. Il vero tema è una perdita economica che impedisce a Mittal di portare avanti il piano ambientale».

Lei non pensa che vadano aiutati? Hanno pagato parte della copertura dei parchi.

«Pagano un affitto irrisorio per la quota di mercato di Ilva. Penso sia giusto che paghino poco, ma questo era previsto proprio perché sostenevano il piano».

Quindi lei riconosce le perdite di Ilva?

«Certo. Già 800 milioni: a fine anno sfioreranno il miliardo di perdite. Ma il tema è che il piano industriale non tiene».

È contenta di questo?

«Per nulla. Registro che lo avevano detto gli altri commissari di governo nel 2017».

E perché non teneva?

«Credo che Mittal si stata costretta ad aumentare la quota di produzione perché altrimenti non copriva i costi».

L' obiettivo occupazionale fissato da Di Maio era troppo alto?

«Non gli sembrava tale quando mostravano molto interesse alla quota di mercato ex Ilva...».

Le ho chiesto di Di Maio.

«E le rispondo: stanno disattendendo anche quello di Calenda!».

Perché?

«Purtroppo è il loro modus operandi».

Attenta alle querele.

«E perché? Hanno abbandonato altri Paesi europei, ad esempio il Belgio. E in Africa? Loro fanno così. È la loro policy».

Perché?

«Si sta ripetendo una storia: la questione della domanda e dell' offerta devono essere previsti nel flusso del mercato».

Nel piano?

«Certo. Se avessero voluto affrontare il problema bastava chiedere un incontro al governo».

E invece?

«Hanno presentato la richiesta di rescissione in tribunale. Vogliono andare via».

Argomentazione di Calenda: il piano salta perché Di Maio vuole 1.000 assunti in più.

«Ridicola. Hanno messo subito 1.300 e rotte persone in cassa integrazione un anno fa. Adesso ne chiedono 5000!».

Erano ricattati da Di Maio?

«Allora anche da Calenda: hanno accettato quella condizione e la stanno violando, suvvia!».

Cosa?

«Perché una multinazionale subirebbe una richiesta che considerava assurda? Avevano preso quell'impegno. Lo stanno violando. Ma volevano la fabbrica».

Mittal scrive che la magistratura minaccia l' altoforno.

«Eh no! Non sono chiacchiere campate per aria. È morto un operaio di 35 anni lasciando due bambini piccoli. È assurdo pretendere che la magistratura non metta bocca».

C'è una scadenza a dicembre?

«Il giudice riceverà il 13 novembre l'analisi di rischio. Se ci fossero delle prescrizioni, Ilva dovrà spiegare come ottemperarle entro il 13 dicembre».

In che tempi?

«Si stabiliranno con i tecnici le prescrizioni. Entro il 13 dicembre vanno decisi gli interventi, non devono essere realizzati. È una bella differenza».

Saranno richieste realizzabili?

«La domanda è: se dovesse accadere un altro incidente sul lavoro chi ne dovrebbe rispondere?».

Loro dicono: non possono rispondere per le mancanze del passato.

«Infatti si parla di futuro. Nessuno può essere punito per qualcosa che non ha fatto».

Però vanno sanati ritardi trentennali.

«Quando hanno preso in affitto gli stabilimenti, il ragazzo era già morto. Quindi loro sapevano che bisognava intervenire. Andassero a portare l'analisi di rischio e vedessero cosa dice la Procura».

I magistrati vogliono chiudere Ilva?

«No, no, no, no!».

Dicono che lei sia referente del partito dei magistrati. È vero questo?

«Sono matti. Per me i magistrati sono una categoria come l' altra. Non fanno altro che rispettare la legge e tutelare il diritto alla salute».

Nicola Porro ricorda che non c'è stata ancora una sentenza sui Riva.

«Ci sono stati 12 decreti salva-Ilva che lo hanno impedito!».

Il decreto Renzi diceva: la facoltà d'uso deve essere salvaguardata.

«Non è giusto».

Però si sarebbe fermato il forno.

«Chi vale di più: la produzione o la vita? Perché si chiede giustizia per tutti i colpevoli tranne che per quelli di Ilva?».

Perché si è trovato un compromesso difficile tra lavoro e salute.

«La Corte costituzionale bocciò quel decreto».

Lei vuole chiudere l' Ilva e fare una parco? Sia sincera.

«Il parco esiste in Germania, un esempio virtuoso. Ma non è una via percorribile per il Paese».

Lei è tra coloro che vuole coltivare a Taranto le cozze?

«Non al posto della fabbrica. Né io né il sottosegretario Mario Turco abbiamo mai parlato di miticultura».

Ha presentato quella mozione contro lo scudo per fare le scarpe a Conte?

«Macché. Io le ho viste le teste rasate dei bambini malati di chemio. Il bottone verde dello scudo non lo premerò mai».

Nemmeno se glielo chiede Conte?

«Mai. E fra l' altro non lo chiede. Né a me né agli altri».

Vuole candidarsi alla presidenza della Puglia?

«Io non mi devo candidare da nessuna parte. Chi dice questa cosa non ha argomenti».

Voleva che vincesse l'altra cordata?

«Io non avevo tanta fiducia in Mittal. Gli altri avevano una mission più chiara sulla decarbonizzazione».

La sua non sarà una vendetta per l'esclusione del governo?

«Ma basta. Lo ha votato tutto il gruppo parlamentare: siamo 106! Ma figurarsi! Che vendetta potrei covare? Ero ministro e mi sono messa contro il Consiglio dei ministri e ho rifiutato di votare la norma. Era come se mi fossi dimessa».

Sarà contenta se Ilva chiude.

«Sono contenta se parliamo dei diritti dei tarantini. Pensi a tutti quelli che dicono "Taranto fa Pil", ma non parlano mai dei suoi malati oncologici».

E non voterebbe lo scudo nemmeno se lo chiedesse Di Maio?

«Io non lo voto. Arcelor non ha bisogno dello scudo. Se ci vogliamo tenere Mittal dobbiamo guardare il suo piano industriale».

Tifa per la nazionalizzazione?

«No. Se si affida la salute di un intero territorio a un imprenditore privato dandogli l'immunità si muove un passo non da Paese civile. Voglio che lo Stato intervenga se non si garantiscono le tutele ambientali».

Se Mittal va via si ferma tutto.

«Assolutamente no. Subentra l'amministrazione straordinaria. I nostri commissari sono persone assolutamente competenti e in grado di proseguire l'attività. Fino a due anni fa era così».

Barbara Lezzi spernacchiata pure da Aldo Grasso: "Cozze amare. Sai cosa farai dopo la chiusura dell'Ilva?". Libero Quotidiano il 17 Novembre 2019. "Cozze amare". Barbara Lezzi finisce di nuovo nel mirino di Aldo Grasso, che nella sua rubrica domenicale Padiglione Italia sul Corriere della Sera non può fare a meno di sottolinearne le figure barbine. La sua frase sulla "coltivazione delle cozze" come exit strategy per superare la possibile chiusura dell'Ilva di Taranto, ma pure di Novi Ligure e Genova, ha fatto il giro del Paese facendo sghignazzare molti economisti. Allora Grasso si prende la briga di ricordarle un paio di dati: "Se ArcelorMittel chiude lo stabilimento, più di 10.000 persone resteranno a casa in una città di 200.000 anime dove la disoccupazione è già ben oltre il 40%". È triste dirlo, conclude Grasso, ma "il rischio è che ci saranno più disoccupati che cozze". E a quel punto la senatrice M5s, fiera paladina della decrescita felice, "sulle rovine dell'Ilva erigerà felice un monumento al mitile ignoto".

Aldo Grasso per il “Corriere della sera” il 17 novembre 2019. Cozze amare. Barbara Lezzi è cliente abituale di questa barberia. Ci siamo occupati di lei quando attribuì l'aumento del Pil al consumo energetico dei condizionatori in un'estate particolarmente calda. Poi, da chief economist del M5S, quando voleva rimettere in carreggiata la sua Puglia chiudendo centrali a carbone dell'Enel per affidarsi alle rinnovabili e altre amenità del genere. Adesso la senatrice grillina è intervenuta per sciogliere la spinosa questione dell' ex Ilva. «Per risolvere la situazione - ha spiegato la Lezzi in un video pubblicato dal canale YouTube del Movimento - ci sono tantissime strade da percorrere» per rimediare alla chiusura degli stabilimenti di Taranto, Novi Ligure e Genova. Una su tutte, la mitilicoltura. Vale a dire la coltivazione di cozze. Se ArcelorMittel chiude lo stabilimento, più di 10.000 persone resteranno a casa in una città di 200.000 anime dove la disoccupazione è già ben oltre il 40%. Nessuna paura. Già quest' estate, la Lezzi aveva spiegato che «Taranto è una bella città di mare di cui si parla solo per l' ex-Ilva, ma ha, per esempio, una lunga tradizione nell' attività di mitilicoltura, che non può essere dimenticata». È triste dirlo, ma il rischio è che ci saranno più disoccupati che cozze. A quel punto, la Lezzi, sulle rovine dell' Ilva erigerà felice un monumento al mitile ignoto.

Vittorio Feltri contro Barbara Lezzi: "Cozze al posto dell'acciaio? Ho dubbi sul suo equilibrio psichico". Libero Quotidiano il 18 Novembre 2019. Ieri Aldo Grasso sul Corriere della Sera, in prima pagina, ha preso per i fondelli Barbara Lezzi, del Movimento 5 Stelle, già ministro per il Sud distintosi per la propria nullità, perché in un momento di torpore mentale ha dichiarato che se per caso l'Ilva dovesse chiudere, poco male: Taranto avrebbe la possibilità di rifarsi promuovendo la coltura dei mitili, cioè dei molluschi. Una proposta del genere è talmente ridicola da suscitare stupore e anche indignazione. Sostituire la produzione dell' acciaio con quella delle cozze è una ipotesi così cretina che meriterebbe un pernacchio. Ma noi ce ne asteniamo poiché non siamo ostili pregiudizialmente ai politici e alle politiche del Meridione, quand'anche da certe bocche escano bischerate sesquipedali. Ci limitiamo pertanto a dire a madame Lezzi che le conviene stare zitta allo scopo di proteggere la propria dignità. La signora in un recente passato aveva affermato che il Pil delle terre sotto Roma sarebbe accresciuto durante l'estate grazie al maggiorato consumo di energia elettrica dovuto all'iper funzionamento dei condizionatori. Una boiata tale pronunciata da una ministra, per quanto grillina, meriterebbe la radiazione dalle istituzioni di chi ne è autore. Eppure siamo stati costretti a ingoiarla senza eccedere in insulti. Ma l'idea di rimpiazzare il ferro con le cozze è surreale e fa nascere un sospetto sull'equilibrio psichico di Barbara Lezzi, la quale non si è chiesta neppure con quanti molluschi sarebbe economicamente equiparabile il fatturato dell' acciaio. Benché sia opportuno ricordare che la impepata di cozze piaccia molto agli italiani, tant'è che sono riusciti a digerire per oltre un anno la responsabile del dicastero dedicato al Mezzogiorno, che con le cozze forse ha delle affinità. Vittorio Feltri

Sofia Fraschini per ilgiornale.it il 16 novembre 2019. Il governo Conte sta per recapitare un conto salatissimo agli italiani. Nazionalizzare l'Ilva di Taranto, a causa dei ripetuti scivoloni nella gestione del dossier da parte di Luigi Di Maio prima, e dell'esecutivo giallorosso poi, costerebbe fino a 10 miliardi di euro, un terzo della legge di bilancio. E sarebbe per Carlo Messina, ad di Intesa Sanpaolo, «il piano b» probabilmente allo studio del governo. «Una cifra monstre che comprende il sostegno a tutti i dipendenti, le opere ambientali e un minimo di sviluppo industriale, nonché il potenziale rischio di una penale da pagare ad Arcelor Mittal», spiega al Giornale Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0. A tanto ammonterebbe, dunque, assumersi il pieno controllo della più grande acciaieria d'Italia e statalizzarla per «rimediare» al disastro economico e industriale disegnato dall'ex ministro del Lavoro Luigi Di Maio, che un anno fa chiuse l'accordo tra i trionfalismi. Il casus belli - pretesto o meno che sia - che ha scatenato poi la ritirata di Arcelor Mittal è nato dalla scelta di 5Stelle e Pd di cambiare le carte in tavola e togliere lo scudo penale alla multinazionale per gli interventi di bonifica ambientale. «Guardando nel dettaglio ai numeri spiega Sabella se l'Ilva dovesse essere nazionalizzata lo Stato dovrà accollarsi gli interventi ambientali e un piano minimo di sviluppo che, pur rivisto al ribasso, non potrà che portare il conto a circa 3 miliardi». Nel suo accordo Arcelor Mittal aveva messo sul piatto circa 4,2 miliardi di euro. «A questi spiega Sabella va aggiunto il costo del lavoro». A bocce ferme, infatti, il governo non vuole toccare i livelli occupazionali e quindi dovrebbe farsi carico di circa 10.700 dipendenti e circa 3.100 addetti attualmente in cassa integrazione. «Considerando un costo lordo del lavoro di circa 36mila euro a dipendente all'anno, e quanto percepito da dirigenti e figure apicali (tra i 150mila e i 200mila euro lordi l'anno) si arriva a 1 miliardo l'anno solo per il personale». Un onere che spalmato sui 5 anni in cui si era impegnata la multinazionale, porta il sostegno a 5 miliardi. Personale e investimenti fanno salire i miliardi a quota 8 miliardi. Ma a questi vanno aggiunte «le possibili penali che Arcelor potrebbe ottenere dallo Stato per giusta causa». E calcolabili in circa 2 miliardi, cifra che si avvicina ai debiti Ilva che Arcelor avrebbe sanato a Taranto. «Un'operazione sbagliata e poco conveniente spiega l'esperto alla luce anche del fatto che a livello statale mancherebbero le competenze per la gestione di un settore così delicato» che sta vivendo un momento di grande difficoltà a causa della sovracapacità produttiva, e della concorrenza asiatica. Non per altro Ilva perde 2 milioni al giorno e ha causato l'uscita dell'Italia dalla top ten dei produttori mondiali di acciaio. Ma la strada della nazionalizzazione sembra prendere sempre più corpo. Visto anche il peso che l'Ilva riveste non solamente per l'economia della Puglia governata da Michele Emiliano ma per l'intero Paese, essendo l'acciaio una industria strategica. Sull'ex Ilva è «fondamentale arrivare a un accordo con Mittal» o in alternativa «il governo dovrebbe valutare la possibilità di nazionalizzare anche se potenzialmente in contrasto con le norme comunitarie», ha detto ieri l'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina. «Sicuramente il settore siderurgico sta vivendo un momento difficile e qualcosa è cambiato rispetto all'inizio della trattativa ma se oggi non siamo in grado di raggiungere il piano A, allora bisogna passare al piano B, valutando anche una nazionalizzazione altrimenti si perde un asset strategico» per l'intero Paese.

Da ilfattoquotidiano.it il 16 novembre 2019. “L’Ilva di Taranto l’hanno uccisa le Procure, non è che l’ha uccisa qualcun altro. Anche ‘sta menata dei bambini che muoiono… Non sono mai state date delle statistiche. Bisognerebbe andare a vedere le condizioni dei bambini dove non c’è la siderurgia, che muoiono di fame e di sete”. Sono le parole choc pronunciate ai microfoni de “L’Italia s’è desta” (Radio Cusano Campus) dall’economista Giuliano Cazzola sul caso ex Ilva di Taranto.

Da liberoquotidiano.it il 16 novembre 2019. Una amara verità, firmata Vittorio Feltri, sul caso dell'Ex Ilva e della fuga dall'Italia di Arcelor Mittal. Il dibattito, infatti, lascia intendere che la colpa sia tutta degli indiani, in fuga dal nostro Paese e dagli impegni presi in precedenza. È quanto sostengono in massa autorevoli esponenti del governo giallorosso, sia di Pd sia di M5s. Ma Feltri, su Twitter, ha qualcosa da puntualizzare. "Tutte le tv e tutti i giornali italiani si scagliano contro gli indiani dell'Ilva - premette il direttore di Libero - e nessuno si sogna di sentire la controparte che avrà pure qualcosa da dire per spiegare perché i suddetti indiani mollano l'azienda", conclude Vittorio Feltri.

Ex Ilva, le voci di Taranto: «Noi siamo l’esempio lampante della violazione dei diritti umani». La città è stata presa per sfinimento. Tra lo Stato, i veleni, i Riva e infine Arcelor Mittal. E tra gli operai il clima di sconforto è montante. Paolo Natalicchio l'11 novembre 2019 su L'Espresso. Il sole bagna Taranto, in questo inizio novembre di pioggia dappertutto. Ma è un sole surreale, con il mare grosso e il vento in faccia. E si capisce che sta di nuovo cambiando il tempo. Sotto l’ombra dell’acciaieria che tutti vogliono e nessuno guarisce. Il sole bagna Taranto, in questo inizio novembre di pioggia dappertutto. Ma è un sole surreale, con il mare grosso e il vento in faccia. E si capisce che sta di nuovo cambiando il tempo. Sotto l’ombra dell’acciaieria che tutti vogliono e nessuno guarisce. Quella che rischia di chiamarsi ex Arcelor Mittal, dopo essere stata per qualche mese ex Ilva. E comunque qui, per tutti, è ancora l’Italsider. Come a ricordare che è stata la mano pubblica ad accendere la danza macabra. L’acciaieria più grande d’Europa, cassaforte di futuro per migliaia di operai di mezza Puglia. E però anche la fabbrica dei tumori e del minerale avvelenato. E allora, mentre Arcelor Mittal se ne va, qualcuno dice che forse adesso basta: lo stabilimento riposi in pace, la guerra è finita. Chiusura, bonifica, riconversione. «L’immunità penale è un alibi, una semplice scusa», dice Luca Contrario, coordinatore della rete Giustizia per Taranto, quella dei braccialetti gialli, che ha tentato il dialogo con Luigi Di Maio e poi è passata alla dura contestazione nell’estate del 2018. «Quella fabbrica non è economicamente vantaggiosa. Produrre a quelle condizioni - 5 milioni di tonnellate l’anno, con 10 mila operai e le prescrizioni ambientali - non conviene». Mittal cerca di andare via o di contrattare col governo ulteriori condizioni migliorative. Due su tutte: la riduzione del canone e proroghe ulteriori sul piano di investimenti ambientali», prosegue Contrario. Che lamenta una cosa su tutte: «Manca una exit strategy, nessuno ha mai lavorato fino in fondo a un piano di riconversione ecologica della nostra economia».

Ex Ilva, scontro tra Boccia e Patuanelli: tutti contro tutti sulla pelle dei tarantini. Libero Quotidiano il 18 Novembre 2019. Sul caso Ilva il governo non ha una linea unitaria, né una strategia di ampio respiro; anzi: ognuno dice la sua, rischiando di contraddire l'alleato. È ciò che è successo tra Francesco Boccia (Pd) e il titolare del Mise, Stefano Patuanelli. Oggetto di contraddizione è l'arcinoto scudo penale. Boccia, ministro degli affari regionali, ha fatto sapere che lo scudo si farà ed "è gia sul tavolo"; mentre Patuanelli ne ha escluso una reintroduzione immediata: "Se servirà, si farà in seguito". Alla luce di queste dichiarazioni, di quale credibilità può godere questo governo tra gli investitori stranieri? Nel frattempo il premier, Giuseppe Conte, si sta muovendo dietro le quinte. Da un lato ha annunciato la battaglia giudiziaria contro ArcelorMittal, dall'altro è alla ricerca di nuovi partner potenzialmente interessati a rilevare gli stabilimenti (si parla dei colossi cinesi dell'acciaio). Tale approccio ha spiazzato gli alleati del Pd, i quali si aspettavano un decreto emergenziale, che prevedesse una cassa integrazione per i lavoratori in esubero, uno scontro sul canone d'affitto degli stabilimenti o un ingresso dello Stato tramite Cassa depositi e prestiti. Uno fa e l'altro disfa: se il governo non appiana le divergenze di vedute al suo interno, come potrà salvare l'Ilva?

Ex-ILVA. Le domande non fatte e le risposte senza fondamento del Ministro Boccia a Repubblica. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno l'11 Novembre 2019. Il ministro Boccia a REPUBBLICA: “Sull’Ilva pensiamo a sconti per Arcelor Mittal se investirà nell’ambiente, ma l’azienda non ci convince” in un’intervista sicuramente interessante da leggere, ma altrettanto divertente da smontare e confutare parola per parola, applicando il “fact-checking”, cioè il controllo sulle parole rispetto ai fatti. Lo abbiamo fatto e questo che vi proponiamo è il risultato. Ieri sul quotidiano La Repubblica, il collega Giuliano Foschini ha intervistato il ministro Francesco Boccia sull’ ILVA, realizzando un’intervista sicuramente interessante da leggere, ma altrettanto divertente da smontare e confutare parola per parola, applicando il “fact-checking“, cioè il controllo sulle parole rispetto ai fatti. Lo abbiamo fatto e questo che vi proponiamo è il risultato. Boccia esordisce ricordando di essere “pugliese” e sino a questo punto è vero. Il ministro prima di entrare in Parlamento è stato Assessore all’economia al Comune di Bari (giunta Emiliano…) ed ha solo una laurea in scienze politiche. Ricorda di aver lavorato a Taranto come commissario ai tempi del default, ed anche questo è vero. Il collega Foschini scrive che Boccia “dal principio segue in prima linea il dossier acciaio” ma questo non è vero, quindi FALSO.

Alla domanda Che accadrà?, Boccia risponde: “Nel prossimo consiglio dei ministri il premier presenterà all’ordine del giorno “il cantiere Taranto”. Un intervento sull’area con progetti che avranno una ricaduta economica, sociale e ambientale. Si riuniranno stakeholders, associazioni, istituzioni locali e si metteranno in campo progetti concreti per costruire il futuro di Taranto“. Purtroppo il ministro dimostra di essere lontano anni luce dalla realtà quotidiana dei fatti, in quanto ancor prima di pensare al “futuro”, nella vita è necessario pensare al “presente”, di cui vive la gente.

Foschini chiede: “Ci saranno finanziamenti?” E Boccia risponde “È possibile. Ma è importante l’idea: Conte vuole davvero fare di Taranto un laboratorio“. Questa risposta conferma la circostanza che Boccia in realtà non sa di cosa parla. Infatti il CIS- Tavolo per Taranto gode già di finanziamenti a fronte di progetti, per circa un miliardo di euro, voluti e stanziati dai Governi Renzi-Gentiloni e gestiti dall’ex-ministro Claudio De Vincenti, che al contrario di Boccia,  è professore di economia politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma La Sapienza.

Alla domanda : “State pensando a un superamento dell’Ilva?” il neo-ministro barlettano risponde: “No. L’Ilva e l’acciaio sono un asset centrale del paese. Ma ci sono le regole che vanno rispettate. È bene che Arcelor Mittal lo capisca: in Italia gli impegni contrattuali si rispettano. E poi ci sono cose poche chiare“. Anche qui Boccia dice una non verità e quindi il FALSO, infatti Arcelor Mittal ha stipulato un contratto e sinora aveva rispettato tutto quanto era previsto sopratutto in materia di prescrizioni ambientali, il tutto certificato dalle ispezioni dei sindacati e persino del ministro Di Maio durante la sua  disastrosa reggenza del Ministero dello Sviluppo Economico.

La risposta di Boccia continua:  “Questi signori lo scorso anno hanno fatto un’offerta e preso degli impegni. La congiuntura era prevedibile, così come i dazi. Se c’erano esuberi me li sarei aspettati in altre parti di Europa o in India; non a Taranto, nel nuovo investimento“. Anche in questo caso Boccia manifesta le sue limitate competenze., in quanto i dazi non erano assolutamente prevedibili, e peraltro chi decide cosa fare è chi investe i soldi, e non certamente una banda di incapaci ed incompetenti chiamati a gestire il Paese, senza avere il consenso degli elettori, con un’operazione di “truffa politica” agli elettori, e tutto ciò pur di conquistare un potere perso nelle urna elettorali.

Il collega Foschini ricorda a Boccia che “è sempre stato contrario all’arrivo di Arcelor”. Ed il ministro barlettano così risponde: “Lo rivendico. Taranto era una bandierina per Arcelor che ha già dozzine di stabilimenti in tutta Europa. Sarebbe stata la prima fabbrica invece per i concorrenti di Jindal, che guidavano una cordata con tanta Italia dentro” ed anche qui Boccia dimostra di non sapere e capire di cosa parla!

Il ministro barlettano incredibilmente arriva a contestare l’arrivo in Puglia della più grande azienda al mondo che nel 2018 ha avuto utili per miliardi di dollari, e che avrebbe investito a Taranto, in Italia, circa 4 miliardi e mezzo di euro, se Luigi Di Maio e la dirigente regionale pugliese Barbara Valenzano (tanto cara… al governatore Emiliano) sotto le imbarazzanti spoglie di custode giudiziario e qualche giudice notoriamente “politicizzato” di Taranto, non avessero cambiato le carte in tavola e gli accordi contrattuali siglati, dei quali il ministro Boccia dimostra di essere a digiuno o ignorante (con tutto il rispetto, nel senso che non capisce quanto è contenuto nei contratti ed addendum)!

Il collega Foschini giustamente ricorda che la cordata Arcelor aveva offerto molti più soldi. “Il prezzo non doveva essere il criterio principale di aggiudicazione. Doveva esserlo la prospettiva industriale, l’ambientalizzazione. E comunque dopo un anno questi signori vogliono mandare a casa gli operai e risparmiare sul canone di affitto; i due punti grazie ai quali hanno vinto la gara. Scherziamo?”.

Ed anche qui Boccia conferma di non sapere o capire di cosa stia parlando. Infatti il contratto vinto legittimamente da Arcelor Mittal prevedeva circa 2 MILIARDI DI EURO di investimenti da effettuare nell’ambientalizzazione dello stabilimento siderurgico di Taranto , Interventi che Arcelor Mittal ha iniziato a fare, come dimostra la copertura dei parchi minerari costata circa 400 milioni di euro e quasi completata e che è sotto gli occhi di tutti. Ma forse Boccia manca da troppo tempo da Taranto e non se ne è accorto!

E qui si arriva al ridicolo, quando il giornalista chiede a Bocca “Che si fa se vanno via?” . Leggete con attenzione cosa risponde il ministro….” Si portano in tribunale, come ha detto il presidente. Si nomineranno dei commissari. A proposito: i tecnici scelti dal precedente governo perdevano meno di Arcelor. E’ possibile che il più grande gruppo mondiale dell’acciaio faccia peggio dei commissari italiani? E’ strano. Ecco perché bisogna capire se sono vere quelle perdite. Capire da chi sono state comprate materie prime con prezzi fuori da mercato. Se per esempio fossero state comprate da altre aziende del gruppo Arcelor…”. Boccia non si deve essere accorto di più di qualcosa, e cioè è che è stata Arcelor Mittal Italia a portare dinnanzi al Tribunale di Milano  il Governo Italiano e non viceversa. Quindi dice qualcosa di FALSO ! Poi dimentica che i commissari già ci sono…e dulcis in fundo, dimostra di non capire nulla ma proprio nulla di economia ed impresa. Infatti è normale che Arcelor Mittal perda più della precedente amministrazione straordinaria: gli indiani stanno spendendo per ristrutturare e risanare gli impianti dello stabilimento siderurgico di Taranto, mentre i commissari, prima quelli nominati dai suo compagni di partito del Pd e poi quelli nominati dal M5S non hanno speso alcunchè di quel MILIARDO e 350 MILIONI DI EURO che avevano in cassa!

L’intervista di REPUBBLICA si conclude così: “Però avete tolto lo scudo penale”. E qui Boccia dimostra di aver capito nulla, rispondendo: “La questione non è lo scudo. Se Mittal capisce che Ilva va sposata e non utilizzata le cose cambiano. Se Mittal non lo avesse ancora capito, dopo la visita del premier dovrebbe essere loro chiaro: non si possono fare ricatti sulla pelle dei lavoratori. Siamo pronti a reinserire lo scudo, scrivendolo per bene. Ma devono rinunciare ai 5 mila esuberi. Ci può essere anche uno sconto sull’affitto, ma solo se Arcelor si impegna a nuovi investimenti. Solo così la partita si può riaprire”. Qualcuno deve spiegare a Boccia come funziona un’industria, come si prepara un business plan, a cosa servono le relazioni trimestrali ai mercati finanziari (Arcelor Mittal è quotata in Borsa ad Amsterdam). Qualcuno spieghi al Ministro Boccia che è Arcelor Mittal a decidere se restare o meno e non lui,  o qualche ex-disoccupato del M5S.

Quello che La Repubblica non chiede a Boccia è questo:

Come mai non sono stati utilizzati il miliardo e 350milioni di euro sequestrati dalla Guardia di Finanza ai Riva ex proprietari dell’ ILVA, per “evasione fiscale”che i Commissari dell’ ILVA in amministrazione straordinaria hanno in cassa , dopo la decisione del Tribunale di Milano che indicava che potevano essere utilizzati solo per il risanamento ambientale?

Come mai nessuno dice nulla che un dirigente regionale privo di competenze specifiche, voglia imporre restrizioni ambientali e temporali ad Arcelor Mittal, che non erano previste nè nel bando di gara internazionale e tantomeno nei contratti (compreso l’addendum) stipulati?

Come mai oggi si vuole re-iscrivere lo “scudo penale”, che era già stato scritto ed attuato guarda caso da ben tre Governi a guida PD (Letta-Renzi-Gentiloni) , allorquando anche il Pd ha votato in Parlamento per la sua revoca? Lo sa almeno Boccia che lo scudo penale era stato introdotto per i commissari dell’  amministrazione straordinaria?

Come mai non dice una sola parola sul fatto che tutti i ricorsi giudiziari contro l’ ILVA, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sulla vicenda ILVA. presentati dal suo “amico-sponsor” Michele Emiliano, sono stati rigettati in tutte le sedi giudiziarie e costituzionali?

Come mai i sindacati sono tutti d’accordo con Arcelor Mittal e contro il Governo Conte 2, cioè quello “giallorosso” (M5S-Pd) sulla revoca  dello scudo penale?

Come mai nel referendum interno fra i lavoratori circa l’80% firmano a favore dell’ accordo contrattuale stipulato con Arcelor Mittal ?

Prima di pubblicare questo articolo abbiamo provato a contattare il ministro Boccia e la sua addetta stampa, ma erano troppo impegnati….Chiaramente siamo sempre a disposizione per eventuali chiarimenti.

ArcelorMittal: altro che perdite, nel 2018 risultato record. Il Corriere del Giorno l'8 Novembre 2019. Bilancio 2018: Balzo in avanti della redditività, Ebitda a 10,3 miliardi di dollari in crescita del 22,1%. Aumentati gli utili del 12,7%. Nell’Unione europea a 28 Paesi la produzione nel 2019 è scesa del 2% con un output di 13,386 milioni tonnellate (contro 13,656 milioni tn). Sui primi nove mesi del 2019 la flessione del mercato è del 2,8% a 122,494 milioni tonnellate , contro 125,977 milioni dello stesso periodo del 2018. ROMA – Mentre giornalisti e politicanti italiani continuano a parlare nelle televisioni e sui giornali di “perdite dell’ ILVA” e di quant’altro, pochi o meglio quasi nessuno ha avuto la voglia e l’attenzione di andarsi a guardare i numeri ufficiale della holding più importante nel mondo dell’ acciaio, che ha un nome molto chiaro e noto in tutto il mondo: Arcelor Mittal. L’interesse economico ed industriale di ArcelorMittal verso il mercato italiano era sicuramente affaristico e non certamente per fare opere di beneficenza. L’operazione di acquisizione dell’Ilva è stato l’ultimo grande investimento dei franco- indiani per un consolidamento nel mercato europeo, così come  è altrettanto vero che sarebbe stato pericoloso ignorare un asset del genere disponibile sul mercato della concorrenza, anche se il leader del settore in tutto il mondo , e cioè Arcelor Mittal voleva assicurarsi di poterlo acquisire ad un prezzo ragionevole. Una eventuale svendita dell’ Ilva avrebbe di fatto aperto le porte del mercato a un potenziale concorrente. Gli analisti di Deutsche Bank, ritengono che “Ilva contribuisca sui conti del 2019 con un’Ebitda negativo di 500-700 milioni di dollari. Considerando investimenti per 400-500 milioni di dollari e una rata d’affitto di 200 milioni, tutto questo porta a un assorbimento di cassa pari a 1,1-1,4 miliardi di dollari e a una resistenza molto elevata del 7-9% rispetto all’attuale capitalizzazione di mercato. Quindi, crediamo che questo sia un positivo a breve termine per l’azienda e per il titolo”. E in effetti all’annuncio della decisione di Arcelor Mittal di lasciare l’ Italia, i mercati finanziari hanno reagito positivamente. Va però considerato anche qualcos’altro che la Deutsche Bank stranamente non considera.E cioè che  nonostante il calo della produzione mondiale e delle spedizioni, i ricavi delle vendite e soprattutto la redditività di ArcelorMittal in realtà registrano un significativo balzo in avanti. Come riporta Siderweb, la produzione di acciaio del gruppo euro-indiano alla fine dell’ultimo esercizio 2018, nel proprio bilancio consolidato di gruppo, presentato ai mercati finanziari ed agli investitori mondiali,  è calata dello 0,6%, passando da 93,1 milioni di tonnellate nel 2017 a 92,5 milioni di tonnellate nel 2018. Le spedizioni totali si sono attestate a  83,9 milioni di tonnellate, con una diminuzione dell’1,6% rispetto all’anno precedente, causata principalmente dalla riduzione dei flussi verso la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), compensata in parte dagli aumenti realizzati in Brasile (+5,8%, includendo l’impatto dell’acquisizione della Votorantim), nel Nord America (+1%) e in Europa (+0,2%, includendo l’impatto dell’acquisizione dell’Ilva che ha compensato la riduzione delle consegne degli impianti spagnoli nelle Asturie, a causa di un’inondazione,  e dell’acciaieria di Fos-sur-Mer in Francia, a causa di un’interruzione di corrente, e di una lenta ripresa della produzione di un altoforno in Polonia). Al netto di Ilva e Votorantim, acquisite nel corso del 2018, le spedizioni sono state pari a 82,5 milioni di tonnellate, con un calo del 3%, dovuto alla diminuzione dei flussi vero la CSI (-10,3%) e l’Europa (-1,2%), in parte controbilanciati dagli aumenti registrati in Brasile (+0,5%) e Nord America (+1%). I ricavi delle vendite sono invece aumentati del 10,6%, passando a 76 miliardi di dollari rispetto ai 68,7 dell’anno precedente. L’incremento è dovuto all’aumento dei prezzi medi di vendita che ha più che compensato la diminuzione dei volumi di vendita. Il risultato della gestione industriale (Ebitda) è passato da 8,4 a 10,3 miliardi di dollari, con un incremento del 22,1%. L’incidenza sui ricavi delle vendite è salita al 13,5% dal 12,2% dell’esercizio precedente. Il risultato netto della gestione caratteristica (Ebit) si è attestato a 6,5 miliardi di dollari rispetto ai 5,4 del 2017, con un incremento del 20,3%, dovuto principalmente al miglioramento delle condizioni operative (effetto positivo costi/prezzi nel segmento dell’acciaio) in parte compensato dall’impatto negativo del calo dei prezzi di mercato del minerale di ferro. L’utile netto ha raggiunto i 5,1 miliardi di dollari rispetto ai 4,6 del 2017, con un incremento del 12,7%. La differenza rispetto alla variazione positiva del risultato della gestione industriale è dovuta alle perdite su cambi e ad altre perdite finanziarie.La redditività del capitale investito (ROA) è salita dal 6,4% del 2017 al 7,2% nel 2018; la redditività delle vendite (ROS) è balzata dal 7,9% all’8,6%; la redditività dei mezzi propri (ROE) è passata dall’11,2% all’11,7%. I debiti sul fatturato sono scesi dal 18,8% al 16,4%, mentre gli oneri finanziari sull’Ebitda sono diminuiti dal 9,8% al 6%. L’indice di indebitamento finanziario è sceso da 0,32 a 0,28, mentre l’indice di indebitamento complessivo è rimasto stabile intorno a 1,6. Da segnalare infine nelle stime di capex per il prossimo anno i 400 milioni di dollari già stanziati per il revamping degli impianti ex Ilva. “In Europa stiamo tagliando la produzione perché non facciamo soldi”. Con questa affermazione Lakshmi N. Mittal, presidente e ceo di ArcelorMittal, ha risposto, nel corso della conference call sui dati trimestrali, a un analista che gli chiedeva aggiornamenti sulla strategia nel Vecchio Continente.  Le valutazioni di ArcelorMittal lasciano pochi dubbi: in Europa, la domanda dovrebbe contrarsi fino al 3% (rispetto al range -1,0%/-2,0% della guidance precedente) per la debolezza della domanda automobilistica e il rallentamento del settore delle costruzioni aggravato dalla riduzione della catena di approvvigionamento. Arcelor Mittal stima che le spedizioni di acciaio saranno stabili nel 2019 rispetto al 2018, una previsione al ribasso rispetto alle precediti linee guide che prevedevano un incremento annuale. “Come previsto, nel terzo trimestre abbiamo continuato ad affrontare condizioni di mercato difficili, caratterizzate dai bassi prezzi dell’acciaio e dai costi elevati delle materie prime“, ha commentato Lakshmi N. Mittal aggiungendo “In questi mercati, rimaniamo concentrati sulle nostre iniziative per migliorare le prestazioni e la nostra priorità e’ ridurre i costi, adattare la produzione e concentrarci per garantire che il flusso di cassa rimanga positivo. Continuiamo ad aspettarci una sostanziale liberazione di capitale circolante nel quarto trimestre, che dovrebbe permetterci di ridurre ulteriormente l’indebitamento netto anno dopo anno“. A settembre 2019 la produzione siderurgica italiana ha fatto un passo indietro. Nel nono mese dell’anno l’output è stato di 2,208 milioni di tonnellate, con una riduzione dell’1,1% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (2,185 milioni tonnellate). Sui primi nove mesi dell’anno il calo è stato pari al 3,9% con un output di 17,620 milioni (contro 18,328 milioni tn). Questi i dati diffusi dalla World Steel Association, che analizza l’andamento della produzione in 64 Paesi del mondo. Nell’Unione europea a 28 Paesi la produzione è scesa del 2% con un output di 13,386 milioni tonnellate (contro 13,656 milioni tn). Sui primi nove mesi del 2019 la flessione del mercato è del 2,8% a 122,494 milioni tonnellate , contro 125,977 milioni dello stesso periodo del 2018. Secondo gli ultimi dati di Federacciai in Italia a luglio l’attività dei settori utilizzatori di acciaio si è confermata in sofferenza, con automotive (-7,5%) e meccanica (-6,9%) in marcato declino. Alla luce di tutto questo l’obiettivo di Arcelor Mittal sembra quello di ridurre i costi e le perdite di Ilva entro la fine dell’ anno. Secondo gli analisti della banca tedesca “ArcelorMittal mira a recuperare alcuni dei fondi iniettati. E potrebbe arrivare a chiedere oltre due miliardi di dollari. Anche se potrebbe essere un’operazione difficile e lunga”.  Su un punto tutti gli esperti ed analisti internazionali sono d’accordo e convinti, e cioè che senza l’ Ilva sul groppone e con la cessione degli asset più in sofferenza di inizio anno, le attività di ArcelorMittal in Europa ne trarrebbero vantaggio. Per gli analisti una chiusura definitiva delle acciaierie in Italia aiuterebbe a bilanciare il mercato riducendo la pressione sui prezzi, anche non viene escluso alla fine un accordo in extremis tra il Governo italiano ed i vertici di Arcelor Mittal.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 12 Novembre 2019. I magistrati di Taranto sono il convitato di pietra di ogni tavolo tecnico e politico sull' ex Ilva. Buona parte della lettera con cui ArcelorMittal ha sbattuto la porta, riguarda aspetti giudiziari. Dallo «scudo penale» che un momento c'è e subito dopo no, all' ordine di spegnimento da parte del tribunale dell' altoforno 2 se i lavori di adeguamento non saranno terminati entro il 13 dicembre (e già si sa che è impossibile), al conseguente spegnimento degli altiforni 1 e 4 perché «ragionevolmente andrebbero estese le stesse prescrizioni», fino al parziale sequestro del molo 4 per lo scarico di materiali grezzi. È comprensibile, allora, che il premier Giuseppe Conte abbia voluto parlare direttamente e riservatamente con i magistrati tarantini. L' incontro con il procuratore capo Carlo Maria Capristo e l'aggiunto Maurizio Carbone si è tenuto in prefettura, a Taranto, l' 8 novembre scorso. È emerso subito che la questione dello «scudo penale» è molto diversa da come viene raccontata. Intanto perché esiste già. Non solo per via dell' articolo 51 del codice penale («L' esercizio di un diritto o l' adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità»), ma perché ne funziona uno apposito per Taranto, previsto dal decreto Salva-Ilva del 2015. La formulazione di quello scudo, come è stato spiegato al presidente del Consiglio, è esplicita. «Le condotte poste in essere in attuazione del Piano di cui al periodo precedente - recita - non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del Commissario Straordinario, dell' affittuario o acquirente e dei soggetti da questi funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell' incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro». Secondo la procura, pur scontando una forte delusione perché gli anni passano veloci e la bonifica ambientale invece marcia lentissima, questa formulazione era accettabile e rispetta la Costituzione. In quel decreto era altresì previsto che questo scudo sarebbe decaduto nel settembre del 2019, ma perché a quella data era previsto che si sarebbero conclusi i lavori all' altoforno. Tra l' altro, siccome i lavori sono onere e responsabilità dei tre commissari straordinari (nominati dal governo, pagano i lavori con fondi confiscati dalla procura di Milano ai vecchi proprietari, i Riva) e non di ArcelorMittal, il problema ai privati dovrebbe interessare ben poco. E allora che cosa succederà? Facile: i commissari hanno già fatto sapere che presenteranno un' istanza al tribunale per avere più tempo. Qualcuno parla di un mese. ArcelorMittal nella sua lettera accenna a comunicazioni dei commissari che avrebbero bisogno di un anno. La procura a quel punto dovrà dare un parere. Poi si andrà davanti al giudice e, se del caso, davanti al Riesame. Tutto lascia pensare che la scadenza del 13 dicembre sarà spostata in avanti. E anche il vecchio scudo penale previsto dal Salva-Ilva per i commissari straordinari continuerà a funzionare. Addirittura, come la procura di Taranto ha segnalato al Parlamento con un suo parere, la formulazione del vecchio scudo è più estensiva di come sarebbe stata con il nuovo. Quello che poi è stato cancellato a furor di parlamentari pugliesi. Smontata la presunta spada di Damocle giudiziaria, restano sul tavolo i motivi economici della rescissione. Ovvero la congiuntura sfavorevole dell' acciaio. Ed è più chiaro perché Conte nell' intervista al Fatto quotidiano dica del fatidico scudo penale: «Anche solo continuare a parlarne ci indebolisce nella battaglia legale, alimenta inutili polemiche e ributta la palla dal campo di Mittal a quella del governo».

Vittorio Feltri sull'Ilva, quelle vecchie parole profetiche: la falsa "catastrofe ambientalista". Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. La questione dell'Ilva comincia ad essere vecchia e ciononostante non si è mai risolta. Anni fa scrissi due pezzi a riguardo che mi sembrano ancora validi, per cui li ripropongo ai lettori di Libero. Contro i proprietari della fabbrica non è mai stata emessa una sentenza, per cui non si può dire che i Riva siano stati giudicati colpevoli di qualcosa. Oggi la faccenda è di nuovo di attualità ma non è stata chiarita. Giudichi il lettore dopo aver letto le mie considerazioni basate sulla realtà.

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La materia che stiamo per trattare è scottante e va presa con le pinze, tanto più in questo momento. Ci riferiamo all' Ilva di Taranto, accusata di produrre un inquinamento micidiale a causa del quale sarebbero morte centinaia e centinaia di persone: cancro ai polmoni. La fabbrica, tra le più importanti d' Europa nel settore dell' acciaio, rischia addirittura di fare una brutta fine: è in corso un' inchiesta della magistratura, dalle cui carte emerge una situazione drammatica tale che, se fosse confermata da una sentenza di condanna che non c' è, la speranza di salvare l' azienda si ridurrebbe al lumicino. Naturalmente noi non abbiamo le conoscenze scientifiche necessarie per esprimere giudizi in merito. Ma leggendo i documenti abbiamo constatato alcune incongruenze tali da suscitare dubbi sulla fondatezza delle responsabilità attribuite ai gestori dello stabilimento. Tra l' altro, nei giorni scorsi il commissario dell' Ilva, nominato dal governo, Enrico Bondi (già collaboratore dell' ex premier Mario Monti e risanatore della Parmalat) ha inviato una lettera ai vertici della Regione Puglia in cui, riassumendo le osservazioni di quattro consulenti dell' impresa, fa notare che non esistono prove certe che l' elevato numero di decessi sia rapportabile alle cosiddette polveri sottili emesse dagli impianti industriali. Non l' avesse mai fatto: Bondi è stato travolto dalle critiche. Vari partiti, tutti impegnati in una gara a chi è più ambientalista, si sono sollevati all' unisono per protestare contro il commissario reo di aver contraddetto le tesi colpevoliste. Essi non hanno tenuto conto che Bondi era considerato all' unanimità l' uomo più adatto, alla luce del suo impeccabile curriculum, a risolvere i problemi. Non siamo in grado di accertare se abbia ragione lui o il gruppo dei suoi improvvisati detrattori: rimane il fatto che chiunque osi manifestare perplessità sull' effettiva dannosità delle scorie dell' Ilva viene messo al bando quale complice di Sorella Morte, benché la discussione sull' inquinamento a Taranto sia circoscritta all' ambito delle ipotesi. Spulciando tra gli atti dell' inchiesta è difficile dare torto a Bondi: essi sono disseminati di contraddizioni meritevoli di attenzione. La più grossolana è contenuta in una perizia acquisita dall' Ufficio del giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco, dove si legge che i morti per cause naturali sono stati, in tredici anni, 386, un dato impressionante. Peccato che in un altro punto della documentazione si scopra che, invece, 140 dei 386 decessi denunciati, siano attribuibili a cause non naturali: cioè dovuti a incidenti stradali, suicidi eccetera. Le cifre sono state alterate di sicuro in buona fede, ma ciò non giustifica l' errore, soprattutto non giustifica la mancata correzione del medesimo, visto che le conclusioni sono state tratte dal quadro statistico falsato.

CIFRE ALTERATE. In un' altra perizia ordinata dal Tribunale si sostiene che le sostanze nocive per essere tollerabili non devono superare il limite di 20 milligrammi per metro cubo, come raccomanda - o sogna - l' Organizzazione mondiale della sanità. Ma uno degli stessi autori, in un altro documento riguardante una consulenza richiesta dalla Regione Lombardia, afferma che la media annua e tollerabile delle polveri sottili è di 40 milligrammi per metro cubo, esattamente come recita la disposizione europea tramutata in legge dall' Italia. Da sottolineare che la media delle sostanze tossiche emesse dall' Ilva non è mai andata oltre il limite fissato dalla citata legge. Quindi non si capisce in che cosa consistano le presunte violazioni commesse dalla fabbrica in questione. Immagino che le obiezioni di Bondi - che non è l' ultimo arrivato - sorgano anche dagli elementi che abbiamo riportato in sintesi e con un linguaggio semplice. C' è da aggiungere, per rimarcare la confusione regnante in questo campo, una curiosità. Legambiente, nel 2012, ha elaborato una ricerca su scala nazionale relativamente al Pm10 (polveri sottili) da cui si evince che, nella classifica delle città più inquinate, Taranto figura al 46° posto. Milano, per intenderci, è in vetta insieme con Torino, seguite da Verona, Alessandria e Monza.

IL CASO DI MILANO. L' incidenza delle sostanze tossiche presenti nell' atmosfera sulla mortalità non è mai stata misurabile né lo sarà, presumibilmente, per parecchio tempo ancora. Milano, per esempio, pur avendo un' aria irrespirabile, in teoria, in pratica offre ai suoi abitanti le migliori aspettative di vita: sotto il Duomo si campa più a lungo che sotto le Dolomiti. Ergo, andiamoci piano con i catastrofismi degli ambientalisti professionali. Se anche la magistratura si lascia influenzare dai luoghi comuni e dai luogocomunismi della vulgata, seguiteremo a morire, e moriremo poveri. Vittorio Feltri

Da ansa.it il 16 novembre 2019. I commissari di Ilva questa mattina hanno depositato in Procura a Taranto un esposto denuncia con al centro "fatti e comportamenti inerenti al rapporto contrattuale con ArcelorMittal, lesivi dell'economia nazionale". Pertanto la richiesta alla Procura è di verificare la sussistenza di ipotesi di reato. E' quanto si legge in un loro comunicato. "L'insubordinazione alla decisione dell'azienda di fermare gli impianti? E' un'idea già emersa nell'ultimo consiglio di fabbrica, l'avevamo proposta anche noi. Sì, pensiamo ad una sorta di sciopero al contrario. Non vogliamo essere complici della morte della fabbrica. Ogni decisione, comunque, andrà condivisa con le altre sigle e i lavoratori". Lo dichiara all'ANSA Francesco Brigati, coordinatore delle Rsu Fiom dell'ex Ilva. "Decideremo le iniziative - aggiunge - nel consiglio di fabbrica convocato per lunedì prossimo. "Parlare oggi del Piano B per Taranto significa dare la migliore via d'uscita ad Arcelor Mittal". Cosi Luigi Di Maio. "L' azienda deve sentire la pressione di tutti i cittadini e del sistema Italia. Già parlare di piani sulla nazionalizzazione o altra cordata è un modo per dire: puoi andare, tanto abbiamo un'alternativa". "Per me - ha concluso il capo politico di M5S - il piano A, B o C si chiama Arcelor Mittal e vedremo in tribunale tra settimane quale sarà l'esito della procedura d'urgenza". La proposta dell'azienda "è inaccettabile", ha intanto commentato così la ministra del lavoro Nunzia Catalfo il tavolo di ieri con ArcelorMittal intervistata da Sky tg24. La ministra ha sottolineato la riduzione di personale con 5.000 esuberi richiesta dal gruppo e ha spiegato che l'azienda aveva anche chiesto di anche "di andare in deroga delle norme sulla sicurezza sul lavoro", richiesta, ha detto "alla quale ho opposto un secco no". Per il presidente degli industriali Vincenzo Boccia, "la dimensione muscolare non serve a nessuno. Per l'Ilva occorrono soluzioni". Per Boccia "la prima cosa da fare è rimettere lo scudo, e occorre ammettere l'errore che si è fatto, da cui si determinata questa situazione". "Quanto prima si convoca l'azienda per comprendere questi aspetti, e cercare di recuperare un rapporto che giorno dopo giorno diventa sempre più difficile, di dialogo che ormai è a mezzo stampa e che non ci porta da nessuna parte". Secondo il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, "quello che ArcelorMittal sta facendo è illegittimo, perché c'è un accordo che va applicato e anche l'idea di spegnere gli impianti è per noi inaccettabile. Non saremo complici di una scelta di questo genere, troveremo tutti i modi e tutte le forme possibili, perché lì la gente vuole produrre acciaio senza inquinare, non vuole chiudere impianti". "Mittal sta cercando di mettere in crisi politica il governo italiano - ha detto il presidente della Regione Puglia, Emiliano, -. Sta facendo qualcosa senza precedenti nella economia internazionale: una multinazionale che cerca, sia pur forse indirettamente, di far cadere un governo. Mai vista nella storia una cosa del genere".

Ilva, Giuliano Cazzola: «La magistratura ha ucciso l’acciaieria». Giulia Merlo il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio. Intervista a Giuliano Cazzola. «E’ paradossale: I commissari imputano a Mittal un danno all’economia nazionale se spegne l’altoforno. Ma gli era stato ordinato dai giudici». «Giudiziariamente, il caso Ilva è paradossale e temo che ormai la vicenda sia irrimediabilmente compromessa». Questo il giudizio tranciante dell’economista ed ex sindacalista, Giuliano Cazzola, che non usa mezzi termini per commentare gli ultimi sviluppi sull’Ilva di Taranto.

La magistratura il nuovo attore sul delicato scacchiere e rischia di complicare le cose?

«Verrebbe da usare una costante dei libri gialli: l’assassino ritorna sempre sul luogo del delitto. La magistratura – almeno quella di Taranto – non è un nuovo attore, ma la principale protagonista del disastro di un sito produttivo che, fino al 2012, era attivo e rispettava le regole previste per la produzione dell’acciaio. Quello che non è mai stato chiarito nel dibattito sull’ex Ilva riguarda il rapporto tra produzione ed inquinamento. Si tratta necessariamente di un processo in evoluzione, legato allo sviluppo delle tecnologie e alla stessa economicità dell’attività produttiva. L’adozione di regole più severe tiene conto di questi elementi. L’esempio più calzante è quello dell’auto. Periodicamente vengono stabiliti a livello europeo standard più avanzati sul piano della sicurezza e della congruità delle emissioni rispetto all’ambiente. Le auto di nuova fabbricazione devono rispondere a questi standard, ma di quelle circolanti, certamente più inquinanti, la magistratura non impone la rottamazione».

Questo cosa ha a che vedere con l’ex Ilva?

«Produrre e lavorare l’acciaio non è come coltivare fiori. Nessuna procura però si è mai sognata di ordinare alla Fiat di produrre solo macchine elettriche, quando le centraline delle grandi città superavano i limiti delle polveri sottili. Il fatto che per l’inquinamento urbano ci siano dei limiti non vuol dire che al di sotto di quelli consentiti le persone respirino come se fossero in montagna. E’ una questione di equilibrio, di conciliazione tra i diversi interessi e i modelli di vita. L’essere umano è sempre stato condizionato dall’ambiente. Chi dice che la morte di un bambino non vale tutto l’acciaio del mondo, ha ragione. Il fatto è che i bambini muoiono a migliaia di fame, di sete, di malattia dove l’acciaio non sanno neppure che cosa sia. E nell’aria che respirano non ci sono tracce di co2».

Il ruolo della magistratura può essere considerato un elemento isolato rispetto alla contrattazione in corso tra il governo e Arcelor Mittal?

«Solo un ruolo di disturbo, di complicazione delle cose, senza cavare un ragno dal buco. Come non esiste il lavoro forzato, non esiste neppure il fare impresa per obbligo».

Dovrebbe esistere una logica di opportunità nell’intervento dei magistrati?

«Ritengo il caso di Taranto paradossale. Perché Arcelor Mittal vuole andarsene? Non solo per via dell’abolizione dello scudo penale. Ci sono degli altri motivi che la società ha inserito nel suo comunicato. I provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019 – termine che gli stessi commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare – pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2. Quindi sostiene l’azienda, le suddette prescrizioni «dovrebbero ragionevolmente e prudenzialmente essere applicate anche ad altri due altiforni dello stabilimento di Taranto». Ma, tale spegnimento «renderebbe impossibile per la Società attuare il suo piano industriale, gestire lo stabilimento di Taranto e, in generale, eseguire il contratto». Dove sta il paradosso: i commissari imputano all’azienda un danno all’economia nazionale se dovesse spegnere gli altiforni – ma per fortuna la società ha soprasseduto – e si rivolgono alla procura che ne ha ordinato la chiusura».

Dal punto di vista politico, ritiene che la rimozione dello scudo penale sia stata un errore?

«Certamente. Con una magistratura ostile nessuno si potrebbe occupare di quello stabilimento. Non a caso lo scudo l’avevano preteso i commissari straordinari. Le ricordo ciò che ha detto un bravo sindacalista come Marco Bentivogli: «Qualcuno investirebbe 3,6 miliardi in uno stabilimento in cui è ancora sotto sequestro giudiziario l’area a caldo?». In un impianto per il quale la magistratura ha chiesto il fermo dell’altoforno? In una struttura che deve essere messa a norma sapendo che nel corso del tempo che occorre per farlo, non potendo fermare l’attività, i suoi manager potrebbero essere chiamati a rispondere di reati conseguenti a fatti penali riferibili alle gestioni precedenti?»

E’ possibile per l’Esecutivo ritornare sui suoi passi o ormai la vicenda è compromessa?

«Purtroppo credo che la vicenda sia irrimediabilmente compromessa. Una multinazionale che sta vivendo un momento difficile per la crisi del mercato dell’acciaio non impiega tempo e risorse per investire in un Paese che non rispetta gli impegni e che le è ostile. Personalmente mi auguro che un giorno sia istituito una specie di “tribunale di Norimberga” dove processare gli assassini dell’ex Ilva e i loro complici».

Come ritiene che possa concludersi? E’ plausibile la nazionalizzazione?

«La nazionalizzazione sarebbe una stupidaggine. Lo stabilimento perde due milioni al giorno. Poi il conflitto con la magistratura e con la città non finirebbe. Si è chiesta perché i sindacati confederali pugliesi e tarantini si guardano bene dal solidarizzare con i dipendenti dell’ex Ilva? Le risulta in programma uno sciopero generale?»

Quanto è responsabile il governo di ciò che sta succedendo?

«Il governo ha scelto di nascondersi dietro l’iniziativa giudiziaria. Mi sembrano più responsabili le confederazioni nazionali che hanno incontrato il capo dello Stato. Hanno capito che di mezzo non c’è solo lo scudo penale, ma anche il problema degli organici legato ad un rischio di sovrapproduzione sul mercato».

Ex Ilva, la Procura di Milano corre in soccorso del governo: apre un’inchiesta, ma non sa per quale reato. Gigliola Bardi venerdì 15 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. La procura di Milano ha aperto un’inchiesta sull’ex Ilva. L’iniziativa è stata presa ravvisando “l’interesse pubblico relativo alla difesa dei livelli occupazionali, alle necessita economico-produttive del Paese, agli obblighi del processo di risanamento ambientale”. Il procuratore Francesco Greco ha proceduto all’iscrizione di un fascicolo “modello 45”, ovvero senza notizia di reato. Questo consentirà di verificare l’eventuale sussistenza di ipotesi di reato con conseguente delega alla Guardia di finanza di Milano per gli accertamenti preliminari.

Su Ilva una causa di «pubblico interesse». L’apertura di un fascicolo del genere è consentita dall’articolo 70 del codice di procedura penale. L’ultimo comma concede la possibilità di intervenire in una causa in cui si ravvisa un pubblico interesse. Greco ha invitato il coordinatore del secondo dipartimento Maurizio Romanelli a seguire le modalità di intervento, che sarà in capo a Stefano Civardi e Mauro Clerici. I due pm sono i titolari del procedimento relativo alla bancarotta della società Ilva.

La Procura “soccorre” il governo. L’intervento della Procura di Milano è arrivato a ridosso del vertice al Mise, fissato per le 15.30, tra ArcelorMittal e sindacati, all’indomani dell’annuncio sull’imminente spegnimento degli altiforni tarantini. Ieri sera, inoltre, Matteo Renzi aveva “caldeggiato” a Palazzo Chigi di rivolgersi al tribunale, un’ipotesi finora sventolata ma non perseguita dall’esecutivo. Ancora stanotte, infatti, intervenendo da Washington, Luigi Di Maio spiegava che “stiamo chiedendo a questa multinazionale di sedersi al tavolo e di ripensare quella proposta” di lasciare l’Italia, ma “finora lo abbiamo fatto con gentilezza. Adesso, se serve, in tribunale depositeremo tutto quello ciò che è necessario a far valere le ragioni dell’Italia“.

Il ricorso d’urgenza dei commissari straordinari. Intanto, sempre oggi e sempre a Milano, dove ArcelorMittal già qualche giorno fa ha presentato l’atto di citazione per chiedere la rescissione del contratto, è stato depositato anche il ricorso d’urgenza dei commissaria straordinari dell’ex Ilva. Nel ricorso si chiede di rispettare gli accordi presi in precedenza. Ad occuparsene è il giudice Claudio Marangoni, già titolare della causa mossa da ArcelorMittal. Spetterà a lui fissare la data dell’udienza che con avrà tempi lunghissimi, statisticamente 10-15 giorni. ArcelorMittal chiede in via principale al tribunale di Milano di “accertare e dichiarare l’efficacia del diritto di recesso dal contratto di affitto con obbligo di acquisto dei rami di azienda”. Con il ricorso d’urgenza, invece, i legali di Ilva chiedono il rispetto del contratto. Lo scudo penale – sostengono – non è una condizione sufficiente per permettere ad ArcelorMittal di venir meno al patto.

E' ancora "Stato contro lo Stato": la Procura della Repubblica di Milano apre un fascicolo sulla vicenda Arcelor Mittal-ex Ilva. Le ombre sui rapporti Morselli-Di Maio. Antonello de Gennaro il 15 Novembre 2019 su Il Corriere del Giorno. ESCLUSIVO : I CONFLITTI D’INTERESSE DI DI MAIO E DELLA MORSELLI A questo punto riteniamo che la Procura di Milano e quella di Taranto certamente avranno molto lavoro per verificare ed indagare facendo luce su questa torbida vicenda, diventata un intrigo politico-industriale-occupazione che rischi di far diventare la città di Taranto e la sua provincia una vera e propria “polveriera” sociale pronta ad esplodere da un momento all’altro. Con un comunicato stampa il procuratore capo della Repubblica Francesco Greco ha reso noto questa mattina che la Procura della Repubblica di Milano “ravvisando un preminente interesse pubblico relativo alla difesa dei livelli occupazionali, alle necessità economico-produttive del Paese, agli obblighi del processo di risanamento ambientale” ha aperto un fascicolo esplorativo (modello 45) per verificare “l’eventuale sussistenza di ipotesi di reato” sul caso Arcelor Mittal-ex Ilva. La Procura di Milano, ha deciso di esercitare il “diritto-dovere di intervento” previsto dal codice di procedura civile “nella causa di rescissione del contratto di affitto d’azienda promosso dalla società Arcelor Mittal Italia contro l’ Amministrazione Straordinaria dell’Ilva“. Incredibilmente a Taranto i magistrati di Taranto sono il convitato obbligatorio ad ogni tavolo tecnico e politico sull’ ex Ilva. Non è un caso che buona parte della lettera con la quale ArcelorMittal ha annunciato il proprio abbandono dello stabilimento di Taranto, riguarda proprio aspetti giudiziari. A partire dallo “scudo penale” istituito dal Governo Renzi (è bene ricordarlo) per tutelare i commissari Carruba, Gnudi e Laghi dell’ ILVA in Amministrazione Straordinaria, garanzia che durante la gara pubblica internazionale era stato estesa dal Ministero dello Sviluppo Economico guidato da Carlo Calenda (Governo Gentiloni) all’aggiudicatario, quindi Arcelor Mittal, salvo poi venire revocato dal ministro Di Maio, per arrivare poi all’ ordine di spegnimento dell’ altoforno AFO2 disposto da parte del Tribunale se i lavori di adeguamento non saranno terminati entro il 13 dicembre (e già si sa che è impossibile) e tutto ciò a causa delle mancante ottemperanze alle prescrizioni da parte dei commissari Carruba-Gnudi e Laghi dell’ ILVA in Amministrazione Straordinaria (cioè lo Stato) che disponeva dei 1.083 milioni di euro, per la precisione, sequestrati dalla Fiamme Gialle in Svizzera. Il “tesoretto” della famiglia Riva, era stato scovato nel 2013 dai magistrati milanesi in Svizzera e disponibili da giugno 2017, è stato vincolato dal Tribunale di Milano al risanamento ambientale (decontaminazione e bonifica) dell’area Ilva di Taranto. Abbiamo provato a contattare telefonicamente uno dei tre commissari dell’ ILVA in A.S. nominato dal Governo Renzi, e cioè l’ avvocato romano Claudio Carruba il quale si è dichiarato indisponibile a rispondere alle nostre domande giornalistiche per meglio chiarire ai lettori, ai contribuenti ed ai cittadini (sopratutto quelli di Taranto) come mai insieme ai colleghi Gnudi e Laghi non abbiano rispettato le prescrizioni giudiziarie sul risanamento di AFO2. Vedere qualcuno pagato profumatamente dai soldi pubblici che si rifiuta di rispondere a delle legittime domande, prefigura più di qualche legittimo dubbio…Dal 1° giugno scorso Carruba, Gnudi e Laghi hanno lasciato il posto ai loro successori nominati dal ministro Di Maio: i pugliesi Francesco Ardito (commercialista e dirigente di Acquedotto Pugliese) e Antonio Lupo (avvocato amministrativista di Grottaglie ed attivista del M5S) ed il lombardo Antonio Cattaneo (partner di Deloitte). ma proprio quest’ultimo, prima ancora di insediarsi con grande etica professionale e correttezza legale ha deciso di rinunciare all’incarico per evitare un conflitto d’interesse, infatti tra gli “audit client” di Deloitte vi è una società che controlla una controparte di ArcelorMittal, diventata locataria-proprietaria di ILVA. I tre commissari uscenti “ufficialmente”si sono dimessi dopo aver portato a termine il passaggio ad ArcelorMittal, conclusosi il 1° novembre 2018. Ma in realtà il cambio della guardia è stato deciso dal ministro Luigi Di Maio e del suo staff di gabinetto al MISE, che ha voluto iniziare quella che lo stesso vicepremier chiamava la “Fase 2 di Taranto” e dell’acciaieria. Che è inizia già zoppa: con un commissario in meno, e sopratutto a causa del 20% dei consensi del M5S persi in un anno a Taranto (dalle Politiche 2018 alle Europee 2019). Tornando ai numeri: in cassa dell’ ILVA in Amministrazione Straordinaria , del “tesoretto” sequestrato e successivamente confiscato ai Riva sarebbero rimasti circa 450 milioni di euro , che non stati nè assegnati nè tantomeno né spesi. Soldi questi avrebbero dovuti essere destinati ad altri interventi di bonifica dell’area Ilva, che sono attualmente sotto sequestro, come quelle delle discariche adiacenti alla gravina Leucaspide, alla Cava Mater Gratiae e quella delle collinette che separano l’acciaieria dal quartiere Tamburi. Collinette ecologiche che avrebbero dovuto tutelare il quartiere di Taranto adiacente allo stabilimento siderurgico dell’ ex-Ilva dall’inquinamento dell’acciaieria ed invece si erano trasformate in altre discariche, inquinate a tal punto che i ragazzi che frequentavano le adiacenti scuole “De Carolis” e “Deledda” nell’ultimo anno scolastico sono stati costretti a dover frequentare le lezioni nelle aule di altri istituti scolastici di Taranto. Per fortuna sulle collinette c’è stato l’intervento del procuratore capo di Taranto Capristo ed i lavori sono stati effettuati e portati a termine. Un vero e proprio paradosso considerato che si trattava di due scuole (sulle 5 totali) che erano state rimesse a norma nel 2016, con un’altra bonifica costata 9 milioni di euro, dell’area Sin (Sito di interesse nazionale) di cui è commissario dal 2014 Vera Corbelli. Partendo dal presupposto che per le aree sequestrate ogni intervento di fatto andrò valutato e deciso di concerto con l’Autorità Giudiziaria di Taranto (che non ha molte competenze in materia industriale) con i 450 milioni restanti, con i quali al momento i nuovi commissari nominati da Di Maio, di fatto, potranno fare ben poco. E’ forte il dubbio ed il timore a questo punto che adesso questi fondi stano stati impiegati o addirittura dirottati altrove, nonostante una norma legale li vincoli al risanamento ambientale di Taranto. Va ricordato che per superare la  legge 123 dell’agosto 2017, bisognerebbe farne un’altra, operazione fattibile dal Governo con un decreto. Lo spegnimento conseguente spegnimento di AFO2 comporta conseguentemente anche quello degli altiforni AFO1 e AFO4 in quanto “ragionevolmente andrebbero estese le stesse prescrizioni», fino al parziale sequestro del molo 4 per lo scarico di materiali grezzi disposto dalla Procura di Taranto a seguito di un incidente causato da avverse condizioni meteo, per il quale non sono state ancora accertate responsabilità penali. È facile capire, quindi, le ragioni per cui il premier Giuseppe Conte nella sua “missione” personale a Taranto abbia voluto parlare direttamente e riservatamente con il Procuratore Capo di Taranto Carlo Maria Capristo. A questo punto solo un incontro tra il premier Conte e la proprietà Mittal potrebbe dirimere il duro braccio di ferro, che al momento sembra aver preso la vita esclusiva della strada giudiziaria. Il Ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli a margine dell’inaugurazione dell’elettrodotto Terna tra Italia e Montenegro ha reso noto che “l’azienda ha vietato le ispezioni ai commissari, credo sia un fatto gravissimo che dovrà avere una adeguata risposta”. Sono ore decisive per l’ex Ilva di Taranto. Il Ministero dello Sviluppo Economico ha convocato per il pomeriggio di oggi alle 15:30 l’ azienda ed i sindacati nel tentativo di aprire un canale di confronto istituzionale con un’azienda. Ci saranno l’ad di ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli, e i leader sindacali di Fim, Fiom e Uilm. Ma con la posizione “grillina” di opposizione ad oltranza per chiari ed evidenti motivi politici-elettorali è pressochè inutile sperare in una mediazione “politica” in sede ministeriale. Oggetto ufficiale dell’incontro in realtà è la procedura ex articolo 47 di retrocessione dei rami d’azienda ai commissari. In questo periodo di grande confusione politica, occupazionale ed industriale, sono emerse dietro le quinte nelle scorse settimane non poche variabili sospette. Dopo la firma del contratto, che prevedeva delle prescrizioni ambientali ed un crono-progamma ben preciso, il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa (M5S) un “fedelissimo” di Di Maio, ancor prima dell’ Arma (Costa è un generale dei carabinieri Forestali) ha infatti deciso recentemente di modificare le prescrizioni anti-inquinamento per l’acciaieria ArcelorMittal Italia, firmando un nuovo decreto per riesaminare l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). Il ministro Costa  si è limitato a rendere noto la scorsa estate che “si procederà eventualmente fissando più adeguate condizioni di esercizio“. Un comportamento fuori dalle norme contrattuali che non è piaciuto molto ad ArcelorMittal. “Abbiamo preso un impegno — aveva dichiarato l’ Ad Matthieu Jehl prima di essere sostituito dalla Morselli — e fatto un contratto con Ilva con un certo quadro di leggi. Dobbiamo andare avanti con la certezza che questo quadro c’è“. Un quadro, però, modificato anche ArcelorMittal, il gruppo guidato dalla famiglia indiana Mittal, che, dopo poco meno di dieci mesi dall’accordo ha deciso per lo stabilimento di Taranto di dar via alla cassa integrazione. A causa della crisi di mercato. Ed adesso la famiglia Mittal aveva chiesto al Governo nell’incontro avuto dalla a Palazzo Chigi con il premier Giuseppe Conte di tagliare addirittura un totale di 5.000 dipendenti attualmente a libro paga (invece dei 1.400 inizialmente previsti ed autorizzati) il personale alle proprie dipendenze, dimezzando quello previsto in sede di gara e di stipula contrattuale. Una vicenda che soltanto una seria auspicata inchiesta della magistratura milanese e tarantina potrà chiarire fino in fondo. E non un caso che proprio la Procura Milano sia immediatamente partita.

Il ruolo imbarazzante di Lucia Morselli ed il M5S. Ma abbiamo scoperto qualcosa di molto imbarazzante sul ruolo di Lucia Morselli, da qualche settimana diventata presidente-amministratore delegato di Arcelor Mittal Italia, con il chiaro intento di abbandonare l’investimento della multinazionale franco-indiana in Italia ed in particolare a Taranto. Era il 24 agosto 2018, come scriveva il collega Francesco Pacifico sul quotidiano online Lettera 43 che raccontava che Lucia Morselli “con chiunque parlasse – e sono pochi, selezionati e potenti amici – ripete da giorni: «Ci riprendiamo l’Ilva“. L’anno scorso la cordata AcciaItalia guidata dagli indiani di Jindal, con la presenza e partecipazione italiana della Cassa depositi e prestiti, del Gruppo Arvedi di Cremona e la Delphin Holding S.à.r.l., società finanziaria con sede a Lussemburgo, amministrata da Romolo Bardin, della quale Leonardo Del Vecchio possiede a suo nome il 25% , ed alla sua morte passerà alla moglie Nicoletta Zampillo; mentre il restante 75% è diviso equamente tra i suoi sei figli (12,5% a testa), “cordata” della della quale la Morselli era la “pivot” e perse contro Arcerlor Mittal nell’asta per conquistare il gruppo italiano. “La manager sessantaduenne è convinta – scriveva Lettera 43 – sia che la partita si possa ribaltare, sia che la vecchia cordata possa riscendere in campo (almeno in parte: al momento ci sarebbe il sì soltanto di Jvc e Cdp). E questa assicurazione l’avrebbe data anche al ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, del quale la Morselli sarebbe un’importante “consigliere” sul dossier Ilva. Pare che il Movimento Cinque Stelle si sia informato anche con lei se era il caso di chiedere l’intervento prima dell’Anac e poi dell’Avvocatura dello Stato”. Il quotidiano milanese solitamente bene informato aggiungeva che ” Dopo aver deciso di non rendere noto il parere dell’Avvocatura, Di Maio ha fatto sapere nelle ultime ore davanti alle telecamere di Agorà (RAI ) che «la questione dell’annullamento della gara non è finita. Per annullarla non basta che ci sia l’illegittimità, ci vuole anche un altro semaforo che si deve accendere, quello dell’interesse pubblico, e lo stiamo ancora verificando». Soprattutto non ha escluso che possa esserci un altro compratore. E qui entra in scena Lucia Morselli“. “La manager che Letizia Moratti volle alla guida di Stream in questi giorni starebbe tirando le fila per rimettere in piedi AcciaItalia. – concludeva Lettera43 – Gli analisti del settore sono molto scettici su questa ipotesi, ma gli indiani di Jindal – conclusa l’acquisizione dell’ex Lucchini a Piombino – potrebbero tornare nella partita anche soltanto per dare un colpo allo storico concorrente Mittal. Inutile dire che la nuova Cdp dell’era sovranista non si farebbe grandi scrupoli a prendere una quota dell’acciaieria. Non ha velleità di tornare in partita, invece, Giovanni Arvedi, anche Leonardo Del Vecchio – che in passato ha polemizzato non poco con l’ex ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda – non sarebbe interessato”. Francesco Pacifico, su Lettera 43, infatti, accreditava l’ipotesi, sia pure usando il condizionale, che la Morselli sia un consigliere del ministro Di Maio nel dossier ILVA.

“Il ministro Luigi Di Maio smentisca, nella vicenda ILVA di Taranto, qualsiasi coinvolgimento di cordate fantasma.” Tutto ciò era ben noto anche ai sindacati, infatti a seguito di quell’articolo arrivò la richiesta di chiarimenti dal segretario nazionale della FIM-CISL Marco Bentivogli attraverso una nota in cui qualche giorno spiega:”apprendiamo da LETTERA 43 dell’attivismo dell’ex amministratore delegato di Acciai Speciali Terni, Lucia Morselli, un anno fa nominata in quota Cassa Depositi e Prestiti amministratore delegato di Acciai Italia.La cordata con Jindal, Arvedi e Delphin che ha perso, nel giugno 2017, la gara di acquisizione dell’Ilva di Taranto. Non sappiamo quale sia la casacca di queste ultime ore della Morselli, CDP? Fondo Elliott? Consulente del governo? Ci auguriamo che il ministro Di Maio smentisca questa collaborazione.” “Ricordiamo che di Jindal allora in una offerta di 1,2 miliardi metteva solo 3/400 milioni a differenza di 1,8 miliardi di Arcelor-Mittal” sottolineava Bentivogli . “Il resto era a carico di Arvedi, Delphin e Cassa Depositi e Prestiti. Non sappiamo che intenzioni abbia Jindal – aggiunge il segretario della FIM-CISL – ma, gareggiare perché un Fondo finanziario come Elliott prenda gli asset siderurgici italiani è inaccettabile. Trapela in queste ore, infatti, l’interesse del Fondo finanziario per il sito di Terni di Thyssenkrupp. E la Cassa Depositi e Prestiti – si domandava  Bentivogli – dovrebbe favorire l’ingresso di un Fondo finanziario americano in una cordata dalla quale si sono defilati gli unici italiani, Luxottica e Arvedi?” Allora concludeva Bentivogli, “ricordiamo i 36 giorni di sciopero che furono necessari per riportare l’amministratore delegato di Acciai Speciali Terni alla ragione e soprattutto chiediamo a Di Maio di smentire immediatamente un conflitto di interessi che sarebbe senza precedenti.”

La strizzata d’occhio della Morselli al programma del M5S sull’ ambiente. Detto questo, la Morselli considerato il suo curriculum e le poltrone sulle quali siede ha notoriamente grandi collegamenti nel mondo finanziario. Ma non è soltanto questo il suo ruolo in questa vicenda. Ha ottimi rapporti nel mondo bancario e fino all’anno scorso era guardata con simpatia anche dai sindacati. Inoltre è pronta a venire incontro a quella che è la principale richiesta di Di Maio sul fronte ambientale. Come ha ricordato in una recente intervista a Repubblica, “relativamente all’inquinamento, le tecnologie per non inquinare ci sono. Non a caso la cordata di Acciaitalia aveva stanziato un miliardo di investimenti in due nuovi forni elettrici a preridotto, introducendo un serio processo di decarbonizzazione”. Come sta scritto guarda caso…nel contratto di governo. Abbiamo quindi contattato e raggiunto telefonicamente il collega Paolo Madron, direttore responsabile del quotidiano Lettera43.it , il qual ci ha confermato di “non aver mai ricevuto alcuna richiesta di rettifica, lettera di replica, querela nè da Lucia Morselli che da Luigi Di Maio e dal Movimento Cinque Stelle“. Sarà stata una dimenticanza.. un disinteresse… o forse l’applicazione di un vecchio teorema del “chi tace acconsente…“? A questo punto riteniamo che la Procura di Milano e quella di Taranto certamente avranno molto lavoro per verificare ed indagare facendo luce su questa torbida vicenda, diventata ormai un intrigo politico-industriale-occupazione che rischia di far diventare la città di Taranto e la sua provincia una vera e propria “polveriera” sociale pronta ad esplodere da un momento all’altro.

Virginia Piccolillo per il “Corriere della sera” il 12 novembre 2019. La rivendicazione sullo scudo giudiziario revocato e sulle scadenze troppo ravvicinate per rendere sicuro l' Altoforno 2 - delle quali ArcelorMittal sostiene di non aver saputo nulla - è vera o è un alibi dell' azienda per chiedere la rescissione del contratto? «La fase è delicatissima, aspettiamo gli sviluppi della vicenda», risponde il procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo.

Certo è che - vista dalla Procura - la situazione delle prescrizioni sull' adeguamento ambientale assume contorni diversi da quelli insostenibili lamentati dall' azienda. Ma la bonifica c' è o non c' è?

«Qualche operazione è stata fatta», risponde Capristo. «Un dato positivo è stato sicuramente la copertura delle due collinette a ridosso del rione Tamburi, da dove quando si alzava il vento arrivavano le polveri verso le case e addirittura le scuole», dice. «L'intervento era da noi fortemente auspicato, anche perché c'erano state proteste da parte della popolazione. E devo dire che è stato compiuto e sperimentato in modo serio e anche in tempi rapidi. Tanto che a settembre i bambini e i ragazzi sono potuti tornare a scuola».

Un intervento non compiuto però da ArcelorMittal - che si era tirata indietro - ma dall' amministrazione straordinaria, che se ne era fatta carico utilizzando i fondi confiscati dalla Procura di Milano ai Riva, vecchi propietari dell' Ilva. Un tesoretto che potrà essere usato per i lavori all' Altoforno 2 senza pesare sulle casse dell' azienda.Sul punto chiave dell' immunità giudiziaria reclamata dall' azienda, la Procura ha chiarito cosa pensa in un parere inviato al Senato. Contrario allo scudo, in linea con quanto stabilito dalla Consulta, Capristo ha fugato ogni alibi a chi dice di poter essere perseguito per reati passati spiegando che «le condotte poste in essere in attuazione del Piano ambientale di cui al periodo precedente non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive». Insomma, stando alla Procura Arcelor Mittal non rischierebbe di essere perseguita, come teme, per condotte dei precedenti amministratori. Quanto all' Altoforno 2, domani sarà presentata la valutazione che certifica un «rischio zero» di nuovi incidenti e assicura che i lavori richiederanno una proroga «minima, forse di un mese», che sarà chiesta già nei prossimi giorni. La Procura in casi simili ha dato parere favorevole. Deciderà il giudice. Ma anche il punto delle scadenze sconosciute sembra così perdere argomenti.

Da ansa.it l'11 novembre 2019. Le condizioni giuridiche del recesso del contratto di affitto dell'ex Ilva, preliminare alla vendita, non ci sono e quindi Arcelor Mittal deve andare avanti. E' questo il cuore del ricorso con urgenza e cautelare, ex articolo 700, che verrà presentato in settimana in Tribunale a Milano dai legali dei commissari straordinari. Intano è slittato a domani il deposito, sempre nel palazzo di giustizia milanese, dell'atto con cui la multinazionale chiede il recesso del contratto. Lo "scudo penale" non è una condizione che consente il recesso del contratto da parte di Arcelor Mittal. E' questo uno dei punti del ricorso. Altro punto contestato nel ricorso dei commissari riguarda Afo2, l'altoforno che, al contrario di quanto sostiene la multinazionale nel suo atto di recesso, non è spento. Intanto Maurizio Landini, segretario della Cgil, precisa :"Noi troveremmo utile che dentro a questa società ci sia anche una presenza pubblica: era una delle cose che si stava discutendo da tempo. Il governo decida con quale strumento esserci: se Cdp o un altro fondo, così come succede nel resto d'Europa e del mondo". Ma il ministro dell'economia Roberto Gualtieri  risponde sull'ipotesi di 'nazionalizzazione' dell'ex Ilva che tutti i costi di un risanamento industriale addossati allo Stato "è una pericolosa illusione". Un intervento della Cdp "non va escluso dalla cassetta degli strumenti di cui disponiamo" mentre "l'idea che nelle crisi industriali c'è una soluzione magica con lo Stato che compra è una pericolosa illusione, eviterei una discussione bianco e nero", aggiunge Gualtieri all'incontro Metamorfosi di Huffpost. E dalle pagine de Il Fatto quotidiano il premier Conte precisa: "Soltanto se Mittal venisse a dirci che rispetterà gli impegni previsti dal contratto - cioè produzione nei termini previsti, piena occupazione e acquisto dell' ex Ilva nel 2021 - potremmo valutare una nuova forma di scudo". Conte nell'intervista parla di "un nuovo incontro a breve con i titolari" e annuncia una "battaglia legale. E sull'ex Ilva interviene anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che, a Uno Mattina, ricorda come, nonostante fosse stato proposto lo scudo, i vertici dell'azienda avevano confermato comunque i 5 mila esuberi. Il leader della Cgil Landini definisce "utile" una presenza dello Stato nell'acciaieria.

Marco Patucchi per “la Repubblica” il 14 novembre 2019. «Siamo spiacenti comunicare che la scrivente azienda è impossibilitata ad erogare gli emolumenti di ottobre». Per capire cosa significherebbe un'Italia senza l' Ilva, si può partire da qui, dalla lettera che ieri mattina la Giant, azienda dell' indotto siderurgico di Taranto, ha spedito ai rappresentanti sindacali. Niente stipendio per i lavoratori perché l'impresa, che fa manutenzioni meccaniche nello stabilimento, non si è vista saldare le fatture da ArcelorMittal. L'inizio della fine per decine di aziende che esistono e lavorano esclusivamente per l' Ilva fornendo prodotti e servizi. Un intero microcosmo industriale (circa 5000 operai) che scomparirebbe insieme alla più grande acciaieria d' Europa e ai suoi 10.700 addetti diretti. E senza alcuna speranza di riconversione. Superfluo spiegare il dramma sociale ed esistenziale per questi 15.000 lavoratori, per le loro famiglie, per interi territori. Ma il sisma della fine di Ilva, scaricherebbe scosse letali anche "a valle", con danni alle imprese manifatturiere italiane che comprano l' acciaio colato a Taranto. Un esempio didascalico: oggi un' automobile tedesca d' alta gamma monta per il 40-50% componentistica prodotta da aziende del nostro Paese. Una leadership conquistata anche in virtù della convenienza (economica e logistica) di rifornirsi all' Ilva: grazie a quel prezzo competitivo, le imprese italiane vendono componenti ai produttori di auto applicando a loro volta tariffari insostenibili per la concorrenza. Ecco, se e quando l' Ilva non ci sarà più, scomparirà il vantaggio competitivo e la componentistica straniera sottrarrà quote di mercato, con effetti pesanti su un settore centrale nel sistema produttivo nazionale. E non solo su quello. In base ai dati più recenti (precedenti comunque alla gestione di ArcelorMittal), ad acquistare l' acciaio Ilva sono per il 18% le aziende automotive (Fca su tutte), per il 17% quelle attive nelle infrastrutture (edilizia, grandi opere, oil&gas), il 15% finisce nel settore dei fusti, il 10% è rappresentato dalle lamiere (ad esempio il comparto dei cantieri navali), per il 7% lo utilizzano i produttori di elettrodomestici e per il 3% l' agroalimentare con la banda stagnata impiegata per i barattoli. Resta una quota del 30% che finisce a distributori e trasformatori (tra questi, il gruppo Marcegaglia produttore di tubi) che a loro volta forniscono i settori auto, infrastrutture e meccanica. Dunque un'Italia senza Ilva, oltre ad abdicare dal ruolo di secondo produttore siderurgico europeo (in particolare, nel ciclo integrale degli altiforni insostituibile per le forniture più redditizie), vedrebbe depauperato anche l'intero sistema industriale, con evidenti effetti economici e occupazionali (i 3,5 miliardi di impatto annuo sul Pil stimati dallo Svimez). «Nell' immediato non ci sarebbero particolari traumi - spiega Carlo Mapelli, docente al Politecnico di Milano - anche perché i clienti di Ilva già da qualche anno, a fronte delle evidenti difficoltà dell' azienda, si sono riposizionati sul mercato dei fornitori. Consideriamo, in questo se nso, che già adesso l' Italia è importatore netto di 3 tonnellate all' anno di acciaio piano. Ma in prospettiva perdere un polo logisticamente strategico come Taranto sarebbe letale per la competitività di tutta l' industria italiana». Un concetto che Davide Lorenzini, esperto di Siderweb, spiega con due estremi: «Se un' azienda italiana compra acciaio in Cina, dall' ordine alla consegna possono trascorrere anche due mesi, con i costi di trasporto che annullano il vantaggio competitivo del prezzo. Da Taranto o da Genova invece passa solo qualche giorno e, così, l' impianto pugliese diventa per le nostre imprese una sorta di magazzino pronto all' uso». E quel deposito potrebbe non esistere più in primavera quando, dicono gli analisti, il mercato siderurgico rialzerà la testa.  

Domenico Palmiotti per ilsole24ore.com il 14 Novembre 2019. Il siderurgico di Taranto ArcelorMittal verso la fermata. L’ad Lucia Morselli ha incontrato i sindacati e comunicato un piano di chiusure degli impianti. Si parte con l'altoforno 2 il 13 dicembre, l'altoforno 4 il 30 dicembre e l'altoforno 1 il 15 gennaio. Il Treno nastri 1 chiuso tra il 26 e il 28 novembre per mancanza di ordini di lavoro. Nella mattinata di giovedì 14 novembre l’azienda ha comunicato ai sindacati che dal 26 novembre sarà fermato anche il Treno nastri 2. Programmata anche la chiusura di cokerie e centrali elettriche. Già fermi altri impianti come il Treno lamiere, il Treno nastri 1 è una delle due linee di agglomerazione. “Se ancora non fosse chiaro, la situazione sta precipitando in un quadro drammatico che non consente ulteriori tatticismi della politica” ha affermato Marco Bentivogli, segretario generale Fim Cisl. “Questo piano - dice Bentivogli - modifica sostanzialmente le previsioni Aia”. Per Rocco Palombella, segretario generale Uilm, “che ArcelorMittal resti a Taranto sino a maggio ma con gli impianti fermi, nessuna produzione e col personale riconsegnato alle aziende da cui è arrivato, che me ne faccio, anzi che ce ne facciamo? Anzi, se deve far “morire” la fabbrica, a questo punto è meglio che vada via prima, altroché. Perché Mittal potrà anche non andarsene prima di maggio, come ritiene Emiliano, ma può fermare e spegnere impianti, stoppare linee produttive. Ed chiaro che poi, per i commissari dell'amministrazione straordinaria - afferma Palombella -, rimettere mano agli impianti dopo una lunga fermata e far ripartire la fabbrica sarà un compito davvero improbo. Ecco, il tema che oggi abbiamo è che si fa per non andare al progressivo spegnimento del siderurgico. Perché questo nella sostanza sta accadendo: è ferma da venerdì una delle linee di agglomerazione, altri impianti sono fermi, tutta la fabbrica viaggia ad un passo di marcia ridottissimo e ora arriva l'ordine del blocco totale” conclude Palombella. C’è confusione sotto il cielo di ArcelorMittal. Fonti vicine all’azienda affermano che l’ad Lucia Morselli non ha dichiarato al governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano, nell’incontro, in Regione Puglia, a Bari, che la società rimane sino a maggio nella gestione degli impianti. Perché sarà a maggio 2020 che il Tribunale di Milano si pronuncerà sulla fondatezza dell’atto di citazione depositato da ArcelorMittal e col quale la società chiede di accertare e dichiarare le ragioni a base del recesso dal contratto. E anche il sindacato, col segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, conferma che l’azienda gli ha detto di non aver comunicato al governatore pugliese che rimane sino a maggio. «Anzi, ho appreso che dal 26 novembre fermano pure il Treno nastri 2» aggiunge Palombella. È stato il presidente di Confindustria Taranto, Antonio Marinaro, ad aver ricevuto la telefonata di Emiliano dopo l’incontro con Morselli. Il governatore, secondo la versione di Marinaro, gli ha comunicato due cose: primo, che ArcelorMittal pagherà le fatture scadute dell’indotto e che il ritardo è dovuto solo a verifiche contabili e amministrative a seguito del cambio dei dirigenti e delle figure tecniche preposte al controllo (la notizia dei pagamenti non è stata smentita); secondo, che ArcelorMittal non va via scaduti i 30 giorni, cioè ai primi di dicembre, dall’avvio della procedura di recesso, ma resta sino a maggio e gestisce il gruppo.

Emiliano: la mia è deduzione logica. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, ha ribadito giovedì che la sua era una deduzione logica, visto che il Tribunale di Milano si pronuncerà appunto a maggio sull’atto di ArcelorMittal. Un cambio di rotta, questo, spiegato così nelle scorse ore: ad ArcelorMittal è stato fatto capire che andando allo scontro, ci sarebbero potuti essere rischi serii perchè il fronte avverso era molto determinato.

Battaglia civilistica e penale. Secondo fonti vicine al dossier, consultate dal “Sole 24 Ore”, il ricorso cautelare urgente, in base all’articolo 700 del Codice di procedura civile, che a Milano stanno preparando commissari di Ilva e legali, conterrebbe anche risvolti penali che chiamano in causa ArcelorMittal. Dunque, si potrebbe profilare non solo una battaglia civilistica ma anche penale. E in relazione alle notizie diffusesi lungo l’asse Bari-Taranto e rimbalzate altrove, sino a qualche ora fa c’era l’ipotesi che i legali di Ilva temporeggiassero circa il deposito al Tribunale di Milano del ricorso cautelare. Un’attesa che parrebbe tattica in attesa di capire come evolve la partita e che mosse fa la multinazionale. Il ricorso cautelare è in fase di stesura e in un primo momento si è parlato di deposito il 15 novembre.

L’incontro con i sindacati. Domani pomeriggio i sindacati andranno al ministero dello Sviluppo economico per l’incontro sulla procedura di riconsegna del personale alle aziende concedenti che ArcelorMittal ha notificato qualche giorno fa, annunciano i vertici di Fim Cisl e Uilm. «In quella sede verificheremo quali sono i comportamenti dell’azienda e cosa ci dirà», aggiungono. La procedura di riconsegna del personale, i 10.700 assunti da ArcelorMittal, di cui 8.200 a Taranto, era stata annunciata dall’ad Morselli ai sindacati a Taranto martedì sera della scorsa settimana, in un incontro in stabilimento, quindi notificata il giorno dopo, mercoledì, agli stessi sindacati mentre i Mittal, a capo dell’omonima multinazionale, si accingevano a varcare il portone di Palazzo Chigi per incontrare il premier Conte e diversi ministri, incontro conclusosi con un nulla di fatto, anzi con la dichiarazione di 5mila esuberi da parte dell’azienda. A seguito della notifica della lettera in base all'articolo 47, la Fim Cisl aveva fatto un primo sciopero da sola di 24 ore a Taranto, a partire dalle 15 di mercoledì scorso. In seguito Fiom Cgil e Uilm ne avevano annunciato un altro, sempre di 24 ore, per venerdì scorso a Taranto, quindi si era arrivati alla decisione unitaria di farlo tutte e tre insieme le sigle sindacali sempre per venerdì scorso, di 24 ore, indotto compreso, sciopero poi fatto, anche se l'adesione nel siderurgico non è stata significativa.

Da Patuanelli le imprese dell’indotto. Il 14 novembre, le aziende dell’indotto ArcelorMittal Italia, aderenti a Confindustria Taranto, terranno, assieme ad una delegazione formata da rappresentanti della Provincia, del Comune di Taranto e dai sindaci della provincia di Taranto, un presidio davanti al ministero dello Sviluppo economico. Lo annuncia Confindustria Taranto. «Una delegazione ristretta, guidata dal presidente di Confindustria Taranto, Antonio Marinaro, incontrerà alle 14 il ministro Stefano Patuanelli, al quale sarà consegnato un documento sulla vicenda ArcelorMittal - annuncia Confindustria Taranto - e lo stesso documento sarà portato all'attenzione, nella stessa giornata, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte». A Patuanelli la delegazione illustrerà «la situazione di emergenza in cui le aziende si ritrovano dopo che ArcelorMittal Italia ha lasciato lo stabilimento, senza aver corrisposto alle stesse aziende fornitrici l'ammontare dei crediti maturati, pari a circa 50 milioni di euro. Una situazione gravissima - si afferma - che sta già dando luogo al ricorso alla cassa integrazione per i dipendenti delle stesse imprese. In alcuni casi si parla di licenziamenti. La platea dei dipendenti dell'indotto ex Ilva di Taranto ammonta a circa 6 mila unità. Queste aziende - dice Confindustria Taranto - hanno già sacrificato 150 milioni di euro nel passaggio fra Ilva e Ilva in As, fra il 2014 e il 2015 (crediti confluiti nello stato passivo)».

Indotto non in grado di assicurare gli stipendi. Confindustria Taranto sostiene che in assenza di soluzioni, le imprese non saranno in grado di assicurare gli stipendi ai dipendenti, motivo per cui «oggi pretendono delle risposte non più procrastinabili». «C’è il pericolo stipendi per i nostri dipendenti e se ArcelorMittal non farà presto i bonifici, gli stipendi non ci sono. Gli imprenditori restano comunque preoccupati e oggi andiamo dal ministro Patuanelli», commenta il presidente Marinaro.

Rita Querzè per il “Corriere della sera” il 17 novembre 2019. Blocco delle portinerie. Aziende chiuse. Dipendenti in ferie forzate. Da domani a «scioperare» saranno gli imprenditori dell' indotto Ilva. Intenzionati a tenere saracinesche abbassate e cancelli blindati. I pagamenti da ArcelorMittal non sono arrivati. Si parla di 50 milioni di crediti scaduti divisi su 150 imprese che danno lavoro a circa 6.000 dipendenti. E allora, per non affossare definitivamente i bilanci, meglio fermare tutto. Lucia Morselli, l' amministratore delegato di Arcelor Mittal Italia, ha promesso che i soldi arriveranno. Lo ha assicurato ai sindacati e al presidente della Regione, Michele Emiliano. Ma non a Confindustria Taranto che in più occasioni ha già chiesto un incontro. Da notare: AM è associata alla stessa Confindustria Taranto, ma da mesi la multinazionale ha interrotto i contatti. «Gradiremmo sapere come e quando ArcelorMittal intende onorare i crediti verso i fornitori. Ci sono delle promesse, ma al momento mancano i fatti - dice il presidente di Confindustria Taranto, Marinaro -. Da oltre due mesi molti nostri associati non percepiscono il dovuto. Chiediamo un incontro urgente». L'altro appello Marinaro lo rivolge ai commissari: «Prendano consapevolezza che dal 4 dicembre toccherà a loro condurre lo stabilimento. AM non li fa entrare in azienda? Se il mio inquilino non mi fa entrare in casa mia chiamo i carabinieri. I commissari devono entrare e avviare subito una due diligence. Banalmente, dovrebbero subentrare nelle utenze altrimenti dal 4 la fabbrica si ferma». Le aziende danneggiate dell' indotto operano nella logistica, nelle manutenzioni, nella meccanica. Ma anche nel commercio e nei servizi. «I negozi stanno soffrendo tantissimo, soprattutto chi vende beni non di stretta necessità come gli alimentari. Si profila un Natale tra i più tristi. Negli ultimi nove mesi hanno chiuso circa 250 negozi e ciascuno dà lavoro in media a tre persone», spiega Angelo Colella, direttore di Confcommercio Taranto. «E magari il danno si fermasse qui - allarga le braccia Colella -. Il problema è che questa crisi genera un danno "reputazionale" per tutta la città. Sul piano del turismo e della vendita dei nostri prodotti agroalimentari, per esempio. Questa emergenza continuerà a produrre frutti avvelenati per mesi e mesi».

"Fuga Arcelor Mittal". Indotto di Taranto in ginocchio: seimila posti di lavoro a rischio occupazione. Il Corriere del Giorno il 17 Novembre 2019. Sono 150 le imprese fornitrici messe in ginocchio dalla crisi. Avviate le prime procedure per la cassa integrazione a 300 dipendenti delle società dell’indotto-appalto che vantano crediti non pagati per 200 milioni di euro. Le riunioni negli uffici della sede di Confindustria in via Dario Lupo a Taranto, sul problema “crediti da riscuotere”,  sono quotidiane e spesso ininterrotte. La protesta di giorno in giorno potrebbe assumere anche risvolti problematici per la sicurezza e l’ordine pubblico. Il centinaio di imprenditori dell’indotto-appalto siderurgico ArcelorMittal  partiti con due pullman da Taranto  per incontrare giovedì pomeriggio il ministro Stefano Patuanelli, esponendo i loro cartelli di protesta davanti al Mise, hanno voluto evidenziare con i numeri il dramma che stanno vivendo 6.000 dipendenti, 150 imprese del territorio che tra fornitori e subfornitori,  i quali vantano  crediti per 200 milioni di euro.  Crediti che però vanno differenziati fra l’ ILVA (dalla gestione commissariale all’amministrazione straordinaria ), equivalenti  a 150 milioni di euro ed i 50 milioni di competenza alla gestione ArcelorMittal a cui sono stati fatturate prestazioni, forniture e servizi. Una protesta che ha visto la presenza di numerosi sindaci dei comuni interessati della provincia di Taranto, fra i quali spiccavano le imbarazzanti assenza al tavolo ministeriale del Sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e del presidente della Provincia, Giovanni Gugliotti.

Cosa avranno avuto di più importante da fare, di non occuparsi della questione ILVA? Confindustria Taranto analizzando i crediti vantati per 50 milioni,  dalle imprese associate con i settori edilizia, metalmeccanica e servizi  maggiormente colpiti. rende noto che il credito maggiore è di un’azienda per 6 milioni, seguono due imprese che avanzano, rispettivamente, 4,5 e 4,3 milioni di euro, mentre un terzo delle imprese è nella fascia di crediti vantati tra gli 800mila euro ed i 2 milioni di euro.  Conseguenza di questa situazione le richiesta di avviamento delle procedura della cassa integrazione avanzate già da  5 aziende per un totale di quasi 300 dipendenti, e nella sospensione o ritardo degli stipendi di ottobre! Confindustria Taranto raccogliendo le segnalazioni degli associati, ha scritto ai sindacati informandoli che esiste “il rischio che la crisi di liquidità conseguente ai mancati pagamenti di ArcelorMittal possa determinare l’impossibilità e/o il ritardo nel pagamento delle retribuzioni già a decorrere da novembre“. Al momento tra cassa integrazione, ordinaria e straordinaria, risultano attuale allo stato le richieste della società Enetec ( Giove) per 50 dipendenti, che è stata la prima società a presentarla, la FC per una trentina di dipendenti, la Iris (Franzoso) di Torricella per 150 dipendenti, la Somin per 25,  Allestimenti elettrici Martucci per 38. Un elenco di società in crisi di liquidità che  potrebbe anche crescere. E pensare che appena due mesi fa ArcelorMittal aveva reso noto di aver rinnovato contratti per 200 milioni verso società fornitrici dell’ indotto-appalto. La assoluta necessità  delle imprese questo momento è però quella di incassare i crediti maturati per non affondare ed essere costretti a portare i libri sociali in Tribunale e chiudere.

Il ministro Patuanelli, l’ AD ArcelorMittal Morselli ed il premier Conte: controparti o alleati? Insieme alle aziende che lavorano nell’ex Ilva, vi sono anche i subfornitori primari. Società che forniscono ad Arcelor Mittal tutto quanto serve per l’attività industriale nello stabilimento. Il quadro è desolante se non preoccupante: “L’amministratore delegato di ArcelorMittal, Lucia Morselli, ha detto mercoledì al presidente Emiliano e giovedì ai sindacati che le fatture sarebbero state pagate. A oggi, non abbiamo visto nulla, nemmeno un cenno, una comunicazione, a parte il fatto che Morselli ha dato quest’annuncio alla Regione Puglia e alle sigle metalmeccaniche ma non a noi, direttamente interessati. Abbiamo mandato una seconda richiesta di incontro all’ad Morselli ed aspettiamo che ci risponda“. Le riunioni negli uffici della sede di Confindustria in via Dario Lupo a Taranto, sul problema “crediti da riscuotere”,  sono quotidiane e spesso ininterrotte. La protesta di giorno in giorno potrebbe assumere anche risvolti problematici per la sicurezza e l’ordine pubblico. Ieri si svolta una riunione tra le imprese e gli autotrasportatori che oggi si riuniranno. Allo studio  la decisione di rifare un blocco con i Tir ed i mezzi pesanti davanti alle portinerie del siderurgico come avvenne nel 2015. Vladimiro Pulpo, a capo degli autotrasportatori racconta: “Lo ricordo ancora, durò 42 giorni , e parla uno che di blocchi all’Ilva ne ha fatti sinora 8” . Gli automezzi mezzi nel 2015 bloccarono di fatto  l’accesso alla portineria C dello stabilimento di Taranto. “In  fabbrica  ci sono anche altri due varchi per il transito dei mezzi – continua Pulpo – ed all’occorrenza altre portinerie possono essere usate smontando i guardrail. Nel 2015 organizzammo i presidi h24 perché non puoi lasciare solo i camion e andartene. Non facemmo entrare ed uscire nulla“. E tutto ciò potrebbe avvenire nuovamente nei prossimi giorni . Sullo stabilimento siderurgico di Taranto è intervenuto il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia che ha rivolto un appello al Governo .”Bisogna rimettere immediatamente lo scudo penale, perché senza quello non c’è commissario né privato che venga a firmare alcunché“.  Secondo Boccia, senza scudo nessuno investirebbe nel Paese con il rischio “di essere arrestato“. “Il governo rimetta lo scudo, convochi l’azienda e apra un confronto serrato a tutto campo nella salvaguardia dell’azienda e dell’occupazione”, dice il presidente della Confederazione generale dell’industria italiana. E mette in guardia: “Sull’Ilva occorre una grande operazione di realismo e di buonsenso. I tempi sono stretti”.

Ex Ilva, il Tribunale Milano ad ArcelorMittal: «Non fermate gli impianti». Pubblicato lunedì, 18 novembre 2019 da Corriere.it. «Non porre in essere ulteriori iniziative e condotte in ipotesi pregiudizievoli per la piena operatività e funzionalità degli impianti». È l’invito fatto dal presidente del Tribunale di Milano , Roberto Bichi, ad ArcelorMittal fino allo “sviluppo” del procedimento con il quale i commissari straordinari hanno chiesto al tribunale di intervenire d’urgenza per evitare il blocco della produzione, lo spegnimento degli altiforni e la messa in mobilitazione dei lavoratori dell’Ilva di Taranto. Le parti sono state convocate dal preside della sezione “A” d’impresa del Tribunale, Claudio Marangoni, per il prossimo 27 novembre. I vertici del Tribunale milanese, «tenuto conto - in particolare come si legge nel comunicato - della non adozione di provvedimenti `inaudita altera parte´», ossia del fatto che le decisioni arriveranno solo dopo la discussione in udienza e non `de plano´, hanno invitato «le parti resistenti», ossia ArcelorMittal, «in un quadro di leale collaborazione con l’autorità giudiziaria e per il tempo ritenuto necessario allo sviluppo del contraddittorio tra le parti, a non porre in essere ulteriori iniziative e condotte in ipotesi pregiudizievoli per la piena operatività e funzionalità degli impianti, eventualmente differendo lo sviluppo delle operazioni già autonomamente prefigurate per il limitato tempo necessario allo sviluppo del presente procedimento». Nel «procedimento cautelare», promosso da Ilva spa con i commissari straordinari nei confronti del gruppo franco indiano, il presidente della sezione specializzata Marangoni, oltre alla fissazione dell’udienza, ha disposto anche «termini intermedi per consentire il deposito di memorie e il contraddittorio delle difese».

Ex Ilva, la Cigl: «L’azienda sospende  lo spegnimento degli impianti». Pubblicato lunedì, 18 novembre 2019 da Corriere.it. «AM InvestCo seguirà l’invito del Tribunale a interrompere l’implementazione dell’ordinata e graduale sospensione delle operazioni (di fermata degli impianti, ndr) in attesa della decisione del Tribunale. Tale processo è in linea con le migliori pratiche internazionali e non recherebbe alcun danno agli impianti e non comprometterebbe la loro futura operatività». Lo ha dichiarato l’azienda in una nota, confermando quando reso noto poco prima dalla Cgil. La decisione segue l’invito rivolto oggi al gruppo franco-indiano da Claudio Marangoni, presidente della sezione specializzata in materia d’impresa del tribunale di Milano, che ha fissato per il prossimo 27 novembre l’udienza sul ricorso in questione «a non porre in essere ulteriori iniziative e condotte in ipotesi pregiudizievoli per la piena operatività e funzionalità degli impianti» dello stabilimento siderurgico. L’azienda, avevano spiegato i sindacati anticipando la notizia della decisione dello spegnimento, ha convocato i coordinatori Rsu di Taranto in contemporanea con l’inizio dell’incontro dei leader di Cgil, Cisl e Uil, con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e ha comunicato la sospensione della procedura di spegnimento degli altiforni in attesa della sentenza del giudice di Milano. L’incontro con Mattarella era nato su richiesta dei sindacati: il presidente perciò ha soprattutto ascoltato, ribadendo comunque che l’Ilva è un grande problema nazionale, che va risolto con tutto l’impegno e la determinazione, non solo per le implicazioni importantissime sul piano occupazionale, ma anche per quanto riguarda il sistema industriale italiano. Il capo dello Stato non è entrato in nessun modo su come risolvere la crisi, compito che spetta al governo. Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, al termine dell’incontro al Quirinale ha dichiarato: «Mentre eravamo all’incontro ci è giunta la notizia, data dall’azienda ai delegati, che è stata sospesa la procedura di spegnimento. Questa sicuramente è un primo risultato importante, ma ora non c’è tempo da perdere». Il capo dello Stato, dal canto suo, ha ribadito la preoccupazione per quello che ha definito «un grande problema nazionale», che va risolto «con tutto l’impegno e la determinazione non solo per le imkplicazioni importantissime sul piano occupazionale, ma anche per quanto riguarda il sistema industriale italiano. Mattarella non è entrato in nessun modo sul come risolvere la crisi dato che spetta al governo.

Dopo l'intervento delle procure sull'ex Ilva, ArcelorMittal sospende il piano di chiusura. Il Corriere del Giorno il 18 Novembre 2019. Per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’Ilva è un grande problema nazionale che va risolto con tutto l’impegno e la determinazione non solo per le implicazioni importantissime sul piano occupazionale ma anche per quanto riguarda il sistema industriale italiano. Pressata dall’attività immediata messa in atto dalle Procure di Milano e Taranto, che hanno messo in moto i Carabinieri e la Guardia di Finanza, la società ArcelorMittal Italia ha reso noto di aver sospeso il piano di fermata degli impianti dello stabilimento siderurgico di Taranto. L’annuncio è stato reso noto questa sera dall’azienda, nel corso dell” incontro svoltosi in fabbrica con i sindacati metalmeccanici. Con una una nota ArcelorMittal afferma : “A seguito della recente richiesta dei commissari dell’Ilva al Tribunale di Milano volta all’ottenimento di provvedimenti provvisori relativi all’acciaieria di Taranto, AM InvestCo Italy prende atto e saluta con favore l’odierna decisione del Tribunale di non accogliere la richiesta di emettere un’ordinanza provvisoria senza prima aver sentito tutte le parti. L’udienza in Tribunale è fissata per il 27 novembre”. “AM InvestCo  seguirà l’invito del Tribunale a interrompere l’implementazione dell’ordinata e graduale sospensione delle operazioni in attesa della decisione del Tribunale. Tale processo – conclude la nota di Arcelor Mittal Italia – è in linea con le migliori pratiche internazionali e non recherebbe alcun danno agli impianti e non comprometterebbe la loro futura operatività“. “Non spegnere gli altiforni della ex Ilva fino alla definizione della causa civile”. È stato questo l’invito fatto questa mattina ad ArcelorMittal dal Tribunale di Milano, tramite una nota ufficiale del presidente del Tribunale, Roberto Bichi. Fonti del Palazzo di Giustizia milanese spiegano che poiché la prima udienza è il 27 novembre, non essendoci un provvedimento diretto alle parti , quello di Bichi è stato solo un “invito” importante alle parti,  visto che arriva da chi dovrà esprimersi sul ricorso d’urgenza promosso dalla ex Ilva nei confronti della multinazionale. Arcelor Mittal aveva presentato nei giorni scorsi  ai sindacati, ai ministeri competenti ed alle istituzioni locali un programma di chiusure scadenzate del siderurgico di Taranto che prevedeva che l’altoforno AFO2 sia fermato il 13 dicembre, l’altoforno AFO4 a fine dicembre e l’altoforno AFO1 a metà gennaio. “Mittal ha i prossimi minuti, le prossime ore e i prossimi giorni ma noi non possiamo aspettare troppo, l’azienda deve chiarire quali sono le sue reali intenzioni” ha detto il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, ospite di Sky Start. “il ricatto che non accettiamo non è generico perché riguarda l’occupazione. Noi per settimane – ha aggiunto – abbiamo discusso dello scudo, ma io ero seduto al tavolo quando il presidente Conte ha detto “se il problema è lo scudo lo rimettiamo in cinque minuti” e loro hanno risposto “malgrado lo scudo abbiamo 5mila esuberi’“. “Questi signori hanno sulla coscienza presente e futuro dell’Ilva che è Taranto, Genova, Novi Ligure che rappresenta migliaia di imprese e artigiani. Incoscienti, pazzi incoscienti coloro che al governo rischiano di far scappare le imprese che hanno investito in Italia. Prima di stracciare i contratti uno dovrebbe avere l’idea di che cosa fare per l’Italia”  afferma il leader della Lega Matteo Salvini su Facebook. “Forse pensavano di mettere a Taranto un parco giochi? ” prosegue  Salvini che aggiunge “Il governo sta facendo scappare le imprese italiane e straniere. E’ un governo tasse, sbarchi e manette ma l’Italia a furia di queste cose rischia di andare a fondo e noi cercheremo di impedirlo con ogni mezzo democraticamente permesso. Alla guida c’è gente che non sa guidare una bici e vuole salvare il Paese. Questi vogliono solo salvare la poltrona di un governo che ha perso credibilità”. Questa mattina i pm Mauro Clerici e Stefano Civardi, titolari del fascicolo di indagine della Procura di Milano, coordinato dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, hanno ascoltato alcune persone informate sui fatti. Dopo le audizioni dei primi testimoni, i magistrati potrebbero definire le ipotesi di reato da contestate nel fascicolo di indagine inizialmente avviato a “modello 45”, vale a dire al momento senza ipotesi di reato né indagati. Il ministro per lo Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha commentato la decisione: “Voglio ringraziare la magistratura per il lavoro che sta svolgendo e per aver acceso un faro sulla gestione dell’ex Ilva. Anche il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha parlato della vicenda dello scudo penale ed assicura: “Se si definisce un accordo con Mittal nel quadro di questo accordo ci sarà anche la componente dello scudo penale. Io penso che debba essere fatto ma in un quadro complesso”. Gualtieri ha anche smentito l’ipotesi di un prestito ponte ventilata dai giornali a seguito delle dichiarazioni del ministro Boccia.  “Ilva non chiuderà. Occorre una soluzione industriale perché l’Italia ha bisogno di un’acciaieria. Auspico una ripresa del negoziato. Questo  – ha detto – è un momento delicato. Da Arcelor Mittal è arrivato un primo segnale positivo anche se legato alla vicenda processuale”. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto al Quirinale nel tardo pomeriggio di oggi i Segretari generali della CGIL, Maurizio Landini, della CISL, Annamaria Furlan, e della UIL, Carmelo Barbagallo. Per il presidente della Repubblica Mattarella l’”ILVA è un grande problema nazionale che va risolto con tutto l’impegno e la determinazione, non solo per le implicazioni importantissime sul piano occupazionale ma anche  per quanto riguarda il sistema industriale italiano” come ha detto ai sindacati ricevuti questa sera al Quirinale . Il Capo dello Stato non è entrato in nessun modo sul come risolvere la crisi, dato che spetta al Governo ed al premier Conte. La richiesta di incontro è venuta dalle sigle sindacali che hanno chiesto di incontrare il presidente e Mattarella, nel corso dell’incontro, avrebbe soprattutto ascoltato, secondo quanto trapela dal Quirinale. “Mentre eravamo all’incontro al Quirinale ci è giunta la notizia, data dall’azienda ai delegati, che è stata sospesa la procedura di spegnimento. Questo sicuramente è un primo risultato importante, ma ora non c’è tempo da perdere” dice il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, al termine dell’incontro al Quirinale con il capo dello Stato, Sergio Mattarella, per parlare della crisi dell’ex Ilva. “Ora serve che Ilva si segga al tavolo con il governo per discutere al tavolo come si applica l’accordo che è stato firmato” precisa il segretario Cgil. “Riteniamo che questa comunicazione sia un primo passo importante per poter avviare un confronto serio e impegnativo per scongiurare un disastro ambientale, occupazionale e industriale”. ha commentato Rocco Palombella, Segretario Generale Uilm . “Come abbiamo richiesto oggi insieme alle altre organizzazioni sindacali  ora si deve aprire un tavolo tra sindacati, azienda e governo per risolvere questa situazione che riguarda 20mila lavoratori, partendo dall’accordo del 6 settembre 2018”. “Continueremo a svolgere le nostre azioni, coinvolgendo tutte le istituzioni italiane, affinché questo spiraglio possa portare a una rapida risoluzione che garantisca risanamento ambientale, tutela dei livelli occupazionale e continuità industriale” ha concluso Palombella. In serata è stato reso noto che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte incontrerà  venerdì 22 alle 18.30 a Palazzo Chigi insieme al ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli,  i vertici di Arcelor Mittal.

Ex-Ilva, magistratura in campo. Arcelor Mittal Italia inizia a preoccuparsi. Il Corriere del Giorno il 18 Novembre 2019. Sindacati ricevuti al Quirinale. I tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil  stasera alle 19.30 saliranno al Quirinale dove saranno ricevuti dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per affrontare la questione dell’ex Ilva e in generale delle crisi industriali. Le aziende dell’indotto-appalto siderurgico di ArcelorMittal Italia (ex Ilva), sono attualmente in presidio davanti alla portineria C dello stabilimento di Taranto con i propri mezzi e dipendenti e mezzi. Confindustria Taranto precisa che “non si tratta un blocco, ma di un presidio per protestare per i mancati pagamenti di ArcelorMittal Italia alle stesse imprese ed a rivendicare la continuità produttiva e occupazionale della fabbrica“. “Non vogliamo accelerare lo spegnimento della fabbrica – aggiunge Antonio Marinaro presidente di Confindustria Taranto – non vogliamo assestare l’ultimo colpo ad una fabbrica già in declino. Confindustria Taranto ritiene che, pur dando un segnale di protesta, pur dichiarando tutta la sua insofferenza per il mancato pagamento, non debba tuttavia venire meno, anche in una situazione estrema, la responsabilità”. Secondo le imprese, Arcelor Mittal Italia deve saldare 50 milioni di fatture ai propri fornitori, dei quali circa 10-12 sono relativi a fatture già scadute per prestazioni effettuate mentre il resto è in scadenza. Il presidente di Confindustria Taranto aggiunge: “I cantieri edili delle imprese nell’ex Ilva saranno fermi da oggi 18 novembre. Poiché questi operano sugli investimenti, se il committente non paga e il cantiere, il progetto, si fermano, non succede nulla di grave. Non si pregiudica nulla. Assicureremo invece le manutenzioni e tutti i lavori correnti quelle attività che servono a tenere in marcia gli impianti perché noi, come imprenditori, non possiamo contribuire allo spegnimento” dice Marinaro. La protesta delle imprese tarantine vuole mettere in evidenza che, nonostante per tre volte, negli ultimi giorni , Lucia Morselli l’ amministratore delegato di Arcelor Mittal Italia,  avesse garantito che le imprese sarebbero state pagate pagate, nulla in realtà è stato fatto, e le linee telefoniche riservate alle informazioni per i fornitori risultano mute squillando a vuoto senza che nessuno risponda. Secondo fonti confidenziali di Arcelor Mittal non si tratterebbe di un blocco dei pagamenti ma solo di ritardi conseguenti alla sostituzione del personale preposto alla parte amministrativa e contabile. resta da capire per quale motivo si sostituisca il personale, allorquando si dichiara  di voler lasciare lo stabilimento.

Le reazioni dello Stato. Questa mattina nello stabilimento di Taranto hanno avuto accesso un nucleo di ispettori dell’Ispettorato nazionale del lavoro, dell’Inail e dell’Inps. La Procura di Taranto dopo aver avviato l’inchiesta contro ignoti, prefigurando l’ipotesi di reato di distruzione di materie prime e prodotti industriali, nonché di mezzi di produzione con danni all’economia nazionale (articolo 499 del Codice penale), ha già disposto le prime ispezioni all’interno del siderurgico. “È una cosa seria, ci stiamo già attivando” è il commento il procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo, poco dopo aver ricevuto, insieme al procuratore aggiunto, Maurizio Carbone, i commissari dell’amministrazione straordinaria Ilva, Ardito, Danovi e Lupo, che gli hanno presentato e depositato  un esposto-denuncia che indicano comportamenti lesivi dell’economia nazionale da parte di ArcelorMittal. Nell’esposto si sostiene infatti che il gruppo dell’acciaio con quartier generale in Lussemburgo abbia già messo in atto un processo di abbassamento della produzione degli impianti e di riduzione del loro calore. Un processo industriale che comporterebbe un grave danno agli altiforni, rendendo difficile da utilizzare la fabbrica in futuro, in quanto le eventuali conseguenti procedure di adeguamento sarebbero lunghe e, soprattutto, molto costose. Un danno che si rifletterebbe anche sull’economia italiana, visto che lo stabilimento di Taranto è strategico dal punto di vista industriale. I riflettori investigativi che la Procura di Taranto ha acceso riguarda infatti il magazzino dell’ex Ilva, ipotizzando anche il reato di “appropriazione indebita“. Probabilmente, i primi ad essere convocati saranno i dirigenti del gruppo franco-indiano, a partire dall’ amministratore delegato  Lucia Morselli, convocazione che potrebbe arrivare dopo la disposta acquisizione della documentazione in azienda. Successivamente i magistrati e gli investigatori passeranno a sentire i dirigenti ed i dipendenti del polo siderurgico. Ilva in amministrazione straordinaria infatti ha ceduto un anno fa, esattamente il 30 ottobre 2018,  ad ArcelorMittal Italia un magazzino di materie prime del valore di 500 milioni di euro ed il magazzino di pezzi di ricambio per un valore di  circa 100 milioni. Dopo gli ultimi comportamenti di Arcelor Mittal, si  vuole accertare se non vi sia stato un impoverimento preordinato da parte dell’affittuario, con il chiaro obiettivo di indebolire l’azienda e quindi abbandonarla. Sempre sulla decisione di ArcelorMittal di restituire allo Stato lo stabilimento di Taranto e lasciare l’ Italia, la Procura di Milano indaga nel fascicolo esplorativo aperto alcuni giorni fa, ancora formalmente a carico di ignoti e senza ipotesi di reato, anche su eventuali illeciti tributari e su presunti reati pre-fallimentari, con un focus sul mancato pagamento dei creditori dell’indotto. Filoni questi che si aggiungono a verifiche su presunte appropriazioni indebite di materiale relativo al magazzino di materie prime, su false comunicazioni societarie e al mercato. Il procuratore capo della procura milanese Francesco Greco , a lungo in passato a capo del pool che si occupa dei reati finanziari e societari della Procura di Milano, ha incontrato anche i commissari dell’Ilva e dopodichè vi sono state negli uffici della Procura delle riunioni tra i magistrati e gli investigatori della Guardia di Finanza. Questa mattina, a Milano, l’aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Stefano Civardi e Mauro Clerici si sono incontrati per mettere a punto l’atto della loro costituzione nella causa civile con cui Arcelor Mittal chiede di rescindere il contratto di affitto dell’ex stabilimento, mentre i commissari, con il loro ricorso cautelare, cercano di fermarli per preservare l’azienda. Il giudice Claudio Marangoni, presidente della sezione specializzata in materia d’impresa del Tribunale di Milano che ha fissato per il prossimo 27 novembre l’udienza sul ricorso cautelare dei commissari ex Ilva, ha diffidato ArcelorMittal Italia ” a non porre in essere ulteriori iniziative e condotte in ipotesi pregiudizievoli per la piena operatività e funzionalità degli impianti» dello stabilimento siderurgico”. Lo si legge in una nota firmata e diffusa dal presidente del Tribunale di Milano “tenuto conto – continua il comunicato – della non adozione di provvedimenti ‘inaudita altera parte”, cioè  del fatto che le decisioni arriveranno solo dopo la discussione in udienza e non ‘de planò, si invitalo “le parti resistenti”, cioè  ArcelorMittal, “in un quadro di leale collaborazione con l’Autorità Giudiziaria e per il tempo ritenuto necessario allo sviluppo del contraddittorio tra le parti, a non porre in essere ulteriori iniziative e condotte in ipotesi pregiudizievoli per la piena operatività e funzionalità degli impianti, eventualmente differendo lo sviluppo delle operazioni già autonomamente prefigurate per il limitato tempo necessario allo sviluppo del presente procedimento”.

IL RICORSO D’URGENZA DEI COMMISSARI ILVA IN A.S. AL TRIBUNALE DI MILANO. I sopralluoghi negli stabilimenti ex-Ilva. Ai sopralluoghi con i commissari parteciperanno anche i Carabinieri del Noe, i quali dovranno verificare l’eventuale presenza di pericolo di danni all’ambiente, legati principalmente alla decisione di Arcelor Mittal di spegnare gradualmente gli altiforni, iniziativa questa che, oltre a deteriorare gli impianti, potrebbe provocare anche nuove emissioni inquinanti. Per quantificare un possibile impatto ambientale non è escluso che nei prossimi giorni le procure possano nominare un consulente tecnico per effettuare ulteriori accertamenti. Mentre i Carabinieri del Nil, la sezione dell’ Arma che si occupa di illegalità in ambito occupazionale-lavorativo, i quali dovranno acquisire e controllare i contratti con i dipendenti: infatti vi è sospetto è che, anche in questo caso, vi potrebbero essere delle irregolarità poste in essere dal gruppo franco-indiano...Il governo nel frattempo comincia comunque ad attrezzarsi in caso si confermasse il disimpegno di ArcelorMittal Italia “Dovesse accadere, ha chiarito il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia a “Circo Massimo”, su Radio Capital, scatterà “l’amministrazione straordinaria, con un prestito ponte” (cioè come fece quattro anni fa il Governo Renzi) da parte dello Stato, e quindi con l’incarico a dei commissari, in modo da riportare l’azienda sul mercato entro un paio d’anni. Il ministro Boccia ha aggiunto che “Mittal ha posto un ricatto occupazionale inaccettabile, che il governo ha già respinto. E dunque deve assumersi le proprie responsabilità e rispettare le leggi della Repubblica italiana. Alternativa non c’è. Solo una volta stabilita l’amministrazione straordinaria si deciderà se ci sono altre aziende dello Stato che possono entrare nella cordata. Io – ha concluso Boccia – penso che abbia assolutamente fondamento la possibilità che entrino altre aziende, tra cui Cdp, ma è un tema che si porranno i commissari”. Questa mattina  si è riunito il consiglio di fabbrica di Fim, Fiom e Uilm per affrontare la difficile fase che attraversa il sito produttivo di Taranto con il conseguente rischio di disastro occupazionale e ambientale. Una situazione che rischia di implodere soprattutto in assenza di risposte chiare da parte di due attori principali quali ArcelorMittal e il Governo. Secondo i sindacati “Bisogna, pertanto, dare risposte certe e immediate a lavoratori e cittadini, ognuno in base alle proprie responsabilità, per garantire il futuro ambientale, occupazionale e produttivo di Taranto”. Il Consiglio di Fabbrica, a seguito di una ampia discussione, ha deciso quanto segue: – Rispetto dell’accordo ministeriale del 6 settembre 2018; – Sospensione immediata delle procedura ex. art.47 da parte della multinazionale per porre definitivamente fine al caos generato che rischia di far implodere lavoratori e cittadinanza; – Garanzie della continuità produttiva con sospensione immediata della procedura del piano di fermata; – Appalto: in attesa dell’incontro con Confindustria si richiede l’immediata sospensione delle procedure di cassa integrazione e di provvedere a regolare pagamento delle retribuzioni dei lavoratori; – Programma di assemblee con i lavoratori Arcelor Mittal  e appalto. In caso di mancate risposte da parte di Arcelor Mittal e Governo, così come nei gironi scorsi, si programmerà una mobilitazione di gruppo a Roma per impedire il disastro sociale e ambientale irreversibile di un territorio già fortemente provato. Questa sera i sindacati saranno ricevuti al Quirinale. I tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil  stasera alle 19.30 saliranno al Quirinale dove saranno ricevuti dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per affrontare la questione dell’ex Ilva e in generale delle crisi industriali. 

L'autogol dei Mittal "arma" i pm: inchiesta per bancarotta fallimentare. Duro esposto dei commissari: "Danni irreparabili all'Italia". Luca Fazzo, Martedì 19/11/2019, su Il Giornale. Chissà se i vertici di Arcelormittal si sono resi conto di essersi dati una martellata sui piedi il 12 novembre, quando hanno depositato al tribunale di Milano la loro richiesta di dichiarare decaduto il loro contratto per gestire l'Ilva di Taranto. È stata quella mossa ad aprire di fatto le porte all'ingresso nella vicenda dell'Ilva della magistratura milanese: che vi ha fatto irruzione con la sua potenza operativa, e oltretutto libera dai condizionamenti ambientalisti e grillini che in qualche modo pesano sulle scelte della Procura di Taranto. E le conseguenze si vedono ieri. L'inchiesta che la Procura meneghina aveva aperto con apparente cautela venerdì scorso, il fascicolo «esplorativo» senza accuse né accusati sulla vicenda della acciaieria più grande d'Italia, accelera bruscamente. Adesso ci sono i reati: bancarotta postfallimentare e manipolazioni dei mercati. E ad ore ci saranno anche gli indagati, ovvero i vertici in Italia del colosso indiano: a partire verosimilmente da Lucia Morselli, il manager che si sta prendendo a muso duro la responsabilità di rompere gli accordi con i commissari che amministrano l'ex impero dei Riva e - attraverso di loro - con il governo italiano. Con le loro scelte, secondo la Procura milanese, gli indiani stanno danneggiando irreparabilmente l'amministrazione straordinaria di Ilva, e questo - essendo la procedura equiparata a un fallimento - integra il reato di bancarotta. Su questa ipotesi la Procura milanese è partita a testa bassa. Ieri i due pm titolari del fascicolo, Stefano Civardi e Mauro Clerici, hanno iniziato a interrogare i funzionari dei commissari giudiziari di Ilva, acquisendo materiale su materiale. Nelle stesse ore, uno dei tre - Antonio Cattaneo, capo della divisione forensic di Deloitte - faceva visita in Procura. Più che sufficiente per capire che sulla testa di ArcelorMittal si addensano nuvole più nere di quelle emanate dagli altoforni di Taranto. Un primo segnale della piega che stava prendendo il lato giudiziario della crisi dell'Ilva era arrivato già a metà mattina, quando il presidente del tribunale di Milano Roberto Bichi aveva reso noto con un comunicato stampa di avere diffidato i vertici di ArcelorMittal dal prendere qualunque decisione irrevocabile (ovvero lo spegnimento degli altiforni) prima dell'udienza fissata per il 27 novembre davanti alla sezione del tribunale specializzata in diritto d'impresa. È l'udienza in cui il giudice Claudio Marangoni si troverà davanti le due tesi opposte: quella degli indiani che considerano azzerato il contratto d'affitto a causa della sparizione dello «scudo penale» garantito a suo tempo dal governo, e quella dei commissari giudiziari che vogliono obbligare ArcelorMittal ad andare avanti. Nel loro ricorso, i commissari attribuiscono alla Morselli e al suo staff «comportamenti del tutto antitetici a qualsiasi concetto di civiltà e di buona fede». Alla base della decisione unilaterale di dismettere Taranto ci sarebbero «semplicemente inaccettabili considerazioni fondate sulla propria (non) convenienza a continuare a dare esecuzione agli obblighi in precedenza assunti». Aggiungono i commissari che «i comportamenti adottati per perseguire tale illegittimo intento sono stati programmati in modo da recare il maggior possibile livello di devastante offensività». Parole pesanti, come si vede, che segnano un punto di non ritorno nel dialogo tra le parti. Nell'udienza del 27, i commissari avranno al loro fianco la Procura della Repubblica, che - come si capisce bene leggendo l'ultimo comunicato del suo capo Francesco Greco - intende far pesare fino in fondo le «necessità tecnico-produttive del paese». La decisione del tribunale civile arriverà entro il 4 dicembre. Ma prima di allora l'inchiesta penale potrebbe avere già fatto passi avanti, incastrando gli indiani in una trappola in cui si sono infilati da soli.

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 18 novembre 2019. Comunque vada a finire questa storia ArcelorMittal dovrà spiegare cosa è accaduto in questi dodici mesi di gestione dell' Ilva di Taranto. Lo dovrà spiegare agli operai, ai cittadini, alla politica. Ma soprattutto alla magistratura. Che, già nelle prossime ore, cercherà di trovare le risposte a qualche domanda: che fine ha fatto il magazzino da 500 milioni che i commissari avevano lasciato ai nuovi proprietari dell' Ilva? Sono stati rispettati tutti gli impegni presi nelle manutenzioni? E ancora: è stato regolare l' andamento del titolo Arcelor sulle Borse estere dopo l' annuncio del disimpegno? Sono trasparenti le triangolazioni sulle vendite e gli acquisti con società estere del gruppo? Al momento non ci sono indagati. Ma i reati sul tavolo sono gravi, tanto da preveder il carcere: si va dalla bancarotta al 499 del codice che prevede pene fino a 12 anni per chi «cagiona un grave nocumento alla produzione nazionale». Dall' appropriazione indebita a reati fiscali e fallimentari. Alla questione Ilva-Arcelor stanno lavorando, in accordo, le procure di Milano e Taranto. La prima si occuperà dei possibili reati finanziari. La seconda di quelli legati più strettamente alla fabbrica. Il procuratore di Milano, Francesco Greco, ha fatto sapere di aver aperto un fascicolo senza indagati e senza reati, avendo però affidato già una delega previsa alla Guardia di Finanza. Toccherà a loro per esempio mettere ordine in un sospetto che il governo ha esplicitato in queste ore. In un' intervista a Repubblica il ministro delle Autonomie, Francesco Boccia, aveva detto: «Bisogna capire se sono vere le perdite. Capire da chi sono state comprate materie prime con prezzi fuori da mercato. Se per esempio fossero state comprate da altre aziende della galassia Arcelor... ». In queste ore sono partiti i primi accertamenti per capire cosa Boccia volesse dire. Qualcosa sta emergendo. È da chiarire, per esempio, il ruolo di una società olandese da cui Arcelor comprerebbe grandi quantità di materie prime. È una società del gruppo Arcelor. E qualcosa potrebbe non tornare: i prezzi sembrano essere troppo alti rispetto a quelli del mercato. Ilva quindi spenderebbe più del dovuto. E Arcelor pagherebbe meno tasse, grazie alla fiscalità avvantaggiata olandese. Un problema simile potrebbe esserci anche nel sistema delle vendite. Gran parte del materiale prodotto a Taranto non finirebbe direttamente agli acquirenti. Ma la transazione sarebbe mediata da un' altra società del gruppo Arcelor, anch' essa con sede all' estero. Non un affare per Ilva. Perché i prezzi sarebbero molto più bassi rispetto a quelli di mercato. Di questo si stanno occupando anche i commissari - Francesco Ardito, Alessandro Danovi e Antonio Lupo - nominati dal governo per gestire le bonifiche. Ma che sono anche i proprietari dello stabilimento dato in fitto ad Arcelor. I commissari - assistiti dall' avvocato Angelo Loreto - hanno presentato un lungo esposto al procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo e all' aggiunto Maurizio Carbone, nel quale vengono denunciate condotte illecite da parte di Arcelor. Tanto che la procura di Taranto ha individuato già i reati sui quali indagare. I commissari nel corso di questi 12 mesi hanno fatto una serie di contestazioni all' azienda, che non avrebbe svolto tutti gli investimenti previsti nel contratto. Oggi, seppur non è stato concesso loro di entrare in fabbrica, hanno denunciato che mentre Arcelor sbaracca, il magazzino di materie prime e prodotti già lavorati che era stato affidato loro, è quasi vuoto: valore 500 milioni di euro, praticamente gli stessi soldi che la multinazionale ha investito, così come previsto, per la copertura dei parchi minerali, l' opera di ambientalizzazione più importante realizzata fino a questo momento. Senza materie prime, la fabbrica non può che fermarsi. Ma gli operai hanno annunciato l' ammutinamento contrario: «Lavoreremo anche contro la volontà dell' azienda ».

Nicola Borzi per “il Fatto quotidiano” il 18 novembre 2019. Nato il 15 giugno 1950 nel villaggio senza elettricità e acquedotto di Sadulpur, nello stato indiano del Rajasthan, chiamato dai suoi genitori Lakshmi come la dea indù della ricchezza, Lakshmi Narayan Mittal è presidente e amministratore delegato di ArcelorMittal, il gigante della siderurgia attivo in 14 Paesi. Anche in Italia, dove poco più di un anno fa ha preso in gestione l' ex Ilva di Taranto che in questi giorni ha però deciso di abbandonare. La scusa è la revoca dello scudo penale (che la Consulta ha rimandato al giudice di merito) ma la vera causa è la sovrapproduzione mondiale di acciaio: ArcelorMittal nel 2018 ha guadagnato di 5,1 miliardi netti di dollari ma nel primo semestre di quest' anno ha perso 33 milioni per il crollo dei prezzi. Oltre a Taranto, ArcelorMittal sta chiudendo impianti in Usa, SudAfrica e Polonia. Ma chi è Lakhsmi Mittal? Suo padre, Mohan Lal Mittal, gestiva un' azienda siderurgica, Nippon Denro Ispat. La famiglia si trasferisce a Calcutta dove Mittal studia economia nel noto St. Xavier' s College. Dopo la laurea con il massimo dei voti, a 26 anni Lakshmi separa il suo destino da quello dei due fratelli Pramod e Vinod, che continuano a gestire l' azienda di famiglia, e si trasferisce in Indonesia dove con l'aiuto del padre acquista l'acciaieria Ispat Indo. Da lì parte alla conquista del mondo ripetendo lo stesso schema: acquista società statali in perdita e le rilancia. Nel 1989 rimette sul mercato l' acciaieria di Stato di Trinidad e Tobago che perde un milione di dollari al giorno. Nel 1992 conquista Sircasta, terzo produttore siderurgico del Messico, nel 1994 la Sidbec in Canada. Nel 1995 fa il grande salto: Mittal acquista dal governo di Astana la Karmet Steel a Temirtau, in Kazakistan, per 400 milioni di dollari. Il Paese confina con la Cina, dove la domanda di acciaio sta per esplodere: Mittal decolla tra i maggiori produttori mondiali e costituisce Ispat international e Ispat Shipping. Nello stesso anno conquista in Germania la Hamburger Stahlwerke alla quale nel 1997 appaia la Thyssen Duisburg. Nel 1998 è la volta della Inland Steel negli Usa, l' anno dopo della Unimetal in Francia. Nel 1999 mette le mani sulla Sidex in Romania e nel 2001 sulla Annaba in Algeria. Nel 2003 è il turno della Nova Hut (Repubblica Ceca). Nel 2004 tocca a Bh Steel (Bosnia), Balkan Steel (Macedonia), Phs (Polonia) e Iscor (SudAfrica), ma soprattutto la Ispat International si fonde con l' americana International Steel Group e diviene Mittal Steel. Nell'occasione la holding Lnm stacca a Mittal un dividendo personale di 2 miliardi di dollari. L'anno dopo conquista Kryvorizhstal (Ucraina) e una quota nella cinese Hunan Valin Steel. Nel 2006 Mittal Steel si fonde con la lussemburghese Arcelor e diventa leader mondiale dell' acciaio, con output da 100 milioni di tonnellate l' anno. La famiglia Mittal con il 43,6% è il primo azionista della nuova società. Dal 2008 Mittal siede nel consiglio di amministrazione di Goldman Sachs e di Eads (Airbus). Nel 2018, la sua offerta di 5,9 miliardi di dollari per il fallimento dell' indiana Essar Steel viene accettata dai creditori di Essar ma dà il via a una dura battaglia legale. Il tycoon, che è lattovegetariano, dal 1995 vive a Londra con la moglie Usha e i figli Vanisha e Aditya. Come scoperto da Angelo Mincuzzi per Il Sole 24 Ore la famiglia Mittal, attraverso una ragnatela di società offshore, controlla il gruppo grazie a sei trust costituiti nel 2010 sull' isola di Jersey nella Manica con i nomi di Platino, Argento, Titano, Cromo, Osmio e Americio. Un modo per ridurre le tasse. Eppure il denaro non manca. Nel 2004 Mittal acquista dall' ex boss della Formula 1 Bernie Ecclestone per 128 milioni di dollari quella che all' epoca è la casa più costosa al mondo: il sontuoso palazzo ai Kensington Palace Gardens 18-19 di Londra, decorato con marmo proveniente dalla stessa cava usata per costruire il Taj Mahal, viene ribattezzato "Taj Mittal". Nel 2008 fa il bis e compra con 70 milioni di sterline per la figlia Vanisha il numero 9 di Palace Greens, Kensington Gardens, che prima ospitava l' ambasciata delle Filippine. Quando lei si sposa, a dicembre 2013, per la festa di 5 giorni tra la Francia e Barcellona Mittal spende più di 55 milioni di dollari. D' altronde nel 2011 era l' uomo più ricco del Regno Unito e il sesto del mondo, con una patrimonio di 31,1 miliardi di dollari. Nell' ultimo decennio però il patrimonio di Mittal è calato di 17,5 miliardi. Ma la facciata di successo nasconde disastri sociali e ambientali. Nel 2001 Mittal Steel chiude un' acciaieria in Irlanda e mette per strada 400 lavoratori: il Governo di Dublino fa causa chiedendo che l' azienda risani con 70 milioni di euro i danni ambientali a Cork, ma perde l' azione legale. L' anno dopo nel Regno Unito esplode "l' affaire Mittal": per le elezioni politiche britanniche del 2001 il magnate ha staccato un assegno da 125mila sterline al Partito laburista, poi chiede l'appoggio del premier Tony Blair per acquistare l' industria siderurgica di Stato della Romania e Blair scrive una lettera al Governo di Bucarest suggerendo che la vendita a Mittal potrebbe aiutare la Romania a entrare nell' Unione Europea. Quando acquista l' acciaieria polacca Phs, Mittal usa il lobbista Marek Dochnal: in seguito Dochnal viene arrestato per aver corrotto funzionari polacchi per conto di agenti russi in una vicenda separata. A dicembre 2004, 23 minatori muoiono in esplosioni nelle miniere di Mittal in Kazakistan per difetti nei rilevatori di gas e, a settembre 2006, migliaia di lavoratori si uniscono allo sciopero dei minatori della Arcelor Mittal a Temirtau contro le condizioni di lavoro e l' inquinamento. Ma Mittal il 25 aprile 2007 compra la quota del gigante petrolifero russo Lukoil in una società energetica del Kazakistan per 980 milioni di dollari: le proteste finiscono sotto silenzio. Vicende che ricordano da vicino quella che in questi giorni sta andando in scena a Taranto.

Aditya Mittal, il manager indiano che voleva rivoluzionare l' Ilva...Il Corriere del Giorno il 25 Novembre 2019. Le aziende dell’indotto che a Taranto costituiscono – ma pochi lo sanno e ricordano  – il più grande raggruppamento di imprese impiantistiche del Sud. Perchè vengono coinvolte nelle attività dello stabilimento dalla nuova proprietà, che poi non le paga ? Ad oggi Arcelor Mittal ha cumulato debiti nei confronti dell’indotto per circa 60 milioni di euro. Aditya Mittal, è il figlio 41enne di Lakshmi Mittal, fondatore e Ceo di ArcelorMittal, colosso industriale dell’acciaio. “Nato nel 2006 dalla fusione tra Arcelor e Mittal steel company – si legge sul Sole 24 Ore -, ArcelorMittal è oggi il maggiore produttore di acciaio al mondo, con una presenza in 60 paesi, 209mila dipendenti e un output che l’anno scorso ha superato i 90 milioni di tonnellate. La maggior parte del fatturato europeo è realizzato sul mercato tedesco (18%), seguito dalla Francia (13%), dalla Spagna (11%) e dalla Polonia (10%); in Italia oggi ArcelorMittal fattura l’8% del dato complessivo europeo”. Erano questi i numeri della multinazionale indiana, prima dell’ acquisizione del gruppo ILVA.ra l’11 ottobre 2017 quando nel corso del forum di Conftrasporto Aditya Mittal, cfo di ArcelorMittal e Ceo del gruppo in Europa, prendendo la parola pronunciò queste parole “L’Ilva è una sfida non facile, ma io sono giovane e sono qui per rimanere nel lungo termine e portare avanti con successo questo nel lungo termine”. Ad ascoltarlo fra il pubblico il premier (in carica all’epoca dei fatti) Paolo Gentiloni ed il ministro della difesa Roberta Pinotti. Entrambi esponenti di punta del Pd. “Nel business dell’acciaio si tratta gestire gli stakeholder, i dipendenti, il business, vanno tutti gestiti – sottolineava Aditya Mittal – l’industria dell’acciaio è molto importante all’interno di una comunità perché ha un impatto importante su tante cose, sui tanti posti di lavoro e quindi dal punto di vista economico e strategico riveste un’importanza di grande rilievo e noi – disse ancora il giovane Mittal – ci prendiamo questa responsabilità molto seriamente, è qualcosa che noi sappiamo che dobbiamo gestire su base quotidiana e sui cui dobbiamo eccellere”. L’Ilva, continuò il “giovane” rampollo della famiglia Mittal, “ha sofferto moltissimo nel corso degli ultimi anni, si è visto soffrire i dipendenti per via delle incertezze del suo futuro, si è vista la sofferenza dell’operatività che non è migliorata, anzi c’è stato un declino della produzione su base annuale. E, ancora più importante, abbiamo visto una comunità che ha largamente e fortemente sofferto per via di tutti i problemi ambientali che conosciamo”. “C’è stato un non rispetto ambientale di tutte le comunità dove si trova ILVA – proseguì il cfo del gruppo ArcelorMittal – Il nostro lavoro è prima di tutto migliorare queste condizioni. Come possiamo noi gestire un business in maniera adeguata, giusta, come possiamo assicurare che ci occuperemo degli stakeholder e dell’ambiente”. Parole rassicuranti, o meglio di disponibilità al dialogo, quelle pronunciate dai vertici del gruppo Mittal in occasione del convegno a Cernobbio, che però non convincevano del tutto din d’allora gli esponenti del Governo. Quelle parole del Ceo di ArcelorMittal arrivarono all’indomani della frenata del governo sugli accordi sottoscritti dai commissari ILVA. “Non possiamo, come governo, accettare alcun passo indietro – disse l’ex ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda – su retribuzioni e scatti di anzianità acquisiti che facevano parte degli impegni”  nel suo intervento ben poco “tecnico” e molto politico, venendo sostenuto anche dalla ministra della Difesa Pinotti e dallo strano silenzio assenso di Gentiloni.

Quell’interno non ebbe opposizione di Palazzo Chigi così come la porta chiusa che venne annunciata  da  Carlo Calenda, che aveva criticato la cordata Am Investco (composta dal gruppo Arcelor Mittal e dal Gruppo Marcegaglia): “Non possiamo, come governo, accettare alcun passo indietro su retribuzioni e scatti di anzianità acquisiti che facevano parte degli impegni”, ha detto Calenda, sconfessando implicitamente gli accordi sottoscritti dai commissari Ilva  Gnudi, Carrubba e Laghi, che avevano reso noti i livelli occupazionali complessivi – pari a 10.020 unità – che Arcelor Mittal  intendeva mantenere e la loro distribuzione impianto per impianto che, per Taranto in particolare, prevederebbe un organico di 7.600 addetti – con una importante riduzione di ben 3.311 unità – ed a Genova di 900 unità con una diminuzione di alcune centinaia di addetti. La decisione di Calenda era arrivata  con il silenzio-assenso della Presidenza del Consiglio (il premier era Paolo Gentiloni – n.d.r.), sollecitata in particolare modo dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, attenta in particolare alle ricadute su Genova, dove ha sede uno degli impianti Ilva rilevati dagli indiani di Mittal oltre a quello di Taranto. Queste le parole più significative pronunciate dalla Pinotti, prima dell’annuncio di Calenda: “Il governo sta al fianco delle preoccupazioni dei lavoratori e non certo dall’altra parte”. Quella frase di Pinotti era stata la dichiarazione di “guerra” contro il gruppo indiano , secondo quanto riportato da Repubblica, Stampa e Secolo XIX, che, dopo aver indicato meno esuberi rispetto al passato per effetto anche del pressing governativo, ha detto che non garantiva livelli salariali e scatti di anzianità del passato. Ma non solo. Infatti la Pinotti era andata anche oltre, preannunciando una ulteriore “pressione” anche rispetto agli esuberi indicati: “Noi vogliamo lavorare per diminuire il numero degli esuberi e per rivedere le condizioni che possono essere peggiorative dal punto di vista dei lavoratori”. Molti addetti ai lavori scommettevano a suo tempo su un potenziale intervento della Cassa depositi e prestiti sul “dossier” nel caso il Governo decidesse di nazionalizzare. Si vedrà. Ma c’è un dato politico che emerge dalla vicenda Ilva: la sintonia fra Gentiloni, Pinotti (democratici al 100% ), Calenda (riformista non troppo renziano) e della “fedelissima”  alla ortodossia renziana Teresa Bellanova che all’epoca dei fatti era viceministro allo Sviluppo economico. Si parlava di siderurgia, certo, ma anche quella volta, come ora di elezioni prossime venture…Aveva quindi ragione il prof. Federico Pirro quando a suo tempo sosteneva che sarebbe stato “un grave errore considerare la trattativa che doveva avviarsi oggi come una delle tante aperte al tavolo del Mise per fronteggiare situazioni di crisi aziendali, non solo perché stiamo discutendo del maggior gruppo siderurgico italiano e della più grande fabbrica manifatturiera del Paese” – che è lo stabilimento siderurgico di Taranto con i suoi 10.980 occupati diretti – “ma perché la questione del riassetto della Ilva, e di conseguenza della siderurgia italiana, è tuttora una grande questione nazionale. Se lo ricordino tutti“. In realtà, gli assetti occupazionali previsti per Taranto avevano come punto di riferimento – per quel che concerne la produzione – quanto stabilito nel Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017, pubblicato in Gazzetta ufficiale del 30 settembre, recante il “Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria”. All’articolo 2 di quel decreto si stabiliva che la produzione dello stabilimento dell’ILVA di Taranto non avrebbe potuto superare le 6 milioni di tonnellate all’anno di acciaio fino al completamento di tutti gli interventi previsti per l’Aia, la cui scadenza è fissata al 23 agosto 2023, fatte salve le diverse tempistiche espressamente previste negli allegati I e II del Dpcm.  6 milioni di tonnellate che ora gli Arcelor Mittal vorrebbero far scendere ad appena 4. Am Investco si era impegnata a raggiungere la soglia dei 6 milioni di tonnellate di acciaio liquido entro il 2018 e a mantenere tale livello sino alla completa implementazione del piano ambientale alla data del 23 agosto 2023. Entro il 2020 si giungerebbe a 8,5 milioni di tonnellate di spedizione di prodotti finiti con la lavorazione di bramme provenienti da altri siti di Arcelor Mittal. Un cambiamento che legittimale affermazioni di chi oggi accusa il “top management” di Arcelor Mittal di aver sbagliato il proprio piano industriale, o come altri sostengono di aver barato al tavolo della gara e successiva trattativa dopo l’aggiudicazione. Vi era allora un primo elemento su cui il prof. Pirro invitava a riflettere: fissare al 23 agosto del 2023 il completamento degli interventi per l’Aia non ha significato spostarlo in un futuro troppo remoto? Quel termine, qualora venisse rispettato, ricadrebbe nella legislatura del nostro Parlamento iniziato nella primavera del 2018. “Le esperienze degli ultimi decenni” – aggiungeva Pirro – “ci dicono che in sei anni possono sconvolgersi gli equilibri economici mondiali e di conseguenza la produzione di acciaio. Perché allora non introdurre una modifica al Dpcm che anticipi la conclusione dell’Aia dal 23 agosto del 2023 al 31 dicembre del 2019? O questa anticipazione creerebbe difficoltà alla cordata Am Investco?“ Far dipendere il sito di Taranto da un 25-30% di importazione di bramme significherebbe privarlo di quell’autonomia produttiva che esso ha sempre avuto dalla sua impostazione impiantistica originale. Era evidente sin d’allora una persona intelligente e preparata come il prof . Pirro che il  gruppo Arcelor Mittal volesse integrare il sito ionico nel suo sistema di produzione europeo. Ma nessuno al Governo si chiese se tale integrazione rispondeva pienamente alle esigenze e alla redditività di quel sito e agli interessi siderurgici del nostro Paese.  Si domandava Pirro “se non sarebbe più conveniente per la stesso gruppo Arcelor conservare intatta – dopo tutti gli interventi di ambientalizzazione – la capacità produttiva di Taranto, che una volta risanata, dispiegherebbe una potenza competitiva fra le maggiori in Europa, essendo tuttora quello tarantino il primo stabilimento nella Ue per capacità installata?“ Ecco quindi un primo elemento su cui riflettere: fissare il completamento degli interventi per l’Aia al 23 agosto del 2023  non ha significato spostarlo in un futuro troppo remoto? Si pensi in proposito che quel termine, se rispettato, cadrebbe nella legislatura del nostro Parlamento successiva alla prossima, che inizierà nella primavera del 2018. Ma le esperienze degli ultimi decenni ci dicono che in sei anni possono sconvolgersi gli equilibri economici mondiali e di conseguenza la produzione di acciaio. Perché allora non introdurre una modifica al Dpcm che anticipi la conclusione dell’Aia dal 23 agosto del 2023 al 31 dicembre del 2019? O questa anticipazione avrebbe creato delle difficoltà alla cordata Am Investco (ora Arcelor Mittal Italia)? Un’altro quesito che del prof. Pirro, quanto mai di attualità nei nostri giorni era quello relativo alle aziende dell’indotto che a Taranto costituiscono – ma pochi lo sanno e ricordano  – il più grande raggruppamento di imprese impiantistiche del Sud, insieme a quello del polo petrolchimico di Augusta e Priolo in Sicilia. Perchè vengono coinvolte nelle attività dello stabilimento dalla nuova proprietà, che poi non le paga ? Il silenzio ufficiale sull’argomento è assordante, così come sono assordanti nelle ultime ore le futili motivazioni dell’ Ad Lucia Morselli (che prima o poi dovrà chiarire i suoi intercorsi rapporti con Di Maio quando era ministro dello Sviluppo Economico) per le quali ad oggi Arcelor Mittal ha cumulato debiti nei confronti dell’indotto per circa 60 milioni di euro. Certo, quelle aziende avrebbero dovuto e potuto diversificare le loro attività, riqualificarsi, aggregarsi, spostarsi su altri mercati anche esteri, ove potrebbero – con il sostegno del nuovo Ice, del ministero degli Esteri e di grandi gruppi pubblici e privati presenti in certe aree – acquisire in logiche di mercato commesse anche di rilevanti dimensioni, purché eseguibili in gruppi integrati. Ma non lo hanno fatto preferendo restare  aziende “mono ILVA“, che è la ragione per cui in queste ore rischiano di dover portare i libri in Tribunale, se il gruppo franco-indiano non dovesse onorare i propri debiti.

Paolo Colonnello e Monica Serra per “la Stampa” il 20 novembre 2019. Magazzini di scorte quotate oltre 500 milioni di euro ora semivuoti, triangolazioni con i paradisi fiscali e il sospetto di fatture gonfiate per l' acquisto delle materie prime: è una pistola puntata alla tempia dei vertici di Arcelor Mittal la doppia inchiesta aperta dalla procura di Milano che ieri ha già visto i primi effetti con una raffica di perquisizioni e sequestri avvenuti nell' impianto di Taranto, nella sede commerciale e finanziaria di Ilva e in quella legale di Mittal a Milano e nella sede della Deloitte & Touche che si occupa della revisione dei bilanci. La novità è che, oltre all' indagine per false comunicazioni al mercato e una distrazione post fallimentare per il depauperamento delle risorse, e oltre all' inchiesta di Taranto per danneggiamento degli altoforni e appropriazione indebita, i magistrati milanesi hanno aperto contemporaneamente anche un fascicolo per omessa dichiarazione al fisco a carico di una società lussemburghese di trading del gruppo Arcelor per l'annualità fiscale dal 2013 al 2014. La società, secondo gli inquirenti, pur operando in Italia, avrebbe cominciato a versare le tasse solo nel 2015 e avrebbe avuto un ruolo anche nella più recente gestione di Ilva. Per quanto riguarda invece il primo fascicolo, ovvero il depauperamento dei beni dell' acciaieria e le false comunicazioni al mercato, i pm stanno mettendo a confronto perfino i costi di acquisto delle materie prime nell' ipotesi che siano state gonfiate delle fatture per l' acquisto dei materiali. Come rivela l'ordine di esibizione firmato dai pm milanesi e presentato dalla Gdf a Ilva: «Occorre acquisire - scrivono - tutta la documentazione afferente ai rapporti intrattenuti dalla società Ilva Spa in a. s. con il fornitore brasiliano Cia Italo Brasileira de Peltizacao Ita-Brasco, nonché con gli altri fornitori e soggetti rilevanti in ordine all' acquisizione di materie prime e altri beni da parte di Ilva». Il dubbio è che il materiale ferroso della società brasiliana - storica fornitrice di Ilva che ne detiene una quota rilevante - con l'arrivo di Mittal abbia subito un ulteriore passaggio di vendita attraverso una controllata del gruppo franco indiano con sede in Olanda. In pratica, se prima il Brasile vendeva direttamente a Taranto, con Mittal si aggiunge il passaggio di Amsterdam che, ipotizzano i pm, giocando sul regime fiscale agevolato, avrebbe infine gonfiato i prezzi poi praticati a Ilva. A finire nel mirino degli uomini della Guardia di Finanza, coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e sotto la supervisione del procuratore Francesco Greco, ci sono ben sei società che compongono la galassia Mittal in Italia e la Deloitte & Touche, che si è occupata dei bilanci. I pm, in attesa di costituirsi all' udienza civile del 27 novembre in tribunale (e dove vuole costituirsi anche la Regione Puglia), intendono ricostruire la catena di comando fino ad arrivare all' attuale ad Lucia Morselli prima di procedere a eventuali iscrizioni. Allo stato però non ci sono ancora indagati e ci vorranno dei giorni prima che i magistrati controllino tutta la documentazione sequestrata ieri. E tutto ciò potrebbe dare spazio e respiro alla trattativa che venerdì dovrebbe riprendere tra il governo e la società di mister Lakshmi Mittal, leader mondiale degli acciai, con un fatturato di 80 miliardi all' anno. Un tavolo difficile dove siederà anche un "player" silenzioso, sebbene auspicato dai commissari governativi dell' Ilva, come la Procura di Milano. Che ieri ha precisato i reati per i quali procede: da una parte aggiotaggio informativo, per almeno una decina di presunte false comunicazioni emesse nel corso dell' ultimo anno sul mercato della Borsa di Parigi e Madrid e di riflesso su quello milanese. Comunicati stampa che avrebbero fornito indicazioni diverse rispetto alla reale gestione dell' ex Ilva. Dall' altra la violazione dell' articolo 232, comma 2, della legge fallimentare che riguarda chi «essendo consapevole dello stato di dissesto dell' imprenditore, distrae o ricetta merci o altri beni dello stesso o li acquista a prezzo notevolmente inferiore al valore corrente, se il fallimento si verifica». Reato che prevede fino a cinque anni di carcere.

Perquisizioni e sequestri nelle sedi di ArcelorMittal. Tra le accuse anche la "omessa dichiarazione dei redditi". Il Corriere del Giorno il 19 Novembre 2019. L’intervento delle Fiamme Gialle è stato disposto Procura della repubblica di Taranto nell’ambito dell’inchiesta gestita direttamente dal procuratore capo Capristo affiancato dall’aggiunto Carbone ed dal pm Mariano Buccoliero, avviata dopo l’esposto presentato dai commissari dell’ex Ilva. Perquisizioni e sequestri documentali sono in corso negli uffici di Taranto di Arcelor Mittal Italia da parte dei finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza, guidati dal tenente colonnello Marco Antonucci, a seguito della disposizione emanata dalla Procura della repubblica di Taranto,  nell’ambito dell’inchiesta avviata dopo l’esposto presentato dall’ Avv. Angelo Loreto su delega dei commissari dell’ex Ilva in Amministrazione Straordinaria  . A Milano le Fiamme Gialle stanno effettuando acquisizioni documentali negli uffici milanesi della società controllata dal gruppo franco indiano quotato alla Borsa di Amsterdam. E nella lista dei reati contestati ne spunta un altro: omessa dichiarazione dei redditi. Il fascicolo d’indagine è gestito direttamente dal procuratore capo Carlo Maria Capristo affiancato dall’aggiunto Maurizio Carbone e dal pm Mariano Buccoliero,  indagano per appropriazione indebita e distruzione dei mezzi di produzione. Un altro filone delle indagini è invece nelle mani della procura di Milano, che indaga invece per “false comunicazioni al mercato“, “distrazione di beni da fallimento” e sta valutando anche l’ipotesi di eventuali reati tributari. Tra i documenti contabili che la Guardia di Finanza di Taranto sta acquisendo  anche in forma digitale, vi sono quelli che riguardano l’acquisto delle materie prime e la vendita dei prodotti finiti, considerando le ingenti perdite segnalate dalla multinazionale rispetto alla gestione commissariale.

Il filone della Procura di Taranto. L’indagine della Procura di Taranto in cui si ipotizzano i reati di “Distruzione di mezzi di produzione” e “Appropriazione indebita”, sfociata oggi in una ispezione della Guardia di Finanza (con acquisizione di documenti) negli uffici dello stabilimento ArcelorMittal di Taranto, punta ad appurare se sia in corso o meno un “depauperamento” del ramo d’azienda che la multinazionale franco-indiana vuole retrocedere. Nel ricorso presentato dai commissari di Ilva in Amministrazione Straordinaria si evidenzia che la situazione di impianti, magazzini e portafoglio clienti non è più uguale a quella di quando il polo siderurgico è stato consegnato ad ArcelorMittal Italia. Le modalità affrettate di restituzione rischiano di causare danni irreparabili al ciclo produttivo e di distruggere l’azienda, anche se proprio ieri sera la multinazionale ha comunicato la sospensione della procedura di fermata degli impianti in attesa della sentenza del Tribunale di Milano. Le verifiche degli inquirenti riguardano anche le comunicazioni date dall’azienda a partire dallo scorso 4 novembre e l’impatto che possono aver avuto sull’andamento del mercato internazionale dell’acciaio.

L’indagine della Procura di Milano. C’è anche la contestazione di omessa dichiarazione dei redditi tra quelle contestate dalla Procura di Milano nell’ambito dell’indagine aperta venerdì scorso su ArcelorMittal e il suo tentativo di sciogliere il contratto di affitto dell’ex Ilva.  Finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano, si sono presentanti oggi a metà mattinata in via Brenta, negli uffici di AmInvestco, la società utilizzata dal gruppo ArcelorMittal per l’affitto di Ilva, con un decreto di sequestro e stanno effettuando non solo acquisizioni ma anche perquisizioni con i sequestri di documenti e supporti informatici. Acquisizioni sono in corso anche nella sede di Ilva in A.S. in viale Certosa nel capoluogo lombardo. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Stefano Civardi e Mauro Clerici, nel fascicolo aperto nei giorni scorsi, contestano presunte false comunicazioni al mercato, ossia l’aggiotaggio informativo, e anche il reato previsto dall’articolo 232 della legge fallimentare, ossia la distrazione di beni e risorse senza il concorso del fallito e dopo un fallimento, quello in questo caso che ha riguardato l’ILVA negli anni scorsi.  La legge, infatti, punisce “con la reclusione da uno a cinque anni chiunque, dopo la dichiarazione di fallimento, fuori dei casi di concorso in bancarotta o di favoreggiamento, sottrae, distrae, ricetta ovvero in pubbliche o private dichiarazioni dissimula beni del fallito”. In sostanza, gli inquirenti puntano a verificare se dirigenti e manager del gruppo con le loro condotte abbiano sottratto e distratto beni e risorse dall’ILVA fallita, dopo che hanno iniziato a gestirla col contratto d’affitto, contratto da cui hanno chiesto di recedere dando anche l’avvio alla causa civile. La contestazione di aggiotaggio informativo, invece, si concentra su alcuni comunicati stampa diffusi da ArcelorMittal e che avrebbe comprato degli effetti sul mercato azionario, ed anche in questo caso sui mercati esteri essendo la capogruppo dell’azienda franco indiana quotata Borsa di Amsterdam. Intanto, nell’ufficio del pm Civardi gli inquirenti stanno ascoltando persone informate sui fatti, proseguendo l’attività già iniziata ieri con l’ascolto di dirigenti dell’amministrazione straordinaria dell’ex ILVA. La notizia delle perquisizioni è stata confermata da ArcelorMittal. “L’azienda – si legge in una nota – conferma la presenza della Guardia di Finanza negli uffici di Milano e nello stabilimento di Taranto di ArcelorMittal Italia e sta collaborando fornendo le informazioni richieste“. Tutto quanto adesso è al vaglio degli investigatori della Guardia di Finanza e già nelle prossime ore potrebbero arrivare dei clamorosi risvolti. A partire dal far chiarezza sull’eventuale rapporto intercorso di consulenza-collaborazione fra l’attuale Ad di Arcelor Mittal Italia, Lucia Morselli ed il leader del M5S Luigi Di Maio quando quest’ultimo ricopriva il triplice incarico di vicepremier, ministro dello Sviluppo Economico e ministro del lavoro nel 1° Governo Conte.

Francesco Casula per ilfattoquotidiano.it il 19 novembre 2019. Sono entrati poco dopo le 10 i finanzieri di Taranto e Milano negli uffici dello stabilimento ex Ilva e nella sede di ArcelorMittal in via Brenta, nel capoluogo lombardo. I militari delegati dalle due rispettive procure hanno passato al setaccio materiale cartaceo e dispositivi elettronici alla caccia di una serie di documenti della contabilità di ArcelorMittal per verificare le questioni sollevate dai commissari straordinari nei palazzi di giustizia. In particolare gli investigatori delle fiamme gialle tarantine, guidati dal tenente colonnello Marco Antonucci, hanno sequestrato i documenti di acquisto delle materie prime e quelli di vendita dei prodotti finiti nei periodi di gestione di ArcelorMittal e in quelli della precedente gestione commissariale: l’obiettivo è quello di comprendere come sia stato possibile che in soli 12 mesi ArcelorMittal Italia abbia accumulato il doppio delle perdite rispetto a quelle certificate dai commissari. I reati ipotizzati dal procuratore capo Carlo Maria Capristo, l’aggiunto Maurizio Carbone e il pm Mariano Buccoliero sono distruzione di mezzi di produzione e di appropriazione indebita.

Il fronte milanese: l’ipotesi della "crisi pilotata". A Milano l’aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Stefano Civardi, che in mattinata ha sentito come persone informate sui fatti due dirigenti dell’area commerciale di ArcelorMittal, e Mauro Clerici si stanno concentrando sull’aggiotaggio informativo, ossia alle presunte false comunicazioni al mercato negli ultimi 3 mesi, e la distrazione di beni del fallimento in relazione al magazzino (valore 500 milioni) ‘scomparso’ secondo i commissari. In sostanza, l’ipotesi è quella di una “crisi pilotata” per lasciare solo “macerie” dell’acciaieria, come ipotizzato dai commissari nel ricorso d’urgenza presentato al Tribunale civile di Milano. Un fascicolo a parte riguarda l’omessa dichiarazione dei redditi di una società del gruppo con sede in Lussemburgo.

Le verifiche su materie prime e prodotti finiti. L’ipotesi al vaglio degli investigatori di Taranto è invece che la multinazionale dell’acciaio abbia operato con una serie di escamotage per far lievitare le perdite. I finanzieri dovranno accertare se davvero c’è stata una svendita a prezzi eccessivamente bassi dei prodotti finiti presenti nei magazzini dell’Ilva: acciaio che sarebbe stato venduto a società del gruppo a prezzi bassissimi, particolarmente fuori mercato. Le società del gruppo poi li avrebbero rimessi sul mercato a prezzi regolari. Al contrario andrà invece fatta la verifica per le materie prime: carbone e minerale di ferro, infatti, sembrerebbero essere state acquistate a prezzi più alti di quanto non facessero i commissari. In questo modo, secondo quanto ipotizzato in queste ore, ArcelorMittal Italia avrebbe segnalato perdite maggiori mentre il gruppo non ne risulterebbe per nulla danneggiato, anzi. Non solo: un faro è acceso anche sulle quantità acquistate negli ultimi mesi per comprendere se queste siano state sufficienti per consentire agli impianti di marciare in maniera regolare e senza essere danneggiati. Tutto da verificare, insomma. I prezzi degli uni e degli altri dovranno chiaramente essere confrontati con le oscillazioni di mercato, i prezzi di acquisto di altre società che operano nel mercato dell’acciaio per comprendere se siano state scelte obbligate oppure se davvero queste operazioni facessero parte di quel disegno “preordinato” che secondo i commissari mira a chiudere la fabbrica di Taranto.

La nuova delega ai carabinieri del Noe. Nell’esposto firmato dal l’avvocato Angelo Loreto che ha dato il via a un’indagine contestando i reati di distruzione di prodotti o industriali o di mezzi di produzione che danneggerebbero l’economia italiana e l’appropriazione indebita. L’esposto oltre a ripercorrere i fatti salienti descritti nel documento arrivato ai giudici milanesi, sottolinea come i commissari, nei giorni scorsi, avessero comunicato ad ArcelorMittal l’intenzione di effettuare una visita ispettiva nell’impianto di Taranto a cui la multinazionale avrebbe risposto che “essendo stato risolto il contratto con la comunicazione del 4 novembre 2019” non era più tenuta rispettare l’obbligo di garantire l’accesso ai commissari. A questo si aggiunge la “scomparsa” delle materie prime: al momento della presa in consegna dei rami d’azienda, secondo i commissari, Arcelor “ha ricevuto un magazzino del valore di circa euro 500 milioni” e ora si appresta a riconsegnare lo stabilimento senza giacenze e rifiutandosi “di procedere ad alcun ulteriore acquisto”. Un punto che potrebbe essere stato temporaneamente superato dalla comunicazione diffusa lunedì con la quale l’ad Lucia Morselli ha annunciato che la regolare ripresa delle attività e degli ordini commerciali in attesa di una definitiva decisione della Procura di Taranto. Tutto quanto, però, passerà ora al vaglio dei finanzieri e già nei prossimi giorni potrebbero arrivare clamorosi risvolti. Tenuto conto, tra l’altro, che i magistrati tarantini mercoledì delegherà i carabinieri del Noe a nuove indagini riguardanti le operazioni di bonifica, la situazione dello stabilimento, le attività di manutenzione finora eseguite e la sicurezza sul lavoro.

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 20 novembre 2019. ArcelorMittal aveva deciso già sei mesi fa, all' inizio dell' estate, di andare via da Taranto. Tanto da mettere in pratica una serie di atti - un rallentamento degli acquisti, le mancate manutenzioni - che andavano in questo senso. Sarebbero questi i primi dati emersi dagli atti che ieri la Guardia di finanza ha sequestrato nella sede di ArcelorMittal e acquisito in quella di Ilva. In mano due decreti di perquisizione, firmati dalle procure di Milano e Taranto, che parallelamente stanno cercando di accertare cosa abbia portato il colosso franco indiano a cambiare radicalmente strategia industriale in poche settimane. E cioè, se davvero è stata la decisione del governo ad accelerare le cose o se invece l' obiettivo era «con la programmazione delle attività di chiusura, distruggere un tradizionale concorrente nel panorama della siderurgia europea e mondiale, al fine di alterare e falsare il mercato della concorrenza», così come scrivono i commissari dell' Ilva nel loro esposto. I finanzieri cercavano «documentazione inerente agli ordinativi di materie prime dai fornitori per verificare un' eventuale preordinazione della chiusura». In questo senso, le perquisizione ha avuto esito positivo. Da una prima lettura degli atti emergerebbe che, effettivamente, all' inizio del primo semestre del 2019 il volume degli ordini è calato. C' è però un fatto di cronaca da registrare: proprio a giugno l' allora governo giallo verde annunciò l' eliminazione dello scudo per poi reinserirlo. Per capire come stanno le cose, sarà però necessario aspettare le prossime settimane quando la Finanza presenterà alle due procure i primi risultati delle indagini. Nell'indagine del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dei pm Stefano Civardi e Mauro Clerici si ipotizzano reati di false comunicazioni sociali, distrazione dei beni fallimentari e omissione dei redditi. Tra gli aspetti monitorati l' andamento del titolo (salito dopo l' annuncio di dismissione) sui mercati esteri, che dunque accende una luce sull' attuale management e sulle comunicazioni fatte dall' amministratore delegato Lucia Morselli. Ma obiettivo della magistratura - sulla base della documentazione acquisita e dall' ascolto di alcuni testimoni che ieri sono stati ascoltati come persone informate sui fatti - è anche individuare chi ha deciso il cambio di strategia su Ilva. Uno scenario precipitato in un paio di settimane. Il 15 ottobre scorso, giorno in cui Lucia Morselli viene nominata ad di AcelorMittal in sostituzione di Matthieu Jehl, il ceo di AM Europa parla di «implementazione degli investimenti ambientali» e «miglioramento dei processi di produzione». La stessa Morselli si dice pronta a dare del suo «meglio per garantire il futuro dell' azienda». Repubblica , il 23 ottobre, racconta del piano di esuberi già pronto: - "Cinquemila persone via". Il giorno dopo l' azienda fa filtrare una secca smentita, per poi però mettere sul tavolo gli stessi dati. Di più: quando in estate Arcelor lancia il primo ultimatum: «O lo scudo, o andiamo via» lascia esterrefatti i manager italiani che poche ore prime erano stati a Taranto per raccontare dei progetti di sviluppo del siderurgico. In sintesi: il sospetto è che le decisioni vengano prese all' estero. E che la parte italiana è come saltata. Motivo per cui la Finanza dovrà ora capire attentamente se, ma soprattutto chi, ha messo in piedi «una strategia per cagionare un grave nocumento alla produzione nazionale», come prevede l' articolo 499 del codice penale, che prevede il carcere e pene fino a 12 anni. Nell' inchiesta sono però ipotizzati anche una serie di possibili reati societari e fiscali: è un fatto che Mittal comprasse materie prime da una società del gruppo, con sede in Olanda, probabilmente per assicurarsi vantaggi di natura fiscale. Ma sono da valutare anche le politiche dei prezzi, perché il sospetto - esplicitato anche dal Governo, con un' intervista a Repubblica del ministro Francesco Boccia - è che siano superiori a quelli del mercato. Mentre a prezzi più bassi sarebbe stato venduto il prodotto finito, anche in questo caso attraverso una società del gruppo con sede in Lussemburgo. Se il meccanismo fosse provato dagli atti sequestrati, si capirebbe il motivo per cui Ilva perde due milioni al giorno.

La Morselli "commissariata" a Roma dalla famiglia Mittal. Ora rischia anche lei il posto. Il Corriere del Giorno il 21 Novembre 2019. Alcune voci  circolanti già dalla settimana scorsa provenienti dagli uffici di Londra del gruppo Arcelor Mittal da Londra stavano accarezzando l’idea di mettere in disparte la Morselli se non di darle addirittura il benservito mandandola a casa dopo meno di un mese dalla sua nomina avvenuta nel pieno di una vertenza delicatissima che ha fatto scendere in campo magistrati di “peso”, quali appunto i  due  capi delle procure di Milano e Taranto, e persino il Presidente della Repubblica Mattarella. Aditya Mittal anche ieri è rimasto a Roma  per continuare la trattativa con il Governo in preparazione dell’incontro a Palazzo Chigi di venerdì, ma sopratutto per condividere con gli avvocati italiani del gruppo  la propria difesa per difendersi dell’offensiva congiunta delle procure. C’è, in questa decisione di restare a Roma, però anche una sorta di “commissariamento” dell’ad del gruppo in Italia Lucia Morselli. È trascorso poco più di un mese, dal 15 ottobre quando la multinazionale ha deciso un improvviso cambio alla guida del gruppo in Italia, affidando la guida alla top manager nota per il suo carattere  di “dura”. Troppo d’acciaio, forse. Di certo da quel dì la situazione è precipitata. La Morselli aveva l’incarico di intrecciare rapporti con i politici e le istituzioni in modo da evitare quello che il colosso temeva più di tutto: l’abolizione definitiva dello scudo penale. Obiettivo fallito: l’immunità, è ancora “sub judice” sulla graticola delle lotte interne e dei rancori presenti fra le correnti del Movimento Cinquestelle. E la Morselli non è riuscita ad ottenere alcunchè dalla politica. In queste ore infatti, continua il lavoro dei “tecnici”dei ministeri coinvolti  sugli altri punti di un possibile accordo: sconto sull’affitto, risoluzione del blocco dell’altoforno AFO2 ed impegni sulla futura decarbonizzazione. L’ipotesi comunque resta sul tavolo del negoziato. A ogni modo da Londra, dove Mittal padre e figlio vivono e di fatto controllano tutto quello che accade nelle aziende del gruppo distribuite nei 60 paesi nel mondo in cui sono presenti con le loro fabbriche, non avrebbero per niente condiviso il “muro contro muro”  messo in atto dalla Morselli negli incontri avuti con gli esponenti del Governo italiano e con i commissari straordinari, ma anche con i sindacati ed i lavoratori. La folle decisione presa dalla Morselli di non fare entrare i commissari di ILVA in A.S. (che peraltro al momento è la reale proprietà del Gruppo ILVA) all’interno dello stabilimento siderurgico in azienda sarebbe stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza degli indiani. E’ da quel momento che la battaglia legale è salita di tono con il durissimo ricorso d’urgenza dei commissari, sostenuti dal premier Conte in tale decisione, dinnanzi al Tribunale civile di Milano, l’esposto penale presentato alla Procura di Taranto e l’indagine “finanziaria” avviata dal pool economico-finanziario della Procura di Milano  e tutto quello che ne è conseguito con l’arrivo delle Fiamme Gialle spedite negli uffici di Taranto e Milano dalle due procure che stanno lavorando in piena sintonia e stretto contatto. E tutto ciò ha portato ad un serio ripensamento dei Mittal. I commissari straordinari dell’ILVA in A.S. accompagnati da dirigenti e tecnici, hanno avuto accesso ieri e compiuto delle  verifiche in particolare nell’area dei parchi minerali, dove vengono stoccati i materiali che servono ad alimentare l’attività della fabbrica. Da quanto è trapelato da fonti “vicine” alla gestione commissariale di ILVA in A.S., l’ispezione compita avrebbe sostanzialmente confermato quanto ipotizzato nell’esposto presentato alla Procura di Taranto che ha dato luogo all’apertura da parte della procura di un fascicolo di inchiesta sulle ipotesi di reati di "Distruzione di mezzi di produzione" e di "Appropriazione indebita". Subito dopo la visita i commissari hanno incontrato il procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo. Alcune voci  circolanti già dalla settimana scorsa provenienti dagli uffici di Londra del gruppo Arcelor Mittalda Londra stavano accarezzando l’idea di mettere in disparte la Morselli se non di darle addirittura il benservito mandandola a casa dopo meno di un mese dalla sua nomina avvenuta nel pieno di una vertenza delicatissima che ha fatto scendere in campo magistrati di “peso”, quali appunto i  due  capi delle procure di Milano e Taranto, e persino il Presidente della Repubblica Mattarella, hanno indotto i Mittal  per il momento di “commissariare” la Morselli riprendendo in mano la trattativa sotto il controllo diretto della famiglia Mittal . Chiaramente dal gruppo smentiscono : “Non esiste alcun disaccordo tra mister Mittal e l’ad Lucia Morselli, che gode della piena fiducia e supporto dell’azionista con il quale collabora proficuamente” riferiscono le solite fonti bene informate, che però non sono mai “ufficiali”…La Morselli ha trascorso ieri tutta la giornata nella Capitale con il chiaro intento  di apparire  “produttiva” sopratutto nella considerazione degli azionisti assumendo un suo inedito ruolo di mediatrice. Infatti quando a metà mattinata si sono presentati gli uomini della Guardia di Finanza presso lo stabilimento siderurgico di Taranto, è toccato ad altri dirigenti accoglierli con una comprensibile agitazione e tensione. L’amministratrice delegata nonostante tutto ciò è riuscita a fare anche un altro “danno”. Infatti ha convocato per venerdì i vertici sindacali a Roma per andare avanti nella procedura di retrocessione dell’organico, fissando questo incontro proprio nello stesso giorno, cioè venerdì prossimo,  cioè quando si svolgerà l’incontro a Palazzo Chigi fra il il premier Conte ed i Mittal. La Morselli ha ricevuto un secco rifiuto da parte di Fiom, Fim ed Uilm, i quali non si recheranno al tavolo, supportati anche dai commissari straordinari di ILVA in A.S, i quali attraverso una nuova lettera di diffida inviata dall’ avv. Angelo Loreto ad Arcelor Mittal Italia, li ha diffidati a procedere nel recesso in quanto “privo di qualsiasi fondamento giuridico”. In uno scenario di di mosse e contromosse legali, la giornata ha portato una sola novità positiva: Arcelor Mittal Italia ha riaperto i canali di contatto degli uffici amministrativi, cominciando a pagare le imprese dell’indotto, incontrando Confindustria Taranto a cui sarebbe stato garantito il pagamento del 70% di tutte le fatture da pagare. L’Ilva in amministrazione straordinaria presenterà entro questa settimana una richiesta di proroga all’autorità giudiziaria di Taranto  del precedente termine del 13 dicembre fissato dal Tribunale per la realizzazione degli adeguamenti di sicurezza dell’Altoforno AFO2 sottoposto a sequestro dopo l’incidente del giugno 2015 in cui è morto l’operaio Alessandro Morricella. Fonti vicine alla gestione commissariale confermano che non ci sarebbe alcun “automatismo” tra il termine del 13 dicembre e la chiusura dell’altoforno in quanto prima di avviare eventualmente lo spegnimento bisognerà compiere le verifiche necessarie che richiedono dei tempi tecnici. La gestione commissariale, infatti, avrebbe già realizzato 20 delle 21 prescrizioni indicate dall’Autorità Giudiziaria. L’ ultima, la ventunesima, riguarda la realizzazione delle macchine automatiche, è quella tecnicamente più complessa e richiede ancora tempo. La proroga verrà richiesta per rendere possibile il completamento dell’ultimo adempimento non ancora del tutto realizzato. Sul fronte dell’ inchiesta avviata dalla Procura di Milano, il pm di Milano Stefano Civardi, che insieme al collega Mauro Clerici coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, conducono l’indagine con al centro l’addio di ArcelorMittal all’ex Ilva, ha sentito come testimone Steve Wampach, General Banager del gruppo franco indiano e Direttore Finance di ArcelorMittal Italia. Da quanto è trapelato, le indagini degli inquirenti milanesi in questi giorni si stanno concentrando sul presunto depauperamento del polo siderurgico per depositare i primi esiti dei loro accertamenti nell’ambito della causa civile nella quale interverranno come “parte” a sostegno dei commissari. Un alleato di non poco conto. Nel frattempo si è è svolto oggi un nuovo incontro “tecnico” al Ministero dell’ Economia e Finanze. Sul tavolo il ruolo delle società a partecipazione pubblica che il Governo vuole coinvolgere nel salvataggio dello stabilimento siderurgico di Taranto. Iniziando da quelle che hanno rapporti con ILVA in qualità di ” clienti”, come  ad esempio Fincantieri, ed i e fornitori. La Cassa depositi e prestiti ha già rivolto un invito alle sue società partecipate di cominciare a ragionare delle iniziative da poter mettere in campo per  investire rapidamente sul territorio nell’ambito del “Cantiere Taranto”.  

Per favorire una mediazione fra l’atto di recesso e il ricorso d’urgenza per indurre Arcelor Mittal a recedere dai suoi propositi, sono stati attivati studi legali di altissimo livello, tutti nomi di “grido” del diritto societario ed industriale,  che hanno partecipato al  vertice del Mef , in un incontro che ha avuto lo scopo anche di stemperare le tensioni pre-esistenti causate anche dall’ eccessiva “durezza” fuoriluogo della Morselli, ed aperto la strada ad un possibile negoziato. Ad assistere i commissari di ILVA in AS sono stati chiamati Marco Annoni di Roma, esperto di piani finanziari, Giorgio De Nova, ritenuto un “luminare” del diritto civile, ed Enrico Castellani dello studio Freshfield; ad assistere Arcelor Mittal l’ avv.  Scassellati con Ferdinando Emanuele dello studio Cleary Gottlieb, e Franco Gianni, senior partner dello studio Gianni Origoni Grippo Cappelli & partners,  consulenti legali che stanno stendendo da ieri una  dichiarazione di intenti basata sui punti qualificanti del contenzioso per costituire una nuova base negoziale. Sono quattro i punti-guida cardine del documento lungo diverse pagine e redatto in inglese. Il punto 1 sarebbe quello sulla certezza del diritto mediante il ripristino dello “scudo penale“. Il punto 2 riguarda la funzionalità dell’Altoforno AFO2, che dovrebbe venire svincolato dalla “mannaia” giudiziaria” per poter tornare a produrre a regime; il punto 3 riguarda le misure “a supporto del rilancio del territorio mediante una combinazione pubblico-privato per creare condizioni di lavoro sostenibili”. Quest’ultimo è uno dei passaggi più delicati in quanto necessita di circa 1 miliardo di investimenti: ed è in questo ambito che il governo avrebbe allertato Banca Intesa Sanpaolo che  è il principale creditore dell’ ILVA in amministrazione straordinaria, debitrice della non indifferente somma di 1,7 miliardi nei confronti del pool creditizio formato da sette banche. I banchieri avrebbero dato disponibilità a esaminare un progetto concreto, contenente sopratutto obiettivi raggiungibili ed in presenza di queste condizioni Intesa Sanpaolo sarebbe disposta persino a rafforzare il proprio impegno. Infine, il punto 4 riguarda la tecnologia verde legata alla riconversione del piano ambientale che comporta una sensibile riduzione della forza lavoro, che potrebbe venire assorbita dalla Cassa Depositi e Prestiti attraverso delle misure compensative, schierando Cdp Immobiliare società del gruppo attiva nell’housing sociale, i cui immobili di proprietà potrebbero accogliere gli sfollati residenti nel rione Tamburi, adiacente lo stabilimento siderurgico. Fonti di Palazzo Chigi fanno trapelare che il premier Giuseppe Conte, ieri a Berlino, ha sondato la disponibilità della cancelliera Angela Merkel a supportare l’Italia nel risolvere la “questione Taranto” almeno su due fronti europei: l’impiego di fondi comunitari per l’occupazione e per l’innovazione, ed il via libera a un eventuale ingresso dello Stato nell’azionariato del gruppo siderurgico ex-ILVA.

In corso l'incontro fra il Governo e Mittal. Ma nel frattempo escono tante sorprese...Il Corriere del Giorno il 22 novembre 2019.

ESCLUSIVA:L’ATTO INTEGRALE DELLA PROCURA DI MILANO. Il premier Giuseppe Conte a margine dell’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola superiore di Polizia “Non possiamo accettare un disimpegno dagli impegni contrattuali. Ci venga detto chiaramente qual è la posizione di Mittal e da lì partiremo. Se ci viene garantita la possibilità di rispettare gli impegni, ricordo che non abbiamo proposto noi la battaglia giudiziaria, che è stata promossa da Mittal”. Arcelor Mittal “rispetta il piano ambientale. Questo va detto. Tanto è vero che lo scudo non ha nessun senso per il semplice motivo che sta rispettando quello che doveva fare. Quindi dal punto di vista ambientale lo sta rispettando. Poi è chiaro che noi chiediamo di più“. Queste le dichiarazioni ad “Agorà” su Rai3 pronunciate dal ministro dell’Ambiente di Sergio Costa,  sulla questione dello scudo penale per gli attuali “gestori” del gruppo siderurgico ex-ILVA.  i commissari dell’ILVA in amministrazione straordinaria. Le verifiche hanno riguardato la situazione generale della fabbrica, le attività di manutenzione finora eseguite e la sicurezza sul lavoro e le operazioni di bonifica nello stabilimento. Accertamenti ed indagini a cui collaborano anche i tecnici Ispra. Le attenzioni dei Carabinieri di Roma e Taranto si  è concentrata su “un attento controllo dell’area a caldo“.  L’indagine affidata ai militari dell’ Arma mira ad appurare se vi sia stato un depauperamento delle materie prime, se sono state eseguite manutenzioni o se gli impianti rappresentano un pericolo per i lavoratori, poi una verifica complessiva di parchi minerali, nastri trasportatori, cokerie, agglomerato, altiforni e acciaierie in generale. La Procura di Milano a sua volta ha depositato oggi l’atto di intervento nella causa civile fra il gruppo franco-indiano e i commissari di  ILVA in A.S. inerenti al procedimento con cui i commissari chiedono di evitare la cessazione delle attività.  nell’ambito dell’indagine per aggiotaggio informatico e reati fallimentari. Negli uffici della procura milanese sono stati ascoltati come “testimoni” Giuseppe Frustaci, direttore Finishing degli impianti di Genova e Novi Ligure, Sergio Palmisano, direttore Salute e Sicurezza, e Salvatore De Felice. Alcuni passaggi dei loro verbali sostanziano con la viva voce di uomini dell’azienda le accuse avanzate dai commissari straordinari Franco Ardito, Alessandro Danovi ed Antonio Lupo nell’esposto alla Procura di Taranto e nel ricorso al Tribunale civile di Milano. “I manager esteri sostenevano che per l’attuale ‘marcia’ degli impianti (cioè la produzione di 6 mln di tonnellate di acciaio n.d.r.), la qualità delle materie prime fosse troppo alta e che occorresse utilizzarne di qualità inferiore per abbattere i costi“. E’ quanto emerge da un passaggio della deposizione resa ai Pm di Milano , da Giuseppe Frustaci, dirigente di ArcelorMittal Italia . Il verbale contenente questa dichiarazioni sono allegati all’atto di intervento della Procura nel contenzioso civile tra la multinazionale franco-indiana e l’ex ILVA.  L’ad di Arcelor Mittal Lucia Morselli “ha dichiarato ufficialmente in un incontro ai primi di novembre con i dirigenti e i quadri” e che “erano stati fermatigli ordini, cessando di vendere ai clienti”.

In un altro passaggio di un verbale si legge: “In più riunioni tenute da settembre ad oggi sia il precedente amministratore delegato Mathieu Jehl, sia il nuovo amministratore delegato Lucia Morselli, hanno dichiarato che la società aveva esaurito la finanza dedicata all’operazione”  dichiarazioni queste messe a verbale lo scorso 18 novembre da un dirigente della stessa ILVA  che è stato ascoltato come “testimone” dai pm di Milano. “C’è massima collaborazione fra la Procura di Milano e quella di Taranto”  ha detto il procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli che con i pm Stefano Civardi e Mauro Clerici coordina l’inchiesta con al centro la richiesta di recesso del contratto di affitto dell’ex ILVA da parte di ArcelorMittal, su cui è aperto, sotto profili diversi, un fascicolo anche dalla magistratura tarantina. Insomma nessuno scontro, ma una cooperazione totale con anche scambi di informazioni. Infatti  vi è stato uno scambio di atti istruttori  tra le Procure di Taranto e Milano che hanno avviato indagini parallele sul caso ArcelorMittal, come riferiscono fonti di giustizia,  aggiungendo che “c’è pieno coordinamento e piena sintonia tra le due Procure nell’ambito dei rispettivi filoni investigativi. Non c’è alcun conflitto“. L’indagine milanese ipotizza i reati di “distrazione di beni dal fallimento” e di “aggiotaggio informativo“, oltre ad un fascicolo autonomo per “omessa dichiarazione dei redditi” di una società lussemburghese di ArcelorMittal. I magistrati tarantini a loro volta indagano per i reati di “distruzione di mezzi di produzione” ed  “appropriazione indebita”.   

Sempre nell’atto di intervento della Procura di Milano nella causa civile tra ArcelorMittal e l’ILVA in A.S. si legge: “Evidentemente lo stato di crisi di ArcelorMittal Italia, essendovi pericolo di diminuzione delle garanzie patrimoniali per il risarcimento di eventuali danni, rende ancor più necessaria ed urgente una pronuncia giudiziale che imponga alle affittuarie di astenersi dalla fermata degli impianti e di adempiere fedelmente e in buona fede alle obbligazioni assunte”.  Secondo la Procura di Milano “la vera causa della disdetta” del contratto d’affitto dell’ex ILVA da parte di ArcelorMittal è “riconducibile alla crisi di impresa” della multinazionale franco-indiana ed alla conseguente volontà di disimpegno dell’imprenditore estero e non è invece il “venir meno del così detto scudo ambientale abrogato” che è stato utilizzato come motivo “pretestuosamente“. In altre parole  come dichiarato da alcuni testimoni e come riportano i pm nell’atto di accusa, “la vera causa della disdetta, pretestuosamente ricondotta al venir meno dello scudo ambientale è eziologicamente riconducibile alla crisi di impresa e alla conseguente volontà di disimpegno dell’imprenditore estero”. A confermare la grave crisi del colosso sono state le parole  di Claudio Sforza direttore generale della ex ILVA ascoltato anch’egli come “teste” dai pm di Milano. “A questi incontri — ha riferito Sforza — era presente anche Samuele Pasi e i tre attuali commissari“, precisando che l’ultimo incontro si è tenuto il 17 ottobre nello studio milanese del commissario Alessandro Danovi. Aggiunge il testimone Sforza “non solo l’affermazione di aver esaurito la finanza non è usuale in incontro tra rappresentanti di due società, ma circostanza analoga è stata pure ufficialmente pubblicamente esposta il 15 novembre in sede di incontro sindacale tenuto alla presenza del ministro Patuanelli al Mise. Preciso che in questa occasione l’ad Morselli non ha parlato di crisi di finanza ma di disastrosa crisi economica“.

Sempre dalle carte della Procura emerge anche un altro inquietante aspetto: quello sull’affitto non pagato Arcelor Mittal . “Il canone di affitto di ramo  d’azienda è trimestrale anticipato per ratei di 45 milioni di euro. L’ultima scadenza del 5 novembre non è stata onorata e stiamo quindi iniziando il processo di escussione della garanzia”. ha spiegato ai pm di Milano un dirigente dell’ILVA in amministrazione straordinaria ascoltato nell’ambito dell’inchiesta con al centro i comportamenti del gruppo franco-indiano. Così continuano le dichiarazioni verbalizzate:. “Nella prima riunione di febbraio del 2019, i manager esteri sostenevano che per l’attuale ‘marcia degli impianti‘ (vale a dire la produzione di 6 milioni di tonnellate di acciaio), la qualità delle materie prime fosse troppo alta e occorresse utilizzarne di qualità inferiore per abbatterne i costi”. Il testimone racconta: “i manager stranieri ricordo che furono molto critici sulla gestione, in quanto ritenevano che i costi industriali fissi (manodopera, manutenzione) e variabili (materie prime) fossero molto alti. Le critiche erano indirizzate soprattutto all’ad Jehl ed alla direzione dello stabilimento di Taranto (retto da Van Campe), entrambi uomini Arcelor Mittal‘“.

L’ad di Arcelor Mittal Lucia Morselli in un incontro “ai primi di novembre con “i dirigenti e i quadri”  di Taranto, ha dichiarato ufficialmente “che erano stati fermati gli ordini, cessando di vendere ai clienti“. Salvatore De Felice nel suo interrogatorio ha spiegato ai pm Civardi e Clerici lo scorso 19 novembre , che l’amministratore delegato Lucia Morselli “ha dichiarato ufficialmente  in un incontro ai primi di novembre con i dirigenti e i quadri” che erano stati fermati “gli ordini, cessando di vendere ai clienti”. De Felice in un altro passaggio del suo verbale , riportato nell’ atto di costituzione della Procura di Milano con cui aderiscono alla richiesta dei commissari nel contenzioso civile tra l’ex ILVA e il gruppo franco indiano,  ha anche aggiunto che ogni fermata di un altoforno “non è mai senza danni” spiegando che le cokerie sono “ancora più complicate e delicate perché eventuali danni hanno immediatamente un risvolto ambientale” in quanto le polveri del fossile finiscono nei “fumi di combustione con le relative emissioni”. Sempre De Felice ha raccontato che ArcelorMittal ha “cancellato” l’approvvigionamento delle materie prime” necessarie per alimentare l’acciaieria. Inoltre ha spiegato De Felice che “nonostante la sospensione del cronoprogramma di spegnimento, l’azienda  non ha tutto quello che serve per proseguire l’attività”. Il piano, che è stato arrestato da Arcelor Mittal su invito del Tribunale di Milano, “prevedeva di lasciare unascorta minima di materie prime solo per un altoforno per un mese”. Le dichiarazioni del dirigente di ArcelorMittal hanno confermato di fatto le denunce dei sindacati e l’allarme dei commissari straordinari dopo l’ispezione nell’acciaieria tarantina effettuata nei giorni scorsi. Infatti, all’uscita dall’impianto Ardito, Danovi e Lupo avevano riferito che le riserve di materie prime sono “al minimo” e che la fabbrica con quello stock a disposizione al momento può andare avanti soltanto per “un raggio di azione molto ridotto“. Sulla base di questi verbali e della previsione di circa 700 milioni di perdita nel 2019 verbalizata dal direttore finance Steve Wampach i magistrati della Procura di Milano sostengono che di fatto esista un serio “pericolo di diminuzione delle garanzie patrimoniali per il  risarcimento di eventuali danni” e quindi si “rende ancor più necessaria e urgente una pronuncia del giudice che imponga ad ArcelorMittal di astenersi dalla fermata degli impianti e di adempiere fedelmente al contratto firmato”. “Non possiamo accettare un disimpegno dagli impegni contrattuali – ha detto il premier Giuseppe Conte a margine dell’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola superiore di Polizia. a chi gli chiede dell’incontro, (attualmente in corso)  con i vertici di Arcelormittal   “Ci venga detto chiaramente qual è la posizione di Mittal e da lì partiremo. Se ci viene garantita la possibilità di rispettare gli impegni, ricordo che non abbiamo proposto noi la battaglia giudiziaria, che è stata promossa da Mittal”. “Se invece prosegue la battaglia – ha aggiunto il premier “noi reagiamo adeguatamente“.

Ex Ilva, nel 2019 ArcelorMittal perderà 700 milioni: 1,9 al giorno. Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. Nell’atto con cui la procura di Milano si schiera a fianco dei commissari straordinari dell’ex Ilva contro ArcelorMittal, i pm scrivono che dalle recenti testimonianze raccolte emerge come «la vera causa della disdetta» del contratto d’affitto dell’ex Ilva da parte di ArcelorMittal sia «riconducibile alla crisi di impresa» della multinazionale franco-indiana ed alla conseguente volontà di disimpegno dell’imprenditore estero e non, invece, il «venir meno del così detto scudo abrogato» utilizzato come motivo «pretestuosamente». Da un’altra deposizione, quella del dirigente di ArcelorMittal Italia Giuseppe Frustaci, «i manager esteri sostenevano che per l’attuale «marcia» degli impianti (vale a dire la produzione di 6 milioni di tonnellate di acciaio), la qualità delle materie prime fosse troppo alta e che occorresse utilizzarne di qualità inferiore per abbattere i costi». Un altro tema caldo è quello dell’affitto:«In più riunioni tenute da settembre a oggi, sia il precedente amministratore delegato Matthieu Jehl, sia il nuovo amministratore delegato Lucia Morselli hanno dichiarato che la società aveva esaurito la finanza dedicata all’operazione», ha dichiarato ai magistrati Claudio Sforza, direttore generale dell’Ilva in amministrazione straordinaria. «A questi incontri — ha aggiunto Sforza — era presente anche Samuele Pasi e i tre attuali commissari», precisando che l’ultimo incontro si è tenuto il 17 ottobre nello studio del commissario Alessandro Danovi. Per il testimone «non solo l’affermazione di aver esaurito la finanza non è usuale in incontro tra rappresentanti di due società, ma circostanza analoga è stata pure ufficialmente pubblicamente esposta il 15 novembre in sede di incontro sindacale tenuto alla presenza del ministro Patuanelli al Mise. Preciso che in questa occasione l’ad Morselli non ha parlato di crisi di finanza ma di disastrosa crisi economica». I magistrati riportano queste testimonianze per avvalorare la tesi secondo cui ArcelorMittal Italia non vuole esercitare il recesso perché è venuto a mancare lo scudo penale ma per ragioni economiche. «Il canone di affitto di ramo d’azienda è trimestrale anticipato per ratei di 45 milioni di euro. L’ultima scadenza del 5 novembre non è stata onorata e stiamo quindi iniziando il processo di escussione della garanzia», ha specificato al proposito ai pm di Milano un dirigente dell’Ilva in amministrazione straordinaria sentito nell’ambito dell’inchiesta con al centro ArcelorMittal.

Confusione giuridica e non rispetto dei contratti: così l’Ilva affonda. Roberto Righi il 23 Novembre 2019 su Il Dubbio. L’andirivieni del Parlamento sulla non perseguibilità legata all’azione di risanamento ambientale. Le vicende dell’Ilva di Taranto dal 2012 ad oggi sono emblematiche di come i pubblici poteri affrontino la crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, poiché questa è la classificazione di tali impianti siderurgici secondo gli artt. 1 e 3 del D. L. n. 207/ 12. È noto che la crisi dell’Ilva è stata avviata con il sequestro penale senza facoltà di uso disposto il 26 luglio 2012 dal Gip di Taranto: ma nonostante la gravità delle misure cautelari, anche personali, disposte dalla locale Autorità Giudiziaria non è ancora intervenuto alcun giudicato penale nemmeno di primo grado. Allo stesso tempo, la pericolosità della situazione sotto il profilo dell’inquinamento diffuso dovuto a tale impianto produttivo è confermata dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 24 gennaio 2019, resa su ricorsi diretti proposti da cittadini di Taranto e comuni limitrofi nel 2013 e nel 2015. La Corte ha condannato lo Stato italiano non solo al risarcimento dei danni ( nella misura simbolica di 5000 € a ricorrente), ma anche ad agire con i mezzi previsti dall’ordinamento interno in quanto “il piano ambientale approvato dalle autorità nazionali e recante l’indicazione delle misure e delle azioni necessarie ad assicurare la protezione ambientale e sanitaria della popolazione, dovrà essere messo in esecuzione nel più breve tempo possibile”. Ed infatti lo Stato, seppure con ritardo, ha agito con una e vera e propria congerie di atti legislativi e amministrativi che, dopo due significative sentenze della Corte Costituzionale, la n. 85 del 2013 e la n. 58 del 2018, le quali rappresentano dei veri e propri lit de justice nei confronti dell’autorità giudiziaria penale e del Parlamento, sembravano avere trovato una stabilizzazione, in una situazione nella quale i citati provvedimenti cautelari dell’autorità giudiziaria avevano determinato una irreversibile crisi finanziaria e produttiva di Ilva ed il suo conseguente commissariamento, disposto sino dal 2013. La prima di tali sentenze è particolarmente importante perché, avendo sollevato il Gip di Taranto molteplici questioni di costituzionalità del D. L. n. 207/ 12 che operava una sorta di dissequestro ex lege consentendo l’uso degli impianti, lo riconobbe pienamente legittimo. Ciò poiché «la ratio della disciplina censurata consiste nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute ( art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro ( art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso». Dunque è proprio da tale sentenza e dai principi da essa affermati, che è stato indirizzata la successiva legislazione sull’Ilva. Tuttavia ma con la maggioranza gialloverde questa tendenza è venuta meno e le cose non sono cambiate sostituendosi il rosso al verde. Da ciò le agitate vicende di questi giorni, che infatti nascono da lontano e cioè dal D. L. n. 1/ 15, il quale dichiarò «di pubblica utilità» l’attività di gestione commissariale dell’Ilva eseguita nel rispetto delle prescrizioni del piano di risanamento comprensivo dell’autorizzazione integrata ambientale previsto dall’art. 1 del D. L. n. 61/ 13 e approvato col D. P. C. M. del 14 marzo 2014. Conseguentemente prevedendosi che «le condotte poste in essere in attuazione del Piano di cui al periodo precedente non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario e dei soggetti da questo funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole in materia ambientale, di tutela della saluta dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro». Questa è dunque la nascita dello “Scudo penale”, strettamente collegato all’attuazione del piano che per essere stato approvato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, previa delibera di tale organo collegiale si caratterizza per essere un atto di alta amministrazione, perché proveniente dall’organo al vertice del governo della Repubblica nell’esercizio di una funzione amministrativa attribuitagli per legge. Nel frattempo, in esecuzione dell’art. 1 del D. L. n. 191/ 15, è stata svolta dai Commissari del Gruppo Ilva la gara internazionale a seguito della quale Arcelor Mittal si è aggiudicata il gruppo. Con il D. P. C. M. 29 settembre 2017 su proposta dell’aggiudicatario è stato approvato il nuovo piano di risanamento ambientale, il cui termine per l’esecuzione degli interventi è stato fissato al 23 settembre 2023 secondo il D. L. n. 244/ 16 e cioè corrispondente a quello dell’autorizzazione integrata ambientale in corso di validità. In altre parole, lo “Scudo penale” introdotto nel 2015 con modificazioni non significative sino a quelle intervenute nell’aprile 2019 avrebbe protratto i suoi effetti sino al 2023 e questa situazione giuridica è stata presupposta ed espressamente contemplata dal contratto di affitto del Gruppo Ilva ad Arcelor Mittal, prevedendosi la possibilità per l’affittuario di recedere dal contratto ove provvedimenti legislativi amministrativi o giurisdizionali sopravvenuti comportassero modifiche o rendessero impossibile in senso economico- giuridico l’attuazione di tale piano di risanamento. Che queste clausole contrattuali fossero da un lato perfettamente ragionevoli e dall’altro lato profetiche, in un contesto nel quale l’affittuario si apprestava ad investire oltre 4 miliardi di euro nell’impresa, data la presenza del governo giallo verde e l’ordinanza del GIP di Taranto che nel 2019 aveva rimesso alla Corte Costituzionale proprio la questione di costituzionalità della normativa del 2015 sullo “Scudo penale”, costituisce una conclusione che nessun giurista potrebbe contestare, anche tenuto conto che si trattava del più importante investimento estero nel nostro paese. E che i consulenti legali di Arcelor Mittal non avessero torto ad aver negoziato con i commissari di Ilva una clausola del genere lo hanno dimostrato proprio le vicende di questi giorni. Infatti questo scenario è radicalmente mutato con un vero e proprio crescendo di atti legislativi a partire dall’art. 46 D. L. n. 34/ 19, successivamente modificato con la legge di conversione n. 57/ 19, seguito dall’art. 14 del D. L. n. 101/ 19 convertito con modificazioni in legge n. 128/ 19. In altre parole, la disposizione del 2015 sullo Scudo penale è cambiata almeno 4 volte negli ultimi mesi e l’attuale contenuto normativo di essa è stato puntualmente ricostruito nell’ordinanza n. 230 del 18 novembre 2019, con la quale la Corte Costituzionale ha rinviato al giudice a quo e cioè al Gip di Taranto l’esame della perdurante rilevanza e fondatezza della questione di costituzionalità che ta- le organo giurisdizionale aveva sollevato con riferimento allo “Scudo penale” del 2015, che ormai non c’è più nella versione richiamata dal contratto di affitto sottoscritto da Arcelor Mittal. Infatti, come ricorda la Corte Costituzionale, a seguito di tali recentissimi interventi legislativi, l’osservanza delle prescrizioni del piano ambientale del 2017 equivale all’adozione ed efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione ai fini della valutazione delle sole «condotte strettamente connesse all’attuazione dell’A. I. A. ( autorizzazione integrata ambientale)», di modo che solo per queste – e non anche per quelle collegate alle altre norme di tutela dell’ambiente – opera l’esonero da responsabilità amministrativa dell’ente derivante da reato ex art. 6 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”. Inoltre «modulando l’esimente da responsabilità penale e amministrativa per l’acquirente o l’affittuario e per i soggetti da questi funzionalmente delegati, secondo quanto stabilito nel piano ambientale per ciascuna prescrizione ovvero secondo i termini più brevi che l’affittuario o l’acquirente si siano impegnati a rispettare nei confronti della gestione commissariale Ilva, e confermando il termine del 6 settembre 2019 per l’operatività dell’esimente relativamente alle condotte poste in essere dai soli commissari straordinari. In quarto luogo, specificando esplicitamente che resta ferma in ogni caso la responsabilità in sede penale, civile e amministrativa eventualmente derivante dalla violazione di norme poste a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori» ”. Dunque, dalle parole della Corte Costituzionale anche un interprete privo di competenza giuridica specialistica comprende che per una consapevole scelta compiuta nei mesi scorsi dal Parlamento dal 6 settembre scorso non opera più nessuno “scudo” nei confronti dell’affittuario. Ciò quindi ha impedito alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sulla costituzionalità dello scudo penale introdotto con il D. L. n. 1/ 15 e probabilmente glielo impedirà anche in futuro poiché «tutte queste vicende normative sopravvenute potrebbero condizionare l’applicabilità delle norme censurate nel procedimento a quo sulla base dei principi in materia di applicazione della legge penale nel tempo, anche in relazione all’affermazione del carattere permanente di taluni reati ipotizzati a carico delle persone sottoposte a indagine contenuta nell’ordinanza di rimessione». Ma lo Scudo penale era costituzionalmente legittimo? Probabilmente la Corte non potrà esprimersi in proposito, ma chi scrive ritiene di sì proprio per quel bilanciamento tra diritti fondamentali effettuato in materia dalla stessa Corte nella sentenza del 2013. Ciò poiché l’operatività dello scudo presupponeva l’osservanza e l’attuazione del Piano di risanamento ambientale approvato dal Consiglio dei Ministri in una situazione ove «la continuità del funzionamento produttivo dello stabilimento siderurgico Ilva S. p. A. costituisce una priorità strategica di interesse nazionale, in considerazione dei prevalenti profili di protezione dell’ambiente e della salute, di ordine pubblico, di salvaguardia dei livelli occupazionali» ”, come si legge nel preambolo del D. L. n. 207/ 12, convertito in l. n. 231 del 2012. Dunque, quella dello scudo è stata una scelta effettuata dal Governo e dal Parlamento nel 2015, volta a garantire tale risanamento e una più efficace attuazione del piano proprio per consentire allo stesso tempo la continuazione dell’attività produttiva dell’Ilva senza che l’autorità giurisdizionale penale potesse interferirvi invadendo il campo riservato all’attività di alta amministrazione compiuta dal governo. In realtà, piano di risanamento e relativo scudo simul stabunt e simul cadent e quest’ultimo impediva la disapplicazione del piano da parte della giurisdizione penale. Questa quindi non è un’anomalia o una disposizione favorevole che crea una situazione di irragionevole disparità di trattamento a favore dei commissari Ilva e di Arcelor Mittal, bensì una scelta discrezionale compiuta dal legislatore nel tentativo – purtroppo in corso di vanificazione – di salvare l’attività produttiva collegandola all’efficace risanamento ambientale in una situazione di diritto singolare dovuta all’importanza strategica dell’industria siderurgica nazionale. Del resto nel nostro ordinamento giuridico vi sono casi nei quali il rilascio di un provvedimento amministrativo favorevole, alle rigorose condizioni legislativamente previste, determinerà il venir meno dell’antigiuridicità penale della condotta. Basti pensare al permesso di costruire ed all’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cosicchè non siamo certamente in presenza di un unicum nel caso dello scudo penale per l’ILVA. Dovremmo piuttosto domandarci se la legislazione che ha fatto venire meno lo scudo penale sia costituzionalmente legittima, anche se questo rischia persino di essere privo di rilevanza pratica, in quanto l’esistenza dello “Scudo penale” come era legislativamente vigente al momento del contratto di affitto dell’Ilva ad Arcelor Mittal è stata dedotta come condizione il cui venir meno avrebbe giustificato il recesso dell’affittuario, come poi è avvenuto. Dunque il vero dividendo di credibilità nei confronti degli investitori esteri è rappresentato dal rispetto di tali “vincoli”, di cui nelle recenti vicende dell’Ilva non c’è traccia.

Luigi De Magistris, Sindaco di Napoli, Vicepresidente ANCI (Sicurezza e legalità) su huffingtonpost.it il 24/11/2019. La vicenda Ilva richiederebbe coraggio da parte di governanti che veramente intendono mettere al centro della loro azione diritto al lavoro, diritto alla salute, diritto all’ambiente. L’Ilva di oggi va chiusa. Questo il mio umile pensiero. Non è ammissibile che, nel 2019, si imponga ancora alle persone di dover scegliere tra lavoro e salute: se rischiare di morire disoccupati per assenza di soldi o morire per tumore a causa della produzione a cui si contribuisce. È una vergogna! Diritto ad avere un lavoro, diritto ad un lavoro sicuro, dignitoso ed adeguatamente retribuito, diritto alla vita, diritto alla salute, diritto all’ambiente salubre, diritto allo sviluppo della persona, sono tutti diritti che devono convivere. Non è ammissibile un conflitto tra diritti insopprimibili. Questo lo statuisce la Costituzione della Repubblica Italiana in vigore dal 1948 e non ancora attuata, ma più volte stravolta. Per Taranto, Parlamenti e Governi hanno fatto negli anni leggi che hanno tradito lavoratori e cittadini. Leggi che hanno fatto anche da scudo penale ad imprenditori senza scrupoli. Impunità per legge. Crimine legalizzato. A Taranto, nel corso del tempo, si è registrata un’epidemia di morti di Stato. Eppure, se oggi a Taranto chiude l’Ilva, è una tragedia lavorativa ed economica. La ricetta di chi si riempie la bocca di diritti ma non ha capacità e coraggio di attuarli è questa: si continui come prima, più di prima, come se nulla fosse, si reiteri a produrre causando morti e distruggendo l’ambiente, si perseveri purché non si licenzi e non si perdano voti per alcuni e soldi per altri (le due cose possono anche coincidere). C’è un’alternativa a tutto questo? Solo alla morte, appunto, non c’è rimedio. Lo Stato realizzi la prima grande fabbrica bene comune italiana. Una proprietà collettiva democratica con risorse in primo luogo dello Stato, con Governo e Parlamento a guidare e dirigere l’operazione; quindi la Regione Puglia che ha potestà su sviluppo, impresa ed innovazione; ovviamente, la città di Taranto che più che risorse economiche, che i Comuni in genere non hanno, ha il diritto-dovere di esserci e coordinare le attività sul suo territorio; le imprese che vogliono accettare la sfida di coniugare una rivoluzione industriale che metta al centro le persone per un sviluppo connesso con la difesa della natura, per un’economia al servizio della vita e dei diritti; lavoratrici e lavoratori protagonisti anche delle scelte industriali e produttive, non solo manodopera al servizio di un sistema padronale che rende le persone schiave delle logiche liberiste e di un capitalismo senile non più sostenibile. Con un’operazione così coraggiosa non si perderebbe un posto di lavoro, anzi si creerebbe lavoro per una nuova economia. Le lavoratrici ed i lavoratori sarebbero impiegati subito nelle attività di bonifiche e, quindi, con adeguata formazione professionale nelle nuove attività industriali che si realizzerebbero con una così forte volontà sinergica. Taranto conquisterebbe nuovamente il suo territorio riqualificato. Diventerebbe attrattiva per investimenti green e come primo polo industriale, bene comune italiano. Le persone non morirebbero per epidemie legate da nesso causale alla fabbrica Ilva. Si deve sovvertire, non perseverare nell’ordine costituito. Da Sud si può e si deve. È una ribellione di giustizia. L’Italia è in grado di lanciare la sfida, partendo da Taranto, di un’industria non più al servizio di pochi, ma come spazio per coniugare lavoro, impresa, economia, salute e ambiente? È un sogno, non un’utopia. Quindi sognare è il più grande atto di realismo.  

Il caso Ilva. Chi governa l’economia? La procura combattente…Iuri Maria Prado 19 Novembre 2019 su Il Riformista. Nei sistemi economicamente arretrati e di democrazia sottosviluppata gli investitori sono abituati a dover fare i conti con realtà di comando particolari: articolazioni dello Stato rivolte a respingere ufficiosamente le regole di mercato ufficialmente accettate, burocrazie irresponsabili che si frappongono mafiosamente a qualsiasi transazione rilevante, o direttamente militari che occupano o almeno controllano il governo e diventano gli interlocutori ineluttabili in ogni operazione d’investimento. Si tratta sempre di interposizioni giustificate da interessi preminenti: l’economia nazionale, i diritti del popolo, le acquisizioni rivoluzionarie. Tutte cose presidiate da un buon concerto di divieti e pizzi di Stato. Bene, vorremmo crederci lontani da quelle realtà: ma è abbastanza difficile crederlo quando si apprende che l’autorità giudiziaria ritiene di dover intervenire nella complessa vicenda di Taranto (così ha dichiarato il capo della Procura della Repubblica di Milano) mettendosi a presidio “dei livelli occupazionali” e delle “necessità economico-produttive” del Paese. È difficile credere, cioè, che in questo caso non si stia facendo come si è fatto in occasioni passate, purtroppo non poche, in cui l’intervento di giustizia si è caricato di funzioni che altri dovrebbero esercitare e in vista di scopi che altri sarebbero incaricati di perseguire. Perché fino a prova contraria i livelli di occupazione e le esigenze economiche e produttive del Paese non sarebbero faccende di processo giudiziario, ma politiche e di governo, e c’è da trasecolare quando il presidente del Consiglio, a proposito di questa iniziativa giudiziaria, non trova di meglio che dichiarare “ben venga”. Questo avvocato, questo professore (santiddio!), che a proposito dei presunti illeciti di ArcelorMittal dice che “di questo ne risponderà in sede giudiziaria”, dovrebbe piuttosto preoccuparsi di come possa ancora funzionare un Paese in cui, magari anche in buona fede, ma pericolosamente, esponenti dell’autorità giudiziaria rivendicano a sé quella funzione e pretendono di esercitarla per perseguire quegli scopi. Lo fanno senza sosta, senza incontrare non si dice contestazione ma nemmeno qualche riscontro perplesso, e anzi tra gli applausi spiegano che la magistratura “combatte” non più solo la corruzione domestica (che già è uno sproposito perché il magistrato deve applicare la legge e sanzionare gli illeciti, punto e basta) ma il crimine internazionale «che ha sostenuto regimi corrotti e dittatoriali» e «che incide direttamente o indirettamente sulla popolazione dei Paesi coinvolti, razziandone le risorse necessarie allo sviluppo socio-economico e peggiorandone, di conseguenza, le condizioni di vita» (così, giusto qualche settimana fa, ancora il dottore Francesco Greco). Procure combattenti, insomma. Nessuno dubita del fatto che sostenere regimi dittatoriali sia cosa pessima e nessuno nega che sia cosa ottima lavorare per il miglioramento delle condizioni di vita altrui: ma quella cosa pessima non si combatte con un’iniziativa giudiziaria e questa cosa ottima non si ottiene a suon di processi. E non per altro, ma perché nelle democrazie capaci di chiamarsi tali si è compreso da tempo che ai magistrati spetta un compito diverso, un compito che non ha niente a che fare con le determinazioni sull’indirizzo indirizzo politico del Paese. Mentre esattamente questo si fa, esattamente questo si pretende, quando l’attivazione di una iniziativa giudiziaria vuol giustificarsi con il proposito di tutelare roba come i livelli occupazionali o le esigenze economiche e produttive del Paese: si piega l’azione del magistrato verso un obiettivo improprio e si pretende che il processo sia il legittimo strumento per raggiungerlo. I danni che un’analoga impostazione ha arrecato al nostro sistema politico e istituzionale li abbiamo visti e li stiamo soffrendo ancora, e sarà solo un caso se la concezione di potere che li ha determinati a suo tempo è impersonata dagli stessi che oggi hanno in agenda di continuare il combattimento su quest’altro fronte. E tutto questo, si noti, nulla toglie e nulla aggiunge all’ipotesi che nel caso ArcelorMittal ci siano illeciti da accertare. Ci saranno pure. Ma è viziata la premessa da cui si parte per accertarli, e il vizio risiede nell’idea sistematicamente micidiale che il magistrato sia incaricato di intraprendere politiche di governo per via giudiziaria: tanto più temibilmente quando il governo, come in questa occasione, fa mostra di accogliere se non di sollecitare una simile usurpazione. All’investitore desideroso di far qualcosa di importante qui da noi che cosa dobbiamo spiegare? Che deve sottoporre alla Procura della Repubblica il suo piano di investimenti? Non sarebbe molto diverso rispetto a quel che fa abitualmente in qualche Repubblica delle banane, con la differenza dopotutto non significativa che qui non dialogherebbe con un colonnello che dà il permesso di aprire fabbriche ma con un signore togato che ha il potere di chiuderle….

Antonio Di Pietro a Libero: "Magistrati e governo, ecco perché oggi ho paura". Francesco Specchia Libero Quotidiano il 24 Novembre 2019. Più che la giustizia, il tempo cambia la prospettiva degli uomini che la guardano. Prendete Antonio Di Pietro, da magistrato, nei tribunali, ha inventato un genere, da avvocato, oggi ne è quasi vittima.

Caro Di Pietro, l' altro giorno a Omnibus su La7, a proposito della vicenda ex Ilva, si è lanciato in un' invettiva contro governo e magistratura, perché?

«Ho solo detto che sarebbe meglio che il governo la smettesse di usare il ricatto (Conte ha minacciato "la causa del secolo" tra lo Stato e Mittal se l' azienda francoindiana se ne va da Taranto, ndr), e aprisse un vero tavolo di dialogo usando toni davvero istituzionali e non le minacce di ricorrere alla magistratura che peraltro sta al gioco. Le questioni giudiziarie si risolvono nelle aule di giustizia. Punto».

Veramente lei in tv ha fatto tutto un pippone sulla sua angoscia di avvocato settantenne che assiste a magistrati che non fanno "i becchini" come dovrebbero e abusano del ruolo. E i colleghi di sinistra in studio strabuzzavano gli occhi. Cosa intendeva, fuor di metafora?

«Facciamo a capirci. Il magistrato è come il becchino: deve intervenire quando già c' è il morto, quando è stato commesso il reato. Adesso, invece, ci stanno i pm che indagano quando i reati non sono ancora stati commessi. Io sono angosciato per questo. Qua si contesta l' art 499 del codice penale, un reato cosiddetto di evento, che presuppone che si sia verificato un danno per la chiusura degli altiforni. Ma qui ancora gli altiforni non si sono chiusi, il reato ancora non c' è. Sant' Iddio, lasciatelo almeno commettere, "sto reato". Io aspetterei la chiusura delle inchieste. Mo' voglio vedere come questo reato tirato fuori per Mittal va a finire in Cassazione. Secondo me manco ci arriva».

Diciamola in dipietrese: non è che con questa manfrina del "togli -e- rimetti lo scudo penale" il premier Conte e i 5 Stelle non sanno più che pesci prendere con Mittal e intanto pensano a preservare il loro elettorato?

«Vabbuò. È inutile che ci nascondiamo dietro ad un dito: c' era o non c' era la clausola dello scudo penale quando nel 2016 era stato fatta la gara d' appalto con Mittal?».

C' era.

«Ecco. Di Maio dice: la clausola non la rimettiamo, ma significa che prima c' era. Ma se c' era non puoi cambiare le regole in corsa come caspita ti pare. E se lo vuoi fare, tu governo, lo devi fare con un compromesso di dialogo. Non puoi dire: ci sediamo al tavolo solo se va come dico io, sennò è inutile sedersi al tavolo».

Cioè, proprio lei, aborrisce le azioni di forza? E scusi, ma non ci può essere l'altra ipotesi, quella che Mittal cerchi lo scontro, ché non gli conviene più star in un' azienda che perde 2 milioni al giorno e vuole chiuderla?

«Peggio mi sento. Allora che fai, gli offri tu la scusa? Qua ci sono piani diversi che s' incasinano. C' è quello civile con la richiesta di recesso di Mittal e con l' art 700 evocato dai commissari per bloccare il recesso, e quello penale che è tutt' altra cosa, e quello politico un' altra ancora. Ripeto, spetta all' azione politica impedire, in modo preventivo che il soggetto muoia, il becchino, la magistratura arriva dopo per la sepoltura...».

A proposito. Intanto, però il 1° gennaio cambia la prescrizione nei processi che non ci sarà più dopo la sentenza di primo grado. È d' accordo, in questo, col ministro delle Giustizia Bonafede?

«Qui io sono favorevole affinchè venga interrotta la prescrizione come dice Bonafede. Ma qui fanno le proposte a metà che finiscono con l' avere effetto opposto di quello previsto. Occorre fare contestualmente la riforma per ridurre i tempi del processo penale che, così com' è, favorisce i delinquenti e colpisce gli innocenti».

Ha qualche suggerimento in proposito?

«Devi banalmente aumentare il personale dei tribunali e dimezzare il numero dei reati per accorciare i tempi dei processi e scaricare gli arretrati. Ieri ero, come avvocato, a Santa Mara Capua a Vetere in udienza, c' erano dodici processi di fatto contro ignoti per reati d' immigrazione. Tutto bloccato. Nel tempo di un processo se ne potevano fare otto. Non è che ci voglia un genio, no?...». Francesco Specchia

Mittal, sit in e corteo di ambientalisti: «Non entrate, ci stanno ammazzando». E’ l’invito rivolto agli operai del siderurgico ArcelorMittal di Taranto da parte delle associazioni in presidio davanti lo stabilimento. La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Novembre 2019. «Non entrate, ci stanno ammazzando». E’ l’invito rivolto agli operai del siderurgico ArcelorMittal di Taranto, che si recavano al lavoro da cittadini e associazioni ambientaliste che hanno tenuto un sit in davanti alla portineria D. Oggi lo sciopero indetto dall’Usb coincide con lo sciopero per il clima e al presidio hanno partecipato anche attivisti di Fridays For Future Taranto. «Vergognatevi», hanno urlato ai lavoratori che smarcavano il badge alcuni manifestanti, che hanno poi diffuso un video sui social. C'è chi ha chiamato gli operai «burattini» e «pecore», mentre il coordinatore provinciale Usb, Francesco Rizzo, ha detto che l'intento non era «forzare» le persone, «che possono entrare tranquillamente, ma faranno i conti con la propria coscienza». Momenti di tensione durante la protesta. «Dovete avere un pò di coraggio», ha detto la portavoce di un comitato ai lavoratori. In mattinata anche un corteo di Fridays For Future, dall’Arsenale a piazza della Vittoria per un dibattito su salute e lavoro. Al grido «Taranto libera» cittadini, studenti, attivisti di comitati e associazioni, anche operai del Siderurgico aderenti all’Usb, hanno dato vita al corteo dedicato a «Ilva Climate monster». E’ promosso da Fridays For Future Taranto in occasione dello sciopero globale indetto dal movimento alla vigilia del Cop25, la conferenza delle parti dell’UNFCCC in programma a Madrid dal 2 al 13 dicembre. Dopo il presidio di questa mattina alla portineria d’ingresso degli operai dello stabilimento siderurgico ArcelorMittal, la mobilitazione è proseguita con la marcia per le vie del centro di Taranto. Sono stati mostrati cartelloni con le scritte «Ilva is a killer», «Cittadini e operai uniti per la chiusura e la riconversione», «Basta guadagnare sulle nostre vite». Al termine del corteo, per il quale sono giunte associazioni da diverse parti d’Italia, anche un dibattito sui temi ambientali e sull'emergenza Taranto.

LE PAROLE DI BARBAGALLO - «Avevano minacciato fuoco e fiamme, ora cerchiamo di capire» quale soluzione si prospetta per l’ex Ilva, dice il leader della Uil, Carmelo Barbagallo, a margine della conferenza euromediterranea organizzata dal sindacato. "Noi restiamo fermi sull'accordo che avevamo fatto dieci mesi fa: non c'erano gli esuberi che si paventano, e non siamo disponibili ad impostare altre impostazioni che non siano una acciaieria che continui a produrre il miglior acciaio d’Europa, la migliore acciaieria di Europa, e con una produzione che sia superiore ai sei milioni di tonnellate l’anno, altrimenti va in perdita e saremo costretti a venderla».

Il papà operaio e la figlia ambientalista: l’ex Ilva divide anche le famiglie di Taranto. Chi può comprarla? Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 da Corriere.it. Mauro Doro, 47 anni, è il padre di Danila, 25 anni: e la loro storia conferma quanto Taranto sia spaccata su quella fabbrica, che tanti chiamano ancora Italsider, che da più di 50 anni accoglie chiunque, da nord, giunga nella città da sempre chiamata dei due mari e da qualche anno dei due fronti. Quello della salute e quello del lavoro. Che dividono anche le famiglie. «Ma non si può separare l’una dall’altro - spiega Mauro, che in questi giorni presidia lo stabilimento con tanti suoi colleghi - ed è quello che ho sempre cercato di spiegare alle mie figlie, a Danila e alla più piccola Ilaria. Siamo in Italia, un paese sviluppato e alle soglie del 2020: possibile che solo a Taranto non si possano conciliare salute e lavoro? A Genova l’area a caldo è stata chiusa». Mauro non è mai stato in quell’inferno, fino al 2008 ha lavorato nel laminatoio a freddo e poi è passato al magazzino. «Però mia nonna si è ammalata di tumore e come lei tanti altri parenti di amici - replica Danila - e nessuno di loro lavorava nell’area a caldo. Senza quella fabbrica il rischio di malattie, nel futuro, a Taranto, sarebbe molto più basso, come nelle altre città d’Italia».Anche Mauro conosce la nonna, ovviamente: è sua madre. Ma non per questo vuole rinunciare al lavoro. Anzi, da quando è in cassa integrazione, vuole tornarci quanto prima: «Ho iniziato a lavorare all’Ilva nel 2003, prima facevo il rappresentante. Quando è arrivato il posto fisso ho festeggiato, a Taranto abbiamo sempre fatto così dai tempi dell’Italsider. Poi ad ottobre 2018 non mi è arrivata la lettera di assunzione dei nuovi proprietari, ArcelorMittal, e sono stato parcheggiato in Ilva amministrazione straordinaria, uno dei 2 mila che non servivano agli indiani. Avremmo dovuto fare i corsi di formazione, io ancora non li ho fatti. Ma i colleghi che li hanno frequentati mi dicono che non sono stati propriamente di riqualificazione professionale, bensì un invito a trovare un nuovo posto di lavoro, perché spiegano come si fa un curriculum. Ecco, se già prima il possibile ritorno in fabbrica sembrava difficile, adesso con l’addio di ArcelorMittal è diventato una chimera». I fondi per la cassa integrazione straordinaria in Ilva sono disponibili fino al 2023; poi fino al 2025 c’è un punto interrogativo. «Oltre, al momento, nessuna prospettiva. E lo stipendio di 1.600 euro, con la cassa integrazione, è diventato di 1.000. Perciò io voglio tornare a lavorare in quella fabbrica», chiosa Mauro. «La storia di mio padre - conclude Danila - conferma le mie convinzioni: nonostante quella fabbrica molti degli operai tarantini non hanno futuro. E allora costruiamolo noi, con le bonifiche. Magari passeremo più tempo da disoccupati, ma poi almeno i nostri figli, quel futuro, torneranno a sognarlo». E non sarà più, come dal 1965 all’altro ieri, il posto fisso in acciaieria.

Ilva di Taranto: i bambini malati di cancro per l'inquinamento. Le Iene il 24 novembre 2019. Affrontare il dramma Ilva di Taranto non vuol dire discutere solo di inquinamento ambientale e trattative milionarie per salvarla. Vuol dire purtroppo parlare anche di cancro dei bambini. Gaetano Pecoraro è andato a conoscere i piccoli malati di tumore. A Taranto accanto alle trattative milionarie e all’inquinamento ambientale, ci sono anche i bambini che stanno combattendo un male terribile: il cancro. Una malattia che a molti di loro è venuta proprio a causa della più grande acciaieria d’Europa. “Qui c’è un aumento del 54% dei tumori infantili a causa dell’inquinamento ambientale”, dice Valerio Cecinati, primario del reparto di Oncologia pediatrica dell’ospedale di Taranto. Della possibile chiusura di quest’industria ne abbiamo sentito parlare a lungo con le trattative tra governo e ArcelorMittal per trovare una soluzione. Mentre gli occhi di tutti sono puntati su queste trattative che muovono milioni di euro, i danni tragici dell’inquinamento dell’Ilva non possono però passare in secondo piano. Abbiamo iniziato a parlare della vicenda Ilva nel 2013 con la nostra Nadia Toffa (clicca qui per il suo servizio). Avevamo documentato le nubi tossiche che si alzavano dall’azienda e le malattie che hanno causato a chi lavora e abita lì attorno. Sei anni dopo siamo tornati a cercare i nostri amici di Taranto (qui il servizio di Gaetano Pecoraro della scorsa settimana). E oggi vi parliamo del dramma dei più piccoli.

Ilva: i bambini malati di cancro e il reparto di oncologia dedicato a Nadia. Le Iene il 25 novembre 2019.  Gaetano Pecoraro è stato a conoscere i bambini del reparto di oncologia dell’ospedale di Taranto intitolato a Nadia Toffa. L’Ilva non è solo inquinamento ambientale, ma anche tra le cause di cancro infantile. Siamo andati a conoscere i bambini malati di tumore del reparto di oncologia dell’ospedale di Taranto intitolato a Nadia Toffa. Erano stati raccolti 500mila euro per la vendita di 70mila maglie. Le ricordate? Quelle nere con la scritta fucsia: “Ie jesche pacce pe te!!!”, “Io esco pazzo per te”. “Qui c’è un aumento del 54% dei tumori infantili a causa dell’inquinamento ambientale”, dice Valerio Cecinati, primario del reparto di Oncologia pediatrica dell’ospedale di Taranto. Della possibile chiusura di quest’industria ne abbiamo sentito parlare a lungo con le trattative tra governo e ArcelorMittal per trovare una soluzione. Mentre gli occhi di tutti sono puntati su queste trattative che muovono milioni di euro, i danni tragici dell’inquinamento dell’Ilva non possono però passare in secondo piano. Fino a un paio di anni fa, le famiglie con bambini malati dovevano curarsi lontano da casa. Come aveva dovuto fare Paola, una delle mamme incontrate dalla nostra Nadia. “Ogni volta dobbiamo fare un viaggio di 100 chilometri, 20 euro di benzina al giorno”, ci diceva due anni fa. Con lei c’era Gabriella, la bambina di appena 6 anni malata di tumore: “Ho avuto paura quando mi hanno dovuto tagliare tutti i capelli. Ho iniziato a perderli poco alla volta”. Lei oggi ha vinto la sua battaglia e la incontriamo: “Finalmente posso uscire di casa e stare insieme a tutti gli altri”. Ci parla anche dell’Ilva: “È un mostro di fumo, senza si starebbe meglio”. Con i soldi raccolti non sono stati acquistati solo letti e attrezzature. Sono stati assunti anche due medici che fino a maggio lavoreranno lì. Abbiamo iniziato a parlare della vicenda Ilva nel 2013 con la nostra Nadia Toffa (clicca qui per il suo servizio). Avevamo documentato le nubi tossiche che si alzavano dall’azienda e le malattie che hanno causato a chi lavora e abita lì attorno. Sei anni dopo siamo tornati a cercare i nostri amici di Taranto (qui il servizio di Gaetano Pecoraro della scorsa settimana). 

Nicola Apollonio per “Libero Quotidiano” il 21 novembre 2019. Da qualche anno, a Taranto e dintorni, ad essere sotto accusa è sempre quel «mostro» che si estende per 1.500 ettari, quasi il doppio dell' intera città. Con le sue ciminiere che svettano nel cielo perennemente offuscato, l' ex Ilva è diventata la causa di tutti i mali ambientali. Di conseguenza, anche di quelli che riguardano la salute soprattutto di chi abita nello stesso rione Tamburi dove tanti anni fa (era il 1965) lo Stato decise di impiantare la più grande acciaieria d' Europa. Di certo, qualcosa di mostruoso c'è dietro quel muro di cinta che delimita l'immensa area dello stabilimento. Oltre ai numerosi marchingegni disseminati su tutta la superficie dell' opificio, ci sono gli altiforni che, come giganti, sprigionano ventiquattr'ore su ventiquattro fumi e gas nocivi, nonostante l' impegno per costruire sofisticati sistemi di controllo. In tutto questo tempo, ne hanno fatto di danni quei giganti che sputano polveri sottili, e per questo gli abitanti del quartiere (ma non solo loro) vanno in strada per reclamare, a ragione, il diritto alla salute. Di morti, dicono, si sono avuti fin troppi, uomini donne e bambini. La questione, dunque, è seria. Solo che i dati di cui si è in possesso non assegnano una esclusiva responsabilità dell' Ilva in fatto di inquinamento ambientale grave: se raffrontati con altri dati della provincia di Lecce, per esempio, ci si accorge che il capoluogo salentino, pur non disponendo di industrie pesanti come l' acciaieria (o la Cementir e la raffineria Eni, anch' esse attive nella città jonica), conta sicuramente più morti di quanti se ne sono registrati a Taranto. «Si fa presto a dare la colpa ad un solo impianto», dice il dott. Giuseppe Serravezza, responsabile scientifico della Lilt di Lecce . «Ilva, Cementir, raffineria dell' Eni, centrale termoelettrica a carbone Enel di Cerano sono sicuramente responsabili delle tante storie di malattie tumorali, cardiovascolari, neurologiche, endocrine che affliggono il Salento tutto, non solo Taranto». Migliaia di vite umane già perse, e altre che purtroppo si è destinati a perdere se non si interviene al più presto. È questo il grido d' allarme che lancia l' oncologo. Come? Operando da subito con radicali interventi di riconversione almeno per gli impianti industriali più inquinanti. Quindi, occorre decarbonizzare al più presto, contribuendo così a ridurre l' immissione nell' ambiente dei tanti veleni cancerogeni, occorre dire «basta» al carbone sia all' Ilva sia alla centrale termoelettrica di Cerano. Quando si scorre la pagella dei tassi in Puglia, si trova che la provincia di Lecce si colloca nei primi posti della classifica della mortalità complessiva per tumore del polmone, con una incidenza del 32% sulla totalità dei casi, addirittura al primo posto in Italia per la mortalità maschile. E anche i tumori alla vescica risultano in testa alla classifica, sicuramente superiori a quelli registrati nelle vicine province di Brindisi e Taranto. Anche in questo caso, storicamente, la provincia di Lecce ha mostrato fino al 2011, specialmente tra gli uomini, un tasso di mortalità superiore del 25% rispetto alla media nazionale e del 20% rispetto a quella regionale. In più, andando a ritroso e guardando un' altra classifica del 2004, risulta che il tasso grezzo di mortalità fra i residenti della provincia di Lecce era, all' epoca, di ben 3,1 punti percentuali superiore rispetto alla media pugliese. Ciò significa che, rispetto a quelli attesi, si erano verificati a quella data 240 decessi in più per tumore. Per il tumore al seno, invece, i dati sono più confortanti: la curva dell' andamento dell' incidenza è praticamente piatta dal 1970 e questo perché quella forma di tumore risulta più facilmente curabile. Attenzione, però: non tutto succede a causa della diossina che sprigiona la combustione del carbone, c' è da fare i conti anche con la contaminazione del suolo, che sta creando una situazione drammatica e sulla quale gli esperti stanno concentrando tutta la loro attenzione. (Secondo il dottor Serravezza, non è escluso che a provocare il disastro ambientale di Taranto abbiano concorso anche le emissioni di altre industrie, per cui, visto che le molecole cambiano a seconda dei casi, si potrebbe facilmente risalire all' origine della diossina che da sempre viene addebitata all' Ilva come fonte di tutti i mali). E allora, visto che è ormai acquisito che il 90% dei casi di cancro è dovuto alla presenza nell' ambiente, di fattori di rischio oncologico, è evidente come in questi ultimi decenni, in provincia di Lecce, debbano essersi verificate significative modificazioni nell' ambiente e nelle stesse abitudini di vita, tale da spiegare un simile incremento che, in alcuni casi, supera il dato nazionale. Ilva? Eni? Enel? Cementir? Forse, hanno anche loro una buona parte di responsabilità. Però, come spiega il dottor Serravezza, visto che in altre parti del mondo la mortalità per cancro è in diminuzione già da tempo, probabilmente nel Sud Italia, in provincia di Lecce, c' è bisogno di una nuova politica sanitaria, ma anche e soprattutto di nuove scelte economiche e sociali. L' Ilva di Taranto non può essere, da sola, il male assoluto per un' intera regione.

Striscia la notizia all'attacco, Ilva: quel bruttissimo sospetto su ArcelorMittal. Libero Quotidiano il 21 Novembre 2019. Stasera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Pinuccio torna a occuparsi dell’Ilva. In particolare, l’inviato ha raccolto diverse testimonianze che sollevano dubbi su come ArcelorMittal abbia gestito l’acquisto di materie prime e la vendita del prodotto finito attraverso delle società controllate dallo stesso colosso industriale indiano.

A supporto di questa ipotesi, le dichiarazioni rese all’inviato di Striscia da due dipendenti della multinazionale: «Un’azienda del Lussemburgo controllata da ArcelorMittal – sostengono –, comprava il materiale a Taranto a prezzi molto bassi e lo rivendeva a dieci volte tanto: l’Ilva moriva nei debiti, le controllate si arricchivano. ArcelorMittal, in Italia, spedisce solo a una società, che ha più sedi sul territorio nazionale, controllata da lei stessa. Questo le permetterebbe di condizionare i prezzi delle compravendite».

Dietro il disastro Ilva il vuoto di una (seria) politica industriale. Andrea Muratore su it.insideover.com il 10 novembre 2019. Un’antologia di Spoon River della politica industriale: il paragone tra gli ultimi decenni dell’economia italiana e il celebre “cimitero” letterario rischia di diventare ancora più calzante se ad aggiungersi alla grande massa di settori strategici, centri produttivi di vitale importanza e campioni nazionali smantellati da scelte politiche scriteriate (specie le privatizzazioni selvagge), carenze nella definizione delle priorità strategiche e disastri dei gestori privati dovesse aggiungersi l’Ilva. La corsa frenetica a demolire l’economia mista imperniata nell’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri) è stata devastante. Lo ha fatto notare con durezza e nitida chiarezza il direttore del Quotidiano del Sud Roberto Napoletano in un recente editoriale: “La vecchia Stet dell’Iri ha ricostruito l’impero romano regalando all’Italia il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale. (…) La vecchia Italstat dell’Iri regala all’Italia un player globale delle costruzioni e delle grandi opere. Apre e chiude i cantieri, si percepisce il progetto Paese dello Stato imprenditore, le due Italie sono riunificate con la Autostrada del Sole costruita e inaugurata prima della scadenza prevista”. Entrambe finiranno poi per naufragare dopo la fine dell’epoca d’oro dello Stato-imprenditore. Destino analogo a quello dell’acciaio: “La vecchia Finsider dell’Iri ha regalato all’Italia l’impianto che garantiva a tutti i Paesi europei l’indipendenza nella disponibilità di una materia cruciale (l’acciaio) per lo sviluppo industriale. L’uscita dall’orbita pubblica è stata fatale”. Il susseguirsi di caos giudiziari, problematiche amministrative e incertezze politiche, dai Riva a Arcelor Mittal, ha fatto il resto. E ora l’Italia rischia di ritrovarsi di fronte a una Caporetto industriale. La chiusura dell’Ilva, la perdita dell’1,5% del Pil legato all’acciaio, la distruzione di 10.700 posti di lavoro diretti e decine di migliaia indiretti per il contenzioso tra il Governo Conte II e Arcelor-Mittal, compratore in ritiro dello stabilimento, per il problema dello “scudo penale” previsto dal piano firmato da Luigi Di Maio e ipotizzato prima di lui da Carlo Calenda, certificherebbe il fallimento della (non) strategia italiana dell’acciaio. Iniziata quando Romano Prodi decise di mettere in liquidazione Italsider e Finsider, nel corso del suo mandato da direttore dell’Iri e presidente del Consiglio, perché…ce lo chiedeva l’Europa. Perché l’Ue chiedeva che l’Italia, svenandosi, pagasse il prezzo dell’entrata nell’euro privandosi dei gioielli di famiglia. E iniziando una spirale decrescente che ha fatto venire meno la compatta integrazione di filiera e portato al degrado delle condizioni ambientali e lavorative in Ilva. I lavoratori dell’Ilva di Taranto, per troppo tempo, hanno dovuto scegliere tra due alternative: la trappola della povertà, ovvero l’abbandono di un posto di lavoro che tra standard ambientali insani e tumori dilaganti rappresentava comunque una delle poche opportunità occupazionali dell’area, o l’accettazione di una precarietà di condizioni disarmante e degradante. Un governo desideroso di fare davvero politica industriale dovrebbe in primo luogo vincolare la vendita dell’Ilva alla risoluzione di questa asimmetria. Tante sono le questioni su cui ci dovremmo interrogare: perché introdurre lo scudo penale per Arcelor Mittal senza condizionarlo a una sorta di golden power pubblico, ovvero monitorando strettamente il compratore imponendogli il rispetto di un serio piano ambientale, la transizione operativa e la tutela di standard definiti? Perché non proporre altro che un cambio repentino di legislazione che Arcelor ha potuto cogliere come palla al balzo per svincolarsi? Perché non aver fatto chiarezza sui contratti di affitto dell’ex Ilva stipulato anche dai commissari straordinari? Perché il Conte II ha questa smania di smantellare ciò che, pur confusamente, il Conte I aveva concluso senza proporre un piano di lungo periodo alternativo? La verità è che manca la politica, la vera visione strategica delle priorità del Paese. Manca la volontà di indirizzare lo sviluppo dello Stato nei settori strategici, di tutelare l’occupazione e il futuro produttivo del Paese. Lo vediamo in questi giorni: Fca e Peugeot vanno verso la conclusione di un’alleanza strategica in cui il governo italiano non ha saputo intervenire con il potere di persuasione morale, pensando che i cambi di residenza fiscale neghino la realtà, che impone di preservare il futuro del settore auto. Lo vediamo sui gasdotti, sulle trivelle, sui porti, su Alitalia, sui cantieri navali, sulle telecomunicazioni. Lo vediamo quando 10.700 persone rischiano il posto di lavoro e un polo tanto importante di evaporare come neve al sole: non sarebbe riduttivo pensare all’ipotesi di dimissioni del governo Conte in caso di chiusura dell’Ilva. È il deserto della politica. Di un sistema Paese che ha smesso di pensarsi tali. E di una politica che pensa alla supremazia dei mercati e non a come intervenire, laddove necessario, per tutelare lavoro e produzione. Il padre della grande stagione dell’acciaio italiano, Oscar Sinigaglia, partì ragionando da un assunto semplice: senza acciaio non c’è industria. Sarebbe meglio che anche a Roma si iniziasse a capire un pensiero tanto basilare quanto vitale per un comparto chiave e, a cascata, per l’economia.

Marco Procopio per ilfattoquotidiano.it il 9 novembre 2019. La guerra dei dazi e la reazione troppo debole dell’Europa, il tracollo del settore auto, il boom dell’acciaio turco a prezzi stracciati. L’addio di ArcelorMittal all’ex Ilva di Taranto è solo la punta dell’iceberg della crisi in cui versa l’industria siderurgica europea. Nei primi nove mesi del 2019 la produzione di acciaio del vecchio Continente è scesa del 2,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno mentre quella mondiale cresceva del 3,9 per cento. Pesano i rallentamenti in Germania (-4,4%) e Italia (-3,9%), i due Paesi dove si concentra più di un terzo di tutto il comparto. E a farne le spese sono i lavoratori dell’acciaieria di Dunkerque in Francia e di Eisenhuttenstadt in Germania, oltre a quelli polacchi di Cracovia e agli impianti spagnoli delle Asturie. Tutti del gruppo Arcelor, primo player mondiale del settore, e tutti alle prese con tagli ai ritmi produttivi ed esuberi. Al termine di un anno che – secondo le stime di Eurofer (l’Associazione europea dell’acciaio) – rischia di essere il peggiore dell’ultimo decennio.

Da ArcelorMittal a Thyssen: acciaierie in crisi in tutto il Continente. La sequenza di imprese che nel corso dell’anno hanno annunciato pesanti cali alla produzione è indicativa dello stato di salute dell’intera industria. È il caso di ArcelorMittal, colosso che secondo i dati di World steel association è il primo player del settore con 96,4 milioni di tonnellate annue. A maggio la multinazionale anglo-indiana ha fatto sapere di volerla tagliare di 3 milioni di tonnellate, in particolare negli stabilimenti spagnoli delle Asturie. E solo poche settimane dopo il provvedimento è stato esteso alle acciaierie di Dunkirk in Francia e di Eisenhuttenstadt, al confine tra Polonia e Germania. Non è andata meglio alla tedesca ThyssenKrupp, reduce da un matrimonio mancato con gli indiani di Tata Steel. Le due società avevano avviato nel 2017 le trattative per una fusione, ma l’ex commissaria Ue alla Concorrenza Margrethe Vestager ha deciso di bloccare tutto “per evitare gravi danni ai clienti industriali e proteggere gli interessi dei consumatori europei”. Decisione che però ha portato Thyssen ad annunciare il taglio di 6mila posti di lavoro e la stessa strada potrebbe essere seguita dall’azienda con sede a Bombay. Ancora peggio è andata alla British steel, finita in amministrazione controllata in primavera per presunte incertezze dei clienti legate alla Brexit. In bilico ci sono 5mila lavoratori – oltre ai circa 20mila dell’indotto – e un impianto capace di sfornare 2,5 milioni di tonnellate di acciaio ogni anno. Un asset su cui, stando alla Bbc, avrebbe messo gli occhi il gruppo cinese Jingye.

Tutti i numeri (in calo) dell’industria siderurgica europea. I problemi sono iniziati a metà del 2018, quando il presidente Usa Donald Trump ha dato il via libera ai dazi sulle importazioni di acciaio con l’obiettivo di tutelare le aziende statunitensi. La conseguenza è che molti Paesi, a partire da Turchia e Cina, hanno cominciato a riversare parte della propria produzione a basso costo sul mercato europeo. Le fabbriche turche hanno quintuplicato la quantità di prodotti “piani” (quelli legati all’industria manifatturiera pesante) che esportano nell’Unione, passando dalle 107mila tonnellate al mese del 2016 alle oltre 500mila al mese del primo semestre del 2019. Molto meglio del Dragone, il quale però rimane saldamente in testa alla classifica dei maggiori produttori di acciaio al mondo. A questa situazione poi si aggiungono altri fattori: l’aumento del prezzo delle materie prime, i costi crescenti delle quote di emissione di Co2 previste dal mercato europeo del carbonio e soprattutto la crisi dei settori dove c’è più richiesta di acciaio, dall’automotive all’edilizia, fino alla cantieristica e alla meccanica. Il risultato è che, secondo Eurofer, si è creata “una tempesta perfetta che potrebbe riportare l’industria siderurgica europea in un periodo di grave crisi”. Perlomeno in Europa, dal momento che nel resto del mondo non accenna a fermarsi. A fine 2018 la produzione globale è cresciuta del 4,6 per cento (1,8 miliardi di tonnellate di acciaio), grazie soprattutto al traino di Pechino (+9 per cento), dei Paesi del Medio Oriente (+8,5 per cento) e dal +6,2 per cento registrato dagli Stati Uniti. Nel Vecchio Continente, invece, c’è stato un leggero calo dello 0,3 per cento. Ma le stime per il 2019, visto l’andamento degli ultimi nove mesi, non promettono niente di buono.

La reazione dell’Ue ai dazi americani. Per cercare di mettere una pezza la Commissione europea è subito intervenuta con un “meccanismo di salvaguardia”, diventato poi strutturale dall’inizio di quest’anno. Rispetto alla tassa orizzontale del 25 per cento varata da Trump negli Stati Uniti, prevede che fino a una certa soglia – e per specifiche categorie di prodotti fatti in acciaio – i principali Paesi esportatori non paghino alcun dazio. Solo una volta superato quel limite, che l’Ue ha deciso di tarare in base alla media delle spedizioni avvenute tra il 2015 e il 2017, si applicano imposte del 25 per cento. E non è finita qui, perché il tetto massimo alle importazioni cresce a intervalli regolari del 5 per cento, al fine di non compromettere gli scambi internazionali. Un sistema che però è stato giudicato da più parti insufficiente. Così, dietro la spinta dei grandi gruppi industriali del settore, Bruxelles è corsa ai ripari introducendo ulteriori modifiche. E fra i provvedimenti adottati dal 1 ottobre c’è la riduzione del tasso annuo di aumento delle quote libere da tariffe (passato dal 5 al 3 per cento). “Gran parte del settore siderurgico è ancora in fase depressiva, ostacolato da una pressione sulle importazioni insostenibile. Pressione che non diminuirà, nonostante le modifiche apportate oggi”, è stato il commento del direttore generale di Eurofer Axel Eggert. Il timore è che per attraversare questa crisi le aziende europee alla fine taglieranno pesantemente il personale, tornato solo nel 2018 a quota 330mila dopo anni di contrazione.

Ilva di Taranto, la storia infinita di un pasticcio all'italiana. Dal 1965 a oggi politica e cattiva gestione sono riuscite a far crollare l'ex gigante della siderurgia europea. Barbara Massaro il 6 novembre 2019 su Panorama. La più grande azienda siderurgica d'Europa. Quindici milioni di metri quadrati di superficie nella zona Tamburi di Taranto progettati per ospitare il futuro dell'industria del ferro: nasce sotto questi auspici quella che sarebbe diventata l'ILVA di Taranto.

In principio era Italsider. E' il 1961 e le Acciaierie di Cornigliano si fondono con l'ILVA - Alti Forni e Acciaierie d'Italia dando vita a Italsider - Alti Forni e Acciaierie Riunite ILVA e Cornigliano che diventerà  Italsider nel 1964. E' una proprietà pubblica che vuole costruire il più grande polo industriale del sud Italia. Viene inaugurato così nel 1965 lo stabilimento Italisider di Taranto. In breve tempo la fabbrica pugliese diventa il più grande e importante stabilimento di ferro e acciaio d'Europa, il serbatorio che rifornisce non solo il ricco nord Italia, ma mezzo vecchio continente. Dà lavoro, crea ricchezza e occupazione ed è uno dei fiori all'occhiello dell'Italia del boom economico.

La privatizzazione: arrivano i Riva. Poi arriva la grande crisi degli anni '80. Italsider viene acquisita nel maggio del 1995 dal gruppo Riva, fondato nel 1954 da Emilio con il fratello Adriano e assume il nome attuale di Ilva. Si tratta di una privatizzazione (iniziata sotto il governo Dini) da 2.500 miliardi di lire per una società la cui valutazione era stata fatta nei termini dei 4.000 miliardi. Si parla di "svendita dell'Ilva" e si grida allo scandalo e all'inciucio. Ai Riva sarebbe spettato il difficile compito di rilanciare l'Ilva, ma proprio in quegli anni iniziano a emergere i primi legami tra l'impatto ambientale del polo siderurgico e l'impressionante numero di casi di tumore (spesso infantile) di abitanti nella zona. 

Il sequestro. Nel 2012 la magistratura tarantina dispone il sequestro dell’acciaieria per "gravi violazioni ambientali". Indagati tutti i vertici dell'azienda e i presidenti Emilio Riva (in carica fino al 2010) e il figlio Nicola. L'azienda viene definita dai giudici "fabbrica di malattia e morte" e l'eco dello scandalo dell'Ilva di Taranto inizia a essere conosciuto a livello mondiale. I periti nominati della Procura di Taranto hanno calcolato che in sette anni sarebbero morte 11.550 persone a causa delle emissioni, in particolare per cause cardiovascolari e respiratorie. All'Ilva, allora, lavoravano 12.859 persone, più tutti coloro che erano coinvolti dall'indotto della fabbrica. Per tutelare lavoro e produzone industriale il Governo (a palazzo Chigi sedeva Mario Monti) decide di non chiudere lo stabilimento ma di emettere un decreto che autorizzi la prosecuzione della produzione.

Il commissariamento. A maggio 2013 il gip Patrizia Todisco dispone un maxi-sequestro da 8 miliardi di euro sui beni e sui conti del gruppo Riva, denaro che sarebbe frutto dei mancati investimenti della famiglia Riva in tema di tutela ambientale. Alla fine dell'anno, però, il maxi sequestro viene annullato dalla Corte di Cassazione e i Riva lasciano il CdA. Il Governo decide di commissariare l'azienda. Il primo commissario nominato è Enrico Bondi, poi affiancato da Edo Ronchi. Un anno dopo i due vengono sostituiti da Piero Gnudi e Corrado Carrubba.

A gennaio 2015 l'azienda, con un'altra legge firmata ad hoc dall'allora governo Renzi, passa in amministrazione straordinaria e i commissari diventano tre: a Gnudi e Carrubba si affianca Enrico Laghi.

L'arrivo di Ancelor Mittal. Del gennaio 2016, invece, è il bando che invita a candidarsi se interessati ad acquisire l'Ilva. A vincere la gara pubblica è la multinazionale franco indiana Arcelor Mittal che assume onori e oneri di rilanciare l'Ilva. E così dopo 5 governi e 4 commissari nel 2018 sul finire della legislatura e del governo Gentiloni, Arcelor Mittal prende in mano il timone dell'ex Ilva con l'obiettivo di rilanciare il polo tarantino. Impresa non facile visto le centinaia di morti sulla coscienza della fabbrica e gli anni difficili del commissariamento. Conditio si equa non per la firma dell'accordo con l'Italia è che Arcelor Mittal possa usufruire di un'immunità penale circa i danni del passato. Si tratta del cosiddetto scudo penale, provvedimento creato ad hoc per garantire protezione legale sia ai gestori dell’azienda (i commissari), che ai futuri acquirenti relativamente all’attuazione del piano ambientale della fabbrica. Evitare, cioè, che attuando il piano ambientale, normato da un Dpcm di settembre 2017, i commissari o i futuri acquirenti del siderurgico restassero coinvolti in vicissitudini giudiziarie derivanti dal passato. Del resto quale imprenditore sano di mente si sarebbe accollato un'industria con quella storia senza avere un minimo di tutele?

I pasticci di Di Maio. E qui si arriva (quasi ai giorni nostri). E' il luglio 2018 quando l'allora ministro per lo sviluppo economico Luigi Di Maio chiede di avviare un'indagine circa la legittimità della gara d'assegnazione dell'Ilva a Ancelor Mittal. Si parla di gara viziata, ma l'Avvocatura dello Stato sottolinea che non esistono gli estremi per annullarla. Maio rilancia e in conferenza stampa, 23 agosto 2018, dichiara: "Se oggi, dopo 2 anni e 8 mesi, esistessero aziende che volessero partecipare alla gara, noi potremmo revocare questa procedura per motivi di opportunità. Oggi non abbiamo aziende che vogliono partecipare, ma se esistesse anche solo una azienda ci sarebbe motivo per revocare la gara”. All'interno del dl crescita, maggio 2019, si avanza l'ipotesi di eliminare lo scudo penale e di mettere i vertici Ilva, presenti e passati, di fronte alle loro presunte negligenze e responsabilità in termini di vita umana. Ancelor Mittal molla il colpo: "Non si possono cambiare le carte a partita in corso" dice nel novembre 2019 rimettendo la patata bollente nelle mani del Conte bis.

Scontro in tv tra Costamagna e Calenda: «Per lei le persone contano zero», «Ma non fare populismo d’accatto...». Corriere Tv il 6 novembre 2019. Discussione animata tra la giornalista e l’europarlamentare sul ritiro di AncelorMittal dalla trattativa sull’Ilva | Corriere Tv. Botta e risposta in tv durante l’ultima puntata di «DiMartedì» su La7. La giornalista Luisella Costamagna discute con l’europarlamentare Carlo Calenda sull’annunciato ritiro di AncelorMittal dalla trattativa per Ilva. «Per voi le persone contano meno di zero, la politica dia risposte» recrimina la giornalista al politico, ex ministro dello Sviluppo Economico, imputandogli uno scarso interesse per il caso. «Non fare populismo da accatto...» replica Calenda «Non si chiude un impianto che dà lavoro a 20mila persone e si dice che le persone contano zero...»

Ex-Ilva, Calenda al ministro M5s: "Per altoforno 2 serve mago Merlino, Grillo o uno che ci investe?" Repubblica Tv il 6 novembre 2019. Mentre ArcelorMittal minaccia di ritirarsi dall'accordo sull'ex-Ilva, l'ex ministro dell'Industria Carlo Calenda - che quell'azienda aveva trovato per riscattare le acciaierie di Taranto in crisi - sbotta con il ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti, reo di far parte del governo giallorosso sotto il quale quell'accordo rischia di saltare. Lo fa DiMartedì, su La7. L'altoforno 2 è un "problema" per ArcelorMittal perché la magistratura prevede il suo spegnimento per il 13 dicembre. Spento quello, ci sarebbero problemi anche per altri due forni a caldo.

Da ''Radio24 - Il Sole 24 Ore'' il 5 novembre 2019. “Questi sono un branco di dilettanti allo sbaraglio che non ha mai lavorato un giorno fuori dalla politica, non sa cos'è una fabbrica, non sa cosa costa farla, cosa costa mantenerla. La parola giusta è cialtroni” . Così Carlo Calenda, eurodeputato di Siamo Europei ed ex ministro dello sviluppo economico, a 24 Mattino su Radio 24 intervistato da Simone Spetia e Maria Latella Calenda, ha commentato le mosse della maggioranza che hanno portato alla decisione di ArcelorMittal di disimpegnarsi dall’ex Ilva. “Lo scudo penale è stato rimosso perché a un certo punto il PD, dopo aver messo lo scudo penale, ha deciso di compiacere Barbara Lezzi e 15 senatori del Movimento 5 Stelle, quindi noi rischiamo di perdere la più grande acciaieria Europea, il più grande impianto del mezzogiorno, il più grande investitore da 4,2 miliardi da 40 anni a questa parte. Non so se questa vi sembra una cosa da fare, ho lavorato 3 anni per far arrivare questo investitore a Taranto”. “Rischiamo di chiudere la più grande acciaieria d'Europa per Barbara Lezzi che, diciamolo, in un mondo normale farebbe un altro tipo di lavoro rispetto a quello che fa. Fatemi essere gentile, ma è una cosa che rasenta la fantascienza. Ma Renzi, che prima ha messo lo scudo penale, poi fa il governo con i 5Stelle, poi vota contro lo scudo penale perché deve compiacere Barbara Lezzi. Io non so se è salvabile questo paese”.  “L'unica cosa che mi viene da dire – aggiunge Calenda a Radio 24 - che questo paese non si può salvare perché ha una classe dirigente che non è solo populista nella Lega e 5Stelle, ma è in mano ad un governo populista a trazione 5Stelle con un Renzi che vota la plastic tax e un Zingaretti che sull’Ilva è letteralmente scomparso” “Renzi deve smetterla di giocare al piccolo merchant banker perché è una cosa che ha fatto già per Alitalia e ancora sto aspettando di vedere la famosa cordata che lui aveva messo insieme. Renzi pensa a Jindal, che è un suo amico perché sta a Firenze, ma Jindal sta rilanciando Piombino e se Renzi si mette a fare casino fa sì che Jindal non fa gli investimenti su Piombino. Poi siccome Jindal, che era l'altra cordata che ha perso perché investiva molto meno, chiedeva esattamente come ArcelorMittal l’immunità, il giorno che degli danno l'immunità Mittal fa una causa per 400 miliardi di euro allo Stato”. Lo afferma Carlo Calenda (Siamo Europei), a 24Mattino su Radio24, commentando le indiscrezioni di stampa secondo cui l’ex premier starebbe lavorando ad una nuova cordata per l’ex Ilva. “Ognuno deve fare le cose che sa fare, Renzi è bravo a fare i suoi giochini politici, continuasse a fare i suoi giochini politici, ma non si occupasse delle fabbriche, non le ha mai viste, non ci ha mai lavorato e non sa cosa sono. – continua Calenda a Radio 24 - Se noi continuiamo a far in modo che queste crisi aziendali, non parlo solo di Ilva, vengano gestite da persone che non hanno mai visto una fabbrica, noi prepariamo il disastro di questo paese”.

Coffee Break, scontro tra Lucia Azzolina e Guido Castelli sull'Ilva: "Sono basita", "non ci sono prove". Libero Quotidiano l'8 Novembre 2019. Scontro in diretta a Coffee Break su La7 tra la grillina Lucia Azzolina e Guido Castelli di Fratelli d'Italia. In studio si parla della vicenda dell'Ilva. "Resto basita dalle sue affermazioni", sbotta la pentastellata, "dobbiamo essere uniti. Abbiamo 386 morti in dodici anni. I morti ci sono". Ma il meloniano risponde: "Non dico che non ci sono i morti dico che non c'è una sentenza che accerti la causa di queste morti". "Sono esterrefatto da questa discussione, ho sentito dire della morte, del disastro", continua Castelli, "tutte cose che ancora non sono state accertate con nessuna sentenza. Se voi demonizzate l'impresa, evocando morti e sciagure senza che siano riscontrate, fate un'azione giornalisticamente plausbile, ma è anche la ragione per cui l'Ue ci sta dicendo che la crescita in Italia sta andando a picco. Rispetto a questa vicenda, dico che abbiamo un governo che ha almeno 4 posizioni diverse di fronte ad una tragedia". 

Giuliano Balestrieri per it.businessinsider.com il 7 novembre 2019. Probabilmente ha ragione l’ex premier Matteo Renzi quando dice che gli indiani di ArcelorMittal avevano “previsto da tempo” di uscire dall’Ilva. E ancora di più quando spiega che la rimozione dello scudo penale sia una scusa. D’altra parte i margini del settore sono in calo e gli analisti si aspettano un’ulteriore contrazione degli utili. Di più: Ilva drena oltre un miliardi di euro l’anno alla casse degli indiani. Motivo per cui gli analisti di Deutsche Bank hanno salutato positivamente la decisione di ArcelorMittal: “E’ un catalizzatore positivo per i conti” si legge nel report pubblicato dalla banca d’affari tedesca che conferma il proprio giudizio sul titolo (“buy”) con un obiettivo di prezzo a 18 euro per azione. “Pur aspettandoci un calo degli utili nel breve termine – si legge – riteniamo che questa decisione sia positiva perché rimuove l’enorme peso di Ilva in termini di cassa dal bilancio di ArcelorMittal. A causa dell’incertezza sull’Ilva, non possiamo escludere che ArcelorMittal avrebbe dovuto tenere inventari in eccesso a garanzia di tutti gli accordi di fornitura. Per questo ci aspettiamo per fine anno il rilascio di ingenti risorse finanziarie”. Tradotto: secondo gli analisti, alla luce delle incertezze e dei problemi legati al rilancio di Ilva, per gli indiani il gruppo italiano rappresentava solo un peso capace di drenare risorse che invece, adesso, potrebbero essere destinate altrove. Anche perché l’interesse di ArcelorMittal verso l’Italia era sicuramente opportunistico. Se è vero che probabilmente quello dell’Ilva è stato l’ultimo grande passo degli indiani verso il consolidamento del mercato europea è altrettanto vero che sarebbe stato difficile ignorare un asset del genere perché il leader del settore – Arcelor – doveva assicurarsi che fosse venduto a un prezzo ragionevole. Una svendita avrebbe aperto le porte del mercato a un potenziale concorrente. A conti fatti, però, il calcolo degli indiani si sarebbe rivelato sbagliato e la decisione di uscire dall’Italia avrebbe motivazioni più finanziarie che politiche. I numeri messi in fila dagli analisti di Deutsche Bank sembrano lasciare poco spazio ai dubbi. ArcelorMittal ha rilevato Ilva per 1,8 miliardi di euro con un contratto di leasing decennale, ma l’operazione ha immediatamente spinto verso l’alto la leva operativa degli indiani in un momento nel quale – peraltro – il ciclo di mercato è in sofferenza. Di conseguenza l’asset italiano si è trasformato in pericoloso freno per la casa madre. Deutsche Bank, quindi, ritiene che “Ilva contribuisca sui conti del 2019 con un’Ebitda negativo di 500-700 milioni di dollari. Considerando investimenti per 400-500 milioni di dollari e una rata d’affitto di 200 milioni, tutto questo porta a un assorbimento di cassa pari a 1,1-1,4 miliardi di dollari e a una resistenza molto elevata del 7-9% rispetto all’attuale capitalizzazione di mercato. Quindi, crediamo che questo sia un positivo a breve termine per l’azienda e per il titolo”. E in effetti all’annuncio i mercati hanno reagito positivamente. A questo punto l’obiettivo sembra quello di deconsolidare i conti Ilva entro fine anno. Ma c’è di più, secondo gli analisti della banca tedesca “ArcelorMittal mira a recuperare alcuni dei fondi iniettati. E potrebbe arrivare a chiedere oltre due miliardi di dollari. Anche se potrebbe essere un’operazione difficile e lunga”.  Di sicuro gli esperti sono convinti che senza Ilva e con la cessione degli asset più in sofferenza di inizio anno, le attività di ArcelorMittal in Europa ne trarranno vantaggio. Quanto agli sviluppi futuri per gli analisti una chiusura definitiva delle acciaierie in Italia aiuterebbe a bilanciare il mercato riducendo la pressione sui prezzi, ma non è escluso un accordo in extremis tra il governo e gli indiani.

"Che ne sarà di noi?". La rabbia degli operai che licenziano il premier. Oggi lo sciopero unitario. Nel mirino oltre a Giuseppi anche il governatore Emiliano. Giuseppe Bassi, Venerdì 08/11/2019, su Il Giornale. In queste ore, mentre le lancette della crisi sembrano condurre inesorabilmente a un disimpegno di ArcelorMittal, la rabbia si mescola allo sconforto. Ma non solo. Perché l'impressione è che adesso, dopo una girandola di proclami e dichiarazioni, tra i lavoratori fermi dinanzi ai cancelli della fabbrica di Taranto, prevalgano scetticismo e rassegnazione, come se ormai il destino di quello che un tempo era un colosso dell'acciaio fosse inevitabilmente segnato. Al punto che il sindaco, Rinaldo Melucci, non usa mezzi termini e ammette: «Pensiamo già al dopo ArcelorMittal, per il bene di Taranto e dell'Italia». Insomma, da queste parti il futuro è adesso. E non c'è un minuto da perdere. «Cosa ne sarà di noi?», chiedono e si chiedono gli operai esasperati. «Non si può giocare sulla nostra pelle», dicono i lavoratori di Taranto, ancora in attesa di capire se sia rimasto uno spiraglio per sperare. In ogni caso la mobilitazione è totale e i sindacati ritrovano compattezza. E dopo lo sciopero della Fim, decidono di incrociare le braccia anche Fiom e Uilm. L'astensione dal lavoro per 24 ore scatterà alle 7 di oggi e riguarderà non soltanto Taranto, ma tutti gli stabilimenti del gruppo. Secondo le organizzazioni sindacali, ArcelorMittal «ha posto condizioni provocatorie e inaccettabili e le più gravi riguardano la modifica del piano ambientale, il ridimensionamento produttivo a quattro milioni di tonnellate e la richiesta di licenziamento di cinquemila lavoratori, oltre alla messa in discussione del ritorno al lavoro dei duemila in amministrazione straordinaria». Le critiche sono rivolte ai vertici dello stabilimento e alla politica. Fiom, Fim e Uilm chiedono infatti «all'azienda l'immediato ritiro della procedura e al governo di non concedere nessun alibi alla stessa per disimpegnarsi». Il riferimento è evidentemente alla cancellazione dello scudo penale dal decreto Salva imprese, una svolta fortemente voluta da un drappello di parlamentari (tra cui l'ex ministro per il Sud Barbara Lezzi) del Movimento Cinque Stelle che da queste parti alle ultime elezioni politiche ha fatto il pieno di consensi sfiorando il 50% dei consensi. Altri tempi. Perché lo scenario, in attesa delle regionali che si terranno l'anno prossimo, è decisamente cambiato. Tanto che il governatore di centrosinistra Michele Emiliano, noto come assiduo corteggiatore dei pentastellati, a pochi mesi dalla corsa per la riconferma dice chiaro e tondo di poter tranquillamente fare a meno di loro. Intanto, anche gli operai dell'indotto sono pronti alla mobilitazione. I segretari dei sindacati che li rappresentano, (Filmcams Cgil, Fisascat Cisl e Fist Cisl, Uiltrasporti e Uiltucs Uil) dichiarano che «senza una risposta esaustiva, unitariamente alle confederazioni di Cgil, Cisl e Uil, saremo pronti a tutte le iniziative fino al blocco a oltranza delle attività lavorative nei propri settori».

L’ILVA chiude i battenti, l’Italia descresce e si lasciano per strada migliaia di famiglie. Ora Barbara Lezzi sarà felice! Mirko Giordani il 5 novembre 2019 su Il Giornale. La situazione dell’ex ILVA è tragica, con migliaia di posti di lavoro in bilico nel solo sito tarantino e altri migliaia a rischio in altri stabilimenti e nell’indotto. La situazione è grave, e la cronistoria del dramma ILVA l’ha raccontata bene ieri Carlo Calenda, ospite dal nostro Nicola Porro. Il gruppo franco-indiano ArcelorMittal e le parti sociali e governative avevano messo le carte in tavola: più di un miliardo per la bonifica ambientale messi da ArcelorMittal e nessun licenziamento fino al 2023, previo scudo penale per evitare che la magistratura mandasse avvisi di garanzia a raffica. Si, perchè sarebbe successo esattamente questo: durante il periodo di bonifica, l’acciaieria tarantina sarebbe stata ancora tecnicamente non in regola con le normative ambientali, e per questo passibile di procedimento giudiziario da parte di solerti magistrati in cerca di gloria. Il punto, e lo capirebbe anche un bimbo di due anni, è che se tu mi apri indagini per danno ambientale mentre io privato metto miliardi per far fronte proprio a quel danno ambientale, non si va da nessuna parte. E giustamente, dopo l’abolizione dello scudo penale sul management di ArcelorMittal, tutta la produzione si è fermata, perchè nessuno vuole finire in pasto alla giustizia italiana. Capite bene in che razza di cortocircuito è si è messo il governo giallorosso? Capite l’imbarazzo del PD e di Renzi, che nel 2012 avevano votato lo scudo penale e ora lo levano con nonchalance? Ora Di Maio si imbambola, Zingaretti si incespica e Renzi va alla ricerca di altri fantomatici compratori esteri. Una fiera dell’idiozia, ca va sans dire. Comunque, concentriamoci sul perchè questo governo è arrivato a questo disastro già scritto. Io direi che ci sono due cause, una di medio-corto termine e un’altra di lungo periodo. La chiusura dell’ex ILVA è una roba chiaramente additabile al M5S ed in particolare all’ex ministro per il Sud (sic) Barbara Lezzi, che ha chiare ambizioni politiche in Puglia. L’obiettivo di questa vispa ed incosciente politica è sempre stato quello di chiudere l’ILVA e riassorbire tutti i dipendenti attraverso fantomatici investimenti pubblici in non si sa cosa. Di Maio e Patuanelli, insieme a Conte, Renzi e Zingaretti, le hanno regalato un’ILVA chiusa, 10mila operai pronti ad andare a spasso e al massimo pronti a ricevere il reddito di cittadinanza. Un “capolavoro” politico su cui migliaia di famiglie tarantine e non piangeranno lacrime amare. L’analisi di lungo termine invece ci fa capire in che direzione va questo governo: smantellamente progressivo del tessuto industriale italiano (vedi anche plastic tax) per sostituirlo con non si sa cosa. Servizi? Turismo? Start up? Industria eco-bio sostenibile? Boh, chi lo sa. Sta di fatto che mentre i deus ex machina romani ci pensano, l’ex ILVA chiude i battenti e non si vede una Silicon Valley made in Italy arrivare.

L’Ilva l’ha uccisa la magistratura. Zuppa di Porro: rassegna stampa del 6 novembre 2019.

01:55 La magistratura sul caso Ilva ha fatto quello che vuole, il vero grande problema è che in questo Paese per operare c’è bisogno dello scudo penale. Punto.

04:31 E c’è chi dice che ArcelorMittal abbia usato la questione scudo penale come scusa per andarsene.

Ressa all'arrivo del premier Conte a Taranto. "Cosa volete, la chiusura ?" Il Corriere del Giorno l'8 novembre 2019. Conte è entrato dalla portineria D della fabbrica, quella riservata all’ingresso degli operai. All’ingresso si sono raggruppati operai e rappresentanti di comitati e movimenti con striscioni che chiedono la riconversione economica del territorio impiegando per questo gli operai per la bonifica. Conte rivendica attenzione all’ambiente: “stiamo lavorando tanto per l’energia pulita”. ROMA – Dopo lo sciopero unitario di 24 ore indetto da Fim, Fiom e Uilm nello stabilimento siderurgico di Taranto e negli altri siti del Gruppo ArcelorMittal, oggi presso lo stabilimento di Taranto è arrivato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, per incontrare i dipendenti accompagnato da alcuni dirigenti del siderurgico. Ressa al suo arrivo: “Parlerò con tutti ma con calma”, ha detto Conte al suo arrivo davanti ai cancelli dell’ex Ilva, dove era atteso da molti cittadini ed operai. E’ una folla composta da ambientalisti, operai e abitanti del quartiere Tamburi quella che all’arrivo del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, preme per parlargli. Il premier a molti di loro chiede: “cosa volete, la riconversione?”. Ma il gruppo composto da “movimentisti” locali, esuli o fuoriusciti da partiti e sindacati, ora sotto mentite spoglie di ambientalisti dell’ultima ora, cercando di imporre la loro parola d’ordine “chiusura” lo hanno assediato all’esterno prima che possa entrare dagli operai. Ecco cosa faceva a Palazzo Chigi il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci: spiava i messaggi privati dal telefono di Giovanni Gugliotti presidente della Provincia di Taranto. Da qui è nato un botta e risposta con alcuni cittadini che gli chiedevano di chiudere l’impianto. Il premier Conte è entrato dalla portineria D della fabbrica, quella riservata all’ingresso degli operai. All’ingresso si sono raggruppati operai e rappresentanti di comitati e movimenti con striscioni che chiedono la riconversione economica del territorio. “Dovete conoscere la situazione“, gli ha detto un cittadino. “Sono qui per questo” ha risposto Conte. Solo qualcuno accenna alla possibilità di una riconversione, impiegando per questo gli operai per la bonifica. Conte rivendica attenzione all’ambiente: “stiamo lavorando tanto per l’energia pulita”. Il premier parteciperà al consiglio di fabbrica permanente indetto da Fim, Fiom e Uilm. I metalmeccanici chiedono “all’azienda l’immediato ritiro della procedura di retrocessione dei rami d’azienda e al governo di non concedere nessun alibi alla stessa per disimpegnarsi, ripristinando tutte le condizioni in cui si è firmato l’accordo del 6 settembre 2018 che garantirebbe la possibilità di portare a termine il piano Ambientale nelle scadenze previste”. Le sigle sindacali Fim, Fiom e Uilm sostengono che “la multinazionale ha posto delle condizioni provocatorie e inaccettabili e le più gravi riguardano la modifica del Piano ambientale, il ridimensionamento produttivo a quattro milioni di tonnellate e la richiesta di licenziamento di 5mila lavoratori, oltre alla messa in discussione del ritorno a lavoro dei 2mila attualmente in Amministrazione straordinaria“. Unitaria però è la valutazione che i sindacati danno dei fatti. “Le organizzazioni sindacali nazionali di Fim, Fiom e Uil dichiarano intollerabile quanto emerso dall’incontro di mercoledì tra il Presidente del Consiglio e i vertici di ArcelorMittal, programmato per chiedere il ritiro della procedura di disimpegno dagli stabilimenti dell’ex Ilva annunciata il 4 novembre”. La multinazionale ha posto delle condizioni provocatorie e inaccettabili e le più gravi riguardano la modifica del Piano ambientale, il ridimensionamento produttivo a quattro milioni di tonnellate e la richiesta di licenziamento di 5 mila lavoratori, oltre alla messa in discussione del ritorno a lavoro dei 2 mila attualmente in amministrazione straordinaria”, si legge in una nota dei sindacati. Nel frattempo il gruppo indiano Jindal, ha negato un proprio interesse per gli asset dell’ex Ilva, dopo la decisione annunciata di ArcelorMittal. “Smentiamo con forza” si legge in un tweet postato sul canale Twitter del gruppo, le indiscrezioni di stampa secondo cui “Jindal Steel & Power potrebbe rinnovare il suo interesse per l’acciaieria di Taranto”. L’agenzia internazionale Moody’s ha confermato il rating ‘Baa3’ di ArcelorMittal cambiando però l’outlook da ‘stabile’ a ‘negativo’. La revisione, si legge in una nota, “riflette il rapido declino degli utili quest’anno nel contesto di una domanda calante da parte del mercato finale e di un deterioramento degli spread sull’acciaio”. “Ulteriori pressioni al ribasso” sul rating potrebbero arrivare “dall’incapacità di dare esecuzione senza attriti e in modo tempestivo alla proposta di risoluzione dell’acquisto dell’Ilva“. “Nazionalizzare? il problema è chi paga. Questo governo dovrebbe cominciare a pensare a chi paga e quali sono gli effetti sull’economia reale e sulla società di alcune scelte. Occorre assumersi delle responsabilità, avere senso del limite, con l’auspicio che questa questione da ambientale non diventi anche economica e sociale. Certamente nessuno lo auspica”. Così Vincenzo Boccia presidente di Confindustria: “Penso che questo governo abbia generato la causa e dovrebbe cercare di risolverla, nella logica di mercato e di impresa – prosegue Boccia – ci auguriamo che prevalga il buon senso. Il problema è il precedente che stiamo creando. Stiamo dimostrando al mondo intero che quando arriva un investitore cambiamo poi certe regole e lo facciamo scappare. Immaginate poi chi viene più a investire in Italia.“. I commissari dell’ILVA in amministrazione straordinaria, nominati dal ministro Luigi Di Maio quando era alla guida del MISE hanno annunciato una istanza all’autorità giudiziaria di Taranto con la quale si richiede la proroga del termine del 13 dicembre fissato dal Tribunale per mettere in sicurezza l’Altoforno AFO 2 , sottoposto a sequestro dopo l’incidente del giugno 2015 in cui è morto l’operaio Alessandro Morricella, le cui ragioni sono ancora da accertare e per il quale peraltro non si è arrivati ad alcun grado di giudizio. Ieri mattina i tre commissari, Francesco Ardito, Alessandro Danovi e Antonio Lupo, hanno incontrato il procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo. Sempre sul fronte giuridico, essendo “sopravvenute” diverse modifiche normative e a fronte di “una tale evoluzione” del quadro delle disposizioni vanno registratele motivazioni della Corte Costituzionale, alla base della scelta di inizio ottobre di rimandare gli atti al Gip dr. Ruberto del Tribunale di Taranto, che l’aveva interpellata sullo scudo penale per l’ex Ilva: , “non può spettare che al giudice rimettente valutare in concreto la loro incidenza sia in ordine alla rilevanza, sia in riferimento alla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate“, dice la Consulta.

"Non ci rappresenti", "Che fai?". Conte contestato a Taranto. Il premier incontra i dipendenti dell'ex Ilva che lo contestano. E la trattativa con ArcelorMittal resta in alto mare. Angelo Scarano, Venerdì 08/11/2019, su Il Giornale. La trattativa tra il governo e ArcelorMittal per il futuro dell'ex Ilva è in alto mare. L'esecutivo non riesce a trovare la quadra per riaprire la partita e il contratto a quanto pare potrebbe essere un assist per la stessa ArcelorMittal. Il premier ha però deciso di andare a Taranto per incontrare i dipendenti dell'ex Ilva che oggi stanno scioperando per 24 ore in tutti gli stabilimenti ArcelorMittal presenti sul territorio nazionale. Quella di Conte nella città pugliese non è stata certo una passeggiata. Il premier è finito subito nel mirino dei dipendenti che adesso temono di perdere il posto di lavoto. "Parlerò con tutti, ma con calma", ha affermato il presidente del Consiglio davanti alla portineria D dello stabilimento. Si tratta dell'ingresso riservato agli operai, la trincea più calda di questa protesta. A questo punto, tra la folla uno dei cittadini presenti ha incalzato Conte: "Dovete conoscere questa situazione". Il premier ha replicato: "Sono qui per questo". E poi ha ammesso: "Non ho la soluzione in tasca". Lo stesso Conte ha poi dovuto affrontare anche i dipendenti dell'ex Ilva che chiedono l'intervento immediato dell'esecutivo. Quella che si sta consumando a Taranto è una "guerra" tra i dipendenti e gli stessi tarantini che invece da anni denunciano un allarme ambientale in città dovuto alla presenza dell'acciaieria. In tanti con striscioni e urla hanno detto a conte "noi vogliamo vivere". Ma non è finita qui. Il premier ha ascoltato alcuni rappresentanti dei cittadini che non vogliono lo stabilimento in città: "Via lo scudo per Mittal, a Taranto è concesso tutto, la vita dei tarantini vale meno di quelli di Genova?". Insomma la tensione a Taranto è subito salita alle stelle. Il governo continua a brancolare nel buio e non riesce ad offrire soluzione per un vero e proprio cambio di rotta nella gestione di una crisi così profonda che mette a repentaglio il lavoro di più di 10mila persone. La vicenda Ilva poi si declina anche sul fronte politico con un braccio di ferro rischioso nella maggioranza proprio sullo scudo fiscale per l'azienda. Le parole di Di Maio di questo pomeriggio su questo punto sono piuttosto pesanti: "Se il Pd presenta un emendamento sullo scudo è un problema per il governo". Una dichiarazione di guerra da parte dei 5 Stelle contro i dem. La partita sull'Ilva è lunga e rischia di chiudersi male per l'esecutivo. Un governo che deve fare i conti con una drammatica spaccatura al suo interno tra chi vuole salvare i posti di lavoro e chi invece usa la crisi attuale per rilanciare l'idea della chiusura della fabbrica.

Maurizio Belpietro per ''La Verità'' l'8 novembre 2019. L' avvocato del popolo che in queste ore accusa il gruppo franco-indiano di aver rotto il contratto di acquisto dell' Ilva senza alcuna seria motivazione, se non quella di non onorare i propri impegni, dovrebbe leggere il contratto di affitto dell' acciaieria con cui Arcelor Mittal si è assunto l' obbligo di gestire l' impianto. Il paragrafo che dovrebbe interessare Giuseppe Conte, che essendo uomo di legge dovrebbe saper cogliere al volo la questione, è il 27.5, ovvero la clausola che fissa le regole in base alle quali l' affittuario dell' azienda può recedere dal contratto e mandare a quel paese tutti, avvocato compreso. Lo so che la faccenda ad alcuni di voi potrebbe sembrare affare da leguleio, ma quelle poche righe sono la chiave di un pasticciaccio brutto in cui il nostro Paese si è infilato e per il quale rischia di pagare un prezzo piuttosto alto, in termini di Pil, di occupazione e di penali. Ma andiamo con ordine, per spiegare nel dettaglio ciò che è accaduto. Prima c' è l' inchiesta penale della Procura di Taranto che arresta i proprietari e dichiara fuorilegge la fabbrica, con l' accusa di violazioni delle norme ambientali. I Riva, cioè la famiglia di acciaieri, sono praticamente espropriati dell' azienda e questa, sotto minaccia della magistratura di chiudere tutto, è commissariata. Dal punto di vista tecnico, per poter operare gli altiforni devono essere messi a norma, ma per esserlo non solo bisogna investire un mucchio di soldi, ma serve anche tempo. Per i duri e puri, tra i quali paiono esserci pure alcuni pm, bisognerebbe spegnere tutto, ristrutturare e poi riaprire. Ma un' acciaieria non è un lampadario che accendi con un clic. Una volta che hai premuto l' interruttore, per farla tornare a splendere ci vuole qualche anno. Tradotto, chiudere significa morire, non ripartire. Questo è noto a tutti, soprattutto ai commissari incaricati di gestire la transizione e di vendere a investitori che risanino l' azienda senza chiuderla, mantenendo dunque produzione e occupazione. Dunque nel 2015, all' epoca del governo Renzi, vengono fatti una serie di decreti che garantiscono a chi subentrerà di poter operare al risanamento, senza incorrere in stop o in rischi, cioè senza che la magistratura si metta di traverso, bloccando gli altiforni o arrestando i manager incaricati di gestire l' Ilva. Tutto chiaro, fin qui? Bene, i decreti sono convertiti in legge e dopo di che viene predisposto un contratto d' affitto. E così siamo arrivati al paragrafo 27.5, un pugno di righe in cui sta scritto che, «nel caso di una sentenza definitiva o esecutiva, non sospesa negli effetti ovvero con decreto del Presidente della Repubblica anch' esso non sospeso negli effetti, ovvero con o per effetto di un provvedimento legislativo o amministrativo non derivante da obblighi comunitari, sia disposto l' annullamento integrale del decreto del presidente del Consiglio dei ministri () ovvero nel caso in cui ne sia disposto l' annullamento in parte tale da rendere impossibile l' esercizio dello stabilimento di Taranto, () entro il termine di 15 giorni () ha il diritto di recedere dal contratto attraverso una comunicazione scritta». Lasciate perdere il burocratese con cui è scritto il contratto e concentratevi sulla sostanza. Al punto 27.5 non c' è scritto che i manager possono invocare l' immunità penale nel caso avvelenino un operaio e nemmeno sta scritto che possano produrre acciaio in spregio alle leggi sulla sicurezza e sulla tutela dell' ambiente. E però è messo nero su bianco che le sentenze oppure modifiche legislative che non siano europee non possono rendere impossibile l' esercizio dello stabilimento di Taranto, perché altrimenti l' affittuario, cioè Arcelor Mittal, può fare le valigie e lasciare tutti con un palmo di naso addebitando la colpa al governo. Ed è quel che è successo. Il Parlamento ha modificato il quadro normativo, togliendo lo scudo penale, e il gruppo franco-indiano ha azionato la clausola che gli consentiva di mandare tutti al diavolo. Dice Giuseppe Conte: la decisione è pretestuosa, perché hanno scoperto che, essendo cambiate le condizioni di mercato, non sono più in grado di onorare il contratto. Può essere: ma la maggioranza giallorossa ha offerto ad Arcelor Mittal il pretesto per uscire dal contratto. Ora l' avvocato del popolo è pronto a fare marcia indietro e cioè a rioffrire l' immunità. Ma quei gran furboni del gruppo franco-indiano adesso pretendono di più. Come l' avvocato del popolo dovrebbe sapere, le clausole fanno la fortuna degli studi legali. Purtroppo nella decisione della maggioranza giallorossa di abolire lo scudo penale di legale c' è poco, di studio ancora meno. Dunque, prepariamoci a pagare.

Ilva: Conte ha torto. Ecco il contratto,  esclusiva La Verità. Nell’accordo con Arcelor Mittal c’è il diritto di recesso in caso di modifica del quadro normativo, come lo scudo penale. Maurizio Belpietro l'8 novembre 2019. Giuseppe Conte, l’avvocato del popolo che in queste ore accusa Arcelor Mittal di aver rotto il contratto di acquisto dell’Ilva senza alcuna seria motivazione, se non quella di non onorare i propri impegni, dovrebbe leggere il contratto di affitto dell’acciaieria con cui il gruppo franco-indiano si è assunto l’obbligo di gestire l’impianto. Il paragrafo che dovrebbe interessare il Presidente del Consiglio, un avvocato che dovrebbe cogliere al volo la questione, è il 27.5, ovvero la clausola che fissa le regole in base alle quali l’affittuario può recedere dal contratto mandare tutti a quel paese, compreso Giuseppi. Lo so che la faccenda ad alcuni di voi potrebbe sembrare affare da leguleio, ma quelle poche righe sono la chiave di un pasticciaccio brutto in cui si è infilato e per il quale rischia di pagare un prezzo piuttosto alto in termini di Pil, occupazione e di penali. Ma andiamo con ordine, per spiegare nel dettaglio ciò che è accaduto. Prima c’è l’inchiesta penale della Procura di Taranto che arresta i proprietari e dichiara fuorilegge la fabbrica, con l’accusa di violazioni delle norme ambientali. I Riva, cioè la famiglia di acciaierie, sono praticamente espropriati dell’azienda e questa, sotto minaccia della magistratura di chiudere tutto, è commissariata. Dal punto di vista tecnico, per poter operare gli altiforni devono essere messi a norma, ma per esserlo non solo bisogna investire un mucchio di soldi, ma serve anche tempo. Per i duri e puri, tra i quali paiono esserci anche un paio di pm, bisognerebbe spegnere tutto, ristrutturare e poi ripartire. Ma un’acciaieria non è un lampadario che spegni ed accendi con un clic. Una volta che hai premuto l’interruttore, per farla tornare a splendere, ci vuole qualche anno...

Michelangelo Borrillo per Corriere.it il 98 novembre 2019. Cento minuti tra la folla. Con 300 persone che hanno aspettato le 17.20 dell’8 novembre 2019 per sfogare la rabbia repressa da più di 50 anni, tramandata, a Taranto, di madre in figlio. La giornata del premier Giuseppe Conte, fuori e dentro i cancelli di quella che fu l’Italsider, è cominciata nel parcheggio della portineria D, liberato in fretta e furia, con il carro attrezzi, dalle auto degli operai ma non dai rifiuti che lo fanno sembrare più triste di quanto in realtà già sia in una giornata di sciopero contro la chiusura della fabbrica. Uno sciopero con adesioni non altissime, «perché altrimenti si fa un favore all’azienda», spiegano gli operai che tornano a casa. Per lasciare il campo all’altra Taranto, radunatasi nel parcheggio ad aspettare Conte. La Taranto delle mamme dei Tamburi, dei cassintegrati, dei licenziati, dei tarantini che non vogliono più il mostro. Così lo chiamano, mentre gridano al ritmo di Ta-ran-to li-be-ra. Tarantini di tutte le età che fanno da contraltare a una quindicina di sindaci arrivati dalla provincia, con tanto di fascia tricolore, per chiedere a Conte di «tutelare l’occupazione». Per fortuna quelli delle associazioni non li sentono. Il premier dà appuntamento ai sindaci in serata, in prefettura, dove convoca anche il procuratore Carlo Maria Capristo per chiedergli, con ogni probabilità, la situazione dell’Altoforno 2, una delle situazioni a rischio che hanno indotto ArcelorMittal a dare l’addio a Taranto. Prima di incontrare le istituzioni e gli operai dentro la fabbrica, che invece gli riserveranno un’accoglienza più ospitale, condita anche da applausi, Conte decide di affrontare i cittadini che lo contestano. Per ascoltarli si fa strada addirittura tra la sua scorta: in un clima di tensione, le forze dell’ordine faticano a trattenere la folla; ma poi alla fine è lo stesso Conte a liberarsi di loro per incontrare quanta più gente possibile. C’è Carla, la mamma che ha perso il figlio di 15 anni; Roberta, l’assistente sociale che fa la cameriera pur di non lasciare Taranto, ma vuole costruire la famiglia in un posto salubre; c’è l’operaio del laminatoio, che si sente «con la coscienza sporca perché porto a casa i veleni della fabbrica, ma non posso licenziarmi»; e poi il ragazzo incappucciato al quale Conte intima di scoprirsi il volto prima di ascoltarlo, e Sabrina, la mamma dei Tamburi, che vuole «la chiusura della fabbrica e la bonifica utilizzando gli operai», quello che gli ambientalisti chiamano il Piano Taranto. Conte prende nota, anche del numero di telefono della donna, promettendo di andare a trovarla a casa sua dopo cena per cercare di capire meglio la proposta. Carla Luccarelli, che ha perso il figlio Giorgio per un sarcoma, mostra la sua foto al premier: «Voleva vivere e avere figli, ma non gli è stato possibile. E allora adesso chiudiamo: qua ci sono più morti che nascite». Il leitmotiv è sempre lo stesso, interrotto solo dai cori noi-vogliamo-vivere: «Perché a Genova è stato possibile chiudere l’area a caldo e qui no? Perché la Germania vara il piano verde e noi no?». Tra la folla si fa spazio anche Pasquale, licenziato giovedì: vuole gridare la sua rabbia a Conte, a cinque centimetri dalla sua faccia. Il presidente pugliese ascolta tutti: «Chi altri vuole parlare?». E si fa avanti Giuseppe, disoccupato: «Abito ai Tamburi e ho sempre rifiutato di lavorare qui perché ho conosciuto gente che ci è morta. Ho 38 anni e non voglio avere figli in questa città». Conte ascolta tutti, ma nella risposta è sincero senza illudere nessuno: «Sono venuto qui senza maschera, mi avete visto, ma non ho la soluzione in tasca». All’interno dello stabilimento, poi, in un consiglio di fabbrica più sereno, tra i rappresentanti dell’altra Taranto, quella che non vuole e non può prescindere dal lavoro, dà qualche rassicurazione in più: «Il dossier ex Ilva — dice ai 200 operai raccolti intorno a lui, dopo averli ascoltati per un’ora — è prioritario per il governo. Dobbiamo gestirlo tutti uniti, come sistema Paese». Ma bisogna convincere l’altra Taranto, quella che grida «o si chiude ora o mai più».

Le "fake news" di Marco Travaglio sull’Ilva, smentite dal sindacalista Bentivogli. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno l'8 novembre 2019. il Direttore del Fatto Quotidiano ha cercato di sceneggiare una patetica difesa di Luigi Di Maio sull’Ilva di Taranto accusando i “giornaloni”, i furboni di Arcelor-Mittal ed i governi precedenti che volevano concedere l’impunità all’azienda., ma ha fatto male i conti: ha trovato sulla sua strada il sindacalista che ha ridicolizzato una per una le sue “balle” a 5 stelle. Una lettera aperta di un ingegnere che nessuno vuole pubblicare…. E’ stato un grande spettacolo televisivo quello trasmesso  due sere fa nel programma televisivo Otto e Mezzo condotto da Lilli Gruber su La7 . Intorno al tavolo a confrontarsi c’erano il giornalista Massimo Giannini, e Marco Bentivogli il Segretario Generale dei Metalmeccanici FIM CISL . Collegato dalla sua redazione Marco Travaglio Direttore del Fatto Quotidiano. Tema della puntata, l’enorme disastro politico che gli ultimi due governi guidati entrambi da Giuseppe Conte  hanno causato sull’ex Ilva. Secondo Travaglio , che come sempre difende a spada tratta l’indifendibile M5S,  Arcelor Mittal “racconta balle e pretende la licenza di uccidere“.

il Fatto Quotidiano però scriveva che lo scudo penale è nel contratto: “Nel contratto che ha firmato non era previsto alcuno scudo penale“ ha esordito subito Travaglio che ieri ha voluto difendere Conte e soprattutto Luigi Di Maio l’ex ministro “duplex” (del Lavoro e dello Sviluppo Economico, nel 1° governo Conte, cioè quello insieme alla Lega . “Per quanto incauti i nostri governi che hanno ceduto l’Ilva a questa cordata franco indiana non siano arrivati a tale punto di improntitudine dallo scrivere dentro a un contratto che avrebbero garantito l’impunità per i reati che sarebbero stati intenzionati o costretti a commettere“, ha affermato il direttore del Fatto ignorando che Arcelor Mittal non è una cordata, ma bensì una società leader mondiale nella produzione dell’acciaio. Travaglio voleva fare passare l’idea che il cosiddetto “scudo penale” fosse propedeutico a coprire tutte le fattispecie di reato nella gestione dell’ex-Ilva , e che quindi Arcelor Mittal avesse campo libero. In realtà non è così come poco dopo ha spiegato Bentivogli , perchè “lo scudo penale riguarda solo il perimetro dell’azione che si svolge per realizzare il piano ambientale”, e conseguentemente ha un’area di applicazione ben precisa. Ma la “fake news” più grossa di Travaglio rimane quella circa il fatto che il Governo Conte 1 non avesse concesso alcuno “scudo” ad Arcelor-Mittal. Perché come ha documentato il CORRIERE DEL GIORNO e riportato anche dal SOLE24ORE a luglio (e come pubblicato lo stesso Fatto Quotidiano) nel contratto quello scudo c’era eccome ! Circostanza confermata in trasmissione del Segretario della FIM-CISL il quale ha detto che “l’addendum al piano ambientale proprio all’articolo 27 che qualora ci sia qualsiasi modifica del quadro normativo con cui è stata fatta la gara ad evidenza pubblica e qualora ci sia l’impossibilità di realizzare il piano ambientale, entrambe le violazioni sono causa di scioglimento e rescissione del contratto“. Addendum che era stato sottoscritto il 14 settembre 2018, quando sulla poltrona di ministro dello Sviluppo economico c’era il suo “protetto” Luigi Di Maio. Dopodichè è successo che il Governo Conte 1 con la firma di Di Maio, ha revocato le esimenti penali, poi le ha rimesse, ed il Governo Conte 2 qualche settimana fa le ha cancellate di nuovo. Questa è la realtà che Travaglio ignora o fa finta di non conoscere…

Le “fake news” di Travaglio sull’ex Ilva di Taranto. E’ molto strano che Travaglio abbia affermato che quella norma non c’era smentendo di fatto quanto il suo stesso giornale non più tardi di quattro mesi fa aveva pubblicato scrivendo che quella clausola esisteva e che era motivo si scioglimento del contratto. Più che legittimo chiedersi oggi per quale motivo oggi Travaglio avverta un così grande desiderio di difendere Di Maio, ma è ben noto che la sua è l’ennesimo attacco contro i cosiddetti “giornaloni” e il mondo dell’editoria, scrivendo ieri sul Fatto: “Bei tempi quando i Riva si compravano i giornalisti. Oggi vengono via gratis”. Come se il suo quotidiano che dirige sia il “Vangelo” dell’informazione, che in realtà non è, venendo invece definito da molti come “il Falso Quotidiano” o “il Fango Quotidiano” e subissato di querele e citazioni per danni. Travaglio peraltro voleva lasciare passare il teorema-interpretazione che il cosiddetto “scudo” fosse speculare a garantire un’impunità pressoché totale ai vertici dell’Ilva. Il segretario generale della FIM-CISL  Marco Bentivogli lo ha smentito ricordando che a prendere le decisioni operative non è certo l’Amministratore Delegato o i poteri forti della multinazionale: “in questo periodo questo scudo ha protetto impiegati di settimo livello, quadri“. Ma Travaglio non contento ed irritato, ha replicato: “è incredibile che si dia la colpa a quelli che hanno tolto lo scudo penale” sostenendo in maniera ridicola che in realtà Arcelor Mittal non hai mai voluto acquistare l’acciaieria, ma che il suo vero intento era quello di “sottrarla a concorrenti e per prendersi il portafoglio clienti“. Ma il sindacalista Bentivogli lo ha smentito nuovamente ricordando che Arcelor Mittal, avrebbe potuto farlo senza impegnarsi all’acquisto nel momento in cui ha avanzato la manifestazione d’interesse, prendendo conoscenza dal “dossier” l’elenco dei clienti dello stabilimento siderurgico di Taranto. Quello che Travaglio ignora o fa finta di non sapere è che alla gara internazionale per acquisire l’ Ilva non avevano partecipati concorrenti degni di nota (come come i principali gruppi siderurgici mondiali) ma solo una cordata di “volenterosi” messa in piedi dietro le quinte dai “renziani” guidata dal gruppo indiano Jindal, a cui partecipavano il gruppo italiano Arvedi, la finanziaria  di Leonardo del Vecchio, che era sostenuta finanziariamente da Cassa Depositi e Prestiti, vale a dire lo Stato italiano. “Non hanno comprato niente” ha detto Travaglio ricordando che al momento Arcelor-Mittal ha in affitto il Gruppo ILVA. Ed anche in questo caso Bentivogli ha dovuto precisare e spiegargli che nel famoso addendum contrattuale (quello che per Travaglio non esiste) che porta la firma anche di Luigi Di Maio in assenza di modifiche sostanziali al piano ambientale “l’azienda alla fine del 2020 è obbligata a comprare lo stabilimento“. Cioè avrebbe dovuto e voluto farlo se il ministro Di Maio non avesse cambiato le carte in tavola. “Nessuno scudo potrà mai tenere acceso l’altoforno numero 2″, urlava Travaglio sostenendo che l’altoforno “deve essere spento perché è una struttura killer” collegandolo alla drammatica e complicata vicenda dell’altoforno 2 dell’ex-Ilva di Taranto che l’8 giugno 2015 vide la drammatica morte dell’operaio Alessandro Morricella. In verità, Travaglio ignora o finge di non sapere che su quell’incidente ad oggi non c’è nessuna sentenza della magistratura, mentre Arcelor Mittal, che non ha avuto alcuna responsabilità nell’incidente, per quell’indeterminato malfunzionamento subisce conseguenze tanto gravi da indurla a “lasciare Taranto”, ancor più che per la mancanza di “protezione legale”.

Infatti spegnere l’altoforno Afo 2 significa di fatto dover spegnere anche gli altri altoforni che operano con la stessa tecnologia e quindi di conseguenza dover chiudere l’azienda. Secondo i “tuttologi” come Marco Travaglio, Michelano Emiliano non sarebbe possibile poter produrre acciaio senza inquinare garantendo nello stesso tempo la sicurezza dei lavoratori. Ma in realtà non è così: perché è stato fatto a pochi chilometri dall’Italia, a Linz. E lì la bonifica non è stata fatta chiudendo l’azienda (come a Bagnoli, dove non c’è stata) ma grazie ad un’impresa che ha investito in sicurezza e in buone pratiche ambientali.

La follia giudiziaria di spegnere l’ altoforno 2. Purtroppo in questi talk-show televisivi vengono invitati giornalisti privi di alcuna conoscenza delle problematiche, che vengono riferite loro da pennivendoli e scribacchini locali, ben noti, le cui ideologie posizioni anti-Ilva sono ben note e che vengono riprese incredibilmente senza alcuna verifica da giornalisti che lavorano 8e parlano) da Milano e Roma. Molti dei quali non hanno mai messo piede nello stabilimento ILVA di Taranto. Secondo l’ing. Biagio De Marzo già dirigente siderurgico a Taranto, Terni e Sesto S. Giovanni, già presidente di “AltaMarea contro l’inquinamento – Coordinamento di cittadini, associazioni e comitati di volontariato sanitario, ecologista, civico e sociale della provincia di Taranto”, che sulla questione AFO 2 ha prodotto numerosi interventi “chiarificatori” pubblici, e persino degli esposti alla Procura della Repubblica di Taranto, anche recentemente. In una lettera aperta l’ingegnere De Marzo che si ritiene abbia più competenze di Travaglio ed Emiliano messi insieme, scrive : “AM InvestCo Italy (cioè Arcelor Mittal n.d.r.) ha motivato la richiesta di recesso dal contratto o risoluzione dello stesso anche perché “il Tribunale penale di Taranto ha imposto lo spegnimento dell’altoforno numero 2 se non si completano talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019, mentre gli specialisti, e gli stessi Commissari di Ilva in amministrazione straordinaria, hanno ritenuto impossibile rispettare tale termine.” Riassumendo brevemente, il sequestro di AFO 2 fu assunto “in attesa di conoscere le cause dell’evento anomalo a base dell’infortunio, nonché di quelli successivi di minore entità seguiti nei giorni successivi, nel dubbio di un malfunzionamento degli apparati di segnalazione di anomalie, che possa costituire fonte di pericolo di eventi e reati analoghi”. Stante il sequestro con facoltà di uso, a metà 2019, a quattro anni dall’incidente mortale, la magistratura dispone lo “spegnimento di AFO 2”, con motivazioni connesse a valutazioni del solo impianto accusatorio, basate su aspetti tecnici non ancora accertati giuridicamente. Secondo l’accusa ci sarebbe una (indeterminata) mancanza di condizioni di sicurezza dell’altoforno per i lavoratori; secondo la difesa ci sarebbe stata una causa del tutto “esterna al forno propriamente detto”, innescata da un “evento umano”. Trattasi chiaramente di una contrapposizione di non poco conto per le responsabilità giuridiche e soprattutto per l’individuazione delle conseguenti prescrizioni impiantistiche ed organizzative. “Ritengo – aggiunge l’ ing. De Marzo – doveroso manifestare, ancora una volta, il convincimento che la morte del povero Morricella è avvenuta non per un indeterminato malfunzionamento dell’impianto ma in conseguenza di un “evento umano”: per “sbloccare la colata di ghisa”, il personale del campo di colata ha applicato maldestramente la procedura “confidenziale”, non ufficiale, popolarmente chiamata NAKADOME”. Tale procedura, pur essendo praticata in vario modo in tutto il mondo, non è standardizzata, nè tantomeno scritta, ma è tramandata “alla voce” tra gli addetti. Negli anni ’70 altofornisti giapponesi “ammaestrarono” gli italsiderini tarantini sulla NAKADOME’, operazione assolutamente eccezionale, che verrebbe decisa da un responsabile di altoforno, nel caso in cui con la “macchina a forare” non si riuscisse in alcun modo a “pescare” la ghisa liquida nell’altoforno. Si adopererebbe, con tutte le cautele del caso, la “macchina a tappare” iniettando nel foro di colaggio pochi chilogrammi di “massa a tappare” impastata con catrame che, a contatto con l’altissima temperatura interna all’altoforno, provocherebbe un’esplosione cui seguirebbe il deflusso regolare della ghisa liquida. Il tutto avverrebbe in pochissimi secondi senza nessun infortunio per il personale. “Siamo convinti – scrive l’ ing. De Marzo – che quella sera su AFO 2 fu eseguita maldestramente una NAKADOME’. I lavoratori presenti sul campo di colata al momento dell’incidente dovrebbero testimoniare in tal senso. Conseguentemente la magistratura potrebbe rinviare al primo rifacimento dell’altoforno le prescrizioni ritenute tecnicamente non eseguibili attualmente. Ove mai non si riuscisse ad acquisire le suddette certezze testimoniali, si potrebbe effettuare, con tutte le precauzioni necessarie, la prova di una NAKADOME’ dimostrativa che riprodurrà, in qualche modo, quanto Lenzi ed io riteniamo che sia accaduto quella disgraziata notte su AFO 2: noi siamo a totale disposizione dell’Autorità Giudiziaria. La suindicata prova concreta favorirebbe l’emergere della verità fattuale, senza dover aspettare i tempi indeterminati dell’ipotizzato “approfondimento processuale”, e consentirebbe di riqualificare subito le prescrizioni per il riavvio dell’altoforno 2 ferme restando le rispettive responsabilità giudiziarie”. “In conclusione, è auspicabile il ripensamento sia del personale del campo di colata, sia dei periti/consulenti e dei magistrati che dovrebbero modificare l’accusa per gli indagati e conseguentemente le prescrizioni tecniche per l’altoforno. Stabilire subito cosa è successo veramente su AFO 2, aiuterebbe ad assodare se il Siderurgico di Taranto debba essere chiuso nel dubbio di malfunzionamento di tutto quanto avviene lì dentro oppure se possa continuare a funzionare, ovviamente operando correttamente e realizzando i necessari lavori di sicurezza e antinquinamento, attesi i risultati e relativi provvedimenti del riesame dell’AIA e dell’effettuazione della VIIAS, anche preventiva, con il concorso “agevolato” di Arcelor Mittal, non contro Arcelor Mittal, sempre che “resti a Taranto”. Alla fine della lettera aperta che nessun giornale locale o nazionale ha voluto pubblicare, l’ing. De Marzo coglie infine, l’occasione per porre una domanda: “solo a me viene il dubbio di un conflitto di interesse dell’attuale custode giudiziario dell’ex Ilva e consulente tecnico della magistratura di Taranto ( cioè l’ing. Barbara Valenzano – n.d.a.) nel frattempo divenuto dirigente della Regione Puglia al massimo livello, in presa diretta con il presidente Emiliano notoriamente e fortemente critico nei confronti dell’ex Ilva e di Arcelor Mittal ? “

Carlo Calenda a Omnibus scatenato contro Michele Emiliano: "Ha fatto di tutto per cacciare Arcelor Mittal". Libero Quotidiano il 9 Novembre 2019. Sul banco degli imputati per la grande fuga di Arcelor Mittal dall'Italia, oltre a svariati grillini, c'è il governatore della Puglia, Michele Emiliano. E proprio Emiliano finisce nel mirino di Carlo Calenda, il leader di Siamo Europei, ospite a Omnibus su La7: "Ha fatto di tutto per far scappare Mittal", picchia subito durissimo Calenda contro Emiliano e il governo giallorosso. "Emiliano ha fatto qualunque cosa per far andar via Mittal. Come fa a parlare di difendere il contratto? C'è un problema di schizofrenia in questa vicenda per cui si dice una cosa e poi se ne fa un'altra", rimarca Calenda. Dunque, le aspre critiche all'apertura circa la nazionalizzazione dell'industria, in un monologo assolutamente scatenato.

Ex Ilva, il grillino Nicola Morra: "La salviamo così che problema c'è?" Libero Quotidiano l'8 Novembre 2019. Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia, crede di sapere come risolvere l'emergenza Ilva in tempi brevi. In un intervento alla trasmissione Circo Massimo su Radio Capital, il grillino non ha dubbi: "Ilva si può statalizzare. Che problema c'è?". E poi spiega la sua idea: "Acquisiamo temporaneamente Ilva per mettere in sicurezza gli stabilimenti [...] Costerebbe 300 milioni. Non mi sembra una cifra folle, ma un costo socialmente accettabile". Come si vede, non è solo il governo a dividersi sulla gestione della vicenda Ilva, ma anche il Movimento 5 stelle al suo interno. Ogni esponente avanza le sue proposte, il partito non ha una linea unica, il titolare del Mise Patuanelli è in difficoltà e la leadership di Luigi Di Maio appare sempre più debole. Per questo motivo, lo stesso Di Maio ha convocato una riunione d'urgenza in giornata. Sarà una resa dei conti o un'occasione per compattarsi? Nel frattempo, nuovi statalisti crescono.

Alessandro Barbera per “la Stampa” l'8 novembre 2019. Vuoi vedere che si torna all' Italsider? Se il signore dell' acciaio non cambierà idea, per evitare il peggio all' Ilva non resterà molto altro da fare. A Palazzo Chigi e Tesoro fanno ancora gli scongiuri, ma sono costretti a prepararsi al peggio. Fra costo del riacquisto dello stabilimento, adeguamenti ambientali e ammodernamento degli impianti lo Stato sarebbe costretto a sborsare quattro miliardi e duecento milioni di euro. L' ironia della Storia vuole che sia poco meno della cifra spesa per costruirlo negli anni ruggenti del boom economico. Ci vollero cinque anni: prima pietra il 9 luglio 1960, il nastro dell' ultimo altoforno fu tagliato il 10 aprile 1965 dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Costo: quattrocento miliardi di lire. Al cambio di oggi fanno quattro miliardi, duecentoventi milioni e spiccioli. E' più di quel che vale la voce cuneo fiscale nella Finanziaria per il 2020. Questo spiega perché il rendimento dei Btp decennali italiani sia salito all' 1,25 per cento, e lo spread coi Bund tedeschi sia ormai peggiore di quello dei bond greci. Allora come oggi è il prezzo da pagare per evitare il peggio ad un' intera città e all' economia del Sud. Un miliardo e ottocento milioni servono a riscattare gli stabilimenti dalla gestione commissariale, quel che avrebbe pagato il signor Mittal per dieci anni di affitto. Quasi la metà di quei soldi - circa ottocento milioni - sono crediti dello Stato, di fatto una partita di giro. C' è però da aggiungere l' enorme costo necessario a dare un futuro all' Ilva. L' ultimo piano industriale prevede un miliardo e duecento milioni per l' ammodernamento degli impianti, altrettanto per gli interventi di bonifica e adeguamento ambientale. Il conto per il contribuente dovrebbe finire qui, peccato che la crisi dell' auto, i dazi e la concorrenza cinese sull' acciaio lasciano poche speranze di far tornare l' azienda rapidamente in utile. Secondo Morgan Stanley Ilva oggi accumula cinquecentoquaranta milioni di perdite l' anno. Non è difficile intuire perché alla Borsa di Amsterdam l' annuncio del disimpegno italiano ha fatto salire il titolo Mittal del sei per cento in tre giorni.

Annalisa Cuzzocrea per “la Repubblica” l'8 novembre 2019. Stefano Patuanelli esce dalla sala di Palazzo Chigi in cui la maggioranza cerca una soluzione sul caso Ilva, mangia una mandorla e prova a riannodare i fili spezzati. Su Taranto, prima di tutto. Sul destino che attende 15mila persone tra operai e indotto. E sul Movimento 5 stelle, che secondo il ministro dello Sviluppo economico «dovrebbe riflettere. Nel 2020 forse è meglio non candidarsi in tutte le regioni. Bisogna valutare caso per caso e aprire una nuova fase costituente».

Qual è la sua posizione sullo scudo penale per l' Ilva?

«Il tema dello scudo non c' è più. Come governo abbiamo dato subito all' azienda la disponibilità a reinserirlo, per togliere ogni alibi. Ma ArcelorMittal ha detto che anche se risolvessimo, oltre a quella, le altre questioni collaterali, la banchina e l' altoforno 2, la produzione sarebbe comunque di 4 milioni di tonnellate annue. Con 5mila esuberi. È inaccettabile».

Come se ne esce?

«Bisogna dimostrare che il sistema Paese è compatto nel richiamare l' azienda al rispetto di accordi che non sono solo frutto di un' acquisizione, ma di un bando che prevedeva un preciso piano industriale e ambientale. Oggi prendiamo atto che l' impresa ha detto di essere inadempiente rispetto al suo stesso piano, che prevedeva sei milioni di tonnellate annue».

L' azienda ha accusato i commissari di false comunicazioni e ha parlato di dolo rispetto alle questioni di sicurezza dell' altoforno due, di cui la magistratura ha disposto il sequestro.

«Le affermazioni di Mittal sono contenute in un atto di citazione in giudizio. Sono certo che risponderanno i commissari».

Questa situazione è colpa delle divisioni interne dei 5 stelle?

«Assolutamente no. Mittal ha depositato l' atto di citazione alle 4 del mattino di lunedì, sottoscritto da 7 avvocati. Sono 37 pagine con 37 allegati. È evidente che erano pronti da moltissimo tempo».

Avete dato loro la scusa perfetta.

«Sarebbe successo lo stesso».

Si rischia una nazionalizzazione?

«Non vedo perché parlare di rischio. Credo sia stato storicamente un errore privatizzare il settore della siderurgia, che era un fiore all' occhiello e di cui oggi rimane un unico stabilimento».

Ce lo possiamo permettere?

«In questo momento la priorità del governo è far sì che ArcelorMittal rispetti gli impegni presi. Questo è il piano A, il piano B e il piano C e per questo ho richiamato il Parlamento, le forze sociali e tutte le componenti istituzionali del Paese a un senso di responsabilità che deve far percepire all' imprenditore la presenza massiccia del sistema Italia».

Ammetterà che nel Movimento regna l' anarchia. La decisione di togliere lo scudo è stata imposta dai gruppi parlamentari contro i vertici.

«Da sempre sento parlare di anarchia, dissidenti, linea politica che non si capisce dove si forma. La realtà è che il Movimento ha sempre parlato a tante voci e a tanti mondi e questo costituisce un problema nel momento in cui è al governo. Bisogna ripensare ad alcuni elementi fondanti».

Quali?

«Bisogna ridefinire il perimetro entro cui si muove l' azione politica del M5S al governo. Dobbiamo farlo con tutti i portavoce e gli attivisti».

Con un congresso?

«La parola congresso non mi piace: trovo più adeguati i termini stati generali e nuova fase costituente».

Cominciare dall' Umbria dopo che il Pd aveva dovuto far dimettere la propria governatrice, per sperimentare alleanze alle regionali non è stata una grande idea.

«Ragionare col senno del poi è facile. Non erano le condizioni migliori per un rapporto politico appena iniziato, in una regione che aveva vissuto una stagione difficile col Pd al governo, ma era forse la regione in cui coinvolgere la società civile aveva più senso».

Non ha funzionato. In Emilia Romagna, Calabria, Campania che si fa?

«Premesso che va deciso a livello locale e che serve un coinvolgimento diretto degli attivisti delle regioni, voglio fare un ragionamento più ampio. Da quando abbiamo vinto le elezioni politiche nel 2018, con un impatto elettorale incredibile, si è alzata molto l' asticella delle aspettative in tutte le tornate elettorali. Ma a livello locale abbiamo sempre fatto fatica. Nel 2018, a poco più di un mese dalle politiche, in Friuli abbiamo preso il 7,1%».

Quindi?

«Nel 2020 ci sono otto regioni al voto: credo che il Movimento, che ha bisogno di un momento di profonda riflessione, anche valoriale, deve fare uno sforzo di costruzione di un' identità come forza di governo. Non può permettersi una campagna elettorale permanente per tutto il 2020 e contemporaneamente governare il Paese».

Sarebbe meglio non si candidasse?

«Credo vada fatta una riflessione che possa anche portare, in alcuni casi, a questa decisione».

Fermarsi per fare cosa? Essere ago della bilancia al prossimo giro. come dice Luigi Di Maio, e magari tornare un giorno con la Lega?

«Indietro non si torna, ma il problema non è allearsi con gli uni o con gli altri. Conta mantenere la centralità del Movimento nel panorama non solo politico del Paese. Conta non lasciare agli altri la grammatica culturale e sociale. Conta saper rispondere alle necessità dei cittadini».

L'ultimo regalo di Gigino. Nazionalizzare l'Ilva ci costerà 10 miliardi. La statalizzazione- salasso è il piano B del governo. L'esperto: operazione sbagliata. Sofia Fraschini, Sabato 09/11/2019, su Il Giornale.  Il governo Conte sta per recapitare un conto salatissimo agli italiani. Nazionalizzare l'Ilva di Taranto, a causa dei ripetuti scivoloni nella gestione del dossier da parte di Luigi Di Maio prima, e dell'esecutivo giallorosso poi, costerebbe fino a 10 miliardi di euro, un terzo della legge di bilancio. E sarebbe per Carlo Messina, ad di Intesa Sanpaolo, «il piano b» probabilmente allo studio del governo. «Una cifra monstre che comprende il sostegno a tutti i dipendenti, le opere ambientali e un minimo di sviluppo industriale, nonché il potenziale rischio di una penale da pagare ad Arcelor Mittal», spiega al Giornale Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0. A tanto ammonterebbe, dunque, assumersi il pieno controllo della più grande acciaieria d'Italia e statalizzarla per «rimediare» al disastro economico e industriale disegnato dall'ex ministro del Lavoro Luigi Di Maio, che un anno fa chiuse l'accordo tra i trionfalismi. Il casus belli - pretesto o meno che sia - che ha scatenato poi la ritirata di Arcelor Mittal è nato dalla scelta di 5Stelle e Pd di cambiare le carte in tavola e togliere lo scudo penale alla multinazionale per gli interventi di bonifica ambientale. «Guardando nel dettaglio ai numeri spiega Sabella se l'Ilva dovesse essere nazionalizzata lo Stato dovrà accollarsi gli interventi ambientali e un piano minimo di sviluppo che, pur rivisto al ribasso, non potrà che portare il conto a circa 3 miliardi». Nel suo accordo Arcelor Mittal aveva messo sul piatto circa 4,2 miliardi di euro. «A questi spiega Sabella va aggiunto il costo del lavoro». A bocce ferme, infatti, il governo non vuole toccare i livelli occupazionali e quindi dovrebbe farsi carico di circa 10.700 dipendenti e circa 3.100 addetti attualmente in cassa integrazione. «Considerando un costo lordo del lavoro di circa 36mila euro a dipendente all'anno, e quanto percepito da dirigenti e figure apicali (tra i 150mila e i 200mila euro lordi l'anno) si arriva a 1 miliardo l'anno solo per il personale». Un onere che spalmato sui 5 anni in cui si era impegnata la multinazionale, porta il sostegno a 5 miliardi. Personale e investimenti fanno salire i miliardi a quota 8 miliardi. Ma a questi vanno aggiunte «le possibili penali che Arcelor potrebbe ottenere dallo Stato per giusta causa». E calcolabili in circa 2 miliardi, cifra che si avvicina ai debiti Ilva che Arcelor avrebbe sanato a Taranto. «Un'operazione sbagliata e poco conveniente spiega l'esperto alla luce anche del fatto che a livello statale mancherebbero le competenze per la gestione di un settore così delicato» che sta vivendo un momento di grande difficoltà a causa della sovracapacità produttiva, e della concorrenza asiatica. Non per altro Ilva perde 2 milioni al giorno e ha causato l'uscita dell'Italia dalla top ten dei produttori mondiali di acciaio. Ma la strada della nazionalizzazione sembra prendere sempre più corpo. Visto anche il peso che l'Ilva riveste non solamente per l'economia della Puglia governata da Michele Emiliano ma per l'intero Paese, essendo l'acciaio una industria strategica. Sull'ex Ilva è «fondamentale arrivare a un accordo con Mittal» o in alternativa «il governo dovrebbe valutare la possibilità di nazionalizzare anche se potenzialmente in contrasto con le norme comunitarie», ha detto ieri l'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina. «Sicuramente il settore siderurgico sta vivendo un momento difficile e qualcosa è cambiato rispetto all'inizio della trattativa ma se oggi non siamo in grado di raggiungere il piano A, allora bisogna passare al piano B, valutando anche una nazionalizzazione altrimenti si perde un asset strategico» per l'intero Paese.

Ex Ilva, Confindustria: regole incerte, così nessuno più investe in Italia. A Genova il vertice di viale dell'Astronomia punta l'indice: creiamo precedente che fa scappare investitori. La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 novembre 2019. «Il problema è il precedente che stiamo creando. Stiamo dimostrando al mondo intero che quando arriva un investitore cambiamo poi certe regole e lo facciamo scappare. Immaginate poi chi viene più a investire in Italia. Il problema non è sostituire un investitore con un altro ma creare una credibilità del paese rispetto alle regole del gioco». Lo ha detto il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia interpellato a Genova su una possibile nuova cordata italiana per l’ex Ilva. «Nel nazionalizzare il problema è chi paga. Questo Governo dovrebbe cominciare a pensare a chi paga e quali sono gli effetti sull'economia reale di alcune scelte. Occorre assumersi delle responsabilità - ha aggiunto -, avere senso del limite con l’auspicio che questa questione non diventi una questione ambientale come già era ma anche economica e sociale. Chiaramente nessuno lo auspica».

Taranto, Conte assediato da cittadini e operai. A uno di loro: «Togliti occhiali e cappuccio». «Penso che questo governo abbia generato la causa e questo governo dovrebbe cercare di risolverla nelle logiche di mercato e nella logica di impresa», ha proseguito Boccia. «Ci auguriamo che prevalga il buon senso. Si è data l'occasione di trovare un alibi per costruire una questione molto più grande, che da ambientale è diventata potenzialmente economica e sociale. Ci auguriamo che la cosa si possa mettere nella carreggiata giusta».

Da repubblica.it il 7 novembre 2019. Marco Travaglio e Massimo Giannini sono stati ospiti di Lilli Gruber nello studio di Otto e mezzo. Di Maio ha sbagliato nella gestione della questione dell'Ilva di Taranto? "Ha sbagliato - risponde Travaglio - quando ha fatto balenare la possibilità che quello scudo (norma per mettere al riparo da ricadute legale, ndr) fosse eterno. Inoltre dal 2012 al 2019 la magistratura di Taranto cerca di far rispettare le norme ma viene tempestata di decreti fatti dai governi che si sono succeduti. Sono stati approvati undici decreti salva Ilva. Questi signori sono arrivati con la promessa che per loro il codice penale, la magistratura e la Corte Costituzionale non esistono". Giannini: "La promessa gliel'ha fatta Di Maio". La risposta di Travaglio: "Tu hai l'ossessione di tirare dentro sempre Di Maio". La replica: "E tu hai l'ossessione di tirarlo fuori".

Da “Radio Cusano Campus” l'8 novembre 2019. Il Prof. Giuliano Cazzola, economista, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.

Sulla manovra. “Quando si decide tutti assieme, con una forte spinta di tutte le forze politiche, di sterilizzare 23 miliardi di Iva, diventa difficile trovare altre risorse per fare altre operazioni –ha affermato Cazzola-. Sono d’accordo con Cottarelli sul fatto che questa è una manovra in forte continuità col governo precedente, ha riconfermato reddito di cittadinanza, quota 100, la proroga dell’ape social. In sostanza fa la sterilizzazione dell’iva e c’è un intervento sul costo del lavoro. C’è il guaio di queste imposte che penalizzano interi settori e che però il governo si è rimpegnato a rivedere. Era difficile fare diversamente e la ricetta di Salvini sarebbe stata peggiore. La vera manovra di questo governo è l’abbassamento dello spread e i minori interessi che l’Italia dovrà pagare”.

Sull’ex Ilva. “L’Ilva di Taranto l’hanno uccisa le Procure –ha affermato Cazzola-. Sul problema ambientale non ci può essere una salubrità assoluta, ci sono delle regole che mettono degli standard. All’ilva sono stati sequestrati 1 miliardo e mezzo di prodotti finiti dicendo che erano il corpo del reato. E’ come se in una città una Procura fermasse tutte le macchine come corpo del reato se i livelli di polveri sottili si alzassero oltre i limiti. Dietro l’ambientalismo straccione ci sono interessi economici di cui questo ambientalismo straccione è vittima. Anche sta menata dei bambini che muoiono… Non sono mai state date delle statistiche. Bisognerebbe andare a vedere le condizioni dei bambini dove non c’è la siderurgia, che muoiono di fame e di sete. La via di mezzo è quella di far crescere una tecnologia, come nel caso dell’automobile che era partita molto inquinante e adesso ci avviamo verso modelli sempre meno inquinanti. Voglio vedere se adesso trovano un commissario che vada ad occuparsi dell’Ilva senza chiedere lo scudo penale”.

Matteo Salvini furioso. Ilva, fango sulla Lega: "Repubblica, Fatto, Di Maio, querelo tutti". Da liberoquotidiano.it l'8 novembre 2019. Una pioggia di querele da Matteo Salvini. Al leader della Lega non sono piaciute affatto la paginata di Repubblica e le dichiarazioni di alcuni esponenti del M5s, tra cui il viceministro all'Economia Stefano Buffagni, secondo cui il Carroccio avrebbe legami economici sospetti con Arcelor Mittal, tali da "inquinare" le posizioni del partito sul caso Ilva. "Io querelo poco e niente, però oggi un po' di gente la querelo perché dicono che abbiamo centinaia di migliaia di euro in azioni di Arcerol Mittal, roba assolutamente fantasiosa", ha spiegato da Firenze l'ex ministro degli Interni. "Noi facciamo una battaglia in difesa dell'Ilva, di un'azienda fondamentale per l'acciaio italiano, solo perché vogliamo un'Italia competitiva non perché abbiamo i bond o le azioni di tizio o di caio. Quindi da Di Maio in giù, da Repubblica a Fatto Quotidiano quereliamo tutti quelli che stanno dicendo il falso", ha concluso lapidario.

Giuliano Foschini per “la Repubblica” l'8 novembre 2019. C' è una seconda grande paura, nella questione Ilva-Arcelor Mittal, che circola da qualche giorno nelle stanze del governo. E cioè che dietro la crisi che sta facendo tremare una città (Taranto), un pezzo dell' economia del Paese e anche il governo - «daremo il sangue per Taranto ma devono dimettersi» ha detto ieri Matteo Salvini - ci sia anche una partita politica. Una partita che Arcelor Mittal starebbe giocando insieme con i suoi referenti politici: la Lega. Il non detto è stato esplicitato nel tardo pomeriggio di ieri quando il viceministro del Movimento 5 Stelle allo Sviluppo economico, Stefano Buffagni - seguito poi a ruota da diversi parlamentari che hanno rilanciato la notizia sui loro canali social ha attaccato frontalmente Salvini e il suo partito per i rapporti con la multinazionale dell' acciaio: «La Lega - ha sostenuto - ha investito 300mila euro in bond di ArcelorMittal. Spero che arrivati a questo punto pensino ai lavoratori e non ai soldi che hanno investito». Buffagni fa riferimento alla notizia pubblicata nei mesi scorsi da Giovanni Tizian e Stefano Vergine sull' Espresso (e che lasciò però i 5 Stelle in silenzio quando erano al governo con il Carroccio): e cioè che la Lega, sotto la guida di Salvini, ha investito in titoli negli anni scorsi un milione e duecentomila euro. E che tra questi hanno in portafoglio 300mila euro di bond della multinazionale che aveva acquistato Ilva. «Io non mi occupo di Borsa ma di politica» ha detto ieri Salvini, cercando di allontanare ogni sospetto. Ma in realtà la questione del bond nasconde una relazione ben più strutturata che al ministero dello Sviluppo economico conoscono bene. Perché nel Conte 1 hanno visto come deputati ed esponenti del governo si interessavano e caldeggiavano le posizioni di Mittal. È un fatto che la multinazionale franco-indiana si era aggiudicata l' asta con il governo Gentiloni. Ed era assai spiazzata dall' arrivo del nuovo esecutivo, e in particolare da Luigi di Maio sulla poltrona del Mise. Di Maio era portatore del messaggio più intransigente del Movimento: chiusura dell' aria a caldo del siderurgico. Non a caso Di Maio cercò di non affidare l' asta ad Arcelor. Trovando però il muro delle norme ma anche quello della politica, e in particolare dei suoi alleati di governo. Fin da subito la Lega è compatta con Arcelor. Al Mise ricordano bene per esempio come in più occasioni l' allora sottosegretario ai Trasporti, il genovese Edoardo Rixi (poi dimessosi per una condanna sulle spese pazze in Liguria) si spendesse per la causa di Arcelor. Anche pubblicamente: «È imprescindibile - diceva - mantenere gli impegni presi per evitare la fuga degli investitori che equivarrebbe a una drammatica emorragia di posti di lavoro» diceva mentre tutti i parlamentari della Lega presentavano un ordine del giorno per «verificare la coerenza dei più recenti interventi normativi di modifica alla disciplina inerente l' Ilva con gli accordi presi con l' azienda». Arcelor incontrò anche il vicepremier Matteo Salvini. E manager della multinazionale hanno avuto rapporti privilegiati con il vertice del Carroccio, a partire da Giancarlo Giorgetti: l' amministratore delegato Samuele Pasi, in particolare, ha avuto una sponda importante nelle posizioni negli uomini di Salvini. «In un certo senso - spiega a Repubblica una fonte che è stata molto vicina al dossier Ilva nel momento della conclusione dell' asta - era inevitabile. Arcelor aveva bisogno di un interlocutore, i 5 Stelle facevano le bizze e la Lega era l' unica garanzia possibile». Mittal parla a quel mondo, dunque. E in quel mondo sceglie come capo della comunicazione a luglio del 2018 una professionista importante: Patrizia Carrarini, l' ex portavoce di Roberto Maroni.

I 300mila euro in bond ArcelorMittal della Lega diventano un caso. Nex Quotidiano l'8 novembre 2019. Ieri qualcuno ha chiesto a Matteo Salvini conto dei 300mila euro in bond ArcelorMittal investiti dalla Lega negli scorsi anni e il Capitano, come al solito, ha fatto il vago sostenendo di non saperne niente e girando le domande “all’amministratore”, ovvero al tesoriere del Carroccio Giulio Centemero, che sull’argomento è tradizionalmente abbottonatissimo anche perché per i partiti politici è vietato investire in strumenti finanziari come quelli. Oggi Giuliano Foschini su Repubblica approfondisce la questione ricordando i rapporti che legano ArcelorMittal alla Lega: Ma in realtà la questione del bond nasconde una relazione ben più strutturata che al ministero dello Sviluppo economico conoscono bene. Perché nel Conte 1 hanno visto come deputati ed esponenti del governo si interessavano e caldeggiavano le posizioni di Mittal. È un fatto che la multinazionale franco-indiana si era aggiudicata l’asta con il governo Gentiloni. Ed era assai spiazzata dall’arrivo del nuovo esecutivo, e in particolare da Luigi di Maio sulla poltrona del Mise. Di Maio era portatore del messaggio più intransigente del Movimento: chiusura dell’aria a caldo del siderurgico. Non a caso Di Maio cercò di non affidare l’asta ad Arcelor. Trovando però il muro delle norme ma anche quello della politica, e in particolare dei suoi alleati di governo. Fin da subito la Lega è compatta con Arcelor. Al Mise ricordano bene per esempio come in più occasioni l’allora sottosegretario ai Trasporti, il genovese Edoardo Rixi (poi dimessosi per una condanna sulle spese pazze in Liguria) si spendesse per la causa di Arcelor. Anche pubblicamente: «È imprescindibile – diceva – mantenere gli impegni presi per evitare la fuga degli investitori che equivarrebbe a una drammatica emorragia di posti di lavoro» diceva mentre tutti i parlamentari della Lega presentavano un ordine del giorno per «verificare la coerenza dei più recenti interventi normativi di modifica alla disciplina inerente l’Ilva con gli accordi presi con l’azienda». E il tutto è condito da un incontro tra ArcelorMittal e il dinamico duo Salvini-Giorgetti: L’amministratore delegato Samuele Pasi, in particolare, ha avuto una sponda importante nelle posizioni negli uomini di Salvini. «In un certo senso – spiega a Repubblica una fonte che è stata molto vicina al dossier Ilva nel momento della conclusione dell’asta – era inevitabile. Arcelor aveva bisogno di un interlocutore, i 5 Stelle facevano le bizze e la Lega era l’unica garanzia possibile». Mittal parla a quel mondo, dunque. E in quel mondo sceglie come capo della comunicazione a luglio del 2018 una professionista importante: Patrizia Carrarini, l’ex portavoce di Roberto Maroni.

La storia della Lega e dei bond ArcelorMittal. Nex Quotidiano il 7 novembre 2019. La Lega ha investito 300mila euro in un bond corporate di Arcelor Mittal? “Io ho diecimila euro di azioni e non ne ho di Arcelor Mittal”. Così Matteo Salvini, segretario della Lega, ha risposto ai cronisti che gli hanno chiesto conto dell’investimento, a margine di una manifestazione Coldiretti a Roma. Alla cronista della DIRE che specifica che la domanda riguardava il portafoglio titoli della Lega e non il suo personale, Salvini risponde: “Chieda all’amministratore, io non mi occupo di Borsa, mi occupo di politica”.

La storia della Lega e dei bond ArcelorMittal. Di cosa si sta parlando? Degli investimenti della Lega in bond di ArcelorMittal e altre aziende tra cui Mediobanca di cui si è raccontato, con tanto di documentazione, nel libro di Giovanni Tizian e Stefano Vergine “Il libro nero della Lega” e su l’Espresso. Sia sotto la gestione di Roberto Maroni, sia in seguito sotto quella di Salvini, parecchi milioni sono stati investiti illegalmente. Una legge del 2012 vieta infatti ai partiti politici di scommettere i propri denari su strumenti finanziari diversi dai titoli di Stato dei Paesi dell’Unione europea. Il partito che si batte contro «l’Europa serva di banche e multinazionali» (copyright di Salvini) ha cercato di guadagnare soldi comprando le obbligazioni di alcune delle più famose banche e multinazionali. Colossi come l’americana General Electric, la spagnola Gas Natural, le italiane Mediobanca, Enel, Telecom e Intesa Sanpaolo. Una fiche da 300mila euro è stata messa anche sul corporate bond di Arcelor Mittal, il gruppo siderurgico indiano che ha acquistato l’Ilva promettendo di lasciare a casa circa 4mila lavoratori. Questi investimenti provano che anche Salvini ha investito i denari del partito in obbligazioni societarie. Nello specifico, Matteo ha puntato 1,2 milioni su Mediobanca, Arcelor Mittal e Gas Natural. Nel libro si parla anche dei tanti finanziamenti arrivati alla PiùVoci, onlus dell’universo leghista controllata da Giulio Centemero, tesoriere della Lega. Su di lui la procura di Roma ha chiuso le indagini per il reato di finanziamento illecito per soldi arrivati da Luca Parnasi. Anche la procura di Bergamo ha chiuso le indagini nei confronti di Centemero per 40mila euro arrivati alla Onlus da Bernardo Caprotti di Esselunga, nel frattempo defunto.

Ilva, un suicidio industriale con tanti colpevoli. Nicola Porro, Il Giornale 5 novembre 2019. E alla fine vedrete che per la chiusura dell’Ilva non ci sarà nessuno responsabile. Ma non è così. La mortificazione del più importante stabilimento di produzione di acciaio in Italia ha dei colpevoli ben identificati: magistrati, politici e grandi giornali che non hanno avuto il coraggio di dire che quell’impianto è un pezzo fondamentale dell’industria italiana, che per quell’impianto non c’è ancora una sentenza, si dica una, che dimostri il supposto disastro ambientale. Non c’è stato nessuno, a parte il nostro foglio, che abbia scritto a chiare lettere di) che un altro uomo d’acciaio come il Cavalier Lucchini ha sempre sostenuto, e cioè che Emilio Riva era il più bravo di tutti nel gestire quel mastodontico impianto di Taranto, quegli altiforni che non si accendono e spengono con un interruttore, ma grazie a investimenti milionari. Ieri la cordata franco-indiana che voleva investire più di tre miliardi nel suo ammodernamento ha rescisso il contratto siglato un anno fa. Il governo dice che non sarebbe nelle sue facoltà. La verità è che il Parlamento ha tolto lo scudo penale ai nuovi proprietari con una indecorosa, ma politicamente corretta, legge approvata il 3 di novembre. Come fanno i dirigenti di ArcelorMittal a rispondere di ciò che può arrivare dalle condotte passate, sostengono con buone ragioni, e con l’avallo del sindacato, i nuovi proprietari? Proprio in queste ore il tribunale penale di Taranto ha imposto prescrizioni talmente dure nella conduzione degli impianti da costringere lo spegnimento di un altoforno. Insomma chi mette le mani là dentro ci lascia le penne. Lo capisce anche un bambino. Pensate un po’ voi se un gruppo presente in tutto il mondo, con un mercato che non tira, e con obblighi economici importanti, si può sentire trattato cosi. E d’altra parte anche se questo fosse un comodo alibi dei franco-indiani per scappare, è una follia fornirlo su un piatto d’argento. Ma la storia inizia da motto prima: nel luglio del 2012, quando vengono arrestati i Riva, alcuni loro manager e viene sequestrato il cuore della fabbrica. E i responsabili sono gli stessi, anche se i loro cognomi sono cambiati. Un pezzo del Pil italiano muore perché lo ha deciso una magistratura che, ripetiamo, senza alcuna decisione definitiva, ha stabilito che l’Ilva fosse un disastro e i Riva il mostro. E la politica è stata zitta, silente. Imbarazzata. Quella magistratura che si è accanita senza una logica, se non quella dell’ideologia antisviluppista e che poi ha trovato nei Cinque stelle un alleato naturale. Uno dei suoi attori si è poi candidato a sindaco di Taranto, appoggiato da Rifondazione comunista. Hanno ritenuto di sequestrare l’acciaio già prodotto, per un valore di 1,2 miliardi di euro, sui piazzali, perché considerato corpo del reato. Dove è il buon senso, urlava Mario Scialoja su L’Espresso. Hanno realizzato perizie epistemologiche, smontate dai procedimenti. Riva porta Tumori. Ilva Uccide. La sola Federacciai protestava, con l’allora presidente Antonio Gozzi nel silenzio della politica, della sua stessa stampa, l’assassinio economico e politico che si stava commettendo. Abbiamo espropriato un’impresa al suo legittimo proprietario, sperando che tre commissari potessero fare ciò per cui non sono pagati e cioè gli imprenditori. Hanno bruciato i quattro miliardi di euro di patrimonio di cui l’azienda disponeva nel giro di pochi anni. E lì boccheggiante, in extremis, è stata trovata la soluzione ArcelorMittal. Nonostante le bizze dell’allora ministro dello Sviluppo economico, vien da ridere, Luigi Di Maio. L’acciaio non sono le cozze pelose. Eppure era proprio questa la vocazione che si sarebbe dovuta attribuire a quella zona, secondo l’ex ministro grillino, per lo più con la delega al Sud, Barbara Lezzi. Questi non sono sconsiderati. Peggio. Oggi ci spiegano che le tasse sulla plastica serviranno a riconvertire al green l’industria emiliana. Ieri dicevano che l’Ilva – vero presidente Emiliano? – doveva andare a gas. Quanti posti di lavoro dovremo sacrificare sull’altare dell’ecologicamente corretto? Provate a gestire un altoforno, provate a pagare 15 mila cedolini di busta paga al mese, provate a trovare governi e prescrizioni che cambiano ogni anno, provate a combattere la concorrenza cinese e indiana senza regole ambientali, provate a finire sempre e solo sui giornali come untori del cancro, provate a vivere schifati financo da quei quattro burocrati senza azienda che pretendono di rappresentarvi, e poi ne parliamo. Questo è l’articolo che non avremmo mai voluto scrivere. Ma è anche un pezzo che era già scritto, quando magistrati, politici e giornalisti nel luglio di sette anni fa si avventarono sui Riva e sull’Ilva. Ora e necessario davvero un miracolo. Altrimenti ci saranno almeno quindicimila padri o madri disoccupati che dovranno spiegare ai propri figli che quella cavolo di borraccetta in metallo che gli hanno dato a scuola è fatta in Cina. E che molti come loro hanno perso il lavoro perché le bottigliette di plastica sono diventate come l’amianto. Nicola Porro, Il Giornale 5 novembre 2019

(ANSA il 6 novembre 2019) - Ci vorrà qualche giorno prima che la Sezione specializzata imprese del Tribunale di Milano assegni ad un giudice, con fissazione poi della data d'udienza, la causa intentata con un atto di citazione da ArcelorMittal che chiede di recedere dal contratto di affitto dell'ex Ilva di Taranto. In media, da quanto si è saputo, ci vogliono una decina di giorni per iscrivere a ruolo la causa e trasmetterla alla Sezione che poi l'assegna ad un giudice. In questo caso, però, data la rilevanza, i tempi potrebbero essere più brevi. Dopo il deposito dell'atto di citazione, avvenuto tra lunedì e ieri, presso il Tribunale di Milano il procedimento, infatti, deve essere iscritto a ruolo dalla cancelleria centrale del Tribunale civile milanese, che poi trasmetterà la causa alla Sezione specializzata imprese, presieduta da Angelo Mambriani. Da quanto è stato riferito, in media per questo passaggio dall'iscrizione alla Sezione competente ci vuole una decina di giorni, ma in questo caso, data la rilevanza del procedimento, i tempi saranno più brevi, anche perché i vertici del Tribunale si sono premurati che ciò avvenga. Sarà, poi, il presidente della Sezione ad assegnare ad un giudice la causa e quest'ultimo fisserà la data della prima udienza (negli atti di citazione solitamente la parte indica anche una data di prima udienza che è solo indicativa, perché poi è il giudice a stabilirla). L'atto di citazione presentato dal gruppo franco-indiano nei confronti di Ilva in amministrazione straordinaria ricalca nelle motivazioni addotte per chiedere il recesso dal contratto di affitto delle acciaierie pugliesi quanto già scritto nella lettera sottoscritta dall'amministratore delegato, Lucia Morselli e resa nota lunedì. L'azienda chiede di accertare e dichiarare l'efficacia del diritto di recesso e in subordine di accertare e dichiarare che il contratto di affitto può essere risolto per "impossibilità sopravvenuta" o ancora in ipotesi ulteriormente subordinata la risoluzione perché è venuto meno "un presupposto essenziale". Infine, secondo quanto ha riportato la stampa locale, anche qualora fossero ripristinate le tutele legali, ossia il cosiddetto 'scudo penale', per il gruppo non sarebbe possibile eseguire il contratto poiché c'è la possibilità che, per un provvedimento dell'autorità giudiziaria di Taranto, venga di nuovo spento l'altoforno 2 e in tal caso dovrebbero essere spenti anche gli altiforni 1 e 4.

Giusy Franzese per “il Messaggero” il 6 novembre 2019. Non sembra ci possa essere nessun ripensamento all'orizzonte da parte di ArcelorMittal sull'addio all'ex Ilva. Il colosso franco-indiano tira dritto nella sua decisione di andare via a gambe levate dall'Italia. E tanto per far capire che la lettera di recesso dal contratto inviata l'altro ieri ai commissari straordinari non è un bluff, una pattuglia di avvocati incaricati dall'ad Lucia Morselli alle primissime ore dell'alba di ieri ha già depositato presso il Tribunale civile di Milano un atto di citazione contro Ilva spa in amministrazione controllata con la richiesta di convalidare le ragioni del recesso. Insomma, mentre governo e schieramenti politici si scambiano reciproche accuse e lanciano ultimatum, l'azienda ha già dato il via alla battaglia a suon di carte bollate. Ed è qui, in questo atto di 37 pagine (e altrettanti allegati), dove si ripercorre punto per punto l'avventura della gara, l'aggiudicazione, le modifiche del contratto con l'addendum ambientale, gli investimenti previsti e le condizioni per attuarli, è qui che a pagina 25 si legge la frase che suona come una campana a morto: «In ogni caso, anche se la protezione legale fosse ripristinata, non sarebbe possibile eseguire il contratto» perché nel frattempo le vicende giudiziarie in atto che porteranno quasi certamente allo spegnimento dell'altoforno 2, comporteranno lo spegnimento anche degli altri due altoforni attualmente in funzione a Taranto, l'Afo1 e l'Afo4. Ovvero la chiusura dell'intera area a caldo. E il siderurgico di Taranto funziona a ciclo integrale. Come dire: il governo ora si può anche scervellare per trovare una soluzione all'abolizione dello scudo penale (che resta comunque la prima causa elencata anche in questo atto di citazione a giustificazione del recesso), ma non sarà sufficiente a innestare una retromarcia. A spiegarlo a Conte e al resto dell'esecutivo oggi a Palazzo Chigi, ci sarà direttamente l'azionista, con il gran capo Lakshmi Mittal e il figlio Aditya. Una scelta che farebbe pensare a un gesto di rispetto nei confronti del governo. Ed è forse da qui che discende l'ottimismo dichiarato dal premier al termine di una giornata costellata da ultimatum: «Sono fiducioso nell'incontro di domani» ha detto Conte. Ma c'è anche chi interpreta la discesa in campo del miliardario indiano come un segnale di assoluta determinazione a chiudere la partita. A meno che il premier non riesca a convincerlo che quel «clima di incertezza, sfiducia e ostilità» che il gruppo lamenta anche nelle carte presentate in tribunale, tutto ad un tratto svanisca e si trasformi in leale collaborazione tra soggetti che perseguono gli stessi obiettivi: mantenere alti i livelli di produzione e occupazione, nel rispetto di salute e ambiente. Nei documenti ufficiali (e nelle parole che l'ad Lucia Morselli ha prima scritto e poi riferito personalmente ieri ai lavoratori di Taranto) sembra però che non ci sia altro scenario che la consegna delle chiavi: il piano industriale è compromesso, si dice più volte. I motivi sono spiegati uno ad uno nella lettera ai commissari, ribaditi nell'atto di citazione (che il sito della testata pugliese Corrieredelgiorno.it è riuscito ad ottenere, pubblicandolo per intero): primo è venuto meno un «presupposto essenziale» del contratto, ovvero la protezione legale appena abolita; inoltre c'è «l'impossibilità sopravvenuta» a causa delle vicende giudiziarie che coinvolgono parti indispensabili dell'impianto (l'altoforno 2). Ma i legali di ArcelorMittal, Giuseppe Scassellati e Ferdinando Emanuele (studio Cleary Gottlieb), vanno oltre e chiedono ai giudici - se queste motivazioni non fossero ritenute sufficienti - l'annullamento del contratto «per dolo». Perché gli allora commissari, in fase di data room, «hanno deliberatamente descritto in maniera erronea e fuorviante circostanze fondamentali sulle condizioni dell'altoforno 2 e allo stato di ottemperanza delle prescrizioni del tribunale per adeguare gli altiforni». La vicenda giudiziaria dell'altoforno 2, che vede sequestri, sospensioni, ricorsi e controricorsi, va avanti infatti dal giugno 2015, a seguito di un incidente mortale di un operaio. Era tre anni prima dell'aggiudicazione definitiva della gara: in questo frangente i commissari avrebbero dovuto portare a termine tutta una serie di imposizioni per mettere a norma l'impianto, ma non ci sono riusciti. Anche adesso, con una deadline al 13 dicembre, hanno dichiarato di essere lontani dal completamento degli interventi richiesti, pronti a chiedere un'ulteriore proroga.

ESCLUSIVO. Ecco la prova che Arcelor Mittal non sta scherzando.....Il Corriere del Giorno il 5 Novembre 2019. L’ Atto di citazione conferma la seria determinazione da parte del Gruppo Arcelor Mittal di “regolare” i conti con il Governo italiano e far rispettare il contratto stipulato a suo tempo, dopo l’aggiudicazione di una gara internazionale. Adesso i tuttologi della politica italiana, ex-ministri, ex-magistrati dovrebbero avere il buon gusto di tacere. Ancora una volta il CORRIERE DEL GIORNO è in grado di mostrarvi in esclusiva nazionale ed anteprima per i propri lettori un documento, e cioè l’atto di citazione di AM InvestCo Italy s.p.a. ed Arcelor Mittal Italia s.p.a. e delle altra società collegate assistiti da un nutrito pool di avvocati (Avv. Prof. Romano Vaccarella, Avv. Roberto Bonsignore, Avv. Francesca Gesualdi. Avv. Giuseppe Scassellati-Sforzolini, Avv. Ferdinando Emanuele, Avv. Francesco Iodice, Avv. Andrea Mantovani) da far tremare i polsi all’ Avvocatura dello Stato, depositato oggi dinnanzi al Tribunale Civile di Milano, nei confronti dell’ ILVA in Amministrazione Straordinaria, ILVAFORM spa in Amministrazione Straordinaria, Taranto Energia srl in Amministrazione Straordinaria, ILVA SERVIZI MARITTIMI spa in Amministrazione Straordinaria. Atto di citazione che conferma la seria determinazione da parte del Gruppo Arcelor Mittal di “regolare” i conti con il Governo italiano e far rispettare il contratto stipulato a suo tempo, dopo l’aggiudicazione di una gara internazionale. Adesso i tuttologi della politica italiana, ex-ministri, ex-magistrati dovrebbero avere il buon gusto di tacere. I legali del Gruppo Arcelor Mittal si sono rivolti al Tribunale Civile di Milano chiedendo di “accertare che ciascuno dei contratti di affitto esecutivi sottoscritti in data 31 ottobre 2018, aventi ad oggetto i singoli rami d’azienda di cui al contratto sottoscritto inter partes il 28 giugno 2017 (come successivamente modificato), si è risolto ai sensi delle “clausole risolutive espresse” contenute in tali contratti conseguentemente allo scioglimento dello stesso contratto in data 28 giugno 2017 per effetto dell’intervenuto recesso delle attrici oppure di una delle pronunce richieste” , e dichiarare che “le convenute sono tenute a porre in essere tutti gli adempimenti previsti dall’art. 27 del contratto sottoscritto inter partes il 28 giugno 2017 (come successivamente modificato) “a seguito della cessazione del rapporto di affitto per qualsiasi ragione diversa dall’esercizio dell’Obbligo di Acquisto”. Ai colleghi degli organi di informazione: nel riprendere l’atto di citazione, siete invitati a citare la fonte. Troppo facile fare giornalismo con il lavoro degli altri ….

Il terremoto Mittal-Ilva, il gran finale di una storia che fingiamo di non capire. Tonio Attino su Il Corriere del Giorno il 5 Novembre 2019. L’Ilva chiude? ArcelorMittal fa sul serio? Vuole davvero lasciare Taranto? Da ieri i giornali, le radio, le tv, le news su internet sono pieni zeppi di articoli, commenti, dibattiti sul futuro dell’acciaio e sul ruolo di Taranto nella produzione siderurgica. Sembra sia accaduto un imprevisto. Non lo è. Purtroppo siamo fenomenali a inseguire gli eventi, praticamente sempre incapaci di governarli o almeno di provarci. Sette anni fa, nel 2012, durante l’inchiesta della magistratura per disastro ambientale, uscì il mio ibro Generazione Ilva. Anni prima lo avevo proposto a un grande editore. Ricordo ancora il suo sguardo pietoso: pensava fossi ubriaco. A chi poteva interessare una cosa del genere? Andrea, un mio amico di Como, mi ha telefonato stamattina facendomi tornare in mente un capitolo di quel libro. Si chiama Il Big One. Avrei probabilmente dovuto scriverlo alla fine degli anni Ottanta, quando il sistema-Ilva cominciò a mostrare i suoi limiti. Ne ripropongo di seguito alcuni stralci. Mi auguro siano ancora utili. Siamo arrivati fin qui saltando da un’illusione all’altra e ora molti di noi pensano a un futuro sempre uguale al passato. La grande fabbrica seguiterà a garantirci il futuro, a darci lavoro, soldi, stipendi, sicurezza e perciò bisogna impegnarsi a salvarla, considerarla la prospettiva della nostra economia, teorizzare una compatibilità non raggiunta in mezzo secolo e altrove considerata irraggiungibile. Cominciassimo a guardare un po’ oltre le nostre scarpe capiremmo quanto tutto questo sia improbabile. Possiamo immaginare, dopo cinquantadue anni, di viverne così altri cinquantadue? La vita è un ciclo, tutto finisce, anche le fabbriche. Dovremmo prepararci al Big One, alla terribile scossa, immaginare che arriverà per un motivo o l’altro. Quando, non sappiamo; perché, neppure. Ma tenerci pronti. A Bagnoli, la scossa è arrivata vent’anni fa e tutto è cambiato. Adagiato come lo scheletro di un dinosauro sullo stupendo litorale di Coroglio, il centro siderurgico è ormai un monumento alla storia industriale e da vent’anni sta lì silenzioso, immobile. A Bagnoli le ciminiere incrociavano i palazzi in un rapporto carnale, il metallo infuocato illuminava il cielo, poi un giorno arrivò il Big One, e finì tutto. Da vent’anni l’Italsider, la fabbrica che ha sfamato generazioni di napoletani, non c’è più. Dal 1992 Bagnoli non produce acciaio. Costruito nel 1905, lo stabilimento siderurgico, esteso pressappoco su 180 ettari – era grande più o meno un decimo di quello di Taranto – cominciò a marciare nel 1910 raggiungendo una produzione massima di due milioni di tonnellate, un quinto della produzione tarantina. L’Italsider ebbe il picco di personale con 8026 addetti nel 1976, ma il numero di operai precipitò a poco più di quota 3000 finché la congiuntura internazionale e le decisioni della Ceca, la commissione europea per il carbone e l’acciaio, portarono al declino irreversibile. I tagli salvarono l’Italsider di Taranto, ma condannarono Bagnoli. La decisione della fine fu sostanzialmente anticipata il 3 novembre del 1981 dal ministro delle partecipazioni statali, il socialista Gianni De Michelis. Arrivato a Bagnoli per incontrare gli operai e annunciare che gli altiforni chiudevano, De Michelis volle rassicurare sul fatto che l’Italsider continuava a vivere con le lavorazioni a freddo. Fu garantita la costruzione di un impianto di laminazione, sicché l’Italia finanziò l’installazione di un nuovo treno nastri. Gli operai celebrarono le parole di De Michelis inondandole di fischi. Per due anni e mezzo l’Italsider venne riammodernato con una spesa di 1200 miliardi di lire. Nell’89 si fermò l’area a caldo, rimase in funzione un laminatoio. Lo Stato italiano chiuse definitivamente lo stabilimento nel 1992, gli impianti vennero ceduti a gruppi industriali cinesi e indiani, fu smantellato e venduto per 23 miliardi di lire anche il treno nastri promesso da De Michelis, costruito nel 1985 e costato 800 miliardi. Se può servire a farsi un’idea su come vanno le cose del mondo, dieci anni dopo, nel 1995, l’industriale Emilio Riva avrebbe acquistato per 1.649 miliardi di lire, l’intero centro siderurgico di Taranto: cinque altiforni, due tubifici, due accaierie e anche due treni nastri. Quella storia è finita, archiviata, conclusa; e il ciclo vitale s’è chiuso pure a Sesto San Giovanni, la città-fabbrica lombarda incollata a Milano. Sesto ha 81mila abitanti e ne aveva diecimila in più grazie all’espansione industriale sviluppatasi intorno a un nucleo di industrie solide: Breda, Magneti Marelli, Ercole Marelli, Pirelli e soprattutto la società siderurgica Falck. «Negli anni ‘30 Sesto San Giovanni contava più operai che abitanti” ricorda Antonio Pizzinato, friulano, ex operaio e parlamentare, sottosegretario al lavoro dal 1996 al 1998 nel primo governo Prodi. Negli anni d’oro dell’industria Sesto San Giovanni crebbe fino a 92mila abitanti, concentrando nei quasi 12 chilometri quadrati di territorio una densità tecnologica che – dall’aeronautica alle locomotive, dalla meccanica all’acciaio – ne fece uno dei motori industriali della Lombardia. La prima colata delle “Acciaierie e ferriere lombarde Falck” data 1906, l’ultima è del 1996. Battesimo e morte in novanta anni esatti, otto in più di Bagnoli; e come per Bagnoli, gli stabilimenti Falck furono dismessi per la negativa congiuntura internazionale e gli accordi con la Ceca. … Bagnoli e Sesto hanno chiuso le loro industrie e aperto la riqualificazione urbanistica, Genova non ha più l’area a caldo, incompatibile con l’abitato del quartiere di Cornigliano dove studi scientifici rilevarono l’aumento della mortalità del 23 per cento tra gli uomini e del 53 per cento tra le donne. Taranto resta il centro siderurgico a ciclo integrale più grande del continente. L’acciaieria d’Italia ha importato le produzioni espulse da Cornigliano, dove nel 2001 la magistratura mise sotto sequestro l’area a caldo (la cokeria fu chiusa l’anno dopo, l’altoforno nel 2005) e dove già agli inizi degli anni Novanta si discuteva dell’impossibilità di tenerla accanto alle case. Ugo Signorini, un ex assessore democristiano candidato nel 1993 a sindaco di Genova, si domandava come potesse reggere la siderurgia, ospitata su 160 ettari, dentro il quartiere di Cornigliano e “con una media di 20 occupati per ettaro, un vero spreco, visto che il rapporto posti/spazio nell’industria è di 200 persone per ettaro”. Gli impianti di Genova Cornigliano, di proprietà della famiglia Riva, sono stati riconvertiti e lavorano adesso i prodotti provenienti da Taranto, la città in cui resta concentrata la maggiore produzione italiana di acciaio e dove il rapporto tra ettari e lavoratori non è neppure pari a nove. Nove lavoratori per ciascun ettaro di fabbrica. Pittsburgh, la vecchia, fumosa, inquinatissima Steel City è diventata intanto, secondo l’Economist, la città più vivibile d’America e Paul C. Wood, vicepresidente dell’Upmc (University of Pittsburgh Medical Center), nel 2009 ha spiegato così perché e come è avvenuta la grande mutazione: “Qui non si insegue la palla, ma cerchi di piazzarti dove pensi che la palla arriverà. Non si vive alla giornata, puntando sulla bolla del momento, ma si investe pensando alla prossima generazione e senza chiedere aiuti pubblici. Insomma la mentalità è ancora quella operaia, anche se non ci sono quasi più operai”. Quando arriverà il Big One non capiremo perché. Non siamo preparati, non immaginiamo che una fabbrica possa chiudere o il suo proprietario possa decidere di cambiare le sue strategie o il mercato suggerirne di nuove. Lo Stato chiuse Bagnoli e un privato non potrebbe chiudere Taranto? Anche i teorici del libero mercato e della libertà di impresa non vengono sfiorati dal dubbio, o forse la potenza del sistema Ilva con la sua batteria di comunicatori e la sua rete di addetti alle relazioni esterne hanno soggiogato il pensiero di chiunque, e fatto dimenticare, se qualcuno le avesse ascoltate, le parole di un esperto, il manager giapponese Nakamura: “Un impianto a ciclo integrale, con buona manutenzione, può rimanere in esercizio anche per cinquant’anni di seguito. Quello di Taranto è il più recente di tutto il continente e potrà funzionare ancora per venti o trent’anni“. Lo stabilimento siderurgico di Taranto ha cinquantadue anni. Nakamura scrisse quelle parole nel 1993, diciannove anni fa. Noi non prendiamo in esame l’eventualità del dopo, non vediamo il crepuscolo di una storia, l’Ilva è infinita, immortale. Perciò davanti al Big One saremo disarmati. Tonio Attino, Generazione Ilva (Besa), 2012

Estratto dell’articolo di Federico Punzi per atlanticoquotidiano.it il 6 novembre 2019. Il ritiro di ArcelorMittal dall’ex Ilva aggiunge una bomba economica e sociale ad una bomba ambientale. La chiusura di una delle più grandi acciaierie d’Europa (10.700 operai, di cui 8.200 nello stabilimento di Taranto, il doppio nell’indotto, 24 miliardi di euro di acciaio prodotti ogni anno) sarebbe infatti un colpo micidiale all’industria siderurgica italiana e all’occupazione. (…) Di nuovo: cui prodest? A chi conviene? Chi si avvantaggerebbe di più da questo duro colpo inferto all’industria siderurgica italiana ed europea? Le produzioni francesi e tedesche, quella turca, certo, ma soprattutto quelle asiatiche, perché oggi la posizione dominante in Europa non ce l’ha un produttore europeo piuttosto che un altro, ce l’hanno le importazioni asiatiche, in particolare quelle cinesi accusate di dumping. Un buco nero nel siderurgico italiano come la perdita dell’ex Ilva, tra i più grandi impianti in Europa, aprirebbe ancor di più le porte alle importazioni cinesi. Tra l’altro, come spiega Bentivogli a Radio Radicale, quello dell’ex Ilva è “un acciaio del ciclo integrale, di qualità, quello che serve nell’automotive e nel ferroviario” e “fare ricorso alle importazioni sarebbe un problema doppio per l’Italia rispetto anche agli altri Paesi europei, dal momento che il nostro Paese è piccolo e povero di materie prime (…) se ci priviamo del primario del settore metalmeccanico ci priviamo di sovranità industriale”. E, aggiunge il segretario di Fim Cisl, sulle importazioni asiatiche di acciaio “non abbiamo alcuna garanzia di qualità, né di non nocività (…) Nei Paesi asiatici non c’è alcun controllo di qualità e nelle nostre Dogane non abbiamo nemmeno rilevatori radiometrici per riscontrare eventuali nocività, tra cui la radioattività”. “Dobbiamo pretendere precisi standard di qualità dei settori consumatori, che acquistano e consumano acciaio a livello europeo, per la sicurezza delle persone nelle abitazioni, nelle automobili e nelle infrastrutture”, ma su questo “la Germania non ci ha aiutato, ha sempre osteggiato l’anti-dumping europeo, perché la Thyssenkrupp ha stabilimenti propri in Cina”. Il caso ha voluto che mentre in Italia esplodeva la “bomba” dell’ex Ilva, il ministro degli affari esteri Luigi Di Maio fosse proprio in Cina, per il China International Import Expo (CIIE). Di Maio ha partecipato alla cena di benvenuto offerta ai capi di stato e di governo, pur essendo soltanto un ministro. Ma per lui il presidente cinese Xi Jinping ha fatto un’eccezione, invitandolo personalmente. Si intravedono l’abilità e l’esperienza di Ettore Francesco Sequi, ambasciatore d’Italia a Pechino non a caso nominato capo di gabinetto da Di Maio solo poche ore dopo il giuramento del Governo Conte 2, a conferma della priorità assoluta che il ministro attribuisce ai rapporti con la Cina. Anche se l’export cinese verso l’Italia sale e il nostro verso la Cina scende, Di Maio non manca di ricordare in ogni occasione di aver “voluto fortemente che l’Italia aderisse alla Nuova Via della Seta“. Italia e Cina non sono “mai state così vicine”, ha rivendicato ieri al CIIE, poco prima di un brindisi a base di prosecco con il presidente Xi passato a visitare il padiglione italiano. Per protocollo non avrebbe dovuto bere, ma Xi l’ha fatto, “ha bevuto!”, se la rideva ieri un raggiante Di Maio: “È un piacere averla qui, le mostro le nostre eccellenze”. “Sono molto onorato di essere qui e delle relazioni Italia-Cina e guardo con interesse e attenzione alla visita del presidente Mattarella (nel 2020 per i 50 anni delle relazioni diplomatiche, ndr)”, ha replicato il presidente cinese. Interrogato dai media italiani sulle proteste a Hong Kong, Di Maio si è fatto portavoce della linea di Pechino: “L’Italia non vuole interferire nelle questioni interne di altri Paesi”. Persino Francia e Germania, che esportano molto più di noi in Cina, almeno qualche parola di preoccupazione l’hanno pronunciata sulla repressione in corso a Hong Kong. (…) Una coincidenza, ovviamente, che tutto questo avvenga negli stessi giorni in cui ArcelorMittal annuncia il suo ritiro dall’ex Ilva e solo pochi giorni dopo che Di Maio, da capo politico del M5S, ha dato il via libera all’emendamento che l’ha provocato, ma è evidente che la grave debolezza politica ed economica del nostro Paese, la deindustrializzazione in atto, come dimostra il caso dell’ex Ilva, ci rendono l’anello debole, una facile preda per Pechino che conquistando noi punta ad aumentare la sua influenza in Europa e allontanarla dagli Stati Uniti. In particolare, l’uscita dell’Italia dall’industria dell’acciaio significherebbe aprire ancor di più le porte, non solo nostre ma dell’intera Europa, alle importazioni cinesi. Altro che hate speech e bot russi, bisognerebbe istituire una commissione parlamentare che indaghi sull’influenza della Cina nelle scelte di politica estera e industriale dei nostri ultimi governi.

Dario Prestigiacomo per europa.today.it il 6 novembre 2019. La produzione è tornata più o meno ai livelli di 5 anni fa. E anche i livelli occupazionali nell'ultimo biennio sono tornati a salire, dopo il tracollo che ha ridotto di quasi 50mila unità l'intera forza lavoro del Continente. Eppure, i big dell'acciaio europeo lamentano che la crisi non è finita e che anzi potrebbe aggravarsi nel prossimo futuro. Come il caso dell'ex Ilva di Taranto sta dimostrando. I problemi sono complessi, ma possono riassumersi in due fattori: concorrenza estera e sostenibilità ambientale.

La concorrenza. Sul fronte della concorrenza, la siderurgia europea lamenta da tempo la sovrapproduzione da parte della Cina, che ha avuto l'effetto di abbassare i prezzi anche sul mercato Ue. Ma Pechino non è il solo a preoccupare: ci sono anche la Turchia, che è in assoluto il Paese che esporta più acciaio in Europa, seguita da Russia, Corea del Sud, la già citata Cina e India. In totale, nel 2018, l'Ue ha importato 29,3 milioni di tonnellate di prodotti finiti: nel 2009 erano "appena" 12,8 milioni. Di contro, le esportazioni dai Paesi Ue verso il resto del mondo sono in costante diminuzione: 20,5 milioni di tonnellate nel 2018 (di cui un quarto nel Nord America), contro i 27,6 milioni del 2012, quando è stato toccato il picco dell'ultimo decennio. Nonostante questo, se si esclude il Regno Unito che ha quasi dimezzato la sua produzione dal 2014 a oggi, il resto dell'Ue ha pressoché mantenuto i livelli di produzione: l'Italia, che è la seconda forza europea dopo la Germania, ha prodotto 24,5 milioni di tonnellate nel 2018, quasi un milione in più rispetto al 2014, dando lavoro a 33mila addetti diretti (ossia senza contare l'indotto). Anche lo spauracchio dei prezzi al ribasso sembra per ora sventato: dopo il tracollo del 2016, infatti, l'andamento sul mercato italiano e in quello europeo sembra per ora essersi stabilizzato.

Le nubi sul futuro. Perché allora in Italia come nel resto dell'Ue, i big dell'acciaio temono per il loro futuro? Una prima motivazione, più volte sottolineata nei documenti ufficiali delle lobby del settore, è che le politiche protezionistiche del presidente Usa Donald Trump possano spingere sempre più acciaio a basso costo prodotto in Cina e Turchia verso il mercato Ue, come successo nel recente passato. Del resto, nei primi 8 mesi del 2019, la produzione cinese è aumentata già del 9% rispetto allo stesso periodo del 2018. Inoltre, sempre i dazi di Trump potrebbero colpire il settore auto europeo, in particolare quello tedesco, che è tra i maggiori acquirenti dell'acciaio Ue. Su questo punto, Eurofer, la lobby che riunisce i big dell'acciaio europeo, ha chiesto di recente alla Commissione Ue (e ottenuto) di intervenire: le misure protezionistiche varate l'anno scorso per frenare il dumping da Cina e altri Paesi non sono sufficienti, secondo Eurofer, e Bruxelles ha deciso di aumentare le soglie di salvaguardia sulle importazioni. Troppo poco, pero', per la lobby italiana di Fereracciai: "Il protezionismo è diffuso un po' ovunque nel mondo, l’unico vero mercato libero e l’Unione Europea - osserva il direttore generale Flavio Bregant - Il nostro rischio è che una volta distrutta l’industria siderurgica europea, i Paesi produttori extraeuropei, le cui industrie adesso spesso si avvantaggiano di aiuti di Stato, potranno imporre i prezzi che vorranno". A frenare il pugno duro di Bruxelles sui dazi sarebbero, secondo l'Ansa, Paesi come l'Olanda che non sono produttori, ma riutilizzatori dell'acciaio: per loro, dunque, più i prezzi sono bassi, più la convenienza per le proprie imprese aumenta. 

La questione ambientale. L'altro elemento di preoccupazione, meno citato dalle lobby del settore, riguarda le politiche europee sull'ambiente. Il caso dell'ex Ilva è in tal senso emblematico. Per soddisfare gli accordi di Parigi, occorrerà tagliare, e non di poco, le emissioni di Co2 da parte dell'industria. E il settore dell'acciaio produce circa il 24% delle emissioni complessive di tutta l'industria mondiale. Eurofer ha di recente lanciato una roadmap secondo la quale le industrie del settore dovrebbero ridurre del 15% le loro emissioni entro il 2050. Per le organizzazioni ambientaliste, pero', il taglio è inferiore a quanto sarebbe necessario per rispettare gli accordi Onu. Il problema è che la riconversione degli impianti, come quello di Taranto, richiedono tempi e soprattutto risorse che i grandi gruppi sostengono di non poter affrontare. Non che manchino i progetti all'avanguardia: in Svezia, per esempio, il gruppo SSAB sta costruendo un impianto, che dovrebbe essere pronto nel 2020, in cui la produzione non si affiderà all'energia proveniente da fonti fossili. L'operazione sta costando circa 150 milioni di euro. 

Annalisa Cuzzocrea per “la Repubblica” il 6 novembre 2019. Tutta colpa di Barbara Lezzi, dice Carlo Calenda. Per l'europarlamentare, l'Ilva morirà perché il Pd ha voluto compiacere l'ex ministra del Sud M5S. Che dal momento in cui ha perso il suo ruolo di governo, ha cominciato ad aizzare gli animi contro Di Maio e i suoi mille compromessi. Fino a minacciare: «Se non togliete lo scudo penale per gli amministratori Ilva, non votiamo la fiducia al decreto imprese». La confusione sotto il cielo dei 5 stelle è tale che stavolta ad andarle dietro sono stati tutti i senatori M5S. Così, in aula a Palazzo Madama, lei rivendica: «Non siamo pecore, abbiamo soluzioni, il ministro ci ascolti!». Scoprendo, cosa insolita per un grillino della prima ora, l'autonomia dei parlamentari rispetto alle decisioni dei vertici. Rigetta le accuse: «Non mi candido in Puglia, state tranquilli». Attacca Matteo Salvini: «Capitano dei miei stivali. Vai a spiegare ai tarantini che la loro salute non conta, che gli indiani di Mittal vengono prima!». Finita nell'angolo, Lezzi si riprende la scena contro quel capo politico che contesta da sempre, e che aveva reinserito l'immunità per Ilva dopo averla tolta. Facendo dimenticare, almeno per un giorno, gli inciampi del passato: l'assunzione della figlia del compagno come assistente, una mancata restituzione al fondo del microcredito (un bonifico annullato per sbaglio, si scoprì poi), il video in cui attribuiva la ripresa del pil al caldo e ai condizionatori, e la promessa mancata che le è costata di più: la Tap che giurava di fermare, e non ha fermato.

Stefano Folli per “la Repubblica” il 6 novembre 2019. C' è un nome che domina le cronache dedicate al disastro dell' Ilva ed è quello di Barbara Lezzi, senatrice dei Cinque Stelle ed ex ministro per il Sud nel governo Conte-1, sospettata di nutrire propositi di vendetta dopo la sua esclusione dal nuovo esecutivo. Carlo Calenda, ma non solo lui, la giudica responsabile più di altri per la rottura con ArcelorMittal: sarebbe suo l' emendamento che ha eliminato lo scudo legale, ovvia garanzia per l' investitore straniero, e ha innescato la grande fuga. Al punto in cui sono giunte le cose, sembra un po' eccessivo scaricare tutte le colpe sulle spalle di questa signora, che peraltro simboleggia bene la testardaggine ideologica del Movimento grillino, tanto che dal suo punto di vista si dichiara fiera di aver contribuito a un tale esito della vicenda. È ovvio peraltro che le responsabilità della devastazione sono molto più diffuse e investono a vario titolo un ampio spettro di partiti, compresi quelli che adesso fingono di non essere coinvolti oppure si fanno sentire promettendo con temerarietà di reperire presto (sic) un altro compratore sulla scena internazionale. Comunque sia, Barbara Lezzi si è guadagnata il suo quarto d'ora di celebrità e forse ha posto le basi per un rilancio della sua carriera politica, magari come candidata alla presidenza della Regione Puglia. Ma quello che colpisce è la spavalderia con cui la senatrice ha raccontato di come sia la Lega sia il Pd sono stati messi nel sacco da lei e dunque giocati - quasi a loro insaputa, par di capire - per ottenere la decadenza dello scudo. Il resto è storia nota, fino ai frettolosi tentativi del Pd e di Renzi, in queste ore, volti a reintrodurre le fatidiche garanzie legali. Il che pone il ceto politico di fronte a un bivio fatale, ammesso che si riesca davvero a restaurare la protezione giudiziaria in modo credibile. Da un lato c'è l'ipotesi che l'investitore receda dalla decisione di fuggire e il discorso riprenda dove era stato interrotto. Sembra piuttosto difficile che ciò accada, considerando anche i toni stizziti con cui il presidente del Consiglio - stavolta spalleggiato da Renzi - promette una linea "inflessibile"; mentre il segretario della Cgil, Landini, esclude che si possa riaprire la trattativa sul piano industriale. In altri termini, scudo o non scudo, Mittal si sta allontanando. Dall'altro lato c'è il punto messo in luce da Calenda: qualsiasi altro investitore vorrebbe le stesse garanzie legali a suo tempo chieste da Mittal. Tuttavia fornirle a un nuovo compratore dopo averle rifiutate al precedente significa esporsi a una valanga di ricorsi con richiesta di maxi penali. Tutti punti che i nostri politici sembrano sottovalutare. Ecco allora che sullo sfondo prende forma l'intervento pubblico, magari attraverso una forma di nazionalizzazione più o meno mascherata. Bisogna però tornare dove abbiamo cominciato: alla figura emblematica di Barbara Lezzi. Nessuno meglio di lei incarna l' inesistente classe dirigente espressa dal M5S: inesistente e priva di competenze, ma in grado di contaminare in negativo il Pd. Che di fronte ai grillini è cedevole e remissivo in forme sorprendenti. Doveva essere il Pd, con la sua tradizione ed esperienza, a fagocitare gli inesperti 5S fino a rendere convincente l'alleanza a due proprio sul terreno dei contenuti e delle riforme. Ma sta accadendo proprio l'opposto.

Addio Ilva, gli indiani se ne vanno. Diecimila posti di lavoro a rischio. Roberto Fabrizi su Il Dubbio il 5 Novembre 2019. Gli indiani di Arcelor Mittel se ne vanno. Intanto lo Svimez certifica: oltre due milioni hanno lasciato il sud. La crescita è un miraggio. Pomigliano d’Arco conta 39 mila abitanti. Di questi, quasi 24 mila hanno un’età compresa fra i 14 ed i 60 anni. Vale a dire, le statistiche li comprendono “in età da lavoro”; il resto, hanno più di 60 anni o meno di 14. Di queste 24 mila anime, 12 mila hanno chiesto ( ed ottenuto) il reddito di cittadinanza. Uno su due. Anche se il ministero del Lavoro contesta questi dati: «I 12 mila percettori – è detto in una nota – sono da rapportare alla popolazione totale dei 6 comuni che è di circa 208 mila abitanti. Ne consegue che i percettori di reddito di cittadinanza registrati al Cpi di Pomigliano d’Arco sono circa il 6 per cento della popolazione». A Pomigliano d’Arco è nato Luigi Di Maio. E se non fosse parlamentare da due legislature, molto probabilmente, anche l’attuale ministro degli Esteri avrebbe fatto parte di chi si è messo in lista per il reddito di cittadinanza. Per quanto assurdo può sembrare, Pomigliano è il paradigma della crisi del Mezzogiorno. Una crisi che ieri Svimez ha fotografato in tutta la sua gravità. Ma siccome al peggio non c’è mai fine, dopo la presentazione del rapporto è arrivata la doccia gelata dell’Ilva: gli indiani dell’Arcelor Mittel si ritirano. Conseguenza: 10 mila posti di lavoro a Taranto e dintorni. Svimez racconta la storia di una Nuova Questione Meridionale; o, più probabilmente, di una Questione Meridionale 2.0. A fronte di una crescita del pil del Centro Nord di un misero + 0,3 per cento, il Sud ha visto la velocità di crescita rallentare fino al punto di diminuire dello 0,2 per cento. Se il 2008 viene preso come spartiacque della crisi, «il Pil del Mezzogiorno è ancora oltre 10 punti al di sotto dei livelli del 2008; nel Centro- Nord mancano ancora 2,4 punti percentuali». Non siamo in presenza di un Paese a due velocità. Siamo in presenza di un Paese che cammina e di un altro che è piantato. E’ quindi ovvio che nelle aree meridionali sia in atto un nuovo esodo. Se ne vanno, in media, 100 mila all’anno. Dal Duemila ad oggi se ne sono andati 2 milioni al Nord od all’estero a cercare lavoro. E di questi, il 20 per cento è laureato. Svimez, poi, rompe un altro tabù. Anche le donne meridionali hanno smesso di fare figli. Nel 2065 la popolazione in età da lavoro diminuirà del 15 per cento nel Centro- Nord (- 3,9 milioni) e del 40 per cento nel Mezzogiorno (- 5,2 milioni). Il direttore del centro studi, Luca Bianchi, rileva come questo schema demografico sia «insostenibile». Viste anche le conseguenze economiche: tra meno di cinquant’anni, con i livelli attuali di occupazione, produttività e di saldo migratorio, «l’Italia perderà quasi un quarto del Pil, il Sud oltre un terzo». E le risposte mancano. Quella che ha fatto vincere le elezioni al Movimento 5 Stelle nel Mezzogiorno, il reddito di cittadinanza, ha avuto sul mercato del lavoro «un impatto nullo, in quanto la misura, invece di richiamare persone in cerca di occupazione, le sta allontanando dal mercato del lavoro». Ne sanno qualcosa i 12 mila di Pomigliano che l’hanno ottenuto. Al contrario, per la povertà nel Mezzogiorno servono «le politiche di welfare ed estendere a tutti in egual misura i diritti di cittadinanza» . E’ evidente che la crisi del Mezzogiorno non può averla indotta questo governo. E’ una crisi mai risolta. Così, Giuseppe Provenzano riconosce che la pesante eredità che ha ricevuto come ministro per il Sud è la recessione economica dell’intera area. Una situazione che, al momento, può solo peggiorare (come dimostra il caso Ilva); visto il Meridione viene interpretato dalla classe politica solo come un bacino elettorale, e non un’area da favorire. Gli strumenti (anche europei) ci sono. Come le Zes ( zone economiche speciali) od anche soluzioni innovative come i fondi di sviluppo regionali (un caso su tutti, quello della Basilicata). Ma non decollano per egoismi locali. E per mancata collaborazione con le istituzioni nazionali. Un caso su tutti. Esiste una Banca per il Sud che potrebbe diventare lo strumento per favorire la progettazione in linea con i requisiti europei per accedere ai finanziamenti Ue. Ma nessuno l’attiva in tal senso. E l’Italia chiude la classifica dei Paesi Ue che attingono ai fondi europei di sviluppo. A volte viene il dubbio che il sottosviluppo del Mezzogiorno sia voluto.

Ilva, Arcelor Mittal abbandona. I nodi: immunità penale e perdite. Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Marco Galluzzo, Monica Guerzoni, Michelangelo Borrillo. L’ipotesi di una norma ad ampio spettro al prossimo Consiglio dei ministri per superare l’annunciato recesso di ArcelorMittal dall’acquisizione dopo la cancellazione dello scudo penale. Ecco come è stata eliminata l’immunità, e da chi. Il mercato che non va, con perdite di quasi 2 milioni al giorno; l’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) che potrebbe essere rivista; l’immunità penale su cui non è ancora stata fatta chiarezza. Sarebbero queste le motivazioni alla base della decisione di ArcelorMittal di lasciare l’Ilva di Taranto. Il recesso è giustificato, secondo la multinazionale, soprattutto dall’eliminazione della «protezione legale» dal 3 novembre «necessaria alla società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale.

In aggiunta - prosegue la nota - Arcelor Mittal contesta anche l’operato dei giudici di Taranto: i provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019 pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2», il che «renderebbe impossibile attuare il suo piano industriale, e, in generale, eseguire il contratto».Attualmente il contratto di Arcelor Mittal è di semplice «affitto», da trasformare in acquisizione effettiva nel 2020, dopo l’accordo siglato 12 mesi fa, a novembre 2018. Già in mattinata, si era diffusa l’indiscrezione secondo la quale la multinazionale sarebbe stata in procinto di inviare due lettere, una all’amministrazione straordinaria, proprietaria degli impianti, e l’altra ai sindacati, manifestando, appunto, questo suo intendimento. Arcelor Mittal, si legge nella nota, «ha chiesto ai commissari straordinari di assumersi la responsabilità delle attività di Ilva e dei dipendenti entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione».Giorni fa i vertici di Arcelor Mittal, col nuovo ad, Lucia Morselli, hanno incontrato i ministri Stefano Patuanelli (Mise) e Giuseppe Provenzano (Mezzogiorno) affermando come la crisi del mercato dell’acciaio renda difficile il mantenimento degli impegni sia contrattuali che occupazionali assunti.Togliere lo scudo penale ai vertici di Arcelor Mittal, scrive il segretario nazionale della Fim Cisl, Marco Bentivogli, è stato «un capolavoro di incompetenza e pavidità». E ora, dice ancora Bentivogli, al mancato disinnesco della «bomba ambientale» si unisce anche la «bomba sociale». Arcelor Mittal si era impegnata a fare investimenti ambientali per 1,1 miliardi, industriali per 1,2 miliardi e a pagare l’azienda, una volta concluso il periodo di affitto, 1,8 miliardi di euro, da cui detrarre però i canoni già versati. Gli occupati sono 10.700 di gruppo di cui 8.200 a Taranto, dove, attualmente, sono in cassa integrazione ordinaria per 13 settimane, dal 30 settembre, 1.276 dipendenti per crisi di mercato. In attesa di completare gli interventi di risanamento prescritti dall’Aia, ArcelorMittal è autorizzata a produrre a Taranto 6 milioni di tonnellate di acciaio ma, per la crisi e altre vicende congiunturali, quest’anno ne produrrà solo 4,5 milioni circa.

Ilva, dal fallimenti ai tentativi di salvataggio: tutti i numeri del polo siderurgico in crisi. Il Corriere della Sera il 4 novembre 2019. Nata nel 1965 come Italsider, è poi passata nel gruppo Riva: inchieste e problemi economici alla base della situazione di stallo - di Michelangelo Borrillo e Antonio Castaldo su /Corriere Tv. Sono ora 10.700 i dipendenti che ArcelorMittal ha assunto in tutta Italia, a partire dall’1 novembre 2018, da Ilva in amministrazione straordinaria. Di questi, 8.200 sono a Taranto e si tratta di dipendenti diretti. Di questi 8.200 dipendenti a Taranto, attualmente, dal 30 settembre scorso, 1.276 sono in cassa integrazione ordinaria per crisi di mercato, e ci resteranno per 13 settimane. Prima di questa fase di cassa, ve ne era stata già un’altra, sempre di 13 settimane, dal 2 luglio al 28 settembre scorso per 1.395 addetti. Prima del subentro di ArcelorMittal, lo stabilimento di Taranto contava 10.300 dipendenti. Di questi, 8.200 sono appunto stati assunti da AM, gli altri invece sono rimasti in Ilva in amministrazione straordinaria, proprietaria degli impianti: erano 2.600 dipendenti, che poi si sono ridotti a circa 1.700 perché una parte ha interrotto il rapporto di lavoro con Ilva accettando l’esodo agevolato e incentivato che era previsto dal contratto firmato con i sindacati da ArcelorMittal a settembre 2018. In questo momento i cassintegrati di Ilva in amministrazione straordinaria stanno frequentando corsi di formazione professionale.

Taranto, Mittal lascia: ex Ilva torna ai commissari. A rischio 15mila lavoratori. Vertice posticipato a mercoledì. Scudo penale e giudici tarantini le cause dell'addio. La Gazzetta del Mezzogiorno il 4 novembre 2019. Dopo un anno e quattro giorni Am InvestCo Italy ha deciso di lasciare il siderurgico ex Ilva: con una lettera ha notificata oggi ai commissari straordinari dell’ulva ha comunicato la volontà di rescindere l'accordo per l’affitto con acquisizione delle attività di Ilva Spa e di alcune controllate acquisite secondo l’accordo chiuso il 31 ottobre. «Secondo i contenuti dell’accordo» del 31 ottobre 2018 - si legge in una nota della multinazionale - ArcelorMittal «ha chiesto ai Commissari straordinari di assumersi la responsabilità delle attività di Ilva e dei dipendenti entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione» della volontà di ArcelorMittal di lasciare l'Ilva. L’eliminazione della «protezione legale» dal 3 novembre «necessaria alla società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificano la comunicazione di recesso. In aggiunta - prosegue la nota - i provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019 pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2» che «renderebbe impossibile attuare il suo piano industriale, e, in generale, eseguire il contratto». Addio Arcelor Mittal, ad Morselli scrive ai dipendenti: verso stop produzione. Una vera e propria bomba orologeria che getta nel panico circa 15mila persone, tra operai diretti e dell'indotto, costretti a una nuova roulette russa sul loro futuro determinato da una ipotetica chiusura di quella che era considerata la più grande acciaieria di Europa.

INCONTRO GOVERNO-AZIENDA POSTICIPATO - L’incontro tra il governo e i vertici di ArcelorMittal a Palazzo Chigi con il premier Giuseppe Conte, a quanto si apprende, è stato posticipato a mercoledì. Inizialmente la riunione, convocata dopo la lettera con cui la multinazionale ha notificato la volontà di ritirarsi dall’ex Ilva, era prevista per domani pomeriggio.

LA DECISIONE DI MITTAL - «Il contratto - afferma ArcelorMittal nel suo comunicato - prevede che, nel caso in cui un nuovo provvedimento legislativo incida sul piano ambientale dello stabilimento di Taranto in misura tale da rendere impossibile la sua gestione o l’attuazione del piano industriale, la Società ha il diritto contrattuale di recedere dallo stesso contratto». «Con effetto dal 3 novembre 2019, il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così - secondo ArcelorMittal - la comunicazione di recesso. In aggiunta, i provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019 - termine che gli stessi Commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare - pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2. Tali prescrizioni dovrebbero ragionevolmente e prudenzialmente essere applicate anche ad altri due altiforni dello stabilimento di Taranto. Lo spegnimento - sottolinea A.Mittal - renderebbe impossibile per la società attuare il suo piano industriale, gestire lo stabilimento di Taranto e, in generale, eseguire il contratto». Per Confindustria «l'annunciato ritiro di ArcelorMittal dallo stabilimento ex Ilva avrà effetti negativi sulla città di Taranto e sull'economia dell’intero Paese con particolare impatto sull'occupazione». Via Dell’Astronomia «auspica che si possano creare le condizioni per riaprire il confronto con l’azienda che abbia come obiettivo il mantenimento della produzione siderurgica a Taranto». Sulla stessa linea Federacciai che, secondo il suo presidente Alessandro Branzato, parla di «conseguenze per la filiera enormi, esponendo tutti sempre di più alle dinamiche delle importazioni, ma sarebbero pesanti anche per la siderurgia Italiana nel suo complesso che è, ricordiamolo, la seconda in Europa e la decima al mondo. Quello che temevamo purtroppo si è verificato: cambiare le regole del gioco in corsa poteva fare saltare il banco».

VERTICE A P. CHIGI, CONTE CONVOCA AZIENDA. Si è svolto a Palazzo Chigi il vertice di governo sul dossier Ilva convocato dal premier Giuseppe Conte. Tra i ministri presenti il titolare del dicastero per lo Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, il ministro per il Lavoro Nunzia Catalfo, il titolare per l’Ambiente Sergio Costa e il titolare per il Sud Giuseppe Provenzano. Il premier Giuseppe Conte, a quanto si apprende, convocherà a Palazzo Chigi i vertici di Arcelor Mittal per martedì pomeriggio.  In un tweet, Conte scrive che «per questo Governo la questione #Ilva ha massima priorità. Faremo di tutto per tutelare investimenti produttivi, livelli occupazionali e per proseguire il piano ambientale». In un confronto con il sindacati sulla legge di bilancio, il Premier avrebbe sottolineato che «il governo vuole confrontarsi con ArcelorMittal ma riteniamo non ci sia alcun motivo che possa giustificare il recesso. La norma sullo scudo penale non era nel contratto e non può essere invocato per giustificare il recesso». E ancora, fanno sapere fonti del Governo «il problema è che l’azienda vuole andarsene perché perde 2,5 milioni di euro al giorno. Vuole almeno 5mila esuberi», inquadrando quello che, a loro parere, è il reale pomo della discordia: «ArcelorMittal non ce la fa a mantenere la produzione richiesta e, approfittando di un quadro politico incerto ha preso l’assenza dello scudo penale come alibi per andar via». Allo stesso tempo, nel governo si cerca già di correre ai ripari. E nelle ore più calde del dossier ex Ilva, oltre al progetto di un decreto su Ilva, torna l’idea di una nazionalizzare. A Palazzo Chigi, nel corso della giornata, sarebbe stato consultato il neo presidente di Cdp Giovanni Gorno Tempini (circostanza smentita da fonte vicine a Cdp). Un eventuale intervento per sostituire ArcelorMittal dovrebbe tuttavia prevedere una cordata industriale e finanziaria, nella quale la quota di Cdp sia minoritaria e marginale.

GOVERNO NON CONSENTIRA' CHIUSURA - «Il governo non consentirà la chiusura dell’Ilva» lo affermano fonti del Mise presenti al vertice che si sta tenendo al Ministero di via Veneto con Patuanelli, Provenzano, Speranza, Catalfo, Costa e rappresentati del Ministero dell’Economia. «Non esistono presupposti giuridici per il recesso del contratto. Convocheremo immediatamente Mittal" afferma la fonte vicina al ministro Patuanelli.

PATUANELLI: RISPETTARE GLI ACCORDI - E' evidente, anche dai cambi di governance, che evidentemente la governance che aveva seguito gli impianti fino a adesso non ha funzionato». Lo afferma il ministro per lo Sviluppo Economico Stefano Patuanelli dopo il vertice a Palazzo Chigi sull'ex Ilva rispondendo a chi gli chiede quale sia il reale problema per ArcelorMittal. «Chiediamo il rispetto degli atti sottoscritti 14-15 mesi fa» ha aggiunto il ministro ricordando come ci siano un contratto, un piano industriale e un piano ambientale «da rispettare». E proprio sul punto Arcelor Mittal avrebbe fatto sapere che il contratto - non quello originario del 2017 ma quello sottoscritto successivamente nel settembre 2018 -  stabilisce che «l'Affittuario potrà altresì recedere dal contratto entro il medesimo termine qualora un provvedimento legislativo o amministrativo, non derivante da obblighi comunitari, comporti modifiche al Piano ambientale come approvato con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 29 settembre 2017 che rendano non più realizzabile, sotto il profilo tecnico e/o economico, il Piano industriale» (Ecco cosa dice il contratto). «Ricordo che ci sono circa 1300 persone già in cassa integrazione, ciò dimostra che il governo si è sempre occupato delle questioni legate anche al ciclo produttivo, e il governo si farà carico come sempre di questi problemi. Bisogna capire però la prospettiva qual'è. La prospettiva deve essere il rispetto del piano industriale che prevede una produzione di 6 milioni di tonnellate annue con una capacità che può arrivare a 8 milioni, questo il governo chiede», continua sottolineando si essere sorpreso dal tenore della lettera.

EMILIANO: FABBRICA TOTALMENTE ILLEGALE - La fabbrica «uccide cittadini e operai» ed «è totalmente illegale come dimostra lo stesso management di Arcelor Mittal che senza una immunità penale speciale, che esisteva in Europa solo per loro e che non è consentita a nessun’altra azienda, intima con arroganza allo Stato italiano di riprendersi la fabbrica entro 30 giorni». Lo afferma il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, dopo l’annuncio di ArcelorMittal di voler lasciare la gestione del siderurgico di Taranto. «Il nostro ordinamento - evidenzia Emiliano - già prevede la non punibilità di chi osserva la legge, e ricordo a me stesso che l’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) in Italia è legge dello Stato e che tutti gli atti per il suo adempimento sono legittimi per definizione e quindi immuni dal diritto penale». «Si saranno forse accorti - domanda Emiliano - che hanno firmato un contratto che non reggono economicamente? E soprattutto che l’altoforno 2 è in uno stato così deteriorato da non essere utilizzabile se non a costi altissimi? Si saranno di certo accorti - prosegue il governatore - che a 4 milioni di tonnellate come limite produttivo non riescono a mantenere gli impegni occupazionali che hanno sottoscritto». «Ma la soluzione - sottolinea Emiliano - non è far implodere la fabbrica per la deresponsabilizzazione di Arcelor Mittal, lasciandola al suo destino. Lascerebbero una bomba ecologica irrisolta e migliaia di disoccupati, e questo è semplicemente inaccettabile». Infine Emiliano ribadisce «quello che ho sempre detto sull'Ilva: se non fosse mai esistita - conclude - sarebbe stata una fortuna per la Puglia e per Taranto».

LE REAZIONI DEL MONDO POLITICO:

SALVINI (LEGA): SE SALTANO I POSTI DI LAVORO, GOVERNO CADE - «Se davvero saltano questi posti di lavoro (migliaia di Arcelor nell’ex Ilva, ndr) un governo con un minimo di dignità si dimette». Lo ha detto Matteo Salvini in conferenza stampa al Senato, secondo il quale «abbiamo gente pericolosa al governo». «Incapaci al governo che senza accorgersene mettono a rischio decine migliaia posti lavoro. La vicenda Ilva è drammatica, una crisi senza precedenti: in un Paese normale il premier sarebbe già domani a riferire alle Camere». Sullo scudo penale per Arcelor Mittal «l'emendamento soppressivo è a firma M5S, votato da Pd Iv e Leu, chi lo ha votato dovrebbe avere il coraggio di andare a Taranto stasera a spiegarlo». «Se il governo tasse, sbarchi, e manette farà scappare anche i proprietari dell’Ilva, mettendo a rischio il lavoro di decine di migliaia di operari e il futuro industriale del Paese sarà un disastro, e le dimissioni sarebbero l’unica risposta possibile. La Lega chiede che Conte venga a riferire urgentemente in Parlamento». Salvini ha poi sottolineato: «E' un Governo nemico del Sud, Conte è il primo nemico del sud. Stanno facendo carne da macello dalla Sicilia alla Puglia». «Domani in apertura lavori sia a Camera che a Senato chiederemo educatamente che qualcuno del governo venga a riferire su Ilva».

RENZI: DECISIONE INACCETTABILE - «La decisione di Mittal di disimpegnarsi da Taranto è inaccettabile. Il Governo deve da subito togliere alla proprietà ogni alibi eliminando gli autogol come quello sulla immunità voluto dal vecchio governo e sul quale avevamo messo in guardia il Ministro Patuanelli». Così Matteo Renzi ha commentato su Facebook. «Per chi in queste ore fa una polemica meschina e mediocre: lo scudo penale è stato cancellato dall’esecutivo Lega-Cinque Stelle. Ma noi vogliamo soluzioni, non capri espiatori. Indipendentemente dagli alibi, Taranto ha bisogno di un futuro e il futuro passa anche dall’acciaio - ha sottolineato - Ho firmato numerosi decreti per tenere aperta Ilva, mi sono preso di assassino da alcuni ex compagni di partito, ho subito contestazioni pesantissime. Rifarei tutto. Perché oggi il piano di risanamento c’è. E Taranto non può fare a meno dell’Ilva. Quello dell’immunità è un alibi che va tolto dal tavolo subito. Tutti, Governo e proprietà, devono mantenere gli impegni. I cittadini di Taranto lo hanno fatto. I lavoratori dell’Ilva lo hanno fatto. Adesso tocca a Governo e Mittal: non si scherza con il lavoro delle persone».

MELONI (FDI): SENZA RISPETTO IMPEGNO ADDIO INVESTIMENTI - «Sono molto preoccupata: dobbiamo fare molta attenzione ad uno stato che non mantiene i suoi impegni. Uno stato che vuole mantenere gli investimenti deve anche mantenere quegli impegni altrimenti da noi non investe più nessuno». Lo dice ai cronisti la leader di FdI Giorgia Meloni che aggiunge: «Poi sull'Ilva il tema importante è capire quale sarà il suo futuro da qui ai prossimi decenni. Questo è un tema che nessuno ha mai affrontato».

BERLUSCONI: TUTTA COLPA DEL GOVERNO - «Sono molto preoccupato per la decisione di Arcelor Mittal di recedere dal contratto per l'affitto e l’acquisto dei rami di azienda di Ilva. La decisione del gruppo francese determina conseguenze gravissime per i lavoratori, per la città di Taranto e per la produzione di acciaio in Italia». Lo afferma il leader di Fi Silvio Berlusconi. «La responsabilità è tutta del governo, che con il recentissimo voto di fiducia ha imposto alle Camere l'eliminazione della protezione legale che era stata attribuita agli investitori francesi per realizzare il loro piano ambientale a Taranto. La sete vendicativa e giustizialista dei grillini, la loro morbosa passione per le manette unita alla loro anima nemica dell’impresa, dello sviluppo ed anche dell’ambiente questa volta ha avuto successo, anche perchè è stata assecondata dagli altri partiti della sinistra, dal Pd di Zingaretti a Leu di Bersani ad Italia Viva di Matteo Renzi». «Anche questa volta sono i più deboli, i lavoratori e le famiglie di Taranto che - per i capricci della sinistra - vedono messo in pericolo il loro futuro lavorativo ed anche il risanamento ambientale dell’area. L’Italia rischia di perdere un polo produttivo strategico a tutto vantaggio della concorrenza straniera. Credo davvero che il governo debba riferirne immediatamente al Parlamento. Ancora una volta si dimostra che solo Forza Italia e solo il centro-destra sono in grado di mettere in campo un governo amico delle imprese, della stabilità e della certezza del diritto», conclude il presidente di FI.

NARDI (PD): VOLTAFACCIA PER OPERAZIONE SPECULATIVA - «Arcerol Mittal aveva dato garanzie ambientali e di mantenimento dell’occupazione. Il cambio repentino d’idea fa pensare ad una operazione speculativa, che noi non consentiremo». Lo dichiara Martina Nardi, capogruppo del Partito Democratico alla Commissione Attività produttive della Camera dei Deputati ed esponente di Base Riformista. Nardi prosegue: «Arcerol Mittal non usi la scusa dello scudo penale. Non ha rispettato gli impegni dell’accordo, non ha lavorato per mettere in sicurezza l’impianto, era consapevole del fatto che avrebbe perso milioni di euro al giorno. L’Italia e le sue industrie non possono essere usate solo per acquisire fette di mercato. Dal Parlamento lavoreremo per garantire sia il rispetto degli accordi sia la prosecuzione dell’attività dell’ex Ilva».

GELMINI (FI): TOTALE INCAPACITÀ' DEL GOVERNO - «Il ritiro di Arcelor Mittal dall’Ilva è il risultato della colpevole incapacità del governo. È un crimine contro il lavoro e contro l’Italia: ne risponderanno davanti agli italiani. Il Movimento 5 Stelle, che guida ininterrottamente il Ministero competente, prima con Di Maio e adesso con Patuanelli, dovrebbe chiedere scusa per aver finalmente centrato un suo obiettivo: volevano chiudere l’Ilva e ci stanno riuscendo. I complici, però, di questo misfatto non hanno meno responsabilità: Renzi e Zingaretti, fra una conferenza all’estero del primo e una festa dell’Unità dell’altro, dovrebbero dare spiegazioni. Conte e Patuanelli hanno il dovere di riferire immediatamente in Parlamento». Lo afferma in una nota Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. Oltre al mancato scudo legale e ai provvedimenti del tribunale di Taranto anche: «altri gravi eventi, indipendenti dalla volontà di ArcelorMittal, hanno contribuito a causare una situazione di incertezza giuridica e operativa che ne ha ulteriormente e significativamente compromesso la capacità di effettuare necessari interventi presso Ilva e di gestire lo stabilimento di Taranto». «Tutte le descritte circostanze - argomenta ArcelorMittal - attribuiscono alla Società anche il diritto di risolvere il Contratto in base agli applicabili articoli e principi del codice civile italiano».

EX MINISTRO CALENDA: DISTRUTTO LAVORO DI ANNI. «Vorrei solo dire a chi ha votato contro lo «scudo penale» ILVA - Pd, Mov5Stelle, Italia Viva -: siete degli irresponsabili. Avete distrutto il lavoro di anni e mandato via dal Sud un investitore da 4,2 mld per i vs giochini politici da 4 soldi». Sull'accordo, invece, Calenda - in qualità di firmatario - spiega che non prevede espressamente il diritto di recesso in caso di modifica dello scudo penale ma prevede la possibilità di recesso nel caso di un cambiamento di normative rilevanti, tale da mettere in discussione la sostenibilità, il piano industriale». In questi termini la clausola c'è ma «ArcelorMittal non può chiudere autonomamente gli altoforni», il diritto di recesso «va prima accertato dal Tribunale"; «E' plausibile che il Tribunale glielo riconosca ma non può muoversi autonomamente».

BELLANOVA: AZIENDA REVOCHI DECISIONE - Arcelor Mittal receda dai propositi appena annunciati ai Commissari Straordinari ex Ilva di disimpegno sull'azienda e il Presidente Conte e il Ministro Patuanelli intervengano immediatamente per impedire la perdita di circa 20mila posti di lavoro, lo smottamento della filiera italiana dell’acciaio, lo stop al Piano ambientale a Taranto, la compromissione irreversibile di un percorso teso a tutelare salute, lavoro, ambiente. Così la Ministra Teresa Bellanova commenta la nota inviata da Arcelor Mittal ai Commissari Straordinari ex Ilva. Chiedo ad Arcelor Mittal di recedere dai propositi annunciati», ha detto la Ministra Bellanova, «come chiedo al Presidente Conte e al Ministro Patuanelli un’azione immediata che troverà in me e in Italia Viva totale sostegno perché non accada l’irreparabile e si possa riaprire, esattamente come aveva già garantito il Ministro Patuanelli e come io stessa avevo sollecitato, un tavolo sgombro da minacce di qualsiasi natura». «Qualsiasi punto di equilibrio Conte e Patuanelli vogliano ristabilire con gli investitori - ha aggiunto - sottolineo che per me e per Italia Viva l’equilibrio non può prescindere dal rilancio di Ilva e dall’ambientalizzazione di Taranto, dall’attuazione del Piano ambientale e del Piano Industriale come nell’accordo sottoscritto nel settembre 2018 al Mise, dall’impedire che Taranto divenga il più grande cimitero industriale europeo». «E poiché non è assolutamente il caso di lucrare politicamente su una vicenda così delicata e che rischia di produrre danni enormi per Taranto, il Mezzogiorno, il sistema-paese, ricordo a chi oggi dalla destra si esibisce in dichiarazioni, che il Decreto crescita del giugno 2019, dove era stato cancellato lo scudo teso a garantire l’attuazione del Piano Ambientale, era stato approvato grazie anche alla Lega», ha concluso.

TOTI: COLPA DEL GOVERNO EX ILVA RISCHIA CHIUSURA - «Complimenti al Governo: grazie alle trovate grilline e all’incapacità del Pd, Arcelor Mittal fugge dall’Italia. L’Ilva rischia la chiusura, con 20 mila persone per strada e i contribuenti italiani costretti a pagare quel che avrebbe pagato Mittal». Così il presidente della Regione Liguria e leader di Cambiamo! Giovanni Toti oggi pomeriggio via fb interviene sull'annunciata rescissione dell’accordo per l’affitto con acquisizione delle attività di Ilva Spa. «Ma vi rendete conto? Abbiamo affidato il Paese a chi sosteneva di voler fare dell’Ilva di Taranto un parco giochi! In realtà - attacca Toti - ne sta facendo un deserto. La decrescita avanza, altro che felice. Lacrime e sangue. Siamo pronti a batterci in ogni modo con i lavoratori e ho già chiesto ai sindacati di vederci subito in Regione per fare il punto sulla situazione genovese e concordare ogni forma di mobilitazione in difesa dell’acciaio italiano». 

LA REPLICA DI UN OPERAIO IN CIGS - «Leggo frasi ad effetto, tanto stupore da chi farebbe bene a restare in silenzio. Avevo avvertito tutti che A.Mittal dopo la fase gestionale e, portato a termine tutti i passaggi, acquisendo anche le quote di mercato dell’Ilva di Taranto, avrebbe salutato il capoluogo ionico lasciando tutti con un pugno di mosche». Lo afferma Massimo Battista, operaio del Siderurgico rimasto in capo all’Ilva in As in regime di cassa integrazione straordinaria e consigliere comunale di opposizione (eletto nel M5S, poi dichiaratosi indipendente per divergenze con Di Maio proprio sulla vicenda Ilva). «ArcelorMittal - aggiunge Battista - é pronta a restituire l'Ilva allo Stato italiano, infatti ha notificato in mattinata ai commissari straordinari la volontà di abbandonare lo stabilimento di Taranto. Un anno fa, quando il 6 settembre si siglò l’accordo tra parti sociali, Governo e Mittal, fui molto critico sulla soluzione che, a mio modo di vedere, nel tempo avrebbe portato solo danni in termini occupazionali e ambientali per la città. I fatti oggi confermano ciò che pensavo dall’arrivo a Taranto dei franco-indiani». Secondo l’operaio e consigliere comunale, «oggi più che mai l’unica soluzione è l'unione di tutto il territorio tarantino, nessuno escluso, che veda finalmente al primo posto la città di Taranto e non gli interessi nazionali che hanno provocato solo morte e distruzione sotto ogni punto di vista».

FI PUGLIA: ERA PREVEDIBILE - «La notizia del ritiro di ArcelorMittal è il purtroppo prevedibile epilogo di una vicenda gestita in modo pessimo da un governo di incapaci e improvvisati». Lo affermano in una nota il coordinatore e vicecoordinatore di Forza Italia Puglia, i parlamentari Mauro D’Attis e Dario Damiani. «Chi ha messo la multinazionale nelle condizioni di rescindere il contratto - proseguono - lo ha fatto consapevole delle conseguenze, giocando sulla pelle dei lavoratori e delle imprese dell’indotto. Con le sue assurde decisioni il governo ha posizionato una bomba sociale sotto Taranto, con il rischio di perdite di posti di lavoro e nessuna riqualificazione ambientale». «I responsabili di questa scellerata gestione - rilevano - dovrebbero avere il buon gusto di rimettere il loro mandato, senza appelli. L’Italia rischia di perdere un importantissimo sito di produzione industriale, il Mezzogiorno e Taranto una risorsa occupazionale»».

BONELLI (VERDI): IN NESSUN PAESE SCUDO PENALE - «In nessun Paese al mondo, tanto meno in Europa, esiste uno scudo penale per un’attività industriale che non rispetta normative ambientali, arrecando pertanto danni alla salute della popolazione». Così Angelo Bonelli, coordinatore dell’esecutivo nazionale dei Verdi, commenta la rescissione del contratto di acquisto dell’ex Ilva presentata da ArcelorMittal. «Il 26 luglio 2012 - rammenta Bonelli - veniva sequestrato l’impianto dell’Ilva di Taranto perché, come si leggeva nelle parole del gip, produceva inquinamento e morte. Indagini epidemiologiche successive hanno evidenziato come il 50% dei bambini di Taranto tra 0 e 15 anni si ammalasse di tumore e, di questi, il 21% non sopravviveva alla patologia. Un dato che fa impressione se paragonato alla media pugliese». Di questo, sostiene il leader ecologista, «in questi lunghi 7 anni, nessuno si è mai preoccupato e nessuno è stato in grado di costruire progetti di bonifica e messa in sicurezza dell’impianto industriale, come è stato fatto in tanti altri Paesi europei di fronte a impianti inquinanti».

FDI PUGLIA: GOVERNO GIALLOROSSO INCAPACE - «Il PD e il M5S, oggi alleati nel governo rossogiallo, si rivelano incapaci di affrontare questioni complesse e affossano le imprese dietro i grandi proclami di rilancio industriale. In particolare il M5S incassa il suo ennesimo fallimento su un tema strategico per l’economia del Paese e segnatamente della Puglia, quando bastava trovare il giusto compromesso tra salvaguardia dei posti di lavoro e tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini». Così i deputati di Fratelli d’Italia Puglia, il coordinatore regionale e i consiglieri regionali in merito alla rescissione del contratto d’acquisto dell’ex Ilva presentata da ArcelorMittal.

«Di Maio - concludono - ebbe a dire che si trattava del miglior risultato possibile, ma il miglior risultato possibile per il Paese e per la Puglia è che questo governo abusivo vada a casa».

Ex Ilva, vescovo: rischio disastro sociale. Sindaco: basta con i ricatti. La Gazzetta del mezzogiorno il 4 novembre 2019. «Un disastro sociale». Così l'arcivescovo di Taranto, monsignor Filippo Santoro, definisce la volontà di ArcelorMittal di rescindere dall’accordo per l'affitto con acquisizione delle attività di Ilva Spa nella città pugliese. In una intervista a Radio Vaticana Italia monsignor Santoro chiede che «i commissari governativi intervengano affinché AlcelorMittal receda dalla volontà di abbandonare l’Ilva. E’ una calamità sociale che si prevede e che si aggiunge a quella ambientale. Si è stati inerti di fronte a questa possibilità, ognuno sosteneva un aspetto della questione. Ora ci vuole una concertazione a livello di governo centrale, perché finora si è stati ad attendere l’evolvere dei fatti senza intervenire. Le circostanze richiedono a tutti uno sforzo di rinnovata analisi e di creatività. Un’altra soluzione calamitosa sarebbe una cassa integrazione che duri 10-20 anni, ma questo - sottolinea Santoro - sarebbe aggirare l’ostacolo mentre dobbiamo creare posti di lavoro».

IL SINDACO: BASTA CON I RICATTI - Se la loro fosse solo tattica sarebbe già riuscita male, oltre che risultare uno sberleffo per una città che ha tanto sofferto e non è più disposta ad alcun genere di ricatto. Se non lo fosse, come in fondo ci auguriamo, dovremmo essere pronti ad un rilancio coraggioso, per i nostri lavoratori e per i nostri concittadini». Così il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, commenta la notizia della richiesta di rescissione del contratto avanzata da ArcelorMittal. Per il sindaco «è un momento drammatico per Taranto e per i lavoratori dell’ex Ilva, perciò la cautela deve essere massima». «Attendiamo - prosegue - le determinazioni del Governo prima di pronunciarci sulle ultime iniziative di ArcelorMittal, che certo anche in questo momento, per quanto fosse nota la questione dello scudo penale, non ha brillato per senso di responsabilità e propensione al dialogo verso le Istituzioni e il territorio che li ospita, non senza nuove recriminazioni».

ArcelorMittal lascia Taranto: "Colpa dello scudo penale". Adesso 20mila persone rischiano il lavoro. Il Corriere del Giorno il 5 Novembre 2019. La comunicazione ai commissari dell’azienda siderurgica. Le motivazioni: “Il contratto prevede il recesso se non è possibile l’esercizio dello stabilimento”. Vertice a Palazzo Chigi. Conte convoca i vertici della multinazionale, che a sua volta vede i sindacati. La reazione dei sindacati: “Si apre fase drammatica, l’addio è una bomba sociale. Il governo ci convochi urgentemente”. Esplode la “bomba” su Taranto. Come aveva previsto chi scrive, ed in tempi non sospetti , ArcelorMittal ha deciso di restituire l’ ILVA allo Stato italiano. A poco più di un anno dall’arrivo in Italia, la multinazionale franco-indiana ha notificato ai commissari e ai sindacati la volontà di ritirarsi. Con un tweet pubblicato alle 05:42 del mattino di ieri la filiale italiana della multinazionale franco indiana ArcelorMittal ha reso noto di aver notificato ai commissari straordinari dell’ILVA in Amministrazione Straordinaria la volontà di rescindere l’accordo per l’affitto con acquisizione delle attività di ILVA Spa e di alcune controllate acquisite secondo l’accordo chiuso il 31 ottobre. In occasione del G20 di Osaka il premier Giuseppe Conte  si espresse sull’ immunità penale garantita ai commissari di ILVA definendola “un privilegio” aggiungendo che come tale “il Parlamento, che è sovrano, lo ha eliminato”. Affermazioni che hanno probabilmente contribuito ad indurre ufficialmente ArcelorMittal a prendere la decisione di abbandonare le proprie attività in Italia. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella molto preoccupato per la decisione degli indiani, che mette a rischio più di un punto di Pil e oltre ventimila posti di lavoro, si è sentito più volte con il premier Conte, auspicando e sollecitando la massima attenzione al “dossier” ribadendo , secondo fonti del Quirinale, che la continuità aziendale non può essere messa in discussione. È in gioco una grande filiera produttiva ed è in gioco anche il destino del governo più rissoso che si sia mai visto in Italia negli ultimi 20 anni. Nella lettera di ArcelorMittal viene fatto un esplicito riferimento alle difficoltà legate all’incertezza giuridica, conseguente allo stop allo scudo penale fortemente voluto ed imposto dal M5S, ed anche operativa a seguito delle decisioni adottate ancora una volta dai giudici di Taranto. Nella lettera si legge che Arcelor Mittal “ha chiesto ai Commissari straordinari di assumersi la responsabilità delle attività di Ilva e dei dipendenti entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione”. ArcelorMittal spiega inoltre che il contratto prevede che, nel caso in cui un nuovo provvedimento legislativo incida sul piano ambientale dello stabilimento di Taranto in misura tale da rendere impossibile la sua gestione o l’attuazione del piano industriale, la società ha il diritto contrattuale di recedere dallo stesso contratto. Nella nota si ricordano, tra le motivazioni che hanno contribuito a causare una situazione di incertezza giuridica e operativa, la cancellazione dello scudo legale per la società e i provvedimenti emessi dal Tribunale Penale di Taranto che obbligano i commissari straordinari di ILVA in A.S.  a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019, “termine che gli stessi commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare”. “Altri gravi eventi, indipendenti dalla volontà della Società – prosegue l’azienda – hanno contribuito a causare una situazione di incertezza giuridica e operativa che ne ha ulteriormente e significativamente compromesso la capacità di effettuare necessari interventi presso Ilva e di gestire lo stabilimento di Taranto”. ArcelorMittal Italia in una sua lettera scritta ai dipendenti spiega che “sarà necessario attuare un piano di ordinata sospensione di tutte le attività produttive a cominciare dall’area a caldo dello stabilimento di Taranto, che è la più esposta ai rischi derivanti dall’assenza di protezioni legali”. Coinvolti tutti i reparti e le aree operative che “saranno progressivamente sospese, tenendo presente che l’obiettivo di queste azioni è di mantenere tutti gli impianti in efficienza e pronti per un loro riavvio produttivo”. Immediate le reazioni politiche. Matteo Salvini ha chiesto al Governo di riferire con urgenza in Parlamento. “Se il Governo tasse, sbarchi, e manette farà scappare anche i proprietari dell’Ilva, mettendo a rischio il lavoro di decine di migliaia di operai e il futuro industriale del Paese sarà un disastro, e le dimissioni sarebbero l’unica risposta possibile. La Lega chiede che Conte venga a riferire urgentemente in Parlamento” afferma il leader della Lega. Il capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, aggiunge: “Come temevamo, ci sono riusciti. Hanno fatto chiudere l’Ilva. Questo governo, con la sua ideologia di decrescita, è un flagello per l’economia e i lavoratori italiani”. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, si dice “molto preoccupata: dobbiamo fare molta attenzione ad uno Stato che non mantiene i suoi impegni. Uno Stato che vuole mantenere gli investimenti deve anche mantenere quegli impegni altrimenti da noi non investe più nessuno”. Di “colpo mortale all’industria dell’acciaio italiano” parla Annamaria Bernini presidente dei senatori di Forza Italia, , secondo cui “l’obiettivo strategico del Movimento 5 Stelle di trasformare Taranto in un cimitero industriale è stato quindi centrato, e quanto sta accadendo è un’autentica vergogna nazionale, una tragedia per l’occupazione e per lo sviluppo”. “Vorrei solo dire a chi ha votato contro lo ‘scudo penale’ Ilva – Pd, M5S e Italia Viva– siete degli irresponsabili. Avete distrutto il lavoro di anni e mandato via dal Sud un investitore da 4,2 mld, per i vostri giochini politici da 4 soldi” scrive Carlo Calenda, ex-ministro dello Sviluppo Economico, su Twitter. Il ministro delle Politiche Agricole, Teresa Bellanova (che era il vice ministro di Calenda) , chiede alla multinazionale Arcelor Mittal di “recedere dai propositi annunciati” e chiede “a Conte e a Patuanelli un’azione immediata che troverà in me e in Italia Viva totale sostegno perché non accada l’irreparabile e si possa riaprire, esattamente come aveva già garantito Patuanelli e come io stessa avevo sollecitato, un tavolo sgombro da minacce di qualsiasi natura”. Per Matteo Renzi, “la decisione di Mittal di disimpegnarsi da Taranto è inaccettabile. Il Governo deve da subito togliere alla proprietà ogni alibi eliminando gli autogol come quello sulla immunità voluto dal vecchio governo e sul quale avevamo messo in guardia il Ministro Patuanelli”. Seriamente molto preoccupati i sindacati, che accusano il Governo per la fuga di ArcelorMittal da Taranto . La segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, chiama in causa la “responsabilità del Governo e della politica”, perché “siamo davanti ad un vero disastro industriale, sociale ed ambientale”. Il segretario nazionale della Fim Cisl Marco Bentivogli aggiunge: “Un capolavoro di incompetenza e pavidità politica: non disinnescare bomba ambientale e unire bomba sociale” . Secondo Francesca Re David, segretaria generale della Fiom-Cgil, su Taranto “il comportamento del Governo è contraddittorio è inaccettabile: con il Conte 1 ha introdotto la tutela penale parallela agli investimenti e con il Conte 2 ha cancellato la stessa norma dando all’azienda l’alibi per arrivare a questa decisione. L’incontro con il Governo, che chiediamo da settimane, diventa ormai urgentissimo”. Rocco Palombella, segretario generale Uilm, aggiunge commentando la notizia come “drammatica”, anche se “era nell’aria, ce l’aspettavamo dopo le ultime decisioni del governo e del Parlamento. Nessuna azienda è in grado di produrre in un contesto difficile, in un clima pesante avendo tutti contro, dal Governo alla Regione Puglia fino al Comune di Taranto”.

Sull'ex Ilva il Governo ha perso la faccia. L'editoriale del direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, sulla vicenda dell'acciaieria di Taranto in cui 15 mila persone rischiano ora di restare senza lavoro. Maurizio Belpietro il 4 novembre 2019 su Panorama. “Non sappiamo ancora se questo Governo riuscirà con la manovra a fermare l’aumento dell’Iva, di sicuro per ora siamo riusciti a capire che ha fermato l’Ilva, che non è una tassa ma è la più grande azienda siderurgica italiana. Si perché è successo che mentre regna sovrana la confusione sulle tasse, la maggioranza di Governo giallorossa non è riuscita a salvaguardare la clausola dell’Ilva. E’ successo che l’azienda siderurgica ha inquinato e per questo è stata sottoposta sotto sequestro. E’ un pezzo di pil di ricchezze, di occupazione tra dipendenti diretti ed indotto; per questo era stata avviata un’attività di riqualifica, di bonifica per far si che non inquinasse salvaguardando la salute dei cittadini ma non si può far tutto questo con la bacchetta magica perché il rischio per qualsiasi industriale che si fosse avvicinato all’Ilva era di essere colpito dalle decisioni della magistratura; così si decise per l’immunità penale, cioè di garantire a chi si fosse occupato della bonifica e della salvaguardia dell’azienda una sorta di salvaguardia penale che però non piaceva ad alcuni movimenti, soprattutto ad una parte dei grillini e così il 31 ottobre, grazie all’emendamento “Lezzi” che prende il nome dalla sua firmataria è stata eliminata con il voto anche del Partito Democratico. Il risultato è che il gruppo indiano, ArcelorMittal, che aveva voluto investire sull’azienda comprandola e decidendo di investire 4 miliardi di euro per farla rinascere, di bonificarla, ha detto di non aver più intenzione di proseguire; così restituisce l’azienda mettendo sul lastrico migliaia di persone saluta tutti e se ne va dall’Italia. Che bel risultato, bisognava impegnarsi per ottenere un risultato del genere e perdere la faccia con gli investitori internazionali che ora se ne staranno alla larga dal nostro paese. Complimenti davvero”.

L'ultima "impresa" di Di Maio: ArcelorMittal lascia l'ex Ilva. Ora rischiano il lavoro 10.700 operai. La comunicazione ai commissari straordinari dell'azienda siderurgica. Francesca Bernasconi, Lunedì 04/11/2019, su Il Giornale. ArcelorMittal ha inviato ai commissari straordinari dell'Ilva una notifica, in cui viene resa nota la volontà di rescindere l'accordo per per l'affitto e il successivo acquisto condizionato dei rami d'azienda di Ilva Spa e di altre controllate. L'accordo era stato chiuso il 31 ottobre del 2018. Una "bomba sociale" - come la definiscono i sindacati - che si abbatte sul governo e in particolare su Luigi Di Maio che, da ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, si era occupato del dossier ora passato sul tavolo di Stefano Patuanelli. "Il governo non consentirà la chiusura dell'Ilva", dicono ora fonti dell'esecutivo, "Non esistono presupposti giuridici per il recesso del contratto. Convocheremo immediatamente Mittal a Roma". Ma è caos. ArcelorMittal si era impegnata a realizzare investimenti ambientali per 1,1 miliardi, industriali per 1,2 miliardi e a pagare l'ex Ilva 1,8 milioni di euro, una volta terminato il periodo d'affitto, iniziato il primo novembre dello scorso anno e che avrebbe dovuto durare per 18 mesi. L'ex Ilva dà lavoro a 10.700 operai, di cui 8.200 a Taranto dove, attualmente, 1.276 sono in cassa integrazione per 13 settimane (dal 30 settembre), per crisi di mercato. Nella lettera in cui l'azienda comunica il recesso, si chiarisce che il contratto per l'affitto e il successivo acquisto di alcuni rami di Ilva Spa e di alcune sue aziende controllate prevede che "nel caso in cui un nuovo provvedimento legislativo incida sul piano ambientale dello stabilimento di Taranto in misura tale da rendere impossibile la sua gestione o l'attuazione del piano industriale, la Società ha il diritto contrattuale di recedere dallo stesso Contratto". Secondo ArcelorMittal, "il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla Società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso". L'azienda ha chiesto ai commissari straordinari dell'Ilva di "assumere la responsabilità delle operazioni e dei dipendenti entro 30 giorni" dal ricevimento del comunicato di rinuncia. Il segretario nazionale della Fim Cisl, Marco Bentivoglio, ha chiarito i motivi del recesso: "Tra le motivazioni principali di ArcelorMittal, il pasticcio sullo scudo penale. Un capolavoro di incompetenza e pavidità politica: non disinnescare bomba ambientale e unire bomba sociale". Inoltre, ArcelorMittal contesta anche l’operato dei giudici di Taranto, "che obbligano i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019 pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2". Lo spegnimento renderebbe però impossibile per la società attuare il suo piano industriale. "Altri gravi eventi, indipendenti dalla volontà della Società- si legge ancora nella lettera di ArcelorMittal -hanno contribuito a causare una situazione di incertezza giuridica e operativa che ne ha ulteriormente e significativamente compromesso la capacità di effettuare necessari interventi presso Ilva e di gestire lo stabilimento di Taranto". Immediate le reazioni politiche: "Il ritiro di Arcelor Mittal dall'Ilva rappresenta un colpo mortale all'industria dell'acciaio italiano- ha detto Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia- L'obiettivo strategico del Movimento Cinque Stelle di trasformare Taranto in un cimitero industriale è stato quindi centrato, e quanto sta accadendo è un'autentica vergogna nazionale, una tragedia per l'occupazione e per lo sviluppo". E Matteo Salvini, leader della Lega ha commentato: "Se il governo tasse, sbarchi e manette farà scappare anche i proprietari di Ilva, mettendo a rischio il lavoro di decine di migliaia di operai e il futuro industriale del Paese, sarà un disastro e le dimissioni sarebbero l'unica risposta possibile. La Lega chiede che Conte venga urgentemente a riferire in Parlamento".

Le giravolte del M5s e Di Maio sullo strappo di ArcelorMittal. La soppressione dello scudo fiscale per i vertici dell'ArcelorMittal voluta dal Movimento 5 Stelle ha messo l'azienda con le spalle al muro. Federico Giuliani, Lunedì 04/11/2019, su Il Giornale. Il Movimento 5 Stelle e Luigi Di Maio hanno creato le basi per far scappare ArcelorMittal dall’Italia. Adesso il governo prova a ricucire lo strappo, ma la situazione resta complicata. Il colosso dell’acciaio ha infatti deciso di riconsegnare l’ex Ilva di Taranto allo Stato "entro 30 giorni". Stretto all’angolo, l’esecutivo giallorosso è adesso a lavoro per evitare di subire quello che sarebbe un clamoroso contraccolpo elettorale. Ma come si è arrivati fino a questo punto? Qualche mese fa ArcelorMittal ricevette rassicurazioni dal governo su un nuovo provvedimento per ripristinare l’immunità ambientale per lo stabilimento di Taranto. L’apertura aveva fatto piacere al direttore finanziario del gruppo, Aditya Mittal, che arrivò a dichiarare che “il governo è stato molto costruttivo con noi” e che “sta lavorando a una nuova legge che ripristini l’immunità”. Sembrava che prima dell’inizio dello scorso settembre il provvedimento potesse diventare legge, invece niente di tutto questo è accaduto. Il Mise smentì categoricamente il fatto che vi fosse allo studio “un provvedimento per ripristinare l'immunità per l'ex Ilva di Taranto". Il messaggio recapitato ad ArcelorMittal fu chiarissimo: “Non esisterà più alcun scudo penale per i morti sul lavoro e per i disastri ambientali”. La risposta della società non tardò ad arrivare: “Siamo fiduciosi che si troverà una soluzione. Chiediamo la tutela giuridica per continuare ad attuare il nostro piano ambientale”.

Le giravolte del Movimento 5 Stelle. Passa qualche mese e il Movimento 5 Stelle effettua una nuova giravolta, l’ennesimo scossone all’interno di una vicenda paradossale. Lo scudo penale per i vertici dell’ArcelorMittal dell’ex Ilva viene soppresso, nonostante il gruppo avesse intrapreso un percorso in accordo con l’allora ministro allo Sviluppo economico Luigi Di Maio. E così, a metà ottobre, le commissioni Industria e Lavoro del Senato approvano l’emendamento del Movimento 5 Stelle che sopprime l’articolo 14 contenuto nel Dl "salva imprese". Proprio quello che fa venir meno le tutele legali per i manager dell’ex Ilva. Durissima la risposta della Lega, che per bocca del deputato Edoardo Rixi ha sottolineato come “con il dietrofront fatto ieri, la nuova maggioranza Pd-Renzi-Leu-M5S ha sostanzialmente condannato alla perdita del proprio posto di lavoro circa 5 mila dipendenti, stoppata l'ambientalizzazione di Taranto con la chiusura dell'altoforno”. L’ombra di un possibile disastro è grande: “Il risanamento del sito pugliese – prosegue Rixi - sarebbe insostenibile per la finanzia pubblica e il rischio ambientale, lasciando i lavori di ambientalizzazione incompleti, sarebbe enorme”. Il resto è storia attuale, attualissima. Il Movimento 5 Stelle ha tirato troppo la corda, e adesso è ArcelorMittal che ha deciso di strapparla in un colpo solo. Senza lo scudo giuridico per i reati compiuti prima dell’arrivo della società, quest’ultima ha visto preclusa la possibilità di attuare il proprio piano industriale. Il pasticcio è completo.

Dalla Tav all'Ilva, le figuracce targate Di Maio. L'ostilità del Movimento 5 Stelle verso il capitalismo costringe il Paese a delle giravolte incompatibili con le regole delle grandi imprese. Guido Fontanelli il 4 novembre 2019 su Panorama. “Bisogna capire che nessuno verrà mai a investire in Italia, se ogni governo che arriva poi cambia le leggi in maniera retroattiva, cambia i contratti e non sta ai patti”. Indovinate di chi si parla? Di Ilva? No, sono le parole dell’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria a proposito della Tav, la ferrovia ad alta velocità Torino-Lione, che è stata a rischio per mesi a causa dei Cinquestelle capitanati da Luigi Di Maio. Per fortuna il pericolo di uno stop alla grande infrastruttura è stato scongiurato, ma ora in bilico è l’Ilva di Taranto. Ed è sempre a causa di Di Maio se l’Arcelor Mittal, il più grande gruppo siderurgico al mondo, minaccia di andarsene. I potenziali acquirenti dell’Ilva sostengono infatti che in mancanza dello scudo penale previsto al momento dell’accordo con lo Stato italiano e poi ritirato dall’attuale governo, non possono concludere l’operazione. Ci sono poi altre ragioni, come i vincoli imposti dai magistrati agli attuali commissari con una tempistica non ragionevole. E magari motivi di ordine economico. Può anche darsi che Arcelor usi tutto questo come pretesto. Ma ciò conta poco: quel che è certo è che un Paese che continua a cambiare le carte in tavola non è un partner affidabile per qualsiasi grande gruppo. Nel 2015 il governo di Matteo Renzi vara un decreto che "esclude la responsabilità penale e amministrativa del commissario straordinario, dell'affittuario o acquirente (e dei soggetti da questi delegati) dell'Ilva di Taranto in relazione alle condotte poste in essere in attuazione del Piano ambientale". Nel 2018 Arcelor Mittal arriva a Taranto e dopo pochi mesi, nell’aprile scorso, il governo Lega-M5s elimina l'immunità penale con il decreto Crescita. Per Di Maio si tratta di un privilegio illegittimo concesso ad ArcelorMittal. Di fronte alle proteste di quest’ultima, in agosto lo scudo penale viene reintrodotto con il decreto salva-Imprese: l'immunità però è a scadenza progressiva e protegge i manager per il periodo di tempo strettamente necessario ai lavori ambientali. E arriviamo a ottobre quando l'articolo incriminato è eliminato dalla versione definitiva del decreto salva-Imprese approvato al Senato con la fiducia e poi alla Camera. Provocando l’ultima decisione di Arcelor Mittal. Insomma, una incomprensibile raffica di giravolte. Anche perché vede come comprimari alleati di governo (prima la Lega, poi il Pd e Italia Viva) che oggi protestano pur essendo stati coinvolti nei vari stop and go. Una situazione assurda agli occhi di una multinazionale. Ma se ci sono tanti possibili complici, un colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio c’è. Ed è il Movimento 5 Stelle.

Ex Ilva - Arcelor Mittal: quanto costa la chiusura dell'acciaieria. Se la decisione di Arcelor Mittal di abbandonare l'Italia fosse confermata ci sarebbero danni per 38 miliardi e quasi 11 mila posti di lavoro. Panorama il 4 novembre 2019. Il possibile abbandono di Arcelor Mittal da Taranto e la conseguente chiusura delle acciaierie ex Ilva sarebbero un danno enorme in termini economici e occupazionali per l'Italia. Il conto, da pagare, era stato calcolato mesi fa da Svimez, l'associazione per lo Sviluppo dell'Industria nel Mezzogiorno, è a dir poco salatissimo: la stima sulla mancata produzione di 6 milioni di tonnellate (tanto poteva produrre a pieno regime l'ex Ilva) è di circa 24 miliardi di euro; 6 miliardi in meno della manovra finanziaria in discussione da oggi al Senato. In rapporto con il pin, stimato nel 2017 a 1725 miliardi di euro, stiamo parlando di una perdita di quasi l'1,5% sull'intero pie del paese. Ma non è tutto. A queste cifre infatti andrebbero aggiunti anche i mancati investimenti sull'area, legati alla sostenibilità ambientale e previsti da Arcelor Mittal, per 11 miliardi, più 1,2 miliardi di investimenti industriali e strutturali, più il pagamento dell'azienda per altri 1,8 miliardi. Il totale quindi diventerebbe di 38 miliardi di euro. E questo solo da un mero punto di vista economico contabile. Perché poi ci sono anche i danni ambientali ed occupazionali. Senza il colosso mondiale dell'acciaio infatti i costi (non quantificabili) della bonifica dell'intera area sarebbero tutti a carico dello Stato. E, soprattutto, resta il problema occupazionale: attualmente solo a Taranto lavorano ben 8200 persone più altre 2500 nelle altre sedi italiane. Vite che resterebbero senza troppe speranze di una nuova occupazione, in un'area del paese a basso tasso di produttività. Le promesse del Governo Renzi e di quello Gentiloni di creare su quell'area un nuovo polo produttivo alternativo non hanno mai avuto riscontri reali.

Domande e risposte sul caso Ilva: quanto perde, quali sono i suoi guai e cosa rappresenta per l'Italia. Dai problemi giudiziari all'occupazione, dallo scudo penale al piano industriale. Tutto quello che c'è da sapere sulla principale azienda siderurgica italiana. Marco Patucchi il 04 novembre 2019 su La Repubblica.

Cosa rappresenta la ex Ilva per l'Italia?

Si tratta della maggiore azienda siderurgica del Paese (per lunghi anni di proprietà pubblica) e quello di Taranto è il più grande stabilimento d'Europa. I dipendenti diretti sono 10.700 (8.200 solo a Taranto), mentre quelli stimati nell'indotto sono intorno ai 3000-3500. Secondo le analisi econometriche dello Svimez, la ex Ilva rappresenta l'1,4% del Pil italiano. La fabbrica pugliese è da anni al centro delle polemiche per gli effetti dell'inquinamento. Ad essere esposti a gravissimi rischi per la salute sono in particolare gli abitanti del quartiere Tamburi, che si affaccia sull'acciaieria.

Chi sono gli attuali proprietari dell'azienda?

Un anno fa la ex Ilva, dopo la gestione della Famiglia Riva travolta da guai giudiziari, e un periodo di commissariamento, è passata al gruppo indoeuropeo ArcelorMittal che ha superato l'altra cordata concorrente (Jindal-Arvedi-Del Vecchio). Il passaggio, ratificato dall'allora ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda e ratificato dal suo successore Luigi Di Maio, prevede 18 mesi di affitto (a decorrere dall'1 novembre 2018) al termine dei quali ArcelorMittal rileverebbe la proprietà per 1,8 miliardi (detratto il canone pagato in precedenza). L'accordo prevede anche investimenti ambientali per 1,1 miliardi, industriali per 1,2 miliardi e il mantenimento dei livelli occupazionali.

Perché si è arrivati al rischio di chiusura?

Gli accordi sulla realizzazione del piano industriale e ambientale prevedevano uno scudo penale per gli amministratori dell'azienda. Una tutela messa in discussione dal governo giallo-verde, poi confermata (anche se in forma ridimensionata) dallo stesso esecutivo e infine cancellata con un voto al Senato dell'attuale maggioranza giallo-rossa. ArcelorMittal ritiene la conferma dello scudo dirimente per proseguire nei piani. A determinare la decisione di ieri dell'azienda, anche la prossima chiusura (13 dicembre) di uno degli altiforni di Taranto, imposta dalla magistratura in mancanza di una sua messa a norma. Determinante, infine, pure la crisi del mercato siderurgico, colpito dalla frenata della domanda e dai dazi (oggi la ex Ilva perde 2 milioni al giorno).

Esistono le condizioni per il passo indietro di ArcelorMittal?

Secondo l'azienda il contratto di affitto e comodato con gli ex commissari Ilva prevede una clausola di recesso per "l'affittuario" degli stabilimenti. Il diritto è assicurato nel caso in cui un provvedimento legislativo renda impossibile l'esercizio dello stabilimento di Taranto o irrealizzabile il piano industriale. Il governo nega l'esistenza di questa clausola. Secondo Carlo Calenda, che in qualità di ministro firmò gli accordi, la clausola c'è ma ArcelorMittal non potrebbe chiudere autonomamente gli altoforni, perché il diritto di recesso va prima accertato dal Tribunale.

Quali posizioni politiche in campo?

Il M5S nella campagna elettorale 2018 si è battuto per la chiusura dell'Ilva, salvo poi salvare l'azienda una volta al governo. Oggi il ministro Patuanelli difende lo stabilimento, ma l'abolizione dello scudo penale è nata da un'iniziativa dei senatori grillini. Il Pd ha sempre considerato irrinunciabile la siderurgia per l'Italia, ma non ha impedito l'abolizione dello scudo penale. La Lega, che oggi accusa il governo di volere la chiusura della ex Ilva, quando era al governo con il M5S non si oppose alla cancellazione dello scudo.

Taranto, decreto salva imprese: Patuanelli incontra Arcelor Mittal e sindacati. Così il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, rispondendo ai cronisti sul confronto con Arcelor Mittal Italia, a margine dei lavori a palazzo Madama, dove è atteso il suo intervento in Aula. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Ottobre 2019. «A breve incontrerò l’azienda». Così il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, rispondendo ai cronisti sul confronto con Arcelor Mittal Italia, a margine dei lavori a palazzo Madama, dove è atteso il suo intervento in Aula al termine della discussione generale sul dl 'salva-impresè. Ieri le commissioni Industria e Lavoro del Senato hanno votato la soppressione dell’articolo del dl relativo alle tutele penali per i manager dell’ex Ilva. Dopo (l'azienda, ndr) incontrerò anche i sindacati». Così il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, a margine dei lavori al Senato, quanto a un confronto con le sigle dei lavoratori dell’ex Ilva, oggi Arcelor Mittal, che oggi hanno chiesto una convocazione. «Io credo che questo Paese deve dotarsi di un serio piano industriale e non esiste un piano industriale senza produzione siderurgica all’interno del Paese». Così il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, parlando in Aula al Senato, al termine della discussione sul dl imprese. Ieri le commissioni Industria e Lavoro hanno approvato l'emendamento che cancella lo scudo penale per l’ex Ilva, ora Arcelor Mittal. «Un punto di equilibrio, che attraverso una ritecnologizzazione degli impianti, in accordo con chi gli impianti li gestisce, è possibile». Lo ha detto il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli intervenendo in Senato nella replica sul decreto sulle crisi industriali. «C'è l’attività produttiva, l’occupazione evitando danni alla salute dei cittadini. Si possono tenere insieme - ha concluso Patuanelli - e di questo parlerà con l’azienda che incontrerò nelle prossime ore». Per il ministro si deve anche «accelerare nel dare risposte a tutto il tessuto di Taranto, a tutta quell'area così martoriata». E sottolinea: «credo che il tavolo istituzionale permanente per Taranto debba affrontare i temi che ha davanti con maggior celerità e incisività perché quelle persone non possono più attendere». Patuanelli si quindi è augurato uno «sforzo comune perché i progetti e le idee per quell'area diventino finalmente realtà per dare risposta a quei cittadini».

SINDACATI: POSTI A RISCHIO - L’abolizione dello scudo penale per l’acciaieria di Taranto «è un fatto grave che aggiunge ulteriore incertezza al futuro di ArcelorMittal in Italia». Lo affermano Fim, Fiom e Uilm, precisando che la norma abrogata non garantiva l’immunità penale «ma era limitata alla realizzazione del piano ambientale». La decisione, insieme «al repentino cambio al vertice, non fa presagire nulla di buono. Nella migliore delle ipotesi si profila il rischio di una drastica riduzione dell’occupazione, nella peggiore è solo il prologo ad un disimpegno e a lasciare il nostro Paese». «Non ha nessuna credibilità un’azione politica e aziendale che ad un anno di distanza cambia le carte in tavola e agevola negativamente la congiuntura non favorevole dell’industria italiana». Lo affermano in una nota congiunta i segretari nazionali di Fim (Marco Bentivogli), Fiom (Francesca Re David) e Uilm (Rocco Palombella), a proposito dell’emendamento del M5s al dl Imprese che cancella il cosiddetto 'scudo penalè per i gestori dell’acciaieria Taranto ArcelorMittal a Taranto.

LE PAROLE DELLA LEZZI - «Questo è l’intervento in Senato del collega Mattia Crucioli sul decreto imprese. Ascoltatelo, ne vale il tempo speso. Parla anche dell’abrogazione dell’immunità penale e amministrativa agli affittuari dell’ex-Ilva. Mattia ha parlato in nome dell’intero gruppo parlamentare Senato del M5S e dimostra che le battaglie del Movimento non appartengono ad un solo territorio ma sono mosse dalla volontà di tutelare tutti i cittadini. Dimostrano la compattezza del Movimento quando è a servizio dei suoi obiettivi». Lo scrive in un post su facebook l'ex ministro e senatrice M5S Barbara Lezzi, che rilancia l'intervento in Aula di Crucioli. «E vale la pena anche di ricordare che Gianroberto (Casaleggio, ndr) diceva che il giusto mezzo con cui si raggiunge l’obiettivo è già, di per sé, un obiettivo da perseguire. E se il mezzo non risponde al fine, c'è sempre un’alternativa per rispondere al mandato che ci è stato affidato che è quello di Essere cambiamento», conclude.

Ilva, disastro vicino: così "chiude tutto". Stop all'immunità penale, probabile taglio dei posti di lavoro. Sindacati in rivolta. Giuseppe Bassi, Mercoledì 23/10/2019, su Il Giornale. Si chiama decreto salva imprese, ma la versione riveduta e corretta dal nuovo governo giallorosso più che salvare rischia invece di affossare definitivamente quella che un tempo era la più grande fabbrica d'acciaio d'Europa. Perché dopo la cancellazione dello scudo penale mirato comunque a favorire il risanamento ambientale, il destino di ArcelorMittal si profila quanto mai incerto. Al punto che i sindacati, preoccupati per la sorte degli operai ex Ilva, decidono di scrivere al ministro per lo Sviluppo economico Stefano Patuanelli, chiedendo «una convocazione urgente al Mise per una verifica degli impegni assunti tra le parti con l'accordo di settembre 2018». I segretari generali di Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil (Francesca Re David, Marco Bentivogli e Rocco Palombella) non usano mezzi termini. E in una nota definiscono «un fatto grave» la decisione di cancellare la norma che garantiva l'immunità penale per i gestori dell'acciaieria di Taranto. «Non ha nessuna credibilità un'azione politica e aziendale attaccano che a un anno di distanza cambia le carte in tavola e agevola negativamente la congiuntura non favorevole dell'industria italiana». Secondo i sindacati la svolta impressa dall'emendamento targato M5S «non fa presagire nulla di buono»; al contrario, «nella migliore delle ipotesi si precisa nel comunicato si profila il rischio di una drastica riduzione dell'occupazione» mentre «nella peggiore è solo il prologo a un disimpegno e a lasciare il nostro Paese». Le organizzazioni sindacali tengono anche a sottolineare come quell'immunità fosse «limitata alla realizzazione del piano ambientale» e sul caso interviene anche il segretario generale aggiunto della Cisl, Luigi Sbarra. Il quale bolla come «inconcepibile e incomprensibile la decisione del governo di smantellare lo scudo legale indispensabile per concludere il percorso di ambientalizzazione di ArcelorMittal. In questo modo - aggiunge non solo si blocca la produzione del polo siderurgico, ma si offre un pretesto formidabile alla proprietà per disinvestire e andar via dal nostro Paese». Il ministro Patuanelli dichiara che l'appello dei sindacati sarà accolto e annuncia che ci sarà un incontro con la fabbrica e con i sindacati. Poi, intervenendo in Senato dopo la soppressione dello scudo nelle commissione Industria e Lavoro, l'esponente pentastellato del governo si mostra ottimista e afferma che «un punto di equilibrio, attraverso la ritecnologizzazione degli impianti in accordo con chi gli impianti li gestisce, è possibile». Per ribadire il concetto Patuanelli aggiunge che l'Italia «deve dotarsi di un piano industriale» e precisa che «non esiste un piano industriale senza produzione siderurgica all'interno del Paese». Ma le sue parole in realtà non rassicurano più di tanto un territorio col fiato sospeso dove oltre ottomila lavoratori, senza contare l'indotto, si sentono mai come ora in bilico.

Giusy Franzese per “il Messaggero” il 23 ottobre 2019. A dirlo è facile: «Un punto di equilibrio si può trovare». Ma nel caso dell'ex Ilva ci vuole la perizia di un equilibrista esperto, e se sotto manca la rete di protezione il rischio è di sfracellarsi al suolo. È questa la posizione in cui si trova adesso il ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli. I suoi colleghi senatori pentastellati, con la soppressione della norma nel decreto imprese sul quale il governo ha posto la questione di fiducia (si voterà oggi), hanno imposto lo stop allo scudo penale per i manager di ArcelorMittal anche per quanto riguarda gli interventi strettamente legati all'attuazione del piano ambientale a Taranto. E adesso tocca a lui convincere il gruppo franco-indiano che il siderurgico di Taranto è comunque gestibile, che gli investimenti previsti (2,4 miliardi di euro) non sono buttati al vento, che i manager potranno attuare gli interventi del piano di risanamento ambientale (e contemporaneamente produrre acciaio) senza temere di trovarsi sotto indagine perché hanno violato chissà quale comma di quale legge. Patuanelli ha cercato di farlo già ieri pomeriggio quando, dopo il suo intervento in Aula al Senato, ha incontrato al Mise il nuovo amministratore delegato di ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli. Un faccia a faccia durato oltre un'ora. Patuanelli ha ribadito (lo aveva detto poco prima al Senato) che «il Paese non può avere un serio piano industriale senza produzione siderurgica». E visto che il sito di Taranto è il più grande stabilimento siderurgico europeo, non può essere chiuso. Salvarlo è un imperativo, anche se «bisogna tenere insieme la capacità produttiva, la capacità di dare risposte occupazionali e limpossibilità di continuare in una strada che ha ammalato una popolazione». L'ordine del giorno messo a punto dal Pd e Italia Viva e approvato dal Senato, indica come strada da percorrere «la progressiva decarbonizzazione», Patuanelli preferisce parlare di «ritecnologizzazione», parola un po' cacofonica per dire che bisogna rendere gli impianti più ecosostenibili (non necessariamente senza carbone). In aula Patuanelli ha assicurato: sarà un percorso «che faremo in accordo con chi gli impianti li gestisce, con chi produce, senza fare scelte unilaterali». La Morselli, durante il faccia a faccia, non si è mostrata nemmeno troppo sorpresa. Ha ricordato che in questo momento in Europa c'è sovrapproduzione di acciaio e ha, non si sa quanto provocatoriamente, detto: «Volete lo stop alla produzione a caldo? Sappiate che significa mandare a casa cinquemila persone». Detto ciò per l'azienda resta necessario trovare un paracadute che metta al sicuro da incursioni giudiziarie e legali i manager che attuano il piano ambientale. Al governo ArcelorMittal ha dato anche un termine per trovare una soluzione definitiva: due settimane, massimo tre. Dopo di che la prospettiva del fine avventura (con tanto di strascichi legali per danni) potrebbe essere più vicina. L'idea che si possa riproporre la stessa norma in un altro provvedimento non è percorribile. Non passerebbe il muro della pattuglia pugliese in Parlamento (non solo al Senato) dei Cinquestelle. «È una norma che non serve: nessuno è responsabile per le azioni di altri e se Arcelor realizza bene il suo piano non potrà essere accusata di nulla» ha sostenuto la deputata pentastellata Anna Macina. Resta in campo l'ipotesi di un accordo di programma che coinvolga più di quanto accade attualmente le istituzioni locali. Le opposizioni attaccano. Più Europa parla di «giustizialismo industriale». Matteo Salvini dà per scontato che adesso ArcelorMittal abbandonerà il campo: «Senza tutele è ovvio che se ne va». Uno scenario che a questo punto anche i sindacati e i lavoratori (compresi quelli di Genova) temono sempre più. Francesca Re David, Marco Bentivogli e Rocco Palombella, leader rispettivamente di Fiom, Fim-Cisl e Uilm, lo hanno messo nero su bianco nella missiva indirizzata a Patuanelli per ribadire la richiesta di un incontro urgente: «Nella migliore delle ipotesi ora c'è il rischio di una drastica riduzione dell'occupazione, nella peggiore il prologo ad un disimpegno a lasciare il nostro Paese».

Arcelor Mittal, sindacati in attesa dopo incontro con ministro Patuanelli. Si cerca una soluzione: previsto incontro al Mise. La Gazzetta del Mezzogiorno. Dopo l’incontro tra il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, e la nuova ad di Arcelor Mittal Italia, Lucia Morselli, i sindacati attendono una convocazione da parte dello stesso Mise. Oggi il Senato dovrebbe confermare l’eliminazione dello scudo legale per l’azienda. L'emendamento del M5s che sopprime l’articolo del dl 'salva-impresè dedicato alle tutele legali per l’ex Ilva è infatti presente nel maxi-emendamento che a breve sarà votato, con la fiducia, in Aula a palazzo Madama. Patuanelli ha spiegato che un «punto di equilibrio» è possibile. Si sta cercando quindi una soluzione che dovrebbe arrivare tempestiva per dare continuità alla siderurgia in Italia. I sindacati sono molto preoccupati, la chiusura dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto avrebbe un effetto domino su tutta la produzione e poi l’indotto, con perdite ad oggi, fanno notare, difficilmente calcolabili. 

L'INDISCREZIONE - L’incontro tra il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli e la nuova ad di Arcelor Mittal Italia, Lucia Morselli, dovrebbe essere a breve. Ma, a quanto si apprende da fonti parlamentari, il ministro avrebbe già incontrato due settimane fa i vertici dell’azienda che, secondo quanto riferiscono le stesse fonti, non avrebbe dato rassicurazioni al governo esprimendo la volontà di ridurre la produzione del colosso siderurgico di Taranto a 4 milioni di tonnellate. 

LE PAROLE DEL VESCOVO -  «La prospettiva di licenziare 5mila persone, più del 50% dei lavoratori dell’Ilva, creerebbe un disagio sociale di enormi proporzioni. La politica deve intervenire perché la proposta della decarbonizzazione è giusta e positiva, però deve essere seguita da provvedimenti adeguati che non permettano la riduzione dei posti di lavoro». Lo dice al Sir l’arcivescovo di Taranto, mons. Filippo Santoro. «Sono contrario al licenziamento delle persone per il disagio sociale che ciò crea - ribadisce il presule -. È necessaria un’attenzione simultanea ai due problemi: da una parte, alle questione occupazionale; dall’altra, a quella ambientale con la chiusura dell’area a caldo. Quest’ultima è una proposta compatibile con l’ambiente, ma deve essere valutata simultaneamente al discorso dell’occupazione».

LA PREOCCUPAZIONE DI BARBAGALLO - «Siamo molto preoccupati perché c'è il rischio che rimettere in discussione lo scudo penale possa portare ArcelorMittal a decidere di utilizzare solo il mercato dell’acciaio in Italia e non la produzione dell’acciaio». Lo ha affermato il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo, a margine dell’incontro del gruppo Federico Caffè alla Lumsa. "La continuità produttiva di cui parla il governo è quello che noi cerchiamo da un sacco di tempo, però i fatti dimostrano che si rischia di fornire alibi a chi vuole andarsene dal nostro Paese. E questo non possiamo permettercelo», ha detto Barbagallo.

LE PAROLE DELLA FIOM - «Oggi i principali quotidiani nazionali hanno titolato su un possibile piano di ArcelorMittal, che per far fronte alla crisi del mercato dell’acciaio, prevede circa 5mila lavoratori in esubero in tutti gli stabilimenti del gruppo. Non è ammissibile leggere sui giornali le intenzioni dell’azienda di cancellare l’accordo del 6 settembre del 2018 e quindi il piano industriale e ambientale concordato. La Fiom è pronta alla mobilitazione contro ogni ipotesi di licenziamento e di messa in liquidazione della siderurgia in Italia». Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil e Gianni Venturi, segretario nazionale Fiom-Cgil e responsabile siderurgia. «E' inaccettabile un confronto che di fatto esclude sindacati e lavoratori. Ribadiamo l’urgenza di una convocazione del tavolo al Mise alla presenza dei nuovi vertici di ArcelorMittal e del Ministro dello Sviluppo Economico per chiarire quale sia il futuro degli stabilimenti del gruppo in Italia e della produzione dell’acciaio» concludono.

LE ACCUSE DI BOCCIA A DI MAIO - «Non sono stato io ma Di Maio ad aver fatto una mediazione sulla vicenda delle bonifiche e dell’immunità. L’ha fatta lui ed oggi il M5s presenta un emendamento che corregge la linea di Di Maio, questo è il dato politico». Lo ha detto il ministro per gli Affari regionali e le autonomie Francesco Boccia ad un forum in merito alla discussione sulla soppressione dello scudo legale per Arcelor Mittal in relazione allo stabilimento di Taranto. «Mi chiedo però e chiedo alle forze politiche - aggiunge Boccia - Arcelor Mittal sta riducendo la produzione di Taranto a 4 milioni di tonnellate per la questione dell’immunità o aveva già deciso di rivedere piano industriale? Secondo me aveva già deciso di farlo».

Taranto: 3 gru in mare, riprese ricerche 31enne disperso. Annunciati scioperi. Mittal rallenta produzione. Disperso Mimmo Massaro, di Fragagnano. Il sindacato ha annunciato uno sciopero fino al 15 luglio. Vescovo: tempo scaduto, si intervenga. Nicola Pepe il 10 Luglio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Taranto, parla il testimone: «Una nube scura, poi la gru non c'era più». Un operaio 31enne della provincia di Taranto, Cosimo (Mimmo) Massari, di Fragagnano, risulta disperso dopo che una gru operante sul quarto sporgente dello stabilimento ArcelorMittal Italia di Taranto è finita in mare dopo lo scontro con un altro braccio meccanico provocato da una forte raffica di vento. Il braccio d'acciaio si è inabissato nel tratto di acqua antistante: sono stati attivati immediatamente i soccorsi, sul posto sono intervenuti vigili del fuoco e forze dell'ordine. La Procura di Taranto ha aperto un fascicolo d’inchiesta. In tutto il cedimento a catena ha fatto cadere tre gru. Intanto questa mattina sono riprese le ricerche, che sono definire 'difficili' dalla Guardia Costiera anche a causa dell'acqua torbida e dal pericolo costituito dai rottami delle gru pericolanti. «L'Autorità Giudiziaria ha disposto il sequestro dell’intera area e la Capitaneria di Porto ha emesso un’ordinanza di interdizione alla navigazione, in considerazione delle condizioni di pericolo in atto, nello specchio acqueo per un raggio di 250 metri dalla sommità del molo ove è avvenuto l’incidente», in cui un operaio di ArcelrMittal è disperso dopo il crollo ieri di tre gru per il forte vento. Lo sottolinea la stessa Capitaneria di Porto, che coordina le operazioni di «messa in sicurezza dell’area». La gru dove si trovava Massaro, "di turno" nella cabina di guida, era al «IV sporgente in concessione alla società ArcelorMittal», «crollata in mare» come le altre due «a seguito delle condizioni meteo avverse che si sono abbattute in zona», prosegue la Guardia costiera. Si trattava di «una gru di scaricazione presente lungo la banchina del predetto sporgente». La sala operativa della Capitaneria di porto - Guardia Costiera ha inviato subito una squadra di personale via terra e una motovedetta, oltre che personale e mezzi portuali; disposto anche l’impiego dei sommozzatori dei Vigili del Fuoco.

LA RICOSTRUZIONE - Una raffica di vento avrebbe provocato lo scontro tra due gru in movimento, la «DM 5» e la «DM 8»: dopo l'urto, la prima è finita in mare portandosi dietro la cabina in cui c'era un gruista 30enne, mentre l'altra è precipitata sulla banchina. Sommozzatori, polizia e mezzi e personale della capitaneria di Porto sono al lavoro per trovare l'operaio, ma le operazioni di ricerca sono state sospese per il rischio di cedimento di un'altra gru. Il pm Bruschi, che coordina il caso, ha disposto il sequestro di tutta l'area. Non è la prima volta, purtroppo, che si verificano simili incidenti proprio al quarto sporgente: nel 2012, in seguito a un tornado che si abbattè su Taranto, morì Francesco Zaccaria, un operaio di 29 anni, che si trovava nella cabina della stessa gru «DM 5» (nel frattempo ricostruita) e ripescato in mare a trenta metri di profondità. Cinque anni fa, un analogo incidente, sempre al quarto sporgente provocò il ferimento di due operai dopo la rottura di una gru chiamata «DM 7» che si spezzò in due tronconi. Un anno fa, invece, la morte del 28enne Angelo Fuggiano, dipendente della Ferplast, una delle tante imprese appaltatrici del siderurgico. Sposato, due figli piccoli, Angelo era residente nel quartiere Tamburi: insieme a dei colleghi, Fuggiano stava sostituendo la fune a una gru - ferma per manutenzione da due giorni - del quarto sporgente portuale del siderurgico. Quando la carrucolo che trasportava il grosso cavo d'acciaio si staccò e colpì il giovane uccidendolo.

SCIOPERI ANNUNCIATI - Il sindacato di base Usb di Taranto ha indetto uno sciopero dalle 23 di ieri e fino alle 7 del mattino del 15 luglio al siderurgico, dopo l’incidente con un operaio disperso per la gru abbattuta dal forte vento del 10 luglio. «L'ennesima immane tragedia - scrive il sindacato in una nota - conferma l’assoluta pericolosità in cui versano gli impianti gestiti da ArcelorMittal Italia». «Meno di 24 ore fa - prosegue la nota - abbiamo consegnato un CD al ministro Luigi Di Maio contenente 170 foto e 70 video che attestano lo stato fatiscente degli impianti dello stabilimento e a lui abbiamo chiaramente detto che ad oggi non ci sono le condizioni di sicurezza necessarie per coloro che lavorano all’interno di una fabbrica che oramai è ridotta ad un cumulo di rottame": «la fabbrica - conclude Usb - va chiusa». Fim, Fiom, Uilm e Ugl con Rsu e Rsl hanno dichiarato «uno sciopero immediato per tutto lo stabilimento di Taranto». E «la forma di protesta messa in atto quest’oggi - aggiungono i sindacati - non terminerà sino a quando azienda, istituzioni locali, regionali e nazionali e organi di controllo, ognuno per il proprio ruolo, forniranno le dovute indicazioni a garanzia dei lavoratori e cittadini di questo territorio». «Ormai da anni - scrivono in una nota - assistiamo a continui rinvii e mancanza di assunzioni di responsabilità da chi è deputato a garantire la sicurezza della fabbrica dal punto di vista del rispetto della vita umana». «Chiediamo, pertanto, l’immediata convocazione di un tavolo istituzionale straordinario - concludono i sindacati - che assuma decisioni e provvedimenti che cambino radicalmente lo stato di cose presenti all’interno dello stabilimento siderurgico».

EMILIANO: IN QUESTE CONDIZIONI SI FERMI PRODUZIONE - «Io mi auguro che il governo possa prendere una decisione definitiva perchè in queste condizioni la produzione non può proseguire, deve essere fermata». Lo ha detto il presidente della Regione, Michele Emiliano, parlando con i giornalisti a Taranto dove si è recato al porto dove sono in corso le ricerche per l’operaio precipitato in mare con la gru sulla quale stava lavorando sul molo dello stabilimento Arcelor Mittal. «Non si può continuare a fare funzionare quello stabilimento in queste condizioni - ha concluso - tanto più che non ci lavorano neanche più tutte le persone che ci lavoravano una volta: questo ricatto occupazionale diventa ogni giorno meno forte. Bisogna intervenire con forza».

SINDACO: NO UFFICIALITA', MA SARA' LUTTO CITTADINO - «Non c'è ancora nessuna ufficialità, ma abbiamo purtroppo abbandonato ogni speranza nella serata di ieri». Così il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, nell’esprimere in una nota vicinanza alla famiglia dell’operaio di ArcelorMittal che risulta disperso dall’incidente di ieri sera, quando tre gru sono crollate in mare per il forte vento. «L'Amministrazione comunale - scrive il sindaco - si stringe alla famiglia ed ai colleghi del giovane Cosimo Massaro. Siamo sgomenti per un incidente che ha replicato esattamente la tragedia di alcuni anni fa, segno che qualcosa su quel pontile non funziona a dovere, segno che ancora tanto si deve fare all’interno delle aree dello stabilimento siderurgico per tutelare la vita umana». «Si rispetti oggi il dolore di una intera comunità - prosegue Melucci - nessuno violi e strumentalizzi un momento così drammatico. Taranto è stanca di soffrire e di essere usata, la terra ionica tutta merita risposte e attenzione, a cominciare proprio dai luoghi di lavoro». «L'Amministrazione comunale - conclude la nota - proclamerà il lutto cittadino». 

AZIENDA RALLENTA LA PRODUZIONE - A seguito dell'incidente, Mittal ha immediatamente avviato un rallentamento della produzione a Taranto con l’obiettivo di mettere in sicurezza lo stabilimento nel pieno rispetto delle normative ambientali. «È fondamentale che in questo momento tutti lavoriamo in modo efficace e collaborativo: serve massima condivisione tra l’azienda, i sindacati e gli stessi lavoratori per evitare la fermata di Afo1, che è l’unico Altoforno ancora in marcia e per garantire condizioni di massima sicurezza all’interno di tutti gli impianti».

MISE INVITA A RESPONSABILITA' - «Il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministro Luigi Di Maio seguono con la massima apprensione le ricerche condotte dalla Capitaneria di Porto e dai Vigili del Fuoco, con cui il contatto è diretto e costante, a seguito dei tragici avvenimenti accaduti ieri a Taranto». Lo si legge in una nota del Mise. «In relazione al comunicato stampa di Arcelor-Mittal e con la massima comprensione della situazione, estremamente critica, che la città di Taranto sta vivendo in questo momento, il MiSE invita la proprietà e le organizzazioni sindacali alla massima responsabilità».

ARCIVESCOVO: TEMPO SCADUTO, SI INTERVENGA - «Non può più essere vano il sacrificio di tanti lavoratori; chi ha il dovere di intervenire deve farlo subito . Due fatti nelle stesse condizioni gridano che il tempo è scaduto! La natura si ribella con forza alle offese dell’uomo in tutti questi anni: non possiamo imputare a lei questa morte ingiusta! È dell’uomo la responsabilità, è del modello economico che ha scelto e che sacrifica altri uomini. Fermiamoci, riflettiamo, e prendiamo decisioni urgenti, mentre soprattutto in questo momento affido alla preghiera Mimmo e i suoi i famigliari». E’ un passaggio del messaggio dell’arcivescovo metropolita di Taranto, mons.Filippo Santoro, per l’incidente avvenuto ieri che ha provocato la scomparsa di un gruista di Arcelor Mittal. «Manifesto grande dolore per l’incidente mortale del giovane operaio Mimmo Massaro e con l’intera nostra Città ne sono sconvolto - prosegue il messaggio - Tutti siamo tornati a quel tragico giorno di 7 anni fa quando a morire fu Francesco Zaccaria; 7 anni di custodi giudiziari, commissari e ora i nuovi proprietari per ritrovarci a piangere per un incidente avvenuto con le stesse identiche modalità: come è stato possibile! Come è stato possibile che Mimmo Massaro fosse sulla gru nonostante le condizioni meteo? Com'è stato possibile che la gru non reggesse l’impatto di un fenomeno che, in condizioni simili si era già verificato e questi eventi atmosferici sano sempre più frequenti anche da noi: tutti ciò è inaccettabile!». «Chiedo sia fatta piena luce sulle responsabilità, c'è bisogno di giustizia - aggiunge l’arcivescovo - Mi unisco al cordoglio della città, dei colleghi, della famiglia di Mimmo: preghiamo per lui e per noi, perché il Signore ci dia la forza e ci sostenga in un momento così doloroso. Ho sentito per telefono sua sorella Primula che nel colmo del dolore chiedeva giustizia ed ha manifestato una grande fede». 

«Ilva, questo sovranismo fa un favore solo a Francia e Germania». Intervista a Marco Bentivogli della Fim Cisl di Simona Musco dell'11 luglio 2019 su Il Dubbio. Ilva. A Taranto sono a rischio il rilancio industriale e l’ambientalizzazione. Ma è in gioco anche la capacità dell’Italia di attrarre investitori stranieri, dopo il no del ministro del Lavoro Luigi Di Maio all’immunità penale per ArcelorMittal, società amministratrice dell’ex Ilva. «C’è un sovranismo industriale, ma per rafforzare la sovranità industriale tedesca e francese», sottolinea Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl. Un’incertezza, aggiunge, che rischia di scaricare sui lavoratori il pericolo della chiusura degli impianti e provocare un’emorragia di posti di lavoro in una zona con grossi problemi occupazionali. Un quadro a tinte fosche, reso ancora più preoccupante dall’ordine della procura di spegnere l’Altoforno 2. Che rischia di bloccare ulteriormente la produzione.

Cosa comporta lo spegnimento dell’Afo2?

«È una decisione problematica, perché ci sono già impianti, come l’Afo5 – che è il più grande dell’intero stabilimento – già sospesi, in quanto in attesa di riqualificazione industriale e ambientale. Lo spegnimento di un ulteriore forno rischia dunque di essere un problema produttivo».

Di cosa parliamo, in cifre?

«Questo forno produce 4500 tonnellate al giorno ed è chiaro che lo spegnimento rappresenta un problema, se si considera inoltre che si tratta di operazioni molto lunghe, per le quali servono diversi mesi. Senza rispettare i tempi giusti si creerebbero rischi per la sicurezza e anche che il forno possa non essere più utilizzabile».

Il ministro Di Maio ha affermato di aver avviato un’interlocuzione con la procura per evitare lo spegnimento. Ma è possibile?

«In effetti non capiamo cosa possa voler dire e lo abbiamo appreso con una certa sorpresa. Più che “l’interlocuzione del ministro con la Procura”, di cui ci sfugge la forma, servono atti formali, come l’istanza di sospensione appena inviata dai Commissari straordinari di Ilva in accordo con Arcelor-Mittal alla procura».

Cosa è emerso dal tavolo al Mise?

«È una situazione che sta per saltare, perché oltre alla questione dell’altoforno e dell’immunità penale, c’è anche quella della cassa integrazione disposta dall’azienda per 1395 lavoratori. A fronte della nostra richiesta di ritirare l’ammortizzatore, l’azienda non solo ha risposto negativamente, ma si è detta anche non disponibile a mediazioni. E non ha dato alcuna garanzia che al termine delle 13 settimane previste i lavoratori rientrino tutti quanti».

Quali sarebbero le conseguenze?

«L’azienda è già sottodimensionata rispetto alla vecchia Ilva e la cassa integrazione poteva essere evitata. Ma è un problema molto serio da un punto di vista dell’atteggiamento aziendale, che pregiudica non solo i rapporti tra sindacato e ArcelorMittal ma anche la tenuta dell’accordo. Se l’azienda non ritirerà la cassa ripartiremo con lo sciopero. Quello della scorsa settimana ha portato a bloccare l’impianto, con un’adesione del 76 per cento dei lavoratori».

Cosa accade con lo scudo penale?

«Ciò che è previsto nel Decreto Crescita sull’abolizione dello scudo penale per i dirigenti e lavoratori rischia di portare alla chiusura dell’impianto. Lo scudo penale non è, come dicono in molti, a tempo indeterminato e per qualsiasi reato, ma relativo a lavoratori e dirigenti aziendali nell’esercizio delle proprie funzioni lavorative, al fine di rispondere alle prescrizioni Aia ( Autorizzazione integrale ambientale, ndr),“assolvendo” ArcelorMittal rispetto alle responsabilità del passato. Nessuno accetterebbe mai l’ambientalizzazione dell’area correndo il rischio di essere condannato per reati che nascono ben prima del proprio arrivo. Questo è un tema molto serio che il ministro ha provato a usare per recuperare consensi a Taranto, ma lo ha fatto combinando un pasticcio. È un gioco schizofrenico: prima Di Maio conferma quanto previsto dal governo precedente, poi abolisce lo scudo penale e poi è costretto a rimetterlo».

Cosa avverrebbe senza?

«Ci si scontrerebbe con una bomba sociale, oltre che ambientale: sarebbero a rischio 20mila posti di lavoro, dando il colpo di grazia all’ambientalizzazione. Il caso dello stabilimento di Bagnoli, rimasto un deserto di inquinamento e camorra, è emblematico, ma si continua a non leggere gli errori fatti nella storia. I recenti dati del ministero della Sanità, inoltre, ci dicono che la situazione, dal punto di vista ambientale, sta migliorando. Cose come il cambio dei filtri sono importantissime, ma se chi dà disposizioni rischia di essere messo sotto accusa dalla magistratura allora nessuno si sentirà mai libero di prendere decisioni».

E i posti di lavoro?

«Senza scudo, ArcelorMittal potrebbe andare via e di conseguenza l’ex Ilva chiuderebbe. Così l’Italia perderebbe l’unica produzione di acciaio a ciclo integrale dando, inoltre, un segnale a tutti gli investitori del mondo: sarebbe come mettere un cartello sotto il cielo italiano con la scritta “Non venite qui”. Nessuno investe in un paese che cambia ogni 6 mesi le regole».

Cosa direte al governo?

«Che deve dare tempi certi su questa questione e deve farlo immediatamente. Magari in misura limitata, ma lo scudo penale va inserito nell’accordo per il periodo di ambientalizzazione. Ora rimaniamo in attesa di una convocazione. E di risposte».

Ilva, la procura: stop ad Altoforno 2. Allarme sindacati: perdite di 150 milioni. Pubblicato martedì, 09 luglio 2019 da Michelangelo Borrillo su Corriere.it. Nell’incontro di ieri il vicepremier Luigi Di Maio ha voluto fin da subito ribadire quanto aveva già sottolineato alla fine del precedente tavolo, quello del 4 luglio, incentrato proprio sull’immunità penale: «Voglio essere ben chiaro: non esiste alcuna possibilità che torni». Su questo punto Di Maio e il suo staff non fanno passi indietro: ArcelorMittal non può pagare per gli errori del passato — e questo è il passo in avanti che fa il governo — ma nessun arretramento sulla cancellazione dello «scudo» penale tout court, una bandiera dei 5 Stelle. La soluzione prospettata da Di Maio ad ArcelorMittal è che nessun amministratore sarà mai responsabile del passato, se saranno rispettate le prescrizioni. Come dire: immunità penale nell’applicazione del Piano ambientale, fino al completamento nel 2023, a patto che vengano rispettati i tempi. In questo, dal tavolo del 4 a quello del 9 luglio non è cambiato nulla. «Anche perché — e questo è l’altro punto fermo ribadito da Di Maio — mai, nel contratto, così come in nessun altro documento, viene citata espressamente o implicitamente l’esimente penale». La situazione di Taranto, in particolare per la cassa integrazione, preoccupa ovviamente i sindacati. Anche perché, come ha evidenziato Rocco Palombella (Uilm), «se è vero come ha annunciato l’ad Matthieu Jehl che nei primi sei mesi di gestione ArcelorMittal l’azienda ha perso 150 milioni — che vuol dire 25 milioni al mese — il risparmio di 8 milioni di euro della cassa integrazione è nulla al confronto. Taranto — ha aggiunto — sta già pagando il prezzo di questa crisi, il taglio stesso della produzione di acciaio negli stabilimenti ArcelorMittal sta avvenendo in modo discriminatorio: a Taranto sono previste 1 milione di tonnellate in meno rispetto al piano industriale, mentre negli stabilimenti in Polonia, Germania, Francia e Spagna si tagliano complessivamente 2 milioni di tonnellate di acciaio. Questo atteggiamento — conclude — aumenta le tensioni e le preoccupazioni dei lavoratori. Se le cose non cambieranno, ci vedremo costretti a continuare le iniziative di lotta coinvolgendo tutti gli stabilimenti ArcelorMittal Italia che attualmente non sono coinvolti, ma che sono comunque a rischio».

Ilva, la procura di Taranto ordina : stop all' Altoforno AFO2. Il Corriere del Giorno il 10 Luglio 2019. In passato l’ILVA in amministrazione straordinaria gestita dai commissari Carruba, Gnudi e Laghi, subito dopo l’incidente mortale dell’operaio Morricella, ottenne l’uso dell’impianto sequestrato , grazie a un piano che prevedeva una serie di interventi e di lavori di messa a norma dell’Altoforno AFO2. Lavori che però non sono stati portati a termine per 4 prescrizioni sulle 15 previste. All’incontro al Ministero dello Sviluppo economico  di ieri si sarebbe dovuto parlare, fondamentalmente, della cassa integrazione di 13 settimane, partita all’inizio di luglio, per 1.395 dipendenti di Taranto. Ma invece  si è dovuto parlare dell’immunità penale cancellata dal “decreto Crescita“. Il vicepremier Luigi Di Maio ha voluto da subito ribadire quanto aveva già sottolineato alla fine del precedente tavolo,  del 4 luglio, incentrato proprio sull’immunità penale: “Voglio essere ben chiaro: non esiste alcuna possibilità che torni“. Su questo punto Di Maio e il suo codazzo di dirigenti ministeriali “grillini” non intendono fare dei passi indietro: il Governo riconosce che ArcelorMittal non può pagare per gli errori del passato  ma nessun arretramento sulla cancellazione completa dello «scudo» penale, diventato dal post-elezioni che ha visto perdere ai grillini oltre il 20 per cento dei voti, una bandiera di lotta e “posizione” del Movimento 5 Stelle. una via d’uscita proposta da Di Maio ad ArcelorMittal è che se saranno rispettate le prescrizioni, nessun amministratore sarà mai chiamato a rispondere del passato, proposta questa che equivale a dire: immunità penale nell’applicazione del Piano ambientale, fino al completamento nel 2023, a patto che vengano rispettati i tempi. Ma in definitiva in questi tavoli ministeriali del 4 e del 9 luglio nulla di fatto è cambiato. «Anche perché mai, nel contratto, così come in nessun altro documento, viene citata espressamente o implicitamente l’esimente penale“. Ma il problema è che Di Maio ed i suoi non sono capaci di saper leggere un contratto come sinora hanno dato ampia dimostrazione.  Ma proprio mentre era in corso l’incontro al ministero, a Taranto il capo dell’ufficio dei Gup e Gip, il dottor Pompeo Carriere ha rigettato l’istanza di dissequestro dell’Altoforno 2 presentata dai commissari straordinari Carruba, Gnudi e Laghi (recentemente dimessisi) di ILVA in amministrazione straordinaria, in relazione al procedimento penale per la morte dell’operaio Alessandro Morricella avvenuta nel giugno 2015. Da qui il conseguente decreto della pm Antonella De Luca, fatto notificare in giornata ai nuovi proprietari dell’Ilva:  “Alcune delle prescrizioni a suo tempo imposte risultano attuate o non attuate soltanto in parte“. In pratica, così, l’Altoforno AFO 2 che attualmente è l’ unico a produrre,  dei tre altoforni attualmente in funzione a Taranto,  insieme ad AFO1 ed AFO4 (i quali alimentano AFO2 ed AFO5, quest’ultimo spento da tempo in attesa di ristrutturazione) con lo spegnimento disposto dall’ Autorità Giudiziaria rischia di far chiudere e boccare l’attività produttiva dello stabilimento di Taranto. I nuovi commissari straordinari (nominati dal Ministro Luigi Di Maio) , hanno annunciato in accordo con ArcelorMittal,  un’istanza al giudice per chiedere la sospensione del provvedimento, in modo da consentire alla multinazionale di poter mettere a norma gli impianti. Infatti in passato l’ILVA in amministrazione straordinaria gestita dai commissari Carruba, Gnudie Laghi, subito dopo l’incidente mortale dell’operaio Morricella, ottenne l’uso dell’impianto sequestrato , grazie a un piano che prevedeva una serie di interventi e di lavori di messa a norma dell’Altoforno AFO2. Lavori che però non sono stati portati a termine per 4 prescrizioni sulle 15 previste, Constatando però che alcune opere previste non erano state effettuate dall’ ILVA in amministrazione straordinaria, il Gup di Taranto ha respinto l’istanza di dissequestro, che è quindi stata notificato dalla Procura di Taranto (atto dovuto) sia ai commissari straordinari Ilva firmatari dell’istanza, che ad ArcelorMittal Italia, la società italiana del gruppo franco-indiano, subentrata a ILVA in amministrazione straordinaria, e che gestisce in locazione l’acciaieria dallo scorso 1° novembre. Il rigetto dell’istanza ha conseguentemente attivato il percorso giudiziario che prevede la fermata dell’impianto che produce la ghisa. Ma se l’istanza dei commissari sarà accolta, accompagnata da un piano di prescrizioni sulla messa in sicurezza dell’Altoforno AFO2 per ovviare in tal modo alle carenze riscontrate dagli accertamenti tecnici, ci sarebbe il tempo necessario per presentare il piano e farselo approvare, considerato anche che altoforno è un impianto complesso e richiede molto tempo e diverse fasi organizzative ed operative prima di essere spento. L’attuale situazione di Taranto e la posizione irremovibile di Arcelor Mittal sulla cassa integrazione per la quale l’azienda non torna indietro, e preoccupa ovviamente i sindacati: “Riteniamo positive le parole del ministro Di Maio che oggi ha assunto impegni precisi per scongiurare la fermata dello stabilimento ArcelorMittal di Taranto, ha ribadito la inderogabile validità del Dpcm di settembre 2017 (piano ambientale) e si è impegnato nei prossimi giorni a intervenire, se necessario, con strumenti legislativi per garantire il rispetto del piano stesso”. Così il Segretario generale Uilm, Rocco Palombella, all’uscita dal ministero dello Sviluppo economico dove si è tenuto un incontro tra sindacati, governo, commissari e ArcelorMittal. “Abbiamo registrato invece – spiega Palombella – un ritardo nell’applicazione dell’accordo del 6 settembre 2018 sia da parte di ArcelorMittal che dell’ ILVA in amministrazione straordinaria”. “Sul tavolo c’era anche un altro argomento su cui purtroppo non ci sono stati passi in avanti, – continua il leader della Uilm –  ovvero la cassa integrazione ordinaria per circa 1.400 lavoratori, una decisione presa unilateralmente da ArcelorMittal per la quale abbiamo indetto 24 ore di sciopero il 4 luglio, a cui ha aderito circa l’80% dei lavoratori. Senza contare – aggiunge – che ci sono ancora 1.700 lavoratori in amministrazione straordinaria legati alla ripresa dell’attività produttiva, al piano di bonifiche e ai corsi di riqualificazione organizzati dalla Regione tuttora fermi”. “Ancora una volta il peso della crisi dell’acciaio sta per ricadere esclusivamente sulle spalle dell’Italia e dei lavoratori dell’ex Ilva. Se è vero – continua Palombella –  che ArcelorMittal perde come ha detto 150 milioni di euro in sei mesi, il risparmio ottenuto dalla cassa integrazione ordinaria, circa 8 milioni di euro, è nulla al confronto. Taranto sta già pagando il prezzo di questa crisi, il taglio stesso della produzione di acciaio negli stabilimenti ArcelorMittal sta avvenendo in modo discriminatorio: a Taranto sono previste 1 milione di tonnellate in meno rispetto al piano industriale, mentre negli stabilimenti in Polonia, Germania, Francia e Spagna si tagliano complessivamente 2 milioni di tonnellate di acciaio”. “Questo atteggiamento – conclude il Segretario generale Uilm – aumenta le tensioni e le preoccupazioni dei lavoratori. Se le cose non cambieranno, ci vedremo costretti a continuare le iniziative di lotta coinvolgendo tutti gli stabilimenti ArcelorMittal Italia che attualmente non sono coinvolti, ma che sono comunque a rischio”.

ArcelorMittal, Di Maio: "Non ci sarà immunità penale" per gli amministratori della ex Ilva. Tavolo al Mise: "La dirigenza dell'azienda non ha nulla da temere dal punto di vista legale se dimostra buona fede continuando nell'attuazione del piano ambientale". La Repubblica il 09 Luglio 2019. Il vicepremier e ministro dello Sviluppo, Luigi Di Maio, ha chiuso alle richieste di ArcelorMittal al tavolo con azienda e sindacati sulla situazione dell'ex Ilva di Taranto: "Voglio essere ben chiaro", ha detto. "Non esiste alcuna possibilità che torni" l'immunità penale per gli amministratori dello stabilimento pugliese. Un punto assai critico: l'azienda aveva annunciato che senza la reintroduzione dell'immunità, lo stabilimento tarantino avrebbe chiuso entro il 6 settembre prossimo. Secondo quanto riferito dalle stesse fonti del Mise, Di Maio avrebbe ricordato ai presenti: "In questi mesi di interlocuzione ho sempre detto ad ArcelorMittal che la dirigenza dell'azienda non ha nulla da temere dal punto di vista legale se dimostra buona fede continuando nell'attuazione del piano ambientale". Per il ministro, "se si chiede di precisare questo concetto attraverso interpretazioni autentiche anche per norma, siamo assolutamente disponibili. Ma nessuna persona in questo paese potrà mai godere di una immunità per responsabilità di morti sul lavoro o disastri ambientali". Quanto all'ipotesi circolata che il contratto siglato con ArcelorMittal prevedesse "l'esimente penale, una modifica della quale legittimerebbe Mittal a sciogliere il contratto, preciso che non è affatto così", ha detto ancora di Maio aggiungendo che nel contratto, così come negli atti successivi, "si parla esclusivamente della possibilità di recesso in caso di annullamento o di modifiche sostanziali del DPCM 29 settembre 2017, ovvero del piano ambientale". Prima del vertice, Di Maio aveva giocato anzi la carta del contrattacco ricordando al gruppo che il ricorso alla Cassa integrazione per 1.400 lavoratori dello stabilimento di Taranto "non era nei patti sottoscritti da ArcelorMittal che non rispetta l'accordo anche per quel che riguarda il piano di assunzione dei lavoratori".

Ilva. ecco perchè il contratto dà ragione ad ArcelorMittal e smentisce Di Maio. Il Corriere del Giorno il 9 Luglio 2019. E’ bene ricordare che il contratto iniziale del 28 giugno 2017 è stato firmato quando a Palazzo Chigi il Presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni ,  e Ministro dello Sviluppo economico era Carlo Calenda. Il successivo accordo di modifica è del 14 settembre 2018, è stato firmato mentre a Palazzo Chigi era arrivato come premier Giuseppe Conte e alla guida del Ministero dello Sviluppo economico c’era Luigi Di Maio, entrambi ancora in carica. Quello che colpisce è che è proprio l’accordo di metà settembre 2018 a specificare in maniera analitica punto per punto . Ed è proprio grazie a quest’ultimo documento che Arcelor Mittal Italia ha letteralmente “blindato” la sua posizione. ROMA – E’ bene partire da un chiarimento necessario al lettore. Volendo, e nell’ambito di tutta una serie di ipotesi Arcelor Mittal Italia, ha la possibilità recedere dal contratto di affitto – preliminare alla vendita con ILVA in Amministrazione Straordinaria. Il contratto d’affitto con obbligo di acquisto di rami d’azienda firmato il 28 giugno 2017, e pubblicato integralmente in esclusiva soltanto dal CORRIERE DEL GIORNO è molto chiaro (sopratutto per chi sa leggere i contratti n.d.r.)  ed è ancora più chiaro l’accordo di modifica del contratto, che risale allo scorso 14 settembre 2018 . E’ bene ricordare che il contratto iniziale del 28 giugno 2017 è stato firmato quando a Palazzo Chigi il Presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni ,  e Ministro dello Sviluppo economico era Carlo Calenda. Il successivo accordo di modifica è del 14 settembre 2018, è stato firmato mentre a Palazzo Chigi era arrivato come premier Giuseppe Conte e alla guida del Ministero dello Sviluppo economico c’era Luigi Di Maio, entrambi ancora in carica. Quello che colpisce è che è proprio l’accordo di metà settembre 2018 a specificare in maniera analitica punto per punto . Ed è proprio grazie a quest’ultimo documento che Arcelor Mittal Italia ha letteralmente “blindato” la sua posizione.

Il CORRIERE DEL GIORNO ha avuto la possibilità di leggere anche l’accordo di modifica del contratto  dello scorso settembre 2018 (ma non possiamo pubblicarlo perchè violeremmo dei segreti aziendali n.d.r.) ,  e se non vi sono state delle successive modifiche al documento consultato, dalla sua attenta consultazione svanisce ogni minimo dubbio. Infatti l’ accordo che modifica il contratto è contenuto nell’articolo 27 composto da quattro pagine e  sei paragrafi che chiariscono contrattuale ogni ipotesi. Il titolo è molto chiaro: “Retrocessione dei rami d’azienda”. Nel documento si legge testualmente : «Nel caso in cui con sentenza definitiva o con sentenza esecutiva (sebbene non definitiva) non sospesa negli effetti ovvero con decreto del Presidente della Repubblica anch’esso non sospeso negli effetti ovvero con o per effetto di un provvedimento legislativo o amministrativo non derivante da obblighi comunitari, sia disposto l’annullamento integrale del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 adottato ai sensi dell’art. 1, comma 8.1, del D.L. 191/2015, ovvero nel caso in cui ne sia disposto l’annullamento in parte qua tale da rendere impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto (anche in conseguenza dell’impossibilità, a quel momento di adempiere ad una o più prescrizioni da attuare, ovvero della impossibilità di adempiervi nei nuovi termini come risultanti dall’annullamento in parte qua), l’Affittuario ha diritto di recedere dal contratto“. Le parole contenute nel contrattuale conferiscono ulteriore forma giuridica ai reali quesiti del problema: cosa accadrebbe qualora cambi  il quadro giuridico generale, che rappresenta la base regolamentare su cui si è svolta l’asta internazionale che ha visto ArcelorMittal prevalere sulla cordata guidata dagli indiani di Jindal a cui partecipavano il Gruppo Arvedi, la holding finanziaria di Leonardo Del Vecchio e la Cassa Depositi e Prestiti ? Cosa accadrebbe qualora venga cancellata la non punibilità per reati compiuti da altri, prima dell’arrivo del nuovo proprietario a Taranto? La risposta è molto chiara ed identica: in tal caso Arcelor Mittal Italia ha il diritto di restituire le chiavi dello stabilimento a fronte di qualunque tipo di misura e di qualunque fonte normativa. Nell’addendum al contratto siglato il 14 settembre 2018 infatti si legge anche qualcos’altro: “L’affittuario potrà altresì recedere dal contratto qualora un provvedimento legislativo o amministrativo, non derivante da obblighi comunitari, comporti modifiche al Piano Ambientale come approvato con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 che rendano non più realizzabile, sotto il profilo tecnico e/o economico, il Piano Industriale“. Tutto ciò smentisce le solite teorie ed interpretazioni dei burocrati “grillini” del MISE, fugando ogni equivoco: ArcelorMittal può restituire le chiavi dello stabilimento siderurgico di Taranto qualora dovesse mutare il piano ambientale, con la conseguente ricalibratura dell’attività economica e quindi con la revisione del punto di pareggio operativo nell’acciaieria. Il vero problema è quello che è successo successivamente al settembre del 2018, quando il Governo in carica, ha cancellato la non punibilità, in pieno palese conflitto fra il Movimento Cinque Stelle, da sempre favorevoli alla chiusura dell’impianto di Taranto, e la Lega, contraria alla chiusura. Ora in maniera a dir poco ridicola, dopo aver cancellato la clausola di non punibilità, il Governo sta ridiscutendo con ArcelorMittal su come poter rendere comunque praticabili i lavori ambientali, senza che la loro realizzazione provochi l’imputazione all’impresa e al suo management di problemi causati da altri, in passato. Il Governo a guida “grillina”, prima di cancellare lo scudo giuridico, ha più volte sostenuto che la non punibilità non c’è. In realtà a condizione che, non vi siano stati ulteriori aggiornamenti rispetto ai documenti siglati  il 14 settembre 2018,  consultati dal CORRIERE DEL GIORNO , l’accordo di modifica del contratto dice ben altro di quanto sostenuto dal ministro Luigi Di Maio. Mentre su tutta la vicenda pende un giudizio della Consulta di costituzionalità o meno , che dovrebbe arrivare ad ottobre e  mentre il ministro dell’Ambiente Sergio Costa sta lavorando alla restrizione dell’Aia, dimenticando però che più prescrizioni significano più investimenti ed inoltre è da tenere presente che più prescrizioni potrebbero comportare un livello produttivo ben più basso rispetto a quello preventivato da Arcelor Mittal in sede di gara, che rischio di non trovare mai la sostenibilità economica dell’acciaieria allungando di molto il break-even (cioè il punto di pareggio) dell’investimento miliardario dalla multinazionale franco-indiana. Se la modifica del contratto da noi visionato fosse quella definitiva, sarebbe più facile e comprensibile capire la  freddezza mostrata negli  ultimi giorni da parte del gruppo siderurgico: infatti se le cose dovessero andare così,  il prossimo 6 settembre,  giorno in cui decade lo “scudo giuridico” , o anche il giorno in cui dovesse passare una versione più “dura” del piano ambientale iniziale, in tal caso ArcelorMittal potrebbe lasciare Taranto al suo destino spettrale di una “Bagnoli Bis” ed avrebbe probabilmente le carte in mano per una causa miliardaria allo Stato italiano.

La conferenza stampa del Tavolo Istituzionale per Taranto con i ministri a 5 stelle. Il Corriere del Giorno il 24 Giugno 2019. Le domande insidiose del nostro Direttore in occasione della conferenza stampa conclusiva del Tavolo Istituzionale permanente per l’area di Taranto presso la Prefettura di Taranto, che hanno infastidito Di Maio. Le domande insidiose del nostro Direttore in occasione della conferenza stampa conclusiva del Tavolo Istituzionale permanente per l’area di Taranto presso la Prefettura di Taranto, previsto dalla legge 20 del 2015 (Governo Renzi) per gestire il rilancio della città a seguito delle crisi dell’ex Ilva. Alla conferenza stampa hanno partecipato il vicepremier Luigi Di Maio affiancato dai ministri Alberto Bonisoli, Sergio Costa,  Giulia Grillo, Barbara Lezzi ed Elisabetta Trenta. Le domande del nostro Direttore hanno infastidito Di Maio che dopo aver risposto, si è alzato ed ha abbandonato la conferenza stampa. “L’esimente penale non era nel contratto che abbiamo firmato, non era legata neanche all’addendum. Credo che ArcelorMittal, come ha dimostrato finora, se continua a dimostrare il mantenimento degli impegni, non ha nulla da temere” ha detto il ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, aggiungendo  “noi siamo a disposizione dei sindacati e di ArceolorMittal con tutti gli organi tecnici ministeriali per sostenere la gestione dell’impianto. Se serve l’Avvocatura o il parere dei Ministeri siamo qui, ma la cosa importante da dire è che il contratto sottoscritto e poi l’addendum non prevedevano alcun tipo di esimente penale“. “Non devono esistere immunità parlamentari in una situazione così delicata, ma sono al lavoro per la Cassa integrazione. Chiederemo chiarimenti sul perché ad Arcelor Mittal. Se si rispetteranno i patti come li abbiamo firmati non ci sarà nulla da temere. “La Corte Costituzionale – ha aggiunto il vicepremier – si sarebbe espressa sull’immunità penale probabilmente in autunno e siccome abbiamo sempre detto che su quella norma avevamo perplessità, era giusto dire che non deve esistere l’immunità penale in una situazione così complicata come quella di Taranto”.” così ha risposto il vicepremier Luigi Di Maio. “La Corte Costituzionale si sarebbe espressa sull’immunità penale probabilmente in autunno – ha aggiunto il vicepremier – e siccome abbiamo sempre detto che su quella norma avevamo perplessità, era giusto dire che non deve esistere l’immunità penale in una situazione così complicata come quella di Taranto”. “Ci dicano perché hanno annunciato la Cassa integrazione per 1395 lavoratori, che non sembra possa essere addebitata esclusivamente alla crisi del mercato dell’acciaio” è stato  il messaggio di sfida che il vicepremier del M5S  ha lanciato ad ArcelorMittal in Prefettura a Taranto. “Mi aspetto  che si vada avanti con la gestione dello stabilimento e, perché no, di discutere insieme di innovazione. Tutte le evoluzioni tecnologiche, se concertate insieme a chi gestisce lo stabilimento  possono essere considerate un passo in avanti. Ben vengano tutte le iniziative e nessuno si senta scavalcato” – ha affermato il vicepremier –  “Per quanto riguarda la spesa dei fondi dei Riva qualsiasi numero è troppo poco: comunque i nuovi commissari dovranno dedicarsi a spendere i fondi per le bonifiche con grande celerità”. Ma Di Maio ha dimenticato o forse ignora (???) che quei fondi sono stati confiscati alla famiglia Riva per evasione fiscale, e che secondo il Tribunale  di Milano competente sul sequestro e confisca, possono essere utilizzati solo e soltanto per interventi ambientali.

Taranto, la minaccia: «Senza immunità penale l’ex Ilva chiuderà a settembre». Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 da Francesca Basso su Corriere.it. «Noi non siamo in conflitto con il Governo, non sappiamo perché faccia quello che fa, avrà le sue ragioni, ma diciamo che in queste condizioni non si può andare avanti», ha detto Van Poelvoorde, perché «non posso mandare i miei manager lì ad essere responsabili penalmente» in una situazione già fuori norma perché l’impianto è sotto sequestro. L’azienda, aggiunge, è rimasta «sorpresa» dalla decisione del Governo di togliere la protezione legale. «Allo stesso tempo il Governo ci dice che non vuole che ce ne andiamo, ma vuole che restiamo, e ci dicono che risolvono il problema. Noi abbiamo scritto un articolo molto chiaro per dire che il 6 settembre, quando entra in vigore questa legge, l’impianto si fermerà se nulla sarà successo», ha spiegato. L’amministratore delegato ha assicurato che l’ArcelorMittal sta implementando il piano come previsto: «Noi ci fidiamo delle dichiarazioni del Governo, stiamo andando avanti con il piano, non rallentiamo e aspettiamo che il Governo trovi una soluzione perché non c’è motivo per cui ci mandino via. Ma apparentemente non vedono questo problema grave come lo vediamo noi e quindi hanno detto che lo risolveranno, lavorando a una soluzione legale». L’azienda avrebbe preferito aspettare che sulla questione dell’immunità si pronunciassero i giudici, che stanno esaminando la questione e daranno un parere a ottobre. Ma il Governo ha voluto comunque votare il provvedimento che abolisce le tutele, anticipando l’esito dell’analisi dei giudici. «Non puoi gestire un impianto sotto sequestro quando non hai protezione legale, è impossibile», ha ribadito. Intanto, ArcelorMittal sta comunicando ai lavoratori dello stabilimento di Taranto il numero delle giornate di cassa integrazione che partirà dall’1 luglio prossimo e coinvolgerà 1395 dipendenti per 13 settimane. Lo rendono noto Fim, Fiom e Uilm che hanno inviato un comunicato all’Ad Matthieu Jehl e al responsabile della Risorse Umane Annalisa Pasquini definendo «irresponsabile» l’atteggiamento dell’azienda.

Chiusura ex Ilva, opposizione e sindacati contro il Governo. «Pasticcioni». Renzi: «Pazzi». Le reazione dopo il comunicato di Arcelor Mittal pronta a chiudere la fabbrica dal 6 settembre. La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Giugno 2019. La nota di Mittal con cui annuncia la chiusura della fabbrica a partire da settembre in assenza di garanzie sull'immunità penale, ha sollevato un polverone di polemiche, politiche e sindacali. «Nel giorno in cui il Senato discute del decreto crescita (io intervengo domattina, diretta su Facebook), arriva la notizia che il 6 settembre chiuderà Ilva. L'Ilva! La più importante fabbrica del Sud. Questi che ci governano non sono cialtroni: sono semplicemente pazzi. Licenziano 15mila persone. E ora? Reddito di cittadinanza per tutti?». Così Matteo Renzi, senatore Pd ed ex premier. Per Osvaldo Napoli, del direttivo di Forza Italia alla Camera «Siamo di fronte a un governo di irresponsabili. Va fermato subito il ministro Di Maio e il presidente del Consiglio deve abbandonare il suo inutile ruolo di mediatore per indossare la veste istituzionale di chi può e deve imporre una soluzione che salvi il più grande stabilimento del Sud Italia».  Dura la posizione dei sindacati: «La risposta di Arcelor Mittal era prevedibile e solo un governo pasticcione ed inaffidabile poteva non crederci. Lo diciamo ora noi: lotteremo per il lavoro, l'occupazione e per la difesa dell’industria contro un Governo inaffidabile». E’ il commento del segretario genovese della Fiom Bruno Manganaro alle parole dell’ad di ArcelorMittal Europa, Geert Van Poelvoorde. «Come era prevedibile il governo gioca col fuoco e sulla pelle dei lavoratori. Si mettono in discussione i diecimila lavoratori di Taranto ma anche tutti gli stabilimenti in Italia». «Abbiamo un governo che pensa di riconvertire la siderurgia con allevamenti di cozze, che cambia le regole in corsa e che per recuperare consenso elettorale mette in discussione il lavoro e la dignità di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Siamo sull'orlo di un burrone». Lo afferma Alessandro Vella, segretario generale della Fim Cisl della Liguria dopo l’annuncio di Arcelor Mittal che potrebbe chiudere l’impianto di Taranto da dove arriva il materiale poi lavorato nello stabilimento di Cornigliano. «Non capiamo come si sia potuto arrivare a questo punto, una politica nazionale inconcludente e soprattutto pericolosissima». «Gestione caso Ilva. Altro crimine di questo Governo contro l’Italia». Così su Twitter il segretario nazionale del Pd Nicola Zingaretti. Secondo la deputata di Fratelli d’Italia Ylenja Lucaselli, le parole dell’ad di Arcelor Mittal Europa «provano che la situazione di Ilva sta precipitando. Come lo scorso anno, ci troviamo di fronte l’imminenza della chiusura dello stabilimento, addirittura il 6 settembre. Di fronte alla manifesta, rinnovata incapacità di Luigi Di Maio nella gestione del dossier, sarebbe doveroso che il Presidente del Consiglio Conte venga a riferire in Aula con urgenza. E’ inaccettabile lasciare in balia degli eventi il destino dei lavoratori e di un intero territorio».

Perché ArcelorMittal potrebbe lasciare l’Italia. E il danno sarebbe enorme. Paolo Bricco. Tratto dal quotidiano SOLE24ORE 27 Giugno 2019. Arcelor Mittal ha detto che non accetterà passivamente questa situazione. Lo può fare: ha in affitto l’Ilva, ne diventerà proprietaria soltanto nel luglio 2021. C’è l’obbligo di acquisto. Ma con l’eliminazione dello scudo è cambiato tutto. Questa è la settimana in cui sull’Ilvanon può più cambiare niente e in cui, allo stesso tempo, può cambiare tutto. I Cinque Stelle sono stati coerenti con la loro idea della inconciliabilità di salute e lavoro. La Lega non ha avuto la forza per tutelare gli interessi della sua antica base elettorale, il Nord che usa l’acciaio.

Dunque, questa settimana una cosa non può più cambiare: lo scudo giuridico per reati compiuti prima dell’arrivo di Arcelor Mittal a Taranto è stato eliminato. Allo stesso tempo, questa settimana può cambiare di tutto. Perché Arcelor Mittal, di fronte alla cancellazione definitiva dello scudo giuridico che è intrinsecamente unito alla possibilità di fare funzionare un impianto tecnicamente sotto sequestro, può scegliere come comportarsi: rimanere esponendo, in caso di problemi, i suoi azionisti e i suoi manager alle valutazioni della magistratura; andarsene giudicando insostenibile il mutamento del quadro giuridico che, a sua volta, ha modificato in misura radicale l’assetto contrattuale. E, a quel punto, succederebbe un’altra cosa: l’eco di una uscita di Arcelor Mittal sarebbe enorme e lederebbe la reputazione del nostro Paese in tema di capacità di respingere – più che attrarre – gli investimenti.

Punto primo: l’eliminazione dello scudo giuridico, che garantisce fino al 6 settembre ad Arcelor Mittal la non punibilità, è appunto cosa fatta. Come ha scritto più volte Carmine Fotina , la tecnica parlamentare e i tempi dell’attività legislativa ne impediscono una rimodulazione. A meno che dalla prossima settimana la Lega non compia una scelta dirompente, magari pressata in particolare dagli acciaieri del Nord e in generale dagli imprenditori manifatturieri di tutto il Paese che adoperano l’acciaio di Taranto per realizzare infrastrutture, grandi ponti, componenti per l’automotive industry e per gli elettrodomestici. Questa scelta dirompente consisterebbe nella definizione di un’altra misura che cancelli quella attuale. Il problema è che il dossier Ilva, come dimostra la formazione a testuggine guidata ieri da Luigi Di Maio a Taranto, è per i Cinque Stelle strategica. E, dunque, la costruzione di una maggioranza politica diversa dall’attuale avrebbe esiti tutti da chiarire. Potrebbe essere: se Salvini decidesse di aprire il Governo come una confezione di tonno, l’Ilva sarebbe l’apriscatole giusto.

Punto secondo: da questa settimana in avanti, tocca ad Arcelor Mittal muovere. Arcelor Mittal ha detto che non accetterà passivamente questa situazione. Lo può fare: ha in affitto l’Ilva, ne diventerà proprietaria soltanto nel luglio 2021. C’è l’obbligo di acquisto. Ma con l’eliminazione dello scudo è cambiato tutto. I costi sostenuti sono finora minimi: i costi operativi più i 15 milioni di euro di affitto al mese, pagati anticipatamente per sei mesi. La situazione in acciaieria non va bene: secondo più di un osservatore, Arcelor Mittal perderebbe in Italia un milione di euro al giorno. Più di quanto avesse preventivato.

Punto terzo: se Arcelor Mittal andasse via, Taranto rischierebbe di diventare come Bagnoli. Non è terrorismo psicologico. In questa situazione occorre essere razionali. E la razionalità insegna che lo Stato italiano è uno stato con la s minuscola. Debole, fragile, umbratile. Ad esso, toccherebbe un’opera di bonifica straordinaria dell’impianto e dell’ambiente circostante. Inoltre, la mano pubblica – non facciamo distinzioni fra Stato e Governo – oltre all’immane problema ambientale, dovrebbe occuparsi di trovare una nuova specializzazione produttiva a Taranto, a lungo capitale industriale del Sud.

La diversificazione produttiva di Taranto è un grande classico della politica italiana, buono per tutte le stagioni. I politici di ogni orientamento, anche favorevoli al mantenimento della acciaieria, l’hanno prospettata. Il più convinto fu Renzi. Ma anche Gentiloni ha perseverato. È un meccanismo tipico delle nostre drammatiche crisi nazionali: prendi soldi già stanziati, li impacchetti, gli dai un nome diverso e li destini ad attività plurime. L’attuale Governo ha fatto lo stesso. Quarto e ultimo punto: se Arcelor andasse via, sorgerebbe appunto il dubbio sulla capacità dello Stato italiano di bonificare l’acqua, la terra e il mare di Taranto e di migliorare le condizioni di salute di cittadini – italiani – che soffrono l’impatto durissimo di una delle più dure industrie di base del Novecento. Se Arcelor andasse via, con la eliminazione delle condizioni giuridiche precontrattuali di una gara d’asta internazionale, ci sarebbe invece una certezza: nessun investitore internazionale verrebbe più in Italia. Non c’è molto altro da dire.

L'Ilva pronta a chiudere. Ma per rilanciare il Sud il M5s punta sulle cozze. L'azienda: "Così a settembre ce ne andiamo". E la ministra Lezzi: "Il futuro sono i mitili". Paolo Bracalini, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Siccome era da un po' di tempo che Toninelli e la Castelli, campioni indiscussi di gaffe e figuracce, non regalavano qualche perla, ci ha pensato Barbara Lezzi a ristabilire la media. La Lezzi, perito aziendale impiegata presso Orolforniture Sas di Lecce diventata ministro del Sud per indubbia competenza visto che è del Sud, aveva già dimostrato capacità nella disciplina, tipo quando aveva detto che il Pil italiano d'estate cresce perché la gente accende il condizionatore. Un'altra quando sfidò chiunque «a stendere un asciugamano sopra un gasdotto», ignorando che il Tap passerà a 10 metri di profondità sotto la spiaggia pugliese. Quindi un talento naturale da cui aspettarsi nuove uscite brillanti. E infatti l'altro giorno a Taranto ne ha prodotta una notevole. Lì c'è la questione dell'Ilva, su cui il M5S sta facendo più danni di un cataclisma. Prima hanno detto che l'avrebbero chiusa, poi hanno cambiato idea e hanno dato il via libera al bando, ora hanno ricambiato idea e - violando gli accordi con ArcelorMittal - non escludono la chiusura («Avverrà il 6 settembre, in assenza di una soluzione» annuncia l'ad di Arcelor Mittal Europa, Geert Van Poelvoorde), che i grillini però chiamano «riconversione economica del territorio» perché suona meglio. Ma tralasciando per un attimo la questione, veniamo alla geniale soluzione proposta dalla Lezzi. Chiude l'Ilva, 14mila posti di lavoro tra dipendenti e indotto, 4,2 miliardi di investimenti già stanziati? Bè dai non facciamone un dramma, ci sono le cozze pelose che vengono su una meraviglia a Taranto. Può sembrare una gag di Crozza, perciò riportiamo letteralmente la dichiarazione della ministra grillina: «È giusto che Taranto contribuisca al Pil nazionale, ma non solo con il siderurgico, può farlo anche con altri investimenti che guardino al futuro. È una bella città di mare di cui si parla solo per l'ex Ilva, ma ha, per esempio, una lunga tradizione nell'attività di mitilicoltura, che non può essere dimenticata». Certo, al posto di un colosso industriale da 2 miliardi di fatturato, si fanno gli allevamenti di cozze, magari pure di vongole, e Taranto decolla. Con una spruzzatina di limone e un bicchiere di bianco secco sono il massimo, vuoi mettere con l'acciaio? Comunque il grande piano di rilancio grillino del Sud non comprende solo la coltivazione dei mitili. Una volta smantellata l'Ilva vogliono anche ristrutturare il centro storico di Taranto con fondi ad hoc e «micro progetti per il settore artigiano» incentivando «veri imprenditori che vogliono investire in uno sviluppo sano, duraturo e sostenibile». Facendo scappare l'unico gruppo industriale che al momento può tenere in piedi lo stabilimento, evento che avrebbe ricadute economiche spaventose - oltre ai miliardi di danni che chiederà ArcelorMittal per violazione dei patti - quantificate dallo Svimez così sugli anni in cui lo stabilimento è rimasto fermo perché sotto sequestro: 3-4 miliardi di euro persi per ogni anno, pari a circa due decimi di punto di ricchezza nazionale. Alle supercazzole della Lezzi si aggiungono poi quelle di Gianpaolo Cassese, deputato M5s tarantino, soprannominato la «Boschi della Val D'Itria» perché disse che si sarebbe dimesso se una volta al governo Di Maio non avesse immediatamente chiuso l'Ilva. Cassese, imprenditore agricolo, ha detto che basta industria, Taranto deve diventare «città verde capitale del cleantech», che non si capisce cosa voglia dire ma suona bene. Insomma decrescita felice per il Sud, molto «clean» e accompagnata da un favoloso plateau di cozze pelose.

Corteo contro l'ex-Ilva: sassi e bottiglie scagliati contro le forze dell'ordine. Il Corriere del Giorno 5 Maggio 2019. Secondo i manifestanti, “la provocazione è quella del governo che viene a Taranto con 5 ministri e pensa di prenderci in giro. Basta, si raccontano bugie. Non ci fidiamo dei ministri”. Alcune persone dei circa mille manifestanti del corteo ambientalista al passaggio  davanti allo stabilimento siderurgico ex-Ilva ora Arcelor Mittal, hanno lanciato sassi e bottiglie di vetro vuote contro le forze dell’ordine che presidiano la zona, per fortuna senza colpirli. I manifestanti invocano ancora una volta la chiusura dell’Acciaieria, la bonifica con un reimpiego degli operai e la riconversione economica del territorio. Senza però mai dire chi e perchè qualcuno dovrebbe pagare il conto….Un’azione che è stata esaltata da alcuni partecipanti alla marcia organizzata da cittadini e movimenti. Secondo i manifestanti, “la provocazione è quella del Governo che viene a Taranto con 5 ministri e pensa di prenderci in giro. Basta, si raccontano bugie. Non ci fidiamo dei ministri“. Uno dei promotori della manifestazione (ben noto alla Digos di Taranto)  ha urlato dal megafono: “Questa è una città che risponde, che non molla di fronte a tutto e a tutti. Devono capire che l’impianto va chiuso“, aggiungendo “la maledetta politica  la mantiene accesa a dispetto delle leggi dello stato italiano“. Davanti allo stabilimento si sono alternati gli interventi dei portavoce delle associazioni. Un attivista ha precisato che “oggi non è neanche l’inizio di quello che vogliamo fare. Solo bloccando la produzione avremo soddisfazione. Con l’iniziativa di oggi richiamiamo l’attenzione. Dobbiamo essere in tanti. E’ ora che si programmi anche una settimana di manifestazioni come abbiamo fatto agli inizi degli anni Ottanta contro le centrali nucleari“.

Ex Ilva, sassi e bottiglie dai manifestanti contro i poliziotti. Pubblicato sabato, 04 maggio 2019 da Giuseppe Gaetano Corriere.it. Al passaggio del corteo ambientalista davanti all’Ilva alcuni dei circa mille manifestanti hanno lanciato sassi e bottiglie di vetro vuote contro i poliziotti che presidiano la zona, senza colpirli. Un’azione stigmatizzata da altri partecipanti alla marcia, organizzata da cittadini e movimenti per chiedere la chiusura e la bonifica dello stabilimento, il reimpiego degli operai e la riconversione economica del territorio. Alcune persone hanno lanciato anche dei fumogeni rossi all’interno dell’area della fabbrica e tentato di scavalcare la recinzione, ma sono state subito bloccate e fatto scendere. «La provocazione è quella del governo - sostengono gli attivisti - che viene a Taranto con 5 ministri e pensa di prenderci in giro: basta, si raccontano bugie, non ci fidiamo dei ministri». Sul posto giunti i rinforzi e tutta la zona è stata monitorata dall’alto da un elicottero. «Questa è una città che risponde, che non molla di fronte a tutto e a tutti - ha detto dal megafono un promotore -. Devono capire che l’impianto va chiuso». «La maledetta politica - ha aggiunto - la mantiene accesa a dispetto delle leggi dello stato italiano». Un dimostrante ha precisato che «oggi non è neanche l’inizio di quello che vogliamo fare: solo bloccando la produzione avremo soddisfazione. Con l’iniziativa di oggi richiamiamo l’attenzione, dobbiamo essere in tanti: è ora che si programmi anche una settimana di manifestazioni, come abbiamo fatto agli inizi degli anni Ottanta contro le centrali nucleari». «Oggi non riusciremo a chiudere l’Ilva ma una soddisfazione l’abbiamo avuta - ha esclamato una mamma, residente al rione Tamburi -, abbiamo insegnato ai nostri figli che Taranto non è l’acciaio. A chi dice `verremo a mangiare a casa tua se mio marito perde il lavoro´ rispondo che quegli operai sono nostri fratelli e nostri mariti. Quando vogliamo la chiusura delle fonti inquinanti, pretendiamo che nemmeno un operaio resti senza lavoro». «Facciamo queste manifestazioni per difendere la nostra salute - ha aggiunto un’altra donna - . Ho visto una bottiglia di vetro schiantarsi a due passi da me, lanciata da chissà quale imbecille. Sassi, fumogeni e bottiglie contro i cancelli dell’Ilva e qualcosa pure contro i manifestanti. Oggi c’erano i bambini. Scene così fanno davvero male. Alla causa, a tutti. Non è giusto che adesso si parli di questi deficienti e non di chi ci ammazza ogni giorno».

Ambiente, a Taranto 2mila persone in corteo verso l'ex Ilva: "Il tempo è scaduto". Tensione e lancio fumogeni. La manifestazione con molti dei genitori dei bambini e ragazzi uccisi da tumori. In prossimità del siderurgico alcuni manifestanti ai margini del corteo hanno lanciato fumogeni e pietre e la polizia ha alzato gli scudi. Gino Martina il 4 maggio 2019 su La Repubblica. "Il tempo è scaduto cambiamo Taranto". Scritto in nero, rosso e blu su sfondo bianco lo striscione apre con un messaggio diretto il corteo 4 maggio Taranto partito da piazza Gesù divin lavoratore nel cuore del rione Tamburi, il quartiere confinante con la fabbrica, in direzione dei cancelli dell'acciaieria ex Ilva, oggi Arcelor Mittal. E ancora "Alternative di sviluppo" è scritto su un altro striscione. Da via Orsini la marcia risale la strada provinciale 49 per Statte fino alla portineria Tubificio del siderurgico. Nonostante la pioggia battente, sono quasi 2mila i partecipanti alla manifestazione nazionale provenienti da tutta Italia, su convocazione del movimento Ancora Vivi (sono presenti delegazioni dei comitati No Tav, No Tap, No Triv, No Muos Movimento dal Piemonte a Cosenza, da Firenze a Napoli e da tutta la Puglia), che hanno scelto la città come madre di tutte le vertenze su ambiente e salute. Una settantina di sigle di comitati e associazioni pronte a chiedere giustizia in un luogo simbolo come l'ingresso vicino all'area a caldo del siderurgico. Momenti di tensione ci sono stati proprio nelle vicinanze del siderurgico, da parte dei movimenti che chiedono la chiusura dell'ex Ilva a Taranto. In prossimità delle portinerie dei tubifici da un gruppo di persone ai margini del corteo sono stati lanciati dei fumogeni e pietre. Mentre il resto dei partecipanti ha invitato tutti a proseguire stigmatizzando il comportamento, gli agenti delle forze di polizia si sono quindi ridispiegati, posizionando gli scudi per prevenire possibili ulteriori disordini. Un elicottero nel frattempo ha sorvolato la zona. "Andiamo avanti, avanziamo" è l'ordine di alcuni militanti al resto del corteo. "Marciamo insieme, dietro al furgone, senza nessuna provocazione", gridano altri. "Qui c'è gente che non ha paura, è determinata, e dice che quella di chiudere l'Ilva è la migliore idea", si sente ancora. "La provocazione è quella di un governo che viene a Taranto con cinque ministri che ci raccontano bugie, frottole, questa è la provocazione, non quella di chi lotta", rivendicano alcuni manifestanti. Alla partenza del corteo dal rione Tamburi c'erano anche Carla Lucarelli e Angelo Di Ponzio, i genitori del 15enne Giorgio, morto lo scorso gennaio per un sarcoma. Assieme a rappresentanti di genitori e familiari di vittime dell'inquinamento di altre regioni hanno denunciato venerdì 3 maggio nella sala stampa della Camera dei deputati la carenza delle strutture sanitarie sufficienti per la cura dei bambini che si ammalano. "Nel reparto di oncoematologia pediatrica inaugurato meno di due anni fa ci sono solo tre posti letto per 40 bambini" hanno raccontato come comitato Niobe, di cui fanno parte anche i genitori di altri bambini e adolescenti morti per malattie tumorali, come Mauro Zaratta, padre del piccolo Lorenzo, Francesca Summa, madre di Syria e Donatella Saraceno mamma di Irene.

Ex Ilva, la Regione insiste: deve dimezzare la produzione. Sassaiola contro Polizia: «Delinquenti». In attesa della parziale revisione dell'Autorizzazione integrata ambientale, la Regione chiede di ridurre la capacità produttiva. Mimmo Mazza il 5 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Le notizie sul sempre effervescente fronte dello stabilimento siderurgico di Taranto sono due: la prima è che il ministero dell’Ambiente ha parzialmente riaperto, ai fini del suo riesame, l’Autorizzazione integrata ambientale (ovvero il documento che dice quali impianti si possono usare e come) per gli interventi di adeguamento degli impianti che forniscono gas alle centrali termoelettriche di ArcerlorMittal; la seconda è che la Regione Puglia non molla la presa e torna a sollecitare il riesame complessivo dell’intera Aia. La nuova istanza, che risponde sia alla nota del ministero dell’Ambiente - l’1 aprile scorso aveva respinto la richiesta dell’ingegner Barbara Valenzano (direttore del dipartimento Ambiente della Regione Puglia) - che del 2 maggio quando invece è stata riaperta l’Aia per il gas, minaccia anche - in caso di non accoglimento - il ricorso alla magistratura. In precedenza il ministero aveva bocciato la richiesta della Regione perché toccherebbe proprio alla Puglia l’aggiornamento del piano regionale della qualità dell’aria, strumento ritenuto indispensabile per imporre nuovi e più stringenti vincoli all’acciaieria di Taranto. Ma la Valenzano nella nuova istanza intanto sollecita «la riduzione del 50% dei livelli produttivi attuali dello stabilimento siderurgico di Taranto, misura necessaria a preservare la migliore qualità dell’aria ambiente», ricordando che «lo stabilimento ex Ilva contribuisce in maniera significativamente alta alle emissioni di inquinanti nelle matrici aria ed acqua rispetto al totale delle emissioni prodotte da tutti gli stabilimenti ubicati nel territorio italiano». E se è vero che «dal rapporto sulla valutazione del danno sanitario per lo stabilimento di Taranto di Arpa Puglia emerge che i valori medi annuali misurati delle concentrazioni di inquinanti non superano i valori obiettivo previsti dalla legge» è anche vero che nel medesimo documento viene rilevato «un rischio residuo non accettabile in termini di mortalità naturale per esposizioni a PM 2.5, in particolare a carico dei residenti del quartiere Tamburi», tanto da sollecitare «almeno l’adozione delle migliori tecniche disponibili per il massimo contenimento delle emissioni». Viene poi ricordato che lo studio Sentieri, aggiornato nel 2018, segnala a Taranto «eccessi rispetto al dato regionale di mortalità e ospedalizzazione per alcune patologie oncologiche, per le patologie cardiovascolari, per le patologie respiratorie e per le malattie dell’apparato digerente». Quanto al riesame parziale dell’Aia disposto per i gas, la Regione rileva che «lo stabilimento ex Ilva di Taranto e lo stabilimento di Taranto Energia sono tecnicamente connessi in quanto quest’ultimo è alimentato dai gas di processo che sono generati dal siderurgico e risultano in eccesso rispetto all’impiego nell’ambito dei processi produttivi di quest’ultima». Dunque «appare evidente che l’attività svolta dall’installazione facente capo ad ArcelorMittal Italy Energy srl di Taranto abbia implicazioni tecniche con l’attività svolta dallo stabilimento siderurgico, in quanto utilizza i gas siderurgici del medesimo» e dunque il riesame dell’Aia «andrebbe esteso all’intero stabilimento siderurgico, segnatamente in riferimento all’area a caldo ed a tutti i processi industriali che incidono sulle matrici ambientali sinora non contemplate dai decreti di Autorizzazione Integrata Ambientale che non sono mai stati oggetto di un’istruttoria tecnica specifica (vedasi discariche, sistema di gestione integrata delle acque, bonifiche, attività inerenti le aree a freddo) e che risultano assenti dal provvedimento di Aia vigente nonché non indagate dai controlli ambientali». In conclusione «il mancato accoglimento di tutte le motivazioni sottese all’avvio del riesame dell’Aia dello stabilimento siderurgico di Taranto sarà oggetto di impugnativa dinanzi ai competenti organi giurisdizionali».

SASSAIOLA CONTRO POLIZIA, IL SAP: «DELINQUENTI» - «Quanto accaduto ieri a Taranto e Genova contro la Polizia in servizio per garantire l’ordine pubblico durante la manifestazione, è la dimostrazione che ai professionisti del disordine, i delinquenti, non interessa il motivo per quale si manifesta ma interessa colpire le forze dell’ordine». Commenta così Stefano Paoloni, Segretario Generale del Sindacato Autonomo di Polizia (Sap) la sassaiola e il lancio di bottiglie da parte di alcuni manifestanti contro le forze dell’ordine, avvenuto ieri a Taranto in occasione della manifestazione per la chiusura dell’ex Ilva e, i tafferugli avvenuti a Genova, dove sedicenti antifascisti si sono scagliati sempre contro gli uomini in divisa. "Nel corteo di Taranto, ad esempio, c'erano mamme con bambini che hanno rischiato di finire in mezzo ai tafferugli, per colpa dei soliti violenti. Manifestare è un diritto sacrosanto, purché avvenga pacificamente e senza armi come sancito dalla Costituzione. Mi auguro - prosegue Paoloni - che i responsabili siano severamente puniti. Chi colpisce un poliziotto - conclude - non colpisce solo l’uomo, ma l’istituzione che rappresenta».

"Chiudete l'Ilva non le nostre aule", a Taranto scuole vietate per inquinamento: i bambini fanno lezione per strada. Lezioni in strada e striscioni di protesta per i bambini delle scuole Deledda e De Carolis che, insieme ai loro genitori e docenti, manifestano davanti a Palazzo di Città per la situazione ambientale della città, scrive La Repubblica l'8 marzo 2019. "Chiudete l'Ilva, non le scuole". Lo striscione campeggia sulla ringhiera a protezione delle colonne doriche, davanti al Municipio di Taranto, dove è in corso il "Presidio contro l'inquinamento", a cui partecipano centinaia di cittadini. In prima linea le mamme del rione Tamburi, con i figli al seguito, impegnati in girotondi e in attività didattiche improvvisate per strada. Ci sono gli alunni dei due plessi scolastici Deledda e De Carolis, attualmente chiusi per effetto dell'ordinanza del sindaco Rinaldo Melucci, che ha chiesto ad Arpa e Asl di effettuare ulteriori controlli per verificare i potenziali rischi derivanti dalla vicinanza delle due scuole alle collinette ecologiche dell'ex Ilva che sono state sequestrate dal Noe perché trasformate in discarica di rifiuti industriali pericolosi. Presenti anche alunni di altre scuole "uniti - hanno spiegato gli organizzatori - in una battaglia per la vita e i diritti". Una delegazione di mamme è stata ricevuta dal sindaco Melucci, dall'assessore all'Ambiente Francesca Viggiano e dall'assessore all'Avvocatura Gianni Cataldino. Ci sono stati anche momenti di tensione all'arrivo di alcuni consiglieri comunali ed esponenti della giunta, che sono stati contestati. Un gruppo di manifestanti ha cercato di varcare la soglia del Municipio, ma è stato bloccato dai vigili urbani. La protesta riguarda in generale l'emergenza ambientale e sanitaria. Nei giorni scorsi gli ambientalisti hanno lanciato un nuovo allarme inquinamento riportando i dati di Arpa Puglia, che hanno evidenziato picchi di diossina ai livelli ante sequestro degli impianti dell'area a caldo dell'ex Ilva. "Vogliamo vivere" è la frase riportata in un cartellone esibito da uno dei bambini che camminano in girotondo in piazza Municipio davanti allo stemma del Comune di Taranto (Taras che impugna il tridente ed è a cavalcioni su un delfino). Sotto quel simbolo è stato srotolato un altro striscione con la scritta: "Ti svegli ogni mattina respirando la diossina".

Attimi di tensione questa mattina a Taranto. L’on. Giancarlo Cito contestato da alcuni manifestanti davanti a Palazzo di città, scrive l'8 Marzo 2019 Cosimo Ricci su tarantinitime.it. Questa mattina l’on. Giancarlo Cito è stato duramente contestato da alcuni cittadini che manifestavano davanti al municipio di Taranto per protestare contro l’ordinanza di chiusura delle scuole del rione Tamburi. L’on. Giancarlo Cito è stato “accolto” dalla folla con fischi ed urla, invitando lo stesso a lasciare la piazza di protesta al grido di: “Fuori i fascisti da Taranto”. L’ex parlamentare, nonchè ex sindaco della città dei due mari, ha reagito ingaggiando una colluttazione con alcuni dei manifestanti presenti. Immediatamente allontanato dalle Forze dell’Ordine che lo hanno poi scortato e fatto entrare a Palazzo di Città.

Ilva, Cito scrive a Di Maio: la chiusura porterebbe alla guerra civile, scrive il 27 agosto 2018 Inchiostro Verde. Torna a farsi sentire l’on. Giancarlo Cito che si rivolge sia al vice premier Luigi Di Maio che al sindaco Rinaldo Melucci. Dice di scendere in campo “a sostegno delle 14 mila famiglie dei dipendenti Ilva, che ancora oggi, non conoscono il proprio destino lavorativo”. Secondo Cito, “Di Maio non può permettersi di perdere altro tempo, sa bene che ormai il tempo sta scadendo e queste famiglie non possono rischiare di trovarsi senza un lavoro. Il nostro Sud è già colpito da un’enorme crisi economica, la chiusura dell’Ilva porterebbe Taranto ad una guerra civile, la così detta “guerra tra poveri”. Di Maio deve assumersi le sue responsabilità ed arrivare ad una conclusione. Tutela occupazionale e risanamento ambientale, di questo ha bisogno Taranto”. Ed aggiunge l’ex sindaco: “Il mio appello è rivolto anche al primo cittadino, a lui il compito di difendere con tutte le sue forze i 14 mila dipendenti Ilva. 

Bambini morti di tumore, a Taranto in migliaia alla fiaccolata: "Tutto l'acciaio del mondo non vale una sola vita". A un mese dalla scomparsa di Giorgio Di Ponzio, il 15enne morto a causa di un sarcoma contro il quale ha lottato per tre anni, l’iniziativa dell'associazione dei Genitori tarantini, scrive il 25 febbraio 2019 La Repubblica. È il giorno del corteo per le vittime dell'inquinamento a Taranto. In migliaia a un mese dalla scomparsa di Giorgio Di Ponzio, il 15enne morto a causa di un sarcoma contro il quale ha lottato per tre anni, sono scesi in strada per partecipare alla 'Fiaccolata per i nostri angeli' organizzata dall'associazione dei "Genitori tarantini in memoria dei bimbi morti per il cancro e per le malattie connesse all'inquinamento". Il sorriso di Giorgio continua a vivere, stampato sulle magliette dei partecipanti al corteo che attraversa le vie della città in cui è cresciuto e in cui coltivava le sue passioni, quella per il Taranto calcio, per il mare, la pesca e le moto. Dopo il raduno davanti all'ingresso principale dell'Arsenale alle 18, la marcia parte per il percorso su via Di Palma, piazza Immacolata, via D'Aquino, corso ai Due Mari, con la commemorazione conclusiva in piazza Carbonelli. In uno degli striscioni compare la scritta: "Tutto l'acciaio del mondo non vale la vita di un solo bambino". Angelo e Carla Di Ponzio hanno raccolto decine di offerte destinate all'organizzazione della fiaccolata. Nei giorni scorsi, in nome dell'associazione "Giorgio forever", il padre del ragazzo aveva chiesto simbolicamente ad "Arcelor Mittal e alle altre industrie fonte di inquinamento a Taranto di spegnere i propri impianti" per la giornata di lunedì 25, in rispetto alle vittime. L'azienda ha abbassato le bandiere a mezz'asta in segno di rispetto. I coniugi Di Ponzio hanno scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per chiedere che ai bambini di Taranto venga riconosciuta una medaglia al Merito che "riconosca il loro calvario e il loro sacrificio avverso alle ingiustizie sociali e ambientali subite". L'appello dei genitori di Giorgio viene rivolto anche a Papa Francesco per raccontare la situazione della città e chiedere "se l'enciclica 'Laudato Siì abbia effetto su questa città martoriata dove ogni legge è stata sorpassata a favore del profitto e ogni matrice ambientale è stata violentata". Al sindaco Rinaldo Melucci poi chiedono di intitolare una piazza o un giardino della città alle 'Vittime innocenti dell'inquinamento' dove sia posta una lapide in marmo con i nomi dei bimbi deceduti incisi sopra. Come la storia di Di Ponzio c'è anche quella di Domenico Palmisano, il 26enne di Palagiano morto dopo aver dato l'ultimo esame universitario prima della laurea in informatica. O come Vincenzo Mero, 19enne della provincia, scomparso due giorni prima dello scorso Natale per una leucemia. O come Alessandro, ucciso dal cancro a soli 7 anni. Le storie di dolore a Taranto sono tantissime e la marcia di oggi dei Genitori tarantini rappresenta non solo un modo per ricordarli ma anche per far sentire la propria voce. In contemporanea con la fiaccolata di Taranto, a Pescara c'è stato un flashmob organizzato dal Par, Patto per l'Abruzzo resiliente, dedicato alle giovani vittime dell'inquinamento. L'appello degli organizzatori: "Diamo valore alla vita: i rischi ambientali e la salute pubblica riguardano anche te".

Fiaccolata, dopo il silenzio le polemiche, scrive il 26 Febbraio 2019 laringhiera.net. Le bandiere a mezz’asta di ArcelorMittal Italia, le contestazioni al presidente Michele Emiliano. Dopo il silenzio composto e commosso di un’intera città, è l’ora delle polemiche. Sulla pagina Facebook del produttore siderurgico ieri pomeriggio è comparso questo post: “Per esprimere la nostra vicinanza alla comunità di Taranto, in ricordo di Giorgio Di Ponzio e dei giovani tarantini scomparsi, oggi abbiamo esposto a mezz’asta le bandiere dello stabilimento di Taranto e invitato i colleghi a unirsi al lutto cittadino proclamato dal Comune”.

GENITORI TARANTINI – Il breve testo è accompagnato dalla foto che pubblichiamo a corredo di questo articolo. Per “Genitori tarantini” il gesto è offensivo. “Nella giornata dedicata al ricordo delle piccole vittime delle produzioni industriali altamente inquinanti, nella cui classifica vi piazzate, irraggiungibili, al primo posto – scrive l’associazione – avete avuto l’ardire offensivo di calare, oltre a quella italiana e a quella della Comunità europea, la vostra bandiera a mezz’asta. La vostra bandiera non è riconosciuta, dal popolo tarantino. Ebbene, la vostra decisione, abbondantemente pubblicizzata nella giornata dedicata agli angeli più preziosi della nostra città, è un’offesa che l’intera comunità tarantina non può accettare. I proclami ufficiali, all’atto della consegna nelle vostre mani dell’azienda siderurgica, cozzano con i dati che stanno venendo alla luce in questi giorni (dati Arpa Puglia)”.

ARCELORMITTAL ITALIA – La replica dell’azienda siderurgica non si è fatta attendere. “ArcelorMittal Italia – si legge in una nota stampa – dichiara che il proprio stabilimento di Taranto è strettamente controllato secondo i più alti standard disponibili e dotato di tutti i sistemi di monitoraggio delle emissioni prescritti dalla Autorizzazione Integrata Ambientale e dal DPCM 29.09.2017, riferiti alle diverse matrici ambientali (aria, acque, rifiuti, suolo, etc.). L’azienda conferma di essere pienamente conforme a tutte le regole imposte dall’Aia. ArcelorMittal Italia ricorda, infine, di essere impegnata a realizzare un piano ambientale che prevede l’investimento di più di un miliardo di euro entro il 2023 e che renderà lo stabilimento di Taranto il migliore stabilimento d’Europa in termini di tecnologie utilizzate e progetti realizzati. Si tratta del piano più ambizioso mai intrapreso in una acciaieria in funzione. Parlando dei risultati finora ottenuti, sottolineiamo che sono state rispettate tutte le scadenze previste al 31.12.2018. Già da solo l’avanzamento della copertura dei parchi minerali (unica in Europa), unitamente agli altri interventi già avviati e in divenire, conferma l’impegno e la volontà dell’azienda di trasformare tutti gli impegni presi in risultati tangibili con la massima trasparenza nei confronti della comunità”.

EMILIANO CONTESTATO – L’altro fronte di polemica riguarda il governatore della Puglia. Michele Emiliano ieri sera si è presentato al corteo ed è stato oggetto di contestazioni. Ecco cosa scrive sul suo profilo Facebook. “Ho risposto che ero pronto a prendermi anche gli sputi per essere presente a quel corteo come era mio dovere. Era mio dovere essere lì con i cittadini perchè ho la coscienza a posto. Non ho mai accettato i decreti salva Ilva che ho sempre giudicato incostituzionali e sto costituendo la Regione Puglia nel giudizio che di recente è stato aperto presso la Corte Costituzionale dal Gip presso il tribunale di Taranto per cancellare questi decreti. Ho la coscienza a posto perchè non ho mai fatto promesse di chiusura della fabbrica e perché sapevo che non sarebbe dipesa da me questa decisione. Per combattere i decreti Ilva e un piano ambientale che non garantisce la salute di nessuno, ho rotto i rapporti politici col governo a guida PD prima e col governo a guida 5 stelle poi. E sono ancora l’unico esponente di vertice delle istituzioni della Repubblica italiana ad essere stato presente stasera assieme a pochi consiglieri comunali e regionali”.

LE CRITICHE DI LIVIANO – Critiche severe a Emiliano giungono dal consigliere regionale tarantino Gianni Liviano. “Non sono andato al corteo perchè nessuna ombra di strumentalizzazione potesse ricadere su quella manifestazione. Ho visto, invece, che al corteo c’era il presidente della Regione Michele Emiliano. Dall’inizio di questa consiliatura, a costo di diventare pedante e ripetitivo, sto elemosinando in Regione fondi per Taranto. Li elemosino per il rafforzamento dell’offerta formativa (che ha l’obiettivo di far rimanere i nostri giovani a Taranto e di alzare il livello della città), per la diversificazione delle prospettive economiche, per il miglioramento della sanità e dei trasporti. Li elemosino chiedendo, prima, disperatamente, di fare una Legge Speciale per Taranto e poi, dopo averla fatta, di finanziarla. E ha, ora, la sfacciataggine di camminare con noi, con la nostra gente, con i nostri morti, per fare sfilate, per mettersi in mostra e per usarlo come cavallo di battaglia di qualche intervista in questa spasmodica ricerca di visibilità mediatica”.

Il ministro dell'ambiente Sergio Costa interviene sulla chiusura di due scuole nel rione Tamburi disponendo accertamenti, scrive il 4 Marzo 2019 Il Corriere del Giorno. I dati diffusi dall’ex-consigliere comunale Bonelli e dalle associazioni ambientaliste PeaceLink e Genitori Tarantini non sono reali e non sono mai stati validati da ARPA Puglia, e quindi al momento prive di fondamento e di veridicità, per le quali i due ambientalisti potrebbero rispondere anche del reato di “procurato allarme”. ROMA – Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha incaricato i tecnici dell’Ispra di effettuare i dovuti accertamenti sui valori di diossina a Taranto. A quanto si è appreso dal ministero, «i dati rilevati dalle centraline diffusi da associazioni ambientaliste e da Angelo Bonelli dei Verdi risultano parzialmente diversi e non sono confrontabili, oltre a non essere stati validati dall’Arpa». “Ad una prima verifica, rileva il ministro Costa, “le centraline esterne non avevano infatti dato esiti coerenti con l’allarme. Però’ ogni voce deve essere ascoltata per cui al più presto ci sarà un incontro tecnico con organi di controllo del Sistema nazionale di protezione ambientale”. Il sindaco di Taranto di fatto ha quindi chiuso le due scuole del quartiere Tamburi senza avere alcuna documentazione sanitaria certa, e peraltro su richiesta di un dirigente comunale (che non ci risulta avere competenze sanitarie o scientifiche ndr.) chiedendo, al ministro dell’Ambiente all’Arpa Puglia, di avere “risposte e dati certi” sull’ipotesi che le collinette ecologiche dello stabilimento siderurgico debbano ancora ritenersi una fonte di pericolo ambientale, al fine di adottare la più alta protezione possibile per i bambini che frequentano le due scuole. Il ministro Costa ha immediatamente richiesto al direttore generale dell’Ispra, Alessandro Bratti, di disporre delle verifiche, il quale ha incaricato l’ufficio del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente di controllare i rilevamenti dell’Arpa per dissipare i dubbi. Il ministro, si è appreso ancora, si è messo in contatto anche con il prefetto di Taranto. Il coordinatore nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, e il consigliere comunale Vincenzo Fornaro, ex allevatore, avevano sostenuto che “In un anno il valore della diossina a Taranto è aumentato del 916%”, passando “da 0,77 picogrammi del 2017 a 7,06 picogrammi del 2018, molto vicino agli 8 picogrammi del 2009” quando nella “masseria Carmine furono prelevati 1.124 capi di bestiame per essere abbattuti”. Affermazioni attribuite ad ARPA PUGLIA, che non le ha mai confermate, e quindi al momento prive di fondamento e di veridicità, per le quali i due ambientalisti potrebbero rispondere anche del reato di “procurato allarme”.

Da corriereditaranto.it l'1 marzo 2019. In riferimento a quanto pubblicato negli ultimi giorni dagli organi di stampa, su di un presunto incremento delle concentrazioni di taluni inquinanti di natura industriale, desumibile dal confronto dei dati attinenti il primo bimestre 2018 ed il primo bimestre 2019, l’Amministrazione comunale ha rivolto formale quesito ad Arpa Puglia, al fine di ricevere opportune valutazioni di merito circa le notizie di cui sopra, che per altro sembrerebbero desunte da dati pubblicati dalla stessa Agenzia in relazione alla qualità dell’aria in città. Lo recita una nota di Palazzo di città, sulla base di dati pubblicati in questi giorni e diffusi dall’associazione ambientalista Peacelink. Allo stesso tempo, l’Amministrazione comunale ha richiesto al Ministero dell’Ambiente di esprimersi distintamente sulla asserita conformità a tutte le regole imposte dalla vigente Aia, riportata dal gestore Arcelor Mittal con una propria precisazione del 26 febbraio scorso, conseguente alle citate informazioni. “Sono giorni delicati per la comunità – ha commentato il sindaco Melucci – auspico solerzia e precisione nell’interlocuzione con gli organismi tecnici deputati sulle vicende ambientali e sanitarie. L’Amministrazione comunale è animata esclusivamente dal desiderio di tutelare al meglio, anche in via precauzionale, la salute dei propri cittadini, evitando nel contempo che alcune comunicazioni sommarie possano procurare allarme, turbare la popolazione e fiaccare gli sforzi di tutte le Istituzioni. Noi continuiamo a vigilare con puntualità su qualsiasi argomento sensibile e nel frattempo adotteremo ogni iniziativa utile a rassicurare i cittadini ovvero a proteggerli da eventuali rischi.”

Arpa Puglia definisce "impropri" i dati di Peacelink, scrive il 5 Marzo 2019 Il Corriere del Giorno. Per l’Agenzia regionale l’aumento “spacciato” dalla pseudo associazione ambientalista di Marescotti non è stato calcolato su fattori omogenei. Come abbiamo sostenuto sempre noi del CORRIERE DEL GIORNO, certa gente non va neanche presa in considerazione. Ed i fatti ci danno ragione. Come volevasi dimostrare i dati “spacciati” ai soliti giornalisti creduloni tarantini, non sono credibili. Arpa Puglia definisce il confronto fatto dall’associazione ambientalista Peacelink sui valori sia sull’incremento – indicato del +160% – della concentrazione di benzene nel quartiere Tamburi di Taranto, vicino l’ex stabilimento siderurgico Ilva fra due mesi del 2018 e del 2019 “improprio dal punto di vista tecnico-scientifico” . Cioè non attendibili. Da un documento sui “Dati di monitoraggio della qualità dell’aria a Taranto rilevati dalla rete ex Ilva – 2018-2019”  riferito alla pubblicazione effettuata da Peacelink di una tabella sugli incrementi di inquinanti rilevati dalla centralina nell’area Cokeria, l’Arpa Puglia ha precisato che il termine di paragone effettuato  fra i bimestri gennaio-febbraio del 2018 e del 2019 è “improprio in quanto diversi fattori possono concorrere alla variabilità delle concentrazioni (condizioni meteo diffusive, emissioni, condizioni di esercizio, ecc.), che sono peraltro registrate con frequenza giornaliera“. Secondo i tecnici di Arpa Puglia, che hanno sicuramente più competenza dei quattro “ciarlatani” di Peacelink tutti privi di alcuna competenza tecnica o scientifica,  un raffronto “ben fondato tecnicamente deve considerare serie storiche significative e mettere in relazione le concentrazioni rilevate con le concomitanti condizioni meteo diffusive (direzione e velocità del vento, turbolenza dell’atmosfera) e con le corrispondenti emissioni delle sostanze monitorate, e quindi con le condizioni di esercizio dell’impianto. Le medie, o mediane, determinate in un periodo più ristretto di un anno (come i due mesi di gennaio e febbraio) costituiscono un intervallo temporale molto limitato, e i confronti possono essere così fortemente influenzati da variabilità meteoclimatiche o altri fattori di breve periodo”. “Risulta, tuttora, rilevante il contributo delle emissioni di inquinanti da parte dell’impianto siderurgico nelle concentrazioni rilevate nei quartieri limitrofi all’area industriale, in particolare durante i cosiddetti “wind-days”; il rispetto dei limiti normativi europei della qualità dell’aria, nelle stesse zone, non garantisce in alcun modo l’assenza di effetti lesivi sulla salute della popolazione” conclude l’Arpa Puglia.

Personale riflessione sull'inquinamento a Taranto, scrive il 10 Marzo 2019 Giorgio Assennato, ex-direttore generale di Arpa Puglia, su Il Corriere del Giorno. Perchè poi, sulla base di questi dati, si chiudono le scuole di Tamburi? Mistero fitto. In medicina, si chiama medicina difensivistica quella che porta ad abuso di procedure per le quali non c’è indicazione specifica per difendersi da eventuali accuse di “malpractice”. Qui e la stessa cosa: si assumono decisioni per le quali non vi e alcuna indicazione a fini difensivistici. È l’ennesimo frutto avvelenato di una stagione folle che non sembra finire mai. Taranto è stata ed è ancora teatro di una vera e propria guerra tra le massime istituzioni dello Stato, una guerra che non ha precedenti per virulenza, durata e numero di battaglie condotte a colpi di decreti legislativi da un lato e ordinanze dall’altro con un timido intervento della Corte Costituzionale che non fu in grado di risolvere alla radice il problema. Di conseguenza, la governance ambientale è stata esercitata col pugno di ferro degli esecutivi di turno, che hanno rinunciato di fatto ad una governance condivisa, inclusiva, trasparente e basata sull’evidenza, l’unica in grado di ricreare la coesione sociale sempre più sbrindellata. La guerra tra chi garantisce l’immunità ai gestori e mira, a nascondere la polvere sotto il tappeto e chi, invece, ritenendo di godere della protezione della magistratura inquirente, grida al lupo, al lupo al minimo dato ambientale considerato catastrofico, questa guerra senza quartiere, in cui i media sembrano attratti irresistibilmente dalla moda del catastrofismo, esclude ogni possibile approccio razionale. Partiamo dall’esempio del recente scoop sulla nota di Peacelink. I dati, incontrovertibili, mostrano l’aumento nei due mesi di gennaio-febbraio 2019 (a gestione Arcelor Mittal) rispetto ai corrispondenti mesi del 2018 (a gestione pubblica) di IPA e benzene nella centralina vicina alle cokerie all’interno di Ilva. Non essendo stato riscontrato un parallelo aumento degli stessi inquinanti nelle centraline della qualità dell’aria urbana, nemmeno a Tamburi, il fenomeno è limitato all’interno di Ilva. Il fenomeno meriterebbe di essere valutato in modo più approfondito, perchè di per sè limitato a solo due mesi e il confronto, potrebbe essere condizionato da variabili confondenti di tipo meteorologico. Ma è stato sufficiente per scatenare Telenorba e altri media nazionali e locali che hanno parlato di ritorno preoccupante dell’inquinamento. Ma in sè i dati cosa vogliono significare? E ci sarebbe stato un altro modo di fare comunicazione ambientale, un modo più serio e meno gridato? I dati, lo riconosce oggi lo stesso Marescotti, indicano un possibile trend in aumento di inquinanti dalle cokerie. Questo trend, che comunque andrebbe meglio caratterizzato, è giusto che sia evidenziato ed ha fatto bene Peacelink a denunciarlo. E bene che Arcelor sappia che c’è una capacità di controllo della cittadinanza attiva, a prescindere dalle relazioni ufficiali di Arpa. Faccio una similitudine di tipo medico per farmi comprendere meglio. Se un paziente diabetico sotto terapia ha valori bassi di glicemia a digiuno per un lungo periodo e poi improvvisamente si manifesta un trend in crescita, è giusto preoccuparsi e informare il diabetologo ben prima di arrivare al coma diabetico. Ma se i media interpretano quei dati come prova di un imminente coma diabetico, se fanno cosi, si tratta di una grossolana manipolazione della realtà. Non dissimile il ragionamento sulle diossine riscontrate nella masseria Fornaro. Perchè poi, sulla base di questi dati, si chiudono le scuole di Tamburi? Mistero fitto. In medicina, si chiama medicina difensivistica quella che porta ad abuso di procedure per le quali non c’è indicazione specifica per difendersi da eventuali accuse di “malpractice”. Qui e la stessa cosa: si assumono decisioni per le quali non vi e alcuna indicazione a fini difensivistici. È l’ennesimo frutto avvelenato di una stagione folle che non sembra finire mai. Una mela l’ho mangiata pure io!

Il professor Giorgio Assennato è docente di Medicina del Lavoro presso l’Università degli Studi di Bari dove è direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro. Presidente del Cimedoc e membro del Comitato Tecnico Operativo dell’Osservatorio Epidemiologico Regionale, il prof. Assennato ha studiato e si è specializzato nell’università John Hopkins di Baltimora (Usa) e nelle università di Roma, Pisa, Pavia e Torino.

Inquinamento a Taranto, i residenti del Tamburi chiudono con catena i cancelli dell'ex Ilva. Sul cancello affisso anche un cartello con la scritta: 'Oggi vi chiudiamo noi'. La protesta dopo il nuovo allarme sull'emergenza ambientale e sanitaria in città, scrive Lucia Portolano il 4 marzo 2019 su La Repubblica. "Oggi vi chiudiamo noi", lo hanno scritto gli abitanti del quartiere Tamburi di Taranto su cartello affisso al cancello degli uffici della direzione dello stabilimento Arcelor Mittal. Sono oltre un centinaio che dal pomeriggio di lunedì 4 marzo stanno manifestando fuori dagli impianti del siderurgico. Sul cartello hanno messo le loro firme, il primo è stato il papà di Giorgio Ponzio, il ragazzo di 15 anni morto un mese fa per sarcoma dopo aver lottano per tre anni contro la malattia. Hanno legato un lucchetto all'ingresso come simbolo di chiusura. Gridano "Taranto libera". Uno dei manifestanti ha preso la parola ed ha annunciato: "che da oggi parte l'anno zero Taranto". Questo è solo l'inizio di una serie di iniziative di proteste.  Ai genitori dei bambini morti per cancro si sono aggiunti anche quelli dei bambini del quartiere Tamburi che dal primo marzo sono a casa, le loro scuole sono chiuse. Il sindaco Rinaldo Melucci ha emesso un'ordinanza di chiusura precauzionale per la scuola elementare e per la scuola media di via Deledda, che si trovano a pochi metri dalle collinette ecologiche sequestrate un mese fa dai carabinieri del Noe di Taranto. Dalle analisi dell'Arpa (Agenzia regionale per prevenzione e protezione dell'ambiente) è emerso che quelle colline, che avrebbero dovuto ridurre l'impatto dell'inquinamento, altro non sono che cumuli di una discarica abusiva di scarti di rifiuti industriali provenienti proprio della lavorazione dell'ex Ilva. Il sindaco ha chiesto ad Arpa analisi più approfondite e complete per verificare se ci sono inquinanti sui terreni della scuola e nella falda. Martedì 5 ci sarà un incontro tra l'assessore all'Ambiente del Comune di Taranto, Francesca Viggiano, e il provveditore agli studi per trovare una soluzione alternativa per i 700 studenti rimasti senza scuola. Intanto l'associazione Peacelink ha denunciato in questi giorni l'aumento delle emissioni inquinanti nei primi mesi del 2019 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. I dati registrati dalle centraline di monitoraggio dell'Arpa Puglia tra gennaio e febbraio, confrontati col medesimo periodo del 2018, rivelano picchi di sostanze pericolose come Ipa (più 191 percento), benzene (più 160 per cento), idrogeno solforato (più 111 per cento), pm10 (più 29 per cento Env e più 18 per cento Swam) e pm 2,5 (più 23 per cento). Ma il sindaco parla di dati non ufficiali e attende la certificazione dell'Arpa. Il Comune di Taranto ha convocato per i prossimi giorni un tavolo tecnico al quale ha invitato il ministero dell'Ambiente, la Regione, l'Arpa e la Asl. I manifestanti chiedono che la riunione si svolga al quartiere Tamburi, e che sia presente una delegazione di cittadini.

Chi è nato prima: il siderurgico o i Tamburi?

Come è possibile che si sia costruito a ridosso del siderurgico. Oppure. Come è possibile che si sia costruito in prossimità del quartiere di Taranto? Perchè ora non va più bene il siderurgico, motivo di tutti quegli interventi di edilizia popolare destinati proprio agli operai dello stabilimento. Perchè solo oggi si è rancorosi ai Tamburi, nonostante il siderurgico abbia dato lavoro ed abitazioni a costo agevolato a quegli operai ingrati che ora lo rinnegano?

Qual è la storia dell’Ilva? Scrive Roberto Giovannini il 28/11/2012 su La Stampa. Si tratta di una delle più grandi acciaierie d’Europa, e la più grande d’Italia. Costruito nel 1961 quando l’allora Italsider era un’azienda pubblica, l’immenso stabilimento costruito a ridosso di due popolosi quartieri di Taranto nel 1995 è stato ceduto al gruppo privato Riva, che in questi anni lo ha riportato a una gestione in profitto. Oggi produce circa 10 milioni di tonnellate l’anno di acciaio.

Per quale ragione si è fatta un’acciaieria nel mezzo di una città? Non si è pensato all’inquinamento?

Una scelta folle, tipica di una stagione «sviluppista» e industrialista in cui non si teneva affatto conto dei problemi della salute e del territorio. Nel 2010, secondo le perizie del tribunale e le dichiarazioni dell’Ilva, sono state immesse nell’ambiente circostante 4.159 tonnellate di polveri, 11 mila di diossido d’azoto e anidride solforosa, tantissima anidride carbonica, e quantità di arsenico, cromo, cadmio, nichel, diossine, piombo e molti altri materiali.

Ma è possibile produrre acciaio in modo meno «sporco»?

Sì: alcune acciaierie in Germania generano emissioni inferiori del 70-90% rispetto all’Ilva. Ovviamente, servono investimenti ingentissimi per adottare tecnologie «pulite».

Dunque l’Ilva sono anni che inquina. Perché la magistratura non è intervenuta prima?

Certamente l’azione, scattata il 26 luglio 2012 con il sequestro dell’«area a caldo» dello stabilimento, e proseguita il 26 novembre con quello delle «aree a freddo», è arrivata con grande ritardo. Il problema era noto da anni. Va detto che già nel 2007 i Riva erano stati condannati per violazione delle norme anti-inquinamento.

Quali sono le accuse?

L’inchiesta è per «disastro ambientale doloso e colposo» a carico dell’Ilva, dei suoi proprietari e dirigenti. Secondo l’ordinanza del 26 luglio, l’azienda ha disperso «sostanze nocive nell’ambiente» provocando «malattia e morte». Pur conoscendo gli effetti delle emissioni, si è continuato a inquinare «con coscienza e volontà per la logica del profitto».

Vediamo i numeri ufficiali sulle morti e le malattie a Taranto.

I periti nominati della Procura di Taranto calcolano in sette anni un totale di 11.550 morti causati dalle emissioni (in media 1.650 l’anno) soprattutto per cause cardiovascolari e respiratorie e 26.999 ricoveri, soprattutto per cause cardiache, respiratorie, e cerebrovascolari. Le concentrazioni di agenti inquinanti e la proporzione di decessi e malattie è altissima nei quartieri Tamburi e Borgo, quelli più vicini alla zona industriale. Secondo i dati ufficiali del rapporto «Sentieri» dell’Istituto Superiore di Sanità, nel 2003-2009 Taranto registra (rispetto alla media della Puglia) un +14% di mortalità per gli uomini e un +8% per le donne. La mortalità nel primo anno di vita dei bambini è maggiore del 20%. Forti differenze ci sono anche per tumori e malattie circolatorie, con addirittura un +211% rispetto alla media pugliese per i mesoteliomi della pleura.

Insomma l’Ilva fa male, e a volte uccide. L’azienda come risponde?

Intanto dice che i dati considerano 30 anni di emissioni, e che già ha agito per ridurle. Dopo il blitz della Procura, Ilva ha presentato un piano (poi respinto dai magistrati) che prevede investimenti per 400 milioni per l’abbattimento delle polveri e la copertura dei depositi di carbone, ora a cielo aperto. E soprattutto, chiedeva e chiede di continuare la produzione, sia pure in modo ridotto. Ma i giudici hanno detto che produrre significa continuare a inquinare e, dunque, far ammalare la gente.

E la reazione del governo qual è stata?

Il governo (come i sindacati e quasi tutti i partiti) vorrebbe evitare la chiusura della fabbrica, che produce un terzo del fabbisogno di acciaio italiano e dà lavoro a 12 mila lavoratori diretti (40 mila con l’indotto). Il tentativo è stato quello di tenere aperto e produttivo lo stabilimento (come chiede l’Ilva) favorendo il risanamento. Lo strumento che è stato individuato è l’«Aia», l’autorizzazione integrata ambientale.

Cosa prevede l’Aia?

Autorizza l’esercizio dell’impianto imponendo all’azienda una serie di interventi nell’arco di tre anni, partendo dalla riduzione della produzione a otto milioni di tonnellate, la copertura dei parchi di carbone, il rifacimento degli altiforni, con una serie di monitoraggi. Secondo molti esperti effetti concreti sulle emissioni nocive si vedranno solo dal 2015. Si ipotizzano costi per tre miliardi; lo Stato contribuirebbe con circa 330 milioni.

Ma i giudici hanno sequestrato tutte le aree dell’Ilva, e l’azienda ha annunciato la chiusura. E ora?

Ora il governo ha annunciato un decreto legge, che dovrebbe imporre l’esecuzione dell’Aia e degli interventi previsti.

Tamburi - Lido Azzurro. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Tamburi - Lido Azzurro è una circoscrizione di Taranto posta alla periferia nord-occidentale del comune, con una popolazione di 17 644 abitanti. È costituita dai quartieri Tamburi, Lido Azzurro e dalla zona denominata Porta Napoli. Il territorio della circoscrizione, che si estende per 37,85 km², è situato all'ingresso nord-occidentale della città, ed è attraversato dalle principali arterie che collegano il capoluogo jonico agli altri centri abitati: la SS7, la SS106 e la SS172. L'intera area circoscrizionale è posta inoltre nei pressi dei più importanti insediamenti industriali e portuali.

Confini territoriali.

A nord: la linea di confine parte dal limite comunale di Statte seguendo la SS7 (inclusa) e la Gravina Gennarini, sino alla linea ferroviaria.

A est: la linea di confine parte dal mar Piccolo, interseca la SS172 e la SP20, passando per il fosso Galeso.

A sud: confina naturalmente con la costa di Lido Azzurro sino al Ponte di Porta Napoli (incluso, che rappresenta il collegamento fra la zona Porta Napoli e l'isola della Città Vecchia), e con la costa del mar Piccolo fino al fosso Galeso (incluso).

A ovest: la linea di confine parte dalla SS7 per raggiungere la costa di Lido Azzurro fino al Ponte di Porta Napoli.

Storia. Il nome "Tamburi" trae la sua origine dal termine "tamburo", con cui si indicava il recipiente destinato alla raccolta delle acque provenienti da un cunicolo posto sulla collinetta "Le Fornaci": lì sorgeva l'antico Acquedotto del Triglio, costruito nel 1543 ed unica fonte di approvvigionamento delle acque per l'intera città, del quale si trova notizia negli scritti di Giambattista Gagliardo, sacerdote, agronomo ed economista tarantino. Il quartiere "Tamburi" nacque agli inizi del XX secolo lungo un'area famosa a quel tempo per la folta vegetazione (ulivi e pini) e per la salubrità dell'aria. I primi complessi abitativi furono edificati al di là della Porta Napoli, e sorsero con l'esigenza di far risiedere le famiglie dei dipendenti degli impianti ferroviari presenti nei pressi. In seguito, con lo sviluppo della zona industriale e soprattutto con la costruzione dell'acciaieria Italsider, questo rione iniziò ad espandersi lungo le arterie stradali che conducono verso la Valle d'Itria e la zona occidentale della provincia. Parallelamente, la continua espansione abitativa della frazione marina di Lido Azzurro, posta lungo la SS106, ha avvicinato i due territori ed allungato difatti l'estensione territoriale della città, rendendo necessaria la creazione della circoscrizione n° 2.

L'impianto fu costruito nelle immediate vicinanze del quartiere Tamburi, che attualmente può contare circa 18.000 abitanti. Il quartiere, già esistente, si sviluppò ulteriormente negli anni a seguire grazie anche agli interventi di edilizia popolare destinati proprio agli operai dello stabilimento. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Taranto, viaggio ai Tamburi: il rione a ridosso dell'Ilva, scrive l'1 giugno 2017 La Repubblica. Tamburi, un quartiere ai margini' è il titolo che il fotografo Franco Sortini ha dato al suo racconto per immagini del quartiere a ridosso dell'Ilva di Taranto. "La pioggia tamburellava sul vecchio acquedotto romano. E Tamburi si chiamò l’antico quartiere di Taranto. Tanto tempo fa l’aria era così salubre che ci si portavano i bambini con la pertosse, perché provassero sollievo. Ma venne il giorno del grande mostro che si incuneò tra quelle case e i suoi alberi, e rubò i giardini ai bambini" racconta Sortini.

Ilva: caro Prodi, a Taranto ha sbagliato lo Stato non i cittadini, scrive il 29 Maggio 2013 Alessandro Marescotti, Presidente Peacelink, su Il Fatto Quotidiano. La memoria di Romano Prodi vacilla. In un colloquio con Il Fatto Quotidiano (28/5/2013), l’ex premier Romano Prodi sottolinea che l’Ilva di Taranto “era un bello stabilimento, tra l’altro isolato dalla città. E’ stata la città ad andare addosso all’Ilva, non l’Ilva addosso alla città. Quando andavamo allo stabilimento, percorrevamo chilometri e non c’era una casa. Se la gente non fosse andata ad abitare lì, così addosso all’acciaieria – conclude – forse non sarebbe stata così aggredita dall’inquinamento”. Prodi ricorda male distanze, luoghi e circostanze. Le case più vicine allo stabilimento sono infatti quelle di via Lisippo. Sono andato a verificare l’anno di costruzione di quelle case: 1956. La posa della prima pietra dello stabilimento Italsider risale invece al 9 luglio 1960. Quindi quelle case esistevano prima della fabbrica. Come l’ex ministro Clini, anche Prodi crede che siano le case ad essere state costruite dopo le ciminiere e terribilmente vicine ad esse. E’ tutto il contrario! E’ lo stabilimento ad essere stato costruito dopo le case, a 135 metri dalle più vicine. Quelle case vicino a cui sono sorte le ciminiere esistevano pertanto già prima e sono, per di più, frutto di edilizia pubblica e non certo di abusivismo edilizio. Oltre ad inventare gli inesistenti 40 mila posti di lavoro all’Ilva questi politici inventano anche la storia di Taranto, capovolgendola. Ripeto: nessuna casa nel quartiere Tamburi è stata costruita abusivamente a ridosso del muro di cinta dello stabilimento. Prodi vada a Taranto e verifichi di persona. Vedrà che le ciminiere sorgono purtroppo anche accanto al cimitero del quartiere Tamburi e non è stato certo il vecchio cimitero a sorgere abusivamente “dopo”. Tutto esisteva prima: basta vedere le lapidi. E’ assurdo dare la colpa alla gente per errori compiuti invece da politici e da ingegneri privi di conoscenze ambientali. A sbagliare furono i dirigenti delle Partecipazioni Statali che autorizzarono la costruzione dello stabilimento siderurgico di Taranto “al contrario”: l’area a caldo (la più inquinante) venne infatti realizzata vicino alla città e l’area a freddo (la meno inquinante) fu posizionata a maggiore distanza dalle case. Assurdo! Basta guardare la cartina della disposizione degli impianti per vedere che parchi minerali, cokeria e agglomerato sono la linea più avanzata verso il fronte urbano, e da lì fuoriescono rispettivamente le polveri (parco minerali), il benzo(a)pirene (cokeria) e la diossina (agglomerato). L’errore clamoroso di costruire al contrario il centro siderurgico di Taranto è un’altra cosa che Prodi ci potrebbe spiegare, se ne è capace, dato che definisce quella fabbrica “un gioiello”. A sbagliare a Taranto non è stata la gente, ma chi ha governato. 

Le falsità dette sul quartiere Tamburi, scrive il 10 luglio 2013 Gianpaola Gargiulo su peacelink.it. In tutti questi mesi e, in particolare nell'ultimo anno, abbiamo dovuto ascoltare tante, troppe affermazioni sul caso Ilva, la maggior parte delle quali spesso assolutamente non veritiere o dette proprio per giustificare una situazione che altrimenti sarebbe inaccettabile in qualsiasi altro posto del mondo. Mi riferisco all'informazione, veicolata da uomini politici quali Clini, ex Ministro dell'Ambiente, e Prodi, ex Presidente dell'Iri ad esempio, secondo la quale il quartiere Tamburi sarebbe sorto successivamente all'Ilva, e che le case quindi si sarebbero "volontariamente" addossate alla grande industria. Ho citato solo questi due nomi di politici che si sono occupati del caso Ilva -ma forse sarebbe stato meglio per noi se non l'avessero fatto-, e la gravità delle loro affermazioni fa capire quanta dose di ignoranza e malafede sia contenuta in quello che dicono. Ignoranza perchè basta andare anche solo su Wikipedia per leggere come il quartiere Tamburi sia sorto alla fine dell'800 -quindi molto tempo prima della grande industria- e fu scelto da molti Tarantini proprio per la salubrità dell'aria (ironia della sorte). Malafede, perchè in queste affermazioni c'è il desiderio di creare confusione in chi non conosce bene la storia di Taranto; nel voler fare apparire un Sud caratterizzato dall'abusivismo edilizio - che non c'entra niente con questa storia, dal momento che proprio l'Ilva si è addossata alla città di Taranto, in maniera prepotente e sfacciata. Siamo di fronte ad un'operazione di comunicazione velenosa e ben studiata, che dev'essere smascherata per quello che è: una pessima messinscena volta solo a distogliere l'attenzione dal problema principale, ovvero l'inquinamento a Taranto.

Geodati e mappe, antidoto ai vuoti di memoria sull'Ilva, scrive Carlo Gubitosa su L’Espresso.

Romano Prodi, 28 maggio 2013: "E' stata la città [di Taranto] ad andare addosso all'Ilva, non l'Ilva addosso alla città. Quando andavamo allo stabilimento, percorrevamo chilometri e non c'era una casa. Se la gente non fosse andata ad abitare lì, così addosso all'acciaieria forse non sarebbe stata così aggredita dall'inquinamento".

Corrado Clini, agosto 2012: "no, ai Tamburi non avrei neppure preso casa. Credo che il quartiere Tamburi di Taranto sia la rappresentazione molto concreta di un modo assolutamente disordinato e scriteriato di localizzare insediamenti abitativi".

Ma è proprio vero che i Tarantini hanno fatto i kamikaze lanciandosi in braccio all'Industria e prendendo d'assedio lo stabilimento con case sempre più vicine alle fonti di inquinamento?

Per scoprirlo possiamo aiutarci con gli strumenti del giornalismo grafico e dei geodati abbondantemente disponibili in rete. Basta un rapido esame delle mappe satellitari per scoprire che sulla statale 7 (la strada che probabilmente percorreva Prodi, quella che collega direttamente la città allo stabilimento siderurgico) le case non ci sono ancora oggi, perché quella statale corre in mezzo al nulla. Ma le case di via Lisippo del quartiere Tamburi, quelle a poche centinaia di metri dai "parchi minerali" sono state costruite nel 1956, quattro anni prima della posa della prima pietra all'Italsider, avvenuta nel 1960. Prodi dà a intendere che la colpa sia dei cittadini che si sono insediati alla rinfusa attorno all'azienda, ma è stata l'amministrazione pubblica a dare concessioni edilizie per quel quartiere, dove non c'è stato abusivismo edilizio, ma un legalissimo piano regolatore, e queste concessioni sono state rilasciate tranquillamente perché negli anni '50 il terreno che sarebbe diventato dell'Italsider era ancora campagna. Come prova definitiva per confermare se in quella zona è arrivato prima l'uomo o la diossina c'è chi ha suggerito un sistema infallibile: osservare le date sulle lapidi al cimitero, dove i morti del quartiere Tamburi arrivavano ben prima del 1960, l'"annus horribilis" della storia tarantina in cui si è deciso improvvidamente di costruire una "industria al contrario", con i settori più inquinanti che sono anche quelli più vicini alle abitazioni. Preesistenti.

DALLA COSTRUZIONE DELL’ITALSIDER AL DISASTRO DELL’ILVA: STORIA DI TARANTO, scrive Alessandro Leogrande lunedì, 16 ottobre 2017, su minimaetmoralia.it. Questo pezzo è apparso su Pagina 99 nel gennaio 2016. «Taranto è una città perfetta. Viverci è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari.» Così, nel luglio del 1959, la descrive Pier Paolo Pasolini. È in viaggio da settimane a bordo di una Fiat Millecento per ultimare uno dei long form più geniali che siano mai stati concepiti sulla stampa nostrana: raccontare l’estate degli italiani percorrendo l’intera litoranea da Ventimiglia a Trieste, senza mai tagliare verso l’entroterra. Tutto il Tirreno verso sud, e tutto l’Adriatico verso Nord: in mezzo lo Jonio, per Pasolini un mare «non nostro», spaventoso. Al centro di quella «lunga striscia di sabbia» sorgeva Taranto, l’indecifrabile Taranto, che vista in un pomeriggio di luglio poteva benissimo apparire come «un gigantesco diamante in frantumi».

In quella città brulicante di vita, voci, corpi, i bagni e le cabine nascevano direttamente sul lungomare, alle spalle del Borgo umbertino costruito a cavallo tra Ottocento e Novecento. Nelle pagine di Pasolini, la simbiosi tra mare e città, tra il mare e i suoi abitanti, nell’alternarsi dell’eterno gioco dei sessi tra le onde e gli scogli, appare perfetta. Esattamente un anno dopo, il 9 luglio 1960, viene posata la prima pietra dell’Italsider, il più grande stabilimento siderurgico italiano. Per la sua costruzione vengono estirpati decine di migliaia di alberi d’ulivo; un popolo di formiche viene impiegato nell’edificare una cattedrale industriale a pochi passi dalle estreme propaggini della città. Il primo altoforno entra in funzione il 21 ottobre 1964, il secondo il 29 gennaio 1965. Dopo una fase di rodaggio, il 10 aprile 1965 il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inaugura ufficialmente il quarto centro siderurgico del paese (quarto in ordine di tempo, dopo quelli di Cornigliano, Piombino e Bagnoli), il più grande di tutti. Quando, l’anno scorso ho condotto su Radiotre una trasmissione sulla costruzione del siderurgico, mi è capitato di recuperare, tra i vari materiali, anche le parole pronunciate da Saragat quella mattina. «Io sono qui», disse il Presidente della Repubblica, «per solennizzare l’entrata in funzione di un grande stabilimento industriale. E anche in questa occasione voglio recare agli italiani del Mezzogiorno l’assicurazione che lo Stato ha preso effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla». Mutare la realtà meridionale, piegare il legno storto fino a tenderlo, in senso contrario, come un arco… Installare l’industria pesante laddove (non solo a Taranto, ovviamente, ma in un’area molto più ampia) la riforma agraria non aveva dato i suoi frutti, non potendo assicurare un lavoro a tutti, né tanto meno arrestare l’immigrazione verso il Nord… Ecco cosa si poteva leggere chiaramente, dietro le parole del primo presidente socialista democratico.

Quando si decise di costruire un altro stabilimento siderurgico nel Sud, dopo quello di Bagnoli, la scelta ricadde su Taranto in modo quasi naturale. C’era il porto, ovviamente. Ma soprattutto c’era già una città militar-industriale di 170mila abitanti sorta intorno alla base della Marina e all’Arsenale, e attraversata da una violenta crisi occupazionale. Il disfacimento della produzione bellica e il ridimensionamento dei cantieri navali avevano già segnato la città moderna sorta pochi decenni prima accanto alla città vecchia in cui per secoli la vita era stata racchiusa, proprio come in un’ostrica, in un dedalo di vicoli e in un gomitolo di case accatastate le une sulle altre. Lo slogan «Taranto non vuole morire», che ciclicamente rispunta come un mantra a segnare la politica e le mobilitazioni cittadine fu coniato proprio allora, come scriverà Tommaso Fiore in quel grande affresco del Sud della metà degli anni cinquanta che è Il cafone all’inferno. Per non morire, allora Taranto chiese in massa il Quarto centro siderurgico. Chiesero in massa la sua edificazione la città vecchia e quella nuova, gli operai e i pescatori, i proprietari dei terreni e i mediatori politici, una borghesia da sempre apatica e un Curia da sempre supplente di altri poteri. Chiesero tutti la manna dal cielo di decine di migliaia di «posti fissi» sotto le ciminiere. L’allora sindaco democristiano Angelo Monfredi l’ha spiegato in seguito meglio tutti, con il candore repentino che solo i politici dc di lungo corso sanno avere: «Lo avremmo costruito anche al centro della città». Il centro siderurgico costò quasi quattrocento miliardi di lire. Finì con l’occupare prima 600 e poi 1500 ettari di superficie, per un’estensione pari al doppio dell’intera città. Da quel momento in poi fu la città a crescere e modellarsi intorno alla fabbrica. Furono i tempi e i ritmi della fabbrica a scandire i tempi e i ritmi del tessuto urbano. Il mito dell’industria – mentre il capoluogo mutava – si radicò e rafforzò ulteriormente. È stato così fino alla fine degli anni ottanta, quando il sistema della partecipazioni statali, che reggeva l’industrializzazione di Stato, ha iniziato a mostrare le sue crepe. La percezione del disastro ambientale, invece, è divenuta cosa comune solo in seguito.

Benché viva lontano da Taranto ormai da vent’anni, torno spesso in città. Ci torno per lavoro, ci torno per trovare i miei genitori che vivono ancora qui. A Taranto ho dedicato due libri e una infinità di articoli, specie dopo l’esplosione del bubbone Ilva nell’estate del 2012. A Taranto (cosa che tutti i miei amici considerano assurda, e quelli più stretti l’indizio di qualche profondo trauma psicologico) ho ancora la residenza. Negli ultimi tempi, ogni volta che sono tornato in città, mi è capitato di pensare a quelle poche pagine di Pasolini poi raccolte, insieme al resto del reportage, nel volume Una lunga striscia di sabbia (ora ripubblicato da Contrasto). Come se, su quella città remota che non ha lasciato dietro di sé il minimo reperto archeologico, al di là delle poche righe scritte da un poeta che l’ha attraversata a bordo di una Millecento, ne sia stata innestata un’altra, profondamente diversa, separata dal mare che la bagna, all’interno del quale, da allora, non è stato più possibile immergersi. Qualcosa di simile (un’intera città che ne soppianta un’altra, senza che i suoi abitanti se ne accorgano) l’avevo letta in un romanzo fantascientifico di Philip Dick, La città sostituita. Mi è capitato di pensarci, ultimamente, ogni volta che dal terrazzo di casa dei miei, dal terrazzo della casa in cui sono cresciuto e da cui è possibile scorgere l’intero arco del golfo, ho potuto percepire tutta la maestosa invadenza del Moloch d’acciaio. Oggi Taranto mi appare una città molto fragile, incapace di gestire l’industrializzazione caotica che l’ha permeata. Ma perché – mi chiedo – solo col tempo ho visto tutto ciò con maggiore chiarezza? Perché solo col passare degli anni mi sono accorto di cosa effettivamente comportasse il fatto che l’enorme area industriale sia stata costruita in una posizione realmente attaccata alla città, senza soluzione di continuità, senza una zona cuscinetto ad arginarne l’impatto? Perché la percezione della insostenibilità di tutto ciò, anche per i suoi abitanti, si è fatta strada solo in seguito – con il dilagare, in particolare, di malattie che paiono legate al ciclo della produzione?

Eppure ci sono state nel corso del tempo delle letture diverse di quanto stava accadendo. Ecco almeno tre esempi, ma potrei citarne tanti altri.

Nel giugno del 1965 Alessandro Leccese, ufficiale sanitario negli anni in cui l’Italsider venne costruito, scrisse nel suo diario privato: «Quando, per l’aggravarsi della situazione, sono intervenuto, in qualità di Ufficiale Sanitario, con un’ordinanza indirizzata al Direttore del Centro Siderurgico e al Presidente dell’area di Sviluppo Industriale, è successo il finimondo, perché quest’ultimo, che, tra l’altro, è segretario provinciale della Dc, si è sentito leso nella sua insindacabile sovranità. Si ritiene tanto potente da poter condizionare anche le decisioni del Prefetto, come accadeva all’epoca del “famigerato regime”, tra il Federale e il Prefetto. Per lui non conta la tutela della città da un grave danno ecologico, contano la difesa del prestigio personale e gli interessi di alcuni esponenti politici, che ritengono di poter disporre a loro piacimento delle sorti del nostro territorio, come si trattasse di una colonia africana da sfruttare.» È stato Mimmo Nume, presidente dell’Ordine dei medici di Taranto, a farmi leggere le pagine del diario di Leccese, rimaste in un cassetto del suo studio, per anni, dopo la morte. Con tutta evidenza, le basi del disastro ambientale, e della concomitante devastazione politica cittadina, sono state gettate allora.

Nel 1971 Antonio Cederna scriveva sul Corriere della Sera che quello tarantino gli appariva a tutti gli effetti «un processo barbarico d’industrializzazione. Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi 2000 miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento». Ciononostante, alla metà degli anni settanta, si procedette al raddoppio del centro siderurgico che portò gli assunti diretti al numero esorbitante di oltre ventimila dipendenti, e quelli dell’indotto a oltre quindicimila. Il raddoppio estese ulteriormente la superficie della fabbrica. Le basi del vero gigantismo industriale, che oggi rendono di fatto complicatissima qualsiasi via d’uscita del caso-Taranto, sono state gettate allora.

Il primo a rendersene conto, mentre tutto ciò si andava inverando, fu Walter Tobagi. In un altro articolo uscito sul Corriere il 15 ottobre del 1979 scrisse che il vero protagonista della storia dell’industrializzazione in riva allo Jonio è il «metalmezzadro»: «È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider grande due volte e mezzo la città. Abita nei paesi della provincia e trova il tempo per coltivare il pezzo di terra. Su trentamila stipendiati della più grande industria del Sud, almeno la metà appartiene alla categoria dei metalmezzadri.» Quella classe operaia, che aveva comunque raggiunto all’interno della fabbrica di Stato un alto tasso di sindacalizzazione (oltre il 90%), era in realtà molto dissimile dalla classe operaia che nelle fabbriche del Nord aveva attraversato gli anni successivi all’autunno caldo. Tobagi coglieva qualcosa di vero, ma col tempo ho finito per pensare che avesse ragione solo in parte. Quella di Taranto è stata in realtà una classe operaia a metà. Meno politicizzata, e integrata, di quella della Fiat, per intenderci. Ma, in fondo, per quelle decine di migliaia di ex braccianti o piccoli contadini strappati ai campi e gettati nelle periferie della città che si ingrandiva (così come per coloro i quali sono rimasti a vivere nei paesi di provincia e hanno passato una vita a bordo delle corriere che li congiungono allo stabilimento) la fabbrica non è stata solo un mito. È stata anche un luogo all’interno della quale quali, nei momenti migliori, hanno preso consapevolezza dei propri diritti, tenendosi alla larga dai gorghi del non-lavoro. Ciò su cui Tobagi, invece, aveva pienamente ragione è il carattere di «cattedrale del deserto» dello stabilimento tarantino. L’indotto che si è creato intorno, e che sarebbe dovuto essere il volano dello sviluppo locale, ha assunto le sembianze di una metastasi parassitaria sempre più ramificata. L’azienda-tipo ai piedi dell’Ilva non ha mai pensato alla trasformazione dell’acciaio, piuttosto si è limitata a fornire manutenzione, pulizie, servizi secondari alla grande madre, e questo fotografa impietosamente il grado di passività dell’imprenditoria locale.

Quando alla metà degli anni novanta il sistema implose, l’unica soluzione fu quella di consegnare lo stabilimento al Gruppo Riva, che impose da subito un nuovo modo di governare il colosso industriale, tra il ricorso sistematico alle nuove assunzioni (previa assicurazione che i nuovi assunti non si iscrivessero ai sindacati), l’incentivo degli straordinari, e la clamorosa istituzione di un reparto-confino per i dipendenti recalcitranti all’interno della Palazzina Laf. Chi come me ha iniziato a scrivere o fare radio in quegli anni si è trovato a narrare questa mutazione in atto. Lo abbiamo fatto con articoli, trasmissioni, corrispondenze… Ciò che più ci sorprendeva e indignava, in questa bolla di anomia industriale che si andava rapidamente edificando, non era tanto il disastro ambientale (che è divenuto pienamente inaccettabile solo in seguito), ma l’alto numero di incidenti – spesso mortali, spesso incredibili nelle loro dinamiche – al suo interno. Ciò che più ci stupiva era il silenzio dei nuovi operai, i figli e nipoti dei «metalmezzadri» di Tobagi. Una volta, davanti ai cancelli della portineria D, prima dell’ingresso del turno delle 6,00 del mattino, mi sono sentito dire da un nuovo assunto in cokeria che preferiva un posto di lavoro al tumore («tanto il tumore, se ti viene, ti viene dopo; e comunque, se vivi qui, te lo prendi anche se non lavori»). La nuova Ilva si è subito creata come una fabbrica silente intorno al nuovo modo di produzione. E tale è rimasta fino a quando non è esplosa la protesta ai margini della fabbrica contro l’inquinamento.

Non c’erano alternative, né pubbliche né private, alla svendita al Gruppo Riva alla metà degli anni novanta, a meno che non si volesse procedere da subito alla dismissione come a Bagnoli. Così, almeno, allora si disse. Oggi, dopo diciassette anni di sistema-Riva e tre di commissariamento dell’azienda, il nodo scorsoio della storia sembra ristringersi esattamente nello stesso punto. Il grande stabilimento siderurgico è più una patata bollente di cui liberarsi, che non il possibile fulcro di una progettazione più ampia. Per chi pensa che la fabbrica possa essere ancora trasformata (e che da tale trasformazione possa discendere il raggiungimento di un punto di equilibrio tra difesa dell’occupazione e tutela della salute), un percorso di bonifiche e interventi è stato tracciato, ed è stata paventata anche la creazione di un sistema «ibrido» che affianchi all’attuale ciclo integrale cokeria-agglomerato-altoforno, uno nuovo che prevede l’utilizzo del pre-ridotto e dei forni elettrici. Negli ultimi decreti Ilva sono stati stanziati 800 milioni di euro: un investimento comunque massiccio, se si pensa che il premier aveva ritenuto possibile recuperare 1.200 milioni di euro sequestrati ai Riva in Svizzera in un processo per frode fiscale, prima che il Tribunale di Bellizona si è opponesse al trasferimento. Il vuoto imprenditoriale che Taranto vive oggi, esattamente come vent’anni fa, è semmai un altro. Da una parte, il governo ha annunciato la vendita dello stabilimento entro giugno prossimo, e per agevolare la cosa (oltre a un prestito ponte per i futuri acquirenti) ha stabilito il rinvio dell’applicazione del piano ambientale. Dall’altra però non ci sono – almeno al momento – grossi gruppi italiani o stranieri disposti a rilevare l’Ilva così com’è per realizzare tutte le trasformazioni auspicate e rimetterla sul mercato. Nessun imprenditore dalle spalle tanto larghe si è finora fatto seriamente avanti. Così, alle spalle di questo vuoto istituzionale e imprenditoriale, la città sembra pervasa da una strana calma. Apparentemente apatica, Taranto è una città che sa accendersi per poco. Basta cogliere i segni. E ricordare i modi in cui lo spaesamento collettivo può sempre trasformarsi in protesta improvvisa.

«C’è preoccupazione in fabbrica», mi dice Francesco Brigati, Rsu Fiom dello stabilimento. «La sensazione è che, qualsiasi cosa accada, non si riusciranno a mantenere gli stessi livelli occupazionali. Ci saranno degli esuberi.» Al momento in Ilva lavorano 11.200 dipendenti, a cui vanno aggiunti i tremila dell’indotto. Poiché, in seguito alla fermata di alcune aree della fabbrica, si producono 17 mila tonnellate al giorno (anziché 30 mila), il contratto di solidarietà ha riguardato negli ultimi anni oltre 4 mila dipendenti. Nonostante il ridimensionamento rispetto alla fabbrica di Stato, l’Ilva continua a essere il primo insediamento industriale del paese, e poiché intorno c’è una provincia, in cui la somma di disoccupati e inoccupati supera stabilmente la soglia del 50% dell’intera forza-lavoro, quello che un po’ eufemisticamente si continua a chiamare «ricatto occupazionale» assume da queste parti tinte fosche. Anche per questo, per l’assenza di alternative concrete, è molto difficile da progettare un futuro che vada al di là della «monocultura siderurgica». Brigati mi ripete che il sindacato deve avere «il coraggio di confrontarsi con la trasformazione della fabbrica». Ma poi mi dice subito quanto sia maledettamente difficile mettere oggi in piedi una assemblea sindacale all’interno dello stabilimento. «L’incertezza produca indifferenza, passività, più che rabbia.» In questi ultimi anni, poi, quelli del commissariamento, all’incertezza sul futuro si è aggiunta quella percepita dagli operai nella gestione quotidiana della fabbrica. Con il cambiare dei commissari, sono stati costantemente rinnovati anche gli alti vertici della fabbrica. «Un management a lungo rimasto stabile di colpo non lo è stato più, e questo vuoto gli operai lo percepiscono. Aggiungi, poi, che l’azienda ha deciso di mettere in solidarietà, per fare cassa, anche gli addetti alla sicurezza. Non è un caso che gli incidenti siano ripresi con una certa frequenza.» Ha passato da un po’ i trent’anni, Francesco. La sua intera vita lavorativa si è svolta dopo la privatizzazione della fabbrica, eppure ogni volta che lo sento parlare penso che Taranto è uno di quei posti in cui alcuni punti fermi novecenteschi (e tutto un modo di parlare intorno al lavoro di fabbrica) sono più duri ad evaporare che altrove. E, che nella grande trasformazione in atto, finiscono per essere anche dei punti fermi a cui molti si aggrappano.

Poi Francesco mi dà l’elenco degli incidenti mortali in Ilva dal 1995 a oggi. Sfogliando i fogli bianchi, mi accordo che sono morti 22 operai tra i dipendenti diretti dell’acciaieria e 12 tra quelli dell’indotto. Dal 2012, da quando sono iniziati i vari commissariamenti, i morti sono stati rispettivamente 4 nello stabilimento e 2 nell’indotto. Leggo le scarne descrizioni degli ultimi due in ordine di tempo. “8 giugno 2015. Durante il colaggio ghisa su AFO/2 in regolare marcia, si verificava una improvvisa ed inattesa reazione dal foro B con conseguente fuoriuscita di ghisa. L’addetto al prelievo della temperatura, Morricella Alessandro, il quale operava sul campo di colata, venendo investito dai fusi provocati dalla reazione predetta, riportava ustioni di 3° grado sul 90% del corpo. È deceduto il 12 giugno 2015.” E poi: “17 novembre 2015. Durante la fase di rimozione delle brache tessili uno dei tratti di condotta si sbilanciava e nel cadere dal pianale stesso colpiva il dipendente Martucci causandone il decesso.” Ripenso a una delle mie corrispondenze dai cancelli dell’Ilva dopo la morte di due ragazzi, caduti da una gru nell’area dei parchi minerari. Mi accorgo che sono passati più di dieci anni, non molto è cambiato.

Poi c’è la questione sanitaria, che in tutti questi mesi sembra essere rimasta in un angolo, per quanto sia stata impietosamente fotografata dall’inchiesta Sentieri. I dati relativi al periodo 2003-2009 sono impressionanti: +14% di mortalità per gli uomini, e +8% per le donne, per tutte le cause di malattia rispetto alla media in Puglia. Per gli uomini, in particolare: +14% per tutti i tumori, +14% per le malattie circolatorie, +17% per quelle respiratorie, +33% per i tumori polmonari, +419% per i mesoteliomi pleurici. Per le donne: +13% per tutti i tumori, +4% per le malattie circolatorie, +30% per i tumori polmonari, +211% per il mesotelioma pleurico. Per i bambini si registra un incremento del 20% della mortalità nel primo anno di vita rispetto alla media pugliese, che diventa 30-50% per la contrazione di malattie di origine perinatale che si manifestano oltre il primo anno di vita. Ne parlo ancora una volta con Mimmo Nume, come periodicamente mi capita di fare da qualche anno a questa parte. Questa volta Mimmo è più duro del solito. «Credo che ormai il luogo comune del “coniugare salute e lavoro” si sia ampiamente dimostrato un approccio inefficace quanto dannoso», mi dice subito. «In realtà, se ci pensi, si continuano a misurare due valori tra loro incompatibili con un unico metro, mentre invece ciascuno di essi esprime grandezze differenti.» Lo stato delle cose, comunque lo si voglia guardare, rimane grave. «C’è un oggettivo incremento di patologie legate all’inquinamento ambientale, soprattutto in età pediatrica; e purtroppo l’approccio epigenetico fa presagire un lento e progressivo incremento”. Se ne ammaleranno sempre di più, in buona sostanza, ma a dispetto di tutto ciò l’offerta di salute sul territorio è ancora strutturalmente inadeguata. «Per questo ti dico: le coniugazioni spettano ad altri, ammesso che siano capaci di declinarle. Noi medici possiamo auspicarle, certo, a patto però che non siano mai espresse in termini di “rischio accettabile”.»

Una cosa pare comunque chiara a molti, almeno da un paio danni a questa parte. Che la fabbrica resti al suo posto o venga chiusa, che venga svenduta a una cordata italiana o a qualche multinazionale asiatica in ascesa, Taranto deve comunque uscire dalla «monocultura siderurgica» che nell’ultimo mezzo secolo non ha fatto altro che alimentarsi dalle sue stesse viscere.

Ma come se esce davvero, al di là dei facili slogan?

Quando incontro il presidente dell’Autorità portuale Sergio Prete, e lo sento snocciolare dati e progetti, penso che la città è davvero in mezzo al guado di un fiume. Il porto è in crisi, dal momento che il 75% della sua movimentazione era generato proprio dall’Ilva. Con il netto calo della produzione, le ripercussioni sono state inevitabili. A ciò va aggiunto che i cinesi della Tct, gestori del terminal, hanno preferito sbaraccare e andarsene al Pireo. Così negli ultimi anni il volume dei movimenti si è praticamente dimezzato. Ciononostante, tra gli investimenti su Taranto varati ultimamente, vanno annoverati anche i 420 milioni per gli interventi nell’area portuale: la nuova piattaforma logistica è già stata inaugurata in dicembre. Prete ha le idee chiare: «Bisogna intensificare le operazioni di import-export e le attività logistiche nell’area retroportuale. Occorre attrarre nuove imprese che decidano di lavorare nell’area, e non puntare solo sull’imprenditoria locale.» L’altro tassello su cui puntare è la riutilizzazione delle vaste aree della Marina militare ormai cadute in disuso. Ciò che spesso si dimentica è che la Taranto moderna è stata pensata dalla Marina nel primo Novecento, molto più che dall’Italsider nel secondo. Prova ne è che per buona parte della città l’accesso al Mar piccolo, il mare interno, è da sempre vietato da un Muraglione alto diversi metri che separa l’Arsenale e la base dal resto dell’abitato. Oggi che la Marina sta progressivamente dismettendo la propria presenza lungo il Mar piccolo, concentrandosi invece in una zona del Mar grande, una vasta area finora rimasta bloccata (e allo stesso tempo esente dalla speculazione edilizia) verrà liberata. La stessa Autorità portuale sta lavorando a un progetto che riguarda la vecchia Stazione torpediniere. L’obiettivo è quello di farne una nuova stazione dove far attraccare barche private e yacht. Non solo: allo stesso tempo è possibile utilizzare l’area alle spalle delle banchine per un Museo del mare e l’organizzazione di mostre.

«Taranto ha smarrito i suoi legami identitari. Ma soprattutto ha perso ciò che la legava al mare.» Di questa enorme lotta contro l’oblio del proprio passato, come se sia impossibile riafferrare la città sostituita dal sistema-Ilva, parlo con Eva Degl’Innocenti, da dicembre nuovo direttore del Museo Archeologico, il Marta. Il passato della «città sostituita» è lunghissimo. Non coincide solo con la fondazione spartana della città e con gli ori e gli arredi funerari dell’età classica o ellenistica, ma si dipana nei secoli successivi, perennemente in equilibrio tra oriente e occidente. Degl’Innocenti mi parla di come rendere il museo un luogo vivo, della caffetteria che vorrebbe costruire nell’antico chiostro, dei laboratori con i bambini sui giochi dell’antichità, su come abbattere (in innumerevoli modi) quella sorta di «quarta parete» che si è andata creando tra reperti fuori da tempo e il presente della città, delle app da fare per il museo digitale, di microcredito sul modello di Lula per risistemare con iniziative dal basso gli enormi spazi vuoti e pericolanti della città vecchia… Mi parla anche di un progetto di street art sui miti greci da realizzare proprio sulle grige e smorte pareti del Muraglione. «Dal momento che per ora rimarrà lì, tanto vale renderlo un posto più vivo, proprio come fu fatto con il Muro di Berlino.»

Dopo aver visitato il primo piano del Museo, sono uscito nel gelo della prima vera domenica d’inverno. Nei paesi limitrofi, in Valle d’Itria, è già scesa la neve. Gironzolo un po’ per via Pitagora e per le vie del Borgo umbertino spazzata dal vento, quelle stesse strade che si stringono intorno al mio vecchio liceo, l’Archita, un palazzone rosso e tribunalesco al centro della città, oggi privo di vita perché trasformato in un cantiere sempiterno. Dopo aver scoperchiato il tetto dell’immobile ottocentesco in cui studiò anche Aldo Moro, lo hanno lasciato in balia delle intemperie. Taranto è una città sventrata, porosa, corrosa dai vuoti urbani. Ci sono le scuole in disuso e le aree dismesse della Marina, i vicoli della città vecchia in preda al degrado, intere file di palazzi sfitti nel Borgo, e poi cantieri bloccati nel tempo, vecchi hotel abbandonati e non più protetti dalle lamiere di cinta… Lo spopolamento sta afferrando anche il cuore nevralgico della città. Approfittando dell’assenza del traffico, prendo la macchina e faccio un lungo giro per le periferie, dai Tamburi fino a Paolo VI, l’estrema banlieue della città. Al volante, mi ricordo all’improvviso, di quando una volta un vecchio politico cittadino mi spiazzò confidandomi che Taranto, in realtà, è solo un’enorme periferia anonima e sgraziata: «Chiunque voglia governarla deve averlo bene in testa». A Paolo VI, dopo aver costeggiate le case del Cep, un tempo attraversate da una barbara guerra di mafia, mi fermo davanti a ciò che resta della Scuola Media Ungaretti. Qui mio padre ha insegnato per trent’anni, nella periferia della periferia, a due passi dalle ciminiere dell’Ilva. Ci stava da mattina a sera, la scuola è sempre stata per lui un luogo aperto a tutti, non solo ai ragazzi, ma anche ai genitori dei ragazzi e all’intero quartiere, ben al di là delle ore di lezione. Aveva fatto anche un orto, e un laboratorio di scienza. Ora l’Ungaretti non c’è più. Dopo che mio padre è andato in pensione, la dirigenza scolastica ha deciso di accorpare le ultime classi rimaste in un altro plesso, privando così le «case bianche» del loro unico istituto scolastico. In poche settimane, il lavoro di trent’anni è stato saccheggiato e vandalizzato. Sono rimasto a lungo a osservare lo scheletro vuoto della scuola. Non è rimasta una sola porta, un solo vetro alle finestre, una sola tazza del cesso, una sola sedia, una sola lavagna, un solo infisso. Perfino i mattoni e il ferro sono stati famelicamente strappati. A poche centinaia di metri da qui sorge l’Ospedale Nord, da cui si abbraccia in un unico sguardo tutta città, i due mari, il porto, le ciminiere del siderurgico. A settembre vi ho accompagnato mio padre per il primo giorno di chemio. Alessandro Leogrande

Alessandro Leogrande è vicedirettore del mensile Lo straniero. Collabora con quotidiani e riviste e conduce trasmissioni per Radiotre. Per L’ancora del Mediterraneo ha pubblicato: Un mare nascosto (2000), Le male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali (2003; ripubblicato da Fandango nel 2010), Nel paese dei viceré. L’Italia tra pace e guerra (2006). Nel 2008 esce per Strade Blu Mondadori Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud (Premio Napoli-Libro dell’anno, Premio Sandro Onofri, Premio Omegna, Premio Biblioteche di Roma). Il suo ultimo libro è Il naufragio. Morte nel Mediterraneo(Feltrinelli), con cui ha vinto il Premio Ryszard Kapuściński e il Premio Paolo Volponi. Per minimum fax ha curato l’antologia di racconti sul calcio Ogni maledetta domenica (2010).

Alessandro Leogrande: dalle macerie, scrive Massimo Marino il 4 ottobre 2018 su Doppio Zero. Chiuse le pagine del libro, Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale, la scomparsa del suo autore Alessandro Leogrande, morto a soli 40 anni, ci appare ancora più dolorosa e il vuoto intellettuale che ha lasciato ancora più incolmabile. Si tratta di un’opera postuma, con la prefazione di Goffredo Fofi e la cura di Salvatore Romeo, che ha raccolto parti di un libro di qualche anno fa, articoli scritti per vari quotidiani, principalmente il “Corriere del Mezzogiorno”, e per vari periodici, saggi usciti sulla rivista “Lo straniero” di cui Leogrande è stato vicedirettore, interventi a convegni e altri pezzi sparsi. Tutti sono unificati dall’oggetto, Taranto, nei suoi molti aspetti e contraddizioni, caso nazionale, metafora di uno sviluppo malato del Paese, di vari fallimenti della questione meridionale e della politica in generale. Leogrande amava la sua città tanto da scrutarla con gli strumenti dell’inchiesta e della riflessione sociale e politica in ogni suo aspetto, appariscente e nascosto. Lo snodo della sua indagine sono gli anni novanta, che decretano il fallimento dell’industria di stato e la privatizzazione dell’Ilva, rivelano una grave crisi occupazionale, portano a maturazione una deriva urbanistica e processi di impoverimento e disgregazione generali. Sono gli stessi tempi che vedono salire al potere cittadino, parallelamente all’ascesa di Bossi e Berlusconi in Italia, il populista ex picchiatore neofascista Giancarlo Cito. Sono gli anni dell’esplosione definitiva di un agglomerato urbano sempre costretto tra confini angusti: fino a dopo l’Unità d’Italia in quelli dell’isola, la parte più antica; nel novecento nel Borgo, disteso tra l’Arsenale che toglie a Taranto la vista del Mar Piccolo, serrato dietro un lungo muraglione che protegge un’ampia zona della Marina Militare, e le ciminiere dell’Italsider, poi Ilva, a nord. Nel 1975, in coincidenza con i progetti di raddoppio del Centro Siderurgico, erano iniziati i crolli di palazzi malsani della città vecchia, con il conseguente abbandono di gran parte dei suoi tradizionali abitanti, deportati nelle nuove periferie, Paolo VI e Salinella, zone di costruzioni prive di servizi, di punti di socialità, di speranze. Una “città groviera”, come la definisce il nostro osservatore, con lunghe file di cartelli di “vendesi” o “affittasi” nello stesso Borgo umbertino, con la città vecchia ridotta a un fantasma che ogni tanto qualcuno sogna di rivitalizzare. Il libro è diviso in quattro parti. Anche se la struttura non è di Leogrande ma è dovuta al curatore, vi si riconosce l’approccio del ricercatore attivista scomparso, la stessa varietà di prospettive con cui guarda la deriva della sua città in Fumo sulla città del 2013 (Fandango) e nel giovanile Un mare nascosto del 2000 (L’àncora del Mediterraneo). Le quattro sezioni sono dedicate rispettivamente a Cito, alla “città-groviera”, all’Ilva e ai suoi miasmi, alla “tarantinità”.

Si incomincia con scritti sul fenomeno Cito, dal significativo titolo di Citismo, autobiografia di una città. Come il fascismo, come il berlusconismo, Cito non è un incidente: il telepredicatore – proprietario di una tv privata che usa come tribuna e come clava per sbraitare contro comunisti, neri, zingari, gay – è sindaco dal 1993 al 1996, ma rimane molto più a lungo sulla scena politica: riempie buche nel manto stradale, riattiva fontane storiche in stato d’abbandono, emana qualche provvedimento, ma è solo belletto su un territorio urbano che affonda in problemi gravi. Distribuisce favori a differenti strati sociali per creare consenso e clientele. È colluso con la vecchia politica e con la malavita (Cito fu indagato e condannato per associazione esterna di stampo mafioso). Per analizzare il fenomeno, Leogrande torna anche alle considerazioni meridionaliste di Tommaso Fiore, che ai tempi del fascismo rivendicava la necessità di puntare sul decentramento e sull’autonomia locale, “come limite all’azione di uno Stato centralizzato”. Leogrande nell’articolo La Taranto di Cito così uguale a quella di Tommaso Fiore, nel senso di un luogo pieno di povertà e di distante disincanto dalla cosa pubblica, rivela alcune fonti d’ispirazione del proprio lavoro di ricerca e analisi nelle opere di Fiore, Dorso, Salvemini. D’altra parte, avanza la questione che intesserà tutta la riflessione del libro: per affrontare il problema del Sud e colmarne i ritardi l’intervento statale non è eliminabile, ma “non può non valorizzare il momento locale, altrimenti a essere favoriti saranno sempre i rappresentanti locali del potere centrale di turno, in un processo che impone verticalmente ciò che si dovrebbe produrre orizzontalmente (da qui il fallimento della Cassa del Mezzogiorno)”. Leogrande affina il confronto col pensiero meridionalistico classico con altri strumenti: il gusto per la verifica sul campo, per strada, nei luoghi, sentendo il polso palpitante della città; la convinzione che la politica, la buona politica, può costituire ancora un mezzo di dialettica e di affrancamento se guidata da impegno, etica, desiderio del bene comune; la capacità di smontare la complessità con acribia critica e chiarezza giornalistica, per farla cogliere in tutte le sue connessioni. Il tutto con uno stile appassionato, da grande scrittore, capace di destreggiare dati e di illuminarli con il proprio coinvolgimento e con uno sguardo diretto alle persone e alle loro sofferenze. 

La seconda sezione del libro è dedicata alle trasformazioni urbanistiche e umane di una steel town in cui l’industria siderurgica è stata salutata agli inizi degli anni sessanta come il rimedio unico alla disoccupazione, fino a un raddoppiamento dello stabilimento che è arrivato a impiegare 21.000 operai. Dopo c’è stata la crisi, e nel 1995, in pieno citismo, la privatizzazione con la vendita ai Riva (e la riduzione dei dipendenti a 10.000). Lo sviluppo urbanistico, abnorme, sregolato di Taranto ha seguito queste fasi, senza ascoltare gli appelli di intellettuali come Bassani o Argan che chiedevano di far rivivere la città vecchia. La risposta è stata l’abbandono dell’isola ai crolli e allo spopolamento, mentre ogni tanto qualcuno inventava improbabili progetti di trasformarla in una specie di Disneyland della Magna Grecia. Si sono moltiplicati i quartieri dormitorio, luoghi di disoccupazione, sradicamento, delinquenza; con migliaia di cittadini costretti a vivere sotto le emissioni delle ciminiere. Dopo Cito il saccheggio è continuato con un governo di centrodestra che ha lasciato un buco di svariate centinaia di milioni di euro.

La terza parte del volume, finalmente, affronta il mostro più volte evocato sullo sfondo: il centro siderurgico, dagli inizi sotto l’ombrello dell’intervento statale fino alla privatizzazione di Riva, che trasforma la fabbrica in caserma, in luogo di obbedienza per la produttività (memorabili sono alcune interviste sulla situazione a reticenti operai timorosi di ritorsioni e la descrizione della Palazzina Laf, luogo di punizione di reprobi, rompiscatole e sindacalisti combattivi, lasciati per otto ore a non fare niente in locali simili a un confino). Arrivano gli studi sull’inquinamento e sui suoi danni alla salute e i decreti della magistratura del 2012 che scoperchiano connivenze e impongono misure che porteranno all’estromissione di Riva e al commissariamento. Leogrande non ha potuto vedere gli ultimi sviluppi della situazione. Si ferma alla gara cui concorrono i gruppi ArcelorMittal e Jindal, che si contendono la proprietà, con alcune interessanti notazioni sui rispettivi impegni a produrre, che comportano diversi gradi di inquinamento. Sul conflitto lavoro/salute, che appassiona una Taranto ferita profondamente dai tumori e da altre malattie da anni ormai, con prese di posizione estreme, Leogrande si è speso molto. In dissenso con l’ambientalismo fondamentalista, ha cercato una strada che potesse contemperare le esigenze, conscio che la chiusura della fabbrica non si sarebbe potuta sostituire con altre attività produttive, capaci di riassorbire quel nuovo gruppo sociale amplissimo che si era formato, definito da Walter Tobagi nel 1979 di “metalmezzadri”, contadini e paesani prestati alla produzione dell’acciaio. 

La quarta parte del volume si interroga su un tema molto di moda, l’identità. Analizza miti e fantasmi di una città che cerca di ricostruire, continuamente, da Cito in poi, un immaginario collettivo che la tuteli da una realtà sfrangiata, complessa, devastata. L’identità è il sogno degli alienati, che inventano la discendenza da antenati spartani, o venerano come santo o eroe il centravanti morto in un incidente che avrebbe potuto portare la squadra di calcio in serie A. E, mitizzandola, travisano la realtà: proprio come avviene per la Notte della Taranta, sballo felicità libertà basati su un rituale che “parlava” di miseria, malattia, soggezione. Alle spalle dei discorsi sulle identità aleggia una questione stringente: potranno il turismo, la consapevolezza e un nuovo uso delle ricchezze storiche sostituire la grande fabbrica? Problema dilagante, in un’Italia della crisi produttiva, pronta a stravolgersi e affollarsi in modo dissennato per il nuovo “oro”, il turismo, la (s)vendita del patrimonio, della memoria.

Anche grazie a momenti di racconto rapinosi, Taranto nelle pagine di questo libro appare un cumulo di macerie molto simile all’Italia del fallimento del futuro e della politica tradizionale, l’Italia dell’antipolitica, della dismissione industriale, della fiducia sregolata in un terziario senza progetto, governata da ceti politici che tirano a campare per fare agire vecchi privilegi. L’Italia in cui l’intervento dello Stato, invece di servire a stimolare energie e a rendere autonome le realtà locali, diventa distribuzione di prebende, favori, clientela, collusione, arricchimento privatistico, disprezzo dei territori. Taranto “sventrata, porosa, corrosa dai vuoti urbani”, Taranto schiacciata tra la Marina Militare e l’Ilva, nel dilemma tra fabbrica e salute, tra riforma della fabbrica e nuove fonti d’investimento, ha bisogno di uno scatto: “Oggi, credo, dobbiamo riappropriarci della categoria dell’utopia. Non è possibile raccontare il presente senza presagire un suo sovvertimento; non è possibile afferrare l’alienazione del lavoro senza poi andare a raccontare tutto ciò che – individualmente e collettivamente – preme per il suo ribaltamento”. Questo, mi sembra, il pensiero guida di saggi e articoli. La situazione è complessa, ma forse qualcosa può mutare ritrovando i fili di un discorso collettivo, ridando spazio alla discussione, al confronto, all’organizzazione dal basso. Qualche nuova strada si potrebbe trovare con un intervento dello Stato che metta in moto energie locali, con un tipo di produzione che punti a diversificarsi per ridurre la dipendenza dall’acciaio e l’inquinamento. Sarebbe necessario inserire la fabbrica in un generale processo di ricerca di altre fonti di produzione, bonificare l’ambiente… 

Leogrande indica per via etica la necessità di un nuovo cittadino, che possa iniziare ad affrontare le questioni e provare a risolverle, trasformandosi, attraverso un impegno personale e collettivo, in fattore attivo di cambiamento. Su questo squarcio d’utopia, parola che nel nostro autore sta a significare un futuro da costruire con fatica e impegno, giorno per giorno, si distendono nel libro in certi momenti cieli plumbei. “Approfittando dell’assenza del traffico, prendo la macchina e faccio un giro per le periferie, dai Tamburi fino a Paolo VI, l’estrema banlieue della città. Al volante, mi ricordo all’improvviso di quando una volta un vecchio politico cittadino mi spiazzò confidandomi che Taranto, in realtà, è solo un’enorme periferia anonima e sgraziata”. Si inoltra nel quartiere Paolo VI, dove il padre ha insegnato per trent’anni, “nella periferia della periferia, a due passi dalle ciminiere dell’Ilva”, in una scuola che ora non c’è più: “Non è rimasta una sola porta, un solo vetro alle finestre, una sola tazza del cesso, una sola sedia, una sola lavagna, un solo infisso. Perfino i mattoni e il ferro sono stati famelicamente strappati». E conclude, con un colpo al cuore del lettore: “A poche centinaia di metri da qui sorge l’Ospedale Nord, da cui si abbraccia in un unico sguardo tutta la città, i due mari, il porto, le ciminiere del siderurgico. A settembre vi ho accompagnato mio padre per il primo giorno di chemio”.

Leogrande, conscio dei problemi sanitari (tutto da leggere il suo dialogo con Mimmo Nume, presidente dell’Ordine dei medici), ha sempre creduto che della fabbrica non si potesse fare a meno. Magari contenendo l’uso degli altiforni a carbone e ricorrendo ad altiforni elettrici, per limitare l’inquinamento (era il piano del gruppo industriale sconfitto nella gara di vendita, Jindal). Investendo, coprendo le polveri (se ne parla dal 2012, senza avere tuttora fatto significativi passi in avanti). Rinnovando le relazioni industriali e l’organizzazione del lavoro, perché, oltre all’inquinamento, l’Ilva ha seminato la sua storia con qualche centinaio di morti sul lavoro. “Credo che ormai il luogo comune del “coniugare salute e lavoro” si sia ampiamente dimostrato un approccio inefficace quanto dannoso” dice Mimmo Nume, e Leogrande riporta. Continua il medico: “In realtà, se ci pensi, si continuano a misurare due valori tra loro incompatibili con un unico metro, mentre invece ciascuno di essi esprime grandezze differenti”. E conclude così: “Le coniugazioni spettano ad altri, ammesso che siano capaci di declinarle. Noi medici possiamo auspicarle, certo, a patto però che non siano mai espresse in termini di ‘rischio accettabile’”. Leogrande conclude che, qualsiasi sia il futuro, “Taranto deve comunque uscire dalla ‘monocultura siderurgica’”. Alla fine di questo articolo, Un’ostrica aperta sotto le ciminiere, sta il brano che ho citato prima, con il viaggio nella città fino all’Ospedale Nord, luogo di tante sofferenze.

Complessità. Sguardo retrospettivo alla storia. Inchiesta. Analisi. Dialettica politica. Organizzazione (dal basso). Scatto. Utopia. Questi sono i vocaboli sintesi che emergono da una lettura appassionante. Con momenti di lucido disincanto e pessimismo, come nell’articolo Malati a Taranto. Un caso di Stato del 2016, quando, commentando la decisione del presidente della Regione Puglia Emiliano di valutare se impugnare il decreto Ilva del governo Renzi, Leogrande, basandosi su un più che preoccupante studio del Centro salute e ambiente della Regione, scrive: “Se ‘quella’ produzione siderurgica non è trasformabile in modo tale che l’impatto sanitario venga sensibilmente ridotto (…), ogni percorso che tenga insieme diritto al lavoro e diritto alla salute apparirà sempre più irrealistico. (…) al di là del fatto che la fabbrica venga chiusa o trasformata, rimangono sul terreno questi dati sulle malattie che, tradotti in vita reale, segnano tanti drammi famigliari, tante silenziose lotte nelle corsie di ospedale o all’interno delle proprie case. E questa, comunque la si voglia interpretare, deve essere posta (o meglio, riproposta) con forza come una questione pubblica di interesse nazionale”. Come scriveva, un altro pensatore e uomo politico del novecento, ampiamente dimenticato? “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”: di una volontà dialettica, accogliente, indomita, come è stata quella testimoniata nella sua troppo breve vita da Alessandro Leogrande.

A Alessandro Leogrande “doppiozero” ha dedicato due ricordi, leggibili qui e qui. Negli ultimi mesi si è tornato a parlare, in varie occasioni, dei diversi aspetti della sua opera. A Tirana, per il suo impegno a documentare con un libro e con il testo di uno spettacolo di Koreja lo speronamento della nave Katër i Radës, carica di migranti, gli è stata dedicata una strada. Il sindaco di Taranto ha annunciato di volerlo fare anche nella sua città natale. Lector in fabula di Conversano, il Festival della letteratura mediterranea di Lucera, Materadio di Radio 3 hanno parlato di lui. Il festival dell’“Internazionale” a Ferrara, dal 5 al 7 ottobre, ogni giorno proietterà sue audiointerviste e, dopo un primo incontro avvenuto in settembre, è in preparazione un ciclo di conversazioni presso la libreria Laterza di Bari. E altro, ci auguriamo, sarà annunciato nei prossimi mesi. 

LA STORIA DEI QUARTIERI DI TARANTO. TAMBURI, TRA "CARUSENIDDE" E INDUSTRIA, scrive il 24.08.2013 tuttosporttaranto.com. Senza stare a scomodare "vates" del calibro di Virgilio ed Orazio, che tanto ebbero a decantare il fiume Galeso e la dolcezza dei luoghi ad esso attigui (argomento meritevole di una distinta trattazione), è possibile collocare gli albori della storia del rione Tamburi intorno alla prima metà del XVI secolo. E' il 1543, quando, sotto la direzione dell'architetto tarantino Marco Orlando, prendono avvio i lavori di costruzione di archi appositi (in numero di 203 e tuttora in parte visibili) per lo scorrimento delle acque dall'antico impianto del Triglio - probabilmente risalente al VII secolo- in città, attraverso un canale successivo. Proprio nell'etimo di matrice dialettale attribuito alla cisterna dell'acquedotto in questione - Tamburro - è possibile rintracciare la genesi del suo nome. E' fuori dubbio che proprio in virtù del rumore ivi provocato dall'acqua, del tutto simile al rullare di un tamburo, sia stato coniato detto toponimo. E' tuttavia ancora presto per poter parlare di un primo nucleo abitativo in zona, sino almeno alla metà dell'Ottocento. Non è affatto escluso, considerando l'esistenza di ulivi secolari e le varie tipologie di colture praticate-come testimoniato dal Gagliardo-, che nel periodo in questione vi siano presenti masserie ed edifici abitati da contadini, alcuni dei quali ridotti a ruderi. Soltanto agli inizi del XX secolo, per far fronte al sempre crescente numero di famiglie dei dipendenti ferroviari e degli operai dei Cantieri Tosi, vengono edificate le prime palazzine, alcune delle quali, benchè corrose dal tempo e dai fumi dell'Ilva, tutt'oggi mirabilmente ben salde al terreno (nella fattispecie, sulle vie Galeso e Mar Piccolo). L'area, sebbene urbanizzata, continua -come avviene ormai da tempo- ad essere meta privilegiata dei tarantini per scampagnate e week-end all'aperto (nonché i classici “carusenìdde”). E non solo. Sul finire degli anni '20, infatti, ecco apparire il culto per Sant'Antonio, con relative processioni e manifestazioni che coinvolgono tutta la cittadinanza: si tratta di una di quelle rare occasioni di 'movida' all'interno del nuovo rione. Eretta l'Italsider (in seguito denominata Ilva) e sloggiata una buona parte di abitanti della Città Vecchia, -conseguentemente alle precarie condizioni edilizie- il quartiere si espande più a nord, sino ad occupare una superficie di vaste dimensioni.

·         Taranto e la difesa del patrimonio naturale.

Statte, paradiso agricolo minacciato dall'Ilva: 750mila euro per un'indagine sugli inquinanti. Sara Ficocelli il 3 luglio 2019 su La Repubblica. Trentasei mesi per analizzare il rischio legato al consumo di prodotti da aree potenzialmente contaminate. Il sindaco: "Per bonificare servirebbero 6 milioni". Trentasei mesi di indagine per capire quanto sono inquinati l'aria e il sottosuolo di Statte, paese in provincia di Taranto famoso per gli ulivi e gli ortaggi, nella speranza che torni presto a sfruttare a pieno ritmo terreni fertili e buoni da coltivare: questo il cuore dell'accordo sottoscritto tra il Comune pugliese e Irsa, l'Istituto di Ricerca sulle Acque del Cnr, finanziato dalla Regione Pugliacon 750 mila euro di fondi Por Fesr 2014-2020 ("Interventi di bonifica di aree inquinate"). Le analisi interesseranno una superficie di 5.800 ettari di cui 313 di aree agricole, ovvero quelle dove potrebbero essere più alte le concentrazioni di microinquinanti - per lo più diossina - PCB, policlorobifenili, IPA e idrocarburi policiclici aromatici. "Si tratta di un tassello importante - spiega il direttore dell'Irsa-Cnr, Vito Felice Uricchio - che conferirà valore alle indagini e agli approfondimenti già effettuati in passato". L'indagine sul rischio sanitario associato al consumo di prodotti agricoli e zootecnici coltivati e allevati a una decina di km dall'Ilva, servirà a monitorare la concentrazione dei contaminanti nel suolo e a valutare se e in che misura questi sono presenti in radici, fusti, foglie e frutti dei prodotti. Obiettivo finale: comprendere cosa e come coltivare in sicurezza, scongiurando l'ingresso di queste sostanze nella catena alimentare, analizzando anche la qualità dell'aria e dell'acqua sotterranea in tutta l'area. "Stiamo lavorando per migliorare la situazione ambientale in una cittadina martoriata dalle discariche e dall'Ilva", spiega il sindaco di Statte, Francesco Andrioli. "Il nostro è un paese agricolo e dobbiamo aiutare gli agricoltori e dare loro un po' di respiro. Per bonificare tutto il territorio servirebbero 6 milioni di euro". Il progetto è realizzato con il contributo della Commissione Europea. Dei contenuti editoriali sono ideatori e responsabili gli autori degli articoli. La Commissione non può essere ritenuta responsabile per qualsivoglia uso fatto delle informazioni e opinioni riportate.

Chi ha certificato che la patologia tumorale del quindicenne tarantino è stata causata dalla diossina? Sulla base di quali evidenze? Giorgio Assennato su Il Corriere del Giorno il 30 Settembre 2019. Chi ha certificato che la patologia tumorale del quindicenne tarantino è stata causata dalla diossina? Sulla base di quali evidenze? i giornali, a partire dal Quotidiano e da La Repubblica, è sufficiente la sofferenza e il coraggio di una mamma colpita da una tragedia a riconoscere ipso facto il nesso di causalità. Ma se è così, perchè si continuano a organizzare dibattiti sul tema? Ero seduto accanto alla ministra Teresa Bellanova venerdì sera al dibattito della Fiom-Cgil a San Giorgio Jonico. Se avessi potuto interloquire avrei detto alla mamma del bimbo stroncato dal tumore queste parole: Di fronte al dolore di una mamma non possono esserci parole. Ricordo la notte straziante del giugno 1974 quando i pediatri del Policlinico mi dissero che non c’erano speranze per il mio neonato Mario, che non avrebbe superato la notte. Quello strazio, per fortuna miracolosamente rientrato il giorno dopo, è niente rispetto all’atroce sofferenza di una madre che ha perso un figlio quindicenne. Ma sento il dovere di esternare una mia esperienza personale. Nel periodo tra il 1979 e il 1981 ero consulente della Regione Lombardia per i problemi di Seveso, contaminata da diossina a livelli record. Piu volte, pur munito di tutti i dispositivi di protezione individuale, sono entrato nella zona A, la piu inquinata evacuata dai circa 730 abitanti. Poi tra il 2006 e il 2010 piu volte sono stato nel reparto di agglomerazione di Ilva, quello tristemente famoso per le emissioni di diossina del camino E305. Pochi mesi dopo, mi fu diagnosticata una leucemia linfatica cronica che attualmente è in remissione clinica. Avrei potuto associare la malattia alle mie esposizioni potenziali recenti e pregresse ma non l’ ho mai fatto perchè non c’ è nessuna base scientifica per poterlo fare, in assenza di dati biologici di esposizione. Ma più rilevante per il caso in questione che viene presentato come sicuro tumore da diossina c’e il dato epidemiologico sui 193 bambini affetti da cloracne a Seveso per l’incidente chimico del 1976. Cos’è la cloracne? Un’ acne causata da altissime concentrazioni di diossina. Come mai a Taranto non si sono mai verificati casi di cloracne? Perchè le concentrazioni ematiche di diossina erano altissime, diversi ordini di grandezza in più rispetto a Taranto. nei bimbi di Seveso. In uno studio del 1985, pubblicato da una rivista internazionale, evidenziai in quel gruppo di bambini cloracneici evidenti alterazioni del metabolismo lipidico e delle porfirine, certamente causate dalla diossina. Ma nel follow up epidemiologico condotto da 40 anni dal dr. Dario Consonni della Clinica del Lavoro dell’ Universita di Milano, non si sono mai verificati eccessi di patologie tumorali nella coorte dei bambini cloracneici di Seveso, pur esposti a dosi record di diossina. Ora chi ha certificato che la patologia tumorale del quindicenne tarantino è stata causata dalla diossina? Sulla base di quali evidenze?”. Per i giornali, a partire dal Quotidiano e da La Repubblica, è sufficiente la sofferenza e il coraggio di una mamma colpita da una tragedia a riconoscere ipso facto il nesso di causalità. Ma se è così, perchè si continuano a organizzare dibattiti sul tema? Lasciamo che la percezione soggettiva del rischio sia l’ unico elemento che impatti sull’opinione pubblica e consideriamo venduti e corrotti tutti quelli che osano fare domande di tipo scientifico. La prova di quello che ho scritto: quella sera in quel meeting ci furono due dibattiti con sei intervenuti. Ma i media non ne hanno parlato. L”unico messaggio che è passato è quello della “verità indiscutibile” di una mamma straziata dal dolore. L’Epistemologia del Lutto.

ANTEPRIMA: A "Presa Diretta" lunedì su RAI3 parlano l' Ad di Arcelor Mittal Matthieu Jehl e Michele Emiliano. Il Corriere del Giorno il 13 Ottobre 2019. Per il Vice Presidente e Amministratore Delegato di ArcelorMittal Italia, Matthieu Jehl “questo piano ambientale è il più ambizioso che avevo mai fatto come ArcelorMittal nel mondo intero. Quando arriveremo alla fine l’impatto ambientale di Taranto sarà il migliore di tutta Europa, questo lo dobbiamo dire chiaramente a tutti”. A che punto è la bonifica dell’impianto siderurgico più grande d’Europa, tra la necessità di tutelare la salute e quella di salvare i posti di lavoro? Due reportage per l’ultima puntata di questo ciclo di “PresaDiretta” a cura di Riccardo Iacona e Cristina De Ritis in onda lunedì 14 ottobre alle 21.45 su Rai 3. Con “VERTENZA ITALIA” il programma “PresaDiretta” attraversa la stagione delle vertenze industriali che agitano il mondo del lavoro. E lo fa con un reportage sull’ex Ilva di Taranto, oggi ArcelorMittal. A che punto è la bonifica dell’impianto siderurgico più grande d’Europa, tra la necessità di tutelare la salute e quella di salvare i posti di lavoro? Parla per la prima volta in televisione il Vice Presidente e Amministratore Delegato di ArcelorMittal Italia, Matthieu Jehl con un’intervista in esclusiva in cui spiega quali sono i piani dell’azienda per il futuro dell’impianto di Taranto, dice a chiare lettere  : “sulle emissioni siamo a posto. Il piano ambientale di Taranto è il più ambizioso al mondo. Senza tutela legale se andiamo via noi nessuno verrebbe qui. Questo piano ambientale è il più ambizioso che avevo mai fatto come ArcelorMittal nel mondo intero. Quando arriveremo alla fine l’impatto ambientale di Taranto sarà il migliore di tutta Europa, questo lo dobbiamo dire chiaramente a tutti”. “É molto importante che tutte le persone capiscano – sottolinea Jehl – che lavoriamo su tutti gli aspetti dell’ambiente: polveri diffuse, i camini per trovare soluzioni alle emissioni che arrivano anche sul suolo, sull’acqua. Lavoriamo su tutti i tipi di impatti che possono arrivare dalla nostra produzione”. Nel futuro dell’ex Ilva per il vice presidente di ArcelorMittal “Il principio è di abbassare al minimo le diossine, le polveri. La prima cosa che tutti devono capire è che questo di Taranto è il sito più monitorato di tutta l’Europa. E questo è importante anche per noi perché tutte le autorità possano verificare ogni giorno che dal punto di vista delle emissioni siamo a posto. In trasparenza lavoriamo con l’Ispra, con l’Arpa, con l’Asl”. Nella stessa puntata del programma in onda domani il Governatore Michele Emiliano esprime la sua idea (ben nota a tutti) sull’ex-ILVA : “ArcelorMittal è interessata alla fabbrica soprattutto per i clienti e per evitare che cada in mani di un concorrente. Il vecchio Governo avrebbe dovuto inserire nel bando la decarbonizzazione. Il piano ambientale dell’ex Ilva prevede la ricostruzione della fabbrica secondo le tecnologie dell’ 800, cioè a carbone. La stanno ricostruendo a carbone”. Il presidente della Regione Puglia rispondendo alle domande di Riccardo Iacona sull’acquisizione dell’ex Ilva da parte di ArcelorMittal sottolinea come “il piano ambientale a Taranto sia troppo poco“. “Evitano il PM10 ma le emissioni delle IPA e delle diossine rimangono quelle”, specifica. E anche se nei limiti di legge, Emiliano aggiunge che si tratta di “limiti che sono quelli delle emissioni che consentono alle fabbriche europee di funzionare a carbone. Se le facessimo funzionare con le tecnologie oggi disponibili – aggiunge – che sono quelle a idrogeno o a gas, i limiti potrebbero essere molto più bassi”. E sulla possibilità che ArcelorMittal se ne vada senza tutela legale, Emiliano ribadisce come da sempre abbia ritenuto “ArcelorMittal il peggiore degli acquirenti”. “È il principale produttore di acciaio europeo e uno dei più grossi del mondo. La fabbrica gli interessa soprattutto per i clienti e per evitare che cada in mani di un concorrente. Se noi quella fabbrica l’ avessimo venduta a chi si impegnava sin dal momento dell’ acquisto a decarbonizzarla e a farla funzionare con tecnologie diverse da quelle previste da quel piano oggi avremmo avuto un soggetto motivato perché sarebbe stata la sua unica base europea”. Il riferimento è alla Jindal South West, società indiana che in cordata con la Cassa depositi e prestiti, la Holding Delfin di Leonardo Del Vecchio ed il Gruppo  Arvedi di Cremona era interessata all’acquisto del siderurgico di Taranto. Emiliano aggiunge: “Il governo dell’epoca nel momento in cui l’ altro concorrente era disponibile al rilancio sul prezzo avrebbe dovuto consentirlo e avrebbe dovuto inserire nel bando la decarbonizzazione come un elemento se non obbligatorio almeno di miglioria dell’ offerta”. E sul futuro di Taranto senza l’ acciaieria, il governatore dice che “Se l’Ilva non fosse mai esistita Taranto sarebbe stata una città felice”. Matthieu Jehl risponde anche a Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, sulla necessità di avere un impianto più avveniristico decarbonizzato. “Come ArcelorMittal – ha detto  Matthieu Jehl – sono convinto al 100 per cento che la soluzione sulla decarbonizzazione la troviamo entro il 2050. Ci impegniamo a zero emissioni a livello europeo”. E Jehl spiega anche il perché di una data così lontana: “La nostra industria è a ciclo lungo. Quando tu fai un investimento su una acciaieria, non lo fai per due anni. Lo fai per 25 anni”. E sulla cruciale questione dell’immunità penale Matthieu Jehl è categorico: “l’immunità penale è un concetto che non esiste. Dobbiamo essere chiari su questo. Non abbiamo mai parlato di immunità penale ma noi siamo qui per risolvere problemi che arrivano dal passato. La tutela legale era prevista dal momento del contratto. Noi non possiamo essere responsabili dei problemi del passato. Fa parte delle ipotesi di base del contratto di affitto”. “La continuità della tutela legale del contratto è fondamentale – conclude –. Se andiamo via noi.

ArcelorMittal, amministratore delegato Jehl lascia, arriva Lucia Morselli. Lucia Morselli è membro del cda di Telecom. Ad annunciare il cambio l'azienda e fonti sindacali. La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Ottobre 2019. ArcelorMittal Italia annuncia che Lucia Morselli è stata nominata presidente del Consiglio di amministrazione e Amministratore delegato, con decorrenza odierna. Lucia Morselli sostituirà Matthieu Jehl, attuale presidente e CEO, che assumerà nuove responsabilità all’interno di ArcelorMittal. «Non esiste forse oggi in Italia una sfida industriale più grande e più complessa di quella degli impianti dell’ex Ilva. Sono molto motivata dall’opportunità di poter guidare ArcelorMittal Italia, e farò del mio meglio per garantire il futuro dell’azienda e far sì che il suo contributo sia apprezzato da tutti gli stakeholder». Così in una dichiarazione Lucia Morselli, nuovo presidente del Cda e Ad di ArcelorMittal Italia. Morselli - è detto in una nota di ArcelorMittal - è membro del consiglio di amministrazione di Essilor-Luxottica, Telecom Italia SPA, Sisal SPA e ST Microelectronics ed è un amministratore delegato di grande esperienza avendo ricoperto questa carica in numerose società, tra cui Acciai Speciali Terni Spa, Berco Group, BioEra Spa, Mikado Spa, Tecnosistemi Spa, Stream (Sky) Spa e Telepiù Group. Ha iniziato la sua carriera in Olivetti come assistente del CFO e ha poi trascorso cinque anni presso Accenture nell’ambito della consulenza strategica, prima di entrare in Finmeccanica come CFO nella divisione aeromobili. E' laureata in matematica a Pisa con dottorato di ricerca in fisica matematica presso l’Università di Roma e master presso l'Università di Torino (Business Administration) e l’Università di Milano (Pubblica Amministrazione Europea). «Siamo molto lieti di dare il benvenuto a Lucia come nuovo Presidente e CEO di ArcelorMittal Italia. Lucia è unanimamente riconosciuta come una business leader di grande esperienza che ha dato un contributo significativo all’industria italiana. La sua esperienza e le sue competenze saranno molto preziose per ArcelorMittal Italia nello sforzo di rendere l’azienda più sostenibile e di rafforzare il consenso sul futuro dello stabilimento di Taranto». Lo afferma in una dichiarazione Geert van Poelvoorde, CEO di ArcelorMittal Europe, Flat Products, commentando la notizia del cambio al vertice di ArcelorMittal Italia dove Lucia Morselli ha sostituito Matthieu Jehl nell’incarico di presidente del Cda e Ad. Jehl assumerà nuove responsabilità in ArcelorMittal. «Vorrei ringraziare Matthieu Jehl - spiega Geert van Poelvoorde - per l’importante ruolo che ha svolto nell’aiutare ArcelorMittal a stabilire la propria presenza in Italia. Sono stati compiuti buoni progressi, in particolare nell’implementazione degli investimenti ambientali e nel miglioramento dei processi di produzione, nonostante la difficile situazione esterna». «Abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi» prefissati sottolinea «con orgoglio» in una lettera ai dipendenti Matthieu Jehl lasciando la guida di ArcelorMittal Italia. Scrive di «alcune difficoltà che rimangono irrisolte» nel raggiungere «una posizione di  redditività sostenibile» ed «il consenso di tutti i soggetti istituzionali il cui supporto è necessario». Due «sfide» che ora  richiedono «un cambio di approccio": «Da qui la decisione di nominare Lucia Morselli. Sono sicuro che si dimostrerà un grande leader per il nostro team». «Gli obiettivi fissati al momento della mia nomina, nel 2017, erano chiari», scrive ai dipendenti Matthieu Jehl lasciando a Lucia Morselli il ruolo di ceo e presidente di ArcelorMittal Italia. «In primo luogo - si legge nella lettera - bisognava portare a termine le trattative con il Governo Italiano e le parti sociali, per completare l’acquisizione e iniziare il lavoro di turnaround dell’azienda. In secondo luogo, occorreva garantire l'attuazione del programma di investimenti ambientali, il più ambizioso programma di questo tipo mai intrapreso dal Gruppo. Infine, effettuare il turnaround dell’azienda integrandola nelle attività europee di ArcelorMittal, diffondendo le best practice e i processi operativi del nostro Gruppo». Sullo sfondo la complessa vicenda dell’acciaieria di Taranto. «A quasi un anno di distanza dal completamento dell’acquisizione», rileva quindi Jehl «posso guardare con orgoglio a quanto è stato fatto: abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi che ci eravamo prefissati, grazie a un duro lavoro e alla vostra dedizione. In particolare, quanto fatto fino ad oggi per la realizzazione del piano ambientale rappresenta il simbolo più chiaro ed evidente del cambiamento che abbiamo messo in atto e dei progressi che abbiamo realizzato». Obiettivi raggiunti ma «nel corso del nostro cammino abbiamo affrontato alcune difficoltà che rimangono irrisolte» scrive ai dipendenti Matthieu Jehl lasciando a Lucia Morselli il ruolo di ceo e presidente di ArcelorMittal Italia. «Eravamo fiduciosi nella nostra capacità di riportare ArcelorMittal Italia a una posizione di redditività sostenibile, ma tale operazione si è rivelata più difficile di quanto previsto inizialmente a causa del peggioramento delle condizioni di mercato che hanno contribuito a delineare uno degli scenari più complessi mai registrati dal 2009», rileva. «Inoltre, abbiamo incontrato difficoltà a ottenere il consenso di tutti i soggetti istituzionali il cui supporto è necessario per garantire pieno successo all’operazione. La caratura della sfida che abbiamo affrontato richiede infatti un ambiente operativo stabile, con tutti gli stakeholder allineati e impegnati al raggiungimento dello stesso risultato». «Trovare soluzioni a queste sfide è necessario se vogliamo ripristinare la stabilità delle nostre operazioni e garantire un successo che sia sostenibile».

JEHL AI DIPENDENTI: GUARDARE AVANTI CON FIDUCIA - E' stato un immenso privilegio lavorare insieme a Voi in questi ultimi due anni». Matthieu Jehl saluta i dipendenti di ArcelorMittal Italia, dopo una esperienza necessariamente focalizzata sul complesso dossier dell’ex Ilva di Taranto, con l’attenzione al rispetto per i lavoratori sottolineato dalla maiuscola di 'Voì ma anche con la confidenza e la cordialità del compagno di lavoro, firmandosi con il solo nome di battesimo. Nel merito, tra le righe, il messaggio appare di continuità, senza fratture, tra il percorso fatto con 'l'orgogliò di aver centrato i risultati prefissati e l’esigenza, ora, di un cambio di «approccio» per la necessità vincere due sfide: quella del mercato e quella del consenso. «Trovare soluzioni a queste sfide è necessario se vogliamo ripristinare la stabilità delle nostre operazioni e garantire un successo che sia sostenibile. Questo richiede un cambio di approccio: da qui la decisione di nominare Lucia Morselli come Presidente e Amministratore Delegato. Lucia porta con sé una significativa esperienza e competenza e sono sicuro che si dimostrerà un grande leader per il nostro team». «È stato un periodo - si legge nella lettera - nel quale abbiamo affrontato tante sfide, molte delle quali persistono anche ora, e abbiamo fatto numerosi passi avanti che non sarebbero stati possibili senza gli sforzi di tutti». «Per concludere, vorrei ringraziarvi per l’impegno profuso negli ultimi due anni. È stato il periodo professionale più impegnativo che io abbia affrontato, e per molti versi anche il più gratificante, considerando l’importanza e la portata delle sfide che abbiamo affrontato insieme. Molto è stato realizzato e molto c'è ancora da fare: ma tutti noi dobbiamo essere orgogliosi di ciò che abbiamo fatto insieme. E guardare avanti con fiducia».

Il documento integrale della Procura di Taranto su Arcelor Mittal, e le "fake news" dei soliti pennivendoli. Il Corriere del Giorno il 7 Ottobre 2019. Nel documento integrale trasmesso dalla Procura di Taranto alla Commissione Industria e Lavoro del Senato, che vi offriamo nella sua versione integrale, il procuratore capo Capristo, contrariamente a quanto qualcuno vorrebbe far credere, chiarisce la sua posizione. Ancora una volta ci tocca fare chiarezza per confutare le ideologie “sinistrorse” di qualche magistrato affidate ad uno dei soliti giornalisti “ventriloqui” che fanno la fila dietro la sua porta nel corridoio della Procura tarantina. E per farla vi pubblichiamo in esclusiva il documento integrale trasmesso dalla Procura di Taranto alla Commissione Industria e Lavoro del Senato. Probabilmente chi scriveva altre cose sotto la consueta “dettatura” non ha capito neanche cosa scriveva. Il procuratore capo Capristo, contrariamente a quanto qualcuno vorrebbe far credere, ha chiarito la posizione della procura tarantina: “Le condotte poste in essere in attuazione del Piano di cui al periodo precedente non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del Commissario Straordinario, dell’affittuario o acquirente e dei soggetti da questi funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”. Basta saper leggere il documento e soffermarsi su alcuni capoversi della lettera che il procuratore capo Capristo (e non il suo aggiunto Carbone) ha inviato al Senato: “Sicuramente corretta appare la modifica di cui al primo periodo del comma 6 ...”, “Consequenziale ed appropriata risulta poi l’introduzione al secondo periodo…..“, “Con riferimento alle modifiche introdotte nel terzo periodo è certamente utile, in armonia con quanto indicato nel secondo periodo, la specificazione chiara delle condotte coperte da esonero da responsabilità…. “, “Utile appare poi la disposizione che delimita temporalmente l’operatività dell’esonero da responsabilità per l’affittuario o acquirente….“, “In ultimo, decisamente da condividere risulta l’aggiunta del periodo “In ogni caso, resta ferma la responsabilità in sede penale, civile e amministrativa derivante dalla violazione delle norme poste a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori….” Il procuratore Capristo conclude il suo parere scrivendo ” In conclusione seppure risultano apprezzabili ed efficaci gli sforzi tesi a delimitare meglio l’ambito di operatività dell’esonero da responsabilità penale e amministrativa per i gestori dello stabilimento e loro delegati, desta qualche dubbio l’eliminazione di un termine breve per l’operatività della scriminante a favore di plurimi termini abbastanza ampi, e con un termine finale del 23.08.2023 assolutamente eccessivo” che dimostra il rispetto della Procura per la salute dei tarantini, e sopratutto per il rispetto della Legge da parte di Arcelor Mittal. L’informazione cari lettori per quanto ci riguarda è fatta di verifiche, di documenti, che spetta al lettore leggere ed interpretare non ai soliti ventriloqui e pennivendoli, pronti solo a soddisfare manie di protagonismo di qualcuno, o aiutare il proprio giornale a vendere qualche copia in più.

«Svolta verde? Tempi lunghi»: parla lo scrittore Angelo Mellone, difensore di un'idea industrialista del Mezzogiorno. Michele De Feudis il 06 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Come si fa a pensare a una nazione senza acciaio e una Puglia senza industria?». Angelo Mellone, tarantino trapiantato a Roma, dirigente Rai, è scrittore e saggista. Il suo ultimo libro, Fino alla fine. Romanzo di una catastrofe(Mondadori) ha in copertina gli altiforni di Taranto, mentre è autore di AcciaioMare (Marsilio), canto furente sull’industria che muore.

Mellone, lei è figlio di operaio (poi dirigente Italsider), che effetto le fa questa nuova inattesa crisi?

«Non sono sorpreso. Nel mio romanzo mi ispiro a “fatti veri che non sono ancora accaduti”, e per questo ipotizzo un epilogo doloroso per l’acciaieria. Pensavo di descrivere un futuro presente, e invece la storia è diventata un presente dispotico».

ArcelorMittal vuole lasciare Taranto.

«Era prevedibile. Si tratta della più grande multinazionale del mondo. Poteva avere solo due interessi: o produrre o fare in modo che non producesse lì un concorrente».

I livelli di produzione si sono andati riducendo mese dopo mese.

«Da sette anni l’Ilva viene bombardata. Ora perde terreno perché considerato uno stabilimento inaffidabile: tanti hanno rinunciato a dare commesse ad una fabbrica che non si sa se resta aperta domani».

Da qui arriva una incertezza generale.

«Taranto vale l’1,5 del pil nazionale, il 30% del pil pugliese, ma è stata trattata con superficialità dalle istituzioni, dalla politica, e dai movimenti ambientalisti che hanno diffuso una immagine mortifera della città, salvo poi voler scommettere sul turismo».

Il declino è inarrestabile?

«Taranto era la Milano del Sud ed è diventata la cifra del peggiore meridione piagnone e improduttivo, apocalittico».

I lavoratori?

«Dopo tante tribolazioni si sentono additati come assassini e sono sfiduciati. Ma non è vero che la fabbrica cade a pezzi: l’area a freddo è una eccellenza».

Il futuro della Puglia senza acciaio?

«Tutti affittacamere e camerieri per turisti. Utopia distorta. È una narrazione falsa: 200mila persone a Taranto camperanno di turismo culturale? La decrescita diventerebbe denatalità, fuga dei migliori».

Emiliano punta sulla decarbonizzazione.

«Può essere un pezzo della ambientalizzazione. Ma allora bisogna rivalutare il progetto Tap...»

Chi ha brillato per pressapochismo?

«Ci sono responsabilità storiche. Ci voleva un patto per l’acciaio pulito, ma al tempo dei social si insegue la soluzione immediata. Impossibile in questo caso. Costruire il futuro ambientalizzato della fabbrica richiede anni di impegno e il recupero dello spirito costruttivo di una città dell’innovazione. L’opposto dell’attuale laboratorio della paura».

Il punto (di Angelo Mellone). La mobiliazione globale bluff di Greta non incide sui territori. Pubblicato il 16 Marzo 2019 Angelo Mellone su Barbadillo. Greta Thunberg icona effimera e mondialista. Di ciò che ho imparato dalla politica so che le battaglie devono essere lunghe, radicate, partecipate e tangibili. I social hanno creato l’illusione di miliardi di persone che si mobilitano tutti assieme per una causa ma questo è: una illusione. Il raccontarsi che si è fatto qualcosa di buono mettendo un click o, oggi, elogiando gli studenti che hanno ‘scoperto la politica’ nel modo più vago e indolore possibile o, peggio, facendo prove tecniche del velleitarismo di queste manifestazioni “globali” sostenute e appoggiate dai media globali e dagli stessi poteri globali che tanto nulla possono tenere di iniziative come quella del fenomeno mediaticamente costruito e finanziato di Greta e delle Grete che spuntano con i loro cartelli.

Quando da ragazzi volantinavamo per l’Irlanda libera a Taranto stavamo solo dando soddisfazione al nostro narcisismo esistenziale, sai quanto gliene poteva fottere a Westminster… ecco, oggi mi è sembrato di vedere la stessa cosa, con un decimo di afflato ideale, perché manifestare contro il cambiamento climatico è quello che è, una battaglia globale e dunque inutile perché impossibile da condurre. Anziché fare queste menate, il venerdì si vada in giro a fare educazione ambientale e lotte di quartiere contro il degrado, e poi si sommino le migliaia di manifestazioni. Allora sì. Sennò ci resta la faccia di Greta ancora per un giorno e poi tutti a nanna fino al prossimo inutile global contest.

Quarta Repubblica 23 settembre 2019 Rete 4 Mediaset. "Oggi la grande industria è diventata un nemico emotivo. L'Italia deve produrre acciaio, che è il materiale più riciclabile. C'è la cultura del non fare in Italia."

Nicola Porro: Buona Sera “Fino alla Fine. Romanzo di una Catastrofe. Come stai? Benvenuto per la prima volta qua da noi, Io sono molto felice. Intanto hai scritto un libro molto coraggioso: “Fino alla fine. Romanzo di una Catastrofe”. Racconti l’Ilva di Taranto che per te è una cosa diversa rispetto a quella che è per noi per un motivo molto chiaro, lo vedete adesso il romanzo che veramente vi consiglio. Per quale motivo per te l’Ilva ha un significato diverso? E poi arriviamo alle cose di queste ore. Perché?

Angelo Mellone: Per quando ancora si chiamava Italsider, mio padre è stato uno dei  primi 25 assunti in quello stabilimento e qualche anno dopo mio padre e mia madre si sono conosciuti in quello stesso stabilimento. Io ho perso mio papà quando ero adolescente e per una malattia non estranea a causa di lavoro, ma quando scoppiò l’indagine, l’inchiesta della magistratura che portò poi al sequestro dello stabilimento, dell’aria a caldo dello stabilimento, io sono tra quelli che ha detto: non possiamo dimenticare, comunque, un storia grandiosa come la storia industriale del mezzogiorno.

Porro: Papà è morto per una malattia che potrebbe essere legata a quello che faceva e tua hai una posizione che è di un coraggio che poi nessuno potrà sindacarla per il semplice motivo che che…

Mellone: L’hanno fatta.

Porro: La tua posizione di figlio di una persona che è morta di una malattia così grave nello stabilimento di Taranto, Comunque non voglio neanche discutere chi lo contesta. Ma la cosa che io voglio discutere è un’altra.  Coma si combacia...è nel tuo romanzo, ma è anche nella tua esperienza personale: l’ambiente, che è il grande tema che tutti parlano oggi ….e lo sviluppo. Le due cose. Stanno insieme o bisogna chiudete l’Ilva, bisogna chiudere la Tap, bisogna chiudere le centrali?

Mellone: Intanto noi scontiamo, secondo me, l’assenza di un partito Verde. Per cui tutti parlano di politiche verdi, di sviluppo sostenibile. Il Tema grande, secondo me e quello che…e quello che noi chiamiamo industria pesante, che poi è quella che ha fatto grande l’Italia, la chimica, la metalmeccanica e la siderurgia. Da un lato le industrie, secondo me, fanno ancora poca responsabilità sociale. Le grandi industrie dovrebbero aprirsi al territorio, dovrebbero fare investimenti, dovrebbero dialogare. Dall’altro che cosa succede. Noi non parliamo più di operai, in televisione non si parla più di operai. Gli operai sono diventati ormai una cosa invisibile. L’industria non si vede più, la grande industria, e dall’altra parte però hai queste grandi cattedrali, questi giganti del passato, del nostro passato industriale che sono lì e che diventano spesso il nemico identificabile per chi? Spesso per delle minoranze che non sono ambientalisti, ma sono spesso estremisti dell’ambiente...

Porro: Quello che è definito populismo ambientale.

Mellone: Si chiama ambiental-qualunquisti. Il Nemico emotivo l'ho visto sul territorio.

Porro: L’Itali a deve avere l’Ilva?

Mellone: L’Italia deve avere una siderurgia che produca un acciaio pulito. L’acciaio è il materiale più riciclabile. Quindi noi facciamo la battaglia contro la plastica, però anche lì sulla plastica…la maggior parte di produttori della plastica monouso sono italiani, per cui bisogna fare le grandi riconversioni fino al 2040,  2050. Si fa l’acciaio, sosteniamo.

Porro: Che cos’è  l’ambiental-qualunquismo.

Mellone: E’ la cultura del no, della cultura del non fare e dell’opporsi a qualsiasi cosa che sia sviluppo industriale, però con delle contraddizioni.

Porro: Quali?

Mellone: Uno dovrebbe fare politica ambientale: centri storici chiusi, mobilità sostenibile, eco, bio, green e poi, magari, gli stessi che voglio la chiusura del siderurgico sono quelli che,  ne so a Taranto,  vogliono l’aeroporto a dieci chilometri. Mentre sappiamo tutti quanti che gli aerei scaricano addosso…, insomma, non precisamente rose e fiori. E qui ci sono delle contraddizioni pesanti, che però vengono esacerbate. Oggi i social che fanno: polarizzano. Si – no, mi piace – non mi piace. Non c’è un grigio e non ci sono i tempi.

Porro: Pd e movimento 5 stele però su questo vanno d’accordo.

Mellone: Il Pd è il partito sviluppista; i 5 stelle sono un partito che vogliono un’alternativa allo sviluppo. Io dico che nel mio romanzo il tema Industria – Ambiente distrugge un’amicizia perché uno vuole salvare l’acciaio e l’altro vuole gli vuole fare una battaglia. E finisce male la storia nel romanzo. Però io dico vogliamo far e l’energia pulita? C’è la Tap, il gas. Vuoi decarbonizzare la siderurgia? Devi importare il gas con il tubo e devi fare la Tap. Vuoi non andare in aereo, ma in treno? Benissimo. Però io a Taranto ci metto 6 ore per arrivare in treno, A Milano alla stessa distanza due ore e 50 e devi fare l’alta velocità. Vuoi non la plastica, allora l’acciaio che è un materiale più riciclabile, Allora facciamo l’acciaio pulito. Il Tema è:  Viva l’ambiente però mettiamoci d’accordo.

Angelo Mellone, Fino alla fine. Taranto, in un futuro prossimo. Dindo, Claudio e Valeria, detta Gorgo, hanno ormai passato i cinquant’anni. Si ritrovano a Taranto per partecipare al funerale di un vecchio amico. La piazza è piena di gente, e l’atmosfera è pesantissima, incattivita, lacerata, come si sono lacerati nel tempo i rapporti tra gli amici, tanto uniti in gioventù dalle comuni passioni, umane e politiche, quanto lontani e divisi oggi, sia per le strade diverse che hanno preso le loro vite, sia perché la loro amicizia si è frantumata contro il Siderurgico di Taranto, lo stabilimento più grande d’Europa: per alcuni la fabbrica va salvata a tutti i costi, perché non solo produce lavoro e benessere, oltre che acciaio, ma anche perché è un monumento insostituibile di memorie e di orgoglio operaio; per altri, invece, il Siderurgico è ormai solo il “Mostro” da chiudere, abbattere, cancellare, bonificare, perché con i suoi fumi avvelena e uccide. Fino alla fine è il racconto di sconfitte e tradimenti, di una generazione smarrita, incapace di invecchiare, e di un paese quasi al capolinea: mentre l’azione si svolge incessante, attraverso sapienti escursioni nel passato vediamo i quattro protagonisti crescere, cambiare, peggiorare forse, anche se l’usura della memoria, dei rapporti e della morale non li piegherà mai del tutto allo spirito del tempo. E assistiamo anche al cambiamento dell’Italia, ridotta a una comunità composta da una moltitudine di individui in retrospettiva, trasformata in nazione liquida, disillusa, spenta; un paese di partiti deboli e personalistici, dove l’ideologia ha lasciato il posto alla comunicazione, i partiti sono diventati proprietà privata di leader che hanno sostituito i militanti con i follower e la passione civile si è trasformata in una disperata forma di ultima resistenza all’omologazione. Fino alla fine è un romanzo tanto travolgente e originale quanto profondo e toccante, nel quale le vicende umane dei protagonisti si innervano in quelle del paese. Fino al pirotecnico finale, in un futuro che, forse, è già presente.

Angelo Mellone (Taranto, 1973) è giornalista, scrittore e capostruttura Rai. Editorialista e inviato di politica, cultura e costume per numerosi quotidiani nazionali, è autore e conduttore di programmi radiofonici e televisivi. Ha conseguito il dottorato in Sociologia della comunicazione all'università di Firenze e insegna Scrittura alla Luiss "Guido Carli" di Roma. Autore di diversi libri di saggistica, reportage e lavori teatrali, Fino alla fine è il suo quarto romanzo, dopo Nessuna croce manca (Baldini+Castoldi, 2015), Incantesimo d'amore (Pellegrini, 2016) e La stella che vuoi (Pellegrini, 2017).

Angelo Mellone: «Questa è una città da commissariare». Il nuovo libro natalizio, i druidi e il siderurgico. Intervista di Enzo Ferrari, Direttore Responsabile di Taranto Buonasera, domenica 17 Dicembre 2017. Il nuovo libro natalizio, i druidi e il siderurgico. Il giornalista-scrittore tarantino Angelo Mellone punge una certa Taranto “assistenzialista”. Ecco l’intervista realizzata dal Direttore di Taranto Buonasera Enzo Ferrari.

“La stella che vuoi” è il sequel di “Incantesimo d’amore. A distanza di un anno, sempre a Natale e sempre più fantasy.

«Sì, questo è un romanzo pienamente fantasy. L’elemento magico e la lotta tra bene e male sono preponderanti. I protagonisti sono due bambini che vivono nel mondo degli adulti: uno dal giorno dei morti del 2016 vede solo ombre, l’altra è l’ultima discendente delle streghe bianche. È il confronto tra tenebre e luce con un chiaro richiamo a quel che accade nel Signore degli Anelli».

Solo che non siamo nella Terra di Mezzo immaginata da Tolkien ma tra la gravina di Massafra, Alberobello, il bosco delle Pianelle…

«Questo gioco pagano mi permette di riannodare i fili della tradizione antecedente al Cristianesimo e di collocarla in queste terre che offrono come scenario la Valle d’Itria, Grottaglie, Martina Franca. Non ho fatto altro che rielaborare le nostre tradizioni popolari, il folclore, le superstizioni e ambientarle qui, da noi. Per scrivere un fantasy non c’è bisogno di andare lontano. In fondo i Druidi sono arrivati fino al Salento, la Cerva alla quale era intitolata l’attuale Madonna della Scala di Massafra, è un simbolo solstiziale. Per non parlare dei simboli sui trulli e della leggenda del mago Greguro e delle masciare. Intanto “Incantesimo d’amore” diventerà un film. Sarà prodotto dalla Sun Film e in questi giorni faremo i primi sopralluoghi per scegliere gli ambienti dove girare».

A proposito di ambienti, in “La stella che vuoi” ad un certo punto entra in scena anche il siderurgico.

«L’Ilva è un po’ come le caverne di Mordor. I tre folletti buoni vanno in Acciaieria per forgiare con l’acciaio la runa della luce e smascherare il maleficio».

E i tre folletti chi sono: Calenda, Mittal e Melucci?

«No, no. Nessun riferimento a loro. Ho solo voluto ricreare l’anima antica della nostra terra, quell’anima pura, spartana, che si batte contro chi crea conflitti e disastri. Sa che dico? Che la prossima Spartan Race andrebbe disputata proprio al siderurgico».

E anche questa risposta sembra metaforica…

«Purtroppo in questi anni si è sviluppato un dibattito lacerante. Si stima che la vertenza Ilva-Taranto, nel suo complesso, ci sia costata 16 miliardi di euro. Un danno enorme prodotto dal peggior meridionalismo e dalla peggiore grettezza culturale che una parte di Taranto ha sfoggiato in questi anni».

A quale Taranto si riferisce?

«A quella lagnosa, vitttimista, rivendicazionista e autolesionista della quale fanno parte pezzi di giornalismo e ambientalismo che con la loro propaganda continuano a fare un male devastante a Taranto».

Ce l’hai con gli ambientalisti.

«L’ambiente è un tema troppo serio per relegarlo a gruppi che hanno necessità di trovare qualcuno a cui aggrappare le loro lagne. Come io non sono industrialista, loro non sono ambientalisti. Ci sono vie di Roma – lo dicono i dati dell’Istituto Superiore della Sanità – che hanno valori di inquinamento superiori a quelli di via Machiavelli, ai Tam buri. Eppure a Roma nessuno si è mai sognato di far girare manifesti che ritraggono i bambini con la maschera antigas. In quei manifesti c’è tutta l’impotenza culturale di questi della paura. Giocare sulla pelle dei bambini è una operazione indecente, folle, terribile».

Credi che riusciremo ad uscire da questa vertenza così lacerante?

«La vertenza si risolverà, nonostante la minoranza urlante, la borghesia inutile, l’inesistente classe dirigente della città. Io mi auguro che alla fine si possa davvero arrivare all’ambientalizzazione dello stabilimento e alla bonifica del territorio. Ma se la vertenza si risolverà sarà sempre per un intervento esterno, non per ciò che la città è in grado di produrre».

Vuoi dire che Taranto da sola non riuscirà mai a farcela?

«Taranto è una città di proprietà dello Stato. Senza lo Stato resterebbe solo la borghesia inutile e parassitaria. E lo dico con dolore. Pensiamo che in oltre mezzo secolo di siderurgia non è mai nata una impresa di trasformazione dell’acciaio. Taranto andrebbe commissariata, non è in grado di governarsi, è vissuta sempre grazie all’intervento esterno e quando lo Stato ha cominciato a ritirarsi sono arrivati i dolori».

Però un risveglio esiste e qualche segnale incoraggiante arriva dalla valorizzazione di alcuni simboli della nostra cultura, come il Castello Aragonese e il Museo, non credi?

«Il Castello è stato rilanciato dall’ammiraglio Ricci, che non è di Taranto, e il museo ha ripreso a brillare con la nuova direttrice, che non è di Taranto. L’unica realtà tarantina che ha saputo emergere a livello nazionale è la Ionian Dolphin di Carmelo Fanizza.

Ora però arriveranno tanti soldi che, se spesi bene, potrebbero dare una luce diversa alla città.

«Mi auguro che questi fondi vengano gestiti da chi sa gestirli».

Taranto? “Questa è una città da commissariare”. Quello che i giornalisti…tarantini non hanno il coraggio di scrivere. Il Corriere del Giorno Lunedì 18 Dicembre 2017. Permetteteci di complimentarci con l’amico e collega Enzo Ferrari direttore del quotidiano Taranto Buona Sera , uno dei pochi giornalisti seri e capaci  in un deserto intellettuale e culturale come quello del giornalismo tarantino, per l’intervista odierna al collega tarantino Angelo Mellone, che anni fa ha avuto l’intuizione e la buona idea di trasferirsi anni fa a Roma per fare una carriera (in RAI) degna di essere chiamata tale. Angelo Mellone nella sua intervista dice delle verità, esprime dei concetti di cui condividiamo parola per parola, a partire dalla vertenza Ilva-Taranto, che nel suo complesso, sembrerebbe essere costata 16 miliardi di euro. “Un danno enorme prodotto dal peggior meridionalismo e dalla peggiore grettezza culturale che una parte di Taranto ha sfoggiato in questi anni“. “A quale Taranto si riferisce?” gli chiede Enzo Ferrari.  “A quella lagnosa, vitttimista, rivendicazionista e autolesionista – risponde Mellone – della quale fanno parte pezzi di giornalismo e ambientalismo che con la loro propaganda continuano a fare un male devastante a Taranto“. “Ce l’hai con gli ambientalisti” continua Ferrari. “L’ambiente è un tema troppo serio per relegarlo a gruppi che hanno necessità di trovare qualcuno a cui aggrappare le loro lagne. Come io non sono industrialista, loro non sono ambientalisti. Ci sono vie di Roma – dice Mellone – lo dicono i dati dell’Istituto Superiore della Sanità  che hanno valori di inquinamento superiori a quelli di via Machiavelli, ai Tamburi. Eppure a Roma nessuno si è mai sognato di far girare manifesti che ritraggono i bambini con la maschera antigas. In quei manifesti c’è tutta l’impotenza culturale di questi della paura. Giocare sulla pelle dei bambini è una operazione indecente, folle, terribile“. “Credi che riusciremo ad uscire da questa vertenza così lacerante?”  “La vertenza si risolverà, – risponde Angelo Mellone – nonostante la minoranza urlante, la borghesia inutile, l’inesistente classe dirigente della città. Io mi auguro che alla fine si possa davvero arrivare all’ambientalizzazione dello stabilimento e alla bonifica del territorio. Ma se la vertenza si risolverà sarà sempre per un intervento esterno, non per ciò che la città è in grado di produrre“. “Vuoi dire che Taranto da sola non riuscirà mai a farcela?” domanda Enzo Ferrari. “Taranto è una città di proprietà dello Stato. – risponde Mellone –  Senza lo Stato resterebbe solo la borghesia inutile e parassitaria. E lo dico con dolore. Pensiamo che in oltre mezzo secolo di siderurgia non è mai nata una impresa di trasformazione dell’acciaio. Taranto andrebbe commissariata, non è in grado di governarsi, è vissuta sempre grazie all’intervento esterno e quando lo Stato ha cominciato a ritirarsi sono arrivati i dolori” che rispondendo alla domanda  “qualche segnale incoraggiante arriva dalla valorizzazione di alcuni simboli della nostra cultura, come il Castello Aragonese e il Museo non credi ?”  conclude ricordando qualcosa che ai tarantini sfugge “Il Castello è stato rilanciato dall’ammiraglio Ricci, che non è di Taranto, e il museo ha ripreso a brillare con la nuova direttrice, che non è di Taranto. L’unica realtà tarantina che ha saputo emergere a livello nazionale è la Ionian Dolphin di Carmelo Fanizza”. Un pò poco per sperare in un risveglio socio-economico-culturale della città di Taranto.  Marco Travaglio in un suo intervento al concerto tarantino del 1 maggio  disse che “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”.  Una sacrosanta verità. Il problema è che ancor prima di comprare i giornali, si sono comprati con quattro soldi i giornalisti. Quasi tutti. A partire da qualcuno che infatti è “specializzato” nel pubblicare interviste su commissione, rigorosamente in ginocchio (come scrisse tempo fa il Nuovo Quotidiano di Puglia) , qualcuno che predilige occuparsi di “monnezza”. La sua specialità…

Povera la mia Taranto: distrugge il suo futuro uccidendo le industrie. I veleni hanno ormai annientato la città. E la miopia degli ambientalisti boicotta il rilancio. Angelo Mellone, Domenica 17/11/2013 su Il Giornale. Taranto a novembre si regala una tramontana che spazza il cielo da ogni nuvola e fa apparire i monti calabri a un tiro di schioppo. Il lungomare della città sfodera un tramonto dove è possibile contare almeno dieci sfumature di colori. Questa è la bellezza incredibile dei tramonti tarantini, accucciati tra il castello Aragonese e le due isole che proteggono la città dalla forza delle maree. Solo che nel quadro di colori surreale e surrealista, il lungomare è vuoto, e siamo in due, solo in due assieme un vecchietto con la canna da pesca, a farci compagnia sotto la statua del Marinaio. Alle spalle di questo vuoto di anime c'è il palazzo dell'Ammiragliato, storica e secolare istituzione tarantina: è notizia fresca che sarà trasferito a Napoli. Una collega, sconsolata: «Non siamo su Scherzi a parte ma poco ci manca»: la flotta e l'arsenale tarantini ridotti a succursale dell'isoletta di Nisida, sotto Posillipo. Incredibile. La partenza dell'Ammiragliato, in fondo, è come amputare uno dei due polmoni identitari di quella che è ancora la capitale industriale e militare del Mezzogiorno: seppur ferita, spaventata e violentata da una micidiale saldatura tra i danni dell'industrializzazione e una campagna autodistruttiva di immagine che l'ha ridotta mediaticamente a un inferno di diossine e malattie. Comincia qui questo reportage involontariamente stralunato, perché basta fare pochi passi lungo il canale navigabile e osservare, ancorato nel porto militare di Mar Piccolo, l'incrociatore Vittorio Veneto, un pezzo storico, in disarmo, della nostra flotta. Fa strano sapere – un misto di dolore e rassegnazione – che la sua trasformazione in museo storico, progetto da 15 milioni di euro, sarà realizzato, ma a Trieste o a Genova: a Taranto no. Non ci sono i soldi. Gli enti locali tacciono. Sono presi da altri problemi, ultima dei quali la raffica di avvisi di garanzia che la magistratura ha distribuito con generosità ai vertici della classe politica locale, accusata di aver chiuso più di un occhio di fronte alla violazione ripetuta delle norme ambientali da parte dell'Ilva. Ci mancava solo la diffusione di una telefonata tra il presidente della Regione Nichi Vendola e l'ex capataz delle relazioni istituzionali Ilva, Girolamo Archinà, per accelerare ulteriormente il ventilatore che sparge letame sui ruderi di una classe dirigente. Taranto resta la più grande città operaia italiana ma una frazione di cittadinanza ha ormai deciso che l'industria va espulsa da Taranto. Il governo, e la maggioranza silenziosa della città la pensano diversamente, nessuno degli ambientalisti è mai riuscito a spiegare oltre gli slogan in cosa consisterebbe la «riconversione» della città, ma intanto la deindustrializzazione procede per inerzia, persino nelle frontiere della green economy. Mesi fa gli emissari di Rotterdam, arrivati a Taranto per studiare la possibilità di una joint venture a trazione industriale con il porto tarantino, che ha le potenzialità retroportuali più profittevoli del Mediterraneo, sono scappati a gambe levate. Poche settimane fa ha chiuso i battenti la Vestas, multinazionale del fotovoltaico che produceva le turbine per le pale eoliche, e 120 operai sono stati lasciati a casa. Il gruppo Marcegaglia dal 31 dicembre lascerà a casa 140 lavoratori che qui fabbricavano pannelli coibentati e fotovoltaico. Mentre la pluripremiata proprietaria dell'hotel Arcangelo mi prega di scrivere che a Taranto si può fare buon turismo, comprendo che ormai la polvere rossa sputata dallo stabilimento non ha intossicato solo i corpi. «La città va risanata anche nelle coscienze», mi confida un assessore comunale. E ha ragione. Si respira una cattiva aria di contrapposizione e di risentimenti, a Taranto. Odio, paura, un linguaggio di sospetto e di violenza. Qualche giorno fa i ministri dell'Ambiente e della Salute, Orlando e Lorenzin, sono stati accolti dal grido «assassini», accusati da una minoranza livorosa in cui coabitano l'operaismo desindacalizzato e il populismo ambientalista. I contestatori pretendono un «risarcimento» che in altre parole significa fiumi di denaro pubblico distribuiti per coprire l'agonia in punto di morte delle acciaierie e il collasso dei livelli occupazionali. Nessuno che si chieda, nel frattempo, come mai non c'è una sola azienda tarantina che produca manufatti con l'acciaio dell'Ilva. Un paradosso che racconta molto di più delle statistiche terribili sui tumori. La sfiducia verso un'Ilva ecocompatibile è in alcuni casi gridata, in altri conchiusa nel solito scetticismo silenzioso dei meridionali. Eppure è l'unica reale speranza per evitare che la città, che dieci anni fa ha fatto bancarotta tra gli scandali, diventi una Detroit italiana, violentata nella memoria collettiva e sequestrata da un futuro di nuova emigrazione massiccia. La città convinta di essere «il Nord del Sud», è un lontano ricordo. I tempi d'oro sostituiti dai compro-oro. Poli di buona occupazione come i call center di Teleperformance resistono, in un deserto sofferente. Chiudono negozi storici nella centrale via d'Aquino, la squadra di calcio infognata nei campionati di provincia. I bar vicini a Maricentro che non sono stati ingoiati dai cinesi offrono cappuccino e cornetto a 1 euro. I quartieri operai di cui con grazia e dolore racconta Mimmo Argentina nel Vicolo dell'acciaio (Fandango) sono silenziosi, in smobilitazione identitaria. Il turismo, balneare e culturale, è ancora chimera come le parole eccitate di chi assicura di sapere su quali fondali sta la mitica statua di Zeus, alta 18 metri, più grande e antica del colosso di Rodi. «Sarebbe un simbolo incredibile di lancio della candidatura», esclama. Magari non si dovesse ancora discutere dello sfratto dell'istituto musicale Paisiello, o della sorte del museo archeologico la cui ristrutturazione doveva essere conclusa sette anni fa. L'ipotesi di candidare Taranto a capitale della Cultura 2019 poteva essere, finalmente, un volano di buona mobilitazione di energie, idee e denari. Ma anche quest'idea, perseguita da una minoranza virtuosa di intellettuali, si è arenata nella bocciatura dei Beni culturali. Ci sono Lecce e Matera, invece, ancora in pista: alcuni erano convinti che la solidarietà meridionale avrebbe spinto queste città a convergere a sostegno di Taranto che, per tanti anni, aveva accolto manodopera da questi angoli del Sud. Evidentemente, avevano torto.

Angelo Mellone: “Quando mi presero a sassate..” Edoardo Sylos Labini il 05/11/2019 su Il Giornale Off. Classe 1973, tarantino doc, giornalista, scrittore, responsabile dei Progetti Innovativi di RAI Uno. E’ stato editorialista e inviato di politica, cultura e costume per numerosi quotidiani nazionali. Ha condotto programmi in radio e in tv. ll suo ultimo libro si intitola Fino alla fine, un romanzo travolgente nel quale le vicende umane dei protagonisti si innervano in quelle dello stabilimento più grande d’Europa, il Siderurgico di Taranto. Ama la Lazio, i figli e lo spezzatino in bianco: Angelo Mellone.

Sei da sempre considerato un intellettuale controcorrente, ma oggi si può parlare ancora di politicamente corretto?

«Il politicamente corretto è quella ideologia che ammazza il 50% della libertà. Fino alla fine è il mio quindicesimo libro ed è il mio quarto romanzo. Fino a 35 anni mi sono impegnato nella saggistica e poi ai romanzi: mi sono accorto che i saggi sono noiosi! Quindi W i romanzi, che sono più interessanti…»

Insegni alla Luiss: pochi giorni fa il professor Marco Gervasoni è stato cacciato per un tweet (Gervasoni è stato congedato dall’ateneo della Luiss, dove era titolare del corso di Storia comparata dei sistemi politici, in seguito a un suo tweet, dello scorso giugno, pubblicato sul suo profilo Twitter contro la nave Sea Watch, n.d.r.)

«Non si può allontanare nessuno per le sue idee. Marco Gervasoni è un grande e raffinato e intellettuale: io non avrei fatto quel tweet, ma è una scelta individuale. Il nostro mondo culturale in generale non ha ancora capito che chiamarsi fuori rispetto al presente storico e vivere rinchiusi nelle nicchie fa male, perché la realtà parla al contrario: la cultura di destra oggi non riesce a fare rete e quindi bisogna passare all’offensiva culturale. La mia più grande soddisfazione è stata la presenza di Edoardo Sylos Labini a Linea Verde a interpretare d’Annunzio al Vittoriale: per me è stata una piccola vittoria non perché si trattasse di un mio amico, ma perché era bello il suo d’Annunzio. Non è vero che la gente non voglia cultura: bisogna creare sempre cose interessanti, anche per un ragazzino di 14 anni, perché non esistono solo Instagram e Facebook».

Hai mai fatto qualcosa di politicamente corretto per poter lavorare e non essere considerato il solito avanguardista fuori dal coro?

«Vuoi la verità? No».

I tuoi libri sono sempre autobiografici e la tua città è sempre sullo sfondo: cosa vuol dire per te Taranto?

«Taranto è una città strana, è come due serpenti che si mordono la coda scambiandosi possesso e veleno. Era la Milano del Sud, l’unica città industrializzata del Mezzogiorno. Ospitava migliaia di operai ed è tuttora la città con le acciaierie più grandi al mondo. Secondo me Taranto è uno dei luoghi migliori in cui raccontare l’Italia».

Veniamo ai protagonisti del tuo nuovo romanzo, Fino alla fine, uscito da poche settimane proprio con Mondadori, dove i protagonisti sono dei cinquantenni incapaci di invecchiare.

«Sono quattro amici nati rivoluzionari e che ora si trovano di fronte a un grande dilemma. Uno di loro metterà in gioco la sua carriera politica, convinto che un paese senza acciaio non sia sovrano. L’altro invece crede l’Ilva vada distrutta. Nel romanzo c’è anche un personaggio femminile, l’unica donna fra loro quattro, che deve scegliere tra la fedeltà al fratello e la sua personale convinzione politica».

Da piccolo cosa pensavi che avresti fatto da grande?

«Volevo scrivere. Ho fatto il liceo classico e poi Scienze Politiche, con un master in Comunicazione. Il mio primo lavoro da giornalista è stato a 21 anni con Marcello Veneziani».

Qual è l’episodio più “off” che ti sia mai capitato?

«Intervistare Belen seminuda nel camerino dell’Ariston a San Remo! Ma ci sono anche episodi off meno piacevoli, come quando a una manifestazione dei centri sociali venni preso a sassate».

Cosa vuol dire essere di destra?

«Essere di destra vuol dire amare la terra dei padri».

I figli sono il senso della vita?

«Così tanto che fra tre mesi, dopo Jacopo e Marianna, sarò padre per la terza volta. Con Jacopo vado allo stadio a vedere la Lazio».

Hai fatto una battaglia per i padri separati, che non sono assolutamente tutelati dalle nostre leggi…

«Noi siamo la generazione di quelli che hanno causato l’ecatombe dei matrimoni. La legge dovrà aggiornarsi in questo senso. Si discuta dei diritti civili, ma fra i diritti civili ci sono anche quelli dei padri a cui sono stati tolti i figli: siamo nel 2019, ma la legge ancora non li tutela. Nel 2019 non è politicamente corretto aiutare i padri separati».

Quest’anno ti abbiamo visto in compagnia di Lorella Cuccarini nel programma Linea Verde Grand Tour..

«Lorella Cuccarini è la migliore con cui abbia mai lavorato».

C’é pluralismo oggi nell’azienda Rai?

«In nove anni di Rai non ho mai avuto una censura. Il pluralismo c’è quando lo sai creare e quando ci sono le idee, quando ci sono i giocatori in campo per farlo».

Nell’ambiente si dice che sei un latin lover… come seduci una donna?

«Le burratine di Andria mi hanno fatto fare sempre colpo sulle donne».

Uni dei nostri partner é Itinere, che cura la cucina e la gastronomia a bordo di Trenitalia: qual é il tuo piatto preferito?

«Il mio piatto preferito è lo spezzatino in bianco».

Il Sindaco Melucci: «Chiedo la massima severità nei riguardi di chi attenta al nostro patrimonio naturale». Taranto: diossina, cavallucci marini, oloturie e bracconieri. Il China Export di specie protette che parte dal mare inquinato di Taranto, scrive il 4 Marzo 2019 greenreport.it. Prima di partire per la Norvegia, dove il 3 marzo ha celebrato la giornata mondiale della fauna selvatica nel Parco Nazionale marino di Ytre Hvaller, il ministro dell’ambiente Sergio Costa ha scritto sulla sua pagina Facebook: «In queste ore sono arrivate da Taranto richieste di aiuto e di chiarimento su presunti picchi di diossina. Ho immediatamente allertato Ispra, parlato con il prefetto e partiranno dei controlli del Sistema nazionale di protezione ambientale sui dati Arpa. Per Taranto presto ci saranno ulteriori e belle novità». Il coordinatore nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, ha spiegato che Costa si riferisce ai dati dei deposimetri Arpa Puglia collocati nella Masseria Carmine, e poi ha attaccato il ministro: «Invece di commissariare Arpa Puglia, faccia fare i controlli che aveva promesso considerato che il sindaco ha chiuso le scuole di Taranto e gli elettrofiltri per bloccare la diossina sono danneggiati. Il ministro Costa si comporta come i suoi predecessori e come l’allora ministro Clini che di fronte alla nostra denuncia sui dati della mortalità, disse che erano falsi perché non validati tranne poi dover ammettere dopo poche settimane che i dati erano corretti. La dichiarazione di Costa è sconcertante perché avviene nel giorno in cui il sindaco di Taranto chiude le scuole e i sindacati di base denunciano i danni agli elettrofiltri con tanto di foto e video, ed è scandaloso che Costa tenti di minimizzare un gravissimo problema ed è altrettanto scandaloso che un ministro dell’ambiente abbia consentito che ad Arcelor Mittal fosse concessa l’immunità penale e civile». Ma il riesplodere dell’affaire diossina/Ilva ha fatto passare in secondo piano un’altra vicenda ambientale che a Taranto tiene banco da qualche giorno e che non è del tutto estranea alle bonifiche. Infatti, prima di chiudere per diossina le scuole De Carolis e Deledda al quartiere Tamburi, il Sindaco di Taranto Rinaldo Melucci sveva dichiarato che «Le immagini della cattura e dell’esportazione illegale di cavallucci marini ed altre specie protette dalla legge nel nostro Mar Piccolo hanno profondamente turbato tutti noi e l’Amministrazione ha avviato tutte le verifiche del caso».  Melucci si riferisce a quanto rivelato da Luciano Manna su VeraLeaks che ha pubblicato le foto di quello che sembra un mercato illegale cinese di cavallucci marini e oloturie pugliesi che utilizza l’app di messaggeria istantanea WeChat (Weixin). Mannaspiega che «Nella chat on line viaggia la reperibilità dei fornitori che contatta i propri clienti con tanto di indicazione dell’username da contattare per gli acquisti. Verso il mercato cinese viaggiano oloturie e cavallucci marini che vengono pescati nel mar Piccolo e nel mar Grande di Taranto provocando, così, un grave danno ambientale al nostro ecosistema marino. Un vero e proprio ecoreato. Nelle fotografie è possibile notare l’accuratezza nella presentazione del prodotto che viene mostrato in eleganti cadeaux dove sono ben indicate provenienza geografica per attestarne qualità e prestigio così come avviene in una vera e propria filiera certificata. Negli ideogrammi cinesi, ad esempio, oltre ai nomi dei prodotti, si legge la parola “Italia, Mediterraneo”». VeraLeaks denuncia che «La filiera volta all’export cinese si avvale di pescatori locali, tarantini, che vendono il prodotto ad un intermediario che a sua volta lo porta in una attività commerciale cinese che provvede all’inscatolamento e alla spedizione in oriente. La chat, sulla piattaforma Wechat che gode di ottimi sistemi di criptazione dei messaggi, viene utilizzata proprio per creare i legami, conoscenze e conseguenti affari tra questi intermediari. I volumi ed i guadagni sono molto alti. Per le oloturie si parte da un irrisorio guadagno di circa 80 centesimi di euro al chilogrammo, da parte del pescatore locale, ai 50 euro al giorno per chi provvede alla pulizia del prodotto che poi lo vende a 7 euro al chilo allo spedizioniere che a sua volta lo immette nel mercato cinese a cifre che vanno dai 200 ai 600 dollari al chilogrammo. Affari milionari generati da ecoreati che devastano il nostro già compromesso equilibrio marino». Il sindaco di Taranto ha ricordato che «Stiamo affrontando ancora grandi sfide ambientali e generazionali, è inspiegabile che ci sia anche chi attenta alla bellezza che abbiamo intorno, chi ferisce madre natura che, quasi da sola, sta rimediando alle ferite del nostro territorio, e tutto per pochi quattrini.  Non è un caso che per l’effigie del nuovo Ecomuseo della Paluda La Vela e del Mar Piccolo, tra le altre, si fosse scelta la riproduzione di un delizioso ippocampo. Era ed è la speranza che vogliamo coltivare insieme a tutti i nostri concittadini, specie i più giovani.  L’Amministrazione comunale metterà a disposizione dell’Autorità competente le eventuali informazioni del suo attuale sistema di videosorveglianza lungo la zona interessata e sta avviando il rafforzamento di questa rete di rilevamento, nel contempo predisponendo da subito servizi di controllo integrativi da parte della Polizia Locale. Dopo le denunce di Legambiente, Marevivo e di altre associazioni, il 27 febbraio 2018 è stato approvato un Decreto ministeriale sul divieto della pesca delle oloturie (fino al 31 dicembre 2019) e fino ad allora il pubblico ministero Mariano Buccoliero della Procura di Taranto aveva potuto agire contro i bracconieri e i trafficanti in base a  uno studio chiesto al CNR che dimostra la vitale importanza delle oloturie per l’ecosistema marino, anche per l’elevata capacità di questi echinodermi di depurare acque con notevole carica batterica, favorendone anche l’ossigenazione. Anche i cavallucci marini, protetti dalla Convention on International Trade in Endangered Species of wild fauna and flora (Citrs) e dalle convenzioni di Berna e Barcellona, svolgono una funzione fondamentale per l’ecosistema. Nonostante i blitz delle forze dell’ordine, con diverse persone denunciate e sequestri di tonnellate di specie pescate illegalmente, il traffico di cavallucci marini e oloturie pugliesi non sembra aver subito flessioni. Manna spiega ancora: «I clienti cinesi possono contare sull’organizzazione di diversi loro connazionali ben radicati nel territorio tarantino e che ancora oggi conducono traffici illeciti che puntano alla commercializzazione di oloturie e cavallucci marini. Queste specie sono molto richieste dal mercato della ristorazione asiatica: le oloturie, comunemente dette “cetrioli di mare”, verso il mercato di Hong Kong sono utilizzate per uso alimentare, medico e nel settore della cosmesi mentre i cavallucci marini vengono utilizzati nella produzione di un particolare liquore: il cavalluccio marino dopo essere stato posto dentro una bottiglia viene lasciato a macerare nell’alcool». La presidente di Marevivo, Rosalba Giugni, conclude: «Quanto accaduto rende ancora più evidente la necessità di estendere in via definitiva il regime di tutela delle oloturie. I cetrioli di mare sono fondamentali anche se spesso vengono considerati animali di serie B. La loro commercializzazione, così come quella dei cavallucci marini, è’ un eco-reato efferato che non può e non deve rimanere impunito. Le risorse del mare –sono un bene fondamentale per tutti e non un profitto per pochi». Nel 2014, Francesco Tiralongo e Rossella Baldacconi dell’università della Tuscia avevano pubblicato su Acta Ichthyologica Et Piscatoria lo studio “A conspicuous population of the long-snouted seahorse, Hippocampus guttulatus (Actinopterygii: Syngnathiformes: Syngnathidae), in a highly polluted Mediterranean coastal lagoon” nel quale sottolineavano la particolarità e la resilienza degli ippocampi tarantini: «I cavallucci marini sono considerati specie di pesci vulnerabili e in via di estinzione in molte parti del mondo. Abbiamo trovato una popolazione cospicua e stabile di Hippocampus guttulatus Cuvier, 1829 nel Mar Piccolo di Taranto (Mar Ionio), noto per il suo notevole inquinamento e le fluttuazioni dei parametri ambientali». Tiralongo e Baldacconi segnalavano alte concentrazioni sia di inquinanti organici (policlorurati bifenili, idrocarburi policiclici aromatici, diossine) che inorganici (metalli pesanti quali mercurio, zinco, rame, piombo e cadmio) e sottolineavano che «L’inquinamento è causata principalmente dalle attività industriali e militari: siderurgia, raffinerie, arsenale, cantieri navali, porto militare, e porto industriale». Ma facevano notare che «Nonostante la contaminazione, la comunità marina del Mar Piccolo è molto ricca e costituita da specie autoctone, alcune delle quali rare in altre parti del Mediterraneo, così come da specie aliene che hanno raggiunto il bacino per mezzo del traffico navale e dell’acquacoltura». I due ricercatori evidenziavano il paradosso di aver registrato la presenza di un popolazione abbondante di Hippocampus guttulatus in «una delle zone più inquinate e disturbate del mar Mediterraneo» e concludevano: «Vorremmo sottolineare l’importanza di questa laguna come importante area naturalistica e un rifugio per questa specie vulnerabile. I risultati del nostro studio dimostrano come questa popolazione di cavallucci marini si è ben adattata a questo ambiente particolare e mostra una netta preferenza di questi pesci per queste zone (..). Partiamo dal presupposto che l’abbondanza dei cavallucci marini è dovuta principalmente alla mancanza di pressione di pesca e ad una buona disponibilità di risorse alimentari. Purtroppo, i dati relativi all’interazione con le sostanze inquinanti non sono disponibili per questo area e sono necessari studi futuri per comprendere meglio il ruolo della protezione dell’habitat per i cavallucci marini e per migliorare le misure di protezione per la gestione e la conservazione delle specie». Per tutelare questi resilienti cavallucci marini, sopravvissuti a decenni di inquinamento, il commissario di Governo per la bonifica di Taranto, Vera Corbelli, ha adottato una serie di accorgimenti anche all’interno del progetto di risanamento del Mar Piccolo: ippocampi, pinne nobilis e altre specie protette sono state traslocati in aree non interessate ai lavori nel Mar Piccolo per il tempo necessario alla bonifica. Un progetto premiato dall’Accademia dei Lincei che ha richiesto un anno di lavoro ed unico nel suo genere per la quantità di animali interessati e per l’attuazione: cattura o espianto e ricollocazione in una stessa giornata per evitare stress alle diverse specie, temperatura dell’acqua non superiore ai 27 gradi, uso di vasche forate per il trasferimento, immerse in altre vasche con acqua di mare e provviste di pompe per il ricambio idrico costante, collarini di colore diverso, biodegradabili in acqua, per i cavallucci marini per poterli individuare. Un lavoro complesso e delicato che, vedendo le foto del traffico degli ippocampi tarantini in vendita in Cina, potrebbe essere stato già in parte compromesso dai bracconieri.

Fenicotteri, cavallucci marini e delfini: ecco la Taranto che resiste all’inquinamento, scrive Domenico Palmiotti il 7 ottobre 2018 su Il Sole 24 ore. Dici Taranto e l'immagine che più viene associata alla città è quella dei fumi dell’Ilva o delle polveri minerali che assediano il quartiere Tamburi, vicino alla fabbrica. E anche se l'Arpa Puglia asserisce da tempo che la qualità dell'aria a Taranto è migliorata perchè l'Ilva produce meno rispetto a sette-otto anni fa, prima della tempesta giudiziaria e dei sequestri, gli ambientalisti ribattono affermando che le polveri che sono nell'aria di Taranto hanno comunque una tossicità maggiore, e quindi più impattanti sulla salute dei cittadini, perchè di estrazione siderurgica. Sia chiaro: Taranto resta un'area critica sotto il profilo ambientale, forse più che per il presente, per i guasti del passato. E il risanamento è un'opera enorme che richiede tempo e risorse. Basti pensare che, ciascuno con una sua competenza, vi sono delegati un commissario di Governo, i commissari dell'amministrazione straordinaria dell'Ilva e il nuovo proprietario dell'acciaieria, Arcelor Mittal. Ma Taranto regala anche delle sorprese straordinarie. Con la natura offre segni di vivacità e reattività che fanno ben sperare per il futuro. Quantomeno indicano che non tutto, per fortuna, è irrimediabilmente compromesso. Dalla palude “La Vela” al Mar Piccolo e al Mar Grande, tra fenicotteri rosa, cavallucci marini e delfini (questi ultimi da anni attrazione turistica con le escursioni della Jonian Dolphin Conservation), viene fuori il quadro di un'altra Taranto. E stupisce il Mar Piccolo, dove si “specchia” un pezzo importante dell'acciaieria.

I fenicotteri rosa a Mar Piccolo. “Ci sono sempre stati” dicono Marco D'Errico e Fabio Millarte, rispettivamente responsabile scientifico e responsabile del WWF Taranto. “Il punto è che - commenta Marco Dadamo, direttore della palude “La Vela” - in questa stagione ne stiamo notando oggettivamente di più. Si sono create le condizioni ottimali perché i fenicotteri rosa si fermino e svernino in quest'area”. “Di recente - aggiunge D'Errico - ho contato 72 esemplari. Suppongo che andando oltre nelle settimane, possiamo contare una quota superiore a 100”. “Il fenicottero non é a rischio di estinzione, non è una specie da conservare - aggiunge Dadamo - ma è una specie bandiera. Da questa presenza traiamo due messaggi: che il Mar Piccolo di Taranto, sul quale la palude “La Vela” si affaccia, è uno scrigno prezioso di biodiversità e che la natura, nonostante le offese che le vengono arrecate, nonostante gli assalti che dispregiano l'ambiente, fa di tutto per proteggersi, rigenerarsi e creare delle condizioni ottimali. E quest'area si va sempre più configurando come un riferimento per l'avifauna migratoria e stanziale”. “Ma non facciamo della presenza dei fenicotteri una ragione per dire: vedete? Ci sono i fenicotteri sul Mar Piccolo, non distanti dall' Ilva, quindi l'inquinamento non sussiste, perché non è così - riprende Millarte -. Noi come WWF continuiamo a ritenere quella fabbrica incompatibile con lo sviluppo nuovo che prefiguriamo per Taranto”. “Stiamo lavorando per sviluppare le risorse green di cui Taranto è dotata - afferma l'assessore comunale all'Ambiente, Francesca Viggiano -. E si va verso l'istituzionalizzazione dell'ecomuseo che servirà per i laboratori didattici. L'area dell'ecomuseo comprende sia l'oasi “La Vela” che Mar Piccolo. É stata per lungo tempo sottratta alla città e adesso è una delle direttrici di sviluppo che come Comune perseguiamo rivisitando l'intero tratto costiero. Proprio “La Vela” é un'oasi dove stupirsi diviene la norma, perché accanto ai fenicotteri ci sono colonie di cavallucci marini e i cavalieri d'Italia, uccelli acquatici”.

I cavallucci marini nel Mar Piccolo. Secondo la letteratura scientifica, gli ippocampi sono considerati organismi indicatori di habitat costieri caratterizzati da un buono stato ecologico, molto sensibili alle variazioni delle condizioni. Quindi, la presenza di questa “popolazione” in un mare fortemente inquinato come il Mar Piccolo di Taranto smentisce l'attestazione. Anche perché, soprattutto negli ultimi tre decenni, il paesaggio originario e l'ecologia del Mar Piccolo sono stati radicalmente modificati. E invece, nonostante condizioni ambientali critiche, il Mar Piccolo continua a presentare condizioni favorevoli allo sviluppo di queste specie. Lo evidenzia il commissario delegato alla bonifica di Taranto, Vera Corbelli, che ha proprio Mar Piccolo tra le sue priorità. “Oggi lavoriamo per assicurare al Mar Piccolo sostenibilità ambientale - spiega Corbelli -. La prima azione messa in campo ha riguardato il censimento degli scarichi - ben 180, di cui il 50 per cento chiusi - e lo svolgimento di oltre cento indagini per monitorare acqua e sedimenti e di migliaia di analisi per caratterizzare lo stato dei fondali. Poi l'eliminazione dei tantissimi rifiuti di natura antropica presenti sui fondali: ordigni bellici, attrezzi da pesca, carcasse di auto e moto. Una volta eliminate le cause che hanno generato negli anni lo stato di degrado, altrimenti è tutto vano, si partirà con le attività di biorisanamento associate ad altre di natura tecnologica nell'ambito di una gara per il Mar Piccolo da 32 milioni di euro chiusa nei mesi scorsi”. “Col biorisanamento - aggiunge Corbelli - sperimentiamo particolari organismi come batteri appartenenti alle alghe o al mondo animale, in grado di modificare la natura dei sedimenti ed eliminare gli inquinanti che si sono accumulati”. Tra i vari step che hanno caratterizzato gli interventi preliminari in Mar Piccolo c'è stato il “trasloco” delle specie più pregiate sotto il profilo della conservazione come la “Pinna nobilis” (il più grande mollusco del Mediterraneo, “trasferiti” 7.017 esemplari) e gli ippocampi. Specie “traslocate” in aree più “riparate” dello stesso Mar Piccolo per il tempo necessario alla bonifica. Un lavoro durato un anno, unico nella sua dimensione numerica, premiato dall'Accademia dei Lincei e accompagnato da una serie di accorgimenti: espianto e riallocazione in una stessa giornata per evitare alle specie stress di ogni tipo, temperatura dell'acqua non superiore ai 27 gradi, uso di vasche forate per il trasferimento, immerse in altre vasche con acqua di mare e provviste di pompe per il ricambio idrico costante, collarini di colore diverso per i cavallucci marini (solubili dopo un breve periodo di contatto con l'acqua di mare) per individuarne la tipologia.

Non solo acciaio, a Taranto un assedio lungo 137 anni. Nel 1882, appena 25mila abitanti, e la più grande base navale del Paese. Tonio Attino l'11 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Che cosa succede se ArcelorMittal abbandona la gestione del centro siderurgico ex l’Ilva di Taranto? A questa domanda sappiamo senz’altro rispondere. Studiosi, sindacalisti, politici ed economisti l’hanno spiegato: l’Italia dovrà rinunciare a un produttore di acciaio che vale (dati Svimez) fra i tre e i quattro miliardi di Pil e Taranto a un’azienda con 8.200 dipendenti, più i 5.000 di un indotto calcolato su scala regionale (dati Confindustria Taranto). I dipendenti in realtà salgono a 10.700 considerando l’intero gruppo industriale, quindi anche Novi Ligure e Genova. Poiché l’ex Ilva è un’azienda strategica per l’economia nazionale, negli ultimi sette anni dodici decreti varati da quattro diversi governi sono serviti a tenerla in funzione rendendo Taranto un caso unico. Così se a Genova altiforni e cokerie sono stati chiusi nel 2005 perché dannosi per la salute, qui impianti dieci volte più grandi sono ancora in attività, benché le stesse autorità sanitarie pubbliche abbiano confermato in più circostanze – l’ultima a giugno scorso con il ministro della Salute Giulia Grillo – l’anomala incidenza di gravi patologie sulla popolazione. Tutto qua, anzi no. Senza acciaierie, Taranto si ritroverebbe in una grave crisi economica locale affondata all’interno di uno scenario economico recessivo. Ma una seconda domanda dovremmo rivolgerci: e se ArcelorMittal resta? Facciamo conto che il governo e la società franco-indiana raggiungano una nuova intesa per garantire la prosecuzione dell’attività produttiva, quindi lo stabilimento ex Ilva resta aperto, continua a produrre e ad attuare il suo “piano di ambientalizzazione” per rendere – se fosse mai possibile – una fabbrica gigantesca compatibile con la città. Mettiamo che si riesca perfino a trovare una soluzione al “problemino” di uno dei suoi tre altiforni oggi in funzione, cioè Afo2, di cui il giudice ha recentemente disposto lo spegnimento per inosservanza delle prescrizioni imposte dopo l’incidente in cui nel 2015 morì l’operaio Alessandro Morricella. Se questo avverrà, sarà tutto risolto? Per ArcelorMittal sì, almeno temporaneamente; per Taranto no. Lo si può comprendere volgendo lo sguardo alla storia e alla carta geografica. Le mappe di Google ci aiutano a comprendere che cosa sia la città di cui si parla tanto da anni ignorando tuttavia quanto inedita, singolare e per molti versi unici siano gli eventi da cui deriva la sua attuale conformazione. Taranto è una realtà compressa dalle servitù militari e industriali alle quali ha adeguato da tempo la sua vita. Negli ultimi 130 anni, subordinando il suo disegno urbanistico alle “esigenze superiori” dello Stato, si è curiosamente sviluppata per sottrazione, subendo due poderose industrializzazioni pubbliche.

Quando, nel 1882, lo Stato italiano decise di impiantarvi l’Arsenale militare e la più grande base navale militare del Paese, Taranto – neppure 25mila abitanti - cedette un pezzo di affaccio a mare sul Mar Piccolo. Pressappoco novanta ettari vennero destinati all’insediamento con cui la Difesa mise radici nella città, trasformandola nel più importante avamposto militare del Paese. La cittadella militare fu isolata dall’abitato con un muro alto sette metri, diventato da allora l’ingombrante e familiare “muraglione”. Una rilevante porzione della città venne sostanzialmente requisita, comprese le isole Cheradi, San Pietro e San Paolo, 121 ettari. La nascita dei cantieri Tosi creati nel 1914 si portò via altri 15 ettari di litorale. Ma in anni recenti la Marina Militare ha allargato la sua presenza al Mar Grande, dove nel 2004 è stata inaugurata la nuova stazione navale, 267 ettari. Il “muraglione” si è perciò allungato: misura otto chilometri. Oggi la Marina occupa una estensione di 950 ettari e occupa all’incirca 15mila persone. Sulla mappa possiamo osservare un altro insediamento militare: è il centro addestramento dell’aeronautica, anche questo lungo la costa del Mar Piccolo. È contorno, in fondo. Questa è stata la prima industrializzazione.

La seconda, cominciata nel 1960, si è portata via, con la nascita dell’Italsider (diventata in seguito Ilva, poi venduta al Gruppo Riva nel 1995, infine passata a ArcelorMittal nel 2018), poco più di 1500 ettari, cancellando vigneti, uliveti, masserie. Ai quindici chilometri quadrati si sono aggiunti quasi contestualmente i 275 ettari della raffineria e i 31 del cementificio Cementir. La città si è ristretta ancora un po’ nel 1993 quando il quartiere periferico di Statte si è staccato per secessione diventando un comune autonomo, portandosi dietro altri 93 chilometri quadrati di cui cinque di centro siderurgico. Perdendo via via pezzi di territorio, la città è diventata quel che è attualmente, con i suoi 250 chilometri quadrati – al lordo di fabbriche e caserme - e 197mila abitanti.

Domandiamoci: quale futuro ha una città del genere, circondata, addirittura assediata da servitù industriali e militari? Come può programmare qualunque cosa?

Ecco perché, in entrambi gli scenari – cioè sia che ArcelorMittal vada via, sia che resti a gestire l’ex Ilva - Taranto ne esce male. Senza il centro siderurgico che ne ha determinato la vita insieme alla Marina Militare, non saprebbe che pesci prendere. Non ha alternativa. Abituata a subire gli eventi - mai a indirizzarli verso un progetto sensato - non ha mai pensato a costruirla. Ne esce male anche rimanendo a convivere con un centro siderurgico più grande dei suoi principali quartieri, uguale nella sua struttura a quello pensato, progettato e realizzato oltre mezzo secolo fa. Sarà costretta a convivere e a subordinare la qualità della vita e il suo sviluppo a una fabbrica enorme, i cui grandi numeri, legati alle dinamiche del mercato e alle esigenze di un privato (prima Riva, oggi Mittal), determineranno ancora le scelte (o le non-scelte) sul futuro. È una mega fabbrica priva ormai di quel consenso che aveva quando nacque e quando raggiunse la vetta di oltre trentamila metalmeccanici in un boom economico italiano amplificato da un proprio fantastico boom territoriale: tra il 1960 e il 1970 il reddito salì del 374 per cento contro il 269 per cento del resto dell’Italia. Ma oggi il più grande centro siderurgico a ciclo integrale d’Europa è un record di cui sempre meno abitanti si sentono orgogliosi. I tempi cambiano, le nuove generazioni avanzano, ma hanno altri sogni, non sentono di appartenere al mondo che accolse gioiosamente l’Italsider come simbolo di modernità. Chiunque gestirà la vecchia Italsider dovrà mettere nel conto di doverlo fare in un clima completamente diverso: indifferente, diffidente, spesso ostile. Eppure l’Italia, ci ricordano i politici di tutti gli schieramenti, ha bisogno di acciaio. Lo dicevano anche nel 1959, quando lo Stato decise di costruire l’Italsider. Sono passati sessant’anni. Siamo ancora fermi lì.

·         Palagiano, la strage degli innocenti.

Palagiano, la strage degli innocenti. Graziana Carrieri il 13 maggio 2019 su La Repubblica. Si può assistere alla morte della propria madre, del patrigno e del fratellino? Si può dover “fingere di essere morto” per evitare la stessa fine? Si può dover udire la pioggia incessante di proiettili colpire l’auto in cui si sta tornando a casa, vedere accanto a sé corpi inermi? Può un bambino, di soli tre anni ancora da compiere, dover morire a causa di un errore? Si può essere uccisi per sbaglio, perché altri hanno “mirato male” all’obiettivo? La sera del 17 marzo 2014, sulla statale ionica 106, una famiglia ritorna a casa, a Palagiano, città piegata dalle lotte tra clan, solitamente condotte in silenzio, come una guerra fredda, ma quella volta esplosa in tutta la sua crudeltà. Il piccolo corpo di Domenico è stato freddato da infiniti colpi di proiettili, solo perché in quella stessa auto, una Daewoo Matiz rossa, era seduto in braccio al compagno della madre, Carla Maria Fornari, Cosimo Orlando, vero obiettivo dell'agguato. Domenico Petruzzelli, figlio dell’omonimo padre, di cui la madre era rimasta vedova, dato che era stato anch’egli ucciso in un agguato sempre di matrice mafiosa, solo tre anni prima, quella sera, un lunedì, aspettava solo di poter entrare nel proprio lettino per dormire, dopo la giornata passata a Taranto. Un’auto, invece, aveva iniziato a speronare la Matiz rossa contro un guardrail: sembrava un semplice incedente stradale ma tale non era; e Carla Fornari se ne era resa conto quasi subito ma già troppo tardi. Era iniziata la tempesta di proiettili, incessante, che colpiva la donna, poi colui che era realmente nel mirino del killer e anche chi non doveva essere coinvolto, non avendo alcuna colpa. Quella sera, sulla statale ionica, si erano salvati solo i bambini seduti nei posti di dietro, altri due figli di Carla Maria, che senza capire cosa stesse accadendo, per difendersi dal mostro fuori che nel frattempo era anche sceso dall’auto, si erano nascosti, cercando di “mimetizzarsi” tra i corpi fermi immobili in auto. E con l’innocenza tipica della loro età, non avendo mai visto la morte così da vicino, pensavano che la mamma fosse semplicemente svenuta, ma che sarebbe stata pronta a proteggerli non appena sveglia. E così, la brutalità e le colpe degli adulti sono stati scontati dagli innocenti. Questioni di affari mafiosi, si dirà. Regolamento di conti. E Domenico? Aveva ancora da sognare e da vivere. Aveva solo tre anni. E non aveva alcuna colpa. E morendo così, per mera volontà di qualcun altro, Domenico è diventato il figlio di tutti noi.

·         Sava. Raffaele Pesare. Le lacrime del carabiniere omicida.

Raffaele Pesare. Le lacrime del carabiniere omicida: «non ricordo niente, perdonatemi, vorrei abbracciare mio nipote». Quel poco che è riuscito a dire ieri il triplice omicida, è stato tutto dedicato al perdono e al pentimento. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 18 maggio 2019. Un’udienza drammatica quella di ieri con l’imputato Raffaele Pesare in lacrime a chiedere perdono a tutti e a domandare a sé stesso cosa sia successo la mattina del 18 novembre del 2017 quando la sua mano, armata con la pistola d’ordinanza, ha annientato la sua famiglia, padre, sorella e cognato. Tutti morti sul colpo, crivellati dalle pallottole della sua calibro 9. Davanti al giudice delle udienze preliminari, Giuseppe Tommasino, l’ex carabiniere savese, Raffaele Pesare, 55 anni, ha voluto parlare per la prima volta per raccontare il suo dramma. Assistito dal suo avvocato, Lorenzo Bullo, Pesare aveva pensato di farcela a reggere l’emozione. Invece è crollato. Dopo le prime frasi le parole sono state interrotte dai singhiozzi e quelle che dovevano essere delle dichiarazioni spontanee si sono trasformate in una crisi di pianto che ha sconvolto tutti. Per questo il gup Tommasino ha deciso di rinviare tutto alla prossima udienza del 16 luglio per le discussioni e la sentenza che seguirà le regole dell’abbreviato. Quel poco che è riuscito a dire ieri il triplice omicida, è stato tutto dedicato al perdono e al pentimento. Ma anche a voler giustificare quello che ha definito come «un buco nella memoria». «Vorrei tornare indietro – ha detto – vorrei poter capire cosa mi sia capitato quel giorno di cui non ricordo nulla». Sempre con voce interrotta dall’emozione, l’imputato ha voluto chiedere perdono al nipote a cui ha fatto il torto maggiore togliendogli entrambi i genitori. «Vorrei poterlo abbracciare per chiedergli perdono», ha detto Pesare. Che ha cercato di spiegare quel vuoto della memoria. «Non ero io, non ricordo niente, ricordo solo di essermi svegliato ed ero nella rianimazione, di quello che è accaduto prima non so niente, non ricordo niente», ha ripetuto. La terribile realtà è descritta nelle carte dell’inchiesta e naturalmente nella memoria di chi invece ricorda e non potrà mai più dimenticare quel tragico sabato di un anno e mezzo fa quando il caricatore della calibro 9 del carabiniere cancellò tre vite spezzando il legame si sangue di altre famiglie. La ricostruzione è tutta lì, anche sui giornali che raccontarono la mattanza. Quel giorno il carabiniere in servizio alla compagnia di Manduria, era di riposo così decise di recarsi a casa del genitore che viveva con la sorella sposata. Una lite di cui si possono fare solo ipotesi (si è parlato di una disputa sul raccolto di un oliveto di proprietà dell’anziano padre), sfociò nel dramma. Sicuro è che Pesare in quella occasione tirò fuori la sua pistola e fece fuoco prima contro il padre Damiano di 85 anni, poi contro il cognato Salvatore Bisci di 69 e infine su sua sorella Maria Pasana di 50. Il carabiniere chiamò al telefono un suo superiore a cui accennò qualcosa del tipo «ho fatto una cazzata», prima di puntare verso di sé la pistola premendo il grilletto. La pallottola che gli entrerà dal mento, uscirà da uno zigomo senza ucciderlo. Si sveglierà in un letto di ospedale, come ha confermato ieri, con una finestra buia che ha cancellato dalla sua memoria la parte così dolorosa della sua vita. Dopo le dimissioni dall'ospedale, l’imputato è passato nel carcere di Matera dove si trova ancora rinchiuso. Tra due mesi il gup pronuncerà la sua sentenza che potrà fare giustizia sul triplice omicidio ma non sarà di conforto per molti, per l’orfano di 12 anni soprattutto che nel processo è parte lesa con l’assistenza dell’avvocato Franz Pesare.

·         Un "caso Stano" anche a Sava.

Un "caso Stano" anche a Sava, baby gang scatenati, venti arresti. Vittima un 61enne pensionato ed affetto da disagi psichici, veniva fatto oggetto di continue richieste estorsive da parte di giovani del luogo. La Voce di Manduria martedì 12 novembre 2019. I militari della compagnia carabinieri di Manduria, coadiuvati da personale proveniente da diverse articolazioni del Comando Provinciale di Taranto, nelle prime ore del mattino, nell’ambito dell’operazione convenzionalmente denominata “Bad Boys”, hanno dato esecuzione a 20 misure cautelari personali a carico di altrettanti soggetti, tutti di Sava, ritenuti responsabili, a vario titolo, di estorsione continuata in concorso, furto aggravato, rapina, detenzione e porto illegale di arma da sparo, atti persecutori. I provvedimenti - di cui 12 spiccati a carico di soggetti maggiorenni (5 in carcere, 5 agli arresti domiciliari, 2 destinatari di divieto di avvicinamento alla persona offesa) ed 8 nei confronti di minorenni (3 associati presso Istituti di Pena Minorile e 5 collocati in Comunità di recupero) - sono stati emessi dai G.I.P del Tribunale Ordinario di Taranto e del Tribunale dei Minori del medesimo capoluogo, su richiesta delle rispettive Procure. L’indagine condotta dalla Stazione Carabinieri di Sava, coadiuvata dalle articolazioni investigative della Compagnia Carabinieri di Manduria, ha messo in luce una situazione di emarginazione, la cui vittima, un 61enne pensionato ed affetto da disagi psichici, veniva fatto oggetto di continue richieste estorsive da parte di giovani del luogo. Giova precisare le numerose e per certi versi tristi analogie con il “Caso Stano” di Manduria della primavera scorsa, che ha messo in luce le attività vessatorie da parte di diverse baby gang locali nei confronti di un pensionato, successivamente deceduto anche per le angherie subite. Maggiori dettagli verranno specificati in una conferenza stampa che si terrà alle ore 11.00 presso i locali di questo Comando Provinciale alla presenza del Procuratore Capo di Taranto, Dott. Capristo, del Procuratore Capo della Procura dei Minorenni, Dott.ssa Montanaro, dei rispettivi PM titolari dell’indagine e dei vertici del Comando Carabinieri. (Nota stampa dei carabinieri).

61enne bullizzato e rapinato dalla baby gang a Sava, pizzo da 20 euro al mese e furti. Dodici minorenni in carcere e 8 maggiorenni. Minacce anche con l'uso della pistola. La Voce di Manduria martedì 12 novembre 2019. Un caso “Stano” anche a Sava. Alle prime luci dell’alba di oggi, martedì 12 novembre, i carabinieri di Sava e Manduria hanno notificato venti mandati di arresto, in carcere e ai domiciliari, nei confronti di una baby gang composta da 12 elementi minorenni e 8 adulti. Sono accusati a vario titolo di di estorsione continuata in concorso, furto aggravato, rapina, detenzione e porto illegale di arma da sparo, atti persecutori nei confronti di un pensionato di 61 anni di ava affetto da disagi psichici. Come nel caso degli “orfanelli” di Manduria, anche questa banda usava filmare le proprie bravate in cui minacciavano la vittima estorcendogli denaro. Una sorta di tangente fissa da pagare a venti euro al mese. Nelle escursioni in casa per depredare oggetti di valore e monili d’oro i ragazzini si presentavano anche con la pistola. Molte analogie con il caso di Antonio Stano, il sessantunenne manduriano con problemi psichici vessato e torturato dalla banda degli "orfanelli" in seguito morto per le privazioni e lo stato di abbandono. Maggiori dettagli verranno illustrati in una conferenza stampa che si terrà alle 11.00 presso i locali del comando provinciale carabinieri Taranto alla presenza del procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo, del procuratore capo della Procura dei Minorenni, Pina Montanaro, dei rispettivi pubblici ministeri titolari dell’indagine e dei vertici del comando carabinieri.

Operazione Bad Boys, il video delle richieste di denaro alla vittima disabile. Un clima di terrore quello creato attorno all’invalido che spendeva quasi tutta la sua piccola pensione per soddisfare le richieste dei suoi giovani aguzzini. La Voce di Manduria martedì 12 novembre 2019. Vessazioni, insulti, minacce e richieste di denaro. Il disabile di sessantuno anni di Sava, disagiato psichico, preso di mira dalla banda, era diventato il bancomat dei bulli che periodicamente si recavano da lui estorcendogli denaro con le minacce. Un clima di terrore quello creato attorno all’invalido che spendeva quasi tutta la sua piccola pensione per soddisfare le richieste dei suoi giovani aguzzini che lo minacciavano anche con una pistola. Una vita di solitudine e discriminazioni, forse anche voluta. Voleva vivere da solo e per questo diceva di non avere famiglia nonostante un fratello e una sorella che vivono a Sava. Nel video diffuso dai carabinieri le immagini delle richieste di denaro che i ragazzini riprendevano con i telefonini per passarseli tra di loro. La terribile storia che ricorda quella del pensionato manduriano, Antonio Cosimo Stano, vessato e torturati dalla baby gang denominata degli «orfanelli», è stata raccontata questa mattina nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta nel comando provinciale di carabinieri di Taranto. I militari della Compagnia Carabinieri di Manduria (TA), coadiuvati da personale proveniente da diverse articolazioni del Comando Provinciale di Taranto, nelle prime ore del mattino, hanno dato esecuzione a 20 misure cautelari personali a carico di altrettanti soggetti, tutti di Sava, ritenuti responsabili, a vario titolo, di estorsione continuata in concorso, furto aggravato, rapina, detenzione e porto illegale di arma da sparo, atti persecutori. I provvedimenti - di cui 12 spiccati a carico di soggetti maggiorenni (5 in carcere, 5 agli arresti domiciliari, 2 destinatari di divieto di avvicinamento alla persona offesa) ed 8 nei confronti di minorenni (3 associati presso Istituti di Pena Minorile e 5 collocati in Comunità di recupero) - sono stati emessi dai G.I.P del Tribunale Ordinario di Taranto e del Tribunale dei Minori del medesimo capoluogo, su richiesta delle rispettive Procure. L’indagine, convenzionalmente denominata “Bad boys” e condotta dalla Stazione Carabinieri di Sava (TA), trae origine dall’incendio verificatosi l’8 giugno del corrente anno presso l’abitazione di un 61enne, di quel centro, affetto da disagio psichico, il quale aveva dichiarato ai Carabinieri ed ai VV.FF. intervenuti, che il rogo si era improvvisamente sprigionato dal camino della propria unità abitativa mentre dava alle fiamme alcuni documenti al fine di distruggerli. Nel corso del sopralluogo, i militari avevano tuttavia notato nella casa del richiedente, l’insolita presenza di consistenti cumuli di rifiuti cartacei e di plastica venendo a conoscenza che l’uomo era dedito allo smaltimento - presso l’isola ecologica di Sava -di tali materiali, che raccoglieva presso privati e attività commerciali in cambio di piccole somme di denaro, a lui necessarie per integrare la sua modesta pensione di invalido civile, anche per far fronte alle continue richieste estorsive di una banda di giovani del luogo. In particolare, le attività d’indagine – consistite in acquisizioni testimoniali, servizi di osservazione e pedinamento, esame dei contenuti multimediali dei telefonini di alcuni degli indagati - hanno consentito di acclarare che:

-i prevenuti, approfittando delle minorate condizioni psicofisiche del 61enne effettuavano delle vere e proprie incursioni presso il suo domicilio nei giorni immediatamente successivi al ritiro della pensione, estorcendogli somme di denaro (da 5 a 20 euro) e oggetti di valore, dietro la minaccia di dare alle fiamme la sua abitazione o il motocarro allo stesso in uso. Le dichiarazioni della vittima, che riconosceva senza ombra di dubbio tutti i componenti della “gang”, trovavano riscontro nelle testimonianze di alcuni vicini che confermavano le quotidiane vessazioni cui i balordi, singolarmente o in gruppi di 2 o 3 persone, sottoponevano il 61enne;

-in una circostanza avvenuta circa due anni fa, due soggetti del gruppo avevano estorto al 61enne la somma di 50 Euro, minacciandolo persino con una pistola;

-alcuni degli indagati, nel giugno del 2013, si erano resi infine responsabili di atti di “bullismo” ai danni di un 84enne di Sava il quale, senza alcun motivo, era stato da questi spinto a terra mentre era in sella alla propria bicicletta, riportando lesioni.

I 12 maggiorenni indagati, tutti residenti a Sava:

- tradotti in carcere:

1.P.E, cl. ’86, gravato da condanna per ricettazione;

2.S.S., cl. 98, condannato per furto in abitazione, violenza privata, estorsione;

3.V.C., cl. ’69, condannato per maltrattamenti, lesioni, furto ed evasione.

4.U.K., cl. 98, con precedenti di polizia per furto;

5.U.L., cl. 66, con precedenti di polizia per reati contro il patrimonio.

- sottoposti agli arresti domiciliari:

6.B.R., cl. ’75, gravato da condanna per resistenza a P.U.;

7.C.S., cl. ’88, gravato da condanna per traffico di stupefacenti;

8.M.V., cl. ’88, con precedenti di polizia per furto, estorsione e danneggiamento;

9.R.A, cl. ’95, gravato da precedenti di polizia per furto in abitazione;

10.R.P, cl. ’97, incensurato.

- sottoposti al provvedimento di divieto di avvicinamento alla persona offesa:

11. M. C. D, cl. ’97, incensurato;

12.A.A., nato cl. 2000, gravato da precedenti di polizia;

Nel corso delle perquisizioni svolte durante l’esecuzione delle misure in esame, presso l’abitazione di un 17enne incensurato, sono stati rinvenuti gr. 16 di hashish, due bilancini di precisione, un taglierino ed un coltello entrambi utilizzati per il taglio dello stupefacente.

Sava, anziano disabile vittima di una gang: «Io insultato perchè omosessuale». Dopo i 18 arresti che hanno interessato anche ragazzi minorenni. La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Novembre 2019. «Molti in paese mi insultano perché sono omosessuale. E’ stato il paese che mi ha fatto deviare». E’ la dura accusa del 61enne pensionato di Sava, affetto da disagio psichico, che è stato oggetto di estorsioni, vessazioni e rapine per diversi anni e ora si trova in una struttura protetta dopo l’operazione dei carabinieri che ieri ha portato all’arresto di 18 persone (10 maggiorenni e 8 minorenni). Le dichiarazioni sono riportate nel verbale dei carabinieri, che lo interrogarono dopo un incendio divampato nel giugno scorso all’interno della sua abitazione. Era stato lui stesso, inavvertitamente, a provocarlo dopo aver dato fuoco ad alcuni documenti. L’uomo arrotondava la pensione di 515 euro raccogliendo rifiuti da privati e attività commerciali in cambio di piccole somme di denaro e poi conferiva il materiale all’isola ecologica. «Da un pò di tempo a questa parte - rivelò il pensionato - subisco continue richieste di denaro da parte di alcuni ragazzi del luogo, circa una ventina. Mi spiego meglio. Sono una persona molto fragile e quindi questi giovani si approfittano di me. Vengono a trovarmi a casa, anche in gruppi, e mi chiedono continuamente soldi». Le loro richieste, riferì ancora il pensionato, «sono diventate sempre più insistenti e sono stato costretto a dar loro dei soldi perché se non lo avessi fatto, mi avrebbero picchiato, inoltre hanno minacciato di incendiarmi casa o il mio Ape Piaggio». Il 61enne ha ammesso di aver pagato «per paura». «Mi rendo conto - ha detto agli investigatori - di non stare proprio bene perchè vino da solo e non ho famiglia».

Sava, i bulli: «Nessuna minaccia. L'anziano ci dava soldi perché eravamo amici». La difesa di alcuni dei ragazzi accusati di stalking ed estorsione a un disabile 61enne. Vittorio Ricapito il 15 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Quei soldi? Erano solo regali. Eravamo amici, non ho mai fatto alcuna minaccia per averli». Si difendono così alcuni dei “bad boys” finiti in carcere e ai domiciliari, in tutto dieci ascoltati ieri dal magistrato Benedetto Ruberto, accusati di stalking e estorsione ai danni di un 61enne disabile di Sava (Ta). Gli altri hanno preferito restare in silenzio. In silenzio anche i tre minori coinvolti nel caso e finiti nell’istituto penitenziario di Bari. Solo uno ha parlato, non per rispondere alle domande del giudice per i minori Paola Morelli ma per dire «se ho sbagliato chiedo scusa, sono stato dieci mesi in comunità e ho capito che la vita precedente non mi appartiene più», riferendosi a una misura cautelare precedente al caso di Sava, per tentativo di furto. 

Sava, i bulli: «Nessuna minaccia. L'anziano ci dava soldi perché eravamo amici». La difesa di alcuni dei ragazzi accusati di stalking ed estorsione a un disabile 61enne. Vittorio Ricapito il 15 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Quei soldi? Erano solo regali. Eravamo amici, non ho mai fatto alcuna minaccia per averli». Si difendono così alcuni dei “bad boys” finiti in carcere e ai domiciliari, in tutto dieci ascoltati ieri dal magistrato Benedetto Ruberto, accusati di stalking e estorsione ai danni di un 61enne disabile di Sava (Ta). Gli altri hanno preferito restare in silenzio. In silenzio anche i tre minori coinvolti nel caso e finiti nell’istituto penitenziario di Bari. Solo uno ha parlato, non per rispondere alle domande del giudice per i minori Paola Morelli ma per dire «se ho sbagliato chiedo scusa, sono stato dieci mesi in comunità e ho capito che la vita precedente non mi appartiene più», riferendosi a una misura cautelare precedente al caso di Sava, per tentativo di furto. Altri due maggiorenni, sottoposti al divieto di avvicinamento (devono mantenersi almeno a 150 metri dalla vittima) e cinque minori affidati in comunità saranno sentiti dai magistrati nei prossimi giorni. Oltre ai venti sottoposti a misura cautelare, ci sono altri indagati a piede libero sui quali la magistratura sta cercando di fare chiarezza. «Molti in paese mi insultano perché sono omosessuale», ha raccontato la vittima ai carabinieri che erano arriati a casa sua per un incendio. «Da un pò di tempo subisco continue richieste di denaro da parte di alcuni ragazzi del luogo, circa una ventina. Sono una persona molto fragile e quindi questi giovani si approfittano di me. Vengono a trovarmi a casa, anche in gruppi, e mi chiedono continuamente soldi». Così i militari hanno scoperto che nonostante la modestissima pensione di invalidità, 515 euro al mese e i pochi spiccioli rimediati trasportando rifiuti sull’Ape all’isola ecologica, il 61enne era diventato una specie di bancomat per balordi di ogni età. Bastava alzare la voce o minacciarlo un po’ per scucirgli cinque, dieci o venti euro. L’uomo ha raccontato che il vicino di casa da quasi vent’anni pretendeva con fare minaccioso cinque euro alla settimana e venti euro fissi al mese. «Me li regalava perché siamo amici di famiglia e sa che sono senza lavoro e con una famiglia a carico», si è difeso così ieri l’indagato. Molti, anche tra i minori indagati, hanno precedenti, chi per droga, chi per rapina o lesioni. Si presentavano a casa, prendevano a calci la porta, insultavano e minacciavano. In un’occasione, ha raccontato la vittima, anche impugnando una pistola. Oppure agitavano l’accendino minacciando di bruciare l’Ape. I militari, appostati, hanno osservato due minori che chiedevano soldi. Gli altri li ha riconosciuti in foto la stessa vittima. «Questo qui mi chiede soldi da anni, questo è molto fastidioso, viene con due amici ogni settimana, se non gli do i soldi non se ne va di casa», ha raccontato sfogliando l’album dei presunti aguzzini. «Questo è uno dei boss, un diavolo, mi minaccia, non mi lascia stare finché non ha i soldi».

Sava, i "ragazzi del male" non parlano, solo uno di loro si scusa. Quasi tutti i maggiorenni sentiti ieri, hanno risposto alle domande dichiarando la propria innocenza. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 15 novembre 2019. Molti silenzi, qualche dichiarazione autoassolutoria e una sola ammissione di responsabilità ieri negli interrogatori di garanzia dopo le misure detentive emesse martedì nei confronti dei cosiddetti «ragazzi del male» di Sava, accusati di aver vessato per anni, estorcendogli denaro, un disabile psichico di 61 anni che viveva da solo. Davanti al gip Benedetto Ruberto e al piemme Francesco Ciardo gli adulti, alla giudice Paolo Morelli e il pubblico ministero Lelio Fabio Testa i minori, gli indagati si sono sottoposti all’interrogatorio di garanzia assistiti dai rispettivi avvocati. Tutti i minorenni si sono avvalsi della facoltà di non rispondere ad eccezione di uno che ha ammesso le proprie responsabilità dicendosi pronto a chiedere scusa. Costui, già affidato ad un centro di recupero dove ha iniziato un percorso di espiazione per altri reati commessi, si è detto profondamente cambiato e di non essersi reso conto, in passato, del male che con il suo comportamento potesse arrecare al pensionato vessato. Nell’ordinanza di applicazione della misura cautelare che lo riguarda, il diciottenne viene descritto dalla vittima come un «soggetto parecchio fastidioso» tra i più assidui molestatori e che in un’occasione lo avrebbe minacciato con un accendino dicendo che se non avesse pagato gli avrebbe incendiato l’appartamento e il motoape. Quasi tutti i maggiorenni sentiti ieri, hanno risposto alle domande dichiarando la propria innocenza e ammettendo di aver ricevuto soldi dal disabile ma che si trattava di piccoli prestiti ottenuti senza alcuna minaccia o come compenso per piccoli lavori eseguiti. Il più grande degli indagati che ha 44 anni, ha addirittura sostenuto che è stato il sessantunenne ad offrirgli volontariamente del denaro avendo saputo che aveva perso il lavoro e che sua madre fosse malata di tumore. Secondo l’accusa, invece, il 44enne avrebbe costretto ripetutamente il pensionato a consegnargli 5 euro ogni settimana e venti euro al mese «gridandogli contro e appostandosi sotto l’abitazione sino a quando non otteneva il denaro». Un comportamento, dicono le carte, che durava da almeno venti anni. Al termine dell’udienza di garanzia, nessuno degli indagati ha ottenuto la libertà. Domani, sabato 16 novembre, ad essere interrogati saranno gli unici due indagati in libertà, raggiunti da misure interdittive che prevedono il divieto di avvicinamento alla vittima. Il collegio difensivo è composto dagli avvocati Armando Pasanisi, Antonio Liagi, Fabio Falco, Massimo Masini e Rosario Frascella. Tutti i legali sono pronti a ricorrere al Tribunale del riesame con l’obiettivo di far cadere gli estremi delle misure cautelari restrittive.Cosa che potrebbe avvenire nei confronti di alcuni indagati che sono incensurati e la cui posizione sembra essere marginale rispetto alla gravità dei reati contestati al gruppo. Sarà più difficile invece, per gli avvocati che li difendono, ottenere clemenza nei confronti di alcuni soggetti, anche minori, la cui fedina penale non depone a loro favore. Tra i ragazzi arrestati o affidati in comunità in questo blitz dei carabinieri denominato «bad boys», ragazzi del male, appunto, ce ne sono almeno quattro sui quali le forze dell’ordine si sono già spese affidandogli alla giustizia. Nazareno Dinoi

La vittima dei bulli di Sava sotto protezione: "finalmente trovo una famiglia". Ieri intanto, gli unici due «bad boys» che hanno evitato il carcere dovendo rispettare solo l’obbligo di non avvicinamento alla vittima sono stati sottoposti all’interrogatorio di garanzia. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria domenica 17 novembre 2019. «Finalmente ho trovato persone che sono per me come una vera famiglia». Sono le prime parole di Giovanni, così chiameremo il pensionato invalido di Sava, sessantuno anni, bullizzato e minacciato per anni da un gruppo di ragazzi e adulti, venti dei quali sono finiti in carcere o ai domiciliari nel blitz dei carabinieri intitolato «bad boys». L’uomo che sull’orlo della disperazione ha avuto la forza di denunciare i suoi aguzzini che secondo le accuse della procura si facevano consegnare piccole somme di denaro prosciugando settimanalmente e mensilmente la pensione d’invalidità, vive in una comunità religiosa fuori provincia dove è stato confinato per garantirgli sicurezza. Da martedì mattina, quando è stato prelevato dai carabinieri dalla casa dove alloggiava a Sava, il sessantunenne non ha contatti con nessuno del suo paese, neanche con i suoi parenti, un fratello e una sorella con i quali già in precedenza aveva rapporti quasi nulli. Gli unici a tenere contatti con lui, ora, sono i carabinieri della stazione di Sava e l’avvocatessa Agnese Pulignano che si prende cura di Giovanni in forma volontaria. Si sente con lui quotidianamente, aggiornandolo su quanto è avvenuto dopo gli arresti e preoccupandosi della sua permanenza in quel rifugio. «Mi dice che sta vivendo una nuova vita, è molto sereno e a vederlo sembra già un’altra persona», afferma l’avvocatessa che descrive così lo stato rassicurante del suo. Giovanni legge molto, i suoi numerosi libri, tutti di genere religioso, sono andati distrutti nel rogo che ha bruciato gran parte del materiale di ogni genere che raccoglieva per strada e ammassava compulsivamente in casa. «L’ultima volta che l’ho sentito – racconta l’avvocatessa Pulignano –, mi ha detto di trovarsi molto bene e che si sente finalmente in famiglia». Dalla piccola comunità che lo ospita, esce regolarmente quasi ogni sera e rientra quasi subito. «Si sente rinato, “quando vado in giro nessuno più mi insulta”, mi ha detto», riferisce ancora l’avvocatessa che si è preoccupata anche di recuperare, trovandogli un ricovero sicuro, il motoape del suo assistito. «Oltre all’appartamento danneggiato dall’incendio che aveva donato alla sorella mantenendone l’usufrutto, il piccolo Ape è il suo unico bene a cui è molto legato», spiega la sua curatrice legale. Con quel piccolo mezzo meccanico, un Ape Piaggio, Giovanni andava in giro per negozi ritirando cartoni ed altri rifiuti ingombranti che provvedeva a smaltire nell’isola ecologia in cambio di pochi piccole somme di denaro. La sua mania poi lo spingeva ad accumulare in casa gran parte del materiale che non portava in discarica. Cartoni, plastica, giornali, oggetti inservibili che lui accatastava nelle stanze. Una mania che era lo specchio del suo disagio. «Tutti i miei dispiaceri che ho accumulato nel tempo mi hanno fatto venire questo forte legame che ho per gli oggetti che ho accumulato ed ammassato in casa nel tempo», dirà ai carabinieri che lo interrogavano il giorno dell’incendio. Ritirava rifiuti dai commercianti che lo pagavano perché la pensione di 515 euro al mese non bastava mai ai suoi aguzzini che approfittando della sua debolezza e solitudine lo usavano come un bancomat. Ieri intanto, gli unici due «bad boys» che hanno evitato il carcere dovendo rispettare solo l’obbligo di non avvicinamento alla vittima sono stati sottoposti all’interrogatorio di garanzia assistiti dagli avvocati Alessandro Cavallo e Fabio Falco, avvalendosi della facoltà di non rispondere. Nazareno Dinoi

Iaia replica a Pulignano: sulla presunta vittima abbiamo fatto ciò che era necessario fare. Il sindaco di Sava, Dario Iaia, non ha preso bene l’intervento della sua collega, l’avvocatessa Agnese Pulignano, legale di fiducia del sessantunenne savese presunta vittima di un branco di bulli. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria domenica 24 novembre 2019. «Su determinati argomenti, un professionista dovrebbe preoccuparsi solo di assistere il proprio cliente, senza andare alla ricerca di inutili polemiche che lasciano il tempo che trovano». Il sindaco di Sava, Dario Iaia, non ha preso bene l’intervento della sua collega, l’avvocatessa Agnese Pulignano, legale di fiducia del sessantunenne savese presunta vittima di un branco di bulli, adulti e minorenni (25 quelli indagati). La professionista ieri ha definito «approssimativa» l’azione della pubblica amministrazione a tutela dell’indigente che dopo l’arresto dei suoi presunti aguzzini vive sotto tutela in un centro di accoglienza della chiesa situato in un comune fuori dalla provincia di Taranto. «Non è mia intenzione parlare per mero spirito di contraddizione, ma in merito alla vicenda di Sava e alle dichiarazioni rese dal sindaco, nonché mio collega, ho qualche appunto da fare», aveva detto l’avvocatessa, mettendo nella lista delle ritenute responsabilità pubbliche, l’abbandono pressoché totale del suo assistito («dov’erano i servizi sociali?») e l’avergli fatto pagare la bonifica della casa dove viveva nonostante percepisse una piccola pensione d’invalidità che secondo le indagini dei carabinieri veniva quasi tutta prosciugata dai molestatori che con minacce e raggiri gli estorcevano somme di denaro. Non è per niente d’accordo, il sindaco. «I servizi sociali del mio Comune – dice Iaia -, si sono mossi in maniera corretta e tempestiva dal momento in cui sono venuti a conoscenza della problematica». Ammettendo, così, di averlo fatto solo dopo l’incendio accidentale, episodio che fece scattare l’allarme anche delle forze dell’ordine portando così alla luce la squallida vicenda di cui si è poi occupata la magistratura con venti arresti. «Prima dell’incendio di quest’estate – si giustifica il primo cittadino -, questa situazione, purtroppo, era a noi sconosciuta e tuttavia – aggiunge -, nel momento in cui ne siamo venuti a conoscenza, immediatamente, come servizi sociali, ci siamo attivati». Con piglio ancora più deciso Iaia rimarca ancora il concetto. «Presumo che, prima dell’incendio, neanche le forze dell’ordine fossero a conoscenza di questa situazione e quindi, vogliamo colpevolizzare anche loro per non essere intervenuti prima?». In merito all’ordinanza sindacale di messa in sicurezza e bonifica dell’immobile danneggiato dal fuoco, il sindaco Iaia giustifica così la decisione. «Sono intervenuto – dice -, perchè era mio dovere farlo per tutelare anche i vicini di casa e tutta la cittadinanza a fronte di una situazione di emergenza igienico sanitaria che si era venuta a creare». A carico di chi dovevano andare tali lavori, il sindaco Iaia non ha dubbi.«Mi pare sia stato assolutamente corretto emettere questo provvedimento nei confronti del soggetto usufruttuario che aveva causato l’incendio per sua stessa ammissione. Oppure – prosegue il sindaco - qualcuno può legittimamente sostenere che avrebbe dovuto pagare la collettività, anche in presenza del responsabile e finanche dei fratelli?». Dario Iaia spiega infine le i ruoli dei servizi sociali di ogni ente. «I comuni – dice -, dovrebbero avere migliaia di assistenti sociali in giro per le vie delle città. Purtroppo, così non è ed è per questo che i servizi sociali intervengono laddove vi siano delle segnalazioni che possono provenire dai privati, dalle famiglie, dalla chiesa, dalla scuola, dalle forze dell’ordine o da altri soggetti oppure quando, in maniera autonoma, vengano a conoscenza di particolari situazioni di disagio». Nazareno Dinoi

Sava come Manduria, "il disabile abbandonato da tutti", parla l'avvocato. L’avvocatessa si riferisce anche al sindaco di Sava, Dario Iaia che all’indomani degli arresti rilasciò dichiarazioni di sostegno e aiuto nei confronti del suo concittadino. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 23 novembre 2019. Il sessantunenne savese che chiameremo Giovanni che per anni sarebbe stato vessato e minacciato da un gruppo di persone che gli estorceva denaro (venticinque quelle individuate sinora, tra cui 8 minorenni, tutte denunciate, alcune sottoposte a misure detentive), non sarebbe stato vittima solo del branco, ma anche dai servizi sociali del comune che non lo avrebbero tutelato adeguatamente. A denunciare lo stato di abbandono del sessantunenne che dal giorno del blitz dei carabinieri vive in una struttura protetta lontana dal suo paese, è il suo avvocato di fiducia, Agnese Pulignano, l’unica, oltre ai carabinieri, ad avere contatti con lui. «Gli uffici preposti del comune – dice la legale – si sono mossi solo dopo l’episodio dell’incendio e solo dopo la segnalazione dei carabinieri e lo hanno fatto, a mio avviso, in maniera approssimativa; e poi – aggiunge – mi chiedo dov’erano prima?». L’avvocatessa si riferisce anche al sindaco di Sava, Dario Iaia che all’indomani degli arresti rilasciò dichiarazioni di sostegno e aiuto nei confronti del suo concittadino, minimizzando quanto accaduto nella cittadina savese. Fatti che, a dire del primo cittadino, non potevano essere paragonati al caso Stano di Manduria. «Non è mia intenzione parlare per mero spirito di contraddizione, tanto meno esprimere opinioni senza cognizione di causa – afferma l'avvocatessa Pulignano -, ma in merito alla vicenda di Sava e alle dichiarazioni rese dal sindaco, nonché mio collega, ho qualche appunto da fare». E lo fa con «carte alla mano» e cognizione di causa. «Dopo l'incendio – racconta la tutrice di Giovanni -, il sindaco ha addirittura emesso un'ordinanza che intimava il mio cliente a bonificare l'area con i suoi mezzi economici». Cosa che il pensionato avrebbe fatto parzialmente e a sue spese dal ricavato della vendita di uno degli ultimi terreni di sua proprietà nonostante la nuda proprietà di quella casa fosse della sorella. Il difensore del sessantunenne punta poi il dito sui servizi sociali comunali e parte sempre dal periodo del dopo incendio. «Dopo la segnalazione fatta dai carabinieri – fa sapere Pulignano –, gli uffici comunali non sanno nemmeno che il mio assistito ha soggiornato per un periodo in un garage attiguo alla casa distrutta». Contraddicendo le dichiarazioni del sindaco Iaia secondo cui i servizi sociali si sarebbero attivati per trovare una casa all’indigente, l’avvocatessa Pulignano racconta tutta un’altra storia. «A quanto mi risulta - dice -, è stato il fratello della vittima a trovare una sistemazione , pagando, per altro, un canone esoso che veniva corrisposto puntualmente solo ed esclusivamente dalla vittima, la quale percepisce una pensione di appena 500 euro mensili; doveva, inoltre – prosegue l’avvocatessa -, farsi carico anche del denaro che era costretto a consegnare alle decine e decine dei propri concittadini estortori che sono attualmente indagati. Mi chiedo – conclude - se i servizi sociali siano mai entrati in quella provvisoria casa, se abbiano mai verificato chi fosse il locatore, se esisteva un contratto di locazione e se quell'immobile fosse abitabile». Nazareno Dinoi

Sava come Manduria: nessuno tocchi i giovani Caino. Non è sempre facile affermare quanto sia necessario che “nessuno tocchi Caino”. È molto difficile quando apprendi, come è capitato in questi giorni, che in Puglia ci sarebbero gruppi di ragazzi, tra cui molti minorenni...Tiziana Maiolo su Il Riformista citata da La Voce di Manduria venerdì 15 novembre 2019. Non è sempre facile affermare quanto sia necessario che “nessuno tocchi Caino”. È molto difficile quando apprendi, come è capitato in questi giorni, che in Puglia ci sarebbero gruppi di ragazzi, tra cui molti minorenni, responsabili di aver vessato, derubato, torturato e sfruttato un anziano malato psichico. I 18 arrestati (di cui 8 minori) in provincia di Taranto dovranno rispondere di estorsione continuata, furto aggravato, rapina, detenzione e porto di arma da sparo, atti persecutori. I fatti fanno il paio con quanto avvenne a Manduria nella primavera scorsa quando, in seguito alle torture, fisiche e psicologiche, inflitte da altri ragazzi a un pensionato depresso ed emarginato, si arrivò alla morte dell’uomo il quale, sopraffatto da un clima ormai per lui insopportabile, si lasciò morire, rinunciando a chiedere aiuto e a curarsi. Sarebbe facile definire “mostri” questi ragazzi, anche perché abbiamo ancora nelle orecchie le loro risate e negli occhi le loro esibizioni sceniche nei loro filmati dopo le bravate. Nei paesi è sempre esistita una persona definita lo “scemo del villaggio”, in genere un innocuo e solitario malato psichico che i ragazzi prendevano bonariamente in giro. Ma che ha sempre avuto una materna protezione sociale: nessuno gli ha mai fatto del male, molti lo hanno aiutato e nutrito. Ma qui stiamo parlando di qualcosa di diverso, prima di tutto perché siamo in presenza di vere estorsioni e rapine, nei confronti di persone deboli nel fisico e nella psiche, e oltre a tutto anche povere. Doppia vigliaccheria, dunque. Ma c’è un’altra aggravante, anche se non in senso tecnico-giuridico, Quella dell’incontenibile necessità di esibizionismo da parte di persone che evidentemente hanno bisogno di uno specchio in cui contemplarsi per mostrare a se stessi di esistere e di essere forti. Sono persone che vanno trattate con severità, se e quando una sentenza di condanna darà veste giuridica a quel che purtroppo appare già abbastanza probabile sia accaduto. Certo, sono in molti oggi, anche in ambienti politici, a chiedere per questi ragazzi non solo pene esemplari, ma anche e soprattutto quella pena anticipata che è la custodia cautelare in carcere. Ma attraverso la privazione della libertà e il soggiorno in qualche prigione – ridotte come sono le nostre carceri- in compagnia, per lo meno i maggiorenni, di detenuti che ne sanno più di loro sul piano dell’illegalità, quante possibilità avranno questi giovani di essere ricondotti, come prevede la Costituzione, a un regolare reinserimento nella comunità civile? Proprio perché i fatti per cui sono stati arrestati sono gravissimi e denotano un altissimo grado di inciviltà, la funzione retributiva della pena dovrà essere piena e totale. Questi ragazzi dovranno restituire ciò che hanno tolto: hanno rapinato denaro, ma anche la dignità a una persona, la sua stessa vita, il senso della sua voglia di esistere. Hanno umiliato fino a uccidere. Ma non si può combattere la violenza del delitto con la violenza dello Stato, quindi del carcere. Ci sono altri strumenti, che portino queste persone prima di tutto a riconoscere gli altri, a non vederli solo come specchio delle proprie bravate e quindi a fare qualcosa per gli altri, a restituire loro quel che è stato loro tolto. Il carcere non serve a nulla, passare qualche mese o qualche anno a “pulire il culo ai vecchietti” servirebbe molto, ma molto di più. Tiziana Maiolo su Il Riformista.

·         Tarantismo, stregoneria, sessualità e peccato nella Manduria (e limitrofi) e nel Salento del '700.

Tarantismo, stregoneria, sessualità e peccato nella Manduria e nel Salento del '700. Il Tarantismo in Manduria e dintorni.  Nel suo viaggio sul tarantismo, il De Martino, che compie la sua celebre ricerca in una parte del territorio leccese e brindisino, sfiora la provincia di Taranto fermandosi solo fino ad Avetrana...Gianfranco Mele La Voce di Manduria, lunedì 06 maggio 2019. Nel suo viaggio sul tarantismo, il De Martino, che compie la sua celebre ricerca in una parte del territorio leccese e brindisino, sfiora la provincia di Taranto fermandosi solo fino ad Avetrana; tuttavia, non solo diversi autori del passato ci permettono di risalire anche alle manifestazioni e alle caratteristiche del tarantismo su Taranto e provincia, ma esistono, per quanto sparse, diverse testimonianze riguardanti Manduria e limitrofi. E se Alfredo Majorano nel 1950 ci offre uno spaccato del tarantismo a Lizzano, possiamo ricavare una serie di dati riguardanti paesi come Manduria e Sava, da documenti del passato, dai lavori del Gigli e del Greco di cui parleremo ampiamente, e da un lavoro del sottoscritto di recente pubblicazione sulla rivista “Il Delfino e la Mezzaluna” edita dalla Fondazione Terra d'Otranto. Con una serie di interventi, sintetizzerò queste informazioni. Come i cultori dell'argomento già sanno, il De Martino nella sua opera “La Terra del Rimorso” fa in realtà un breve cenno al tarantismo nel territorio manduriano e savese, ma per rimarcare quanto scrisse già il De Simone nel 1876. In un articolo dal titolo Il ballo (la Taranta, la Pizzica-Pizzica, la Tarantella), apparso in quell'anno su “La Rivista Europea”, lo storiografo e studioso di folklore leccese Luigi Giuseppe De Simone si sofferma a descrivere la figura del violinista cieco di Novoli, Francesco Mazzotta, il quale gli riferisce che a Melendugno, Sava, Manduria, Martina, S. Giorgio, Lizzano ecc. “manca la vera tradizione dell'arte”. Questo perchè, sempre secondo il Mazzotta, Novoli sarebbe stata una sorta di patria elettiva del tarantismo e della musica per le tarantate, mentre nei sopracitati paesi la tradizione si sarebbe persa fino a ridurre ad un solo motivo le arie terapeutiche: e, per questo motivo, il Mazzotta si rifiutava di portare la sua musica in soccorso delle tarantate e dei tarantati di questi paesi. Vedremo invece, che al di là del campanilismo del Mazzotta, non solo la tradizione del tarantismo e delle musiche per il tarantismo in questi territori era ancora viva tra metà e fine Ottocento, ma rivestiva anche una notevole complessità rituale. Prima di congedarci dal De Simone e andare oltre, si può notare che lo storiografo leccese cita, nel suo articolo, un canto che è il seguente:

“Mariola Antonia! Mariola te lu mare!

Taranta Mariola pizzica le caruse tutte quante !

Pisce frittu e baccalà e recotta cu lu mele,

maccaruni de Simulà.

( la tarantata risponde, esclamando): Ohimme! Mueru! Canta! Canta!”

Rispetto a tale canto, ricordo un motivetto analogo accennato in Sava dalla generazione dei miei nonni (perdurato quindi, per loro bocca, ormai anziani, fino agli anni '60) del quale le strofe finali (le prime non le ricordo) erano: “… pesci frittu e baccalà, e ricotta cu lu meli, Ton Pascali cu la mujèri...”

A.B., savese di oltre 60 anni, mi ricorda una strofa del motivetto, in una versione identica a quella raccontata dal De Simone: “pesci frittu e baccalà, e ricotta cu lu meli, maccarruni ti semula...”.

Diciassette anni dopo lo scritto del De Simone, sarà proprio un manduriano, lo storico e studioso delle tradizioni Giuseppe Gigli, a offrirci un quadro minuzioso e denso di particolari dello scenario legato al rito del tarantismo locale. La descrizione che ci lascia il Gigli, e che analizzeremo in un prossimo articolo, documenta l'esistenza di un fenomeno, attorno al 1893 (anno di pubblicazione del lavoro dello scrittore manduriano), che è lungi dal poter essere considerato come un fenomeno affievolitosi e rimaneggiatosi dal punto di vista rituale e musicale. Dopo il Gigli, un altro manduriano, Michele Greco, affronta con un dettagliato scritto il tema del tarantismo, e siamo nel 1912. Anche il testo del Greco è ricco di informazioni e di particolari interessantissimi, e merita perciò di essere ampiamente citato ed analizzato a parte, in altro articolo dedicato. Anticipando qui una piccolissima parte della sua trattazione, voglio solo evidenziare alcune strofe pubblicate dallo scrittore manduriano: alcuni versi di una taranta locale, e i versi tarantini che il Greco riprende da un canto riportato da Alessandro Criscuolo nel libro di novelle Ebali ed Ebaliche (1887).

Il frammento della taranta manduriana riportato dal Greco è il seguente:

“(Addò t'è pizzicata la taranta)...

addò t'è pizzicata cu sia ccisa

Intra alla putèa ti la camisa...”

Strofe identiche a quelle qui sopra riportate, le ho ritrovate in una versione più completa e recitatami a Sava da una anziana donna savese verso la fine degli anni '80 o inizi '90, con intercalari e versi che non si discostano molto da quelli di canti raccolti in Lizzano, S. Marzano e, più recentemente, in Manduria stessa.

Il canto tarantino riportato dal Greco (e ripreso a sua volta dal Criscuolo), invece, è il seguente:

“T'ha pizzicata, t'ha muzzicata

la tarantola avvelinata?

Vola, vola!

Cu lu suono e cu lu cante

l'accidime a tutti quanti,

tutti quanti li viermi brutti, tutti , tutti, tutti!”

Ma anche sulla descrizione dei canti tipici, e su una serie di versioni locali, ritorneremo. La storia dalla quale voglio partire, invece, per questa prima parte del nostro excursus sul tarantismo locale, è la più antica a cui, al momento, io sia riuscito a risalire: si tratta di un singolare accadimento dei primi del Settecento.

Tarantismo, stregoneria, sessualità e peccato: una singolare storia nella Manduria del '700. Dagli atti del Tribunale del Santo Officio di Oria risulta la storia di Francesco Malagnino di Casalnuovo (Manduria). Nel 1723 Francesco ha 18 anni e si fa preparare una fattura per legare a sé una ragazza di nome Apollonia. Francesco non riesce però a portare a compimento l'operazione della fattura perchè nel frattempo si ammala del morso di una tarantola “ed havendo fatto più balli per sanare, stiedi ammalato più di un mese, fra quel tempo la detta Apollonia si accasò”. Al giovane Francesco si offre però un'altra possibilità di conoscere i piaceri dell'amore e del congiungimento con una donna, piaceri per lui ancora preclusi: un giorno, mentre lavora nei campi, gli si presenta una donna mai vista prima, che gli chiede se è sposato e se sa qualcosa sul sesso, e “molte altre cose sporche”. Francesco resiste alla tentazione ma la donna gli si presenta una seconda e una terza volta per tentarlo, e questa terza volta accade di notte, mentre lui dorme, e lei comincia “a scherzare con le mani”, e lui la tocca, e questo fatto gli fa commettere “un peccato di polluzione”. La donna si presenta una quarta volta e gli dice che può organizzargli incontri sessuali, però lui deve stringere un patto col diavolo. Francesco accetta di fare il patto e un po' di tempo dopo viene avvicinato da un'altra donna che gli chiede se “la voleva conoscere carnalmente”. Francesco però si spaventa e grida “Madonna del Carmine mia agghiutami”: in quel momento ode una voce che interviene provvidenzialmente, che intima a quella donna tentatrice: “Finìscela, ch'è povero giovine”. Così, Francesco viene risparmiato dal peccato. Condizionamenti sociali e religiosi, eros precluso, paura della sessualità e del peccato emergono in questa storia di Francesco e ci offrono anche un metro per distinguere tra due fenomeni paralleli nella realtà contadina dei nostri paesi dei secoli scorsi: il tarantismo come sfogo (ma anche contenimento) dell'eros precluso, e l'adesione alle congreghe esoteriche dei masciàri come veicolo di liberazione e sfogo della sessualità (adesione che nel caso di Francesco, il giovane non riesce a portare a compimento). Ma di questo ulteriore argomento e delle similitudini e differenze tra “masciarìsmo” e tarantismo parlo, per chi voglia approfondire, in altre sedi (una di queste è l'articolo citato nella sottostante bibliografia e apparso su “Il Delfino e la Mezzaluna”, un'altra il libro “La Magia nel Salento” scritto in collaborazione con Maurizio Nocera).

Il Tarantismo in Manduria e dintorni. Tra masciàri e masciàre nella tradizione stregonesca salentina. Gianfranco Mele su La Voce di Manduria venerdì 10 maggio 2019.  La ricercatrice inglese Janet Ross intraprende intorno al 1888 un viaggio in Italia: nella sua tappa pugliese è accompagnata dal manduriano Giacomo Lacaita. Assiste al ballo della “pizzica-pizzica” presso la masseria di Leucaspide a Statte (Taranto), e successivamente conosce un altro manduriano, Eugenio Arnò, al quale rivolge una serie di domande sul tarantismo. Nella sua opera The Land of Manfred prince of Tarentum, edita a Londra nel 1889, descrive queste esperienze. Vi riporta anche i testi di tre canzoni popolari che ha raccolto: trascrive tre canzoni: Riccio Riccio, Larilà e La Gallipolina. La descrizione che Eugenio Arnò offre del tarantismo è molto particolare, come la stessa ricercatrice osserva, poiché l' Arnò distingue fra “tarantismo secco” e “tarantismo umido”, indicando con quest'ultimo termine l'usanza di ballare presso sorgenti d'acqua. Vediamo, a seguire, uno stralcio del testo della Ross: “Le informazioni che mi diede Don Eugenio, spettatore di centinaia di casi, differiscono da quelle avute da altri. Egli mi diceva: Esistono varie specie di quest’insetto che ha differenti colori, e vi sono due specie di tarantismo, quello umido e quello secco. Le donne, quando lavorano nei campi di grano, sono più soggette ad essere morsicate a causa delle poche vesti che portano addosso, durante il caldo eccessivo. Il male si annunzia con una febbre violenta, e la persona colpita di dimena furiosamente in tutti i versi gridando e lamentandosi. Allora subito si fanno venire dei musicanti, e se la musica che si suona non incontra la fantasia della tarantata (o tarantato, vale a dire la persona morsicata), la donna ( o l’uomo) si contorce e si lamenta più forte, gridando ”no, no, no questa canzone“. I musicanti allora cambiano immediatamente motivo, e il tamburello strepita e picchia furiosamente per indicare la differenza del tempo. Finalmente quando la tarantata trova la musica che fa per lei, si slancia d’un balzo e si mette a ballare freneticamente.

Se poi si tratta di ”tarantismo secco“, i parenti cercano il colore dell’insetto che l’ha morsicata, e le adornano le vesti e i polsi di nastri dello stesso colore dell’insetto, bianco o celeste, verde, rosso o giallo. Se nessun colore risponde a quello che si cerca, allora vien coperta da strisce di ogni colore, che svolazzano intorno a lei come essa balla, si dimena, si agita con le braccia per aria, da vera indemoniata. La funzione o cerimonia si comincia generalmente in casa; ma va a finire sempre per la strada, sia per il caldo, sia per la tanta gente che si raccoglie. Quando finalmente la “tarantata” si calma, vien messa in un letto caldo, dove dorme qualche volta sino a diciotto ore di seguito. Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ”è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. E ne parlava con vero dispiacere, perché in Puglia non è difficile il caso, che il bestiame muoia in estate per mancanza d’acqua. Pare che il “tarantismo umido” sia quello peggiore, perché talvolta la febbre si prolunga a sino a settantadue ore; ma in tutti e due i casi, fui assicurata che se i musicanti non sono chiamati, la febbre continua indefinitivamente, e viene qualche volta seguita da morte. ” Vicino a Taranto” continuava Don Eugenio, “c’è un mastro muratore che conosco benissimo, il quale pieno d’idee moderne, beffeggiava chiunque gli parlasse di morsi velenosi della tarantola, e minacciava di battere le donne di casa se si fossero permesse di chiamare i musicanti in caso di morsi di tarantola. Sia stata fatalità, sia stato volere di San Cataldo, un bel giorno fu morsicato proprio lui; e dopo aver sofferto tutte le pene dell’inferno, con un a febbre indiavolata per parecchi giorni, finalmente mandò a chiamare la musica, dopo aver chiuso accuratamente tutte le porte e le finestre della casa. Ma il delirio fu tanto forte che con gran gusto di quelli che credono nel “tarantismo”, spalancò la porta e si slanciò in mezzo della strada, gridando con tutte le forze che aveva” Hanno ragione le femmine! Hanno ragione le femmine!” Per questo trascrissi la musica della tarantella che mi fu insegnata da un vecchio contadino che la suonava sul violino, accompagnato da suo figlio con la chitarra battente, e da un altro con la chitarra francese. Erano tutti e tre chiamati spesso per i ”tarantati “, e mi assicurava che quel motivo aveva sempre un gran successo.”

Il Tarantismo secondo Giuseppe Gigli. A fine Ottocento viene pubblicato il lavoro del manduriano Giuseppe Gigli, “Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in terra d'Otranto”, che contiene un capitolo dedicato alla tarantola. Questo, lo scritto del Gigli al proposito, che riportiamo per intero data la sua ricchezza e singolarità di informazioni: «Altro pregiudizio del popolo di terra d'Otranto, o che non trova riscontro altrove, è quello del ballo nelle morsicature delle tarantole. Pare oramai assodato dalla scienza che la tarantola sia velenosa e, e che perciò il morso di così piccolo insetto abbia molte volte conseguenze gravissime; il professor De Renzi, che se ne occupò di proposito, crede che il veleno della tarantola abbia comune la sostanza con quello della vipera, perciò manifesti la sua azione sul nervo trisplamico e sue dipendenze. Noi non facciamo però altre indagini scientifiche, e notiamo il fenomeno popolare. Diverse specie di ballo praticansi, per guarire dal brutto male. Curioso è il modo di spiegare innanzi al ballerino o alla ballerina molti fazzoletti di colore, che i disgraziati guardano fissamente, finchè non trovino quello che nel colore stesso rassomigli alla tarantola. Se, fra le persone che accorrono a curiosare, qualcuno indossi un fazzoletto, o una cravatta che abbia il colore ricercato dal morsicato, è costretto a spogliarsene subito, per dare giovamento al soffrire di colui. Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa, altri quasi seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti, o simili adornamenti femminili, altri reggendo pesanti arnesi della casa. Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell'acqua. E non solamente nell'acqua si agitano per mozza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle. E' una cosa che muove a pietà, a sdegno per così orribile pregiudizio! Immancabilmente è accompagnato il ballo dal monotono e cadenzato suono di un violino, e dal rullo d'un tamburello colle nacchere; suono e cadenza che si approssimano all'altro della pizzica-pizzica che è il ballo più antico e veramente popolare, tutto proprio del nostro popolo, la cui tradizione si spegne nei secoli più lontani. Il violino è suonato da un uomo, e il tamburello da una donna, la quale intona di tanto in tanto un lamentevole canto. C'è in tutti questi canti una profonda mestizia e una squisita aria di sentimentalità. Ora s' immagina un tradimento d'amore, che produce a chi balla le presenti pene; ora parla un essere soprannaturale che, compiangendo le umane sciagure, conforta chi balla; ora s'invoca la morte, come unica speranza di veder troncare le pene. Eccone uno in dialetto manduriano (condito però di parecchi italianismi) che io stesso racolsi da una di codeste cantatrici per mestiere sono tre strofe molto belle e meste nelle quali si finge che chi balla, parta per sempre dalla sua donna: 

Malinconicu cantu, ci allegru mai, 

cacciami fori sti malincunii. 

Comu l'aggiu a cacciari, quannu lu sai? 

Aìa nu cori ci lu dunai a te. 

Bella, ju partu arrivederci, addiu, 

nu' ti scurdari ci ti cori t'ama, 

nu' ti scurdari di lu nomi miu, 

mentri la sorti untami mi chiama. 

Ci lai la noa ca muertu so' iu, 

bella, ca ti la càccianu la fiama... 

ma tu gnicosa la finisci a Dio, 

mentre cu campu iu stu cori t'ama! 

Ecco come mi narrò le conseguenze del brutto morso una povera femminuccia del popolo; scrivo quasi come si espresse, meno il dialetto; stupisco ancora che quella poveretta sapesse trovare alcune frasi stupende per esprimere il suo dolore: “Raccoglievo con altre donne la spiga in un gran podere; il sole gettava onde di fuoco; a noi tutte mancava il respiro; tanto che, prima di mezzogiorno lasciammo l' usato lavoro, e ci sdraiammo al rezzo d'un muricciuolo. Mentre, dopo avere assaggiato un boccone di pane, cercavo di chiudere gli occhi al sonno, all'improvviso ebbi un sussulto, e nello stesso tempo intesi un forte dolore a una mano: mi levai in piedi, cercai la causa del dolore, ma non vidi nulla. Capìi subito però: ero stata morsicata dalla tarantola. 

Cominciai a piangere: povera me! 

Pei poveri quella è una grande sventura, perchè è una malattia lunga, che vieta loro per lungo tempo il lavoro. 

Tornata a casa, cercai di porre qualche rimedio al male con medicature e decotti. Non mi giovò niente. 

Dopo qualche tempo il male incalzava. Compresi che un solo espediente mi restava: ballare. Da quel giorno non chiusi quasi più gli occhi al sonno. Un dolore continuo mi teneva in disagio tutta la persona. Ciò però era niente; il male principale era alla profonda malinconia che mi assalse nell'anima. Mi parea ogni cosa oscura, oscura: le persone tutte vestite di nero, dipinte di nero le case. Il pensiero della morte mi prostrava l'anima: pensavo che, morendo, lasciavo un pover'uomo con quattro figli, l'ultimo dei quali ha solo due anni. Durante i due o tre giorni, in cui fecero i preparativi pel ballo, non potetti toccar cibo. La notte che precedette il ballo, fui costretta a stare in piedi, camminando continuamente per la casa. Mi sentivo mancare il respiro, come se una mano di ferro mi stringesse il seno e il cuore. All'alba mi sentii un poco meglio, e mi sdraiai sul letto. Dopo mezz'ora però un improvviso sussulto mi fece saltare in terra, e da quel momento non ebbi più un istante di requie. Si mandarono in subito a chiamare i suonatori, e si distesero innanzi a me dieci o dodici fazzoletti di vari colori. Cominciai a ballare. Chi può dire quel che soffersi? Il colore dei fazzoletti non leniva però il mio spasimo: segno che nessuno di essi corrispondeva al colore della tarantola. All'improvviso diedi un grido: avevo visto un giovine, vestito di nero. E m'intesi un poco meglio: quel nero era il colore che dovevo guardar fissamente perchè la tarantola era nera. Dopo tre giorni di continuo ballo, stetti bene». Spesse volte, dopo un anno, approssimandosi la stagion del raccolto frumentario, si ridesta nei morsicati dall'insetto la veemenza del male. Gli spasimi si rinnovano. E la necessità d'un nuovo ballo è ritenuta indispensabile. “

Il testo del Gigli contiene diversi elementi interessanti, a partire dalla spiegazione dettagliata del rituale e dell'ambiente del ballo. La variante del ballo condotto nei crocicchi anziché in casa è interessante poiché ci riporta a considerazioni sulla valenza magica e sacrale del crocicchio o del trivio, di stretta derivazione pagana: il crocicchio o trivio (o quadrivio) è posto di concentrazione di energie, luogo sacro ad Ecate (detta anche Trivia), e ad Hermes: luogo adatto ad oracoli, apparizioni, preghiere, zona franca in cui si svelano e si manifestano le forze dell'occulto, e persino (e coerentemente) luogo di appuntamento e di incontro tra masciàri e masciàre nella tradizione stregonesca salentina. Come vedremo in seguito (nei prossimi scritti), anche Michele Greco accenna, in un suo saggio dei primi del '900, a riti per la cura del tarantismo condotti, in zona di Manduria, in strada, e dunque non solo all'interno delle mura domestiche. Nei riti osservati dal Greco, una variante alternativa al rito al centro del trivio o del quadrivio è la tracciatura, da parte del tarantato, di un cerchio protettivo sul terreno, entro il perimetro del quale si mantiene, a scopi protettivi (rituale tipico della antica magia cerimoniale, finalizzato alla protezione da energie negative).

Cenni sul ruolo dell'acqua nella antica cura del tarantismo. La variante del rituale con il ballo nell'acqua, descritta dal Gigli, è interessantissima sia perchè si ritrova in altre descrizioni che riguardano il tarantismo nella provincia di Taranto, sia perchè il ruolo dell'acqua come elemento purificatore è presente in diverse forme della religiosità e del simbolismo pagano. Sappiamo inoltre che l'acqua del cosiddetto Pozzo di San Paolo rivestiva una funzione importante nella cura del Tarantismo a Galatina (e secondo alcune interpretazioni era utilizzata a fini risanatori anche prima dell'innesto del culto paolino nel locale tarantismo: vedi ad es. il lavoro di Giancarlo Vallone, “Le donne guaritrici nella Terra del Rimorso - dal ballo risanatore allo sputo medicinale” (Congedo Ed.). Tuttavia l'acqua pare avere un ruolo “medico” sin dall'antichità come rimedio specifico per i morsi in genere di animali considerati velenosi. Infine, sembra che almeno sino a fine Settecento un ruolo nella cura del tarantismo lo abbia avuto in passato persino l'acqua del Fonte Pliniano di Manduria: Salvatore Pasanisi, medico manduriano, nel suo Saggio chimico – medico sull'acqua minerale di Manduria, dato alle stampe nel 1790, difatti lascia intendere che doveva esserci l'usanza di “curare i tarantati” con l'acqua del Fonte Pliniano. Inoltre, come abbiamo visto, Eugenio Arnò testimonia, a fine Ottocento, dei balli delle tarantate presso l'acqua di un pozzo. Ma entreremo nei dettagli su questi argomenti in una delle prossime puntate dell'excursus.

Il Tarantismo in Manduria e dintorni. Gianfranco Mele su La Voce di Manduria, martedì 17 settembre 2019. Come abbiamo visto in una delle precedenti puntate di questo excursus sul tarantismo locale, lo studioso manduriano Giuseppe Gigli nel 1893 descrive il fenomeno del tarantismo e il relativo rituale, accennando anche ai “balli nell'acqua”: “Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell'acqua. E non solamente nell'acqua si agitano per mozza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle.” La variante del ballo nell'acqua, si ritrova in varie altre descrizioni che riguardano le forme più antiche del rito, e in moltissime narrazioni specifiche concernenti il tarantismo nella provincia di Taranto. Questa la descrizione che il ricercatore ottocentesco Giovan Battista Gagliardo offre delle danze delle tarantate presso il podere Malvaseda nei pressi di Taranto: “Succede al promontorio della Penna il podere Malvaseda nome di un'estinta famiglia Tarentina, il quale è innaffiato da' varj canaletti di acqua perenne. Qui nelle belle giornate d'inverno concorrono i Tarentini per mangiarvi il pesce fresco, le ostriche, ed altre conchiglie. Il vedere in quei giorni tutta questa campagna, la quale è piena di agrumi, e di ogni specie di alberi da frutto, popolata da famiglie sparse qua, e la, tutte intente a preparare il pranzo, e quindi sdrajateper terra divorarselo, ricordano le belle adunanze greche che terminavano colla danza, come finiscono anche le moderne. Dopo il pranzo unisconsi le varie compagnie e ballano al suono della chitarra la pizzica pizzica, ballo che esprime tutta la forza dell'entusiasmo, e di quel clima, che diede occasione ad Orazio di chiamarlo molle. Concorrevano anche qui una volta le Tarantolate. Credevano quelle maniache, e facevano crederlo anche ai loro amanti, che senza rivoltarsi nell'acqua, ciò che dicevano Spurpurare, non sarebbero guarite. Grazie alla filosofia, alla quale le femmine debbono ora la libertà che prima era loro negata, non vi sono più tarantolate né in Taranto, né nel resto della Provincia. “ Anche il Berkeley, nel suo “Diario di viaggio in Italia” condotto ai primi del '700, descrive tra le altre cose l'abitudine dei tarantati di gettarsi nel mare: “A Taranto vivono diverse famiglie nobili. Anche qui abbiamo assistito alla danza di un tarantato. [...] Il console ci ha detto che tutti i ragni, ad eccezione di quelli con le zampe più lunghe, se ti mordono, provocano i tipici sintomi, benché non così forti come quelli dei ragni più grandi di campagna. Ha poi aggiunto che la tarantola provoca un forte dolore e un livido che si estende su tutta la zona circostante il morso ed anche oltre. Non credo che fingano, la danza è davvero faticosa. Inoltre, ha raccontato che i tarantati siano vittime di una pazzia febbrile e che a volte, conclusa la danza, si gettavano in mare e finivano per annegare se qualcuno non li avesse salvati. “ Il naturalista seicentesco Paolo Boccone scrive a proposito dei tarantati pugliesi: “Una delle forze, e fatiche incomprensibili, che hanno, e che ci assicura non esservi finzione, si è quella, che per un quarto d'hora, e più di seguito girano intorno, come un Arcolaio, con impeto, e furore; l'altra è di voler ballare in Mare, e però vi si gettano con violenza, e cecità tale, che gli astanti sono obbligati a legare i Pazienti alla poppa della Barca in mezzo alle acque, e li Sonatori di dentro suonano, e in quella forma resta satisfatta l'imaginazione depravata, e corrotta degl'Infermi.” L' elemento acqua ricorre sempre nel tarantismo e infatti lo si ritrova anche nelle svariate descrizioni degli ambienti in cui si svolgono i rituali domiciliari: spesso gli osservatori notano, tra gli oggetti posti nella stanza della tarantata, la presenza di un catino d'acqua come parte integrante degli accessori rituali (altri sono: specchi, funi, erbe). Le testimonianze sulla variante del ballo in acqua sono innumerevoli. Lo studioso orietano Quinto Mario Corrado, nel suo De copia latini sermonis (1581) ricorda come i tarantati “ad aquam, ad fontes, ad ramum viridem, ad umbras, ad amaena omnia rapiuntur ” Epifanio Ferdinando nel 1621 riferisce una serie di comportamenti “ curiosi” dei tarantati, fra cui quelli di “giovani donne che si buttano nei pozzi ” e di altri che “si lanciano in mare”. Anche il medico Giorgio Baglivi parla, nel 1696 (Dissertatio de anatome, morsu et effectibus tarantulae), della presenza dell'acqua nel rituale, e, in questo caso, di fosse scavate all'esterno, nel terreno, nelle quali i “malati” si immergevano. Il leccese Nicola Caputi, nel suo De tarantulae anatome et morsu (Lecce, 1741, pag. 201) scrive: “talora apprestano un tino, o una sorta di caldaia molto capace, colma d'acqua […] ovvero fanno sgorgare leggiadre fonticelle di limpida acqua, atte a sollevare lo spirito”. Una ulteriore testimonianza proviene da Attanasio Kircher che nel suo Magnes sive de arte magnetica (Colonia, 1643) riferisce di conche d'acqua poste nello spazio dove si svolgeva la danza, e del giovamento tratto dalle tarantate nell'immergersi in queste conche; Ludovico Valletta, inoltre, nel suo De Phalangio Apulo parla della presenza di fonti d'acqua nel luogo dove si svolgeva la danza. Un cenno va fatto anche all'acqua del Fonte Pliniano manduriano, che, sembra di capire dalle parole di un altro medico, il Pasanisi, doveva essere utilizzata, almeno sino al Settecento, per la cura del tarantismo. Il Pasanisi ne accenna, tuttavia, per confutare l'idea che l'acqua del fonte mandurino possa contrastare gli effetti del veleno: "Può essere preservativo del tarantismo? Se il tarantismo, secondo il pensare di molti moderni, anche leccesi (fra gli autori leccesi è il cavalier Carducci nell' annotazioni sopra il libro intitolato Delizie tarantine), non è effetto del morso velenoso della tarantola, ma un particolare morbo de' pugliesi e del genere dei deliri melancolici, farebbe certamente un grande preservativo. Ma se poi sia effetto del veleno della Tarantola, come altri sostengono, sarebbe inutile fidarsi all'acqua di Manduria". Janet Ross, nella sua opera The Land of Manfred prince of Tarentum, edita a Londra nel 1889, e frutto di una ricerca compiuta l'anno precedente in Puglia, parla del tarantismo (ne abbiamo offerto ampia descrizione nella seconda parte di questo excursus pubblicata su “la Voce di Manduria”) e si serve, per le relative informazioni e per le visite nel territorio, dell'aiuto dei manduriani Giacomo Lacaita ed Eugenio Arnò. Riferisce, al proposito, di una forma di “tarantismo umido” consistente nell'usanza di ballare presso sorgenti d'acqua, e di inondarsi d'acqua: Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ”è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. Nel Dioscoride del Mattioli si legge che l'acqua del mare è particolarmente salutifera alle punture velenose di ragni e scorpioni, e che, più in generale, i bagni nell'acqua (anche dolce) e l'acqua calda giovano al “paziente”. Altri autori confermano che sin dall'antichità i bagni in acqua sono considerati terapeutici per gli effetti del veleno. Il rituale dell'acqua risulta perciò antichissimo, e precede, nella cura del tarantismo, quello domiciliare, nel quale tuttavia (con la presenza di catini e bacinelle) si conservano residui e richiami al più antico rito: ma su questi aspetti mi soffermerò con più dettagli e documentazione in scritti di prossima pubblicazione.

Il Tarantismo in Manduria e dintorni. Il tarantolismo nelle osservazioni dello studioso manduriano Michele Greco. A cura di Gianfranco Mele su La Voce di Manduria martedì 08 ottobre 2019. Michele Greco nasce a Manduria nel 1887. Nel 1912 si laurea in Medicina e Chirurgia presso l'Università di Napoli e successivamente si specializza in Oculistica. Svolge la carriera di Medico, Ufficiale Sanitario, Oculista. Pur continuando la sua carriera di medico, nel 1922 è nominato Regio Ispettore Onorario per i monumenti, gli scavi ed oggetti d'antichità e d'arte per il mandamento di Manduria e Sava. Si interessa anche di arti popolari e di rappresentazioni vernacolari curando testi teatrali, e prende parte attiva alla Pro Loco manduriana. A partire dal 1943 fa parte della Società di Storia Patria per le Puglie. Nel 1948 è Direttore della Blblioteca Marco Gatti di Manduria. Si interessa attivamente di medicina, di storia, storia locale, arte, archeologia e scrive di questi argomenti su giornali e riviste. Si spegne in Manduria nel 1965. Nel 1912 Michele Greco portava a termine il suo manoscritto intitolato “Superstizioni medicamenti popolari tarantolismo”, che, nel proemio, lui stesso presenta come studio delle credenze e della medicina popolare locale, composto di note e informazioni tratte direttamente dal popolo. Un lavoro di stampo etnografico, dunque, arricchito di comparazioni e citazioni provenienti dagli studi e dalla cultura del Greco, che spaziavano in diverse discipline. Un capitolo intero di questo prezioso trattato è dedicato, come si evince dal titolo stesso, al tarantolismo, argomento sul quale il Greco si sofferma ampiamente descrivendo il fenomeno, con ampi riferimenti e rimandi anche alla letteratura medica sul tema: cita difatti i lavori dei medici settecenteschi Giorgio Baglivi e Nicola Caputi, e quelli del grottagliese Ignazio Carrieri, che nel 1893 aveva pubblicato un saggio medico sul tarantolismo pugliese. Michele Greco utilizza per definire il tarantismo, alternativamente i termini tarantolismo e ballismo. Nella nosografia neurologica, questo termine, che proviene dal grecoβαλλισμός = «danza», è riferito ad una sindrome caratterizzata da movimenti involontari, violenti e irrefrenabili della muscolatura, ora scattanti, ora lenti, ma sempre incontrollabili. La formazione e le competenze mediche del Greco, dunque, lo spingono ad inquadrare e a descrivere il fenomeno, oltre che da un punto di vista folkloristico-etnografico, da quello medico. Tuttavia, il Greco non si sbilancia in conclusioni ed interpretazioni di natura clinica, sottolineando già nell'introduzione allo scritto che non intende farlo, e rimarcando, nelle conclusioni, che sul tarantolismo“... tanti osservatori antichi e recenti clinici si sono sbizzarriti, alcuni affermandone l'entità altri negandola recisamente. Io non intendo, in alcun modo, per l'indole del mio lavoro, entrare nella contesa: è certo però che ancora un esatto ed esauriente studio di questa forma morbosa (se se ne toglie il lavoro già citato del Dott. Carrieri) e della sua cura popolare non è stato ancora fatto sia dal lato clinico che dal lato folkloristico”. Già dalle righe introduttive del lavoro del Greco, su può evincere come a inizi Novecento il fenomeno sia ancora molto vivo e presente nei nostri paesi:“... la taranta, è ritenuta nociva per il suo morso specialmente nei mesi da maggio ad agosto. In questi mesi non passa giorno in cui nelle piazzette, nei vicoli, nei cortili dei nostri paesi non si oda la nenia caratteristica del violino o del tamburello che accompagnano il ballo cui si assoggetta colui che è stato morsicato”. Un fenomeno di ordinarietà e frequenza giornaliera ancora nel 1912 dunque, stando alle parole del Greco (in estate, nei mesi “classici” del tarantismo). Nel passo successivo, il Greco riferirà di una prevalenza femminile tra i soggetti “morsicati”, anche se, preciserà, vi sono tarantati maschi e femmine. Altre annotazioni interessanti, e che trovano conferma nel resto della letteratura sul fenomeno, sonoquelle che il Greco osserva rispetto al rituale dell'uccisione della tarantola e alle relative credenze: “la puntura della tarantola non sempre è avvertita dal paziente (e intendo con questo nome uomo o donna che sia, sebbene in prevalenza gli oggetti della morsicatura siano le donne); quando se ne accorge, egli avrà cura di uccidere la tarantola (e questo è un fatto che ha grandissimo peso nella cura del ballismo; chè se ciò non avviene la malattia si prolungherà per anni e anni) e poi succhiare a lungo e diligentemente la ferita, sovrapponendovi del succo d'aglio o di limone”. Ma, precisa poi il Greco, questa cura locale con aglio e limone, e tutte le altre che potrebbe consigliare un medico, sono usate con scarsa fiducia dal paziente, poiché per lui, e per il popolo, ciò che ha il potere di guarire le manifestazioni morbose della puntura del ragno, sono la musica e la danza! La cura sarà affidata, perciò e comunque, “alli sunatùri”. Dal tarantolismo, prosegue il Greco, possono essere presi tutti: “uomini e donne, bambini, giovani e vecchi”. Tutti, anche quelli che non credono né nel tarantolismo né nel ballo come cura, alla fine possono essere “morsicati” e comportarsi da tarantolati: “Si raccontano dalle zelanti comari dei fatti – e si citano anche i nomi – di persone che irridevano e non credevano al tarantolismo e che, presi anche loro da tal malattia, si son rifugiati in campagna a ballar di nascosto”. Nei “rari casi in cui il ballo è riuscito inefficace”, prosegue il Greco, “sono stati guariti da un pellegrinaggio al santuario di S. Paolo di Galatina o da una buona dose di legnate dell'impaziente marito”. La credenza popolare secondo cui la tarantola sarebbe sensibile alla musica (“la taranta oli li sueni!”) secondo il Greco è confermata da alcuni studi naturalistici. Sta di fatto, annota lo studioso, che “si dice che il falangio, quando non è ucciso, danzi insieme con la sua vittima al suon del violino e si narra che molti contadini hanno fatto uscire dalla sua buca l'aracnide, canticchiando uno dei tanti motivi che fan parte delle danze del tarantolismo”. Secondo le interpretazioni popolari del fenomeno raccolte dal Greco, ciò che spinge il tarantato a danzare è la tarantola stessa, con la sua voglia di danzare e la sua reattività alla musica, che trasmette al “morsicato”: qui, lo studioso manduriano sembra far luce su quella interpretazione del tarantismo come possessione che sarà veicolata da studiosi successivi. Scrive, al proposito: “... si crede dal volgo che il fenomeno del ballismo non sia causato da una vera entità morbosa sotto cui soggiace la vittima: ma è la tarantola che, volendo danzare, spinge l'infermo a movimenti 'incoordinati' ed incomposti: movimenti che si regolarizzano solo quando la tarantola stessa ha trovato il motivo adatto alla danza”. Il Greco prosegue poi rilevando che esistono casi in cui non c'è un nesso reale tra le manifestazioni di “ballismo” e il morso del ragno: ”molte volte alcune giovanette si son date sfrenatamente alla danza senza alcuna ragione e si è notato che questi casi accadono ordinariamente ove già un infermo di tarantolismo esperimenta la sua cura danzante. Si possono trovare due o tre affetti di tarantolismo nella stessa via e che hanno seguito il primo di pochi giorni. E poi anche nelle vie vicine in modo da dar l'idea di un focolaio morboso che abbia dato luogo nei vari giorni a vari casi della stessa malattia. Io stesso ho potuto osservare in una stessa famiglia due casi di tarantolismo e ricordo che, mentre la figlia danzava sulla via, la madre, a cui i sintomi si erano manifestati due giorni dopo, ballava chiusa in casa, seguendo la musica che serviva per la figlia”. Citando sia il Baglivi che gli studi del Carrieri, il Greco distinguetra casi di probabile aracnidismo e casi di simulazione: “ordinariamente son questi i casi notati già dal Baglivi, e che forse devono essere interpretati come fenomeni di suggestione in un terreno isterico, che guariscono rapidamente, come ho già precedentemente accennato, in una sola seduta, sotto i colpi ben assestati del randello maritale”. Dopo aver distinto (ribadendolo anche in una nota a margine con citazione di un lavoro del Carrieri) tra vere tarantolate e casi di simulazione causati da isterismo, il Greco passa poi ad una rapida descrizione della sintomatologia: “nel punto ove il morso è avvenuto può o non può avverarsi gonfiore. Alcuni sentono un dolore intenso come trafitture, che si accentuano di giorno in giorno accompagnandosi con la flogosi della parte lesa: altri non risentono nulla sino a che non compaiono i fenomeni generali. Questi nell'un caso o nell'altro sono caratterizzati da intense cefalee, vertigini, irrequietezza, malessere generale e da un bisogno intenso ed irrefrenabile di muovere ed agitare in tutti i sensi gli arti e il capo. La vittima del falangio pugliese dopo questi primi fenomeni morbosi, si appresta al ballo e vi si assoggetta come ad una necessità, al di fuori della quale non v'è altra via di salvezza”. Successivamente, il Greco descrive il rituale e lo scenario del rituale. Tra i particolari importanti che emergono, si deve osservare come nei primi del novecento persisteva ancora nei nostri paesil'usanza di svolgere il rito non necessariamente in casa ma per strada, “nella via”, usanza che già il De Martino non riscontrerà più, con la sua ricerca condotta nel 1959 (ricerca che, peraltro, non tocca Manduria e altri paesi della provincia di Taranto): “si chiamanu li sueni (si chiamano i suoni cioè i suonatori) che, ordinariamente, son composti di un violinista e una suonatrice di tamburello, la quale ha anche il compito di accompagnare col canto la danza salutare. L'infermo sceglie il posto ove deve danzare; ordinariamente è un tratto di via vicino alla sua casa. Attorno attorno vi si stendono su corde tese dei fazzoletti a rosoni e a svariati colori, tra cui predominano il giallo, il rosso, il verde”. Nel rito descritto dal Greco è presente anche l'arredo di tipo “arboreo” sulla descrizione del quale si soffermerà anche il De Martino: tralci di vite e mazzi di erbe odorose son posti come elemento decorativo del rituale, e se i tralci “coperti di pampini verdi” richiamano gli scenari delle antiche feste bacchiche, come osservano ripetutamente diversi autori, e le erbe sembrano svolgere, anche nelle annotazioni del De Martino, il ruolo di una sorta di “aromaterapia” di supporto, è vero anche (ma su questo aspetto mi soffermerò in altra occasione) che determinate erbe come quelle qui appresso citate, il basilico e la menta (e altre come la ruta, presenti nelle ricostruzioni di altri osservatori), erano anche erbe impiegate sin dall'antichità nella cura degli avvelenamenti causati da punture e morsi di animali “velenosi”: “tutt'intorno, ma sempre a volontà dell'infermo, si stendono dei tralci di vite coperti di pampini verdi e di mazzi di basilico e di menta, e la gente fa circolo attendendo che l'infermo cominci la danza”. Nella descrizione del Greco, altro elemento interessante è nel fatto che non solo i presenti o i musicisti “fanno cerchio” attorno all'infermo, la cosiddetta “ronda” o “rota” che costituisce il perimetro cerimoniale descritto più volte nelle varie e numerose dissertazioni dei diversi autori sulla coreografia del tarantismo: qui, sono i tarantati stessi che a volte tracciano un cerchio sul terreno, all'interno del quale svolgeranno la loro danza. Questa tracciatura è tipica della magia cerimoniale medievale ed è utilizzata come forma protettiva per tenere fuori dal cerchio stesso le energie negative e malvage. Appare anche nella descrizione del Greco il catino o il vaso colmo d'acqua come elemento del rito, e in questa descrizione il tarantato vede o“cerca la tarantola” nell'acqua: “alcuni tracciano sul terreno un cerchio entro cui danzeranno per ore intere senza mai oltrepassarlo: altri si fanno portare un vaso pieno d'acqua, in cui si dice cercheranno la tarantola”. Il Greco passa poi a descrivere sommariamente gli atteggiamenti dell'infermo, l'inizio del rituale, e soprattutto la reazione del tarantato alla musica: “gli atteggiamenti e le movenze sono quanto di più caratteristico si possa immaginare e chi ha visto per una sol volta danzare le nostre tarantate non potrà dimenticarle mai. L'infermo attende con gli occhi fissi a terra, in piedi o seduto, che la musica incominci e già la coppia del violinista e della suonatrice di tamburello hai primi accordi. Ma non sempre accade che l'inizio dei suoni coincida con quello della danza: l'infermo non accenna a muoversi ed i suonatori son costretti a cambiare 'motivo'”. Anche qui emergono particolari interessanti, fra i quali una complessità (numerica) dei motivi musicali che contraddice le spiegazioni date dal violinista Mazzotta a Luigi Giuseppe De Simone, che nel suo saggio del 1876 intitolato Il ballo (la Taranta, la Pizzica-Pizzica, la Tarantella), scrive di un impoverimento dei motivi musicali nel territorio tra Manduria e Sava, ridotti “ad un solo motivo” (la qual cosa avrebbe portato il Mazzotta a desistere dal recarsi a “curare” le tarantate in questi ed altri paesi dove si era persa “la vera tradizione dell'arte” in quanto la gente non sarebbe stata più recettiva ai “dodici temi, che danno dodici motivi (muedi)”. Il Greco individua invece ben 21 temi che corrispondono a “21 specie di tarantole”, ciascuna delle quali predilige un motivo in particolare, e di conseguenza influenza i “gusti” del malato: “la ricerca del 'motivo' ha una importanza capitale nella danza del tarantolismo. Si crede che 21 siano le specie di tarantole che possono nuocere, e ciascuna di queste ha il suo motivo speciale, senza il quale essa non spinge l'infermo a danzare e quindi i poveri suonatori di violino devono provare di fila tutti i motivi sino a che non abbiano trovato quello giusto: quello che vada a sangue al tarantato”.

Il Tarantismo in Manduria e dintorni. Il tarantismo a Sava. Gianfranco Mele. Tarantismo, stregoneria, sessualità e peccato nella Manduria e nel Salento del '700. La Voce di Manduria venerdì 22 novembre 2019. A cura di Gianfranco Mele. Nel 1812 due giovani savesi si arruolano nella Grande Armata Napoleonica comandata da Gioacchino Murat e partono, con un contingente di soldati del Regno di Napoli, per la Russia. Si tratta di Pasquale Prudenzano (1788-1867) e Daniele Mero (1792-1878). Questi due soldati alla fine della battaglia faranno ritorno in patria ma uno dei due, il Daniele, ferito in guerra, vi ritorna cieco e continua la sua vita facendo il suonatore di violino per le tarantate in Sava e nei dintorni. Non sappiamo altro della vita e della storia di Daniele come suonatore per le tarantate: l'unica osservazione che possiamo fare in proposito è che siamo in presenza di un clichè tipico della storia dei musicisti delle tarantate, molti dei quali, appunto, erano ciechi: è il caso di Francesco Mazzotta di Novoli, citato dal De Simone e dal De Martino, di “Pascali lu ciecu” di Lizzano che, si racconta, fosse divenuto cieco proprio a causa del morso di un ragno, del violinista tarantino “Ciotola” che nell' 800 era una conosciutissima figura nell'ambito dei musicisti locali per le tarantate, di un altro violinista cieco del quale racconta la Caggiano in un suo saggio intitolato La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto. Nel tentativo di raccogliere informazioni sul fenomeno del tarantismo in Sava andando a ritroso nel tempo, la storia di Daniele Mero è la più vecchia che abbia potuto trovare. Come noto, Sava viene fugacemente citata poi nella celebre ricerca del De Martino (nel suo testo “la Terra del Rimorso”), che a sua volta riprende alcuni passi di uno scritto del De Simone (1876): ma il De Simone cita Sava solo attraverso le parole dell'intervistato Mazzotta, il violinista cieco novoliano che, con una buona dose di campanilismo, rivendica il suo paese come una sorta di patria dell'arte della musica per le tarantate e asserisce che si è persa “la tradizione dell'arte” a: Melendugno, Sava, Manduria, Martina Franca, San Giorgio di Taranto, Monteparano, Lizzano, Montemesola, Castellaneta, Grottaglie, Francavilla Fontana, Brindisi, dove, secondo lui, i tarantati reagiscono ad un solo motivo locale, e pertanto lui si rifiuta di portarvi la sua musica. In realtà, abbiamo visto citando nelle precedenti puntate di questo excursus i testi del Gigli e del Greco, come il fenomeno rivesta una sua complessità rituale in Manduria e dintorni sino ai primi del '900. Così, le dichiarazioni del Mazzotta, che riferisce che a Sava, Manduria ed altri paesi il rito si è affievolito e i tarantati reagiscono ad un solo motivo, mentre lui intona in Novoli e altri paesi ben “dodici temi, che danno dodici motivi (muedi)”, cozza con quanto riporta Michele Greco a proposito del tarantismo locale, laddove il Greco arriva ad individuare ben 21 temi corrispondenti a “21 specie di tarantole”. Sia il De Simone che il De Martino prendono per buone le dichiarazioni del Mazzotta, trascurando di indagare questi territori. Il De Martino non si spinge oltre Avetrana nella sua ricerca. A parte, però, la consistente mole di documentazione che ci previene rispetto alla vicina Manduria da parte del Gigli, del Greco e da parte di Janet Ross, non c'è stato mai nessuno che abbia raccolto informazioni dettagliate nello specifico territorio savese. Ovviamente, per questioni di prossimità geografica (5 km di distanza appena tra le due cittadine) le analisi dei succitati autori valgono in ogni caso,per il territorio di entrambi i paesi. Tuttavia, ho cercato di compiere recentemente un ulteriore sforzo ricostruttivo del fenomeno nel paese di Sava. Proprio nel testo del De Simone è citato un motivo del leccese che veniva cantato durante il rituale: “Mariola Antonia! Mariola te lu mare!/Taranta Mariola pizzica le caruse tutte quante !/Pisce frittu e baccalà e recotta cu lu mele, maccaruni de Simulà” (la tarantata risponde, esclamando:) “Ohimme! Mueru! Canta! Canta!”

Rispetto al canto riportato dal De Simone ricordo un motivetto analogo accennato in Sava dalla generazione dei miei nonni (perdurato quindi, per loro bocca, ormai anziani, fino agli anni '60) del quale le strofe finali (le prime non le ricordo) erano: “... pesci frittu e baccalà, e ricotta cu lu meli, Ton Pascali cu la mujèri...”

A.B., savese di oltre 60 anni, ricorda una versione identica a quella raccontata dal De Simone, citandomi, anche lui, soltanto uno stralcio: “..pesci frittu e baccalà, e ricotta cu lu meli, maccarruni ti semula”.

In coda a una ricerca condotta ai tempi dell' università nell'ambito di un seminario di antropologia, e avente come campo di indagine riti e magia nella civiltà contadina, tra la fine degli anni '80 e i principi dei '90 ritornai ad occuparmi di queste tematiche, concentrandomi stavolta sui canti popolari e sul fenomeno del tarantismo. Riuscii a raccogliere poche e fugaci notizie, tra le quali, la più importante, un canto locale caratteristico del rituale terapeutico del tarantismo. La “taranta savese” che raccolsi dalla voce di Giuseppa Calò (classe 1928) aveva alcuni versi in comune con la “taranta di Lizzano” e con la “pizzica taranta di San Marzano”, ma altri differenti, e una melodia differente, ed era quasi identica, nel testo, ad un' altra taranta raccolta in Manduria. Di recente, con il gruppo musicale e di ricerca popolare savese “Milampi & Spuntuni”, la abbiamo riproposta live. In un recente articolo apparso sulla rivista “Il Delfino e la mezzaluna” edita da Fondazione Terra d'Otranto, mi soffermo sulla descrizione di questo canto, ma anche su una serie di altre annotazioni circa quel poco che ho potuto raccogliere intorno al fenomeno del tarantismo nel territorio specifico di Sava. Tra le varie note, voglio qui riprendere due interviste condotte di recente nei confronti di anziani del paese che hanno ancora memoria, nei ricordi di quando erano bambini, di episodi di tarantismo.

Nel 2017 raccolgo dalla voce di un anziano pensionato savese, la descrizione del ballo di una tarantata in via Dante a Sava: “Era il 1948, con mia nonna assistetti ad una tarantolata. Questo avveniva in via Dante. Il nome della donna non lo ricordo. Rimasi meravigliato, tre musicanti che suonavano, e la donna ballava fino a quando non cadde a terra. La presero due uomini e la portarono a letto, dissero che dormiva. I suonatori mangiavano come affamati. Mia nonna aveva portato il vino siccome erano povera gente e i suonatori ne bevevano tanto”.

Chiedo all'intervistato se si ricorda particolari in riferimento all'arredamento della stanza che ospitava la performance della tarantata, come era vestita e come appariva la donna, che genere di arie suonavano i musicanti, con quali strumenti... e qualsiasi altro particolare gli possa tornare alla mente: “Era estate. Se ricordo bene la coppia non aveva figli, quando si giocava per strada la signora ci gridava di andare via. La stanza era (con la volta) a stella, della “di vintiquattru parmi”, in giro erano sedute persone che partecipavano insieme ai suonatori a fare un frastuono, al centro la donna che ballava con movimenti e un fazzoletto in mano. I capelli... teneva “lu tuppu” come mia nonna. E il vestito, lungo. La cosa che mi colpì tra gli strumenti era la cupa-cupa, uno strumento musicale che non avevo mai visto prima... mia nonna, mi disse che si chiamava cupa-cupa”.

Mi son ripromesso di approfondire, subito dopo questa intervista, questa storia, ma sinora ho potuto raccogliere niente di più che una lapidaria conferma dell'esistenza della “tarantata di via Dante”, dalla voce di un'altra anziana (87 anni nel 2017) che da bambina abitava in quella via: “ Abitavo in via Dante con la mia famiglia di origine, e in effetti ricordo di una tarantolata. Me ne ricordo come un sogno... non so se me ne parlò mia madre o se la vidi. Me ne ricordo come un sogno! Non ho mai creduto in queste cose e nemmeno mia madre e mio padre ci credevano, anzi provocavano in me, in noi, un senso di fastidio.”.

Un'altra informazione la ricevo da Cosima M., 84 anni (anche questa intervista è stata raccolta nel 2017): mi parla di “Nunna Teresa”, un'altra tarantata savese. Cosima non ha mai assistito direttamente alle esibizioni di Nunna Teresa, ma glie ne parlavano suo fratello e la sua sorella maggiori, che avevano avuto occasione di assistere diverse volte al rituale inscenato da questa donna. “Erano gli anni '40. In via San Cosimo c'era Nunna Teresa, che era tarantata. Il marito chiamava il vicinato e invitava tutti ad assistere... la donna ballava... gridava...si buttava sul letto. Mio fratello e mia sorella, andavano, e mi raccontavano...”.

Come noto, il tarantismo è interpretato da diversi autori come un fenomeno di “possessione” che induce il/la tarantato/a a comportarsi come l'animale dal quale è stato “morso”. Le tarantate mimerebbero dunque, durante la crisi, il comportamento del ragno, ma anche, a seconda dell'animale-veicolo del morso, dello scorpione o del serpente. Nella storia del tarantismo in provincia di Taranto sono numerosi i casi di tarantismo attribuiti alla “puntura di scorpione”, e, sempre nell'ambito della piccola ricerca apparsa sulla rivista di Fondazione Terra d'Otranto, raccolgo anche su Sava testimonianze della atavica paura nell'ambito della locale civiltà contadina del morso dello scorpione. Un episodio che non racconto in quell'articolo è invece risalente alle mie ricerche degli anni '80, ed è la storia di “Donna Candida” raccontatami da una anziana donna del posto. Avevo temporaneamente accantonato la descrizione di quel racconto, in quanto non sapevo (e non so) inquadrarlo esattamente in un contesto di tarantismo, o per lo meno di un “morso”, in quanto, purtroppo, sono andate distrutte le registrazioni audio che avevo effettuato all'epoca dell'intervista, e avevo tralasciato sia di trascrivere che di prendere appunti scritti in merito a racconti che esulavano dal tema oggetto della mia indagine (che in quel caso si restringeva alle credenze popolari sul malocchio). Le persone intervistate spaziavano su vari argomenti attinenti la magia popolare e io lasciavo fare incuriosito e registravo tutto, ma nel riassumere per costruire le mie schede scremai i contenuti che riguardavano l'oggetto di ricerca dagli altri. Siamo a Sava, nel 1983. Quando andai a intervistare Maria M., “guaritrice” del fascinum, tra le varie cose mi parlò della storia di “Donna Candida”. Mentre mi raccontava questa storia la donna parlava come in uno stato di trance, e fluiva il suo discorso immedesimata nella storia tanto da riuscire a conferirle un grande pathos. Tutto ciò che ricordo del suggestivo racconto di Maria, è che “Donna Candida” si trasformava in “una serpe” strisciando verso l'altare della Chiesa. Era stata morsa, aveva ricevuto una maledizione o un incantesimo, stava pagando il prezzo di suoi peccati ? non riesco a ricordare le pur esaustive spiegazioni che Maria mi forniva nel raccontarmi questa storia, che ad ogni modo riecheggia il mito di Cadmo trasformato da Dioniso in serpente o la leggenda medioevale di Melusina metà donna e metà serpente. L'atteggiamento della donna è simile comunque, per molti versi, a quello delle tarantate e, come noto, il serpente è un animale che si alterna alla figura del ragno, e può sostituirlo, nelle credenze popolari riguardanti il “morso” mitico.

·         Manduria. Dirigenti, Comandanti e Commissari.

Non è reato offendere gli impiegati per i ritardi delle loro funzioni. Durante il lungo processo il cittadino si è fatto difendere dall’avvocato Pasquale De Laurentis mentre il geometra si è costituito parte civile. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 09 ottobre 2019.  Non è condannabile un cittadino che per i ritardi di un pubblico servizio si rivolge al dipendente usando parole “sopra le righe”. È quanto ha stabilito una sentenza del tribunale di Taranto che ha assolto un manduriano finito sotto processo per una lettera indirizzata ad un geometra del comune di Manduria nella quale scriveva: «Vergognatevi, dovreste vergognarvi, fornite un disservizio pagato profumatamente». La missiva che era indirizzata ai responsabili dell’Area tecnica della città Messapica, aveva creato risentimento anche nel dirigente di allora, ingegnere Antonio Pescatore che aveva prima querelato il cittadino ritirando poi la denuncia. Aveva invece deciso di andare avanti uno dei geometri in servizio (ora in pensione) che ha portato avanti un lungo processo durato otto anni finito con l’assoluzione dell’imputato «perché il fatto non sussiste». I fatti risalgono al 2011. In quell’anno un manduriano che allora aveva 64 anni, presentò all’Ufficio tecnico la richiesta di un certificato di destinazione d’uso per dichiarazione di successione che nonostante vari solleciti tardava ad arrivare. Finalmente, dopo un periodo che l’utente sessantaquattrenne aveva giudicato “biblico”, il protagonista volle sfogare la sua rabbia inviando una lettera ai responsabili di quell’insopportabile ritardo. Non uno sfogo dettato dalla rabbia che si chiude con quattro parole magari urlate in faccia, ma una ponderata accusa, come si dice, nero su bianco. La lettera ebbe il suo effetto desiderato. Partì così la querela dei due dipendenti, una poi ritirata, che hanno fatto iscrivere il nome del cittadino sul registro degli indagati per il reato di diffamazione aggravata nei confronti di un pubblico ufficiale durante lo svolgimento delle sue funzioni. Durante il lungo processo il cittadino si è fatto difendere dall’avvocato Pasquale De Laurentis mentre il geometra si è costituito parte civile con richiesta quindi di risarcimento danni. Dopo otto lunghi anni di udienze e di rinvii e di nuove udienze, finalmente qualche giorno fa il giudice Gabellone del Tribunale di Taranto ha emesso la sentenza che assolve il cittadino-utente che può ora tirare un sospiro di sollievo grazie anche alla difesa del suo avvocato.

 I commissari rispettano le regole sui dirigenti? Sin dall’inizio ho chiesto l’azzeramento totale dei dirigenti per garantire un effettivo cambiamento in discontinuità con la passata amministrazione. Arcangelo Durante, ex consigliere comunale, su La Voce di Manduria, mercoledì 22 maggio 2019. La commissione straordinaria del Comune di Manduria, inviata dal Ministero degli Interni per gestire l’ente dopo lo scioglimento del Consiglio comunale per ingerenza della criminalità organizzata, in particolare il commissario Raffaele Saladino che svolge le funzioni di sindaco, ha rispettato tutte le disposizioni in materia di nomina dei dirigenti comunali? Sin dall’inizio ho chiesto l’azzeramento totale dei dirigenti per garantire un effettivo cambiamento in discontinuità con la passata amministrazione. Rispetto a tale esigenza c’è qualcuno che invece è stato addirittura riconfermato dal primo momento sino alla scadenza della gestione commissariale. Il riferimento è piuttosto preciso: riguarda la posizione dirigenziale occupata dal comandante dei vigili urbani, avvocato Vincenzo Dinoi. Come è noto Dinoi è vincitore di un concorso pubblico, assunto dal Comune il 01/08/2000 nel ruolo di comandante dei vigili urbani, poi con delibera di giunta municipale 208 del 27/06/2001, previa concertazione con i sindacati si ebbe modo di ristrutturare la pianta organica, prevedendo, tra l’altro, per il comandante di Polizia Municipale, l’inquadramento nella prima qualifica dirigenziale. L’amministrazione comunale dell’epoca, preso atto del verbale di conciliazione redatto in data 06/06/2002 presso la Direzione Provinciale Lavoro di Taranto, con delibera di giunta del17/09/2002 ebbe modo di riconoscere giuridicamente ed economicamente il dipendente a tempo indeterminato Dinoi nella prima qualifica dirigenziale. Quindi, senza aver vinto mai un concorso, da circa 17 anni ha svolto sempre le mansioni e percepito lo stipendio da dirigente comunale. E con l’arrivo dei commissari, non solo non c’è stato l’azzeramento, ma gli incarichi e il potere gestionale dell’avvocato Dinoi sono addirittura aumentati. Tanto è vero che oggi, oltre a svolgere il ruolo di comandante di Manduria ed Avetrana, dirigente dell’Area dei servizi vigilanza, l’avvocato Dinoi ricopre anche il ruolo di dirigente del settore economico finanziario. Altro che cambiamento e rinnovamento della gestione amministrativa. Una situazione che, comunque, pone degli interrogativi soprattutto se a guidare la macchina amministrativa sono, oggi, rappresentanti dello Stato che dovrebbero garantire la massima trasparenza e legalità: si può essere dirigenti senza aver svolto alcun concorso? Insomma, la posizione di Dinoi dirigente è legittima, oppure no? A Manduria, pertanto, non solo non è cambiato nulla, forse è pure peggiorato rispetto alla gestione politica (vedi le strade dissestate, sporche e piene di erbacce, scarsa illuminazione pubblica, il degrado del cimitero comunale e la mancanza di cura del verde pubblico), ma permangono forti perplessità anche sulla regolarità degli atti amministrativi correlati. Arcangelo Durante, ex consigliere comunale

Divise ed altro, il comandante ci scrive e noi rispondiamo. Riceviamo e pubblichiamo dal comandante del corpo di polizia locale di Manduria, maggiore Vincenzo Dinoi. A margine della presente la nostra risposta.

Il Comandante Magg. Vincenzo Dinoi su La Voce di Manduria, giovedì 04 ottobre 2018. Riceviamo e pubblichiamo dal comandante del corpo di polizia locale di Manduria, maggiore Vincenzo Dinoi. A margine la nostra risposta.

OGGETTO: Richiesta di pubblicazione integrale ex art.8 L. n. 47/1948.

Recentemente sono apparsi sul giornale Lavocedimanduria.it, alcuni articoli a firma di un tal “Mario Rossi”, inseriti addirittura in una rubrica denominata “Cose di casa nostra – Un occhio sul Palazzo”, in particolare ci si riferisce agli scritti “Divise: gara travagliata ma molto fortunata” pubblicato mercoledì 01 agosto 2018 e “Benvenuto al nuovo segretario con un augurio”, stampato venerdì 14 settembre 2018 e “Divise dei Vigili: Fornitura difforme” diffuso giovedì 27 u.s...Nei tre articoli si fa riferimento alla procedura relativa all’approvvigionamento delle divise del Corpo di Polizia Locale, fornitura di un importo pari al totale di € 16.000 iva compresa, da aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso, affermando gravemente e gratuitamente che è stata realizzata “in barba ai principi del codice dei contratti e delle indicazioni dell’Anac”, tanto da facilmente insinuare in chi legge, il convincimento di un comportamento poco corretto di chi ha eseguito e definito detta procedura. Premesso che l’art. 36 comma 2° lett. a) D.Lgs.n. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici), prevede che per le forniture di importo inferiore a 40.000 euro, si procede mediante “affidamento diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici”. Il Comando, al fine di raggiungere al meglio i principi di garanzia, correttezza e trasparenza, non ha proceduto mediante affidamento diretto, cosa che poteva fare, bensì ha inviato la richiesta di presentare l’offerta a ben 8 (otto) diverse ditte di settore. Il Comando, nei termini previsti, ha ricevuto una sola offerta, presentata dalla ditta Kent con sede in Taranto, per un importo superiore a quello previsto per l’intera fornitura, pertanto è stata esclusa. Successivamente, impegnando anche l’esercizio finanziario 2019, si è proceduto a riformulare l’invito alle medesime otto ditte.

Conseguentemente tre ditte hanno presentato la propria offerta nei termini: MITALIA UNIFORM con sede in Potenza ( € 25.399,91 i.c.), KENT con sede in Taranto ( € 23.177,56 i.c.), GIULIVO con sede in Taranto ( € 20.930,00 i c.), pertanto, in ragione di tali offerte economiche, la fornitura veniva provvisoriamente aggiudicata a quest’ultima ditta e contestualmente la si invitava a depositare presso gli uffici la relativa campionatura. Dalla visione della campionatura, emergevano criticità su vari capi (pantalone, scarponcino, cintura), ed in particolare sulla maglia, in quanto era completamente difforme a quella descritta nella lettera d’invito. Il Comando, nella lettera invito aveva elencato i capi previsti dal Regolamento Regionale, prevedendo in alcuni, su richiesta degli agenti, dei piccoli interventi artigianali, ritenuti ancora oggi razionali.

L’offerta della ditta GIULIVO, pur proponendo i capi richiesti e previsti dal Regolamento Regionale, non teneva assolutamente conto degli accorgimenti artigianali complementari indicati nella lettera invito, al contrario degli altri concorrenti. Alla ditta GIULIVO è stato più volte riferito sia verbalmente che per iscritto, che non le poteva essere aggiudicata definitivamente tale fornitura, attesochè avrebbe dovuto formulare ed inviare un’offerta in funzione di quanto espressamente richiesto dalla lettera d’invito (lex specialis), dove le prescrizioni ivi stabilite vincolavano non solo tutti i concorrenti, ma anche la stessa Amministrazione. A questo punto il Comando, per i motivi di cui sopra, ha escluso la ditta GIULIVO e pur conoscendo il principio di economicità del procedimento non ha proceduto, come doveva, ad aggiudicare la fornitura alla ditta Kent, classificatasi seconda, la quale aveva proposto, tra l’altro, le modifiche artigianale richieste. Il Comando invece, seguendo i principi generali di ragionevolezza, buon andamento, imparzialità, efficacia e soprattutto pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, ha riformulato la richiesta di offerta alle medesime otto ditte, inserendo gli stessi capi di vestiario, previsti nel Regolamento Regionale, escludendo gli accorgimenti artigianali complementari, precedentemente richiesti. Il risultato è stato il seguente: tre ditte hanno presentato la propria offerta nei termini, che sono: KENT con sede in Taranto ( € 11.493,10 i.e.), GIULIVO con sede in Taranto ( € 15.249,00 i.e.), MITALIA UNIFORM con sede in Potenza ( € 20.819,60 i.e.). Per entrare nello specifico, la stessa maglia ritenuta conforme dalla ditta GIULIVO in sede di richiesta visione dei capi della ditta Kent, quest’ultima società la proponeva al costo di € 10,20 mentre Osvaldo Chimienti della ditta GIULIVO ne richiedeva 30 di euro (sic!). Lascio a chi legge ogni commento. Di tutto questo, la cosa più grave è che l’Osvaldo Chimienti della ditta GIULIVO, è stato puntualmente e formalmente notiziato, oltre ad aver chiesto ed ottenuto l’accesso a tutti gli atti della procedura di gara, e quindi invece di procedere per le vie legali, ha pensato bene di aggiudicarsi la fornitura cavalcando lo show giornalistico-mediatico propostogli dal sedicente “Mario Rossi” con il supporto del giornale La Voce di Manduria. In riferimento alle difformità evidenziate dalla ditta GIULIVO nella fornitura eseguita dalla ditta KENT, le stesse si riferiscono ad un capo di vestiario, che è stato prontamente sostituito dall’aggiudicatario. Su l’ultima considerazione di Osvaldo Chimienti, che non onora certo la ditta GIULIVO, scritta nell’articolo apparso giovedì 27 u.s. sul giornale La Voce di Manduria, il quale auspicava la presenza di “Mario Rossi” anche a Taranto, vi è da aggiungere che alla bella città di Taranto, già provata, non gli occorre certo la presenza di anonimi creatori seriali di pettegolezzo e di odio, in quanto i tarantini hanno ben altro e più gravi problemi da risolvere, che richiedono, al contrario, coesione ed azioni concrete.

Detto ciò, dal direttore de La Voce di Manduria, ci si attende una dichiarazione di scuse, indirizzate non al sottoscritto, ma alle decine di migliaia di lettori del giornale cartaceo ed online ovvero di altre piattaforme che hanno ripreso tale notizia “NON VERA” ritenendola professionalmente, preventivamente e meticolosamente accertata, cosa che non è stato. Inoltre, cosa ancor più grave, nel secondo articolo citato, il sedicente “Mario Rossi”, inviando gli auguri di benvenuto al nuovo Segretario Generale del Comune di Manduria, ha chiesto di fare chiarezza sull’inquadramento nell’Ente dello scrivente Comandante, procedura questa, legittimamente definita nel lontano 2002 ed abbondantemente chiarita anche nel 2014 con il contributo e quindi l’acquisizione da parte del Comune di un parere legale su detta procedura, espresso, tra gli altri, dal noto amministrativista Avv. Martino Margiotta del foro di Taranto, il quale ha confermato la piena legittimità dell’inquadramento dell’avv. Dinoi nella qualifica dirigenziale. Il parere appena sopra citato, chiesto dall’Amministrazione con propria delibera di Giunta n. 92 del 22.11.2013 e non certamente dal dirigente interessato, in quanto ritenuto del tutto ultroneo, dopo aver ampiamente sviluppato il caso in esame, così conclude: “In ragione di tali considerazioni, si può affermare che la fonte genetica dell’attuale rapporto sinallagmatico tra codesta Amministrazione e il dipendente e della sua disciplina economico giuridica si rinviene nel predetto contratto, stipulato nel Verbale dinanzi al Collegio di Conciliazione. L’eventuale inadempimento di tale obbligo, quindi, esporrebbe il Comune al concreto rischio di subire azione giudiziaria per l’adempimento contrattuale e per il risarcimento dei danni. Da ciò consegue che qualsiasi scelta organizzativa, rientrante nella piena autonomia dell’Amministrazione, debba tener conto del vincolo derivante dagli obblighi assunti con il predetto accordo transattivo, nei termini innanzi considerati.”. Sperando di aver contribuito nel chiarire definitivamente dette questioni, non si può far a meno di rilevare che nonostante il web sia riconosciuto dallo scrivente come uno strumento altamente democratico per la libera informazione e diffusione della cultura, in quanto allarga la partecipazione dei cittadini alla vita politico-culturale del paese, vi siano ancora spregevoli individui che usano questo nobile mezzo in forma anonima. E’ vero che grandissimi uomini di cultura del passato hanno usato pseudonimi per ragioni eticamente elevate, solo per fare qualche esempio Aron Hector Schmitz che si firmava Italo Svevo ovvero Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto il vero nome di Pablo Neruda, ma si ha difficoltà nel vedere ragioni analoghe nel nickname sopra citato (Mario Rossi) che si legge quasi quotidianamente sui dibattiti del web e sul cartaceo di questo giornale, il quale sicuramente non è altro che un volgare diffamatore anonimo, frustrato e creatore di odio. Manduria non ha bisogno di questi individui, i Cittadini Manduriani hanno bisogno di persone preparate, serie, leali, oneste e lavoratori che ci mettono la faccia, al fine di far emergere a tutti noi quell’orgoglio di appartenenza a questa Comunità.

Il titolare di un giornale dovrebbe dare più spazio a chi è propositivo nelle varie discipline, a chi crea promozione del territorio, togliendo spazio ai diffamatori dediti al pettegolezzo, perché oltre a far regredire questa città, coinvolgono i direttori in responsabilità civili e penali, oltre a distoglierli dal primario deontologico dovere di informarsi, ricercando i riscontri alla notizia, prima di darne pubblicazione. Il continuare a pubblicare le notizie, con titoli accattivanti, senza le dovute rispondenze, acquisizioni di documenti, allegati, pareri, interviste delle persone interessate, ecc…., potrebbe dare veramente adito a qualcuno di pensare che detti articoli vengono pubblicati solo per praticare il “clickbaiting”, cioè un contenuto web, la cui principale funzione sia quella di attirare il maggior numero possibile di lettori, per generare rendite pubblicitarie online. Non sarà questo il caso, però ci sono molti siti che immettono in rete pseudo-informazioni, narrando taluni fatti in maniera strumentale, distorcendone la realtà, come quelli inseriti negli articoli sopra indicati, ed avvalendosi di titoli accattivanti e sensazionalistici incitano a cliccare link di carattere falso o truffaldino, facendo leva sull’aspetto emozionale di chi vi accede. L’obiettivo è quello di attirare chi apre questi link per incoraggiarli a condividerne il contenuto sui social network, aumentandone quindi in maniera esponenziale i proventi pubblicitari, con l’inserimento di una moltitudine di pubblicità nazionale oltre che internazionale. Tanto premesso, sin d’ora, si invitano i responsabili di giornale, che ancora oggi si prestano a pubblicare detti articoli, a favorire presso il Comando di Polizia Locale per acquisire notizie, documenti, allegati, pareri, quindi tutte le informazioni necessarie al fine di chiarire ancor meglio le suddette procedure, in quanto trattasi di procedimenti definiti, uno addirittura già da oltre sedici anni ovvero per accertare ed approfondire professionalmente qualsiasi notizia che in futuro riterranno opportuno. Infine, si suggerisce a tutti gli internauti e soprattutto ai responsabili di piattaforme online, che prima di riprendere e pubblicare notizie diffamatorie, dovrebbero preventivamente, cautelativamente e responsabilmente riscontrarle, l’Ente ed in particolare gli Uffici della Polizia Locale sono a disposizione per ogni chiarimento, al fine di stroncare questa spirale di pettegolezzo e di odio che avvolge questa città e quindi divenire protagonisti della sua rinascita. Il Comandante Magg. Vincenzo Dinoi

La mia risposta (Nazareno Dinoi). Egregio comandante Vincenzo Dinoi. Pubblico, come mi ha chiesto, il testo integrale della lettera ma solo nel formato web del giornale e non anche in quello cartaceo. E le spiego il perché. Mi chiede di pubblicare sulla “Voce di Manduria”, ai sensi dell’art. 8 della legge sulla stampa, questo suo scritto, relativo alla travagliata vicenda della fornitura delle divise per la Polizia Locale. Ma immagino lei sappia bene che proprio la norma che ha richiamato prescrive che il testo della rettifica da pubblicare deve essere contenuto in trenta righe e deve avere le stesse caratteristiche tipografiche dell’articolo che si vuole rettificare e che, soprattutto, non spetta al direttore alterare il testo per ricondurlo nei limiti di legge. Ora, se non ho sbagliato nel contare, il testo da lei inviato conta ben 133 righe il che significa che richiederebbe, probabilmente, una settimana intera di pubblicazioni sul piccolo formato del cartaceo e pertanto mi chiede l’impossibile, sia giuridicamente che giornalisticamente. Peraltro non sono così sicuro che titolare del diritto a chiedere la rettifica di notizie riguardanti gare comunali sia il comandante della polizia locale o altro dirigente e non piuttosto il legale rappresentante dell’ente, cioè il sindaco o un commissario che, salvo smentita, non mi risulta sia mai stato lei in quanto, piuttosto, un dirigente “atipico”, come l’hanno definita i revisori dei conti. Fatta questa precisazione, e confidando che lo scritto che mi ha inviato sia stato almeno “ispirato” da qualcuno titolato a chiedere la rettifica, non credo sia mio compito entrare nel merito di disquisizioni tecniche in quanto la mia funzione è informare, non trasformare il giornale in una accademia giuridica: altri, magari il signor Mario Rossi le cui considerazioni, insieme a quelle di altri commentatori liberi, trovano talvolta spazio sulla “Voce di Manduria”, se ne occuperanno. In merito all’anonimato o agli pseudonimi, le devo anche in questo caso sottolineare delle imprecisioni contenute nella sua lettera, sicuramente dovute all’ignoranza del mestiere. Tale Mario Rossi, come altri commentatori che ospito nelle mie pagine, non è un anonimo ma è una persona che ovviamente conosco e di cui mi fido che mi chiede il rispetto dell’anonimato. Quindi sarà anonimo per lei e per chi legge ma non per il sottoscritto. Deve poi sapere che l’anonimato così inteso, pratica che lei nella sua lettera disprezza e offende, non è sinonimo di codardia bensì di esercizio di democrazia o, se vogliamo, di semplice riservatezza e in taluni casi anche di tutela della persona, tutti diritti che nel giornalismo sono sempre esistiti e, viva Dio, esisteranno, almeno nei Paesi non autoritari. Tornando al contenuto della sua lettera, devo dire che, certo, ai cittadini manduriani avrebbe fatto piacere leggere una sua spiegazione sul come sia stato possibile che in quasi dieci anni il fornitore delle divise della polizia locale sia stata sempre la stessa ditta, o ancora com’è potuto accadere che lei abbia ignorato il fatto che il titolare della ditta in questione sia stato arrestato per reati legati alla fornitura di divise alla Marina Militare. Così come sarebbe stato un chiaro esempio di trasparenza spiegare le ragioni per cui in una procedura come quella da lei prescelta per la fornitura abbia ritenuto di disattendere il principio di rotazione delle ditte da interpellare che, come lei saprà, è un criterio sancito dal codice dei contratti pubblici e dall’Anac, non un’invenzione della “Voce di Manduria”. Se tutte queste problematiche, per Lei, sono solo una “spirale di pettegolezzo” e non questioni concrete sulle quali chiedere risposte altrettante concrete ed esaurienti, questioni di cui si può e si deve occupare un giornale che faccia informazione e non accontenti i potenti di turno, temo, allora, che non abbia ben presente in cosa consista il mestiere di giornalista. Ne danno prova le sue insinuazioni, tipiche da leoni da tastiera e odiatori seriali, sulle presunte notizie false che pubblicherei per fare soldi. Che caduta di stile, davvero. Lei, esimio comandante, non sa quello che dice, me lo lasci dire. Si sforzi piuttosto di svolgere bene il compito per il quale è pagato da questa comunità (denaro pubblico, il suo) che entrambi serviamo: io con l’informazione, corretta e puntuale e a volte scomoda per alcuni; lei in quanto a capo di tanti, forse troppi uffici sulla cui efficienza deve dare ben conto alla città, per ora. Un ultima cosa, egregio comandante Dinoi, riguarda l'ennesimo errore che ha commesso con la lettera citata, quello di averla inviata anche al direttore del Quotidiano di Puglia con cui collaboro come libero professionista e che non c'entra proprio niente con questa "nostra faccenda". Ha sbagliato a farlo perché, ripeto, della vicenda “divise” né di altre questioni trattate nella sua lettera, ho solo scritto su La Voce di Manduria e non su Quotidiano dove, ovviamente anche “Mario Rossi” è praticamente sconosciuto. Se poi ha inviato la sua lettera al direttore del Quotidiano con l’intento di colpirmi, magari non facendomi più scrivere per quel giornale, è andata male a lei come male andò ad altri potenti di turno che, per lo stesso scopo, sfogarono la propria rabbia scrivendo all’altro mio datore di lavoro, il direttore della Asl, per farmi addirittura licenziare. Come può vedere, per fortuna, lavoro ancora per la Asl e scrivo ancora su La Voce, Quotidiano ed altre testate. (Guarda un po’, un “giornalista che inventa notizie”, l’avrebbe mai creduto?). Nazareno Dinoi

Il centro sinistra di Manduria nominò dirigente dell’ufficio del personale del Comune di Manduria, il manduriano avv. Vincenzo Dinoi, che da dirigente dell’ufficio del personale della giunta Pecoraro, indisse, regolò (e vi partecipò, vincendolo) il concorso di Comandante dei Vigili Urbani di Manduria. Al concorso il sottoscritto si piazzò dietro al vincitore. Commissari erano: il questore; il commissario prefettizio, Paola Galeone, in quel periodo Sindaco pro tempore di Manduria al posto di Pecoraro; il comandante VVUU di Brindisi. Oggi l’avv. Vincenzo Dinoi è diventato Vice Segretario Comunale di Manduria. Comune di Manduria a cui si è contestato con denuncia anche l’omesso rilascio ai cittadini, da parte dell’ufficio protocollo, della ricevuta degli atti presentati allo sportello. Cosa questa che inficiava la certezza della consegna degli atti e foriera di manomissioni dei procedimenti amministrativi.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

·         Tutto su Manduria. Antonio Stano e la gogna del paese.

Lutto in famiglia per il giudice Tommasino, scrive il 4 Febbraio 2019 Il Corriere del Giorno. Si è spento l’altro ieri il prof. Tommasino molto apprezzato soprattutto per le sue doti umane e per la sua cultura dopo numerosi anni di insegnamento in Puglia diventò ispettore centrale del Ministero della Pubblica Istruzione. Si è spento l’altro ieri ieri a Manduria, in provincia di Taranto, assistito sino all’ultimo dai suoi parenti il prof. Walter Tommasino, papà dei fratelli Giuseppe Tommasino, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto, Paolo Tommasino che fu ex sindaco di Manduria, e di Massimo Tommasino professore e ricercatore nel campo della medicina. Walter Tommasino era nato in Campania, a Sessa Aurunca, e si era sposato a Manduria. Docente di lettere, era stato chiamato a dirigere per tanti anni prima la scuola media “Marugj” e dopo il Liceo Classico “Francesco De Sanctis” di Manduria. Dopo numerosi anni di dirigenza scolastica trascorsi a Manduria, si trasferì a Bari, dove era stato nominato preside di uno dei licei baresi più prestigiosi, l' “Orazio Flacco“. Successivamente il prof. Tommasino molto apprezzato soprattutto per le sue doti umane e per la sua cultura diventò ispettore centrale del Ministero della Pubblica Istruzione svolgendo ispezioni in tutt’ Italia. Appassionato di politica per puro impegno sociale fu dirigente della Democrazia Cristiana a Manduria e consigliere comunale.

Aveva 97 anni. Manduria saluta Walter Tommasino, uomo di scuola e di profonda cultura. Già preside e uomo di cultura, è stato personaggio di spicco anche nel monto della politica manduriana. Enzo Caprino su La Voce di Manduria martedì 05 febbraio 2019. E’ morto l’altro ieri all’età di 97 anni Walter Tommasino. Già preside e uomo di cultura, è stato personaggio di spicco anche nel monto della politica manduriana. Padre del giudice Giuseppe Tommasino, dell’ex sindaco di Manduria, Paolo e del professore e ricercatore nel campo della medicina, Massino. Nell’esprimere cordoglio alla famiglia, pubblichiamo un ricordo del professore Enzo Caprino. Si è spento Walter Tommasino, un uomo di scuola che ha dedicato l’intera sua vita all’educazione dei giovani. Non era nato a Manduria, ma in Campania, a Sessa Aurunca e a Manduria si era sposato. Docente di lettere , era poi stato chiamato a dirigere la scuola media “ Marugj” e poi il Liceo Classico “Francesco De Sanctis” di Manduria per tanti, tanti anni. Diverse generazioni di professionisti manduriani lo hanno avuto come loro preside. Dopo tanti anni di dirigenza scolastica a Manduria, si trasferì a Bari, dove fu preside nel liceo barese più prestigioso, come era ed è, l'Orazio Flacco. Tommasino Avrebbe voluto fare il provveditore a Brindisi, ma non essendo stato possibile, pensò di occupare un posto ancora più alto e fu ispettore centrale del Ministero della Pubblica Istruzione. Fece ispezioni in ogni parte d’Italia ed ovunque fu sempre apprezzato per la sua cultura ma soprattutto per le sue doti umane. Non fu estraneo alla politica: fu dirigente della Democrazia Cristiana manduriana e consigliere comunale. Quando nacque la prima amministrazione di Centrosinistra a Manduria, guidata dal medico chirurgo, Carmelo Sammarco, fu proprio Walter Tommasinoa fare la dichiarazione politica per la DC, nella sua qualità di capogruppo consiliare. Enzo Caprino

Segregato in casa per paura  dei bulli, morto pensionato. L’inchiesta e le chat: «Come l’avete combinato, il pazzo?» Pubblicato venerdì, 26 aprile 2019 da Cesare Bechis, Giusi Fasano su Corriere.it. Ragazzini che chattano fra loro. Uno manda all’altro un filmato. Si vede un gruppo di giovani che entra in casa di un uomo visibilmente terrorizzato. Qualcuno stringe fra le mani un tubo flessibile come quelli delle docce, tutti urlano, quello con il tubo fa come i domatori di leoni quando per tenerli buoni battono la frusta per terra. Si sente il rumore del flessibile colpire il pavimento poi qualche colpo arriva a lui, all’uomo terrorizzato. Gli mettono un maglione sulla testa, urlano di nuovo, a un centimetro dalle sue orecchie. Nella chat alcuni dei commenti sono scritti in dialetto. «Come l’avete combinato il pazzo?», chiede uno dei ragazzi che riceve il filmato. Faccine, punti esclamativi. In un’altra conversazione si parla di soldi rubati dal solito gruppetto a casa dello stesso uomo. Trecento euro, scrive uno della banda. «Macchè 300! Ne ha presi solo 30» corregge un altro. Alcuni filmati mostrano la banda all’opera con manici di scopa. Questa è una storia di sopraffazione, di bullismo, di malattia. Una di quelle storie costruite su una violenza che il mondo vede quando ormai è troppo tardi. Ma soprattutto è una storia di solitudine: Antonio Stano è morto solo come aveva vissuto per tanti, tantissimi anni della sua vita. Aveva passato il suo ultimo tempo a Manduria, la sua città, blindato in quel posto alla fine del mondo che era casa sua, un tugurio che si fa fatica a descrivere per quanto fosse sporco. Solo e chiuso a chiave perché aveva paura. Il 6 di aprile i poliziotti del commissariato locale hanno impiegato un bel po’ di tempo per convincerlo ad aprire quella benedetta porta. Lui era certo che fossero loro, i ragazzi cattivi. E gli agenti a spiegare che «non vogliamo farti del male, per favore apri». Gli altri, quelli cattivi, andavano da lui sempre più spesso, a volte dentro casa, a volte fuori. Gruppetti di tre, cinque o più persone che volevano soltanto vederlo spaventato a morte. Si divertivano a urlargli contro maleparole, a dare calci e pugni alla sua porta, a coprirgli la testa o a dargli scappellotti. E, naturalmente, a filmarlo mentre facevano tutto questo. I video di sicuro mostrano la reazione di un uomo incapace di difendersi, rannicchiato nel tentativo — inutile — di schivare tutto. Era un uomo malato, Antonio. La sua mente era confusa e tutti, in paese, lo conoscevano come «il pazzo», «quello del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio della chiesa di San Giovanni Bosco che sta proprio di fronte a casa sua. Dicono che fosse in cura al Centro di igiene mentale ma di fatto era abbandonato a se stesso, non seguito dai servizi sociali, come avrebbero richiesto le sue condizioni, né aiutato nella sua vita quotidiana dai parenti che vivono a un passo da lui. Si manteneva con la pensione che si era guadagnato lavorando all’arsenale di Taranto come operaio e tutti, a Manduria, sapevano che ormai da molti anni passava gran parte del suo tempo a coltivare la sua solitudine, aiutato in questo dalle sue condizioni psichiche. Le segnalazioni sono arrivate, ai servizi sociali. Ma lui è rimasto a casa sua, nella sporcizia e nell’indifferenza, sempre più isolato dal mondo. E i bulli hanno capito che era un bersaglio facile. Lo hanno preso di mira e lo hanno vessato senza pietà. I vicini di casa vedevano le bande arrivare, non sempre le stesse. L’ultima volta, prima di quel 6 aprile, dev’essere stata più dura del solito. Perché quando «quelli» se ne sono andati lui si è chiuso in casa e non è più uscito. Niente spesa, niente cibo, niente di niente pur di non incrociarli mai più. I vicini non l’hanno visto uscire e hanno avvisato la polizia. Gli agenti si sono appostati lì fuori nel tentativo di sorprendere qualcuno dei ragazzini ma quel giorno non si è visto nessuno e alla fine la parte più difficile dell’intervento è stato convincere lui, Antonio, ad aprire la porta per lasciarsi aiutare. Da allora in poi è stato in ospedale fino al giorno della morte, con gravi problemi fisici oltre quelli mentali: si dovrà capire se quei problemi sono legati o no alle violenze dei bulli. Il racconto più importante è di uno dei due ragazzi maggiorenni fra i 14 indagati di questa storia. Ha svelato le identità degli amici che si vedono nel video più incriminato, ha parlato dei componenti della chat, ha commentato i passaggi delle immagini. Ma poi, quando è stato il momento di firmare la deposizione, ha deciso di non sottoscriverla. Quindi formalmente le sue parole non sono in nessun verbale ma certo quel che ha raccontato sarà molto utile alla procura tarantina di Carlo Maria Capristo, che segue le imputazioni per i maggiorenni, e a quella di Pina Montanaro, a capo della procura dei minori. «La mano sarà pesante» ha detto ieri lo stesso Capristo non escludendo nuovi indagati: «I fatti sono gravissimi, non trascureremo niente e non lasceremo spazio al buonismo. Quell’uomo aveva bisogno soltanto di un po’ di umanità».

Manduria, l'ombra della baby gang dietro la morte di un anziano: pestato a sangue. Notificati 14 avvisi di garanzia, coinvolti 12 minorenni. Vittorio Ricapito il 26 Aprile 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Sarà l’autopsia sul corpo di Antonio Stano, il pensionato di 66 anni deceduto all’ospedale Giannuzzi di Manduria dopo aver subìto in casa propria violenti assalti da parte di un branco di giovanissimi, a chiarire le cause del decesso e eventuali responsabilità. Oggi verrà affidato l’incarico al medico legale Liliana Innamorato. Sono due le procure che hanno aperto un fascicolo per i reati di omicidio preterintenzionale, stalking, lesioni personali, rapina, violazione di domicilio e danneggiamento. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale dei minori ha aperto un fascicolo a carico di 12 minorenni coinvolti negli episodi di violenza stile «Arancia meccanica», alcuni dei quali difesi dall’avvocato Antonio Liagi. Anche la procura della Repubblica ha aperto un fascicolo e indaga su due giovani, uno di 19 e l’altro di 22 anni. L’avvocato Armando Pasanisi, difensore del primo, ha affidato al medico Massimo Brunetti, l’incarico di seguire le operazioni peritali in qualità di consulente della difesa. I magistrati chiederanno al medico legale di fare luce sulle cause che, dopo 18 giorni di agonia, hanno portato al decesso dell’uomo, ex dipendente dell’arsenale, che viveva a solo in casa in condizioni di disagio psichico. Al vaglio degli investigatori ci sarebbero alcuni video, fatti circolare su «WhatsApp», in cui i giovani si riprendono mentre sottopongono la vittima ad atroci violenze. La vittima, secondo quanto trapelato, era stata scelta con cura perché mite e indifesa. L’uomo è stato trovato stato d’abbandono il 6 aprile scorso e soccorso dagli agenti della polizia di Manduria ai quali ha raccontato di aver subìto diverse rapine a marzo ad opera di una banda di giovani senza scrupolo, alcuni dei quali di buona famiglia. Letteralmente terrorizzato dalle rapine e dagli atti di violenza subìti, l’uomo si era barricato in casa in stato di indigenza e degrado, immobilizzato su una sedia dalla quale non si muoveva da diversi giorni, senza nutrirsi. Non voleva aprire la porta di casa nemmeno ai poliziotti, che hanno dovuto faticare per convincerlo che erano lì per aiutarlo. A segnalare il caso è stata una vicina di casa. Gli agenti hanno chiesto l’intervento del personale del 118 e si sono preoccupati di acquistare acqua e generi alimentari per il malandato 66enne, che nonostante i ripetuti inviti non ha voluto mangiare, deciso ormai a lasciarsi andare. Durante l’assistenza all’anziano, i poliziotti hanno anche raccolto la sua denuncia e il racconto delle diverse rapine subite durante il mese di marzo da parte di un gruppo di giovani che gli avrebbero portato via 300 euro. Dopo il ricovero in ospedale, le condizioni dell’uomo sono peggiorate. L’anziano è stato sottoposto a due interventi chirurgici per ferite interne all’addome. Subito sono scattate le indagini e in breve il cerchio si è stretto intorno a una banda di giovanissimi, per la maggior parte nati tra il 2001 e il 2002. Gli agenti hanno ascoltato anche i vicini di casa, i quali hanno confermato che in più occasioni alcuni giovanissimi si sono introdotti in casa dell’anziano per derubarlo e sottoporlo a violenze e sevizie. L’avviso dell’accertamento tecnico irripetibile, primo atto doveroso di inchiesta per far luce sulle responsabilità del caso, è stato notificato anche alla sorella della vittima e al nipote di 41 anni. Gli investigatori hanno sequestrato i cellulari dei ragazzi e alcuni indumenti.

SALVINI: PENE ESEMPLARI ANCHE PER I MINORI - «Se confermati colpevoli, pene esemplari per tutti, anche per i minorenni, che devono essere trattati (e puniti) come tutti gli altri. Di fronte a simile violenza, per me non esiste la distinzione fra minorenni e maggiorenni». Lo dice Matteo Salvini, commentando la notizia del 66enne di Taranto che sarebbe stato picchiato a morte da una banda di giovanissimi.

DI MAIO: PRIORITA' SICUREZZA ANZIANI - «Bullizzato, rapinato, segregato in casa e picchiato fino alla morte. È inaccettabile quanto successo al 66enne di Manduria, un fatto vergognoso che non può passare in secondo piano. La morte di Antonio deve farci capire che la sicurezza dei nostri cittadini deve essere la priorità di questo Governo. E dobbiamo lavorare per garantire maggiore sicurezza anche ai nostri anziani, troppo spesso abbandonati. Una cosa è certa: questi soggetti la pagheranno». È quanto afferma in una nota il Vicepresidente e Ministro Luigi Di Maio. 

I VICINI: ANGHERIE DAL 2012 - Secondo alcuni vicini di casa, il 66enne di Manduria (Taranto) morto il 23 aprile scorso all’ospedale Giannuzzi e vittima di una serie di aggressioni e violenze da parte di una baby gang, era diventato bersaglio dei bulli sin dal 2012. Dichiarazioni che sono al vaglio delle due procure che si occupano della vicenda. In 12 sono stati iscritti nel registro degli indagati dal procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale dei minori, Pina Montanaro. I due maggiorenni, di 19 e 22 anni, sono indagati dal pubblico ministero Remo Epifani della Procura della Repubblica ordinaria. Oggi è prevista l’autopsia da parte del medico legale di Bari, Liliana Innamorato, ma ci vorranno ulteriori esami di laboratorio per stabilire se la morte del 66enne sia stata causata dai traumi subiti a seguito delle aggressioni subite o, ad esempio, dallo stato di prostrazione e di degrado in cui l'anziano era caduto dopo essere stato bullizzato. Al momento si procede per i reati di omicidio preterintenzionale in concorso, lesioni personali, danneggiamento, minacce e violazione di domicilio, ma il capo d’imputazione - come ha spiegato dall’avvocato Lorenzo Bullo, che assiste cinque minori e uno dei maggiorenni indagati, «è provvisorio». «L'ultimo episodio di percosse che si ipotizza - ha detto ancora - risalirebbe a febbraio. Il decesso è avvenuto a distanza di settimane. E anche in relazione alla contestazione dello stalking, si parla di presunti episodi che sono scollegati. Non abbiamo ancora alcun elemento per valutare la fondatezza o meno di queste imputazioni».

GELMINI: È EMERGENZA SOCIALE - «A Taranto 14 giovanissimi, di cui 12 minorenni, sono indagati per aver segregato e picchiato a morte un 66enne che soffriva di disagio psichico. Il fenomeno delle baby gang sta assumendo le dimensioni di una vera emergenza sociale. La logica dell’appartenenza al branco, le minacce, la prevaricazione, la violenza, l’umiliazione della vittima. Veri e propri crimini perpetrati da gruppi organizzati. Pene esemplari anche per i minorenni perché fatti di tale crudeltà non possono essere derubricati a bravate. Ma anche uno Stato che si prenda cura degli anziani in condizioni di disagio e non li abbandoni a se stessi e un’assunzione di responsabilità solidale da parte di tutti. Se fosse confermato che c'era chi sapeva e non ha denunciato sarebbe gravissimo». Così, in una nota, Mariastella Gelmini, presidente dei deputati di Forza Italia.

Baby gang sequestra in casa un anziano e lo picchia a morte. Nazareno Dinoi su Il Quotidiano di Puglia Venerdì 26 Aprile 2019. Ci sono quattordici indagati, dodici dei quali ancora minorenni, per la morte avvenuta l’altro ieri, dopo 18 giorni di agonia nella rianimazione del Giannuzzi a Manduria dove era ricoverato, di Antonio Stano, il pensionato manduriano di 66 anni preso di mira dal «branco». I reati contestati sono pesantissimi. Gli indagati devono rispondere a vario titolo di danneggiamento, minacce, violazione di domicilio, aggressione, lesioni personali e omicidio preterintenzionale in concorso e con l’aggravante della crudeltà. Sono accusati di averlo aggredito, rapinato e bullizzato e di aver costretto il pensionato a rinchiudersi in casa e a non alimentarsi per giorni. In alcuni casi le aggressioni sarebbero state filmate e i video fatti girare nelle chat. Ripetutamente, secondo gli inquirenti, avrebbero abusato dello stato di isolamento e di disagio psichico in cui viveva l’uomo, un ex dipendente dell’arsenale militare in servizio a Taranto sino all’età del pensionamento. A trovarlo in condizioni pietose lo scorso 6 aprile, seduto su una sedia dalla quale non si muoveva da giorni, sono stati gli agenti del commissariato di polizia di Manduria che si erano appostati per incastrare gli aggressori a cui da giorni davano la caccia. Stano che non si era mai sposato e viveva da solo in casa, ha solo un’anziana sorella che vive a Manduria ed un nipote che lavora al Nord e si prendeva cura di lui. A portare all’attenzione delle forze dell’ordine lo stato di profondo disagio vissuto dal pensionato, erano stati alcuni suoi vicini che avevano denunciato episodi di bullismo nei suoi confronti da parte di balordi del posto, alcuni molto piccoli, i quali, ripetutamente, si sarebbero introdotti in casa per derubarlo usando su di lui violenza e sevizie. Quando i poliziotti sono riusciti ad entrare in casa, dopo una lunga trattativa per convincerlo che non si trattava dei soliti aguzzini, si sono resi conto che l’uomo era allo stremo delle forze. Non dormiva e non si alimentava da giorni e si reggeva in piedi a fatica. Così, contro la sua volontà, hanno chiamato il 118 il cui personale lo ha convinto a farsi portare all’ospedale per un controllo. Poco dopo l’arrivo al pronto soccorso del Giannuzzi, però, le sue condizioni sono peggiorate tanto da rendere necessario un intervento chirurgico d’urgenza per suturare una perforazione gastrica. Il giorno di Pasqua un nuovo peggioramento con un secondo intervento chirurgico questa volta per una emorragia intestinale che non si era fermata nonostante le cure. L’altro ieri il decesso avvenuto nella rianimazione del Giannuzzi dove non ha mai preso mai conoscenza. A stabilire l’esatta causa della morte e soprattutto se potrebbe essere stata provocata dai traumi subiti durante le aggressioni, sarà l’autopsia che le due procure interessate, quella ordinaria e dei minorenni, hanno affidato al medico legale barese, Liliana Innamorato. Domani, venerdì 26 aprile, la specialista assumerà l’incarico e deciderà la data esatta dell’esame che si terrà nell’obitorio dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria. I due indagati maggiorenni, L.G. di 19 anni e A.S. di 22, sono difesi rispettivamente da Armando Pasanisi il primo e da Lorenzo Bullo e Gaetano Vitale il secondo. Il collegio difensivo dei minorenni è invece composto dagli avvocati di fiducia Davide Parlatano, Antonio Liagi, Cosimo Micera, Antonio Carbone e Dario Blandamura. «Sono tutti ragazzi normalissimi, studenti di liceo nati e cresciuti a Manduria in contesti familiari a modo, figli di commercianti, impiegati pubblici». Lo ha detto all'Adnkronos l'avvocato Lorenzo Bullo che assiste sette (un maggiorenne e sei minorenni) dei quattordici ragazzini indagati per la morte di Antonio Cosimo Stano, il 66enne pensionato bullizzato davanti all'obiettivo degli smartphone, rapinato, picchiato e deceduto dopo 18 giorni di agonia all'ospedale Giannuzzi. «Tutti quelli che si sono avvicinati a questa vicenda, mandando, ricevendo o inoltrando video e messaggi sui due gruppi whatsapp in esame sono coinvolti - spiega l'avvocato -. Per il momento la Procura, che ha secretato gli atti, ha sequestrato tutti i cellulari e non possiamo far nulla. Da parte mia ho nominato il medico legale di parte, il dottor Massimo Brunetti, che dalle 15 sta partecipando all'autopsia sul corpo della vittima (insieme al medico legale Liliana Innamorato, consulente della Procura ndr). Domani sapremo qualcosa di più. Certo, bisognerà valutare la sussistenza del nesso di casualità tra quanto avvenuto e il decesso, a 18 giorni di distanza dal ricovero, valutare le cartelle cliniche dei primi ricoveri, le analisi del sangue. Aspettiamo l'esito delle indagini, ad oggi senza aver avuto accesso ad alcun atto». 

Il “branco” filmava le sue bravate e le metteva in chat. Emergono particolari agghiaccianti dall’inchiesta sulla morte del pensionato manduriano, Antonio Cosimo Stano. Nazareno Dinoi La Voce di Manduria venerdì 26 aprile 2019. Emergono particolari agghiaccianti dall’inchiesta sulla morte del pensionato manduriano, Antonio Cosimo Stano (nel riquadro in alto), per la quale sono indagate quattordici persone, dodici non ancora maggiorenni, che devono rispondere di omicidio preterintenzionale ed altri reati gravissimi. Il branco di ragazzini (i due maggiorenni hanno appena 19 e 22 anni) che secondo gli investigatori avrebbe usato violenza sull’uomo per derubarlo ed anche per gioco, avrebbe filmato le proprie bravate scambiandosi poi i video nelle chat. Le scene riprese che chi le ha viste le ha definite «in stile arancia meccanica», il film di Stanley Kubrick, opera cult sulla violenza di un gruppo di giovani che quotidianamente commettevano azioni criminali su persone indifese in cerca di emozioni, sarebbero la pistola fumante in mano agli inquirenti. Scene di una brutalità inaudita con richiesta di denaro, insulti, aggressioni animalesche con calci e pugni e addirittura con dei bastoni sull’uomo inerme e indifeso, gravato, tra l’altro da problemi psichici che lo tenevano lontano da amicizie e incline all’isolamento. La vittima ideale, insomma, del bullismo elevato all’ennesima potenza. Le aggressioni, ripetute nel tempo, sarebbero avvenute sia in casa del pensionato ma anche all’esterno, per strada, davanti a persone che non intervenivano in difesa del più debole. E non da adesso. In giro esisterebbero video vecchi addirittura di sei anni. Il povero Stano, insomma, era diventato (e così lo chiamavano nel branco), «il pazzo del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio e della chiesa di San Giovanni Bosco situato proprio di fronte alla sua abitazione. La notizia degli indagati sta scuotendo le coscienze dei manduriani che si interrogano sul «come sia potuto accadere». Molto significativo è l’intervento di un educatore della parrocchia in questione, Roberto Dimitri che su Facebook ha pubblicato un lungo intervento che prova quanto le vessazioni e le violenze su Stano fossero conosciute da molti. Nel descrivere «un tessuto sociale che si sta deteriorando sempre di più», l’educatore confida le sue difficoltà di interagire con i ragazzi e poi ammette: «personalmente – scrive - ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell'ordine e chiamando i genitori, ma senza risultati. Ora – aggiunge - provo dispiacere per l'uomo, ma anche per i ragazzi che, ahimè hanno perso l'occasione di vivere serenamente la propria età come tanti altri». Mi piacerebbe – conclude - che da queste occasioni i centri come l'oratorio, le strutture di aggregazione sociale, potessero avere una rivalutazione da parte delle famiglie che devono sentirsi scomodate nel bene e per il bene dei propri figli». Risvolti sociali a parte, le indagini condotte dalla polizia del commissariato di Manduria e coordinate dai due pubblici ministeri, Remo Epifani della Procura della Repubblica ordinaria e dal procuratore capo della Repubblica per i minori, Pina Montanaro, entrano oggi nel vivo con l’incarico per l’autopsia affidato al medico legale di Bari, Liliana Innamorato. L’esame potrebbe essere eseguito già oggi stesso nell’obitorio dell’ospedale di Manduria dove si trova la salma. L’esame autoptico dirà se la morte del sessantaseienne è stata causata dai traumi subiti ripetutamente dall’uomo o l'esito di fattori patologici propri, magari aggravati dallo stato di profonda prostrazione in cui era caduta la vittima costretta a non uscire da casa per timore di incontrare i suoi aguzzini.I due indagati maggiorenni, L.G. di 19 anni e A.S. di 22, sono difesi rispettivamente da Armando Pasanisi il primo e da Lorenzo Bullo e Gaetano Vitali il secondo. Il collegio difensivo dei minorenni è invece composto dagli avvocati di fiducia Davide Parlatano, Antonio Liagi, Cosimo Micera, Antonio Carbone, Lorenzo Bullo e Dario Blandamura.Nazareno Dinoi

Manduria, le ultime parole di Antonio Stano ai poliziotti: «Sono senza forze, dovevo denunciarli prima ma avevo paura». Pubblicato martedì, 30 aprile 2019 su Corriere.it. Il 5 aprile scorso, dopo la segnalazione di una vicina di casa che aveva assistito a più incursioni dei bulli (otto sono stati arrestati martedì mattina: sei di loro sono minori) che non vedeva uscire Antonio Stano da giorni, la polizia andò a casa del pensionato. Ci mise parecchio a convincerlo ad aprire: lui era certo che fosse un altro agguato dei bulli. Nelle carte dell’inchiesta c’è scritto che, alla fine, quando aprì la porta «Stano Antonio appariva subito in condizioni precarie di igiene e di salute, dichiarava di non mangiare da una settimana perché aveva il timore di uscire fuori casa per fare la spesa». Arrivò il 118, si fece un controllo medico dopodiché il pensionato decise di sporgere una denuncia. Nelle carte è scritta a mano, in stampatello. Antonio racconta: «Da sempre sono oggetto di scherno e a volte di aggressione da parte di ignoti. Questi a volte vengono sia di sera sia di notte e prendono a calci il portone di casa mia rivolgendomi insulti. Ricordo che circa un mese fa dopo mezzanotte sono entrati dentro casa. Ricordo che quando sono entrati in casa erano cinque o sei o impugnavano delle mazze con le quali mi hanno più volte picchiato sulle mani, sui fianchi, sul ventre e sul ginocchio. Ricordo che in quell’occasione hanno buttato a terra un sacco di cose in casa, tra cui un televisore che mi hanno rotto. Infine mi hanno rubato 300 euro e sono scappati via». E ancora: «Posso dire che questa non è la prima volta che con violenza riescono ad intimidirmi e in ogni occasione hanno fatto dei danni e hanno portato via quello che gli capitava davanti. Purtroppo sono ancora molto scosso e traumatizzato, tanto da non ricordare precisamente cosa. Di queste persone e rapine subite non ho fatto denunce perché ormai mi mancano le forze e ho molta paura di ritorsioni da parte di questa gente violenta. Come potete vedere il portone di casa ha molti danni e anche la porta. Finestre e tapparelle sono state distrutte. So che i miei vicini di casa sono preoccupati pure per le mie condizioni di salute e per le aggressioni subite. Con questa denuncia vi chiedo che vengano individuati e puniti gli autori di questi reati. Quando sono stato aggredito mi sono talmente spaventato da non ricordare i volti degli aggressori».

L’ultima richiesta di aiuto di Tonino: "mi mancano le forze e ho molta paura". Paolo Piccione, riuscì a farsi aprire la porta di casa del pensionato che per la prima volta rivelò le sue condizioni di sofferenza e di disagio. la Voce di Manduria mercoledì 1 maggio 2019. Il 5 aprile scorso, dopo la denuncia presentata in polizia da 8 vicini di Cosimo Antonio Stano, vice ispettore del locale commissariato, Paolo Piccione, riuscì a farsi aprire la porta di casa del pensionato che per la prima volta rivelò le sue condizioni di sofferenza e di disagio. Le sue parole sono rimaste sul verbale redatto da Piccione. Antonio racconta: «Da sempre sono oggetto di scherno e a volte di aggressione da parte di ignoti. Questi a volte vengono sia di sera sia di notte e prendono a calci il portone di casa mia rivolgendomi insulti. Ricordo che circa un mese fa dopo mezzanotte sono entrati dentro casa. Ricordo che quando sono entrati in casa erano cinque o sei o impugnavano delle mazze con le quali mi hanno più volte picchiato sulle mani, sui fianchi, sul ventre e sul ginocchio. Ricordo che in quell’occasione hanno buttato a terra un sacco di cose in casa, tra cui un televisore che mi hanno rotto. Infine mi hanno rubato 300 euro e sono scappati via».

E ancora: «Posso dire che questa non è la prima volta che con violenza riescono ad intimidirmi e in ogni occasione hanno fatto dei danni e hanno portato via quello che gli capitava davanti. Purtroppo sono ancora molto scosso e traumatizzato, tanto da non ricordare precisamente cosa. Di queste persone e rapine subite non ho fatto denunce perché ormai mi mancano le forze e ho molta paura di ritorsioni da parte di questa gente violenta. Come potete vedere il portone di casa ha molti danni e anche la porta. Finestre e tapparelle sono state distrutte. So che i miei vicini di casa sono preoccupati pure per le mie condizioni di salute e per le aggressioni subite. Con questa denuncia vi chiedo che vengano individuati e puniti gli autori di questi reati. Quando sono stato aggredito mi sono talmente spaventato da non ricordare i volti degli aggressori».

Il giorno dopo ritornarono gli agenti e lo fecero accompagnare dal 118 in ospedale da dove non è più tornato vivo.

Nuovo Cinema Inferno. Pubblicato mercoledì, 01 maggio 2019 Massimo Gramellini da Corriere.it. Se combino qualcosa che reputo buono e me ne vanto con gli amici, sono un narciso. Ma se combino qualcosa di orribile, mi riprendo con il telefonino mentre lo faccio e poi sparo il filmato nell’iperspazio affinché tutti ammirino la mia malvagità, che cosa sono? Anzitutto un fesso, verrebbe da suggerire, dal momento che proprio quelle immagini serviranno a inchiodarmi alle mie responsabilità. Una spiegazione suggestiva, ma forse non esaustiva. Ci dev’essere qualche altro demone a spingere un delinquente a squarciare deliberatamente il muro di omertà e di mistero che da sempre accompagna gli atti delittuosi. Ormai non esiste fattaccio di cronaca che non si porti dietro un fardello di prove inconfutabili raccolte e diffuse dagli stessi carnefici. Andiamo a Manduria, vicino a Taranto, dove una banda di adolescenti inariditi dalla noia si accanisce a telefonino sguainato su un anziano fragile e indifeso. Nei video, che con decisione discutibile la polizia di Stato ha reso di pubblico dominio, si vedono quei ragazzini infierire sul pover’uomo. Gli lanciano i cappotti addosso, come se fosse un attaccapanni. Lo riempiono di ceffoni e di insolenze. Lui urla e chiede aiuto, loro sghignazzano e continuano l’opera di umiliazione. Uno schifo da nascondere anche a sé stessi. E invece quei tangheri sembrano andarne fieri. Non si limitano a riprendere le torture inferte a un inerme. Le diffondono con voluttà, in una chat chiamata «Gli orfanelli», dal nome del loro oratorio di provenienza. Stendiamo un velo pietoso, anzi non stendiamolo affatto, sui tanti adulti che ricevono le immagini nei loro telefoni e non muovono un dito, se non il pollice per scorrere al video successivo — l’indifferenza è la vera malattia dell’anima — e torniamo ai nostri bulletti. Perché sentono il bisogno di farci conoscere le loro pulsioni peggiori, quelle che un tempo avremmo definito «indicibili» e che ora invece vengono addirittura esibite, forse con orgoglio, di sicuro con disinvoltura? O quei ragazzi non sanno più distinguere il bene dal male e postano sui social le loro botte a un anziano con lo stesso spirito con cui posterebbero un canestro decisivo nella finale del torneo di basket della scuola. Oppure hanno smarrito qualsiasi nesso logico tra azione e risultato e non sanno più collegare la causa (video diffuso sulla chat) con l’effetto (prima o poi quel video arriverà sul telefono di un poliziotto). A meno che le nuove generazioni vivano lo smartphone come una protesi e non riescano nemmeno più a concepire i propri atti disgiunti dalla loro rappresentazione scenica: una cosa esiste solo se io la «mando in onda». I protagonisti di queste vicende sono sempre giovanissimi. L’imprenditore adulto (si fa per dire) che a Afragola scattava foto intime alla sua ex dopo averla violentata, minacciando di mandarle agli amici se lei non gli avesse restituito in contanti il valore dei regali che lui le aveva fatto nel corso degli anni, usava le immagini come arma di ricatto. Una finalità bieca, ma almeno razionalmente decrittabile. I ragazzi cresciuti fin da piccoli con uno smartphone tra le dita la pensano in modo diverso. Prendiamo i due camerati ventenni di Casapound che hanno abusato di una donna in un pub di Viterbo. Il video con cui hanno ripreso le proprie gesta non obbedisce ad altro scopo che a vellicare una concezione criminale e distorta di maschilismo. Nelle immagini si vede la vittima sdraiata per terra nel bar. Uno dei ceffi le solleva un braccio e lo lascia ricadere subito giù, per avere la prova che la donna è svenuta a causa del pugno che lui o il compare le ha appena esploso in faccia. Il film prosegue, ma non è né Spielberg né Fellini, solo un becero susseguirsi di gesti meschini: loro che la spogliano e la violentano a turno. La giudice delle indagini preliminari ha parlato di scene raccapriccianti. Ma allora perché i due violentatori le hanno riprese? E come fanno a dichiararsi innocenti, quando sono stati loro stessi a confezionare le prove della propria colpevolezza? Può essere che il telefono dia ai carnefici la percezione di trovarsi dentro una nuvola di impunità? Preferisco credere alla tesi opposta: che nel subconscio di questi balordi covi il bisogno di venire smascherati. E che lo smartphone, in cambio di un quarto d’ora di gloria autocelebrativa, offra loro la possibilità di costruirsi da soli le sbarre della propria prigione.

Manduria, 8 fermi per l’anziano picchiato a morte: 6 sono minori. Pubblicato martedì, 30 aprile 2019 dai Giusi Fasano su Corriere.it. Otto arresti, a Manduria, per la morte di Antonio Stano di cui proprio lunedì si sono celebrati i funerali. Due minorenni e sei maggiorenni che facevano parte delle gang di bulli che tormentavano il pensionato. I loro non erano isolati gesti violenti, soprusi, sopraffazioni, che pure già sarebbero bastati a fare di questa storia una storia tanto tragica quanto squallida, con video e chat scambiati via whatsapp. Era qualcosa di più: erano torture. Antonio Stano - l’uomo di 66 anni con problemi psichici che le bande di bulli di Manduria avevano tormentato fino a indurlo a chiudersi in casa, non mangiare e non dormire più e che alla fine è morto dopo 18 giorni di ospedale - è stato sottoposto a quel «trattamento inumano e degradante» che secondo il codice penale è nelle azioni dei torturatori. Ed è anche quel reato - la tortura, appunto - che la procura ordinaria di Taranto (guidata da Carlo Maria Capristo) e quella dei minori (di cui è a capo Pina Montanaro) hanno contestato (per almeno un episodio) ai ragazzi arrestati all’alba. Usato rarissimamente, il reato di tortura è commesso da chi «mediante più condotte» con «violenze o minacce gravi, agendo con crudeltà, provoca acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale....che si trovi in condizioni di minorata difesa». Di tutto questo, secondo le due procure, sarebbe stato vittima il povero Antonio morto dopo tre interventi chirurgici per una perforazione gastrica che non è ancora chiaro se abbia o meno nesso causale con le violenze subite dai bulli. Nei giorni scorsi erano stati indagati in 14: 12 minorenni e due maggiorenni. Stamane gli uomini del commissariato di Manduria e gli agenti della squadra mobile di Taranto hanno arrestato otto di quegli indagati. Nei provvedimenti di fermo sono messi in fila, l’uno dopo l’altro, gli episodi violenti ricostruiti dalle indagini. Attraverso i video trovati sui cellulari sequestrati ai ragazzini, attraverso le intercettazioni. Ma anche grazie alla testimonianza di una ragazza che ha riconosciuto nei video gli autori delle incursioni a casa di Stano. Per i due maggiorenni, come per i minorenni, a parte il reato di tortura aggravata (dalle lesioni) sono contestati il sequestro di persona, la violazione di domicilio e i danneggiamenti. Il procuratore Capristo dice che «abbiamo agito con celerità. Le indagini non finiscono qui. Siamo soltanto al primo passo».

Manduria, anziano vittima dei bulli: 8 persone fermate, 6 sono minori. Sono accusati di tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona. Ieri i funerali dell'uomo. La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Aprile 2019. La polizia sta eseguendo il fermo di otto persone, di cui sei minori, della cosiddetta "Comitiva degli Orfanelli", considerata responsabile del pestaggio di Antonio Cosimo Stano, il 65 enne deceduto il 23 aprile scorso dopo essere stato picchiato e bullizzato da una baby gang a Manduria. I reati che la Procura contesta ai fermati sono quelli di tortura e sequestro di persona. Gli agenti di polizia della Questura di Taranto, a seguito delle indagini della procura di Taranto, guidata dal procuratore Carlo Maria Capristo, e della procura per i minorenni, guidata dalla procuratrice Pina Montanaro, hanno dato esecuzione ad otto provvedimenti di fermo di indiziato di delitto nei confronti di altrettanti soggetti (di cui sei minori di età) ritenuti a vario titolo gravemente indiziati in concorso dei reati di tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona aggravati. I dettagli saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa in programma questa mattina alle 11 in Questura. I video delle aggressioni e delle torture hanno consentito di attribuire responsabilità precise agli otto giovani (6 minori di 17 anni e due maggiorenni di 19 e 22 anni) sottoposti a fermo dalla Polizia perché ritenuti responsabili del pestaggio di Antonio Stano, il 66enne pensionato di Manduria (Taranto) morto lo scorso 23 aprile dopo essere stato picchiato e bullizzato da una baby gang a Manduria. Altri sei minori restano indagati in stato di libertà. La misura cautelare non riguarda l’ipotesi di omicidio preterintenzionale perché si attende il responso dell’autopsia eseguita dal medico legale Liliana Innamorato per stabilire l’eventuale nesso di causalità tra violenze e decesso, o se le percosse abbiano aggravato lo stato di salute di Stano fino a determinarne la morte. Le contestazioni che hanno portato al fermo sono relative ai reati di tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona aggravati. I giovani, secondo gli inquirenti, durante gli assalti nell’abitazione dell’uomo e per strada si sarebbero ripresi con i telefonini - poi sequestrati dagli investigatori - mentre sottoponevano la vittima a violenze e torture con calci, pugni e bastoni di plastica, per poi diffondere i video nelle chat di Whatsapp. I componenti della baby gang, che si facevano chiamare «gli orfanelli», si erano accaniti contro il pensionato, ex dipendente dell’Arsenale militare, che soffriva di un disagio psichico ed era incapace di difendersi e di reagire. La Polizia ha diffuso uno dei video delle aggressioni da parte di una baby gang al 66enne pensionato di Manduria (Taranto), Antonio Stano, morto il 23 aprile scorso dopo essere stato bullizzato, rapinato, torturato e picchiato in più occasioni da un gruppo di giovani, otto dei quali (sei minori e due maggiorenni) oggi sono stati sottoposti a fermo. Nelle immagini del video girato con un telefonino da uno dei gli indagati, il pensionato cerca di difendersi urlando «Polizia», «Carabinieri», mentre i bulli divertiti cercano di colpirlo con calci e lo deridono.

L’anziano ucciso, la famiglia cambia la chiesa all’ultimo:  «Solo in cinquanta ai funerali». Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Corriere.it. Una cinquantina di persone ha partecipato, nella chiesa dell’oasi sant’Anna a Manduria, ai funerali in forma privata, di Antonio Stano, il 66enne morto in ospedale perché vittima dei pesantissimo scherzi (molestie che si sarebbero fatte via via più pesanti, diventando episodi di stalking) da parte di una baby gang. Alla esequie c’erano i familiari più stretti, tra cui la sorella e il nipote. Sul feretro la sorella ha deposto una corona di fiori composta da rose arancioni e orchidee bianche. Forse i partecipanti alle esequie sarebbero stati di più ma all’ultimo la famiglia ha deciso, un po’ a sorpresa, di celebrare l’ultimo saluto in forma privata appunto nella chiesa dell’oasi di Santa Maria anziché nella chiesa del Rosario di Manduria (Taranto). Questo probabilmente per tenere lontani i curiosi. Fatto sta che Fabio Di Noi, amico di infanzia del pensionato, dice che il cambio diAntonio Stano (Ansa) programma «è l’ennesima bruttura» fatta a Stano. Leonardo Milano, anziano che voleva dare l’ultimo saluto ad Antonio, dice che a Manduria «ci conosciamo tutti, siamo faccia a faccia ma non ci salutiamo. Siamo un mondo di morti». Sono 14 (12 minorenni e due maggiorenni) gli indagati dalla Procura per i minorenni e dalla Procura ordinaria per omicidio preterintenzionale, stalking, lesioni personali, rapina, violazione di domicilio e danneggiamento. I giovani, secondo gli inquirenti, durante gli assalti nell’abitazione dell’uomo e per strada si sarebbero ripresi con i telefonini mentre sottoponevano la vittima a violenze con calci, pugni e persino bastoni di plastica, per poi diffondere i video nelle chat di Whatsapp.

Funerali blindati, addetti dell’agenzia funebre come bodyguards, la rabbia degli amici. ​Finalmente Cosimo Antonio Stano ha avuto qualcuno in sua difesa. Erano gli addetti dell’agenzia funebre «La Pietà» che hanno svolto l’inedito compito di efficientissimi bodyguard. Nazareno Dinoi La Voce di Manduria martedì 30 aprile 2019. Finalmente Cosimo Antonio Stano ha avuto qualcuno in sua difesa. Erano gli addetti dell’agenzia funebre «La Pietà» che hanno svolto l’inedito compito di efficientissimi bodyguard con un imperativo ordinato dai parenti in lutto: tenere lontani i curiosi, ma soprattutto telecamere e giornalisti, dal suo funerale che si è svolto in forma riservatissima. Sono state così blindate le esequie del sessantaseienne manduriano per la cui morte avvenuta nella rianimazione dell’ospedale Giannuzzi di Manduria sono indagati quattordici giovani del posto, dodici dei quali non ancora maggiorenni. Sono accusati di aver provocato il decesso o contribuito a peggiorare lo stato fisico e psichico del pensionato, loro abituale vittima. Per questo devono rispondere di omicidio preterintenzionale, stalking, rapina ed altri gravi reati. Le loro bravate le hanno video registrate e immesse nelle chat. Ma torniamo ai funerali di ieri. Per assicurarsi la riservatezza, i familiari hanno organizzato un depistaggio che non è riuscito. Dopo aver fatto circolare la falsa notizia che la messa funebre si sarebbe svolta nella chiesa del Rosario, attaccata all’ospedale dove il feretro era rimasto sino a ieri, il personale delle pompe funebri, addestrato allo scopo, ha accennato un breve corteo con la bara a spalla e, invece di entrare nella chiesa, ha infilato la cassa nel carro che era in attesa con i motori accesi. Lasciando tutti a bocca aperta l’autista ha poi accelerato allontanandosi in fretta. Gli operatori dell’informazione, dopo un attimo di sbandamento, si sono fiondati nelle proprie auto innescando un inseguimento con la macchina de «La Pietà» diretta nella casa di riposo «Oasi Santa Maria», nella parte opposta della città, dove i parenti erano già in attesa nella cappella dedicata a Sant’Anna. Lì, don Domenico Spina, parroco della chiesa di San Michele Arcangelo, ha celebrato la messa funebre davanti ad una trentina di persone tra parenti e amici strettissimi. Nel frattempo fuori il carrozzone della stampa e televisioni si era assiepato davanti ai cancelli chiusi. Durante la cerimonia, all’esterno non sono mancate scene di disapprovazione dei fedeli e persino di parenti del defunto a cui è stato impedito di entrare. Dietro la scelta di «corazzare» il funerale, si è consumata poi una guerra sotterranea che non è sfuggita ai più attenti. Quella tra i parenti del defunto e la parrocchia di appartenenza della famiglia dove sarebbe toccato il funerale, la chiesa di San Giovanni Bosco, appunto. A quanto pare alla famiglia del disabile non è stata gradita l’esposizione mediatica di don Dario De Stefano, loro parroco, e per questo non gli è stato consentito di celebrare l’omelia funebre. Ad ogni modo, l’ennesimo isolamento della vittima di bullismo non è piaciuto a molti manduriani che speravano di dimostrare la loro solidarietà affollando il funerale. Uno di loro, Fabio Dinoi, amico di infanzia del pensionato, ha definito la scelta della famiglia «l’ennesima bruttura» fatta a Stano. Un altro che lo conosceva, Leonardo Milano, che voleva dare l’ultimo saluto ad Antonio, si è sfogato con i giornalisti: «a Manduria – ha detto - ci conosciamo tutti, siamo faccia a faccia ma non ci salutiamo. Siamo un mondo di morti». Intanto cominciano le spaccature tra l’opinione pubblica chiamata dalle istituzioni a partecipare alla marcia per la civiltà di sabato 4 maggio. Negli ambienti scolastici si registrano le prime defezioni di genitori che non hanno concesso il nulla osta per far sfilare i propri figli. Una mamma, Silvia Mandurino, ha scritto così sul rifiuto consegnato alle maestre: «Io insegno a mia figlia il bene ed il male, le insegno il giusto e lo sbagliato, le insegno il rispetto, ma soprattutto le insegno a non essere ipocrita». Nazareno Dinoi  

Manduria, i funerali dell’uomo vittima della baby-gang. Il procuratore: “Se chi sapeva ci avesse avvisato, sarebbe vivo”. Si sono svolti i funerali di Antonio Cosimo Stano, il 66enne morto negli scorsi giorni dopo essere stato ritrovato in casa nel paese del Tarantino, legato a una sedia. Lo sfogo del prefetto: "Tutti zitti, in un silenzio assordante. Le colpe le ha una comunità distratta, chiusa. Se i bulli se la fossero presa con un cane, ci sarebbe una rivolta popolare". Il Fatto Quotidiano il 29 Aprile 2019. C’erano soltanto cinquanta persone, oggi, al funerale di Antonio Cosimo Stano, l’uomo di 66 anni che morto alcuni giorni fa dopo essere stato ritrovato a casa sua a Manduria, in provincia di Taranto, legato a una sedia. Per la sua morte sono indagati 12 minorenni e 2 maggiorenni di 19 e 22 anni. Il procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, ha dichiarato: “Chiederemo pene esemplari. Siamo di fronte a una violenza senza limiti”. In uno dei video delle aggressioni che i ragazzini si scambiavano tra loro via Whatsapp si vedono sette di loro infierire con un bastone contro il pensionato. “Le chiamano bonariamente bravate – continua il procuratore – ma sono bravate criminali“. E conclude: “L’intervento è stato tempestivo ma sarebbe stato ancora più tempestivo se chi sapeva avesse avvisato prima le forze dell’ordine. Saremmo intervenuti in tempo e oggi Stano sarebbe ancora vivo”. Al funerale, Leonardo Milano, anziano che voleva dare l’ultimo saluto ad Antonio, dice che a Manduria “ci conosciamo tutti, siamo faccia a faccia ma non ci salutiamo. Siamo un mondo di morti“. Gli agenti del commissariato locale erano intervenuti il 6 aprile scorso su segnalazione di alcuni vicini ma, come riferisce la dottoressa Irene Pandiani, che si è occupata dell’anziano, “le condizioni di Antonio Cosimo Stano erano drammatiche già prima del ricovero. Per giorni non si è alimentato, era disidratato, aveva una insufficienza renale, respiratoria”. Dopo il ricovero, Stano ha subito quattro interventi. Le procure indagano ora per i reati di omicidio preterintenzionale, stalking, lesioni personali, rapina, violazione di domicilio e danneggiamento. Le aggressioni duravano da almenosette anni, secondo i vicini: uno dei video sequestrati dalla procura risale al 2013. Eppure, stando a quanto emerso finora, nessun segnale è arrivato alle autorità su Stano, conosciuto in paese come “il pazzo del Villaggio del fanciullo”, in riferimento al nome dell’oratorio di fronte casa sua. “Mai ci è arrivata, né formalmente né informalmente, fosse almeno in maniera anonima, alcuna segnalazione su Antonio Cosimo Stano”, riferisce Raffaele Salamino, responsabile dei servizi sociali del comune di Manduria. “Sarebbe bastata una chiamata – aggiunge – e un assistente avrebbe preso in carico la cosa, coinvolgendo il servizio di igiene mentale”. Un anno e mezzo fa gli operatori del 118 intervennero su segnalazione della polizia davanti alla casa di Stano. L’uomo era a terra, con delle ferite alla testa. Forse, anche in quel caso, era stato preso di mira dai ragazzini. Il 66enne venne medicato sul posto perché, vinto dal paura, rifiutò il trasporto in ospedale. “Tutti zitti, in un silenzio assordante“, così si è sfogato il prefetto Vittorio Saladino, uno dei tre commissari di Manduria, il cui Comune è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. “Se i bulli invece che con quel pover’uomo se la fossero presa con un cane, ci sarebbe stata la rivolta popolare. Stano è stato chiuso e isolato in una casa, in una strada, in una comunità: un essere umano che abitava davanti a una parrocchia lasciato solo. Il prete ha detto di essere intervenuto più volte, ma perché non ha segnalato subito ai servizi sociali?”. Parole che suonano come un monito di fronte all’omertà del paese. “Le colpe le ha una comunità distratta, chiusa – aggiunge il prefetto – coi giovani bombardati dai media e da episodi negativi”. La maestra della scuola elementare dove alcuni dei ragazzi hanno studiato, Pamela Massari, accusa le famiglie: “Questi ragazzini vivono in un contesto di impunità fin da piccoli grazie a genitori pronti a difenderli sempre e comunque, pur davanti a evidenze vergognose. Mamme e papà che si sentono in diritto di inveirti contro perché hai osato rimproverare l’alunno”. La madre di uno dei ragazzini il cui nome compare nell’inchiesta, intervistata dall’Adnkronos, ha detto: “Mi sento responsabile io dell’assenza di umanità dimostrata da mio figlio anche solo per aver condiviso un video girato da altri. In casa viviamo male, non dormiamo. “Perché?” mi chiedo, dove ho sbagliato? Non abbiamo mai fatto passare liscia a nostro figlio una marachella, una mancanza di rispetto, una parolaccia in casa. È stato sempre un ragazzino timido, all’apparenza ancora più piccolo della sua età. Perché mio figlio si è divertito anche solo a vedere quelle scene raccapriccianti?”.

Baby torturatori, per divertirsi. Giuliano Foschini La Repubblica, 27 aprile 2019. “Lo abbiamo fatto per passare il tempo” dice uno degli aguzzini, 17 anni. A perseguitare il vecchio erano in tanti, in competizione. E tutti sapevano. Perché? “Per passare il tempo”. Lo avete ucciso. “Non è vero, che dite! Ho soltanto girato qualche video su WhatsApp”. Non ci sei mai andato? “Qualche volta, fuori di casa. Senza mai entrare”. Perché? “Per ridere”. Per capire l’orrore di Manduria è necessario guardare gli occhi vispi ma apparentemente privi di emozione di questo ragazzo che non ha ancora compiuto 17 anni. Cammina con la testa bassa verso casa. Dice di sognare, da grande, di fare l’attore. E che “si sta facendo troppo casino”. Secondo la polizia è uno dei 14 aguzzini di Antonio Cosimo Stano, “lu pacciu” di Manduria, come lo chiamavano tra di loro, l’uomo seviziato a morte da questi ragazzi e ucciso dalla distrazione di un paese, quasi tutto, che ora si indigna ma per anni sapeva e aveva sempre fatto finta di non vedere. “Non abbiamo fatto niente, solo due messaggi” ripete il ragazzo, prima di andare via. Il niente è una lunghissima chat di WhatsApp. Un gruppo chiuso al quale partecipano una dozzina di giovani del paese. Si chiama “Gli orfanelli” ed è una cassetta postale nella quale compulsivamente ogni giorno, durante le lezioni a scuola e così fino a tarda notte, i partecipanti si scambiavano per lo più cose inutili: fotografie, sfottò calcistici, scherzi audio. I partecipanti sono tutti di Manduria e, in un paese come questo, culla della Sacra corona unita, dove il consiglio comunale è stato sciolto per infiltrazioni mafiose, sono quelli che si chiamano “bravi ragazzi”: uno solo, figlio di un pregiudicato, ha precedenti. Gli altri hanno genitori insegnanti, guardie giurate, imprenditori vinicoli, commercianti. E sono tutti studenti (per dire, nei giorni scorsi la polizia è stata in classe per sequestrare uno smartphone). In comune hanno dunque questa chat. E un’ossessione: Antonio “lu pacciu”. L’uomo era un ex dipendente dell’Arsenale militare. Era in pensione da tempo, quasi dieci anni, e da allora aveva avuto problemi di natura mentale. “Tecnicamente era un paziente psichiatrico” spiegano dalla procura di Taranto dove, in queste ore, stanno cercando di mettere ordine all’insensatezza di un crimine senza movente. Se non la violenza stessa. Da anni - c’è chi dice sei, chi un paio - questa banda di ragazzini perseguitava l’uomo. E poi si divertiva a condividere nel gruppo WhatsApp i video delle vessazioni. Per esempio: è febbraio, fa freddo, Antonio ha un lungo cappotto marrone. Gli mettono il cappuccio sulla testa e cominciano a prenderlo a schiaffi. Uno riprende, un paio colpiscono, gli altri ridono. “Miliardi di persone perché vieni sempre da me!” implora di smetterla Antonio sull’uscio di casa, mentre uno dei ragazzi lo spinge forte per terra e gli altri ridono di gusto. Poi, ancora: calci, sgambetti. “Che facciamo oggi?”. “Stasera sciamu tutti dallu pacciu” e via emoticon, risate, e cenni di approvazione. Entrano anche nella sua casa. Un ragazzo brandisce una scopa verde, come fosse la frusta di un domatore. Antonio è spaventato, sulla sedia, prova a ripararsi con le mani, viene colpito, tutti ridono. In diretta e nella chat. “Mamma, che hai fattu allu pacciu! Come lo hanno combinato!”. Antonio era esausto. A perseguitarlo non c’erano soltanto quelli del gruppo de “Gli orfanelli”. Era diventato l’oggetto di una competizione nel paese. Due, tre comitive di coetanei. Che poi si inviavano video tra di loro per vedere chi l’aveva fatta più grossa. Antonio, ormai, non usciva più di casa perché aveva paura di incontrarli. Temeva anche soltanto di aprire la porta per uscire a fare la spesa. Era solo: aveva una sorella più grande, impossibilitata a muoversi di casa. E un nipote, ufficiale di Marina, che si prendeva cura di lui ma viveva lontano, troppo, per rendersi conto di quello che stava accadendo. È impossibile da capire, però, come non abbiano visto quelli che erano vicini ad Antonio. Chi gli abitava accanto, chi ogni giorno assisteva a quelle scene di bullismo. Racconta Roberto Dimitri, educatore nella parrocchia di San Giovanni Bosco, che Antonio frequentava: “Personalmente ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell’ordine e chiamato i genitori, ma senza risultati”. “Non capisco” dice uno degli investigatori, “come sia possibile che non ci sia arrivata mai nemmeno una segnalazione, visto che queste persecuzioni, perché tali sono, andavano avanti da anni”. I poliziotti sono stati allertati dai vicini soltanto all’inizio di aprile, perché non vedevano Antonio in giro. Il 6 sono entrati in casa: lo hanno trovato seduto su una sedia, come tramortito. La casa era un porcile. Non c’era nemmeno un letto, un materasso era poggiato a un muro. Antonio dormiva sulla sedia. Non aveva più il televisore: se l’era portato via uno della banda, chiaramente ripreso dai cellulari degli altri. C’erano ancora i segni delle scorribande dei ragazzi. “Non si rendevano conto del male che stavano facendo”, è convinto l’avvocato Lorenzo Bullo, che difende sei indagati, cinque minorenni e un maggiorenne. Di orrore se ne intende: ha difeso Cosima Serrano, una delle assassine di Avetrana, che da Manduria dista pochi chilometri. E dove in pochi avevano visto, eppure tutti sapevano. Ora i genitori dei ragazzi piangono. Mentre loro, i ragazzi, chiedono “perdono” ma si dicono “certi di non averlo ucciso”. Saranno i medici a stabilire se quella perforazione allo stomaco che sembra aver ammazzato Antonio sia il frutto di un colpo, di una vecchia ulcera o della paura anche solo di uscire di casa e chiedere aiuto. “Ridate i soldi al vecchio” scrivono “Gli orfanelli” in uno degli ultimi messaggi, prima del sequestro dei telefoni. Qualcuno aveva rubato a casa Stano 300 euro, o forse 30. Ma la cifra non importa. “Lu pacciu” non c’era già più.

Manduria, spuntano gli audio choc degli aguzzini: «Noi in sei con le mazze, lui urlava e lo colpivamo».  Nazareno Dinoi   Quotidiano di Puglia lunedì 06 maggio 2019. Non c'erano solo video, ma anche audio-messaggi nelle chat del gruppo degli «orfanelli» finite nei fascicoli delle due procure joniche che indagano sulla morte del sessantaseienne manduriano, Antonio Cosimo Stano. Sono dialoghi raggelanti, forse ancor più delle immagini delle aggressioni che i componenti del branco si scambiavano sui social come trofei. Alcune registrazioni acquisite da chi investiga, erano ancora presenti nella memoria dei telefonini sequestrati agli indagati, altri sono stati estratti dai periti della procura che hanno carpito tutti i segreti degli apparati. Chiacchiere tra ragazzini, all'apparenza innocui, il cui contenuto fa tremare i polsi se si pensa soprattutto all'epilogo di quelle scorribande notturne. Sembrano voci di bambini, alcune dimostrano avere un'età inferiore di quella dei sei minorenni fermati e poi rinchiusi nel «Fornelli» di Bari, il carcere per minori dove sono stati destinati a seguito dell'interrogatorio di garanzia. La data in cui sono stati registrati non è nota, sicuramente prima che la loro vittima fosse ricoverata, probabilmente nel periodo del Carnevale quando, secondo la testimonianza dei vicini, i raid si sono intensificati. Gli audio, di pochi secondi, sono la cronaca di ciò che era avvenuto la sera prima. In uno si descrive l'episodio dell'incursione di gruppo, quello del video delle bastonate diffuso dalla polizia. La voce giovanile racconta ai compagni assenti i particolari dell'ultima bestialità. Noni uagliù, ma ui jerubu vedè, No ragazzi, dovevate vedere (trovarvi), spiega con vanto il ragazzo che narra l'accaduto nel suo dialetto che si traduce per renderla comprensibile a tutti. «Siamo entrati piano, piano, piano. In un secondo quello si è girato (Antonio Cosimo Stano, ndr) trovandosi in casa cinque, sei persone con le mazze; infatti ha lanciato un urlo ed ha perso la voce». Il video che conosciamo ci mostra le scene di quei momenti. La baby gang a volto scoperto brandisce mazze che fanno ruotare minacciosamente in aria sbattendole sul tavolo e contro le porte per spaventare il pensionato. E ci riescono. Mentre la vittima continua ad urlare terrorizzata, qualcuno lo colpisce con la mazza e la radiocronaca è pronta il giorno dopo nella chat del gruppo: «mazzate, proprio mazzate, con le mazze in testa, uno di noi (nell'audio si indica il nome), sul volto gliel'ha data». E via un sorriso divertito. La parte finale del messaggio è quello che mostra un barlume di umanità ma nello stesso tempo scopre la vera ragione di quei gesti: la noia, il far del male fine a sé stesso, il gusto della violenza senza nessuna ragione se non quella di riempire un vuoto morale oltre che insito nell'animo che gli esperti definiscono diseducazione. L'autore dell'audio, dopo una risata, cambia registro, il tono della sua voce è tra la pietà e l'assuefazione. «Comunque - dice -, mi dispiace mbà, basta, santo iddio». Un'ammissione di colpa in piena regola, insomma, che non lascia spazio ad incomprensioni e che gli inquirenti non risparmieranno per chiedere la pena più appropriata. Per ora a carico dei quattordici indagati, otto dei quali arrestati, solo due i maggiorenni. Ma le indagini sono tutt'altro che concluse. Gli investigatori stanno analizzando migliaia di messaggi contenuti nelle chat degli «orfanelli» ma anche di altri gruppi WhatsApp che hanno condiviso i video o che comunque hanno saputo e taciuto sulle torture che per mesi, forse per anni ha subito Antonio Stano. Dall'altra parte gli avvocati degli arrestati stanno già preparando gli atti per il tribunale del riesame a cui chiederanno la scarcerazione dei loro assistiti o la misura alternativa. Il collegio difensivo è composto da Cosimo Micera, Antonio Liagi, Pier Giovanni Lupo, Gaetano Vitale, Lorenzo Bullo, Nicola Marseglia, Franz pesare e Armando Pasanisi.

L'audio choc degli orfanelli: «uffa, sempre le solite cose». Una ammissione di colpe ai fini dell’accusa ma anche la dimostrazione di come il gruppo agiva in quel modo quasi per gioco, per noia. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria giovedì 16 maggio 2019. Spunta un messaggio audio, circolato nelle chat degli «orfanelli» e trasmesso ieri nella puntata della trasmissione Rai «Chi l'ha visto?», dove uno di loro mostra segni di stanchezza con sensi di colpa per le violenze inflitte a Antonio Cosimo Stano, il pensionato disabile la cui morte ha fatto aprire le indagini sul branco ritenuto colpevole di aver vessato e aggredito in più occasioni l’anziano che viveva solo in casa. Nell’audio finito nelle mani degli inquirenti che indagano quattordici giovani manduriani, due dei quali appena maggiorenni, otto finiti in carcere, si sente la voce di un giovane dall’umore tra l’annoiato e il dispiaciuto per quanto stava accadendo alla loro vittima predestinata. «Compà, mi sento in colpa ogni volta che andiamo», dice il ragazzo al suo interlocutore. E aggiunge. «Cioè, poi, alla fine, uffa, sempre le solite cose, gli sfondiamo la porta, lo prendiamo in giro (il termine reale è più colorito, NdR), gli alzano le mani, cioè, un po’ mi ha stancato capito?», confida il minorenne al suo contatto WhatsApp a cui è destinato l’audio messaggio. Che si conclude così: «…e in più dobbiamo anche rischiare, quindi stiamo fermi». Una ammissione di colpe ai fini dell’accusa ma anche la dimostrazione di come il gruppo agiva in quel modo quasi per gioco, per noia per quanto incredibile possa sembrare una cosa simile. Un modo di fare che ad un certo punto stanca e quindi si ha voglia di fermarsi ma non per sano pentimento, magari anche un po’ quello, ma perché non ne vale la pena («in più dobbiamo anche rischiare», afferma «l’orfanello» in quell’audio. Intanto da Taranto i giudici del Tribunale dei Riesame tardano ad esprimersi sulla richiesta di revisione della misura detentiva presentata dagli avvocati dei due maggiorenni indagati, Gregorio Lamusta di 19 anni e Antonio Spadavecchia di 23, entrambi rinchiusi nel carcere della città capoluogo. I loro difensori, Armando Pasanisi e Franz Pesare del primo e Gaetano Vitale con Lorenzo Bullo per il secondo, sperono di ottenere per i propri assistiti se non la libertà perlomeno gli arresti domiciliari. Lunedì 20 maggio toccherà invece al collegio difensivo dei sei minorenni composto dagli avvocati Cosimo Micera, Antonio Liagi, Lorenzo Bullo, Davide Parlatano e Pier Giovanni Lupo. Rinchiusi nel carcere minorile di Bari, per i loro assistiti gli avvocati dovranno convincere i giudici del Riesame ad annullare le esigenze cautelari del carcere offrendo la libertà o magari l’affidamento ad un centro di recupero se non alle rispettive famiglie. Ipotesi improbabile quest’ultima almeno interpretando il parere espresso dal giudice delle indagini preliminari nell’ordinanza di convalida degli arresti che ha definito diseducativo il contesto familiare dei ragazzi. L’inchiesta, invece, che la Procura della Repubblica ordinaria e quella per i minorenni di Taranto ha affidato alla polizia del commissariato di Manduria, si è momentaneamente spostata sul «caso» dell’altra presunta vittima di bullismo, il sessantunenne indigente manduriano, Cosimo Mandurino, detto «Mimino motorino», che a febbraio scorso degli sconosciuti gli avrebbero incendiato casa. Secondo il racconto dell’indigente a farlo sarebbero stati dei ragazzini che si divertivano a tirargli pietre e ad insultarlo.

Nazareno Dinoi

Carmelo Abbate 12 maggio alle ore 08:34 su Facebook: Lui è Antonio, l'anziano di Manduria. È davanti alla porta di casa. È notte. È circondato. Ha paura. Uno dei ragazzi sembra capire la sua prostrazione, lo tranquillizza, gli allunga una mano. Gli dice vieni, ti dò la mano, facciamo pace? Antonio risponde di no, non c’è né pace né guerra. Il ragazzo chiede perché? Lui ripete che non c’è pace né guerra. Il ragazzo addolcisce la voce, gli allunga la mano e gli ripete facciamo pace. Antonio esita. Il ragazzo fa partire uno schiaffo, secco, diretto, violento, che colpisce Antonio in pieno volto. Il vecchio si piega tramortito, i ragazzi si sganasciano dalla risate. Lui è un ragazzo, poco dopo, al telefono. Dice madonna compare, le risate, praticamente poi è arrivato Alessandro e tutto il gruppo loro, Andrea, poi mi ha chiamato un altro, Antonio, è arrivato lui, Vincenzo, Salvo, il fratello, un casino, compare. Come siamo entrati abbiamo fatto finta, alzato la mazza, e poi boom, gli ho tirato addosso una mazza. Lui si è piegato, e se n’è andato. Lui stava con la mazza in mano, ha iniziato a muoverla dicendo pagherai, pagherai. Quando ho visto questo, gli ho detto pagherò?, mi sono innervosito compare, gli ho dato uno schiaffo e lui ha gridato ahia! E gli colava il sangue dal naso. Poi sono andato di nuovo e lui ha detto polizia!, carabinieri! E gli ho dato un altro colpo di bastone. Lui è un altro ragazzo, sempre al telefono. Dice ragazzi, incredibile, siamo passati di nuovo io, Gregori, Andrea, la porta era aperta, siamo entrati in casa con le mazze in mano, e abbiamo cominciato a dargli colpi di mazza. C’è il video, pure, ragazzi, scoppierete di risate. Lui è un altro ragazzo, ancora al telefono. Dice sì, infatti è stata una brutta botta, perché era stordito. Tu pensa che ce ne siamo andati, e quando passavamo, che eravamo a una ventina di metri, lui urlava subito aiuto! aiuto! Si è rincoglionito proprio.

I giovani permale. Michela Marzano La Repubblica, 27 aprile 2019. La violenza è talmente sdoganata che i ragazzi credono che tutto sia gioco e non sentono sulla pelle il dolore altrui. Cosa può passare per la testa di un ragazzo quando bullizza, umilia o tortura un altro essere umano? È accaduto a Manduria, in provincia di Taranto, dove quattordici ragazzi, di cui dodici minorenni, hanno segregato in casa un uomo di sessantasei anni che soffriva di disagi psichici, sottoponendolo a numerosissime sevizie. Ma, dicevo, cosa può mai spingere dei ragazzi a commettere tali atrocità? Una forma di crudeltà, senz’altro. E di totale assenza di empatia nei confronti della sofferenza altrui - immaginando magari che un disagio psichico renda impermeabili al dolore, oppure meno degni di considerazione e empatia. Ma anche una forma di stupidità, visto che solo chi non è in grado di capire che la persona che ci sta di fronte (indipendentemente dalle differenze specifiche che lo caratterizzano e dalle abilità o disabilità che porta con sé) possiede, in quanto persona, il nostro stesso valore intrinseco, può permettersi di calpestare la dignità altrui. Per non parlare poi dell’indifferenza, madre di ogni male, che porta a tapparsi le orecchie e a bendarsi gli occhi di fronte al dolore di chi ci è davanti. Anzi. Spinge addirittura a moltiplicare all’infinito la violenza, e a filmare le scene con il cellulare. Prima di condividerle su WhatsApp con tutti coloro che, indifferenti pure loro alla vulnerabilità umana, confondono la violenza con l’eroismo e la vigliaccheria con il coraggio. Ormai viviamo in una società in cui sono molti coloro che pensano che l’unica cosa che conti sia l’”apparire”: trovare il modo per ottenere condivisioni e “mi piace” sui social, forse perché non si è in grado di esistere in altro modo, forse perché non si riesce nemmeno più a dare valore alla propria esistenza. E allora si immagina che tutto si equivalga: fare, disfare, distruggere, cancellare. Tanto chi può mai essere turbato dalla morte di un marginale? A chi può mai mancare un uomo anziano e disabile? Pare che nei video diffusi sulla chat di WhatsApp, i giovani si siano ripresi proprio mentre prendevano a pugni e a calci la vittima. Così come pare che l’anziano signore fosse vittima di bullismo da anni. Anni di soprusi e umiliazioni, quindi. Senza che nessuno sia mai intervenuto per mettere fine alla tragedia. Perché è di una tragedia che stiamo parlano, non di un videogioco né di un film di Tarantino. Ma forse il problema è proprio questo: aver a tal punto sdoganato la violenza che il messaggio secondo cui, in fondo, tutto è gioco, tutto è possibile, e niente è irreparabile, è ormai parte del Dna di troppi giovani. Mentre la caratteristica della crudeltà è proprio l’irreparabilità: quando il bersaglio è un essere umano, ogni gesto resta, ogni umiliazione si iscrive sulla carne, ogni calcio e ogni pugno calpestano la dignità personale. E non è vero che basti punire i colpevoli per risolvere questo tipo di problemi ed evitare che, in futuro, possano di nuovo accadere tragedie come questa. Finché non si ricomincerà dall’Abc del rispetto e dalle basi della compassione - che non è innata, ce lo spiega bene Freud: se i più piccoli non vengono educati all’empatia, la crudeltà non ha limiti, e non c’è modo di arginarla - sarà difficile immaginare un futuro in cui i giovani sentano sulla propria pelle il dolore altrui, e capiscano il significato dei propri gesti. Il mondo delle relazioni, oggi, necessita di essere riparato. Ce lo spiega l’etica della cura, che sposta l’asse dall’individuo alle relazioni, e mostra come il vivere- insieme può essere preservato solo ricostruendo la capacità dell’”io” a riconoscere il “tu”. Ma soprattutto ce lo impone la realtà, ogniqualvolta ci costringe a fare i conti con i drammi generati dall’indifferenza, dalla stupidità e dalla crudeltà di alcuni ragazzini e a domandarci, un’altra volta, se questo è un uomo.

Altro che “gretini”, si affronti la questione giovanile. L’inkiesta il 10 maggio 2019. Troppi ragazzi non sono preparati adeguatamente dalla scuola, non ricevono valori dalla famiglia, spesso sono bloccati nella povertà. La provocazione di De Bortoli: per loro la classe dirigente non sta facendo abbastanza. È bastato un po’ di freddo fuori stagione per indurre certi commentatori a ironizzare sul riscaldamento del Pianeta. Non lo hanno fatto discutendo la correttezza delle valutazioni ormai pressoché unanimi degli scienziati sull’aumento della temperatura, ma se la sono presa con Greta Thunberg, l’adolescente svedese che ha messo in moto la protesta mondiale dei ragazzi impegnati a rivendicare un futuro migliore. Non hanno osato affrontare il tema delle cause antropiche dei mutamenti meteorologici, ma hanno solo mostrato insofferenza verso la protesta, esibendo nuovamente l’orrendo neologismo “gretini”. Sanno bene che il riscaldamento è una media globale innegabile, anche se ci possono essere stagioni più o meno fredde, più o meno piovose, ma ogni scusa è buona per fermare il cambiamento. Queste reazioni di insofferenza dimostrano che in certi ambienti, a parte le dichiarazioni di convenienza sulla “sostenibilità”, non c’è nessuna voglia di modificare le priorità politiche. Far accettare un modello di sviluppo sostenibile sarà una battaglia che durerà a lungo, anche oltre i tempi dell’Agenda 2030. Una battaglia nella quale i giovani avranno un ruolo determinante. Abbiamo visto dalla mobilitazione di queste settimane che i ragazzi sono pronti a impegnarsi per difendere il loro futuro, ma sappiamo anche che la piazza non basta, che è necessario essere culturalmente attrezzati e nelle migliori condizioni per affrontare le difficili scelte dei prossimi anni. Facciamo abbastanza per prepararli? Una serie di notizie e di prese di posizione di questi giorni mi stimola a questa riflessione. A cominciare dagli indicatori elaborati dall’Istat in relazione all’Obiettivo 4 degli Sdgs, quello sull’educazione, ripresi dalla stampa. Riportiamo alcuni brani dell’ultimo rapporto. In Italia, la quota di ragazzi iscritti al terzo anno delle scuole secondarie di primo grado che non raggiungono la sufficienza (low performer) nelle competenze alfabetiche è il 34,4%, in matematica del 40,1%. La Campania, con il 50,2% di low performer in lettura, seguita dalla Calabria (50%) e dalla Sicilia (47,5%) sono le regioni dove i livelli di studenti con scarse competenze alfabetiche sono più alti; anche per le competenze numeriche degli studenti di III classe delle scuole secondarie di primo grado, queste regioni mantengono i livelli più alti di insufficienza, Campania e Calabria con il 60,3% dei ragazzi e Sicilia con il 56,6%. Tra gli studenti delle seconde classi delle scuole superiori di secondo grado, il 33,5% non raggiunge un livello sufficiente nelle competenze alfabetiche e il 41,6% in quelle numeriche. Le differenze regionali sono ampie. Sapevamo dall’indagine dell’Ocse del 2013 sulle competenze degli adulti che l’Italia era agli ultimi posti tra i Paesi più sviluppati: solo il 30% circa degli italiani tra i 16 e i 65 anni raggiunge un livello accettabile nella capacità di comprendere un testo, mentre un altro 30% non è in grado di sintetizzare un’informazione scritta, può solo svolgere compiti semplici e ripetitivi. Speravamo che la situazione cambiasse, con l’aumento della scolarizzazione, ma l’Istat ci dice che non è così, nonostante l’impegno di tanti docenti anche di fronte alle difficoltà dell’integrazione: un terzo dei giovani tra i 13 e i 15 anni (la metà in alcune regioni del Sud) non capisce quello che legge e meno ancora sono quelli in grado di risolvere semplici problemi. Da questo analfabetismo non dichiarato ai comportamenti antisociali il passo è breve. Lo psicanalista Massimo Ammanniti ha così commentato sul Corriere della Sera la vicenda del branco di ragazzi che ha torturato un disabile a Manduria: Una madre dei ragazzi ha cercato di giustificare il proprio figlio e gli altri ragazzi coinvolti dicendo che non c’è nulla a Manduria per i ragazzi se non i bar. Ma il deserto di Manduria non è legato alla mancanza dei luoghi di ritrovo, dipende piuttosto dall’abbandono educativo da parte degli adulti, in primo luogo la famiglia e anche la stessa scuola che non hanno saputo trasmettere ai ragazzi il rispetto e la comprensione per gli altri oltre che per se stessi.

Le scuole che non insegnano, le famiglie che non trasmettono valori si intrecciano con il problema della povertà minorile. Viviana Daloisio ha scritto su Avvenire: Basta guardare all’ultimo decennio per capire di cosa stiamo parlando: i dati sulla povertà elaborati dall’Istat nel 2007 (l’ultimo anno precedente alla crisi finanziaria ed economica esplosa nel 2008) mostravano un’incidenza di povertà assoluta tra bambini e giovani in minore età del 3,1%, quelli del 2017 del 12,1%. Un balzo sconcertante «per cui si è fatto meno di quello che sarebbe necessario» sottolinea Giancarlo Rovati, ordinario di Sociologia all’Università Cattolica di Milano. «Basti guardare alla corrispondente povertà assoluta tra gli anziani, passata dal 3,1% al 4,6% negli stessi dieci anni, per effetto dei trattamenti pensionistici e degli assegni sociali destinati a questa parte della popolazione». E anche in queste ore, in cui da Eurostat arrivano segnali di ottimismo su un rallentamento della morsa dell’indigenza, «la buona notizia continua a non valere per i bambini – aggiunge Rovati –, visto che la situazione è migliorata per tutte le fasce di età ad esclusione proprio di quella dei più piccoli». Con la percentuale dei minori di 6 anni in condizione di disagio che sale nel 2018 dall’8,5% all’8,8%, contro una contrazione di quasi due punti percentuali nella fascia di chi invece è in età da lavoro (25-54 anni). «Un allarme che non può essere ignorato oltre».

La classe dirigente sta facendo abbastanza per rispondere a questa sfida? Una risposta netta è venuta da Ferruccio De Bortoli, presentando il suo nuovo libro “Ci salveremo” a Che tempo che fa. Una classe dirigente nella quale la maggior parte dei grandi imprenditori porta la sede legale e fiscale all’estero, una classe dirigente che non condivide gli oneri della cittadinanza, non deve meravigliarsi se una parte della popolazione si sente estranea. Se ci fosse una classe dirigente all’altezza dei compiti, si porrebbe il problema di come aiutare i due milioni e forse più di giovani tra i 15 e i 29 anni anni che non studiano e non lavorano e si tasserebbe. Direbbe: prendiamo atto di questa enorme presenza di ragazzi che non hanno un futuro e ci impegniamo a dare loro una istruzione, una formazione, ad aiutare il servizio civile. Per fortuna c’è un grande volontariato, che è un capitale sociale prezioso. Il titolo positivo del libro dell’ex direttore del Corriere nasce proprio dalla presa d’atto dell’importanza del volontariato e del terzo settore, una realtà di cui ASviS, con le oltre 200 associazioni che fanno parte dell’Alleanza, è certamente una componente importante, impegnata a mobilitare tutta l’opinione pubblica in occasione del prossimo Festival dello sviluppo sostenibile. Ma la provocazione di De Bortoli non va lasciata cadere. Ricordiamo che il target 8.6 dell’Agenda 2030 impegna a “Entro il 2020, ridurre sostanzialmente la percentuale di giovani disoccupati che non seguono un corso di studi o che non seguono corsi di formazione”. Sono i cosiddetti Neet, not in employment, education or training. Uno studio del luglio 2018 della Agenzia nazionale politiche attive del lavoro ne aveva censito 2,19 milioni, pari al 24,1% dei giovani tra i 15 e i 29 ani, la percentuale più alta in Europa. C’è stato un miglioramento negli ultimi anni, rispetto ai 2,4 milioni del 2013, ma ci sono anche gravi squilibri territoriali: i Neet sono quasi il 38% della popolazione giovanile a Napoli, oltre il 40% a Palermo. Lo stesso studio avverte che i Neet non sono affatto i bamboccioni che qualcuno crede, perché il 41% di essi è attivamente in cerca di lavoro e un altro 25% vorrebbe avere nuove opportunità formative. Nel complesso però i dati sono allarmanti e il calo nel loro numero è ben lontano dall’Obiettivo che abbiamo ricordato. La realtà è che una vasta parte delle nuove generazioni per carenze scolastiche, povertà, mancanza di opportunità, è condannata a rimanere ai margini e non è attrezzata per affrontare le sfide del domani. Da questa allarmata constatazione bisogna partire per trasformare i giovani in costruttori di futuro e magari anche per riuscire a richiamare i tanti che hanno cercato migliori prospettive all’estero. A cura di Donato Speroni, Responsabile della Redazione dell'ASviS

Uomo picchiato da baby gang, il 4 maggio "Marcia per la civiltà" a Manduria. Il corteo partirà "dalla zona delle scuole, perchè - si precisa in una nota della Pro Loco - riteniamo che sia da lì che occorre ripartire. Lì, nei ragazzi, c'è il nostro miglior futuro". Due le Procure che hanno aperto un fascicolo. I ragazzini coinvolti si difendono: "Abbiamo sbagliato non ci rendevamo conto del male che stavamo facendo". Rainews 28 aprile 2019.  Una "Marcia per la civiltà". Si terrà il prossimo 4 maggio a Manduria, dopo il tragico episodio del 66enne aggredito e vessato per mesi - forse per anni - da un gruppo di giovani, e deceduto in ospedale dopo aver subito due interventi chirurgici nel giro di pochi giorni per suturare una perforazione gastrica e per una emorragia intestinale. A  organizzarla la Pro loco, Confcommercio, scuole, parrocchie e movimenti civici della città. Il pensionato era stato ricoverato il 6 aprile, accompagnato dal 118 su richiesta della Polizia, che lo aveva trovato nel suo appartamento in precarie condizioni psico-fisiche. Dalle indagini è emerso che l’uomo era stato picchiato, rapinato e bullizzato. Sono 14 (12 minorenni e due maggiorenni) gli indagati dalla Procura per i minorenni e dalla Procura ordinaria. "Le nefaste note vicende di cronaca - sottolinea la Pro Loco in una nota - dipingono una Città che francamente non riconosciamo e, soprattutto, in cui non ci identifichiamo". Il corteo partirà "dalla zona delle scuole, perchè - si precisa - riteniamo che sia da lì che occorre ripartire. Lì, nei ragazzi, c'è il nostro miglior futuro".  Due le Procure che hanno aperto un fascicolo. Si attende l'esito dell'autopsia  A chiarire le cause del decesso e eventuali responsabilità, sarà l’autopsia. Sono due le procure che hanno aperto un fascicolo per i reati di omicidio preterintenzionale, stalking, lesioni personali, rapina, violazione di domicilio e danneggiamento. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale dei minori ha aperto un fascicolo a carico di 12 minorenni coinvolti negli episodi di violenza. Anche la procura della Repubblica ha aperto un fascicolo e indaga su due giovani, uno di 19 e l’altro di 22 anni. I magistrati chiederanno al medico legale di fare luce sulle cause che, dopo 18 giorni di agonia, hanno portato al decesso dell’uomo, ex dipendente dell’arsenale, che viveva a solo in casa in condizioni di disagio psichico. Al vaglio degli investigatori ci sarebbero alcuni video, fatti circolare su «WhatsApp», in cui i giovani si riprendono mentre sottopongono la vittima ad atroci violenze. La vittima, secondo quanto trapelato, era stata scelta con cura perché mite e indifesa. Ragazzi si difendono: "Abbiamo sbagliato" "Io non l'ho mai toccato, ero nella chat, anzi nelle chat. Ma era solo per ridere che facevamo girare quei video, mica lo volevamo morto". Il ragazzino senza barba non somiglia ai soliti bulli, parla in dialetto stretto a tratti incomprensibile mentre racconta delle chat su whatsapp che raccoglievano i video e i messaggi sul "pacciu", il "matto" del paese. Era il loro divertimento Antonio Stano, e ora che è morto i ragazzini allargano le braccia e si dicono increduli. Pure lui, che 17 anni ancora non li ha compiuti e dopo scuola gioca a calcio. Il "leader" del branco è poco più grande di lui, ma non ancora maggiorenne, nei filmati che il ragazzino mostra ma non vuole inviare ruba il televisore in casa della vittima. Ma lui no: lui è uno di quelli che davanti ai poliziotti e agli inquirenti giura: "Ho sbagliato, non mi rendevo conto del male che stavamo facendo, non ho avuto la forza di fermarli perché, in fondo, lo facevano tutti". "Papà e mamma lo sapevano dove andavi quando uscivi con gli altri del gruppo?", "No, uscivamo ma io non facevo niente. Passavo il tempo" risponde prima di rientrare in casa, in una stradina dove pure la chiesa è deserta, chiusa, accecata da un sole che qui già scalda come in piena estate.  "Gli orfanelli" si chiamavano in una chat su whatsapp, tutti con una mamma e un papà che li aspettavano a casa mentre loro si scrivevano in dialetto: "Come lo hanno combinato il pazzo", "Ragà, chi ha preso le trecento euro le tiri fuori". Aggressioni, rapine, danneggiamenti, botte che Stano subiva, secondo tanti a Manduria, addirittura da anni. Educatore oratorio: "Ho chiamato le forze dell'ordine, i genitori, ma senza risultati" "Personalmente - ha scritto sulla sua bacheca ha scritto su Facebook un educatore del vicino oratorio dopo la morte del 66enne - ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell'ordine e chiamando i genitori, ma senza risultati. Ora provo dispiacere per l'uomo, ma anche per i ragazzi che, ahimè hanno perso l'occasione di vivere serenamente la propria età come tanti altri. Mi piacerebbe che da queste occasioni i centri come l'oratorio, le strutture di aggregazione sociale, potessero avere una rivalutazione da parte delle famiglie che devono sentirsi scomodate nel bene e per il bene dei propri figli". Domani i funerali Una veglia stasera alle 20.15 nella parrocchia Don Bosco a Manduria ricorderà Antonio Cosimo Stano, il 66enne vittima della baby gang e morto il 23 aprile scorso dopo un ricovero durato tre settimane. Lo ha annunciato don Dario al termine della messa, aggiungendo che i funerali si terranno domani alle 10 nella chiesa del Rosario, a Manduria.

Picchiato dai bulli, don Dario: “Siamo tutti coinvolti”. Silvia Mancinelli 27 aprile 2019 Adnkronos. “Giovani, anziani: siamo tutti coinvolti. Siamo senza Dio, e quando la luce di Dio non abita più dentro di noi ci trasformiamo, il male lo facciamo diventare bene. Ci sentiamo forti e invece siamo nulla. Siamo niente. Non sappiamo nemmeno rispettarci. Nemmeno ci sentiamo fratelli”. Sono parole durissime quelle con le quali don Dario De Stefano rompe il silenzio che per tutto il giorno lo ha protetto dal commentare le aggressioni subite da Antonio Cosimo Stano dalla baby gang. Lo fa durante la messa delle 19 nella parrocchia don Bosco, proprio davanti alla casa del 66enne morto il 23 aprile, dopo 18 giorni di ricovero all’ospedale Giannuzzi. Domani ci sarà una veglia alle 20.15 nella parrocchia Don Bosco a Manduria per ricordarlo, mentre i funerali si terranno lunedì alle 10 nella chiesa del Rosario, sempre a Manduria. La vittima di minacce, lesioni e percosse violente era un parrocchiano di don Dario, un uomo conosciuto in paese. Lo conosceva bene il giovane parroco, tra i firmatari dell’esposto, presentato nel commissariato di Manduria dai vicini di casa di Stano contro i raid dei bulli. ”Ogni giorno i fatti di cronaca ci dicono che abbiamo bisogno dell’amore di Dio per aiutarci, per sentirci fratelli. Come Tommaso – continua dal pulpito don Dario – che riconosce di appartenere a Gesù, parte essenziale di sè, senza la quale non può vivere. Che possiamo fare anche noi tutti la sua stessa esperienza, il percorso di fede, anche quando la fede è faticosa”.

GLI ESPOSTI DEI VICINI DI CASA – I vicini avevano segnalato (), si erano rivolti alle forze dell’ordine per denunciare i soprusi, subiti troppo spesso da Antonio Cosimo Stano. La prova è in un esposto presentato quando i poliziotti già indagavano al commissariato di Manduria e firmato da 7 residenti di via San Gregorio Magno, la stessa strada dove viveva il 66enne, e da don Dario. “Da alcune settimane, durante le ore serali e le prime ore del mattino – si legge in una prima denuncia – si stanno verificando diversi episodi di atti illeciti commessi da ignoti (circa 5/6 persone) a danno del signor Antonio Cosimo Stano”. “Nello specifico – si legge ancora – segnaliamo continui e reiterati danneggiamenti che tali ignoti stanno perpetrando a danno dell’abitazione (…) con lancio di pietre e oggetti vari al prospetto dell’abitazione e dando calci e colpi diretti alla porta d’ingresso e agli infissi della medesima casa”. Secondo quanto denunciato dai residenti, la vittima aveva confessato loro quanto stava subendo: “Il signor Stano, da quanto ci ha riferito, ha subito altresì vessazioni, soprusi e lesioni anche fisiche da parte di questi soggetti, i quali in una occasione sono anche riusciti a introdursi in casa. Tale condotta illecita, lesiva della sicurezza e della quiete pubblica, cagiona, inoltre, stati d’ansia, malessere e agitazione soprattutto nei minori residenti nel vicinato”.

URLA IN PIENA NOTTE – “In piena notte sentivamo urlare. Erano grida strazianti, terribili. La sera tardi e in piena notte. Mia moglie e con lei altri 7 residenti di via San Gregorio Magno e don Dario, ha così presentato l’esposto, per paura soprattutto, ma anche per tutelare quel povero Cristo”. A raccontarlo all’Adnkronos è Cosimo, che abita due cancelli più avanti rispetto all’abitazione di Stano, al civico 8. “Non tutti hanno voluto firmare, ma noi non ce la siamo sentita di restare inermi”.

IN CASA I SEGNI DEL RAID – A Manduria di Antonio Cosimo Stano resta il silenzio che lo ha accompagnato negli ultimi anni di vita. Il traffico in via San Gregorio Magno, che imperturbabile scorre davanti alla sua casa, non sa nulla di lui. Impressi sul legno del suo portone, dietro il quale sognava di arrendersi per non soffrire più, i segni dei pugni e delle bastonate che il branco sferrava perchè gli venisse aperto. Assetati di violenza, i ragazzini si accanivano con forza contro quella casetta bassa proprio davanti al complesso parrocchiale di San Giovanni Bosco che oggi è un cantiere aperto. Sotto la statua del santo, appena coperta dalle lamiere che cingono l’area dei lavori e a dieci passi dalla casa dove la baby gang veniva vista e sentita più volte in azione, un messaggio che oggi lascia l’amaro in bocca: ‘Don Bosco, un prete che amava e credeva nei giovani’. Quei giovani che oggi, all’uscita di scuola – proprio davanti al l’abitazione degli unici due parenti della vittima – negano di conoscere i bulli. “Abbiamo sentito, ma non conosciamo chi ha picchiato quell’uomo. Una brava persona Antonio – dicono a Manduria – indifesa e sola” e abbandonata.

Pestato da baby gang, vescovo: "Segnalammo a genitori ma...". Silvia Mancinelli 27 aprile 2019 Adnkronos. "Segnalammo ad alcuni genitori quanto accadeva, la situazione si conosceva. Non avemmo risposte". Così all'Adnkronos il vescovo di Oria Vincenzo Pisanello in merito alle aggressioni subite da Antonio Cosimo Stano a opera di un gruppo di ragazzini di Manduria. "Anche il parroco, don Dario, era intervenuto più volte sebbene negli ultimi tempi, con l'oratorio in ristrutturazione, non abitasse più lì. C'è un problema di emergenza educativa e la responsabilità è di tutti".

Tragedia del disabile bullizzato, si muove la chiesa con una veglia di preghiera. L’evento a cui è stato dato il titolo «Beati i miti, erediteranno la terra», avrà inizio alle 20,15 nella chiesa parrocchiale San Giovanni Bosco in via San Gregorio Magno. La Voce di Manduria domenica 28 aprile 2019. La morte del pensionato solo, Antonio Cosimo Stano, sta smuovendo le coscienze di tutti i manduriani. Dopo l’annunciata marcia per la civiltà programmata per il 4 maggio dalla società civile (associazioni di categoria, movimenti e partiti), a muoversi ora è la comunità religiosa che per questa sera, domenica 28 aprile, su invito di don Dario De Stefano, parroco della chiesa San Giovanni Bosco situata di fronte casa del disabile vittima di bullismo, ha chiamato a raccolta tutte le parrocchie della città in una veglia di preghiera «per il rispetto della vita». L’evento a cui è stato dato il titolo «Beati i miti, erediteranno la terra», avrà inizio alle 20,15 nella chiesa parrocchiale San Giovanni Bosco in via San Gregorio Magno. E’ di ieri, invece, l’intervento sull’argomento del vescovo della diocesi di Oria, Vincenzo Pisanello, pubblicato sulla pagina Facebook diocesana. Ecco il testo integrale. «In merito ai recenti fatti di cronaca verificatisi a Manduria, comune della Diocesi di Oria, riguardanti la morte del 66enne Antonio Cosimo Stano e il presunto coinvolgimento di alcuni minorenni che lo avrebbero reso vittima di reiterate angherie, il vescovo di Oria mons. Vincenzo Pisanello afferma che è in atto una vera e propria emergenza educativa - già manifestatasi in diverse occasioni sul nostro territorio e altrove - causata da vari fattori. Anzitutto si rileva come ad adolescenti e giovani non si riesca più a far cogliere pienamente alcuni elementi fondanti della convivenza civile quali la giusta considerazione della vita umana e il rispetto reciproco con particolare riguardo a quanti vivono in condizioni di temporanea o permanente debolezza. A ciò si aggiunga la frequente mancanza di una sinergia pedagogica che deve realizzarsi tra le principali agenzie educative: famiglia, scuola, parrocchia. Emerge quindi il bisogno di guidare i giovani lungo la riscoperta dei propri doveri, dei quali spesso non si ha consapevolezza pari a quella che si ha dei propri diritti. Il vescovo Pisanello, esprimendo ferma riprovazione per quanto accaduto, confida che gli organi preposti sapranno dar luogo ai necessari provvedimenti atti a riabilitare e rieducare i giovanissimi presunti autori dei fatti - qualora giudicati responsabili - e che l'intera società civile possa curare con maggiore riguardo i cittadini bisognosi di particolari attenzioni per evitare che accada ancora quanto successo ad Antonio Cosimo e a diverse altre persone, spesso purtroppo "invisibili" nella nostra quotidianità».

Bullizzato da baby gang, "segnalazioni da un anno, nessuno è intervenuto". Silvia Mancinelli 27 aprile 2019 Adnkronos. "Abito qui da un anno e da un anno sentivo le urla, le finestre in frantumi, le botte sul portone, le risate sguaiate". Sara abita pochi metri più avanti rispetto a dove abitava Antonio Cosimo Stano, il 66enne bullizzato dai 14 ragazzini oggi indagati e morto in ospedale dopo 18 giorni di agonia il 23 aprile scorso. "Ho chiamato la polizia, i carabinieri. ‘Signora, abbiamo già segnalazioni di questo tipo’, mi rispondevano - racconta Sara - E nessuno faceva niente e nessuno salvava Antonio. La morte si poteva evitare, certo. Oggi si parla di legittima difesa, e a ragione devo ammettere: se quel pover’uomo avesse avuto una pistola e avesse sparato, forse giustizia sarebbe stata fatta. Questi ragazzini meritano l’ergastolo”. Scuote la testa e se la tiene con una mano, come a sorreggere un peso troppo grande. “Sono due giorni che non ci dormo. Io sto male - dice ancora all’Adnkronos - Antonio era una bravissima persona, certo ogni paese ha il suo soggetto più debole, diciamo, ma dallo scherno all’ironia passare alla violenza più inaudita è inaccettabile. Ho provato anche io a intervenire, mi sono affacciata ma quelli scappavano ogni volta. Alla fine avevo paura, io sono solo una ragazza. Quelli invece? Bestie, arancia meccanica, hanno detto. Così è”.

Il pensionato picchiato a morte a Manduria avvisò la polizia un mese prima: "Sono vittima dei bulli".  Il 14 marzo 2019 Antonio Stano fu raggiunto a casa dall'equipaggio di una pattuglia di polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. Un mese dopo il 66enne è morto. La Repubblica il 5 maggio 2019.  Il 14 marzo 2019 Antonio Stano, il pensionato di 66 anni morto il 23 aprile scorso e vittima delle torture di una banda di bulli a Manduria, fu raggiunto a casa dall'equipaggio di una pattuglia di polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. E' quanto emerge dagli atti dell'indagine. "Alle ore 22.43 circa - è riportato negli atti - personale dipendente (del commissariato di polizia di Manduria, ndr), nell'ambito della consueta attività di prevenzione e controllo del territorio, su disposizione della  sala operativa, si portava in questa via San Gregorio Magno numero 8", dove viveva il 66enne e dove i bulli passavano il tempo a pestarlo. "Gli operanti sul posto - continua la relazione inviata alle Procure ordinaria e minorile - venivano avvicinati da Antonio Cosimo Stano, un uomo anziano che vive da solo, il quale riferiva loro di essere, già da diversi giorni, costantemente oggetto di vessazioni, angherie, percosse ed aggressioni ad opera di alcuni giovani ignoti". Per i pestaggi e le torture subite da Stano sono in carcere sei minorenni e due maggiorenni. Il successivo documento che parla delle aggressioni è del 5 aprile, giorno in cui viene presentata la denuncia scritta firmata da sette residenti nella via in cui viveva Stano e dal parroco della chiesa San Giovanni Bosco, don Dario De Stefano.

Anziano torturato dai bulli, la prima denuncia a metà marzo: «Aiutatemi, mi perseguitano». Nazareno Dinoi il 5 maggio 2019 su Il Quotidiano di Puglia. Dalle carte dell'inchiesta sulla baby gang di Manduria, quattordici ragazzi quelli individuati, otto dei quali in carcere, solo due maggiorenni e tutti accusati di aver torturato il pensionato manduriano Antonio Cosimo Stano, spunta un documento che sposta indietro di 21 giorni la data in cui il disabile psichico, morto per cause ancora da accertare, denunciò per la prima volta ad un organo di polizia le violenze subite. L'atto che lo prova è contenuto in uno dei numerosi fascicoli che compongono l'inchiesta delle due procure tarantine, quella ordinaria e la minorile che da un mese lavorano sinergicamente per individuare i responsabili di questa bruttissima storia.  Si risale al 14 marzo 2019. «Alle ore 22.43 circa si legge agli atti personale dipendente (del commissariato di polizia di Manduria, ndr), nell'ambito della consueta attività di prevenzione e controllo del territorio, su disposizione della locale sala operativa si portava in questa via San Gregorio Magno numero 8». L'indirizzo è proprio quello dove abitava il 66enne morto e dove periodicamente, in più occasioni e chissà da quanto tempo, i bulli del quartiere si divertivano ad insidiarlo, oltraggiarlo e picchiarlo filmando le «bravate» che facevano orgogliosamente girare sulle chat private. «Gli operanti sul posto continua la relazione che l'organo di polizia ha trasmesso alle due procure joniche -, venivano avvicinati da Antonio Cosimo Stano, un uomo anziano che vive da solo, il quale riferiva loro di essere, già da diversi giorni, costantemente oggetto di vessazioni, angherie, percosse ed aggressioni ad opera di alcuni giovani ignoti». Cosa sia accaduto in seguito, non è dato sapere. Per trovare il successivo documento che parla della vicenda bisogna andare al 5 aprile, data in cui è stata presentata la denuncia scritta firmata da sette residenti di quella via e del parroco della chiesa San Giovanni Bosco, don Dario De Stefano.   A presentarla personalmente, recandosi da sola in commissariato, è stata una donna che abita vicino al domicilio della vittima. «Dopo tante telefonate di aiuto finite senza esito afferma la signora avevo capito che bisognava andare di persona e sollecitare così un intervento risolutivo». Il racconto della donna, dettagliatissimo e lucido, lo raccoglie il vice ispettore di polizia, Paolo Piccione che con l'ispettore Giuseppe Screto consigliano alla signora di formalizzare tutto con una denuncia ufficiale che avrebbe consentito l'avvio di indagini mirate. E finalmente la caccia dei bulli ha inizio. Quel giorno stesso una pattuglia con il vice ispettore Piccione si recò a casa di Stano che si era asserragliato in casa e si rifiutava di aprire. Dopo tante insistenze il portoncino marrone danneggiato dai calci e dalle sprangate dei numerosi raid del branco, si aprì permettendo agli agenti di prendere visione della situazione drammatica in cui si trovava quell'uomo. La storia successiva è tristemente nota. Il giorno dopo il disabile sarà ricoverato in rianimazione da dove uscirà senza vita 18 giorni dopo. La causa di morte la dirà l'esame autoptico eseguito dal medico legale barese, Liliana Innamorato che ha chiesto sessanta giorni di tempo per depositare la perizia. «Devo ringraziare il vice ispettore Piccione perché ha preso subito a cuore la questione capendo il mio stato d'animo e il pericolo che correva il povero Antonio», afferma la signora che con il marito e gli altri abitanti di quella via non ne potevano più di sentire quelle urla agghiaccianti che chiedevano aiuto. «Era passata abbondantemente la mezzanotte quando fui svegliata da un rumore più forte del solito e da urla», ricorda la signora. «La nostra stanza da letto si trova nella parte più lontana rispetto alla strada per cui non riuscivo a comprendere il senso delle parole, sentivo solo urlare ed ho riconosciuto la voce di Antonio; quando mi sono affacciata dalla finestra non ho visto nessuno ed ho chiamato per l'ennesima volta la polizia». Che a volte non andava o arrivava quando tutto era finito. Come in quel 14 marzo le cui tracce, questa volta, sono rimaste agli atti.

Manduria, una mamma: «Come potevo sapere cosa c’era nelle chat?» Pubblicato sabato, 27 aprile 2019 da Giusy Fasano su Corriere.it. Se il dispiacere ha un volto è quello di questa donna che parla sull’uscio di una porta guardandosi attorno. Che non arrivino quelli con le telecamere, per carità. È già fin troppo umiliante sapere in famiglia che il proprio figlio è finito in questa storia nera, la storia che l’Italia intera ha sulla bocca da giorni, ormai. Il «vecchio pazzo» bullizzato, deriso, offeso, umiliato da ragazzini che hanno deciso di passare il tempo a divertirsi tormentandolo. Ecco. Il figlio di questa donna, studente, classe 2002, è finito fra i 14 sotto accusa per tutti i soprusi subiti dal quel pover’uomo solo e dalla mente malata, Antonio Stano, 66 anni. Lui, il ragazzo, giura e giura che ha soltanto ricevuto il video su quella maledetta chat degli «orfanelli». Nient’altro. Ma basta l’accostamento, basta un legame anche lontano con il gruppo.... «È un colpo duro» ammette lei con la testa bassa e gli occhi lucidi. «Mi domando come farò a superare tutto questo» dice. Le parole escono dopo lunghe riflessioni, come se le stesse cercando nella parte più nascosta di sé. «Uno si chiede: come hai fatto a non accorgerti? E però quando poi ti ritrovi in mezzo a una cosa così grossa ti interroghi fino in fondo e allora io dico: voglio credergli e sono sicura che mio figlio non abbia fatto niente di più di quello che ammette di aver fatto. Che è già molto grave, sia chiaro. Chi lo può negare? Ma la domanda che mi tormenta in questi giorni è: come avrei potuto accorgermi di una cosa così? Come fai tu, madre, ad accorgerti di cosa fa nel dettaglio tuo figlio quando esce con gli amici: come fai a sapere se si scambia un video o se chatta o cosa si dice, cosa c’è in quel video...». Nell’impossibilità di quel controllo di cui sta parlando c’è un po’ di autoassoluzione e un po’ di consolazione. «Si vede quando un ragazzo fa le cose balorde», continua lei. «Ti puoi accorgere se ha in tasca più soldi del solito, se si comporta in modo strano perché magari ha a che fare con la droga, puoi capire quando non sta bene anche se non te lo dice. Ma un video in una chat... Come fai ad accorgerti che cosa sta succedendo dentro quel cavolo di telefonino?». Non avrà nemmeno 50 anni, questa mamma bruna e minuta. Ma le notti senza sonno segnano il viso, invecchiano. «Quello dei genitori è un mestiere davvero difficile» segue il filo dei suoi pensieri. Con suo figlio è arrabbiata, certo. È delusa. I cellulari sono la droga della nuova era, è vero. Ed è difficilissimo avere a che fare con quella materia così sfuggente che si chiama adolescenza: lo sanno tutti. Ma la verità che questa donna dice a sé stessa riguarda il suo ruolo di madre e di educatrice. Ed è amara: «È evidente — il pianto vince gli occhi lucidi — che io non sono stata capace di fargli capire che cos’è il bene e che cos’è il male». Altro sospiro: «Se uno me lo racconta daccapo tutto quello che è successo, io ancora non ci credo».

I Manduriani ed i loro giornalisti provano sulla loro pelle cosa sia la gogna della vergogna.

«Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti». Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: «Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.» A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.

Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela, che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.

Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.

Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto e direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi e non me ne spiego l'astio. Gli amministratori locali e la loro opposizione, poi, non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.

«La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più - scriveva già il 29 luglio 2015 il nostro Dinoi - Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.»

Antonio è stato ucciso dall’indifferenza e dall’omertà. Leonardo Giuffrida il 28 aprile 2019 su Leonardo. Antonio Stano, il pensionato morto a Manduria, nella provincia di Taranto, dopo aver subito vessazioni di ogni tipo, è stato ucciso dall’indifferenza e dall’omertà. Da un paese che probabilmente era a conoscenza dei soprusi (o quanto meno ne aveva il sentore), che lo etichettava come “il pazzo”. Impossibile non sapere che dei ragazzini trascorrevano il loro tempo mettendo in opera delle vere e proprie torture con tanto di minacce, umiliazioni, violenza fisica e scherno nei confronti di un uomo con diversi problemi di salute. Probabilmente Antonio non è morto a causa della stupidità dei 14 bulli. Forse il pensionato di 66 anni è deceduto per altri motivi (che presto verranno chiariti). Ma ad aggravare la sua situazione, già precaria, ci hanno pensato un gruppetto di ragazzi “protetti” dal silenzio e dall’indifferenza di chi avrebbe dovuto denunciare. Chi avrebbe dovuto raccontare tutto alle forze dell’ordine. E, invece, hanno atteso che Antonio non uscisse più di casa per segnalare la situazione alle autorità competenti. Hanno aspettato che Antonio si barricasse in casa poiché terrorizzato da quei ragazzi, ora indagati per omicidio preterintenzionale, stalking e rapina. “Stasera andiamo dal pazzo”, dicevano. Poi riprendevano quelle torture. Tutti sapevano, nessuno parlava mentre Antonio, giorno dopo giorno, moriva dentro. “Ci annoiavamo”, per questo lo picchiavano, senza alcun motivo. Un fallimento per le famiglie dei giovani indagati, come ha spiegato la mamma di uno degli indagati a Repubblica. Da giorni mi è crollato tutto addosso. Di una cosa sono certa: io non sono la mamma di un mostro. Come genitori abbiamo fallito. Non siamo riusciti a indicare la linea di confine tra il bene e il male [...] Cominciamo a domandarci che fanno i ragazzi in un centro come questo. Non c’è niente, stanno in giro, davanti ai bar, ha chiuso anche il campo dell’oratorio perché ci sono i lavori. Passano male il loro tempo, ho letto che qualcuno ha parlato di noia ma secondo ma la questione è diversa: nessuno si occupa di loro. Forse nemmeno noi, non lo so, io ho pensato sempre di essere una brava mamma, che mio figlio era straordinario. Ha sbagliato, doveva fare qualcosa che non ha fatto. Arrabbiarsi, dire agli amici di smetterla. Non è stato forte abbastanza. Ma anche noi genitori non abbiamo fatto quello che dovevamo. Mi dispiace, che disastro.

Pensionato morto a Manduria: forse fatale un'ulcera gastrica perforante. Open.online il 28/04/2019. A comunicarlo, in via ufficiosa, è stato l’avvocato di uno dei 12 minorenni appartenenti al branco che avrebbe perseguitato e seviziato il pensionato 66enne. Antonio Stano, il pensionato 66enne morto dopo 18 giorni di ospedale, sarebbe deceduto a causa di un’ulcera gastrica perforante. A rivelarlo è Dario Blandamura, avvocato di uno dei 12 minorenni appartenenti al branco di 14 giovani che ha perseguitato, seviziato, insultato ripetutamente il pensionato affetto da problemi psichici a Manduria, in provincia di Taranto.

La morte di Stano potrebbe essere stata causata da un'ulcera peptica. Sul corpo di Stano, secondo indiscrezioni dei risultati dell'autopsia (che dovranno essere depositati ufficialmente entro 60 giorni presso la Procura), non sarebbero presenti segni di lesioni esterne. Sarebbero invece presenti segni di ulcera peptica perforante, una complicazione di una lesione gastrica non trattata, una condizione patologica che potrebbe essere stata alimentata dall’eccessivo stress psicologico a cui sarebbe stato sottoposto l’uomo durante gli anni delle persecuzioni e delle vessazioni da parte dei giovani di Manduria. 

Le accuse nei confronti del branco. «Sono diversi i ragazzi che da anni lo avevano preso di mira» conferma infatti la procuratrice della Repubblica del Tribunale dei Minori Pina Montanaro. Per i giovani si ipotizzano i reati di omicidio preterintenzionale, stalking, lesioni personali, rapina, violazione di domicilio e danneggiamento. «Credo che occorrerà rimodulare il quadro complessivo - spiega l’avvocato a La Gazzetta del Mezzogiorno - perché la causa della morte pare sia un’ulcera gastrica perforante». Le indagini, tuttavia, proseguono ugualmente per approfondire e chiarire quali siano le responsabilità dei 14 giovani nei confronti di Antonio Stano, analizzando i video scambiati su WhatsApp, messaggi di derisione in chat e interrogando amici e conoscenti del gruppo. 

La “Marcia per la civiltà” a Manduria. Gli abitanti della città di Manduria, intanto, sono finiti tutti al centro delle polemiche nazionali per il muro di omertà, la cui rottura avrebbe forse salvato il 66enne dalle sevizie dei giovani. I vicini di casa dell’uomo, però, non ci stanno e ribadiscono di aver presentato denuncia presso le autorità più volte, l’ultima in data 3 aprile, segnalando che l’uomo fosse costantemente bersaglio di vessazioni, insulti e attacchi nella sua casa. Nel frattempo, la Pro Loco di Manduria, ha organizzato per sabato 4 maggio una “Marcia per la civiltà” in ricordo dell’uomo e per sensibilizzare i cittadini sul tema della discriminazione, specialmente i ragazzi delle scuole. 

Il vessato di Manduria. Paolo Fileni 29 aprile 2019 Corrieredelconero.it. La vicenda ormai la conoscono tutti. Antonio Cosimo Stano è il pensionato 66enne di Manduria (TA) trovato dalla polizia il 6 aprile con lo stomaco perforato e una vasta emorragia intestinale. Morto in ospedale dopo giorni e giorni di agonia. Ad ucciderlo una baby gang di 14 giovani, in larga parte minorenni, che lo avevano preso di mira da mesi vessandolo e seviziandolo in ogni modo nell’indifferenza  assoluta della gente del posto, che pure sapeva. Le prove per inchiodare i 14 deficienti ci sono tutte: talmente stupidi da filmare le loro inaudite violenze con i telefonini per poi scambiarsi i video. E, nonostante ciò, gli abitanti del posto e gli stessi genitori continuano ad osservare il massimo riserbo senza intervenire. Omertà totale, o quasi. C’è chi qualcosa l’ha detta, come una maestra della scuola elementare di Manduria dove ha studiato più di qualcuno tra i 14 indagati per la morte di Stano. «Questi ragazzini vivono in un contesto d’impunità fin da piccoli – ha detto l’insegnante – con genitori pronti a difenderli sempre e comunque, pur davanti ad evidenze vergognose. Accusare una comunità è azzardato – ha continuato – piuttosto concentriamoci su questi ragazzini sempre più sfrontati. E su quei genitori che si sentono in diritto di inveirti contro perché hai osato rimproverare l’alunno». Duro anche lo sfogo del dott. Saladino, Prefetto di Taranto, che ha denunciato l’omertà della gente: «Un silenzio assurdo ha avvolto e cullato la brutalità delle aggressioni subite nel tempo da Antonio Cosimo Stano – ha dichiarato – Se i bulli invece che con quel pover’uomo se la fossero presa con un cane, ci sarebbe stata la rivolta popolare. Nessuno ha mai fatto segnalazioni ai servizi sociali. Stano è stato chiuso e isolato in una casa, in una strada, in una comunità. Un essere umano che abitava davanti a una parrocchia lasciato solo. Neanche il prete ha segnalato». Neanche il prete… Non so voi, ma io mi vergogno di quel prete, di quella comunità, di quei 14 figli e dei loro genitori. Mi vergogno d’appartenere alla stessa razza umana capace di simili atrocità. Mi vergogno di quel silenzio complice, di quella mentalità, di quella mancanza d’educazione e di valori. La grido forte la mia vergogna, nella speranza di non essere l’unico a gridare. E ringrazio mio padre per gli sberloni e i calci nel sedere che mi ha propinato quand’ero ragazzino. È grazie a quelle sberle se oggi sono in grado di vergognarmi.

Pestato da bulli, la maestra: "Impuniti fin da piccoli". Silvia Mancinelli 28/04/2019 su AdnKronos. "Per carità la noia. Se ci fossero un cinema e un teatro a Manduria non esisterebbero le baby gang? Qui il problema è uno, ma costa ammetterlo: questi ragazzini vivono in un contesto di impunità fin da piccoli grazie a genitori pronti a difenderli sempre e comunque, pur davanti a evidenze vergognose". A parlare all’AdnKronos è Pamela Massari, maestra nella scuola elementare di Manduria dove più di qualcuno tra i 14 indagati per la morte di Antonio Cosimo Stanoha studiato. "Accusare una comunità è azzardato - continua l’insegnante - piuttosto concentriamoci su questi ragazzini sempre più sfrontati. Potrei elencare decine di episodi di cui sono stata protagonista io, ma anche tanti miei colleghi, atteggiamenti genitoriali che hanno mortificato e tarpato la mia attitudine professionale. Mamme e papà che si sentono in diritto di inveirti contro perché hai osato rimproverare l’alunno. Le storie che ogni tanto si sentono sono vere: e passare dalla passione per l’insegnamento al lassismo da parte dell’istituzione scolastica per una sensazione di impotenza è purtroppo tutt’altro che difficile". "Mai ci è arrivata, né formalmente né informalmente, fosse almeno in maniera anonima, alcuna segnalazione su Antonio Cosimo Stano. Sarebbe bastata una chiamata e un assistente avrebbe preso in carico la cosa, coinvolgendo il servizio di igiene mentale" ha poi detto all'AdnKronos Raffaele Salamino, responsabile dei servizi sociali del comune di Manduria. "E' devastante sapere oggi che il disagio dell'uomo andava avanti addirittura da anni, tra soprusi e aggressioni. E' assurdo che mai sia stata fatta una segnalazione al Comune - prosegue Salamino - ci siamo occupati di situazioni ben più irrilevanti e non serviva certo una lettera protocollata per informarci di quanto stava accadendo così che potessimo intervenire in tempo. Noi ci lavoriamo spesso con l'anonimato, tante le segnalazioni di cittadini su ragazzini bullizzati a scuola, ma su Stano, ripeto, non è mai arrivato nulla". "Manduria è un comune di 30 mila abitanti, di certo gli assistenti sociali non citofonano casa per casa - incalza il responsabile dei servizi sociali - ma siamo a disposizione su chiamata. Non siamo un esercito, abbiamo 2 assistenti di ruolo e 3 invece a tempo determinato, tra l'altro assunti da qualche mese, ma ci siamo. Oggi provo angoscia, quell'uomo si poteva salvare".

IL PREFETTO - "Se i bulli invece che con quel pover’uomo se la fossero presa con un cane, ci sarebbe stata la rivolta popolare. E invece tutti zitti, in un silenzio assordante che oggi mi lascia amareggiato. Quanto subiva Stano è stato chiuso e isolato in una casa, in una strada, in una comunità: un essere umano che abitava davanti a una parrocchia lasciato solo. Il prete ha detto di essere intervenuto più volte, ma perché non ha segnalato subito ai servizi sociali?". E' lo sfogo, forte e appassionato, del prefetto Vittorio Saladino, uno dei tre commissari prefettizi di Manduria che, all’AdnKronos, parla di un "silenzio assurdo" che ha avvolto e cullato la brutalità delle aggressioni subite nel tempo. "Stano era sconosciuto ai servizi sociali perché nessuno, per quanto ne dicano oggi, ha mai fatto segnalazioni - aggiunge - La cosa strana è che il soggetto era preso di mira da tanto tempo e nonostante questo anche il responsabile dei servizi sociali ne era all’oscuro. Manduria tra l’altro è capofila nell’efficienza dei servizi sociali, è un paese ricco tra i primi posti di quelli con cittadini risparmiatori, preso di mira da turisti inglesi e tedeschi". Nessuna giustificazione, dunque, e l’annuncio: "Alla manifestazione di sabato 4 maggio per la legalità - ha detto Saladino - parteciperemo con il gonfalone come Commissione straordinaria. Le colpe le ha una comunità distratta, chiusa, coi giovani bombardati dai media e da episodi negativi. Come si fa a rendere oggetto di gioco un uomo, un soggetto indifeso?".

Anziano massacrato a Manduria: «Cieca violenza». Mamma in lacrime: «Dove ho sbagliato?». Paolo Sturaro, Lunedì 29 aprile, su Secolo d'Italia. «Chiederemo pene esemplari. Siamo di fronte a una violenza senza limiti». Lo ha detto al Tg1 il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo in merito alle aggressioni subite da Antonio Cosimo Stano da ragazzini tra i 16 e i 23 anni, tutti di Manduria. «L’intervento è stato tempestivo ma sarebbe stato ancora più tempestivo se chi sapeva avesse avvisato prima le forze dell’ordine – ha aggiunto – Saremmo intervenuti in tempo e oggi Stano sarebbe ancora vivo».

Anziano massacrato a Manduria, c’è un nuovo video. In un nuovo video sequestrato dagli inquirenti sono almeno 7 i  bulli a infierire con un bastone contro il pensionato. «Le chiamano bonariamente bravate – ha continuato il procuratore – ma sono bravate criminali». Nella veglia per Stano, nella parrocchia di don Bosco, le parole di don Dario De Stefano: «Quando siamo davanti a un soggetto fragile bisogna andare oltre per scoprire in lui la presenza misteriosa. Piuttosto che prenderci gioco, additare chi ha una disabilità psicologica o semplicemente una fragilità, bisogna vedere in lui il volto di Cristo. Amarlo, perché se ameremo chi è fragile faremo l’esperienza dell’incontro con Dio. In questo è importante l’educazione che diamo ai nostri ragazzi, aiutiamoli a capire, facciamogli fare volontariato, lasciamo che stiano nei luoghi sofferenza perché è anche così che si capisce di più il senso della vita». Il prete si è rivolto ai genitori di Manduria: «E una cultura, questa, che sta spersonalizzando i ragazzi, un mondo in cui sperimentano il vuoto che si trasforma  in noia, una noia che in qualche modo deve essere riempita».

Il dolore di una mamma: «Mi sento responsabile». «Mi sento responsabile io dell’assenza di umanità dimostrata da mio figlio, anche solo per aver condiviso un video girato da altri. In casa viviamo male, non dormiamo. Perché? mi chiedo, dove ho sbagliato?». A parlare all’AdnKronos è stata la mamma di uno dei ragazzini il cui nome compare nell’inchiesta. Un adolescente che, finito nel frullatore di investigatori e inquirenti, si è chiuso in camera e non esce. Ha compiuto 17 anni da poco, il ponte e le feste lo hanno graziato almeno dal rimettere piede a scuola perché, come assicurano i genitori, non avrebbe sopportato lo sguardo dei compagni, delle professoresse, la ripresa della vita normale come nulla fosse.

«Siamo sempre stati presenti, nonostante il nostro lavoro». «Non abbiamo mai fatto passare liscia a nostro figlio una marachella, una mancanza di rispetto, una parolaccia in casa – ha raccontato la madre, stavolta in lacrime -. È stato sempre un ragazzino timido, all’apparenza ancora più piccolo della sua età al punto da non aver avuto ancora una fidanzatina. Lavoriamo entrambi, io e il padre, ma cerchiamo di essere presenti, attenti, scrupolosi nel controllarlo. Quando ho saputo di quei video passati per il cellulare che noi gli abbiamo comprato – ha aggiunto la donna – all’inizio ho provato una gran rabbia; poi mi sono fermata e mi è venuto il panico. Perché mio figlio si è divertito anche solo a vedere quelle scene raccapriccianti? Perché ha sentito il bisogno di condividerlo con altri? Abbiamo sbagliato? Avremmo potuto fare meglio? Questi pensieri mi tolgono il sonno».

Valeria D' Autilia per “la Stampa” il 28 aprile 2019. Vittima di violenze per anni, nell'indifferenza di molti. Bulli di ieri e di oggi, complice il passaparola di potersi accanire contro quello che chiamavano «il pazzo». L' inchiesta sulla morte del pensionato di Manduria, oggetto di aggressioni e insulti da parte di quattordici ragazzi, ora indagati, potrebbe persino allargarsi. Con altre responsabilità, più lontane nel tempo. Per gli inquirenti, il paese della provincia di Taranto sapeva, ma pochi hanno denunciato. Solo all' inizio del mese, l' esposto al commissariato di alcuni vicini di casa che segnalano «diversi episodi di atti illeciti commessi da ignoti, circa 5-6 persone». In effetti, sembra che ad accanirsi contro quest' uomo, solo e con problemi psichici, non fosse un unico branco. Le urla di Antonio Cosimo Stano, le risate dei suoi aguzzini: botte in casa e fuori. Impossibile che nessuno se ne fosse accorto. Tutto documentato nei video fatti girare nelle chat di Whatsapp, come quella denominata "Orfanelli". I poliziotti hanno trovato il sessantaseienne in uno stato di denutrizione, paura e in condizioni igieniche critiche. A quel punto il ricovero in ospedale, dove è morto dopo oltre due settimane. Emoraggia interna: questo dice l' autopsia effettuata nelle ultime ore dal medico legale incaricato dalla procura. Sul corpo sembra non ci fossero lesioni esterne direttamente riconducibili alle sevizie. Un contributo alle indagini da alcune testimonianze, in particolare un' adolescente, estranea ai fatti: ha saputo e ha iniziato a raccontare. Al momento dodici minori e due maggiorenni sono accusati di omicidio preterintenzionale, stalking e lesioni. Lui chiedeva aiuto e il branco si accaniva di più. Un assurdo e crudele passatempo. «Era un gioco. Gridava e noi lo prendevamo in giro» dice uno dei giovani coinvolti. La madre, dopo l' avviso di garanzia, cerca attenuanti: «Ma lo facevano tutti, da anni». L' avvocato Gaetano Vitale difende uno dei maggiorenni. «Possibile che nessuno si sia accorto di nulla? I servizi sociali? Non si può abbandonare una persona in quelle condizioni». Intanto Pro Loco e Confcommercio hanno promosso per sabato prossimo una "marcia per la civiltà" allargata a scuole, parrocchie e residenti. «Le vicende di cronaca dipingono una città che non riconosciamo e in cui non ci identifichiamo. Manduria vuole essere migliore di ciò che oggi appare». La maggior parte di chi è finito sotto inchiesta frequenta ancora le superiori, alcuni nel vicino comune di Sava, nell' Istituto Del Prete-Falcone. «Noi- dice il dirigente Alessandro Pagano- facciamo informazione su bullismo e cattivo uso delle tecnologie, ma a volte i genitori sono distratti. È necessario che scuola, famiglia e centri di aggregazione viaggino insieme nell' unica direzione possibile: quella della responsabilità. Innanzitutto di noi adulti, altrimenti abbiamo perso». Qualcuno insospettabile, altri provengono da famiglie con precedenti. All' inizio Antonio potrebbe essersi fidato. Mimmo Gori ha lavorato con lui, in arsenale militare, per oltre vent' anni. «Un ragazzino vestito da grande- racconta- buono e ingenuo. Noi colleghi gli volevamo bene. Penso che, dopo la pensione, abbia sofferto molto la solitudine. Non avevamo più sue notizie da tempo. Voglio ricordarlo così: sorridente, con indosso l' inseparabile papillon, entrava nella mensa aziendale come fosse un ristorante stellato».

Giuliano Foschini per Repubblica.it il 28 aprile 2019.  "Da giorni mi è crollato tutto addosso. Di una cosa sono certa: io non sono la mamma di un mostro". Questa signora, bassina, minuta, elegante, per bene, è la mamma di uno dei 14 ragazzi indagati per la morte di Antonio Stano.

Dove avete sbagliato?

"Non lo so. Ma è evidente, visto quello che è accaduto, che come genitori abbiamo fallito. Non siamo riusciti a indicare la linea di confine tra il bene e il male. Però vorrei dire una cosa".

Prego.

"Non sono tutti uguali. In questa storia ci sono ragazzini, come mio figlio, che hanno avuto soltanto la colpa di ricevere alcuni video, orrendi per carità, soltanto per essere in una chat sbagliata".

Sono stati zitti. Hanno riso.

"Non voglio giustificarli, perché non c'è niente da giustificare. Ma io penso che non abbiano capito".

Cosa?

"Che non si bullizza soltanto un ragazzo della loro età. Che mortificare una persona, anche quando è adulta e indifesa, significa anche ucciderla, nell'animo. Non hanno capito quello che stavano facendo. Ma io nemmeno se lo vedo, credo che mio figlio abbia toccato un capello di quel signore".

Non avete capito nemmeno voi quello che stava accadendo.

"Vero. Abbiamo sbagliato. Ma mi chiedo anche: dove? Mio figlio è uno sportivo, non si droga. Non ha mai avuto più soldi in tasca del dovuto, perché non ha mai fatto niente di male. Quali segnali dovevamo avere per capire che c'era qualcosa che non andava?".

Non vi ha mai parlato di Antonio?

"Mai. Né io lo conoscevo. Viviamo in zone diverse".

E il telefonino?

"Chiedo ai genitori di figli dell'età del mio: controllate il telefono? Come si fa a vedere cosa hanno in questo aggeggio dei ragazzini di 16, 17 anni? Noi conoscevamo i suoi amici. Studiano tutti, sono famiglie di persone per bene. Ripeto: niente droga, scuola, io non immaginavo. Non so come ho fatto, ma non immaginavo. C'è anche un altro punto. Posso dire?".

Dica pure.

"Cominciamo a domandarci che fanno i ragazzi in un centro come questo. Non c'è niente, stanno in giro, davanti ai bar, ha chiuso anche il campo dell'oratorio perché ci sono i lavori. Passano male il loro tempo, ho letto che qualcuno ha parlato di noia ma secondo ma la questione è diversa: nessuno si occupa di loro". Fa una pausa. "Forse nemmeno noi, non lo so, io ho pensato sempre di essere una brava mamma, che mio figlio era straordinario. Ha sbagliato, doveva fare qualcosa che non ha fatto. Arrabbiarsi, dire agli amici di smetterla. Non è stato forte abbastanza. Ma anche noi genitori non abbiamo fatto quello che dovevamo. Mi dispiace, che disastro".

Taranto, uomo picchiato e ucciso. La mamma di un bullo: ​"Dove ho sbagliato?"

Una delle mamme dei “bulli” coinvolti nel decesso del 66enne a Manduria dichiara il proprio dramma familiare. Stefano Damiano, Domenica 28/04/2019, su Il Giornale. “Mi chiedo dove ho sbagliato”; sono queste le parole della mamma di uno dei ragazzini coinvolti nella morto di Antonio Cosimo Stano, il 66enne di Manduria vittima di una baby gang. “Mi sento responsabile io dell'assenza di umanità dimostrata da mio figlio anche solo per aver condiviso un video girato da altri. In casa viviamo male, non dormiamo”. I fatti di mercoledì scorso hanno scosso la comunità lasciando un segno, forse indelebile, anche in quelle persone legate a doppio filo con gli autori di quel bullismo portato all’estremo, fino alla morte della vittima. “Io non l'ho mai toccato, ero nella chat, anzi nelle chat. Ma era solo per ridere che facevamo girare quei video, mica lo volevamo morto – ha dichiarato uno dei ragazzi che continua - ho sbagliato, non mi rendevo conto del male che stavamo facendo, non ho avuto la forza di fermarli perché, in fondo, lo facevano tutti”. E in città in tanti sapevano cosa stava succedendo e il dramma di Antonio Stano e i vicini di casa e Don Dario, il parroco della vicina Chiesa di Don Bosco, avevano denunciato alle forze dell'ordine l'orrore vissuto dall'uomo. Sono stati i vicini di casa avevano ad allertare le forze dell'ordine lo scorso 6 aprile. Ora l’adolescente, poco più che 17enne, si è chiuso in casa e ha passato il ponte delle feste nello stesso modo, non dovendo ancora rientrare a scuola riuscendo ad evitare, così, lo sguardo dei suo compagni, dei professori e di tutto quel mondo di normalità della sua vita cancellata con la morte di Stano. “È stato sempre un ragazzino timido - continua la mamma - all'apparenza ancora più piccolo della sua età. Quando ho saputo di quei video passati per il cellulare che noi gli abbiamo comprato all'inizio ho provato una gran rabbia; poi mi sono fermata e mi è venuto il panico. Perché mio figlio si è divertito anche solo a vedere quelle scene raccapriccianti? Perché ha sentito il bisogno di condividerlo con altri? Abbiamo sbagliato? Avremmo potuto fare meglio?”. Nel frattempo un cero e due mazzi di fiori sono stati deposti davanti la casa della vittima e, a pochi metri di distanza dall'abitazione, in via San Gregorio Magno, la veglia nella parrocchia don Bosco.

Il silenzio di Manduria che uccide. Don Aldo Bruno il 29 aprile 2019 su In Terris. "L’abbiamo fatto per passare il tempo”, ha detto agli inquirenti uno dei ragazzi che ha vessato Antonio Stano. Sembra che molti sapessero da sempre quello che accadeva a questo “Gesù” trafitto da una spietatezza inaudita. Si parla di ripetute aggressioni con bastoni, pugni e calci a una persona del tutto indifesa. E’ l’intera società ad essere in pericolo se a 15 anni non si ha il minimo rispetto e nemmeno pietà verso una persona anziana, vulnerabile per problemi psichici, sola e isolata, al punto da infliggergli un calvario di violenze fino a provocarne la morte tra atroci sofferenze. Come si può accettare che 14 ragazzi, di cui 12 minorenni, torturino ripetutamente un anziano diffondendo sui social i tanti filmati delle sevizie e dell’agonia?  A morire con il pensionato di Manduria, Antonio Cosimo Stano, è un intero paradigma di società i cui valori vengono inesorabilmente corrosi dagli odierni modelli (sub)culturali. Nell’ultimo anno 20mila minorenni sono stati colpiti da provvedimenti penali, 16mila in carico ai servizi minorili, 103 assassinii e 11mila reati contro la persona commessi da minori. La baby gang di Manduria è composta da minorenni che sembra non abbiano la benchè minima consapevolezza di quello che hanno fatto: in questo vuoto spaventoso è racchiusa tutta la drammaticità dei fatti. Saranno gli adulti di domani. E loro complici sono tutte quelle persone che hanno finto di ignorare un dramma che non è accaduto in una metropoli ma in un paesotto di circa 30 mila abitanti. Ad uccidere il pensionato non è stata solo una banda di ragazzini ma un intero tessuto sociale che con le proprie omissioni e silenzi ha condannato a morte una delle tante persone con problemi psichici che in Italia sono abbandonate senza tutela né assistenza. Perché nessun servizio sociale si è mai fatto carico di Antonio? Quanti altri come lui sono in balia dell’altrui crudeltà? L’altro giorno all’uscita da un centro commerciale ho visto un gruppetto di preadolescenti strattonarsi reciprocamente, urlandosi addosso, bestemmiando a gran voce, ridendo e inveendo senza alcun senso. Si stavano divertendo, secondo i miei vicini. Guardando i tanti volti dei passanti, completamente indifferenti, mi sono reso conto che in quel momento ero l’unico ad essere sconcertato. Così ho pensato di essere diventato già troppo vecchio o quantomeno di avere una mentalità inadatta a comprendere ciò che la maggioranza di quelle persone riteneva così normale da non badarci. Poi mi sono tornati alla memoria i numerosi sfoghi di tanti insegnanti e il racconto di quello che sono costretti a vedere e subire nelle scuole. Quasi tutti scelgono il silenzio per paura delle reazioni smodate dei ragazzini ma anche di quelle dei loro genitori. Insomma il fatto drammatico appena accaduto a Manduria è la punta insanguinata di un iceberg sconfinato. In provincia di Taranto andava in scena da anni una escalation spaventosa di soprusi e raid punitivi, condotti secondo lo stile “Arancia meccanica” che non poteva non prefigurare l’atroce epilogo. Così il bullismo è diventato crimine efferato e la baby gang si sarebbe trasformata in branco spietato.  Prima di addentarci nelle cause, come insegnavano un tempo i maestri della cronaca nera, serve analizzare i tragici effetti. Il quadro del delitto è sconcertante. Solo due dei 14 giovani indagati per la morte del pensionato hanno precedenti e sono conosciuti dalle Forze dell'ordine. Gli altri sono sempre stati considerati “bravi ragazzi” con un tratto distintivo: le foto e i video delle loro bravate venivano fatti circolare su Whatsapp. Della vittima parlano sempre come del “pazzo”, lo chiamano così come a derubricare l’enormità delle loro colpe e alle forze dell’ordine ripetono che lo facevano per gioco e che non si rendevano conto di quello che gli stavano facendo. Antonio Di Gioia, presidente dell'ordine degli psicologi della Puglia, parla di ragazzi “violenti per noia”. Dalle giustificazioni rese ad avvocati e genitori e pubblicate dalla stampa emergono le caratteristiche del branco che nessuno però ha riconosciuto come tale. Gli indagati esaltavano in chat le vessazioni inflitte al pensionato. Nei social i ragazzi condividevano quelle che per loro erano solo bravate, marachelle. “Il branco aveva riconosciuto in quell'uomo una persona indifesa, lontana da un gruppo sociale che avrebbe potuto fare rete con lui”, osserva di Gioia. Filmavano e condividevano le incursioni nell'abitazione del pensionato, documenti che non li ponevano in condizione di riconoscere la gravità di quanto stessero facendo; anzi, servivano evidentemente a rinforzare l'appagante sensazione di prevaricazione. Sconcertante è la latitanza degli adulti e cioè il silenzio di quella parte di comunità che ben sapeva e che ha taciuto. Una indifferenza che ha impedito a questi ragazzi di ritrovare il senso della realtà. E che dimostra quanto il tessuto sociale, anche quello non metropolitano e meglio gestibile della provincia, sia ormai gravemente ammalato.

Manduria, una baby gang con molti responsabili. Intervista alla psicologa Prof. Annamaria Giannini sulla morte di Antonio Stano. Giuseppe China il 29 aprile 2019 su In Terris. Il Paese è ancora sotto choc per quanto successo a Manduria, dove 14 giovani hanno bullizzato per mesi Antonio Cosimo Stano. Una persecuzione, fatta di minacce e violenze quotidiane, che venivano riprese e poi diffuse dagli stessi ragazzi su Whatsapp. Il 66enne - affetto da problemi psichici e spregiativamente soprannominato "pazzo", dopo un lungo ricovero in ospedale - è deceduto il 23 aprile scorso. In Terris ha sentito il parere, su quanto accaduto a Manduria, della docente di Psicologia dell'Università Sapienza. Che ha analizzato il disagio e le debolezze non solo della baby gang, ma anche del contesto sociale, educativo e sanitario. 

Professoressa Anna Maria Giannini esistono delle differenze tra la violenza di gruppo giovanile e quella adulta?

“Senz’altro esistono delle diversità: nella motivazione e nell’organizzazione della dinamica violenta. Quest’ultima nell’adolescenza molto spesso risente di meccanismi regolatori forti che sono in continua evoluzione. Per esempio: contesto e tipo di educazione ricevuta. Quindi come gli adulti sono riusciti, o meno, a regolare il clima intorno ai ragazzi. Senza dimenticare la scuola, dunque l’intera unità di riferimento dei giovani. Nell’adulto, che ha invece una personalità più formata, le dinamiche aggressive si basano su aspetti diversi”.

Perché una baby gang si accanisce su una persona con problemi psichici e quindi palesemente fragile.

“Il meccanismo è plurifattoriale: il gruppo di ragazzi di cui sta parlando è composto da quasi tutti minorenni, tranne due. Appare molto evidente che questa baby gang si è organizzata sulla base di motivazioni che possono sembrare veramente surreali. Perché loro hanno detto: “Ci annoiavamo”. Si sono accaniti contro Antonio Cosimo Stano — soprannominato in modo spregiativo il “pazzo” — perché come spesso accade la vittima viene scelta tra coloro che non si possono difendere. Ciò rende più vile e umiliante la violenza. In realtà questi ragazzi sono dei deboli, con identità molto fragili e problematiche. Se per fare i passaggi adolescenziali hanno bisogno di provare la loro forza, su chi non ha potuto difendersi, ecco che abbiamo davanti uno scenario inquietante. Ma c’è una cosa più agghiacciante”.

Prego.

“Gli adulti. Sembra che un operatore della parrocchia avesse segnalato la situazione in maniera dettagliata. Allora c’è da chiedersi: quanti sono gli autori del presunto reato? In primis questi giovani, ma anche i “grandi” che non hanno fatto nulla e le persone che non hanno protetto la vittima. A mio avviso, chi sa e non dice, è colpevole quasi quanto chi conduce l’azione violenta. La dimensione omertosa, di non protezione della vittima, è gravissima. Rinforza nei ragazzi la convinzione che quello che hanno fatto, andava bene”.

Secondo lei una società così secolarizzata come la nostra, dove poche cose assurgono al ruolo di valori, influisce sul percorso di crescita dei ragazzi?

“Penso che il fattore centrale sia la quasi totale assenza di valori. Che sembrano man mano lasciare il posto al narcisismo, ad un centraggio sul proprio ego molto forte. Allora credo che noi adulti, tutti, ci dovremmo fare tante domande importanti. Quanto tempo dedichiamo ai nostri figli per farli crescere in un ambiente sano e rispettoso? Come dobbiamo insegnare loro a rapportarsi con chi viene percepito come “diverso”? Dobbiamo pure temere che adesso venga minimizzata questa vicenda, si tenda a normalizzare quanto accaduto. Ho già letto osservazioni come: “In fondo abbiamo girato due filmati su Whattsapp”. È gravissimo perché i filmati li hanno realizzati mentre facevano azioni violente”.

Proprio Whatsapp pone un’altra domanda: cosa li ha spinti a scambiarsi i video sul servizio di messaggistica istantanea?

“Questa per loro è la vera “perversione”. Compiono l’azione violenta perché da una parte sono soddisfatti nel vedere qualcuno che soffre, il che già dice assai sulla loro empatia; dall’altra girano filmati perché li rende fieri. Devono dimostrare ad amici e pari età: questa la parte più motivante della vile azione che hanno fatto. Per questo prima mi auguravo che gli adulti non minimizzino l’accaduto. Questi ragazzi devono essere messi di fronte le loro responsabilità, rispondere di quello che hanno fatto e che verrà accertato dalla giustizia. Noi non ci vogliamo sostituire ai magistrati. La cosa più grave che può accadere è che vengano difesi ad oltranza. E che non riconosca la gravità di quello che hanno fatto. Rafforzerebbe la loro dimensione violenta e il fatto che “tutto è possibile, tanto non si paga mai”.

Secondo lei il sistema sanitario tutela a sufficienza le persone con malattie psichiche?

“Naturalmente il sistema sanitario in Italia ha suoi problemi, soprattutto per quello che riguarda le patologie mentali. Che quest’uomo sia stato lasciato da solo non c’è dubbio. Se quanto abbiamo letto è vero, cioè che per giorni non si è alimentato per paura di uscire da casa, vuol dire che nessuno ha considerato lo stato di reale problematicità. Altrimenti il meccanismo violento si sarebbe interrotto prima. Per questo dico che i responsabili sono tanti. I ragazzi che hanno praticato le aggressioni, chi l’ha vista e ha taciuto, chi non gli è stato vicino.

Tragedie come quella di Manduria possono essere evitate con la prevenzione?

“Se dedicassimo il tempo dovuto nelle scuole alla prevenzione efficace per quel che riguarda questo tipo di condotte — quindi educazione alla legalità, all’affettività, all’empatia, alla convivenza costruttiva — forse sì. I genitori inoltre non dovrebbero prendere sempre le difese dei figli e presentare in maniera ragionevole le regole per farle rispettare. I giovani devono essere ispirati da questi valori. Serve dunque una grossa prevenzione, dato che se succedono queste cose siamo di fronte ad un fallimento, di noi adulti. Senza valori si ritorna ad epoche in cui nessuno veniva difeso. La civilizzazione ha fatto molta strada, eppure parliamo spesso di violenza contro le donne, bullismo e baby gang. Stiamo andando verso il 2020, però le relazioni umane sono quanto meno rozze e poco evolute.

Antonio e il paese degli indifferenti. “Tutti sapevano, nessuno interveniva”. Giuliano Foschini il 27 aprile 2019 su La Repubblica. Manduria, dai servizi sociali alle forze dell’ordine: l’anziano morto non era mai stato seguito o protetto. Il vescovo: “Avevamo segnalato ai genitori dei ragazzini quello che accadeva ma non ci fu risposta”. In questa città si può vivere da "pazzi" o da mostri. Da vittime o da carnefici. Eppure, essere sempre fantasmi. Fantasma era Antonio Cosimo Stano, lu pacciu come lo conoscevano tutti: viveva in una stamberga senza neppure un letto, nel degrado e nella solitudine, eppure non esisteva per i servizi sociali e per il servizio di igiene mentale. Mai nessuno si era occupato di lui. Nessuno che non fosse la banda dei 14 ragazzini.   

Le torture di Antonio durate quindici anni. Tutto questo avveniva quando tutti gli indagati di oggi, accusati delle sue torture «moderne», erano appena nati mentre i maggiorenni di allora...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria martedì 14 maggio 2019. Quindici anni fa «il pazzo del villaggio» era già perseguitato dal branco. Le pene di Antonio Cosimo Stano che la procura della Repubblica di Taranto ha inquadrato nel loro giusto nome di «torture», duravano da anni, tanti, quindici almeno. Risale al 2004, infatti, la prima denuncia che il dipendente ancora in servizio dell’Arsenale militare di Taranto - già allora vittima del bullismo e dell’abbandono -, presentò alle forze dell’ordine. Che indagarono evidentemente senza molti risultati se è vero come è vero che quelle «torture», inizialmente fatte di insulti e offese («andiamo da Tonino il pazzo del villaggio» era la parola d’ordine tra i ragazzini del quartiere), sono diventati negli anni vere e proprie aggressioni con incursioni notturne in casa del «pazzo». L’epilogo che sappiamo oggi non si immaginava nel lontano 2004 quando l’allora cinquantunenne residente in via San Gregorio Magno a Manduria si presentò alla caserma dei carabinieri del suo paese cercando protezione e giustizia. Quella sua vecchia denuncia è finita nell’inchiesta delle due procure joniche, l’ordinaria e dei minorenni, che vede come indagati quattordici ragazzi, otto finiti in carcere, solo due appena maggiorenni. Leggere la denuncia oggi, col senno di poi, fa ancora più male di quelle urla inascoltate nella notte quando «il pazzo» accerchiato dal branco gridava per quella protezione che non ha avuto. «Spesso mentre sono nella mia abitazione succede che dei minorenni tirino pietre e danno calci alla porta della mia abitazione e quando esco mi prendono a sputi e mi insultano», raccontò l’impiegato della Marina civile il primo giugno di quindici anni fa al carabiniere che verbalizzò tutto. Oltre alle offese e ai danni subiti, Stano arricchì la sua denuncia con altri particolari che fanno emergere inquietanti attualità. Oltre ai minorenni, tra gli autori di quegli sprezzanti insulti, c’erano anche degli adulti, comunque maggiorenni perché, disse Stano, «vengono con i motorini ed anche con le macchine e scappano via». Tutto questo avveniva quando tutti gli indagati di oggi, accusati delle sue torture «moderne», erano appena nati mentre i maggiorenni di allora, quelli che secondo il suo racconto arrivavano in macchina, avranno ora trentacinque anni magari sposati e con figli piccoli. Chissà forse proprio l’adulto con la Uno bianca la cui presenza nel branco degli «orfanelli» (così si facevano chiamare nel gruppo social dove facevano girare i video delle violenze), è stata ancora una volta raccontata da Stano in una delle sue ultime denunce prima di morire. Intanto oggi a Taranto è prevista l’udienza del Tribunale del Riesame che deciderà sulle richieste di misure alternative al carcere, se non la liberazione, dei due maggiorenni indagati, Gregorio Lamusta di 19 anni e Antonio Spadavecchia di 23 anni, rispettivamente difesi dagli avvocati Franz Pesare e Armando Pasanisi e Gaetano Vitale con Lorenzo Bullo tutti del foro di Taranto. Stessa richiesta è stata già presentata dai difensori dei sei minorenni rinchiusi nel carcere minorile di Bari. Ad occuparsi di loro saranno gli avvocati Davide Parlatano, Antonio Liagi, Cosimo Micera, Nicola Marseglia e Pier Giovanni Lupo. 

Manduria, c'è un altro caso-Stano. La denuncia di un 51enne vittima dei bulli: "Mi hanno incendiato la casa". Quando hanno appiccato le fiamme non era in casa ma nel rogo sono morti i tre cani randagi che vivevano con lui. Al momento gli investigatori escludono collegamenti con il ruolo dei giovani coinvolti nell'inchiesta sulla morte di Antonio Stano. La Repubblica il 13 maggio 2019. La polizia indaga sull'incendio di natura dolosa, avvenuto la sera del 14 febbraio scorso, nell'appartamento di Manduria (Taranto) in cui viveva un 51enne che ha denunciato agli agenti di essere stato nel mirino di un gruppo di bulli, almeno tre, che lo avrebbero minacciato in più occasioni e gli avrebbero lanciato pietre e bottiglie. Al momento del rogo, compiuto da ignoti, l'appartamento non era occupato dall'uomo, che vive di espedienti e in una condizione di povertà, ma vi erano i tre cani randagi che accudiva, morti tra le fiamme. Non ci sono elementi, secondo la versione dell'uomo e stando a quanto finora accertato dalla polizia, che possano far ipotizzare un ruolo  dei giovani coinvolti nell'inchiesta sulla morte di Antonio Stano, il 66enne pensionato deceduto il 23 aprile scorso, che aveva subito una lunga serie di aggressioni e violenze da più gruppi di ragazzi. Il proprietario del modesto appartamento dato alle fiamme, tuttavia, era anche lui diventato oggetto di scherno da parte di alcuni minori. "Mi avevano detto che mi avrebbero bruciato la casa" ha riferito l'uomo agli inquirenti, che non hanno ancora individuato gli autori. Il rogo ha distrutto completamente l'immobile nonostante l'intervento dei vigili del fuoco, allertati dai vicini di casa, che hanno stabilito l'origine dolosa.

Mimino Motorino chiamato in polizia non riconosce le foto dei sospetti bulli. La vittima questa volta è un personaggio molto conosciuto in città e i fatti di cui sarebbe rimasto vittima risalgono a febbraio scorso. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 15 maggio 2019. La polizia di Manduria indaga su un altro sospetto caso di bullismo su persone con disagi sociali. La vittima questa volta è un personaggio molto conosciuto in città e i fatti di cui sarebbe rimasto vittima risalgono a febbraio scorso. Così ieri mattina Cosimo Mandurino, l’indigente manduriano possibile vittima di una baby gang che gli avrebbe bruciato casa, è stato convocato ieri negli uffici del commissariato di Manduria di Manduria per essere interrogato in qualità di persona lesa in merito all’incendio, presumibilmente doloso, che il 15 febbraio scorso ha distrutto completamente il piccolo appartamento che divideva con tre cani morti nel rogo. Il sessantunenne è stato ascoltato dal dirigente Antonio Gaetani che gli ha mostrato le foto segnaletiche di alcuni minorenni «a rischio», tra cui gli indagati coinvolti nell’inchiesta sulle aggressioni e le torture a danno del disabile Antonio Cosimo Stano. Mandurino, conosciuto in paese come «Mimino motorino» per via della sua antica passione per le due ruote (in casa oltre ai randagi di cui si prendeva cura, conservava le carcasse di vecchie motociclette che aveva posseduto), non avrebbe riconosciuto nessuno dei volti mostrati. Non si conoscono altri particolari della deposizione nella quale Mandurino potrebbe aver fornito indicazioni utili per individuare gli autori dell’attentato incendiario. Secondo quanto ha sempre riferito sulla vicenda, a mettere fuoco sarebbero stati dei minorenni che da tempo lo molestavano con insulti e getto di pietre contro la casa. Sempre secondo il suo racconto, la sera del 15 febbraio scorso qualcuno, approfittando dell’assenza del padrone di casa che si era allontanato per fare una commissione in farmacia per conto di una vicina, avrebbe dato fuoco ad un pezzo di stoffa che copriva la finestra priva di vetri. Le fiamme si sono poi propagate all’interno alimentandosi con il povero mobilio e una quantità enorme di indumenti a suppellettili infiammabili. A completare l’opera, poi, i motorini ammassati e forse qualcuno con il serbatoio contenente ancora carburante. Quella sera le squadre dei vigili del fuoco del distaccamento di Manduria lavorarono per quasi tutta la notte tornando la mattina successiva perché alcuni focolai si erano riattivati proprio nella zona dei motori. I danni sono stati ingentissimi tanto da rendere inagibile il piccolo appartamento su due piani che «Mimino motorino» ha ereditato dai genitori entrambi deceduti da tempo. Da allora è vissuto sempre da solo trovando compagnia nei cani randagi che raccoglieva ed ospitava in quegli angusti ambienti. Un’abitudine sempre malvista dai vicini che si lamentavano dei cattivi odori e della sporcizia che invadeva la strada. L’indigente ha una sorella con la quale non ha un intenso rapporto e si mantiene grazie alla piccola pensione di reversibilità dei genitori e si alimenta alla mensa per poveri.

Antonio Stano, Mimino e Manduria raccontati su Vanity Fair. ​Mimino Motorino, a Manduria, lo conoscono tutti. All’anagrafe farebbe Cosimo Mandurino, ma quella sua passione sfrenata per le due ruote di ogni forma e foggia gli ha storpiato il nome per sempre. La Voce di Manduria - venerdì 17 maggio 2019. Mimino Motorino, a Manduria, lo conoscono tutti. All’anagrafe farebbe Cosimo Mandurino, ma quella sua passione sfrenata per le due ruote di ogni forma e foggia gli ha storpiato il nome per sempre. È nato il 25 dicembre del 1958, ma la data non ha portato fortuna, anzi. Tutto quello che poteva andare storto quel Natale, è andato: dal suo parto travagliato sua madre ne è uscita morta, e lui «Così» – dice chi gli vuole bene; e aggiunge: «Come un bambino». Con un ritardo mentale, direbbe un dottore. Quando, il 15 febbraio scorso, è andata a fuoco la piccola casa a due piani in cui viveva senza acqua e senza fogna, ha perso tutto quello che di più caro aveva al mondo: 6 motorini, 3 cagnolini pinscher, un gatto e una colomba che – mi racconta – era già scampata a un incendio della casa del padrone precedente. «Ma questa volta, purtroppo, non ce l’ha fatta». Per il fatto è stato aperto un procedimento penale contro ignoti, ma Cosimo dice di sapere benissimo chi è stato ad appiccare le fiamme alla tenda della sua finestra: «Il ragazzino, uno dei tanti, che mi sfotteva e mi chiedeva sempre le sigarette, e io sempre gli dicevo di no: ci vuole l’età giusta per fumare. È successo anche quella sera – Motorino, dammi la sigaretta. No, non te la do – poi ho girato l’angolo e nemmeno un quarto d’ora dopo stava bruciando tutto», racconta davanti allo scheletro annerito che, per più di 40 anni, è stata la sua casa. Si potrebbe archiviare la vicenda di Cosimo come un fatto di cronaca come tanti, una bega di paese, se non fosse che poco più di due mesi dopo, sempre a Manduria, è morto Antonio Stano, 66 anni, anche lui con un disagio psichico, anche lui oggetto da anni di uno scherno diffuso che negli ultimi tempi si era trasformato in violenza: pugni, sputi e mazzate da parte di un gruppo di ragazzi per lo più minorenni. Si conoscevano, Antonio e Motorino. «Era un tipo calmo, non si difendeva mai», dice l’uomo. «Quando ho saputo che era morto, ho pianto». Motorino è uno dei pochi, in città, che hanno voglia di ricordare Antonio Stano, detto lu pacciu, il pazzo. Nella sua testa semplice quel nome non è il tabù che sembra essere diventato per tutti gli altri, che di fronte alle domande alzano le spalle, chiudono le finestre, attaccano il telefono, se ne vanno. Una collettività ora silenziosa che, dal 23 aprile, giorno della morte di quel concittadino fino ad allora praticamente invisibile, ha dovuto fare i conti con tante cose: lo sconcerto, la condanna («Non potevate non sapere», hanno tuonato i social: Manduria, per la cronaca, fa 33 mila abitanti), l’invasione delle telecamere, l’ebbrezza del protagonismo, il timore di averlo usato male e una verità che cambia la sua forma ogni giorno un po’, allargandosi, assumendo nuovi contorni e nuove facce. In questo silenzio quasi generale bisogna far parlare altro. Per primi, i fatti: Stano era un uomo solo e solitario, da anni in pensione, da anni deriso per la sua stranezza. Un uomo pacifico che ogni tanto andava dal tabaccaio dietro l’angolo dove – racconta con ritrosia chi ci lavora «signora, non ci faccia chiudere il negozio» – comprava francobolli o pagava bollettini per fare piccole donazioni a enti religiosi, a Padre Pio soprattutto. Aveva una sorella e un nipote, ma nessuno dei vicini di casa ricorda si siano mai fatti vedere a via San Gregorio Magno, dove Antonio viveva e dove ora ci sono alcuni mazzi ormai sfioriti e vetri rotti, a ricordare la violenza che ha accompagnato gli ultimi mesi della sua vita. I filmati che i giovani aggressori si facevano e si giravano via whatsapp li abbiamo visti tutti: botte con i manici di scopa, urla, risate. I cappotti gettati addosso ad Antonio, lo scempio della sua povera casa. Non è vero che i vicini non sentivano e non dicevano niente: sentivano il frastuono di quelle incursioni, sentivano – come testimonia un video in cui lo si vede ondeggiare smarrito – Antonio urlare sull’uscio: «Polizia, Carabinieri, aiutatemi». E ripeterlo ancora e ancora. Ci sono svariate segnalazioni alle forze dell’ordine, un esposto con 8 firme di testimoni in calce, compresa quella di don Dario De Stefano, il parroco della chiesa e dell’oratorio San Giovanni Bosco («Un prete che amava e credeva nei giovani», recita la stele sotto la statua del Santo) che sorge proprio di fronte a casa Stano. Impossibile scambiare due parole su Antonio anche con il religioso: mi risponde con una tale durezza che a un certo punto devo ricordargli che certi modi sono poco cristiani. Si giustifica dicendo che ha molto da fare: la chiesa più nuova della città (è degli a0nni Settanta) che amministra è oggetto di un mastodontico progetto di demolizione e ricostruzione. Cinque milioni e mezzo di lavori, un quarto dei quali pagato dai parrocchiani. Ma né la prossimità alle manifestazioni più sfarzose di Nostro Signore, né le denunce sono riuscite a proteggere Antonio Stano che, terrorizzato dai raid, a fine marzo si chiude in casa e non esce più. Lo troveranno i poliziotti – nuovamente allertati dai vicini – seduto su una sedia chissà da quanto tempo. Lo porteranno in ospedale, dove subirà, in due settimane, quattro interventi chirurgici per una peritonite. Morirà il 23 aprile per emorragia interna. I risultati dell’autopsia saranno pronti tra più di un mese, ma nel frattempo il capo d’imputazione a carico dei 14 ragazzi attualmente indagati (12 minorenni e 2 maggiorenni, 8 già in carcere) è passato da omicidio preterintenzionale a tortura. In città si dice, non senza un qualche sollievo, che forse a uccidere Antonio non sono state «direttamente» e «tecnicamente» le botte di quei figli disgraziati. Nella città silenziosa, nessuno vuole parlare nemmeno di loro. «Siamo stati tutti un po’ bulli da giovani, no?», ammicca un commerciante. «Alla fine hanno esagerato», dice un ventenne che fuma una sigaretta alla Villa, il piccolo parco del centro che è il luogo di ritrovo della gioventù manduriana: qualche albero, qualche aiuola, qualche panchina. La madre di uno dei ragazzi arrestati ha dichiarato che in città «ci sono solo bar». Quando la chiamo mi risponde che è meglio che non dica più niente: le hanno concesso una visita in carcere, «se dico qualcosa di sbagliato ho paura che mio figlio non me lo fanno vedere più». A rompere questa opacità immobile sono le parole di Adriana, che a conclusione della «Marcia della civiltà» indetta la mattina dell’8 maggio in ricordo di Antonio, dice al microfono, davanti alle autorità e ai gonfaloni: «Di fronte a una tale disfatta nessuno può dire di avere fatto abbastanza». Adriana è della quinta A del liceo De Sanctis Galilei, ha 18 anni. Gli stessi che hanno i ragazzi che tengono due striscioni. Il primo recita «Non eri tu il pazzo», l’altro «I pazzi siamo noi». C’è chi, come Silvia Mandurino, ha preferito che sua figlia stesse a casa: ha pubblicato la foto del permesso negato su Facebook e ha scritto «Non autorizzo mia figlia a prendere parte a questo modo semplice di lavarsi la coscienza… Se Dio esiste vedrà l’ipocrisia di chi ha taciuto». Tra gli effetti collaterali della morte di Antonio Stano c’è anche il fatto che Mimino Motorino finirà, a 60 anni, in un ospizio. I servizi sociali, che per una vita l’hanno lasciato vivere nell’indigenza, svegliati di soprassalto da questo lutto che sembra avere molti più responsabili di un gruppo di ragazzini, hanno deciso di dichiararlo incapace, affidare lui e i suoi soldi (una piccola pensione e il reddito di cittadinanza) a un amministratore di sostegno e mandarlo in una casa di riposo. «Ma io chiedo solo di poter sistemare la mia casa, e tornarci a vivere senza dare fastidio a nessuno, come ho sempre fatto», dice l’uomo. Uno Stato troppo tempo fermo, quando si alza di fretta si muove in modo scomposto, come un paio di gambe intorpidite. C’è una scritta su una panchina di corso XX settembre, dice «Parla, grida, urla! Non subire in silenzio». È lì da molto prima che Stano morisse, un monito generico buono per tante cose, che adesso suona profetico. E anche inutile: Antonio aveva gridato e urlato. Non è servito a niente. SILVIA NUCINI su vanityfair.it

Remo Croci, 18 maggio 2019 alle ore 08:51 su Facebook. Non l’ho conosciuto di persona Antonio Cosimo Stano il pensionato di Manduria. Ho conosciuto però, come tanti telespettatori, il suo terrore, la sua paura, quando veniva aggredito e deriso da quella banda di ragazzi idioti e vigliacchi. Quel terrore che i video hanno impietosamente mostrato attraverso le immagini del suo volto stravolto. La paura di un uomo isolato ed abbandonato da tutti, nessuno escluso. E non solo a Manduria. Li ci “vivo” da tre settimane e, non ho, certo la presunzione oggi di capire quella Comunità. Sarebbe un grave errore considerarlo. Ho solo capito e percepito il clima di questo paese dove si può apprezzare il buon vino Primitivo. Qui la gente non è diversa da quella del Nord dove purtroppo avvengono gli stessi episodi di cronaca. Qui la gente lavora e non ozia. Si rompe la schiena nei vigneti e nei campi. Qui i giovani non sono tutti come quelli della sciagurata banda degli Orfanelli. Qui i giovani studiano e fra loro ci sono anche delle eccellenze che oggi rappresentano Manduria fuori dal paese. S’è fatta tanta confusione. Come sostenere che a Manduria c’è l’omertà. Falso. Perché qui c’è solo la paura. Ed è diverso. Molto. Si c’è paura di denunciare, di indicare e di poter aiutare. Ed è’ lo Stato che deve per primo mostrare la sua determinazione. Qui è stato sciolto un Comune per mafia. Non per un problema qualsiasi. Lo Stato ha mostrato polso.? E allora perché non mostrarlo sempre? Ha invece avuto crepe nel suo sistema, delle piccole falle. Non ha valutato dei problemi sociali che toccavano le fasce cosiddette deboli. Ha tollerato atteggiamenti da bulli che poi sono sfociati nella triste e drammatica storia di Antonio. Se sei così forte e deciso nel mandare in carcere politici amministratori e manager d’azienda non puoi voltarti nel non guardare cosa accadeva in altre strade del tuo paese. Oggi purtroppo qui regna la paura della brava gente che vorrebbe gridare la propria rabbia contro chi ha macchiato l’onore del paese e anche contro noi cronisti che continuiamo raccontare Manduria attraverso le maleazioni degli Orfanelli. Fra calare il sipario su questi fatti credo fortemente significherebbe darla ancora vinta a “loro” e “loro” invece non devono avere questo vantaggio. “Loro” vanno sconfitti, battuti e allontanati. Questa violenza mostrata ad Antonio e fuori da ogni logica criminale/delinquenziale. In questi settori l’azione prevede un fine, un interesse, un vantaggio sempre legato ai soldi e al potere. Nel caso di Antonio i bulli volevano solo terrorizzare e rendere quell’uomo un...Primitivo. Sapevano la sua debolezza e sapevano di non correre rischi. Una preda facile. Volevano costringerlo a vivere in cattività nella sua casa trasformata in una grotta da dove non doveva uscire più. Non ho conosciuto Antonio Cosimo ma ha conosciuto Giacinto, un altro uomo mite e solitario. Un altro uomo costretto da altre persone, non più ragazzi non più minorenni, a vivere chiuso a casa. Costretto ad entrare ed uscire da un pertugio ricavato dalla parete in tufo come se fosse una tana e non una casa. Vederlo è stato uno choc. Per fortuna c’è stato l’immediato intervento della Polizia. Ho conosciuto personalmente la paura del signor Giacinto e il suo terrore di vivere. Inaudito che un uomo sia ridotto così. Non è umano! Stavolta il video che era stato diffuso in rete per mostrare l’aggressione al signor Giacinto, la cui colpa è quella di evitare che ci siano traffici illeciti di cani, dovrà servire, così come per Stano, a far capire a questi idioti che seminano il terrore che il tempo è scaduto. Finito. Così come nessuno deve più far dispetto alla signora Addolorata che vive da sola nella sua casa al centro storico. Le hanno tagliato i fili del telefono, della televisione e perfino fatto esplodere un bomba carta. A Manduria non si può più tollerare tutto ciò. Lo Stato qui deve dimostrare ora di non è essere mai andato via ( alcuni suoi uomini si per fortuna ) e chi lo rappresenta ora non deve avere nessuna intenzione di fare un passo indietro. Le indagini della Polizia di Stato con i suoi pochi uomini e pochi mezzi hanno smantellato una e più bande di bulli. Grazie a questi uomini oggi Manduria sa di poter contare su persone che rappresentano davvero lo Stato e su cui poter fare affidamento. E se lo Stato mostrerà la sua determinazione sono certo che anche la brava gente di Manduria la mostrerà. Non ci saranno più paura e terrore di vivere. Perché tutti hanno diritto di farlo e nessuno ha il diritto di negarlo attraverso la violenza.

«Tutti sapevano, nessuno si è mosso», le accuse dei vicini. Chissà cosa penserà di questo la ministra della Salute, Giulia Grillo che ieri è intervenuta sulla vicenda. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria domenica 28 aprile 2019. Un’intera città, Manduria, s’interroga su chi ha sbagliato chiedendosi sulla coscienza di chi deve pesare la morte di Antonio Cosimo Stano, sessantasei anni, disabile psichico, emarginato da tutto e da tutti, morto il 23 aprile dopo 18 giorni di agonia nella rianimazione dell’ospedale cittadino. Lì era stato portato in fin di vita dalla polizia che in quello stato, lo scorso 6 aprile, lo aveva trovato nella sua casa assediata dal branco. Almeno due baby gang che da mesi, forse anni, si divertivano ad insultarlo, umiliarlo, picchiarlo e derubarlo. Se sia morto per quello, sarà l’autopsia a dirlo, ma non prima di sessanta giorni come richiesto chi l’ha eseguita, il medico legale barese, Liliana Innamorato, consulente della Procura. Nel frattempo le indagini condotte dalla polizia del commissariato di Manduria, diretto dal vicequestore aggiunto Antonio Gaetani, proseguono ininterrottamente e fanno prevedere sviluppi anche clamorosi. I quattordici ragazzi indagati di cui si è già avuto notizia, dodici dei quali ancora minorenni, potrebbero non essere gli unici a dover rispondere dei pesantissimi reati che le due procure tarantine interessate, quella ordinaria e dei minorenni, hanno contestato sinora: omicidio preterintenzionale, il più pesante, con il contorno della rapina, violazione di domicilio in concorso con l’aggravante della crudeltà. È notizia emersa ieri, ad esempio, di una ragazza, fidanzata di uno degli indagati e quindi estranea agli episodi di bullismo, che è stata invitata in Procura dove è stata sentita in qualità di persona informata sui fatti. Restano le prove, terribili, dei filmati, almeno 6 quelli nelle mani degli inquirenti, che riprendono l’orrore, la brutalità dei calci, dei pugni in pieno volto, delle minacce brandendo bastoni di plastica che terrorizzavano il disabile indifeso e impaurito. Accuse difficili da smontare. Nell’attesa che la magistratura firmi il nulla osta per la consegna della salma ai familiari che potranno finalmente programmare i funerali (prossimo evento mediatico per l’industria dell’informazione soprattutto televisiva), i manduriani vengono messi sotto torchio dalla pubblica opinione e dai giudizi del popolo del web che non ha confini né freni. Così la tranquilla città Messapica si scopre improvvisamente omertosa, asociale, emarginante. L’accusa principale rimane questa: perché nessuno ha denunciato se tutti sapevano? «Non è vero, sono le istituzioni a non aver mosso un dito», rispondono i vicini sventolando l’ultima denuncia presentata lo scorso 3 aprile, due giorni prima il ricovero del pensionato. «Da alcune settimane – si legge – durante le ore serali e le prime ore del mattino (tra le 21 e le 3,00, specificano, NdR), si stanno verificando diversi episodi di atti illeciti commessi da ignoti, circa 5, 6 persone, a danno del signor Antonio Cosimo Stano». Nella denuncia, molto circostanziata, oltre ai danni agli infissi e all’abitazione per il lancio di pietre e calci, i firmatari parlano anche di danni fisici subiti dal loro vicino. «Il signor Stano da quanto ci ha riferito – aggiungono – ha subito altresì vessazioni, soprusi, e lesioni anche fisiche da parte di questi soggetti che in una occasione sono anche riusciti ad introdursi a casa». Da quel giorno la pattuglia della polizia al comando dell’ispettore Giuseppe Screto del locale commissariato, ha tenuto sotto controllo la zona nella speranza di sorprendere i bulli. L’epilogo è stato differente. Preoccupati di non vederlo uscire per due giorni di seguito, gli agenti sono entrati scoprendolo in quello stato drammatico. «Quella è stata l’ultima di tante segnalazioni che abbiamo fatto a chi di dovere e se si fossero mossi prima oggi staremo parlando d'altro», continuano con le accuse i vicini. In effetti non risultano in precedenza interventi di rilievo. Antonio Stano era praticamente sconosciuti agli uffici dei servizi sociali comunali e non era in carico al Servizio di salute mentale della Asl che ha una sede proprio a due passi dalla casa di Stano, molto conosciuta e frequentata dal «branco». Chissà cosa penserà di questo la ministra della Salute, Giulia Grillo che ieri è intervenuta sulla vicenda. «Spero che siano giudicati con giusta severità perché quelle commesse non sono bravate, ma azioni miserabili su una persona indifesa da condannare senza se e senza ma», scrive la ministra sul suo profilo. «Il bullismo - prosegue Grillo - è la prevaricazione gratuita e sadica del forte sul debole, e con il web e i social ha potenziato i suoi effetti e la sua violenza, esponendo le vittime a continui ricatti e sofferenza». Nazareno Dinoi

Le parole del commissario che non sono piaciute ai manduriani. An.Din. su La Voce di Manduria martedì 30 aprile 2019. Non sono piaciute a molti manduriani le parole del commissario straordinario di Manduria, Vittorio Saladino che intervenendo sul caso del pensionato vessato e aggredito...Non sono piaciute a molti manduriani le parole del commissario straordinario di Manduria, Vittorio Saladino che intervenendo sul caso del pensionato vessato e aggredito dai bulli ha detto che le colpe sono di «una comunità distratta, chiusa» e che se fosse stato aggredito un cane «ci sarebbe stata la rivolta popolare», accusando quindi l’intera città Messapica di essere stata impotente nei confronti del dramma che viveva sessantaseienne. I cittadini si sono così serviti di Facebook per criticare le dure parole dell’ex prefetto. «Eh no – attacca Immacolata Mariggiò –, troppo comodo liberare l'amministrazione che appresenta dalle pesanti responsabilità che le competono riguardo la tutela delle fasce più deboli della cittadinanza». Secondo la donna non esiste una comunità distratta, ma «ci sono amministrazioni e istituzioni latitanti», che hanno portato Manduria ad avere «condizioni e qualità della vita e dei servizi sempre in peggioramento». «Feroce è stato Saladino – spiega Gregorio Pignataro – contro la Città». Nel commento di Enzo Caprino, invece, si elencano le numerose arretratezze causate da una cattiva gestione da parte dei commissari. «Saladino – scrive Caprino - ha detto di aver trovato a Manduria enorme arretratezza; è vero: infatti mai a Manduria si è visto un simile livello di degrado come in questa fase commissariale: la Fiera Pessima saltata per ben due volte, strade dissestate al centro come in periferia, disordine amministrativo in tanti settori». Ancora critiche mosse alla cattiva gestione della città con Antonio Casto che scrive: «adesso si sta esagerando. Addirittura la morale a tutti, dico tutti i cittadini di Manduria! La morale da chi ha trovato un paese con 100 problemi e al momento li ha almeno triplicati! Manduria merita rispetto». Ma il commento più “forte” è quello di Antonio Di Leverano, che si sfoga contro il prefetto attraverso il social network con parole che non lasciano spazio ad altre interpretazioni: «è facile per lei chiamare un’intera cittadinanza “omertosa” – scrive. L’omertà l’avete commessa voi delle istituzioni». L’uomo non le manda a dire nemmeno alle forze dell’ordine, che le accusa di aver abbandonato «quei cittadini che vi hanno segnalato le gravità dei fatti, lasciandoli nelle mani di delinquenti incalliti e seriali», riferendosi a numerose segnalazioni inviate al comune e al comando dei vigili urbani per questioni di ordine pubblico. Il manduriano invita infine all’apertura delle istituzioni nei confronti dell’intera comunità, «per evitare nuovamente episodi del genere e soprattutto per ridare dignità e sviluppo a questa città, che mancano da decenni». An.Din.

Per una intervista sul caso del disabile bullizzato. Undici ex sindaci contro Saladino. A margine di una locale vicenda di orrore il cui orizzonte non è certamente Manduria, ma andrebbe ricercato in una cultura globale che pervade purtroppo tutto e tutti nella mercificazione dell’umano a favore della crescita...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 08 maggio 2019. La triste vicenda dei ragazzini arrestati perché accusati di aver bullizzato e torturato il pensionato Antonio Cosimo Stano - poi morto per cause ancora da accertare -, ha creato una profonda crisi istituzionale in città. Undici ex sindaci di Manduria, tutti quelli al potere dagli anni Settanta ad oggi (all’appello ne mancano solo due) (Antonio Calò e Paolo Tommasino, entrambi del centrodestra, nda), si sono riuniti per insorgere contro l’ex prefetto Vittorio Saladino, inviato dal Ministero dell’Interno con altri due commissari straordinari per amministrare il comune sciolto per mafia. A provocare la reazione degli ex primi cittadini, sono state alcune parole di Saladino contenute in una intervista rilasciata al Corriere della Sera in occasione dei tragici eventi della baby gang. La frase giudicata «denigratoria» è la seguente: «Non ho mai visto una situazione di arretratezza e problemi trascurati come quella trovata a Manduria». Un giudizio duro che non è piaciuto a molti manduriani e agli ex sindaci soprattutto che hanno così deciso di diffondere pubblicamente il loro risentimento usando toni altrettanto duri nei confronti del prefetto in pensione. «Nell’intervista – si legge in un manifesto fatto affiggere ieri in tutta la città -, Saladino promuove sé stesso come commissario di consolidata esperienza acquisita in tutta Italia (“Io ho esperienze di commissario in Calabria, Umbria, Campania, Emilia”, si era vantato Saladino con il giornalista, NdR)». «Vana esperienza – prosegue il documento -, se come rappresentante dello Stato offende e umilia con giudizi alquanto gratuiti e affrettati una comunità affidatagli per essere amministrata per la sua promozione». A rendere più pesante le accuse, fanno notare gli ex amministratori, è il contesto in cui quelle infelici parole sono state proferite. «A margine di una locale vicenda di orrore il cui orizzonte non è certamente Manduria, ma andrebbe ricercato in una cultura globale che pervade purtroppo tutto e tutti nella mercificazione dell’umano a favore della crescita dei consumi». In un’altra intervista all’Adnkronos, il commissario Saladino si era spinto anche oltre. «Se i bulli invece che con quel pover’uomo se la fossero presa con un cane, ci sarebbe stata la rivolta popolare. E invece tutti zitti», aveva dichiarato in quello stesso periodo.Gli ex amministratori offrono quindi una lezione di come si amministra una comunità. «Manduria – scrivono - attraversa un periodo particolarmente pieno di difficoltà e in momenti come questi è molto importante che chi ha il privilegio di guidare la comunità mostri equilibrio, capacità di governo, e soprattutto responsabilità, perché sarebbe veramente un guaio “se ai piedi del faro non dovesse esserci luce”; ed è proprio questa responsabilità – aggiungono - che ci saremmo aspettati da chi oggi amministra la città, ma purtroppo così non è stato». Mettendo in risalto alcune prove di scarsa capacità amministrativa di questo periodo commissariale (la Fiera Pessima saltata per due anni di seguito), gli undici ex sindaci ricordano al prefetto in quiescenza che il suo «compito non è certo quello di esprimere e ancor meno diffondere giudizi personali che possono risultare denigratori di una città illustre e generosa». Le firme sono quelle di Antonio Baldari, Leonardo Malagnino, Pio Montalbano, Cosimo Dimagli, Cosimo Briganti, Enzo Caprino, Antonio Curri, Gerardo Moccia, Gregorio Pecoraro, Francesco Saverio Massaro e Roberto Massafra.

Il prefetto a riposo ribadisce e rilancia le accuse, ma salva le associazioni. ​Mentre mercoledì scorso il gonfalone della Città di Manduria sfilava davanti ai tremila studenti nella marcia della solidarietà organizzata per dare un segnale di riscatto a Manduria...La Voce di Manduria sabato 11 maggio 2019. Mentre mercoledì scorso il gonfalone della Città di Manduria sfilava davanti ai tremila studenti nella marcia della solidarietà organizzata per dare un segnale di riscatto a Manduria e dissolvere il fango degli odiatori che da tutta Italia macchiano l’onorabilità dei manduriani, il commissario straordinario Raffaele Saladino rilasciava un’intervista in cui ribadisce e rincara la dose su quelle che gli undici ex sindaci manduriani definiscono «giudizi personali che possono risultare denigratori di una città illustre e genero- sa». «Confermo ciò che ho già detto: non ho mai visto una situazione di arretratezza e problemi trascurati come quella trovata qui», dichiara Saladino al Corriere del Mezzogiorno. «Se ci sono tanti problemi e certe situazioni non risolte nel tempo – afferma il prefetto in pensione -, vuol dire che qualcuno non ha provveduto». Il commissario va giù pesante. «A Manduria – dice - ho constatato una certa realtà di sfascio, ovviamente dal punto di vista amministrativo e non sociale» precisa Saladino che, senza sorprendere nessuno, salva solo le associazioni di cui non indica i nomi ma facilmente individuabili. «C’è una realtà viva e attiva – dice -, ci sono le associazioni sociali e culturali che operano accanto al Comune». Il male, invece, per l’ex prefetto, è nel «mondo politico amministrativo che lascia a desiderare». Una frecciata poi agli undici ex sindaci firmatari del manifesto di critica alle sue parole denigratorie. «…tra i firmatari del manifesto – dice - non tutti sono specchiati, anche per questa ragione non dò molta importanza». Auto promuovendosi poi, il prefetto a riposo loda le sue capacità di amministratore pubblico. «Mi sto dando da fare, insieme con i due commissari – dice - per risolvere le criticità. Un Comune che lascia interi quartieri senza acqua e fogna si commenta da solo. Noi cerchiamo, con risorse limitate di ottenere risultati». Saladino poi ribadisce i suoi giudizi espressi in occasione della tragedia del pensionato Antonio Stano bullizzato e torturata dalla baby gang. «Ebbene – afferma il commissario - c’è stato un pezzo della società di Manduria che ha fatto finta di non vedere e non ha reagito».

Così una ragazzina ha infranto l’omertà «Tra quei bulli c’è il mio fidanzato». Pubblicato martedì, 30 aprile 2019 da Giusi Fasano su Corriere.it. È la sera del 12 aprile 2019. Una ragazzina spaventata si presenta al commissariato di Manduria. «Ho cose importanti da dirvi», esordisce, mentre entra assieme a sua madre. Ha appena saputo che il suo fidanzato è stato convocato nello stesso commissariato ed entrando lo trova lì, in lacrime, accanto a genitori e avvocato. Dirà poi nella sua deposizione: «Lui piangeva e anche io mi sono commossa, gli ho chiesto se lui era coinvolto in quella brutta storia...». La brutta storia è quella di Antonio Stano. Lui, il fidanzato, è uno dei due maggiorenni arrestati, mentre lei, la ragazzina, è la supertestimone dell’inchiesta: con la deposizione che firmò in quell’occasione e con un verbale successivo, cinque giorni dopo. Un ragazzo che non è fra gli otto arrestati di ieri né fra gli altri sei inquisiti, le aveva girato via WhatsApp due dei video che mostravano la cattiveria del gruppo contro il pensionato con problemi psichici, e lei è andata dalla polizia a consegnare i filmati. Ha fatto di più: ha raccontato ciò che sapeva su quel giro di file diffusi via app e ha guardato anche video nelle mani degli agenti e ha identificato alcuni autori, fra i quali il fidanzato. È facile pensare che lei abbia fatto questo perché sapeva che prima o poi sarebbero arrivati anche ai due file ricevuti sul suo telefonino. Ma se anche fosse, resta il fatto che questa ragazzina sembra la sola, al momento, ad aver fatto un passo convinto in direzione della giustizia. Fra gli adulti, invece, in quella stessa direzione si sono mosse (in tempi non sospetti e non quando tutto era precipitato) due professoresse di uno degli arrestati minorenni. Di entrambe si parla nel provvedimento di fermo. Il 4 aprile il ragazzino aveva mostrato all’insegnante di sostegno lo spezzone di un video dicendole: «Guarda professore’, sono io!». Lei sulle prime ha creduto che fosse scaricato da Internet, ma lui ha insistito: «No, no, sono io», e per farle capire che diceva la verità le ha mostrato un pezzetto di un altro video. Così la prof ha telefonato alla madre dello studente che le ha risposto: «Lo so, lo so, mio marito l’ha già messo in punizione». Non contenta, l’insegnante ha raccontato l’episodio alla coordinatrice delle insegnanti di sostegno perché avvisasse i servizi sociali, cosa poi avvenuta. Ma per i servizi la persona sulla quale concentrarsi è stato il ragazzino, non l’uomo che si vedeva nel filmato, rimasto invisibile nella sua solitudine fino alla fine. Per i bulli vederlo terrorizzato era il massimo del divertimento, il loro «passatempo preferito» per dirla con le parole della procuratrice del tribunale dei minori, Pina Montanaro. Umanamente invisibile perfino per i suoi torturatori, Antonio. Finché non hanno capito di aver esagerato leggendo sul giornale che era in coma. E allora sì, hanno imparato il suo nome. E hanno cominciato a capire cos’è la paura, perché a quel punto ne hanno avuta loro stessi: paura di essere scoperti. «Vagnu (ragazzi, ndr), un consiglio... eliminate tutto», scrive uno di loro nel gruppo WhatsApp. La preoccupazione cresce con il passare delle ore. «Vagnu, li video di lu pacciu non li faciti vede a nisciunu», dice un altro. Risposte: «Io li ho cancellati», «Tanto io non li tegnu, sobbra l’iPhone6 stanno», «Sta girunu sti video, casomai fa a finire a persone sbagliate». «Vagnu, mo’ non ci andiamo più», «Ma noi è da assai tempo che non andiamo però», «Quindi non centriamo, va», «speriamo», «Speriamo che non ce l’anno con noi», «Se non facciamo vedere i video a nessuno no». Ci sono pagine, nel provvedimento di fermo dei minorenni, che raccontano episodi di «profonda e ingiustificata spietatezza». Che parlano della tortura subita da quel pover’uomo: un «trattamento inumano e degradante per la dignità della persona: percosse, aggressioni con mazze e bastoni, lesioni, sputi, derisione, offese, bestemmie, incursioni, danneggiamenti, razzie. Tutto ripreso tra le grida di scherno». Il branco «era consapevole della debolezza della vittima riconducibile alla sua solitudine, allo stato di disagio sociale e ai suoi problemi psichici noti a tutto il paese». Nelle carte c’è il racconto di un episodio non cruento ma crudele: durante uno dei raid il più facinoroso del gruppo si è avvicinato ad Antonio. «Facciamo pace?». Lui ha teso la mano, ha ricevuto uno schiaffone.

Baby gang, una 16enne ha rotto muro di omertà sul pensionato aggredito. Un altro caso sospetto. A Manduria la fidanzata di uno dei minorenni fermati si è presentata in commissariato per riconoscere gli aggressori e a raccontare di alcuni adulti che stavano provando a inquinare le indagini. Chiara Spagnolo l'1 maggio 2019 su La Repubblica. C'erano i bulli che torturavano un pensionato inerme, filmando le aggressioni e inviandosele in chat per sconfiggere la noia dei sabati di provincia. Gli adulti che hanno visto quei video e hanno fanno finta di non sapere, i genitori che credevano fosse soltanto una bravata e quelli che hanno provato a inquinare le prove per salvare i figli dallo scandalo. E poi lo zio di uno degli aggressori, che contattava gli altri componenti della banda per intimare loro di non fare il nome del nipote alla polizia, la professoressa che ha visto il filmato in cui agiva il suo alunno picchiatore e si è limitata a segnalarlo alla madre. E ancora: i vicini di casa, che per settimane hanno ignorato le urla dell'uomo picchiato e insultato. I Servizi sociali che ufficialmente non sapevano nonostante un'insegnante dica di averli coinvolti. I parenti che dopo i funerali di Antonio Stano (deceduto il 23 aprile a causa di un'emorragia gastrica) continuavano a ripetere di non aver mai ricevuto richieste di aiuto. C'era un intero paese, Manduria, che sapeva e ha preferito voltarsi dall'altra parte di fronte al dramma della solitudine di un sessantaseienne. E forse anche di fronte a episodi simili, che hanno avuto come vittima un altro "soggetto debole" e di cui sono state trovate tracce negli smartphone dei bulli. Ma questa è un'altra storia, su cui si indagherà. Per ora è arrivata a una svolta la terribile vicenda di Antonio, vittima di " piccoli criminali ben organizzati", come li hanno definiti il procuratore di Taranto e la procuratrice dei minori, Carlo Maria Capristo e Pina Montanaro. Sono stati loro - con il pm Remo Epifani e a conclusione delle indagini di polizia - a firmare i decreti di fermo per otto giovanissimi, due maggiorenni (G.L. di 19 anni e A.S di 23) e sei minorenni, accusandoli di tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona aggravato. Avrebbero partecipato ad almeno cinque aggressioni, che hanno lasciato lividi sul corpo del pensionato e un terrore tale da spingerlo a non uscire più di casa neppure per comprare il cibo. I due maggiorenni sono finiti in carcere, gli altri in una comunità in attesa che il gip decida se emettere un'ordinanza di custodia cautelare. Altri sei ragazzini sono indagati e altri ancora potrebbero esserlo nei prossimi giorni. Insieme con alcuni adulti perché - ha promesso Capristo - "indagheremo anche sulle responsabilità di chi sapeva e non ha segnalato". I Servizi sociali, per esempio, che la professoressa di uno dei minorenni arrestati afferma di avere informato alcune settimane prima della morte di Stano. Oppure i vicini di casa dell'uomo, che soltanto a inizio aprile hanno messo le loro firme sotto una denuncia. In mezzo a contraddizioni e mezze verità, spicca la voce fuori dal coro di una sedicenne, fidanzata di uno dei minorenni fermati, che si è presentata in commissariato insieme con la madre per consegnare i video delle torture. È stata lei a riconoscere gli aggressori, lei a raccontare di alcuni adulti che stavano provando a inquinare le indagini. Ha fatto nomi e fornito prove, aiutando i poliziotti a inchiodare i responsabili. A consentire la svolta nelle indagini hanno contribuito le ammissioni del 19enne finito in carcere, che ha ammesso che l'abitudine "di andare a sfottere il pazzo " fosse il rimedio alla noia del sabato sera: " A. è sceso per primo dall'auto e ha cominciato a sferrare calci alla porta di ingresso, da dentro si udivano le urla di una persona che implorava " state fermi." Poi la porta si apriva, un uomo è uscito, A. gli ha sferrato un forte schiaffo sul volto e calci, intanto il mio amico riprendeva tutto". "La dinamica del branco non veniva messa in atto soltanto attraverso azioni fisiche - ha spiegato la procuratrice Montanaro - ma anche attraverso la condivisione delle riprese delle loro nefandezze". Significa che il web era diventato lo strumento per amplificare la violenza. Quella di cui nessuno dei ragazzi si è pentito, ma di cui hanno soltanto cercato di eliminare le prove. Cancellando le chat. 

Manduria, l'avviso in chat: “Non fate girare i video”. Intuendo di un’indagine della polizia in corso, un indagato per i gravissimi fatti di Manduria aveva scritto in chat che i video non dovevano essere fatti vedere a nessuno perché stavano "girando". Gabriele Laganà, Mercoledì 01/05/2019, su Il Giornale. Emergono dettagli sempre più raccapriccianti sulla drammatica storia di Antonio Stano, il 66enne pensionato di Manduria deceduto il 23 aprile dopo aver subito per lungo tempo aggressioni e violenze da più gruppi di giovani. "Vagnu, i video di lu pacciu no li faciti vede a nisciunu perché sta giranu” (“Ragazzi, i video del pazzo non li fate vedere a nessuno perché stanno girando”. E' il messaggio scritto nella chat della cosiddetta "comitiva degli orfanelli" da un indagato lo scorso 8 aprile, tre giorni dopo il ricovero in ospedale dell’anziano. Una frase che fa intuire come i balordi avessero capito che la polizia stava indagando su quegli assurdi e sconvolgenti atti di violenza compiuti contro il pensionato che soffriva di disagio psichico ed era incapace di difendersi alle vessazioni. La criminale abitudine di andare a sfottere e a pestare il povero uomo, forse, era il modo dei giovani per sconfiggere la noia della routine quotidiana. Negli ultimi tempi, quel folle gioco era sfuggito di mano anche alla stessa banda di sconsiderati ragazzi. "Sta girunu sti video. Casomai vanno a finire a persone sbagliate" (“Stanno girando questi video. Casomai finiscono nelle mani di persone sbagliate”), ha avvertito un altro indagato invitando tutti gli altri a "non recarsi più dalla vittima". Il soggetto, capendo la gravità della situazione, aveva auspicato di non essere coinvolto nell'inchiesta. Gli agenti della polizia di Stato del commissariato di Manduria erano intervenuti nell'abitazione del pensionato per la prima volta il 14 marzo scorso su segnalazione di alcuni vicini di casa. Eppure sembrerebbe che le vili aggressioni contro il 66enne duravano da anni. Per questo, gli inquirenti hanno spiegato che l'indagine prosegue sia per stabilire l'eventuale coinvolgimento di altri giovani che per smascherare silenzi ed omissioni. Altri macabri particolari sono emersi dal racconto di un ragazzo di 19 anni, uno dei due maggiorenni coinvolti nell’inchiesta sulla follia di Manduria. Il giovane nei giorni scorsi è stato ascoltato dagli investigatori e ha ammesso di aver partecipato ad alcune aggressioni, pur specificando di non aver avuto un ruolo attivo nei pestaggi. Il ragazzo ha raccontato che la vittima “urlava implorando con disperazione: state fermi, state fermi”. A lui si è arrivati grazie all’auto vista dai vicini di casa di Stano durante uno dei raid contro il pensionato. Il giovane ha provato a difendersi affermando che frequentava da circa un mese un gruppo di coetanei. Un sabato sera, mentre erano in auto, uno di loro gli chiese di andare all’Oratorio di S. Giovanni Bosco perché “dovevano andare a sfottere “il pazzo” che abitava di fronte”. Il 19enne ha anche raccontato tre episodi di violenze contro Stano, riferendo che le prime due erano state filmate con il suo cellulare da un altro ragazzo indagato e, poi, postate su internet.

Anziano torturato, il giallo della ragazza del branco. Una figura, in particolare, immortalata nel video delle molestie la sera di carnevale, dà effettivamente l’idea che si possa trattare di una ragazzina minuta...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 10 maggio 2019. Continuano senza sosta le indagini sulla morte del sessantaseienne manduriano, Antonio Cosimo Stano, vittima di vessazioni e torture da parte della banda «degli orfanelli», così come i componenti del branco si facevano chiamare nelle chat dove inviavano i video delle scorribande violente. Gli investigatori del commissariato di polizia di Manduria, diretto dal vice questore aggiunto Antonio Gaetani, continuano a raccogliere testimonianze con «inviti a comparire» destinati non solo ad altri minorenni sospettati di far parte dei raid (o che potrebbero fornire informazioni utili per la ricerca), ma anche di altre persone estranee alle violenze. L’attenzione di chi investiga ora pare si stia spostando sui vicini, già ascoltati subito dopo il ricovero di Stano, ed anche sul personale sanitario che il 5 aprile scorso, su invito della polizia, si presentò a casa del pensionato trovandolo con i parametri nella norma. In quella occasione l’uomo, che non si alimentava da giorni, rifiutò il ricovero in ospedale e restò nuovamente solo sino al giorno dopo quando, al secondo intervento del 118, accettò il trasporto al Marianna Giannuzzi dove un paio d’ore dopo entrò in sala operatoria per il primo intervento chirurgico. Parallelamente agli ascolti, gli investigatori continuano a spulciare le pagine delle chat recuperate sui telefonini degli indagati che, oltre agli otto sottoposti a misura cautelare in carcere, ce ne sono altri sei lasciati a piede libero. Dai discorsi che i componenti dei gruppi WhatsApp (non uno, ma almeno tre), gli agenti cercano di individuare responsabilità a carico di chi in quei frenetici giorni successivi al ricovero del disabile smanettava giorno e notte scambiandosi impressioni, video, foto e messaggi audio. Il sospetto di cui si parla con sempre più insistenza negli ambienti investigativi è che nel branco ci fossero anche delle ragazze. Una figura, in particolare, immortalata nel video delle molestie la sera di carnevale, dà effettivamente l’idea che si possa trattare di una ragazzina minuta che con una maschera bianca si diverte con altri quattro giovani mascherati a sfondare la porta del pensionato e a bussare violentemente sulla tapparella della finestra. Ieri, intanto, gli avvocati degli indagati in carcere, otto in tutto tra cui sei minorenni, hanno depositato gli atti al tribunale del Riesame chiedendo la scarcerazione o, in alternativa, la custodia alternativa ai domiciliari o in comunità. Entro cinque giorni si dovrebbe conoscere la data delle udienze che saranno decisive anche per il futuro processuale. Quasi certa, da parte dei difensori, il ricorso al rito abbreviato per i loro assistiti le cui responsabilità sono abbastanza compromesse per via dei video che cristallizzano i ruoli di ognuno. La squadra che invece difende gli indagati, è composta dagli avvocati Davide Parlatano, Antonio Liagi, Cosimo Micera, Lorenzo Bullo, Franz Pesare, Nicola Marseglia, Gaetano Vitale, Pier Giovanni Lupo e Armando Pasanisi, tutti del foro di Taranto.

Branco di Manduria, confessa un 16enne: ci implorava, fermatevi! Incastrati dai video di whatsapp. Sono accusati di tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona. Ieri i funerali dell'uomo. La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Aprile 2019. «Vagnu, i video di lu pacciu no li faciti vede a nisciunu perché sta giranu» (Ragazzi, i video del pazzo non li fate vedere a nessuno perché stanno girando): è uno dei messaggi postati nella chat della «comitiva degli orfanelli" scritto da un indagato l’8 aprile scorso, tre giorni dopo il ricovero di Antonio Stano, il 66enne pensionato di Manduria morto il 23 aprile dopo aver subito una serie di aggressioni e violenze da più gruppi di giovani. La Polizia ieri ha sottoposto a fermo 8 ragazzi (sei dei quali minorenni) per i reati di tortura, con l’aggravante della crudeltà, sequestro di persona, violazione di domicilio e danneggiamento. Gli indagati avevano compreso che la Polizia stava indagando su quelle spedizioni punitive contro il pensionato, che soffriva di disagio psichico ed era incapace di reagire alle vessazioni. «Sta girunu sti video. Casomai vanno a finire a persone sbagliate» (Stanno girando questi video. Casomai finiscono nelle mani di persone sbagliate) ha avvertito un altro indagato, concordando con un coetaneo di «non recarsi più dalla vittima». E, auspicando, di non essere coinvolto nell’inchiesta, ha aggiunto: «Speriamo». I poliziotti del Commissariato di Manduria erano intervenuti nell’abitazione del pensionato per la prima volta il 14 marzo scorso (la seconda il 5 aprile, giorno del suo ricovero) su segnalazione di alcuni vicini di casa. Ma le aggressioni duravano da anni. Ecco perché gli inquirenti ieri hanno spiegato che l’indagine va avanti sia per stabilire l’eventuale coinvolgimento di altri giovani che per smascherare silenzi ed omissioni. Gli agenti intervennero alle ore 22.43 del 14 marzo. Stano riferì di essere già da diversi giorni costantemente oggetto di vessazioni, percosse, angherie ed aggressioni da parte di giovani ignoti che erano soliti prendere a calci la sua porta di ingresso e, dopo averla sfondata, introdursi nella sua abitazione ed aggredirlo. Il pensionato in quella circostanza rifiutò il ricovero o altro tipo di soccorso. Gli interrogatori dei fermati sono previsti giovedì 2 maggio.

URLAVA E IMPLORAVA: STATE FERMI - «Urlava implorando con disperazione: state fermi, state fermi». Uno degli otto ragazzi sottoposti a fermo ieri dalla Polizia nell’ambito delle indagini sulla morte di Antonio Stano, il 66enne di Manduria picchiato, rapinato e bullizzato da gruppi di giovani, nei giorni scorsi è stato ascoltato dagli investigatori e ha ammesso di aver partecipato, pur non avendo avuto un ruolo attivo, ad alcune delle aggressioni. Ha 19 anni ed è uno dei due maggiorenni coinvolti. A lui si è arrivati grazie all’auto notata dai vicini di casa di Stano durante uno dei raid contro il pensionato. Il giovane, sentito a sommarie informazioni, ha detto che frequentava da circa un mese un gruppo di coetanei e che un sabato sera, mentre erano in auto, uno di loro gli chiese di andare all’Oratorio di S. Giovanni Bosco perché «dovevano andare a sfottere “il pazzo” che abitava di fronte». Il giovane ha descritto tre episodi di pesanti violenze, aggressioni, insulti, contro Stano, riferendo che le prime due sono state filmate con il suo cellulare da un altro indagato e trasmesse on line.

INCASTRATI DAI VIDEO - I video delle aggressioni e delle torture hanno consentito di attribuire responsabilità precise agli otto giovani (6 minori di 17 anni e due maggiorenni di 19 e 22 anni) sottoposti a fermo dalla Polizia perché ritenuti responsabili del pestaggio di Antonio Stano, il 66enne pensionato di Manduria (Taranto) morto lo scorso 23 aprile dopo essere stato picchiato e bullizzato da una baby gang a Manduria. Altri sei minori restano indagati in stato di libertà. La misura cautelare non riguarda l’ipotesi di omicidio preterintenzionale perché si attende il responso dell’autopsia eseguita dal medico legale Liliana Innamorato per stabilire l’eventuale nesso di causalità tra violenze e decesso, o se le percosse abbiano aggravato lo stato di salute di Stano fino a determinarne la morte. Le contestazioni che hanno portato al fermo sono relative ai reati di tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona aggravati. I giovani, secondo gli inquirenti, durante gli assalti nell’abitazione dell’uomo e per strada si sarebbero ripresi con i telefonini - poi sequestrati dagli investigatori - mentre sottoponevano la vittima a violenze e torture con calci, pugni e bastoni di plastica, per poi diffondere i video nelle chat di Whatsapp. I componenti della baby gang, che si facevano chiamare «gli orfanelli», si erano accaniti contro il pensionato, ex dipendente dell’Arsenale militare, che soffriva di un disagio psichico ed era incapace di difendersi e di reagire. La Polizia ha diffuso uno dei video delle aggressioni da parte di una baby gang al 66enne pensionato di Manduria (Taranto), Antonio Stano, morto il 23 aprile scorso dopo essere stato bullizzato, rapinato, torturato e picchiato in più occasioni da un gruppo di giovani, otto dei quali (sei minori e due maggiorenni) oggi sono stati sottoposti a fermo. Nelle immagini del video girato con un telefonino da uno dei gli indagati, il pensionato cerca di difendersi urlando «Polizia», «Carabinieri», mentre i bulli divertiti cercano di colpirlo con calci e lo deridono.

PROCURA: VIDEO CIRCOLAVANO IN TUTTO IL PAESE - «I video circolavano non solo nelle chat ma in tutta la cittadina di Manduria. In tanti sapevano». Lo ha detto il procuratore del tribunale per i minori Pina Montanaro illustrando i dettagli dell’inchiesta sulla morte del 66enne. «Sono molte le condotte contestate. Parliamo di atti che hanno assunto nel tempo un carattere di pseudo abitualità: percosse, strattonamenti, aggressioni, lesioni, bestemmie, sputi, offese nei confronti del pensionato. Sei degli otto fermati sono minorenni: due sedicenni e quattro diciassettenni. Gli altri due sono neo maggiorenni, quindi un fenomeno prettamente giovanile». Lo ha spiegato il procuratore del tribunale per i minori Pina Montanaro nel corso di una conferenza stampa sulla morte del 66enne pensionato di Manduria (Taranto), Antonio Stano, deceduto il 23 aprile scorso dopo una serie di aggressioni e violenze da parte di un gruppo di giovani. «Anche i file audio -ha aggiunto- sono particolarmente significativi perchè i video mandati in chat venivano commentati dagli autori delle nefandezze, manifestando anche nel momento del commento una sorta di sensazione di onnipotenza e dispregio nei confronti di questa persona». 

STANO SCELTO PERCHÈ SOLO - La scelta del «bersaglio facile, della persona debole e sola consentiva agli autori del reato di pensare a una certa impunità, perché non vi era risposta né all’interno della cerchia familiare né, ahimè, dall’esterno». Così il procuratore per i minori di Taranto, Pina Montanaro, nell’illustrare ai giornalisti i dettagli dell’inchiesta sulla morte del 66enne. Il procuratore ha sottolineato "l'individuazione consapevole del bersaglio, una persona tra virgolette diversa e debole». Al signor Stano «sin dal 2005 - ha aggiunto Montanaro - avevano diagnosticato problemi di natura psichica, ma soprattutto era un soggetto che viveva in uno stato di profondo disagio sociale». «Persino nei video in cui cerca in qualche modo di chiedere aiuto a fronte delle aggressioni - ha proseguito - ci sono le urla disperate della vittima che continua a dire: 'sono solo, sono solò. Questa era la sua condizione quotidiana. Viveva in questa condizione». Il procuratore ha poi aggiunto che «ci sono addirittura dei file audio in cui gli indagati, esaltando la propria azione nei confronti del signor Stano, esprimono soddisfazione nell’essere riusciti a traumatizzarlo, tanto da rendersi conto che la sola loro vista creava ormai terrore in questa persona. E’ una sorta di esaltazione continua attraverso il web, e credo che questo ci debba in qualche modo far interrogare». «E' una cosa impressionante - ha concluso Montanaro - non c'è strattonamento, non c'è sputo, non c'è aggressione, non c'è violenza che non sia stata ripresa e mandata nel web. E’ tutto documentato dagli stessi autori del reato, è tutto ripreso e trasmesso via web».

MICROCRIMINALI ORGANIZZATI - «C'è stata sicuramente un’assenza totale di controllo sociale. Queste condotte sono il segno di una profonda crisi educativa». Lo ha detto il procuratore del tribunale per i minori di Taranto, Pina Montanaro, in merito all’inchiesta sulla morte del 66enne pensionato di Manduria (Taranto), Antonio Stano, deceduto il 23 aprile scorso dopo essere stato bullizzato, rapinato, torturato e picchiato in più occasioni da un gruppo di giovani. «Questi episodi - ha evidenziato il magistrato - hanno determinato l’intervento tempestivo delle procure per la gravità dei fatti ma anche per le esigenze di carattere investigativo. Più gruppi di ragazzi erano interessati a questo fenomeno e c'è tanto materiale in fase di valutazione. Ma è ovvio che, da Autorità Giudiziaria, da procura per i minorenni, è nostro compito e nostro dovere, forse anche supplendo a quell'assenza sociale di cui abbiamo parlato, considerare questo del processo penale in cui si dovranno accertare le responsabilità specifiche un momento, me lo auguro, attraverso il quale fornire a questi ragazzi una possibilità, tramite gli strumenti che la legge ci consente, di rieducazione e di recupero. Solo così - ha concluso Montanaro - e attraverso il coinvolgimento dell’intera comunità credo si possa in qualche modo affrontare un fenomeno di tale portata».  «Si chiamano baby gang ma forse è un termine che non rappresenta compiutamente i comportamenti di questi adolescenti, che si sono fatti forza anche per la presenza di due maggiorenni. Sono micro criminali organizzati che hanno posto in essere una serie di incursioni nell’abitazione della vittima». Lo ha detto il procuratore di Taranto Carlo Capristo intervenendo alla conferenza stampa in cui sono stati illustrati i dettagli dell’inchiesta sulla morte del 66enne pensionato di Manduria (Taranto), Antonio Stano. «Lo hanno fatto oggetto - ha aggiunto il procuratore - di vessazioni e violenze terribili, sono rimasti sordi all’invocazione di aiuto del povero Stano. Come emerge da un video, sull'uscio di casa, ha subito una aggressione violenta fatta di calci, pugni, sputi e schiaffi. Ha cercato disperatamente di difendersi pronunciando spesso la frase “Polizia, Carabinieri”. Di fronte a questa affermazione che fa accapponare la pelle quando si vede il video, questi ragazzi sono rimasti assolutamente indifferenti, hanno proseguito nella loro azione». Il procuratore ha evidenziato come l’episodio sia avvenuto «sull'uscio di casa e quindi in una strada non di campagna, abbandonata, ma in una strada della città di Manduria. Senza voler generalizzare, senza voler colpevolizzare l’intera cittadinanza perchè Manduria è una città fatta di persone sane e onesti lavoratori, c'è da dire che chi ha visto o ha sentito non ha avuto la sensibilità in quel momento di chiedere l’intervento di Polizia o Carabinieri».

PROCURATORE CAPRISTO: INDAGHEREMO ANCHE SU SILENZI - «Il nostro lavoro è solo all’inizio. Questa è solo una prima risposta a questi fatti gravissimi che sono stati analizzati, ma ne seguiranno tanti altri perchè tanti altri video sono in corso di visione e ci permetteranno di proseguire l’attività investigativa. Non lasceremo nulla al caso, compresa l’indagine sui silenzi, che talvolta uccidono». Lo ha spiegato ai giornalisti il procuratore di Taranto Carlo Capristo parlando degli sviluppi dell’inchiesta sulla morte del 66enne pensionato di Manduria (Taranto), Antonio Stano, deceduto il 23 aprile scorso dopo essere aver subito aggressioni e violenze per strada e in casa da più gruppi di giovani. «Aver visionato decine e decine di video - ha aggiunto il procuratore - non è stata una cosa semplice. C'è voluto l'ausilio della Polizia scientifica perchè avevamo e abbiamo il dovere individuare i protagonisti di quelle che io ho chiamato “bravate criminali” e attribuire loro i reati in maniera specifica. Le contestazioni che sono state mosse con i fermi, a firma congiunta della procura ordinaria e della procura minorile, sono pesanti e riflettono quelle che sono le immagini dei video sui quali abbiamo lavorato e sui quali abbiamo delle certezze». Capristo si è poi soffermato sulla «smania - ha detto - di questi giovani violenti per noia, che filmano le loro bravate criminali e subito le postano sul web perchè per loro è un motivo di soddisfazione. Si provano nuove emozioni, si raccolgono in chat tutta una serie di osservazioni, di plausi. Non vogliamo generalizzare perchè ci sono tanti altri giovani che vivono la loro vita nel rispetto delle istituzioni e della famiglia, ma ci sono queste sacche che vanno individuate ed estirpate».  «La vittima si è trovata a subire queste incursioni criminali in uno stato che tecnicamente si definisce di minorata difesa. Questo è un elemento ancor più grave che si riflette sul comportamento di questi giovani». A dichiararlo è stato il procuratore di Taranto Carlo Capristo illustrando i dettagli dell’indagine sulla morte del 66enne pensionato di Manduria (Taranto), Antonio Stano, deceduto il 23 aprile scorso dopo essere aver subito aggressioni e violenze per strada e in casa da più gruppi di giovani. «Mi preme sottolineare - ha aggiunto il procuratore - l’aspetto della solitudine del povero Antonio Stano. Un uomo che è stato lasciato solo, con le sue paure, i suoi stati d’ansia, con le sue depressioni, dopo aver lavorato una vita nell’Arsenale militare». Capristo ha definito il fenomeno delle baby gang «una piaga sociale ormai in crescita esponenziale. Da Taranto a Milano, a Roma, in tutte le città - ha sostenuto - si registrano episodi dove vengono aggrediti i barboni fuori dalle stazioni, dove vengono aggrediti giovani di colore per motivi razziali, dove vengono stuprate giovani donne. Allora ci dobbiamo interrogare seriamente perchè tutti siamo bravi a diagnosticare o ad approfondire le problematiche, ma ora ci dobbiamo interrogare su quelle che devono essere le prognosi da adottare. Tutti siamo chiamati a dare un contributo non solo diagnostico, ma anche di definizione di intervento».

CONTESTATI PIU' EPISODI DI TORTURA - Sono diversi gli episodi per i quali si procede per il reato di tortura (articolo 613 bis del codice penale) a carico degli 8 giovani di Manduria (Taranto) fermati dalla Polizia nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Antonio Stano. Nel provvedimento cautelare vengono descritti diversi raid compiuti a gruppi dai giovanissimi, per strada o anche in casa dell'anziano, e si parla di altri ragazzi in via di identificazione. «In esecuzione di un medesimo disegno criminoso - si legge nel provvedimento cautelare - avente come obiettivo l’aggressione fisica, la derisione e la vessazione» del pensionato «individuato quale bersaglio per le sue condizioni di minorata difesa, in quanto soggetto solo ed affetto da disturbi psichici, in circostanze e tempi diversi, con violenza verbale e fisica ed agendo con particolare crudeltà» provocavano all’uomo «acute sofferenze fisiche e un verificabile trauma psichico». Azioni tali da indurre Stano «da circa metà marzo a non uscire da casa, neanche per acquistare generi di prima necessità cosi da cadere in uno stato di grave astenia, per terrore di essere oggetto di molestie ed aggressioni». In una occasione, dopo aver sfondato a calci la porta di ingresso dell’abitazione di Stano, nonostante le grida di aiuto e di disperazione dell’uomo, «lo colpivano con schiaffi al volto e calci alle gambe e danneggiavano la tapparella posta davanti alla porta di servizio, il tutto mentre Stano veniva deriso ed accerchiato sull'uscio di casa» e uno dei bulli «riprendeva la scena con il telefono cellulare».  In un altro raid nell’abitazione della vittima, una decina di giovani, «nonostante le grida di aiuto e di disperazione» del pensionato, si sarebbe introdotta in casa spingendo l’uomo in un angolo e colpendolo «violentemente con mazze, bastoni e scope mentre Stano cercava di proteggersi il volto con le braccia ed urlava chiedendo disperatamente aiuto ed invocando l’intervento delle Forze dell’Ordine».

Primitivi di Manduria. Baby gang, una 16enne ha rotto muro di omertà sul pensionato aggredito. Un altro caso sospetto. L'abitazione della vittima a Manduria. A Manduria la fidanzata di uno dei minorenni fermati si è presentata in commissariato per riconoscere gli aggressori e a raccontare di alcuni adulti che stavano provando a inquinare le indagini. Chiara Spagnolo 1 maggio 2019 La Repubblica. C'erano i bulli che torturavano un pensionato inerme, filmando le aggressioni e inviandosele in chat per sconfiggere la noia dei sabati di provincia. Gli adulti che hanno visto quei video e hanno fanno finta di non sapere, i genitori che credevano fosse soltanto una bravata e quelli che hanno provato a inquinare le prove per salvare i figli dallo scandalo. E poi lo zio di uno degli aggressori, che contattava gli altri componenti della banda per intimare loro di non fare il nome del nipote alla polizia, la professoressa che ha visto il filmato in cui agiva il suo alunno picchiatore e si è limitata a segnalarlo alla madre.

E ancora: i vicini di casa, che per settimane hanno ignorato le urla dell'uomo picchiato e insultato. I Servizi sociali che ufficialmente non sapevano nonostante un'insegnante dica di averli coinvolti. I parenti che dopo i funerali di Antonio Stano (deceduto il 23 aprile a causa di un'emorragia gastrica) continuavano a ripetere di non aver mai ricevuto richieste di aiuto. C'era un intero paese, Manduria, che sapeva e ha preferito voltarsi dall'altra parte di fronte al dramma della solitudine di un sessantaseienne. E forse anche di fronte a episodi simili, che hanno avuto come vittima un altro "soggetto debole" e di cui sono state trovate tracce negli smartphone dei bulli.

Ma questa è un'altra storia, su cui si indagherà. Per ora è arrivata a una svolta la terribile vicenda di Antonio, vittima di "piccoli criminali ben organizzati", come li hanno definiti il procuratore di Taranto e la procuratrice dei minori, Carlo Maria Capristo e Pina Montanaro. Sono stati loro - con il pm Remo Epifani e a conclusione delle indagini di polizia - a firmare i decreti di fermo per otto giovanissimi, due maggiorenni (G.L. di 19 anni e A.S di 23) e sei minorenni, accusandoli di tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona aggravato. Avrebbero partecipato ad almeno cinque aggressioni, che hanno lasciato lividi sul corpo del pensionato e un terrore tale da spingerlo a non uscire più di casa neppure per comprare il cibo. I due maggiorenni sono finiti in carcere, gli altri in una comunità in attesa che il gip decida se emettere un'ordinanza di custodia cautelare. Altri sei ragazzini sono indagati e altri ancora potrebbero esserlo nei prossimi giorni. Insieme con alcuni adulti perché - ha promesso Capristo - "indagheremo anche sulle responsabilità di chi sapeva e non ha segnalato".

I Servizi sociali, per esempio, che la professoressa di uno dei minorenni arrestati afferma di avere informato alcune settimane prima della morte di Stano. Oppure i vicini di casa dell'uomo, che soltanto a inizio aprile hanno messo le loro firme sotto una denuncia. In mezzo a contraddizioni e mezze verità, spicca la voce fuori dal coro di una sedicenne, fidanzata di uno dei minorenni fermati, che si è presentata in commissariato insieme con la madre per consegnare i video delle torture. È stata lei a riconoscere gli aggressori, lei a raccontare di alcuni adulti che stavano provando a inquinare le indagini. Ha fatto nomi e fornito prove, aiutando i poliziotti a inchiodare i responsabili. A consentire la svolta nelle indagini hanno contribuito le ammissioni del 19enne finito in carcere, che ha ammesso che l'abitudine "di andare a sfottere il pazzo " fosse il rimedio alla noia del sabato sera: " A. è sceso per primo dall'auto e ha cominciato a sferrare calci alla porta di ingresso, da dentro si udivano le urla di una persona che implorava " state fermi." Poi la porta si apriva, un uomo è uscito, A. gli ha sferrato un forte schiaffo sul volto e calci, intanto il mio amico riprendeva tutto". "La dinamica del branco non veniva messa in atto soltanto attraverso azioni fisiche - ha spiegato la procuratrice Montanaro - ma anche attraverso la condivisione delle riprese delle loro nefandezze". Significa che il web era diventato lo strumento per amplificare la violenza. Quella di cui nessuno dei ragazzi si è pentito, ma di cui hanno soltanto cercato di eliminare le prove. Cancellando le chat.

Picchiato a morte a Manduria, per "Chi l'ha visto": nella banda anche un adulto. Secondo il programma della Rai ad una delle quali avrebbe partecipato un uomo di 30/40 anni. La Gazzetta del Mezzogiorno 13 Maggio 2019. Antonio Stano, il pensionato morto a Manduria (Taranto) il 23 aprile scorso, in una denuncia fatta 13 giorni prima raccontava di due aggressioni notturne subite il 4 e il 5 marzo, ad una delle quali avrebbe partecipato un uomo di 30/40 anni. Lo sostiene in una nota Chi l’ha visto?. Stano, dopo aver sentito il rumore dei calci sferrati contro la porta della sua abitazione, era sceso ad aprire e nella banda di bulli aveva notato una persona adulta, un uomo sui 30/40 anni, alto circa 1 metro e 80, capelli neri, che guidava una Fiat Uno bianca. Quest’uomo, non ancora identificato, secondo quanto è scritto nella denuncia del pensionato, in una delle aggressioni di marzo gli ha sferrato un calcio a una gamba. Secondo la trasmissione, nel gruppo di bulli che tormentavano il pensionato c'erano anche due ragazze.

Colpo di scena: anche un adulto nel branco degli orfani. Il raid notturno fatto di insulti e sputi, sarebbe durato circa un’ora prima che la baby gang con l’adulto si allontanassero a bordo della Uno bianca. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 11 maggio 2019. Non solo minorenni o giovanissimi in cerca di scene choc da filmare e condividere nelle chat. Del branco che insistentemente ha insidiato sino alla tortura il pensionato manduriano Antonio Cosimo Stano, morto per cause ancora da accertare, avrebbe fatto parte anche un adulto. A raccontare la sconvolgente circostanza ridisegna aggravandone i contorni di questa già orrida cronaca, è stato lo stesso Stano in una denuncia che lui presentò alle forze dell’ordine. Di questo esisterebbe prova nel verbale redatto intorno ai primi giorni dello scorso mese di marzo. Nella denuncia presentata ai carabinieri di Manduria, dove il sessantaseienne si sarebbe recato spontaneamente, si parla di due episodi di aggressioni avvenuti nei giorni precedenti da parte di un gruppo di 4 – 5 ragazzi accompagnati da un adulto. Stano non era riuscito a riconoscere nessuno dei suoi assalitori ma aveva fornito una descrizione della persona adulta. Si sarebbe trattato di un uomo tra i 30 e 40 anni, di statura alta e con capelli neri. Sempre nella denuncia, Stano indicò la presenza di una Fiat Uno di colore bianco utilizzata dalla gang. Nel suo racconto abbastanza lucido, il pensionato racconta che la sera precedente era stato svegliato dal rumore di calci alla porta. Racconta poi che l’autore di quei colpi era proprio la persona adulta che lo invitò fuori dove gli avrebbe sferrato un calcio colpendolo ad una gamba. Il raid notturno fatto di insulti e sputi, sarebbe durato circa un’ora prima che la baby gang con l’adulto si allontanassero a bordo della Uno bianca. L’inquietante presenza di quello stesso adulto nel gruppo di ragazzini annoiati e violenti sarebbe stata indicata da Stano come duratura «da molti anni». L’inchiesta sulle scorribande della baby gang che secondo la stessa vittima, almeno in alcune occasioni, sarebbe stata guidata da un adulto, segna la prima data in sede di giudizio. Martedì prossimo 14 maggio, al Tribunale del riesame è prevista l’udienza per discutere la richiesta di revisione delle misure cautelari a carico dei due maggiorenni indagati, Gregorio Lamusta di 19 anni e Antonio Spadavecchia di 23, rispettivamente difesi dagli avvocati Alfredo Vitale e Lorenzo Bullo il primo e Franz Pesare con Armando Pasanisi il secondo. Per i minorenni rinchiusi nel carcere minorile di Bari, sei in tutto, tra i sedici e i diciassette anni, i giudici del riesame non hanno ancora stabilito una data. Ieri i minorenni, nel carcere Fornelli di Bari dove sono rinchiusi, hanno ricevuto la vista dei rispettivi difensori coi i quali hanno trattenuto un intenso colloquio. All’uscita del penitenziario gli avvocati hanno dichiarato di averli trovati profondamente prostrati e pentiti di tutto. Intanto gli investigatori del commissariato di polizia di Manduria che conducono le indagini alla guida del vicequestore aggiunto Antonio Gaetani, continuano a raccogliere testimonianze e a convocare persone, non solo minorenni, da ascoltare in qualità di informati sui fatti. Riflettori sempre accesi, infine, per l’individuazione delle ragazze che potrebbero aver preso parte a qualche assalto al civico 8 di via San Gregorio Magno dove Stano viveva da solo e abbandonato da tutti. Tranne che dal branco.

Manduria, messaggi vocali shock nelle chat della baby gang: "Lʼho preso a bastonate". Nuovi inquietanti sviluppi nelle indagini: nei telefonini dei bulli sarebbero stati trovati anche filmati pedopornografici. Tgcom24 l'11 maggio 2019. "Mi sono innervosito, gli ho dato uno schiaffo e ha gridato "Ahia!". Gli colava il sangue dal naso... Poi gli ho dato un altro colpo di bastone". Sono solo alcuni dei messaggi vocali, riproposti da "Quarto Grado", che si scambiavano i bulli di Manduria e che avevano come vittima Antonio Stano, il 66enne pensionato morto lo scorso 23 aprile proprio in seguito a una serie di aggressioni e violenze. "La porta era aperta, allora siamo entrati in casa sua e abbiamo cominciato a dargli colpi con la mazza - prosegue uno dei membri della cosiddetta "Comitiva degli Orfanelli" - Abbiamo fatto anche il video, vi farete un sacco di risate". Ma come spiegato nella trasmissione di Rete 4, tra i video sequestrati ci sarebbe anche un filmato pedopornografico, sul quale gli inquirenti indagano per capire se sia materiale generato attraverso lo stesso cellulare, oppure se sia stato scaricato da un sito internet.

Baby gang e bullismo, sequestrati altri telefonini di ragazzi non manduriani. Una mole impressionante di chat da esaminare che cresce ad ogni telefono acquisito all'interno del quale si scoprono altri gruppi che a loro volta portano ad altri nomi e nuove acquisizioni. La Voce di Manduria domenica 12 maggio 2019. Al vaglio degli inquirenti che indagano sulla morte di Antonio Cosimo Stano, il pensionato manduriano bullizzato e torturato dalla baby gang, ci sono altri telefonini sequestrati ad alcuni compagni e compagne di classe degli «orfanelli» indagati. Qualcuno di loro sarebbe già iscritto nel registro degli indagati. Gli investigatori sono arrivati a loro grazie alle chat conservate nella memoria dei cellulari precedentemente sequestrati e già oggetto di verifica. Tra i dialoghi di maggiore interesse, ce ne sarebbero alcuni che si riferiscono al video dell’assalto in maschera a casa del sessantaseienne. In quelle immagini si vedono quattro o cinque ragazzi con il volto coperto da maschere di plastica che sfondano il portoncino d’ingresso di Stano il quale si affaccia e viene deriso e insultato. Tra di loro ci sarebbero anche due ragazze una delle quali si «diverte» a colpire con un bastone la tapparella di una porta finestra. Una mole impressionante di chat da esaminare che cresce ad ogni telefono acquisito all'interno del quale si scoprono altri gruppi che a loro volta portano ad altri nomi e nuove acquisizioni. Tutti dialoghi che i giovani si sono scambiati a partire dal 9 aprile scorso, quando cioè i giornali hanno diffuso per la prima volta la notizia che Stano era stato ricoverato ed era in coma (morirà il 23 aprile per cause su cui il medico legale che ha effettuato l’autopsia, la barese Liliana Innamorato, deve ancora ancora esprimersi). Da quella data la rete di WhatsApp diventa bollente con raccomandazioni a cancellare tutto, inviti alla cautela ma anche con qualche leggerezza che alla luce di quanto è successo può suonare coma un’ammissione. Proseguono intanto le attività per individuare la persona adulta che in un paio di occasioni, almeno secondo quanto ha raccontato lo stesso Stano in una sua denuncia, avrebbe accompagnato i ragazzini durante i loro assalti al suo indirizzo. Di questo personaggio adulto si conoscono sono le poche caratteristiche fisiche che Stano ricordava: età di circa 30-40 anni, alto all’incirca un metro e ottanta, capelli neri e guidava una Fiat Uno bianca. In quella stessa occasione, avvenuta nei primi giorni di marzo scorso, ha raccontato sempre Stano, qualcuno rubò anche una bicicletta che si trovava nel garage. Oltre al furto quella sera il pensionato subì i soliti insulti e un calcio ad una gamba che gli sferrò proprio l’adulto sconosciuto.

Inchiesta sul bullismo degli "orfanelli", altri quattro indagati minorenni. La loro età è compresa tra i 15 e i 17 anni, tutti manduriani. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 18 maggio 2019. Sale a 18 il numero degli indagati nell’inchiesta sugli «orfanelli» di Manduria, quasi tutti minorenni, solo due appena maggiorenni, che devono rispondere di aver bullizzato e torturato in più occasioni Antonio Cosimo Stano, il disabile manduriano morto il 23 aprile scorso per cause in corso di accertamento. La Procura della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni di Taranto, ha notificato ieri agli interessati gli avvisi idi garanzia con invito a comparire martedì 22 maggio per essere interrogati alla presenza dei propri avvocati. La loro età è compresa tra i 15 e i 17 anni, tutti manduriani. Ad interrogarli sarà la procuratrice Pina Montanaro che conduce l’inchiesta in tandem con il pubblico ministero Remo Epifani della Procura ordinaria. I reati contestati sono quelli di cui devono rispondere gli altri componenti del branco. Il coinvolgimento di questi altri quattro è il risultato dell’attività investigativa affidata alla polizia giudiziaria presso la Procura e agli agenti del commissariato di polizia della città Messapica. Sono stati loro i primi ad avviare gli accertamenti dopo la denuncia presentata da otto vicini del pensionato i quali segnalavano la presenza notturna di gruppi di molestatori, ragazzi soprattutto, che periodicamente molestavano il sessantaseienne che viveva solo in casa. Pare, inoltre, che a fare i loro nomi come partecipanti dei raid violenti, siano stati altri indagati. Costoro nel corso degli interrogatori avrebbero allargato lo spettro delle identificazioni dei video che riprendevano le aggressioni in casa di Stano ed anche all’esterno. Registrazioni video che finivano poi nelle chat e passate su altri telefonini, anche di ragazze le quali potrebbero anche loro essere coinvolte nell’inchiesta. Al vaglio degli inquirenti ci sono altri apparati telefonici da scandagliare. Di questo si stanno occupando i periti della procura con il compito di estrarre i file eventualmente cancellati che potrebbero rappresentare ulteriori elementi di responsabilità a carico dei sospettati. A questo punto è ipotizzabile pensare ad un effetto domino di ragazzi che potrebbero accusarsi a vicenda allargando così il preoccupante fenomeno del bullismo. Intanto il Tribunale del Riesame sta prendendo tempo per decidere la richiesta di revisione delle misure detentive degli unici due maggiorenni finiti in carcere, Gregorio Lamusta di 19 anni e Antonio Spadavecchia di 23. Molto probabilmente lunedì mattina i giudici emetteranno la sentenza in concomitanza con l’apertura dell’altra camera di consiglio dedicata ai sei minorenni rinchiusi nel carcere minorile di Bari.

Il senso Primitivo di una comunità complice. Tony Damascelli, Mercoledì 01/05/2019 su Il Giornale. Il primitivo è un vitigno tipico di Manduria. Di colore rosso sanguigno tendente al violaceo. Primitivo è il vivere di un gruppo di manigoldi, detti orfanelli, robaccia minorenne o appena varcata la soglia dell'età maggiore, per anagrafe, non certamente per cervello. Costoro hanno ucciso, dopo averlo avvilito nel corpo e della mente con insulti, minacce, sputi, calci, pugni, bestemmie, torture, un povero Cristo di nome Antonio Cosimo e di cognome Stano, di anni sessantacinque, costretto a restare chiuso nella propria dimora, violentato nell'essere dai componenti di questa Arancia Meccanica pugliese. Il capo della Procura dei minorenni di Taranto, Giuseppina Montanaro ha testualmente detto: «La cittadina di Manduria era a conoscenza dello stato di terrore e di sofferenza fisica di Antonio Stano». Ma il procuratore Capristo ha aggiunto, quasi temendo la sollevazione popolare: «Senza voler generalizzare perché Manduria è una città sana, però chi ha visto e sentito non ha avuto la sensibilità di chiamare le forze dell'ordine». Manduria non può essere affatto una città sana, perché sano è chi vede e denuncia, chi sente e riferisce, chi ha il coraggio di vivere e non la codardia di sopravvivere, ma il paese è piccolo e la gente mormora, però di corna e di fuitine, mai di violenze e di abusi, queste no, mettono paura, suggeriscono l'omertà, anche la complicità, meglio giocare con il pettegolezzo al bar della piazza che spostarsi alla caserma dei carabinieri e sporgere denuncia nei confronti dei delinquenti. Dunque non sono soltanto otto i responsabili di questi atti violenti e assassini, è una comunità che si nasconde dietro una tenda, che sbircia da dietro uno spioncino, che origlia ma non sente, che non percepisce il dolore, lo strazio, non sa, non vuole, si rifiuta di provare la stessa sofferenza di Antonio Cosimo. Lo stesso popolo, tutto, che alla domenica va alla Chiesa Madre e assiste all'omelia, che scambia un segno di pace, che stringe mani complici, che sorride a volti colpevoli. Manduria è una vergogna di Puglia e so che in molti alzeranno la voce contro questo dire, dopo aver evitato, però, di usare la stessa bocca per urlare contro la barbarie di quella sporca gang che mille ne ha fatte, sghignazzando con la violenza goduta di chi non ha morale, non ha senso della vita, né la propria, né altrui, che vive di social essendo asocial, che filma e fotografa l'osceno essendo lo stesso, l'essenza della propria esistenza. Una tradizione popolare definiva gli abitanti di Manduria «Mangiacani», quando le condizioni di vita non erano di benessere. Oggi le carogne portano il nome di questi otto delinquenti mentre, attorno a loro, la vita prosegue, nel vociare fastidioso come le prime zanzare di questa primavera strana, in un mondo che ha un solo colore, rosso sanguigno, tendente al violaceo. Primitivo.

Quegli adolescenti di Manduria figli del deserto educativo. Pubblicato domenica, 05 maggio 2019 da Massimo Ammaniti su Corriere.it. Ogni giorno si aggiungono nuovi particolari sulla vicenda di Manduria che ci obbligano a interrogarci su quello che succede nel mondo degli adolescenti e dei giovani. Non è la prima volta che il branco degli adolescenti infierisce sui deboli, sugli extracomunitari, sulle ragazze e sui gay, è di queste ore la notizia che un gruppo di ragazzi a Roma si è scagliato contro un rider indiano, che per vivere portava in bicicletta il cibo a domicilio. A Manduria un branco spietato di minorenni e di maggiorenni ha terrorizzato, tormentato e annientato una persona che viveva nel suo isolamento, probabilmente intimorito, sicuramente a ragione, dal mondo circostante. Era il bersaglio perfetto su cui scatenare la violenza, un uomo fragile, impaurito, incapace di proteggersi, indifeso anche perché non c’era nessuno nel suo paese che mostrasse compassione per lui e cercasse di aiutarlo. La logica che spinge il branco è quella di imporre il proprio dominio sugli altri con ogni mezzo, soprattutto sulle persone considerate deboli o soltanto diverse la cui stessa esistenza deve essere annientata, perché il branco per sopravvivere deve sradicare ogni forma di debolezza. È un periodo della vita, l’adolescenza, nel quale serpeggiano continuamente ansie e timori sulla propria sessualità, sul proprio equilibrio mentale, sull’accettazione da parte dei coetanei. Il gruppo può diventare la scappatoia dalle paure, ci si può sentire forti e cancellare ogni debolezza, sviluppando quelle difese caratteriali ben note in campo psicologico, ossia la callosità mentale e l’assenza di emozioni. Nessuno fra questi ragazzi ha provato compassione per Antonio Stano, anzi veniva deriso e ridicolizzato sui social network, senza che i compagni a cui venivano indirizzati i video protestassero. Una madre dei ragazzi ha cercato di giustificare il proprio figlio e gli altri ragazzi coinvolti dicendo che non c’è nulla a Manduria per i ragazzi se non i bar. Ma il deserto di Manduria non è legato alla mancanza dei luoghi di ritrovo dipende piuttosto dall’abbandono educativo da parte degli adulti, in primo luogo la famiglia e anche la stessa scuola che non hanno saputo trasmettere ai ragazzi il rispetto e la comprensione per gli altri oltre che per se stessi. Forse è stata più onesta la madre che ha parlato del proprio disorientamento per il comportamento del figlio, che lei non poteva in nessun modo sospettare, come era già successo a Sue Klebold autrice del libro «Mio figlio», madre di uno dei ragazzi che era entrato nella scuola americana di Colombine uccidendo compagni e professori. Il quadro sarebbe sconfortante se non fosse intervenuta la ragazza di uno dei giovani del branco a rompere il muro dell’omertà, denunciando quello che stava succedendo nella casa di Antonio. Colpisce che sia una ragazza con la propria compassione a sfidare i ricatti del branco e la probabile ostilità delle famiglie degli imputati, riaffermando i valori della convivenza umana. Anche il legame affettivo non le ha impedito di denunciare i crimini del suo ragazzo, sicuramente le è costato molto come era già successo alla ragazza svedese Greta Thunberg, che è andata contro i pregiudizi e le irrisioni dei coetanei e degli adulti pur di lottare per un mondo più vivibile. Probabilmente il mondo può essere salvato solo dalle ragazze.

Manduria: l’orrore la morte e il linciaggio. La morte del pensionato ci interroga anche sullo stato dei diritti nel nostro paese. Angela Azzaro il 5 Maggio 2019 su Il Dubbio. Nonostante colpiscano le terribili immagini delle violenze compiute dai ragazzi, l’indifferenza assordante che sembra circondarle e la solitudine disperata del pensionato morto a Manduria, è un articolo che non vuole rinunciare alla presunzione di innocenza e alla convinzione che i fatti debbano essere valutati da un tribunale e non dai giudici improvvisati ( e crudeli) del circo mediatico. Nessuna giustificazione, ma la volontà di capire e mantenere ferma la barra del diritto. In questi giorni, sui media e sui social, si è invece fatto a gara a chi per primo scagliava la prima pietra, a chi puntava il dito contro questi ragazzi considerati non persone ma mostri, dei predestinati al crimine, dei reietti da rinchiudere in un carcere e buttare la chiave. Per sempre. Si risponde alla violenza con altra violenza, senza porsi nessuna domanda, senza voler capire, senza voler andare al di là della richiesta di punizione. Ma se l’opinione pubblica pensa queste cose, se il pensiero dominante ha una idea del carcere che niente ha a che fare con l’articolo 27 della Costituzione, come pensiamo di costruire un mondo migliore, un mondo dove queste cose non avvengano mai più o avvengano sempre di meno? Viene in mente il film Arancia meccanica di Stanley Kubrick. Una gang di giovanissimi semina terrore in una città del futuro per provare emozioni forti. Il loro leader viene catturato e sottoposto alla cura Ludovico: non si cerca di convincere Alex che la violenza sia sbagliata, a capire il male che ha fatto, ma lo si induce attraverso scene di violenza a sviluppare una sorta di fastidio, un riflesso condizionato che non ha niente a che vedere con la consapevolezza. Finito il programma di “rieducazione” torna nella società ma nessuno lo ha perdonato e viene a sua volta maltrattato. L’unico che lo accoglie è lo scrittore diventato paralitico per colpa sua, il quale capito chi è si vendica con altrettanta brutalità. Alex entra in coma e quando riprende conoscenza accetta di entrare a far parte delle forze dell’ordine. A quel punto può riprendere liberamente a coltivare e praticare la sua aspirazione alla violenza. Con i ragazzi di Manduria ci stiamo comportando allo stesso modo. Non ci interroghiamo sulle nostre responsabilità, non cerchiamo di capire cosa sia successo, perché sia successo, non contempliamo l’idea che possano essere innocenti o che se condannati possano rifarsi una vita. Abbiamo deciso: sono colpevoli e lo saranno per tutta la vita. Pensiamo a linciarli, a mostrare la nostra indignazione, costruiamo l’immagine del mostro perché così ce ne laviamo le mani: quell’orrore non ci tocca, non riguarda la società di cui tutti facciamo parte. Ma, come in Arancia meccanica, se alla violenza rispondiamo con la violenza, se impediamo a colui che ha sbagliato – al di là del codice penale – di rifarsi una vita, generiamo a nostra volta violenza e creiamo un circolo vizioso che è difficile interrompere. Fëdor Dostoevskij in Delitto e castigo racconta di un giovane che organizza e compie l’omicidio di una vecchia usuraia, a cui segue l’assassinio della sorella più piccola della vittima. Il grande scrittore russo, che pochi sanno ma si ispira a Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, ci fa entrare nella testa dell’assassino, nel suo travaglio e ci racconta il perdono che una giovane donna compie nei suoi confronti restituendogli la possibilità di salvarsi. La prima edizione è del 1866, eppure ancora oggi quei temi restano centrali, più che mai centrali. Perché sempre più si pone la questione di come la civiltà si definisca rispondendo ai crimini non con la vendetta, ma con il diritto, non con la legge dell’occhio per occhio, ma con la possibilità di perdonare, di mettere l’altro nelle condizioni che cambi. Ai giudici che hanno deciso che i ragazzi restino in carcere, perché le famiglie non li sanno educare, oltre ai forti dubbi su questo uso della custodia cautelare, verrebbe da chiedere se davvero sono convinti che il carcere, questo carcere possa essere una risposta.

Di che cosa parliamo quando parliamo di “Arancia meccanica a Manduria”. Burgess, Kubrick e il male che siamo indotti a compiere. Antonio Gurrado 1 Maggio 2019 su Il Foglio. Arancia meccanica a Viterbo, Arancia meccanica a Manduria. I recenti casi di cronaca dello stupro di gruppo, in cui sarebbero coinvolti due esponenti laziali di CasaPound, e della baby gang pugliese, che ha picchiato a morte un anziano disabile, sono stati inevitabilmente accostati al romanzo del 1962 di Anthony Burgess, tanto più ora che dalle sue carte postume emerge un seguito intitolato “The Clockwork Condition”, “La condizione meccanica”. L’accostamento è facile ma forse più ispirato dal film di Stanley Kubrick, tratto dal romanzo nel 1971, che diverge per un dettaglio cruciale: la scena finale non corrisponde all’ultimo capitolo del testo pubblicato. Kubrick infatti conclude mostrando il protagonista Alex che, pur sottoposto a un crudo trattamento antiviolenza, è pronto a ricominciare come se nulla fosse e dichiara: “Ero perfettamente guarito”. Burgess invece aveva aggiunto a questa scena pagine in cui, dopo un salto temporale, Alex ormai adulto ha messo la testa a posto e rinunciato all’ultraviolenza come a un balocco infantile. La differenza è sostanziale poiché determina il modo in cui noi, tramite l’occhio del regista o dell’autore, scegliamo di guardare alla violenza giovanile oggi. Se siamo kubrickiani, la storia di Alex e dei suoi drughi verte sull’ultraviolenza fine a se stessa, praticata per noia (come è stato detto riguardo al gruppo di Manduria) soprattutto nelle scene in cui picchiano a morte il barbone ubriaco o violentano la donna nella casa di campagna. Le somiglianze con l’attualità sono rimarchevoli ma bisogna scavare più a fondo: se siamo invece burgessiani, infatti, la storia diventa un interrogativo sul trattamento con cui Alex viene neutralizzato. È giusto, pur di debellare il male, privare un uomo della libera scelta e imporgli meccanicamente di provare repulsione ogni volta che sente insorgere istinti violenti nell’animo? Burgess risponde che non è giusto; infatti Alex guarisce non quando viene curato (il film mostra plasticamente la ricaduta) bensì quando cresce assumendosi le proprie responsabilità di individuo, le cui colpe e la cui innocenza non dipendono dalla società o dalla noia o dall’esempio altrui. L’equivoco in realtà è poco filosofico anzi nasce da un misfatto editoriale: in America, il romanzo di Burgess venne pubblicato monco del finale sul ravvedimento e così giunse nelle mani di Kubrick, che restò talmente spaventato da ciò che aveva filmato da impedirne la circolazione fino alla propria morte: le prime proiezioni avevano scatenato la proliferazione di imitatori di Alex e compagnia. Il testo inedito di Burgess (che va atteso con curiosità non priva di scetticismo: l’autore era un grafomane seriale, se scartava qualcosa proprio non era convinto) pare si interroghi sugli effetti morali del film di Kubrick e nuovamente incentri la propria riflessione sulla meccanicità con cui l’uomo è indotto a compiere il male o il bene. Questa meccanicità preoccupava Burgess più della violenza in sé e dovrebbe preoccupare anche noi. L’automatismo con cui, ogni volta che la cronaca ci pone di fronte a questi atti malvagi, li cataloghiamo con etichette impolverate (“il branco”, “la baby gang”, “Arancia meccanica”), c’interroghiamo con stanca retorica e ci ripromettiamo inorriditi che non accadrà più, è un tentativo di estirpare il male con la stessa artificiosità del trattamento di Alex, cioè senza accettare che sia una parte integrante dell’animo con cui ognuno deve combattere quotidianamente per conto proprio. Nel frattempo tuttavia fomentiamo l’Alex in noi stessi ritenendoci superiori a ogni legge morale assoluta (Burgess spiega espressamente che è un nome con l’alfa privativo: a-lex, senza legge) e costruiamo i nostri giudizi di valore su questa preminenza dell’individualismo e del relativo, salvo poi scandalizzarci quando i più cattivi esagerano. E’ per questo che di volta in volta, dopo essere inorriditi di fronte alle cronache più atroci, ci convinciamo di essere perfettamente guariti mentre non lo siamo mai.

Antonio Gurrado. Nato nel 1980. Vive a Pavia (è ghisleriano) dopo essere vissuto a Gravina in Puglia, Napoli, Modena e Oxford. Scrive di religione, editoria, illuminismo, calcio e Inghilterra; anche su Tempi e su Quasirete della Gazzetta dello Sport. Libri: Voltaire cattolico (Lindau) e Ho visto Maradona (Ediciclo).

Arancia meccanica (romanzo). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Arancia meccanica (A Clockwork Orange), è un romanzo fantapolitico o distopico di Anthony Burgess del 1962. Riadattato per il grande schermo, Stanley Kubrick ne trasse la celeberrima versione cinematografica Arancia meccanica, distribuita negli Stati Uniti nel 1971 e nel resto del mondo nel 1972. Prima ancora del film di Kubrick, il romanzo ha goduto di un ulteriore adattamento intitolato Vinyl, diretto nel 1965 da Andy Warhol, ma ispirato molto più liberamente al libro rispetto alla successiva versione, e, inoltre, nei decenni successivi furono prodotti numerosi spettacoli di teatro ispirati al libro. Il romanzo venne tradotto in italiano nel 1969 col titolo Un'arancia a orologeria e nel 2005 è stato riedito con il titolo del film.

Origine del titolo. Secondo Burgess, l'espressione Clockwork Orange era tipica dello slang cockney (il dialetto dei londinesi): «sballato come un'arancia meccanica» (oppure «a orologeria», altra traduzione possibile). L'autore pensava che l'espressione potesse essere erroneamente utilizzata per riferirsi a una persona che reagisce meccanicamente (in malese orang significa persona). In una lettera scritta al Los Angeles Times, Burgess affermò che il titolo e il tema dell'opera prendevano spunto da un grave episodio in cui fu coinvolto lo scrittore, allora residente a Giava. La sua compagna fu pestata e violentata da un gruppo di soldati americani ubriachi. L'autore commentò come l'uomo (urang in Giavanese - v. orango) sia un animale azionato da meccanismi ad orologeria. Da ciò l'associazione fonetica tra la bestia ed il frutto (orange). È possibile, tuttavia, che Burgess avesse inventato la frase come gioco di parole sull'espressione «un'opera di nettare e momento». Più avanti (1986), nel suo saggio A Clockwork Orange Resucked, Burgess chiarì che una creatura che può solo fare il bene o il male è una «clockwork orange» - con ciò intendendo che ha l'apparenza di un organismo amabile caratterizzato da colore e succo, ma in effetti è solo un giocattolo a molla pronto a essere caricato da «Dio, dal Diavolo o dallo Stato onnipotente», e a far scattare la propria violenza, appunto, come un congegno a orologeria. Nel saggio Clockwork Oranges, Burgess afferma che "il titolo sarebbe adatto ad un racconto sull'applicazione delle leggi di Ivan Pavlov, ovvero meccaniche, ad un organismo che, come un frutto, era capace di esprimere colore e dolcezza". Questo titolo allude alle reazioni del protagonista, il cui libero arbitrio viene “congelato”, in seguito alle sue malefatte, dalla cura Ludovico. Quale che sia la corretta interpretazione del singolare titolo, è certo che nel romanzo - a differenza che nel film - viene espressamente precisato più volte come A Clockwork Orange fosse il titolo del testo a cui stava lavorando lo scrittore vittima della visita a sorpresa che costituirà uno degli episodi salienti del ciclo "eroico" del protagonista Alex. In Italia, dove venne pubblicato per la prima volta nel 1969 da Einaudi come Un'arancia ad orologeria, il titolo venne cambiato in Arancia meccanica, in quanto una nota presente prima dell'inizio citava: «Poiché, come lo stesso Burgess ha riconosciuto, romanzo e film sono venuti a rappresentare un caso esemplare di complementarità tra diversi linguaggi artistici, in occasione della presente edizione tascabile si è preferito proporre il titolo scelto per il film».

Punto di vista narrativo. È il protagonista medesimo, in prima persona, a narrare la propria storia, fornendone un'apparente prospettiva assimilabile ad una fonte erronea e inaffidabile. Alex non tenta mai di avanzare giustificazioni per le proprie azioni, trasmettendo un'istintiva idea della propria (supposta) buona fede. Un narratore tanto "improbabile", dovrebbe evocare nel lettore un senso di pietà per il ciclo infinito di sofferenze, che egli descrive come fossero "ingiuste" disgrazie che lo colpiscono. La sua tecnica è efficace in quanto riferisce in modo facile situazioni che facili certo non sono. Stilisticamente, egli mescola parole del linguaggio comune a termini del Nadsat, un gergo delle generazioni giovanili.

Trama. Ambientato in un futuro distopico, il romanzo si apre con la presentazione del protagonista Alex, che - con i membri della sua banda: Pete, Georgie e Bamba - vagabonda per le strade di notte, compiendo rapine e atti di violenza per puro divertimento. Alex è intelligente e sa esprimersi in modo appropriato, ama la musica classica (soprattutto Ludwig van Beethoven) ed è più colto della media dei quindicenni. Si diletta però nel delinquere e nel commettere atti di violenza sessuale, offrendo una descrizione sconcertante per la sua apparente "innocenza". Dopo svariate malefatte (tra cui lo stupro della moglie di un tale scrittore F. Alexander) e in seguito catturato a seguito dell'omicidio di una vecchia signora, Alex riporta una condanna a 14 anni di reclusione per omicidio. Il carcere non cambia di certo la natura di Alex il quale punta sulla buona condotta per tentare di migliorare la sua situazione (e magari farsi ridurre la pena); a tal proposito frequenta la biblioteca del carcere e si ingrazia il cappellano del carcere. La situazione precipita, però, quando arriva un compagno di cella piuttosto violento e con una spiccata tendenza allo stupro. Una tentata violenza sessuale ai danni di Alex si trasforma ben presto in una cruenta rissa che culmina con la morte dell'ultimo arrivato. Incolpato dell'omicidio dai presenti, Alex capisce di dover dire addio allo sconto di pena. Viene, però, a conoscenza di un trattamento sperimentale (la cura Ludovico) per la "redenzione" dei malfattori abituali "per tendenza innata". Sebbene il cappellano e il direttore del carcere siano contrari a questo metodo, la situazione politica viene incontro ad Alex che riesce ad ottenere l'appoggio di un politico senza scrupoli per proporsi quale cavia per il trattamento, allettato dalla promessa di acquisire, a seguito della "cura", la libertà personale perduta a causa della condanna.

La cura Ludovico. Si tratta di una forma di terapia dell'avversione, in cui al paziente (Alex) è somministrato un farmaco che induce nausea estrema, mentre per due settimane è costretto a guardare film particolarmente violenti, o apologetici della violenza, come una pellicola nazista che contiene - fra l'altro - la gloriosa Nona di Ludwig Van Beethoven adorata da Alex. Egli supplica i ricercatori di far cessare la musica, ma non viene accontentato. Al termine del trattamento, Alex non può neppure rappresentarsi con la fantasia gli atti violenti senza essere colto da irrefrenabile devastante nausea (come effetto collaterale, la medesima reazione lo affligge anche se ascolta la Nona).

Fuori dal carcere. La terza parte del romanzo si concentra principalmente sulla punizione che attende Alex una volta scarcerato. Egli incontra diverse delle sue "vecchie" vittime, e tutte si prendono la propria rivincita. Egli è ora indifeso, poiché il suo stesso corpo si ribella drammaticamente al solo pensiero della violenza. Si ritrova inoltre "sfrattato" dalla sua famiglia per opera di un pensionante, e vaga senza meta per la strada, meditando il suicidio. Cade a quel punto nelle mani di F. Alexander, il marito della donna che in precedenza aveva violentato. Alcuni amici dello scrittore intendono usare Alex come arma contro il partito politico, mostrando come esso abbia trattato tremendamente Alex. L'esecuzione di una sinfonia ad opera di Otto Skandelig - mentre Alex è chiuso a chiave in una stanza superiore - lo spinge a tentare di togliersi la vita per defenestrazione, nell'incapacità di reggere la sofferenza indotta dal trattamento condizionante della cura Ludovico. Il tentativo di suicidio fallisce e Alex è premurosamente curato dal governo, nell'intento di tacitare le polemiche accese nell'opinione pubblica contro le discutibili scelte di detto esecutivo. Alex, tornato momentaneamente alla vita precedente, con nuovi "amici" pronti a trascorrere notti di rapina e omicidio, comprende di non provare più alcun piacere per l'"ultra-violenza" e desidera una compagna dalla quale poter avere un figlio. Alex sa che la generazione successiva alla propria sarà probabilmente altrettanto distruttiva, ma non ci sarà nulla che egli potrà fare in proposito.

Finali alternativi. Il finale del romanzo - nella versione inglese e nella traduzione italiana - contiene un capitolo conclusivo edificante, a differenza del volume che venne distribuito negli Stati Uniti. «Esistono due versioni del romanzo, ma io ho letto quella che contiene un capitolo in più solo dopo aver lavorato per molti mesi alla sceneggiatura. Sono rimasto sorpreso, perché non c'era alcun rapporto con lo stile satirico del resto del libro; credo che l'editore sia riuscito a convincere Burgess a chiudere con una nota di speranza, o qualcosa di simile. Sinceramente, quando ho letto quell'ultimo capitolo non potevo credere ai miei occhi. Alex esce di prigione e torna a casa. Uno dei ragazzi si sposa, l'altro sparisce, e alla fine Alex decide di diventare un adulto responsabile.» Esistono diverse teorie riguardanti l'ultimo capitolo e la sua omissione; alcuni asseriscono che i responsabili statunitensi scelsero di escluderlo perché "noioso". Altre fonti invece riferiscono che l'ultimo capitolo fu giustapposto dall'autore in epoca successiva per evitare complicazioni con la censura nei diversi paesi di pubblicazione.

Arancia meccanica (film). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Arancia meccanica (A Clockwork Orange) è un film del 1971 scritto, diretto e prodotto da Stanley Kubrick. Tratto dall'omonimo romanzo distopico scritto da Anthony Burgess nel 1962, prefigura, appoggiandosi a uno stile fantascientifico, sociologico e politico, una società votata a un'esasperata violenza, soprattutto nei giovani, e a un condizionamento del pensiero sistematico. Forte di quattro candidature agli Oscar del 1972 come miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale e miglior montaggio, presentato lo stesso anno alla Mostra di Venezia, Arancia meccanica è considerato uno dei capolavori della storia del cinema, oltreché come fonte di citazioni letterarie e iconografiche, anche grazie al contributo, nella parte non originale, della colonna sonora. Essa recuperava, fra le altre, musiche classiche molto conosciute di Rossini e Beethoven, accentuando la chiave visionaria e onirica del film. Decisivo per la riuscita del film, anche l'apporto di Malcolm McDowell nel ruolo di Alex, pronto e disponibile a tutto, al punto che s'incrinò una costola e subì l'abrasione delle cornee durante le riprese del film. Quando fu distribuita sul circuito cinematografico, all'inizio degli anni settanta, la pellicola destò scalpore, con una schiera di ammiratori pronti a gridare al capolavoro, ma anche con una forte corrente di parere contrario, per il taglio originale e visionario adottato nella narrazione, che faceva ricorso in maniera iperrealistica, ma anche senza indugi speculativi, a scene di violenza. Nel 1998 l'American Film Institute l'ha inserito al quarantaseiesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi, mentre dieci anni dopo, nella lista aggiornata, è sceso al settantesimo posto. Nel 1999, compare nella classifica BFI 100 stilata dal British Film Institute all'81º posto.

Titolo. Il titolo originale in inglese, A Clockwork Orange, trae origine da un modo di dire tipicamente londinese, il cosiddetto cockney "As queer as a clockwork orange" tradotto letteralmente come "Strano come un'arancia a orologeria", originariamente utilizzato comunemente nell'East London. La frase indica qualcosa che appare normale e naturale in superficie come un frutto, in questo caso un'arancia, ma che cela in realtà una natura estremamente bizzara e inusuale. L'esempio è dato dal protagonista del film, che essendo privato del suo libero arbitrio, esteriormente sembra un bravo cittadino ma in realtà è un automa della società. Nel 1986, Burgess, nel suo saggio A Clockwork Orange Resucked, chiarì questo concetto scrivendo che una creatura che può solo fare il bene o il male ha l'apparenza di un frutto amabile caratterizzato da colore e succo, ma in effetti internamente è solo un giocattolo a molla pronto a essere caricato da Dio, dal Diavolo o dallo Stato onnipotente, e a far scattare la propria violenza, appunto, come un mero e semplice congegno meccanico caricato a molla. Nel romanzo, a differenza che nel film, viene espressamente precisato più volte come A Clockwork Orange fosse il titolo del testo a cui stava lavorando lo scrittore F. Alexander, vittima della visita a sorpresa. Nel film Anthony Burgess "presta" il cognome ad Alex, appena ritornato a casa, negli articoli di giornale letti dai genitori e dal nuovo inquilino. Vi è l'omaggio all'autore chiamando il protagonista Alex Burgess.

Trama.

Vita da Drugo. In un futuro imprecisato, nella metropoli londinese, vive il giovane Alexander "Alex" DeLarge, un ragazzo di famiglia operaia, eccentrico, antisociale e capo della banda criminale dei Drughi,  di cui presenta i membri: Pete, Georgie e Dim, con i quali trascorre il tempo libero dedicandosi a sesso, furti e ultraviolenza. Punto di ritrovo della banda è il locale Korova Milk Bar, dove si può consumare del lattepiù, ossia latte migliorato con mescalina e altre sostanze stupefacenti. Il sottopasso, sito nel distretto di Wandsworth a Londra, dove Alex, insieme con i suoi Drughi, aggredisce l'anziano senzatetto. Al calare della notte, la banda commette molti atti criminosi, quali aggredire un senzatetto ubriaco a calci e a bastonate, affrontare una banda rivale vestita con uniformi da nazisti comandata da un certo Billy Boy, scorrazzare per le strade a bordo di un'auto sportiva rubata provocando caos e incidenti e infine eseguendo quello che Alex chiama il "numero visita a sorpresa". Il numero consiste nel bussare alla porta di una casa fingendo di chiedere soccorso, per poi svaligiarla e aggredirne gli abitanti. Quella sera tocca alla villa dello scrittore Frank Alexander. Il numero riesce e mentre i Drughi malmenano lo scrittore, Alex ne violenta la moglie. Soddisfatti della serata, i Drughi si ritirano di nuovo al Korova Milk Bar. Alex è un acceso appassionato di musica classica e soprattutto di Beethoven, che chiama affettuosamente il buon vecchio Ludovico Van; nel locale Korova, frequentato da artisti e personaggi televisivi, una donna improvvisa un bel canto, precisamente l'inno "Alla gioia" di Schiller dal quarto movimento (Presto) della nona sinfonia op. 125, composta, per l'appunto, da Beethoven. Al termine Dim sbeffeggia la cantante e Alex si indigna per il gesto incivile, colpendogli violentemente le gambe con il suo bastone. Dim non accetta il richiamo e sfida Alex lasciandogli la scelta delle armi da usare, ma quando questi si mostra tutt'altro che impaurito e gli propone una sfida al coltello, si scusa dicendo di essere stanco e suggerisce al gruppo di andare a dormire, trovandone il consenso. Giunto a casa, Alex nasconde il bottino delle scorrerie in un cassetto e, ascoltando la Nona di Beethoven, si addormenta sognando epiche scene catastrofiche, come esecuzioni, esplosioni ed eruzioni vulcaniche. La mattina seguente, la madre di Alex sprona il figlio ad andare a scuola, ricordandogli che non ci è andato mai durante la settimana, ma Alex le risponde che soffre di un terribile mal di testa (che chiama "Gulliver") e che non ci andrà per non danneggiare la sua educazione. Ella accetta passivamente le motivazioni del figlio, riferendole al marito, chiedendosi quale lavoro notturno svolga Alex, ma non potendo o non volendo approfondire la questione, i genitori si dimostrano completamente impotenti. Alzatosi dal letto, Alex scopre che la madre ha fatto entrare in casa il signor Deltoid, ispettore giudiziario minorile. Deltoid ricorda ad Alex che è già stato condannato una volta e che un'altra eventuale condanna lo porterebbe non più al correzionale ma in carcere: questo per Alex rappresenterebbe un fallimento che non intende accettare. Gli riferisce poi di essere a conoscenza della rissa con la banda di Billy Boy e che sono stati fatti i loro nomi ma mancano le prove per incriminarli. Alex spudoratamente tranquillizza Deltoid, affermando di essersi tenuto lontano dai guai. Successivamente Alex esce e si reca in un negozio di dischi per ritirare una sua ordinazione. Vede al bancone due belle ragazze e decide di invitarle a casa sua "per ascoltare la musica". Giunti a destinazione, i tre hanno un rapporto sessuale col sottofondo del Guglielmo Tell; si scopre poi che è solo un sogno, a conferma della sua ossessione al sesso. Tra i vari dischi esposti nel negozio si possono scorgere il vinile della colonna sonora di 2001: Odissea nello spazio, Magical Mystery Tour dei Beatles e Atom Heart Mother dei Pink Floyd. Più tardi, scendendo le scale del suo condominio, Alex trova i Drughi ad aspettarlo. Dim si mostra sarcastico e Alex ricambia minaccioso le sue battute. Georgie lo blocca dicendogli che ci saranno delle novità: la prima è che Alex non dovrà più sfottere Dim, la seconda è il dissenso sulla spartizione del bottino delle loro scorrerie, che finisce sempre per la maggior parte nelle mani di Alex, infine accenna a un piano per un furto da compiersi quella stessa notte. Usciti dal palazzo Alex riflette, pensando che da quel momento Georgie sarebbe stato il capo della banda e che avrebbe preso le decisioni con l'appoggio di Dim, perciò decide di ristabilire le posizioni. Mentre il gruppo sta camminando accanto a un lago artificiale, Alex, ispirato dall'ouverture della Gazza ladra (celebre pezzo di Rossini) in sottofondo, assale selvaggiamente i due e li getta in acqua, ferendo Dim a una mano. Dopo la rissa, il gruppo si ritrova in un pub, dove Alex ribadisce la sua leadership e convince Georgie a illustrargli il piano che aveva in mente. L'idea è quella di rapinare, con le stesse modalità della "visita a sorpresa", una casa adibita a clinica per dimagrire, dove al momento vive solo l'attempata proprietaria con un gran numero di gatti. La sera stessa i quattro si recano sul posto. Alex prova a farsi aprire la porta nel modo consueto, ma la donna, allarmata dal precedente episodio di violenza appreso dai giornali, non apre e chiama la polizia. Alex riesce comunque a entrare da una finestra e, dopo uno scambio di feroci battute e una breve colluttazione, colpisce la donna con una scultura a forma di fallo. Udendo le sirene della polizia in arrivo, Alex esce tentando di fuggire, ma i Drughi lo stanno aspettando e Dim lo colpisce con una bottiglia di latte più in faccia, lasciandolo ferito in balia della polizia. Arrestato, Alex viene dapprima picchiato dai poliziotti, che mal sopportano la sua strafottenza. Viene poi informato da Deltoid, nel frattempo sopraggiunto, della morte della donna, e riceve da questi uno sputo in faccia, dovuto alla rabbia per il suo fallimento. Dopo un breve processo, Alex viene condannato a 14 anni di carcere per omicidio.

La cura Ludovico. Alex in carcere si sente come una preda tra i predatori, tra uomini violenti e perversi quanto e più di lui. Decide così di mantenere una buona condotta, guadagnandosi le simpatie del cappellano e imparando a memoria versi della Bibbia, naturalmente prediligendo le parti che gli richiamano episodi di violenza che evidentemente gli mancano. Dopo aver scontato due anni di carcere, viene a conoscenza di un'iniziativa del nuovo Governo salito in carica, che promette la scarcerazione immediata a patto che ci si sottoponga a un innovativo programma di "rieducazione": il trattamento Ludovico. Alex si fa quindi notare dal Segretario per gli affari interni in visita al carcere, viene scelto per il trattamento e, con il pensiero rivolto alla scarcerazione in solo due settimane, accetta tutte le condizioni. Nonostante lo scetticismo del direttore della prigione e del capo delle guardie, Alex viene trasferito in un centro medico dove incomincia la cura, la quale consiste nella somministrazione di farmaci unita alla visione di lungometraggi dove sono contenute scene di violenza. La visione delle pellicole è "obbligata" dalla posizione di Alex, legato a breve distanza dallo schermo e con delle pinze che lo costringono a tenere gli occhi aperti. Le scene di violenza insieme con l'effetto dei farmaci, incominciano a provocare in lui delle sensazioni di dolore e di nausea che tendono ad aumentare a mano a mano che il trattamento prosegue fino a coinvolgere, oltre alle immagini di violenza e di sesso, anche la musica di sottofondo della proiezione che, durante la visione di un documentario su Hitler, è la nona Sinfonia di Beethoven. Al termine della cura Alex viene portato in una sala e sottoposto ad alcune prove a cui assistono, oltre al Segretario per gli affari interni, alcune importanti autorità, per mostrar loro il buon risultato del condizionamento. Dapprima Alex subisce maltrattamenti e umiliazioni da parte di un attore e rimane impotente perché, appena cerca di reagire violentemente, viene assalito dalla fortissima sensazione di nausea. Nella seconda parte del test entra in sala una bellissima ragazza in topless, e appena Alex allunga le mani verso il suo seno cercando di violentarla seduta stante, viene nuovamente colto dalla nausea e si accascia a terra dolorante. Il Segretario osserva compiaciuto il successo del trattamento Ludovico e decide di farlo entrare immediatamente in vigore come soluzione ai problemi della criminalità violenta e del conseguente affollamento delle prigioni, nonostante l'obiezione del cappellano del carcere che contesta l'annullamento del libero arbitrio nei confronti del soggetto, il quale non sceglie liberamente di operare il bene, ma è costretto ad astenersi dalla violenza e dalla sopraffazione solo per la sofferenza e il dolore che ciò gli provoca.

Il rientro nella società. Alex viene scarcerato, ma il suo rientro nella società è tragico: tutte le persone che prima, quando lui era più forte e violento erano sue vittime, nel momento in cui la situazione si capovolge ed è lui a essere completamente indifeso e innocuo, rovesciano i ruoli e prendono il suo posto nel comportarsi da carnefici, vendicandosi.

Tornato a casa, scopre che i suoi genitori hanno affittato la sua stanza a un altro ragazzo; quando questi si mostra ostile nei suoi confronti, Alex vorrebbe aggredirlo ma viene bloccato dalla nausea. Alex allora se ne va di casa senza essere trattenuto dai familiari. Vagando per la città incontra casualmente il barbone aggredito in precedenza da lui e dagli altri Drughi, il quale, dopo averlo riconosciuto, si vendica picchiandolo insieme con altri anziani senzatetto. Di nuovo, Alex non riesce a reagire perché quando ci prova viene sempre colto dalla nausea. Alla fine viene salvato da due poliziotti, ma, una volta riavutosi, si accorge che i due agenti altri non sono che Dim e Georgie, divenuti ora tutori della legge. I due, memori delle sue prepotenze e consapevoli che la cura ha reso Alex incapace di difendersi, lo portano fuori città ammanettato e lo torturano immergendogli la testa in una vasca piena d'acqua e percuotendolo con il manganello. Ferito e disperato, Alex raggiunge una casa per chiedere aiuto, ma la casa è quella dello scrittore Frank Alexander, ora invalido e vedovo dopo la morte della moglie, dovuta a suo avviso allo shock che la donna ha subito durante e dopo lo stupro. In un primo momento lo scrittore non riconosce Alex, per via del travestimento che portava all'epoca dell'aggressione. Frank è un oppositore del governo e, riconoscendo Alex come una vittima del trattamento Ludovico, promette di aiutarlo, quindi gli prepara un bagno caldo e convoca a casa sua altri oppositori politici allo scopo di screditare il governo e la sua terapia. Ripresosi, Alex incomincia a cantare nella vasca da bagno Singin' in the rain. Lo scrittore riconosce allora la voce dell'autore della violenza subita e prepara la propria vendetta: prima narcotizza Alex, poi, una volta ottenute da lui le informazioni per screditare il governo, lo chiude in una stanza e gli fa ascoltare ad alto volume la nona Sinfonia di Beethoven, provocandogli un dolore straziante. Alex si convince a cercare nella morte la liberazione dalla sua sofferenza e si getta dalla finestra.

Epilogo. Alex si risveglia molto tempo dopo in un letto d'ospedale, dopo un lungo coma. Raggiunto dai genitori, li respinge, memore del loro comportamento durante e dopo la permanenza in carcere. Nel periodo della convalescenza, una psichiatra gli fa un test nel quale egli deve aggiungere la battuta mancante in alcune vignette. Alex risponde con spacconeria e strafottenza, rendendosi presto conto di non provare più il malessere che accompagnava la propria aggressività, mutamento dovuto probabilmente allo shock intervenuto a seguito del tentato suicidio e alle cure ricevute durante il coma. Nel frattempo la stampa, venuta a conoscenza dell'accaduto, attacca duramente il governo per i metodi coercitivi usati su di lui. Un giorno Alex riceve una visita del Segretario per gli affari interni, preoccupato per lo scandalo causato dalla vicenda. Il Segretario, con atteggiamento remissivo e conciliante, gli offre il proprio appoggio e quello del governo in cambio della sua collaborazione, al fine di assicurare la buona fede e soprattutto la tenuta del governo, e informa Alex che lo scrittore Alexander è stato messo, insieme con i suoi colleghi cospiratori, in condizione di non nuocergli più. Alex accetta l'accordo, grazie al quale la sua vita potrà proseguire con un buon lavoro, una buona posizione e una retribuzione adeguata. Chiede al Segretario di diventare il capo della polizia: una posizione ideale per lui, per esercitare violenza in modo legale. Questo gli permetterebbe poi di ritornare capo dei suoi ex-Drughi ora poliziotti e vendicarsi di quando lo avevano incontrato indifeso a causa della cura, percuotendolo e seviziandolo. Il politico, preoccupato, gli propone in prima battuta di diventare un semplice poliziotto ma, ricattato da Alex, accetta anche questa condizione (esiste una versione del film dove questa parte è stata tagliata). La macchina della propaganda si mette immediatamente in moto e un grande numero di giornalisti e di fotografi entra nella stanza dove i due, stringendosi con grande cordialità la mano, rassicurano l'opinione pubblica in merito alla loro nuova collaborazione e amicizia. Alex immagina la sua nuova vita trascorrere come prima tra sesso, musica e violenza, ma libera dalle angosce dovute alla legge, poiché egli ora lavora per essa.

Il sequel di «Arancia meccanica» Storia di una riscoperta. Pubblicato domenica, 28 aprile 2019 da Corriere.it. Lo scrittore britannico Anthony Burgess (Manchester, 25 febbraio 1917 – Londra, 22 novembre 1993) aveva immaginato un seguito per la storia di Alex, il giovane con la passione per «il buon vecchio Ludovico van» e per la violenza estrema, protagonista del romanzo Un’arancia a orologeria (A Clockwork Orange, 1962), da cui il regista Stanley Kubrick trasse l’ispirazione per il suo film del 1971 interpretato tra gli altri da Malcolm McDowell e una fenomenale colonna sonora che gioca con Beethoven Rossini e Purcell: la pellicola l’anno successivo ottenne la nomination all’Oscar. Il sequel era nascosto tra le carte dello scrittore, nella casa che aveva acquistato a Bracciano, a nord di Roma, rimasta abbandonata per decenni dopo la sua morte avvenuta nel 1993. Quanto al leggendario libro di Burgess, in Italia era stato pubblicato nel 1969da Einaudi cui si deve anche l’edizione più recente, che ha adottato il titolo «cinematografico» di Arancia meccanica nel 2014 nella traduzione di Floriana Bossi, con una testimonianza dell’autore e un’intervista a Kubrick. Si tratta di un libro incompiuto, di circa 200 pagine scritte a macchina, dal titolo La condizione a orologeria. A parlare del ritrovamento alla Bbc è stata la Fondazione Internazionale Anthony Burgess, che ha sede a Manchester, dove il lavoro è stato spedito insieme con altre opere e oggetti appartenuti allo scrittore quando la casa italiana fu venduta. La vicenda è tornata d’attualità grazie al racconto che Andrew Biswell, direttore della Fondazione e tra gli artefici della scoperta, ha fatto alla Bbc e alla Cnn dei contenuti di quel testo sconosciuto, proprio mentre a Londra si inaugurava la grande mostra su Kubrick (al Design Museum fino al 15 settembre). L’obiettivo di Burgess era rispondere al panico emotivo e morale suscitato poche settimane prima dall’adattamento cinematografico che Kubrick aveva fatto del suo romanzo più famoso. Nelle pagine dattilografate, con molte note aggiunte a mano, l’autore aveva sviluppato una serie di riflessioni sulla condizione umana. «Il lavoro non è concluso ma c’è molto materiale. Se si mette insieme si capisce che cosa avrebbe potuto essere», ha osservato Biswell, aggiungendo che il libro offre «ulteriori dettagli sull’intero spettro dei pensieri e della concezione che Burgess aveva della cultura, nel periodo immediatamente successivo all’uscita del film». L’urgenza di una risposta dello scrittore era legata al clamore e alle polemiche suscitati dal film, con l’escalation di «ultraviolenze» fisiche e sessuali messe in atto da Alex e dalla sua banda in una Gran Bretagna futuribile e al contrappasso subito dal protagonista dopo l’arresto: la rieducazione alla «non violenza» frutto di una indigestione di filmati di crimini e atrocità che è costretto a vedere e la vendetta delle sue vittime alla quale non riesce a reagire. Il successo dell’adattamento di Kubrick aveva moltiplicato la popolarità del libro. «Burgess sentì fortemente che era sotto tiro», rileva Biswell riferendosi all’accusa che il film incitava a compiere cose malvagie. In un capitolo del manoscritto, Burgess scrive che i giovani all’epoca avevano imparato uno «stile di violenza» ma non la violenza stessa, che a suo giudizio era insita in alcune persone. In un altro, riflette sull’impatto della tv e dei mass media sulla gente negli anni Settanta. Descrive l’uomo come «prigioniero di un mondo di macchine, incapace di crescere come essere umano e di diventare sé stesso». Il testo avrebbe dovuto avere il corredo di una serie di circa 80 fotografie sul tema della libertà e dell’individuo. Lo stesso titolo, La condizione a orologeria, si riferisce al «sentirsi alienati, in particolare a causa dei mass media. In questo senso è una cronaca su ciò che succede a lui. La sua vita — conclude Biswell — era stata sconvolta dal successo del film».

Pensionato ucciso a Manduria, il gip: "Maggiorenni in carcere perché famiglie incapaci di educarli e controllarli". L'ordinanza del gip che ha disposto il carcere per i due ragazzi di 19 e 22 anni, stessa misura adottata per i sei minorenni. Il giudice: "Senza freni inibitori". Chiara Spagnolo 3 maggio 2019 su La Repubblica. "I nuclei familiari degli indagati hanno dato prova di incapacità a controllare ed educare i giovani": è questo il motivo per cui sono finiti in carcere gli otto ragazzi che avrebbero aggredito il pensionato sessantaseienne di Manduria Antonio Stano, deceduto il 23 aprile. Le gip Paola Morelli e Rita Romano (che hanno esaminato rispettivamente le posizioni dei sei minorenni e dei due maggiorenni) hanno accolto le richieste della procuratrice Pina Montanaro e del pm Remo Epifani, disponendo per tutti la custodia cautelare in carcere. I sei minori sono stati trasferiti dalle due comunità di accoglienza di Bari e Lecce in cui si trovavano al carcere minorile Fornelli di Bari. Tutti e otto erano stati sottoposti a fermo il 30 aprile, con le accuse di tortura aggravata, danneggiamento, sequestro di persona e violazione di domicilio. Gli avvocati difensori avevano chiesto l'applicazione di misure meno restrittive del carcere ma le gip hanno ritenuto necessario allontanare i ragazzi dalle famiglie, considerato che - secondo la procura ordinaria e minorile - i genitori di molti di loro erano al corrente delle violente aggressioni ai danni di Stano e non hanno fatto nulla per fermare i figli violenti, aiutandoli addirittura nel tentativo di eludere le indagini. Anche in considerazione di tale ragione, gli inquirenti avevano chiesto il trasferimento in carcere, ma al termine degli interrogatori del 2 maggio, nel quale gli indagati hanno ammesso le loro responsabilità, inchiodati dai video che riprendono le aggressioni nei confronti di Stano, divulgati sulla chat "Comitiva degli orfanelli". "Stano è stato fatto oggetto di un  trattamento inumano e degradante, braccato dai suoi aguzzini, terrorizzato, dileggiato, insultato anche con sputi, spinto in uno stato di confusione e disorientamento, costretto ad invocare aiuto per la paura e l'esasperazione di fronte ai continui attacchi subiti e, di più, ripreso con dei filmati (poi diffusi in rete nelle chat telefoniche) in tali umilianti condizioni": così scrive la gip Romano nell'ordinanza di custodia cautelare per i due maggiorenni. "La misura della custodia cautelare in carcere - aggiunge - appare sostanzialmente adeguata alla gravità dei fatti, avendo gli indagati dimostrato notevole inclinazione alla consumazione di reati, totale inaffidabilità e completa assenza di freni inibitori". "Né - rileva - vi è misura diversa meno grave rispetto a quella anzidetta idonea a garantire le esigenze di tutela della collettività stante la personalità dei due indagati" che "non offrono alcuna garanzia certa di rispetto degli obblighi di una misura cautelare meno afflittiva, dovendosi pertanto fortemente limitare la loro libertà di movimento per impedire la ricaduta nel delitto". Secondo la giudice, i nuclei familiari dei due indagati "hanno dato prova di incapacità a controllare ed educare i due giovani", da qui la decisione di escludere la concessione degli arresti domiciliari. La gip ha sostanzialmente condiviso l'impianto accusatorio della Procura, anche in relazione al reato di tortura. "Giravano in rete (su YouTube e sulle chat degli indagati e dei loro amici) filmati che riprendevano i maltrattamenti in danno dello Stano - evidenzia - e che erano divenuti merce di scambio tra i diversi giovani che li ricevevano sui loro telefoni o vi si imbattevano in Internet". "Non vi è dubbio - conclude- che nel caso in esame le condotte poste in essere dagli odierni indagati e dai loro coindagati minorenni" sono state "perpetrate in danno di un soggetto affetto da disabilità mentale che viveva in un evidente stato di abbandono, di disagio sociale e che, pertanto, versava in un chiaro stato di minorata difesa".

I gip dispongono il carcere per 6 minori ed i due maggiorenni della "baby-gang" di Manduria. Il Corriere del Giorno il 3 Maggio 2019. I minori per i quali è stato confermato il fermo e disposto il carcere, secondo il gip Morelli potrebbero inquinare le prove o ripetere gesti violenti. Anche per i due maggiorenni il Gip del Tribunale Penale Ordinario di Taranto, la dottoressa Alessandra Romano ha convalidato lo stato di fermo e disposto la detenzione cautelare depositando alla mezzanotte di ieri la sua decisione. La dottoressa Paola Morelli, Gip del Tribunale per i minorenni di Taranto,  non ha convalidato il fermo per la mancanza del pericolo di fuga ma ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per i sei minori (due 16enni e quattro 17enni) accusati di tortura, sequestro di persona, danneggiamento e violazione di domicilio, nell’inchiesta sulla morte del 66enne di Manduria Antonio Stano. I minori per i quali è stato confermato il fermo  il gip Morelli ha disposto il carcere, ritenendo che dall’esterno potrebbero inquinare le prove o addirittura ripetere gesti violenti. Per i due maggiorenni Gregorio Lamusta di 19 anni  ed Antonio Spadavecchia di 23 anni entrambi sottoposti a fermo ed accusati degli stessi reati, il gip dr.ssa Rita Romano del Tribunale Penale Ordinario di Taranto, depositando alla mezzanotte di ieri la sua decisione ha convalidato lo stato di fermo e disposto la detenzione cautelare. “La misura della custodia cautelare in carcere – scrive il gip del Tribunale ordinario  – appare sostanzialmente adeguata alla gravità dei fatti, avendo gli indagati dimostrato notevole inclinazione alla consumazione di reati, totale inaffidabilità e completa assenza di freni inibitori“. “Né vi è misura diversa meno grave rispetto a quella anzidetta idonea – rileva il Gip – a garantire le esigenze di tutela della collettività stante la personalità dei due indagati che non offrono alcuna garanzia certa di rispetto degli obblighi di una misura cautelare meno afflittiva, dovendosi pertanto fortemente limitare la loro libertà di movimento per impedire la ricaduta nel delitto“. Secondo il giudice per le indagini preliminari , i nuclei familiari dei due indagati “hanno dato prova di incapacità a controllare ed educare i due giovani”, da qui la decisione di escludere la concessione degli arresti domiciliari. “Stano è stato fatto oggetto di un trattamento inumano e degradante, braccato dai suoi aguzzini, terrorizzato, dileggiato, insultato anche con sputi, spinto in uno stato di confusione e disorientamento, costretto ad invocare aiuto per la paura e l’esasperazione di fronte ai continui attacchi subiti e, di più, ripreso con dei filmati (poi diffusi in rete nelle chat telefoniche) in tali umilianti condizioni”, scrive il gip confermando il carcere. Nell’inchiesta sono coinvolti altri sei minori, già iscritti nel registro degli indagati, ed altri sono in via di identificazione. Stano aveva subito una lunga serie di aggressioni e violenze in casa e per strada. I bulli durante le spedizioni punitive nei confronti del pensionato, che soffriva di disagio psichico, filmavano le vessazioni e gli atti di violenza e poi li postavano nella chat di Whatsapp denominata “La comitiva degli orfanelli”.

Esclusiva: l'ordinanza cautelare per la "baby gang" di Manduria". Il Corriere del Giorno il 3 Maggio 2019. Come sempre il CORRIERE DEL GIORNO preferisce far parlare i documenti dell’ Autorità Giudiziaria, invece di correre dietro ad azzeccagarbugli o appartenenti alle forze dell’ ordine desiderosi di notorietà pubblica, a fantasiose ricostruzioni giornalistiche. In questi giorni avete letto e sentito di tutto e di più, su giornali e televisioni, con tante ipotesi, ricostruzioni, dichiarazioni sulla triste vicenda di Manduria, comune in provincia di Taranto, commissariato per infiltrazioni mafiose, dove una baby gang ha letteralmente distrutto la vita del povero pensionato 66enne  Antonio Stano…Come sempre il CORRIERE DEL GIORNO preferisce far parlare i documenti dell’ Autorità Giudiziaria, invece di correre dietro ad azzeccagarbugli o appartenenti alle forze dell’ ordine desiderosi di notorietà pubblica, a fantasiose ricostruzioni giornalistiche. Noi siamo d’accordo con il “rigore” delle Procure di Taranto, da quella ordinaria a quella dei minorenni , nelle persone dei magistrati Capristo, Montanari ed Epifani. E’ arrivato il momento di applicare una giustizia giusta e riportare il senso di giustizia in certe comunità dove la legalità latita da parecchio tempo. E’ arrivato il momento anche per le forze dell’ ordine a livello, provinciale, regionale e nazionale, di porsi una domanda: ma se a Manduria tutti “sapevano”, dove erano e come mai non sapevano nulla gli appartenenti delle Forze dell’ ordine presenti con un Commissariato (Polizia), una Compagnia (Carabinieri) ed una tenenza (Guardia di Finanza )? Sono ancora tante le domande a cui le indagini dovranno dare una risposta. Non basta una (sacrosanta) ordinanza cautelare, e qualcuno che va in conferenza stampa a dire “lo abbiano rifocillato ed offerto anche da mangiare“. Ha ragione il Procuratore Capristo quando dice “mi aspetto di individuare queste sacche di indifferenza attraverso l’ascolto di persone in loco ma anche tra chi ricopre ruoli istituzionali“. E noi siamo con lui, con questa linea di chiarezza, rigore e trasparenza. Taranto e la sua provincia non possono essere rappresentate sempre e solo con questi casi di cronaca nera. Lo chiedono e ne hanno diritto tutti i cittadini di una provincia che è bene ricordarlo a qualcuno, è grande quanto l’intera Basilicata di cui ha lo stesso numero di abitanti.   

N. 2895/19 RG.N.R N. 2936/19 RG.

GIP TRIBUNALE DI TARANTO

Ufficio del giudice perle indagini preliminari

Ordinanza di applicazione di misure cautelari

Il Giudice, dott. Rita Romano, letti gli atti relativi al fermo di:

LAMUSTA Gregorio, nato il 02.03.2000 a Manduria (TA), ivi res.te alla via Gruppo Cremona nr. 40/a, di fatto ed elettivamente dom.to in Manduria alla via Leontini n.11;

SPADAVECCHIA Antonio, nato il 04.07.1996 a Manduria (TA), ìvi res.te ed elett.te dom.to alla via San Pietro Pal. C.

esaminata la richiesta del PM di convalida del fermo e di applicazione nei confronti dei predetti della misura cautelare della custodia in carcere per i seguenti reati:

A) del reato di cui agli artt. 81-110- 112 comma 10 nr. 1) e nr.·4) - 613 bis comma 40 c.p. perché, in concorso tra loro e con i minorenni Raho A., Dimitri R., Distratis M., Pisano A., Perrucci A. e Capogrosso E., in esecuzione di un medesimo disegno criminoso avente come obiettivo l'aggressione fisica, la derisione e la vessazione di Stano Antonio, di anni 66 individuato quale l'bersaglio" per le sue condizioni di minorata difesa, in quanto soggetto solo ed affetto da disturbi psichici, in circostanze e tempi diversi, con violenza verbale e fisica ed agendo con particolare crudeltà , cagionavano al predetto acute sofferenze fisiche e un verificabile trauma psichico, tale da indurlo da circa metà marzo a non uscire da casa - neanche per acquistare generi di prima necessità così da cadere in uno stato di astenia - per terrore di essere oggetto di molestie ed aggressioni , e ciò facevano con più condotte e/o comunque ponendo in essere azioni degradanti per la dignità della persona che venivano filmate attraverso l'utilizzo di un telefono cellulare per poi essere diffuse via web. In particolare: a) il Lamusta , in concorso con i minorenni Raho ,Dimitri Destratis e Pisano, dopo aver sfondato a calci la porta di ingresso dell'abitazione dello Stano, nonostante le grida di aiuto e di disperazione del predetto, lo colpivano (dapprima il Raho e poi Dimitri)con schiaffi al volto e calci alle gambe e danneggiavano (il Dimitri) la tapparella posta davanti alla porta di servizio, il tutto mentre lo Stano veniva deriso ed accerchiato sull'uscio di casa ed il Pisano riprendeva la scena con il telefono cellulare del Lamusta, lì presente; b) Lamusta e Spadavecchia in concorso con i minorenni Raho, Oimitri, Distratis, Pisano e Perrucci e ad un altro gruppo di ragazzi già presenti sul posto ed in fase di identificazione, dopo aver sfondato a calci la porta di ingresso dell'abitazione dello Stano, nonostante le grida di aiuto e di disperazione dello stesso, si introducevano nell'abitazione del predetto e, accerchiandolo e costringendolo in un angolo, lo colpivano violentemente su tutto il corpo con mazze, bastoni e scope nel mentre la persona offesa cercava di pr6teggersi il volto con le braccia ed urlava chiedendo disperatamente aiuto ed invocando /'intervento delle Forze dell'Ordine; il tutto tra risate , ghigni ed insulti degli autori della suddetta condotta che veniva anche in questa occasione ripresa dal Pisano con il cellulare del Lamusta ;  c) il Lamusta" in concorso con i minorenni Raho, Dimitri:, Distratis e Pisano dopo aver sfondato (Raho e Dimitri) a calci l'abitazione dello Stano, aggredivano quest'ultimo portatosi sull'uscio deridendolo e svuotandogli addosso due bottiglie di acqua che, ormai vuote, venivano dapprima impugnate e poi lanciate contro il predetto. Partecipando con i detti minori alla commissione di delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza. Fatti aggravati essendo da essi derivate lesioni personali. In Manduria fino al 6 aprile 2019

B) del reato di cui agli artt. 81 - 110- 112 comma 10 nr. 1) e nr. 4) - 61 nr. 2)- 605 c.p. perché in concorso con i minorenni Raho, Dimitri, Distratis, Pisano e Perrucci, dopo avere fatto ingresso all'interno dell'abitazione di Stano Gregorio Antonio, tenendo la condotta descritta al capo A) ovvero accerchiando lo Stano e costringendolo in un angolo, colpendolo violentemente su tutto il corpo con mazze, bastoni e scope, mentre questi gridava ed implorava aiuto e soccorso, lo privavano del tutto - per un tempo apprezzabile - della libertà di movimento: con l'aggravante della connessione teleologica avendo commesso il reato, per il quale è previsto l'arresto in flagranza, unitamente a persone di età minore, al fine di eseguire il reato di cui al capo A). In Manduria epoca coincidente o prossima al 14/3/2019

C) del reato di cui agli artt. 81- 110- 112 comma 1°nr. 1) e nr. 4) 635 - 61 n.2 cp perché in concorso con i minorenni Raho, Dimitri, Destratis ,Pisano e Perrucci, in più occasioni, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso', danneggiavano la porta di ingresso, la finestra e la tapparella posta in corrispondenza dell'entrata di servizio dell'abitazione di Stano Antonio Cosimo; cose esposte per destinazione e necessità alla pubblica fede. 1/ fatto commettendo al fine di eseguire i delitti di cui ai capi A), B), D) e partecipando unitamente a persone ,di età minore a reato per il quale è previsto l'arresto in flagranza. In Manduria, nel mese di marzo e fino al 6.4.2019

D) del reato di cui agli artt. 81-110- 112 comma 1° nr.! 1) e nr. 4) -614 c.1 e 4 - 61 n.2perché, in concorso, con i minori Raho, Dimitri, Distratis ,Pisano, Perrucci e Capogrosso dopo aver sfondato a calci la porta di ingresso, s'introducevano e si trattenevano nell'abitazione di Stano Antonio Cosimo contro la volontà dello stesso, e ciò al fine di commettere i reati di cui ai capi che precedono, partecipando unitamente a persone di età minore a reato per il quale è previsto l'arresto in flagranza. In Manduria epoca coincidente o prossima al 14/3/2019.

Rilevato che il P.M. ha chiesto la convalida del fermo per il delitto sub A) e l'applicazione della misura cautelare della custodia in carcere per entrambi gli indagati per tutti i titoli di reato in contestazione, ravvisando gravi indizi di colpevolezza a carico degli stessi in relazione ai reati loro ascritti, nonché le esigenze cautelari ex art. 274, comma 1, lett. a), b) e c) c.p.p.;

preso atto delle dichiarazioni rese dai fermati nel corso dell'udienza di convalida e delle richieste difensive sullo status liberlatis avanzate dai rispettivi difensori i quali tutti si sono opposti alla convalida del fermo;

OSSERVA I FATTI RISULTANTI DAGLI ATTI TRASMESSI DAL PUBBLICO MINISTERO

Dalla C.n.L del Commissariato di Manduria del 10 aprile 2019 e seguiti del 14 del 24 e del 25 aprile 2019 e relativi allegati emerge quanto segue.

Il 14 marzo 2019 personale in servizio presso il predetto Ufficio interveniva presso l'abitazione, sita in Manduria, di Stano Antonio Cosimo il quale riferiva di essere da diversi giorni vittima di continue aggressioni ad opera di un gruppo di giovani. Il successivo 5 aprile MALORGIO Stefania, vicina dello Stano, si presentava presso gli uffici del commissariato per presentare un esposto, riferendo così che, da circa un mese, ignoti si recavano, nelle ore serali, presso l'abitazione dello Stano (persona affetta da disabilità mentale che abitava da sola) procurando danneggiamenti all'immobile, sferrando violenti calci sulla porta di casa e lanciando pietre sugli infissi; che la stessa vittima le aveva riferito che, in una specifica occasione, i malfattori erano addirittura riusciti ad entrare in casa. Sentita a s.Lt. la sig.ra Malorgio riferiva che a partire dal periodo di carnevale di quest'anno lo Stano, già da diversi anni vittima di pesanti scherzi e vessazioni da parte di diverse persone a causa del suo stato di solitudine e di abbandono, aveva iniziato ad essere destinatario, con frequenza pressoché quotidiana, di vere e proprie aggressioni ad opera di alcuni individui a lei sconosciuti i quali, in più occasioni, si erano presentati presso l'abitazione dell'anziano a bordo di due autovetture: una Fiat Grande Punto di colore grigio chiaro ed un'altra di colore bianco panna; che lo Stano aveva riferito a suo marito Digiacomo Cosimo di essere stato aggredito e picchiato, qualche giorno dopo carnevale, da persone travisate da maschere; che il 12 marzo scorso nelle ore serali alcune persone, che indossavano delle maschere, erano passate davanti all'abitazione dello Stano urlandogli contro delle parolacce e costringendolo a barricarsi in casa poiché dalle parole erano passati a colpire violentemente con delle mazze il portone d'ingresso. La Malorgio ha inoltre riferito che il più allarmante degli episodi si era verificato dopo il 14 marzo, ovvero dopo il primo intervento della polizia, quando verso le ore 00:30 ella aveva udito dei forti rumori (come se qualcuno stesse tentando di sfondare la porta dell'abitazione del sig. Stano) e subito dopo il suo vicino invocare aiuto aiuto polizia aiutatemi''); che perciò, ancorché intimorita, si era affacciata sulla strada udendo il rumore di una macchina che si allontanava a tutta velocità; che la vittima, qualche giorno dopo, le aveva riferito di quanto accaduto ovvero che diversi giovani, dopo aver sfondato la porta di ingresso, erano riusciti a penetrare in casa e dopo averlo selvaggiamente picchiato e aver devastato l'appartamento, gli avevano sottratto la somma di 300,00 euro; che perciò aveva fatto riparare, qualche giorno dopo carnevale, il portoncino blindato (che si era fatto montare l'anno scorso in sostituzione di una vecchia porta di legno), ma neppure ciò era servito perché i malfattori erano riusciti a sfondare nuovamente la porta. Sulla scorta di tali dichiarazioni la p.g. ha provveduto a svolgere i primi accertamenti sulla vicenda, dapprima, attraverso un sopralluogo, svolto  lo scorso 5 aprile, da cui è emerso che effettivamente sul portone blindato dell'appartamento del sig. Stano si notavano evidenti ed inequivoci segni di forzatura e danneggiamento oltre che impronte di calci sferrati sullo stesso ed altresì danneggiata risultava una porta finestra (il cui avvolgibile era stato divelto ed il vetro frantumato). Nella stessa occasione il predetto, che inizialmente non intendeva aprire la porta neppure alla polizia temendo nuove aggressioni e che si lasciava convincere solo dopo diverse rassicurazioni e dopo aver visto l'autovettura con i colori d'istituto riferiva di essere digiuno da circa una settimana poiché si era chiuso in casa e non usciva neppure per fare la spesa per la paura di incontrare i suoi aggressori. Sul posto veniva richiesto l'intervento di personale del 118 che sottoponeva a visita lo Stano; quindi la polizia ne raccoglieva la seguente denuncia: "Da sempre sono oggetto di scherno ed a volte di aggressioni da parte di ignoti. Questi a volte vengono sia in serata sia la notte e prendono a calci il portone di casa mia rivolgendomi insulti. Ricordo che circa un mese fa, dopo mezzanotte, hanno sfondato il portone blindato e sono penetrati dentro casa. Ricordo che quelli che sono entrati in casa erano 5 o 6 ed impugnavano delle mazze con le quali mi hanno ripetutamente percosso sulle mani, sui fianchi, sul ventre e ginocchia. Ricordo che in quell'occasione hanno buttato a terra un sacco di cose in casa tra cui un televisore che mi hanno rotto. Infine mi hanno rubato 300 euro e sono scappati via. Posso dire che questa non è la prima volta che con violenza riescono ad introdursi in casa mia e in ogni occasione hanno fatto dei danni e hanno portato via quello che capitava loro davanti. Purtroppo sono tuttora molto scosso e traumatizzato, tanto da non ricordare precisamente cosa. Di queste percosse e rapine subite non ho mai fatto .. denuncia perché ormai mi mancano le forze ed ho molta paura di ritorsioni da parte di questa gente violenta. Come potete vedere il portone di casa presenta molti danni e anche la porta-finestra e la tappare/la sono stati distrutti così come i vetri della finestra. So che i miei vicini di casa sono preoccupati per le mie condizioni di salute e per le aggressioni subite. .... Nelle occasioni in cui sono stato aggredito mi sono talmente spaventato da non ricordare i volti degli aggressori". Il giorno seguente, Stano Antonio Cosimo veniva trasportato presso l'ospedale di Manduria ove in ingresso gli venivano diagnosticate "astenia, dispnea in paziente con disagio sociale, paziente confuso"; le Sue condizioni di salute subivano tuttavia un improvviso peggioramento tanto da richiedere il ricovero presso il reparto di terapia intensiva. Qui lo stesso veniva a mancare il successivo 23 aprile per shock cardiogeno in seguito a peritonite da perforazione gastro-duodenale (rispetto a cui sono attualmente in corso accertamenti tecnici non ripetibili finalizzati ad individuare la causa ultima ed eventuali concause della morte). Dopo il ricovero dello Stano veniva individuato un testimone in Marti Stefano; costui, sentito il 9.4.2019, riferiva alla p.g. di aver notato, la notte tra venerdì 29 e sabato 30 marzo, nei pressi dell'abitazione dello Stano, alcune persone a bordo di una Fiat Punto di colore grigio chiaro tg. FT 086 RZ che lo avevano insospettito (poiché l'autovettura era ferma in mezzo alla strada col motore acceso proprio all'altezza dell'abitazione della p.o.). Alle dichiarazioni del Marti si aggiungevano quelle, rese in pari data, da sua moglie Dimitri Adele la quale riferiva alla polizia di aver notato, alla metà di marzo, il conducente della stessa autovettura Fiat Punto grigia sopra indicata che, giunto davanti all'abitazione dello Stano, era sceso dal mezzo quindi si era avvicinato ad una porta finestra dello stesso appartamento e l'aveva danneggiata sferrando sulla stessa un violento calcio. Veniva così individuata l'intestataria dell'autovettura in CoccioIi Filomena la quale dichiarava alla polizia che il veicolo era in uso esclusivo al proprio figlio LAMUSTA Gregorio. Quest'ultimo, convocato presso gli uffici del Commissariato, veniva sentito a s.L1. in data 9 aprile 2019. Le dichiarazioni dallo stesso rese in quella sede possono essere utilizzate integralmente nei confronti dello stesso dichiarante, oltre che erga alios, atteso che lo stesso Lamusta nel corso dell'interrogatorio all'udienza di convalida del fermo ha dichiarato di confermarle per intero, con due sole precisazioni di cui si dirà. Ebbene, si legge nel verbale delle s.i.t. sopra indicate quanto segue: "Da alcuni mesi ho incontrato un nuovo gruppo di amici con cui spesso esco la sera. Questi miei amici, tutti di Manduria, sono più o meno miei coetanei. Nel particolare si chiamano RAHO A., ..., DIMITRI R. ..., DISTRATIS M. ..., PISANO A. ... . da circa un mese che ci frequentiamo, siamo soliti incontrarci in piazza il sabato sera. lo sono l'unico ad avere la patente e quindi la macchina, una Fiat Punto di proprietà di mia madre, che utilizzo per uscire con i miei amici. Appena ho iniziato a frequentare i summenzionati ragazzi, un sabato sera di un mese fa circa, mentre eravamo in macchina, Rhao A. mi disse di recarmi nei pressi dell'oratorio S. Giovanni Bosco ave nell'abitazione di fronte all'entrata principale abitava una persona da lui conosciuta da diverso tempo e che a suo dire "era un pazzo". Antonio aggiunse "andiamo a sfotterlo”. Tutti insieme, sempre a bordo della mia autovettura, giunti presso l'abitazione di questo signore ci siamo fermati con la vettura. Antonio è sceso per primo dall'auto e ha iniziato a tirare calci alla porta d'ingresso. Poi anche Dimitri R. e Distratis M. sono intervenuti in ausilio a Rhao sferrando a loro volta dei calci contro la porta. Preciso che anche Riccardo e  Mario conoscevano quella persona da molto tempo. Considerata la violenza dei calci sferrati, si udivano delle urla di una persona di sesso maschile provenire dall'interno, che urlava implorando con disperazione" state fermi..... state fermi.... "e poco dopo considerata la violenza dei calci sferrati, la parla si apriva e si affacciava sull'uscio una persona di età sui 55 anni circa, di corporatura robusta, se non ricordo male un po' pelato, con un po' di capelli ai lati. Appena questa persona è uscita, senza alcun motivo Antonio gli ha sferrato un forte schiaffo sul volto e dei calci sulle gambe e mentre la vittima cercava invano di difendersi, l'altro amico Riccardo anche lui sferrava uno schiaffo al volto e dei calci sulle gambe, nonché staccava un pezzo di tapparella della porta di casa e faceva finta di scagliarlo sopra l'anziano. Durante l'accaduto, mentre io sostavo vicino alla mia auto, il mio amico PISANO A. riprendeva l'accaduto col mio cellulare che mi aveva chiesto in precedenza in quanto di migliore qualità. Nel frattempo, io li invitavo ad andar via, ma non mi ascoltavano. Dopo diversi minuti, siamo andati tutti via e sentivo la vittima che si lamentava e chiedeva aiuto. In questa occasione, nessuno di noi è entrato in casa. Dopo diversi giorni se non ricordo male, il sabato successivo, sempre del mese di marzo, unitamente a tutti gli amici summenzionati, in serata ci siamo nuovamente recati con la mia macchina presso l'abitazione dell'anziana vittima, infatti mentre eravamo in giro con la mia autovettura, A. RAHO ricevette una telefonata se non sbaglio da un tale – omissis - che da quello che ho capito probabilmente lo invitava a (aggiungerlo presso l'abitazione dell'anziano e infatti subito dopo Antonio mi diceva di recarmi presso tale abitazione. Giunti sul posto, vi era già un gruppo di sei/sette ragazzi amici di A. RAHO che io conosco soltanto di vista e che uno di questi so che si chiama MAZZA. Gli stessi nell'occasione stavano sferrando dei calci contro la porta di casa dell'anziano, spalancandola. La vittima si affacciava pregandoci di andar via ma tutto il gruppo (RAHO - DIMITRI - DISTRATIS - PISANO che riprendeva con il mio cellulare) e tutti i ragazzi che erano già sul posto in precedenza, entravano nell'abitazione, rincorrendo l'anziano che cercava rifugio in casa. lo nel frattempo entravo in casa per vedere cosa stessero facendo i miei amici e nella circostanza, notavo A. RHAO e altri due ragazzi che al momento non ricordo chi fossero, percuotere violentemente l'anziana vittima con dei bastoni e scope trovati in casa, con l'uomo che cercava di difendersi proteggendosi il volto con le braccia, gridando "aiuto... aiuto.....". Poco dopo tutto il gruppo andò via, in quanto sentimmo una signora, vicina di casa, urlare "andatevene che chiamo la Polizia " e pertanto andammo tutti via. Per quell'episodio, non sono a conoscenza se abbiano asportato qualcosa dall'abitazione, ma solo ieri ho appreso dalla chat del gruppo WhatsApp che A. RHAO chiedeva chi avesse asportato € 300,00 dall'abitazione ma nessuno del gruppo ha risposto. Preciso che in tale gruppo WhatsApp non sono presenti ragazzi dell'altro gruppo di cui non conosco gli appartenenti. Mentre nella chat del nostro gruppo, siamo soliti condividere dei video che ritraggono le percosse subite dalla vittima in diverse occasioni, in passato anche in un altro gruppo che ora abbiamo eliminato. I miei amici si raccomandavano a vicenda di non diffondere tali filmati, poiché preoccupati di eventuali conseguenze. Mi sono anche una terza volta sempre col solito gruppo e in quell'occasione Riccardo e Antonio dopo aver sfondato la porta con dei calci, l'anziano si portava sull'uscio e nel frattempo veniva bagnato con acqua da questi ultimi che impugnavano due bottiglie in plastica che una volta svuotate gli lanciavano contro. lo ho assistito alla scena sostando per strada, dopodiché ci allontanavamo. Pertanto io ho assistito nel totale a tre episodi: ma ho sentito dire dai miei amici che si erano recati già altre volte. Preciso altresì di non aver partecipato attivamente a tali “percosse" non ho mai picchiato l'anziana vittima ma, ho solo accompagnato i miei amici sul posto in quanto richiestomi da loro.Io non condividevo tali loro azioni e per quanto accaduto sono profondamente addolorato, infatti attualmente noli sto frequentando più. Vi fornisco i file audio, video e messaggi di testo contenuti nel mio telefono cellulare. I video riguardano alcuni filmati che sono stati girati mentre eravamo all'interno dell'abitazione dell'anziano, nei momenti in cui veniva vessato, aggredito, picchiato. I file audio e i messaggi di testo sono relativi alle conversazioni tramite WhatsApp che ho scambiato con i sopra citati "amici" dopo aver appreso la notizia del ricovero di “STANO". Ed infatti in quella circostanza il LAMUSTA forniva alla polizia il proprio telefono cellulare in cui risultavano registrati due files audio-video (video 1 e video 2) e schermate relative ai messaggi intercorsi tra i partecipanti al gruppo di whatsapp denominato "comitiva di orfanelli". Nel video n. 1 è riportata l'aggressione all'interno dell’abitazione dello Stano in cui la vittima viene accerchiata dai giovani che lo minacciano e lo percuotono con dei bastoni; si odono le urla disperate di Stano che, rintanatosi in un angolo della stanza posta in fondo al corridoio, tenta di ripararsi piegandosi e ponendo le braccia a difesa del corpo e del volto: sono riconoscibili - e sono stati riconosciuti sia dal LAMUSTA che dallo SPADAVECCHIA - quest'ultimo il quale indossa una maglia a strisce grigia e nera; LAMUSTA con un giubbotto rosso e gli occhiali; RAHO A. con un giubbotto rosso con un pellicciotto sul cappuccio; PERRUCCI A. con una felpa nera con strisce bianche modello Adidas; la scena è stata filmata da PISANO A.. Nel video n. 2 è registrata un'altra incursione presso l'abitazione di Stano A.: quest'ultimo fermo sull'uscio urla implorando i giovani aggressori di lasciarlo stare e di andare via, aggiungendo con voce piena di terrore e disperazione: "Sono solo, sono solo" ed invocando ripetutamente "Aiuto, aiuto. Polizia, Finanza, Carabinieri", così provocando violente e volgari risate di scherno dei suoi aggressori che continuano ad offenderlo, a deriderlo, finanche a sputargli addosso. Lo screenshot delle conversazioni intrattenute dai partecipanti al gruppo whatsapp "Comitiva di Orfanelli", composto da RAHO A., URBANO D., GRANDE L., CARROZZO G., MONTESARDO D., DISTRATIS M., PISANO A., LAMUSTA G., DIMITRI R. e RINACUTI A.)  riporta i commenti all'articolo di stampa pubblicato su un quotidiano locale (la Voce di Manduria) in cui si parla dell'intervento della polizia presso l'abitazione di Stano e del ricovero di quest'ultimo in ospedale ove si trovava in stato di coma: "G. Carrozzo - "se leggete tutto sulla voce si capisce - Dice che lu pacciu sta in coma"- A. Rhao - l'asini"- L. Grande - (riporta il ritaglio del giornale ed evidenzia la parte in cui si dice che gli investigatori avrebbero già individuato dei sospetti) – D. - ossia URBANO D. - "porco giuda - Vagnu' a seguire tre faccette che ridono con lacrime ... Ue lu (probabilmente Lu è  riferito a L. Grande) non mi esce a me" – L. Grande - "Voce di manduria" (riferimento alla testata giornalistica locale) - Dennis - "Vagnu' un consiglio.. - Eliminate tutto (chiaro riferimento ai video compromettenti da essi filmati) – A. Rhao "Eh"- G. Carrozzo - "riporta il messaggio di Dennis e scrive "Ma c'è cosa". È persino superfluo ribadire come si tratti nel caso in esame di documentazione fornita dall'indagato pienamente utilizzabile: nel verbale di s.i.t  si dà atto che LAMUSTA spontaneamente fornisce ai verbalizzanti i files audio, video e i messaggi di testo contenuti nel suo telefono cellulare; di talché nessuna irritualità è ravvisabile nella condotta della p.g. che peraltro ben avrebbe potuto anche sollecitare l'indagato alla consegna del telefono e dei documenti in esso registrati, posto che una tale sollecitazione può essere formulata anche prima della esecuzione di una perquisizione (art. 248 c.p.p.) disposta con decreto. Il Lamusta ha senz'altro aderito spontaneamente consegnando il telefono che, peraltro, è stato altresì successivamente sottoposto a sequestro convalidato dal P.M. in data 11.9.2019 (si cfr. Cass., sez. Il, 9.7.2009, n. 38964, P.G. in proc. Nacchia). Nel corso dell'interrogatorio all'udienza di convalida LAMUSTA ha precisato che quando dichiarò alla polizia di aver partecipato soltanto a tre incursioni in danno dello Stano non ricordava bene poiché era confuso e che, in realtà, egli si recò presso l'abitazione della vittima più di tre volte. Ed ancora ha rettificato quanto dichiarato in ordine ai colpi inferti con i bastoni dai suoi amici quando fecero irruzione in casa dello Stano, poiché, riguardando i filmati, ha notato che tali colpi non erano molto violenti e che più che per colpire la vittima erano serviti ad intimorirla poiché la maggior parte dei colpi avevano attinto soltanto le cose presenti nell'appartamento; e ha al riguardo ancora precisato che solo dalla visione dei filmati gli era stato possibile visionare la scena dello Stano accerchiato dai suoi amici che brandivano dei bastoni, in quanto immediatamente egli era uscito dall'appartamento poiché non riusciva a guardare tale scena di violenza. Durante l'interrogatorio l'indagato ha dichiarato che, fu RAHO a parlargli per primo di Stano chiedendogli se conoscesse "il pazzo di Manduria" e a portarlo presso l'abitazione della vittima raccontandogli che da circa sette anni lui ed altri ragazzi, che frequentavano il vicino oratorio, andavano frequentemente a "sfottere" la vittima; che' non era mai accaduto nulla e che non correvano alcun pericolo di essere scoperti poiché nella zona non vi erano telecamere; che, effettivamente, su youtube circolava un video risalente all'anno 2012 in cui si vedeva Stano Antonio maltrattato da un gruppo di giovani. Ha quindi aggiunto che la prima volta che si recò a casa di Stano era in compagnia di RAHO, DISTRATIS e DIMITRI e che i suoi tre amici, dopo aver colpito la porta con calci, ne avevano procurato l'apertura; che dall'appartamento era uscito un signore anziano e che i tre ragazzi lo avevano colpito con qualche calcio. Ancora che la volta seguente, mentre si trovava insieme a PISANO nella sua macchina, quest'ultimo ricevette una telefonata da RAHO il quale li invitò a raggiungere lui e gli altri ragazzi della comitiva a casa di Stano Antonio; che aderirono all'invito e una volta arrivati nel luogo suddetto vi trovarono diversi ragazzi, tra quelli da lui conosciuti, oltre a RAHO, anche SPADAVECCHIA Antonio, DIMITRI e DISTRATIS; che trovarono la porta già aperta e perciò tutti entrarono in casa dove i suoi amici trovarono delle mazze con cui iniziarono ad aggredire lo Stano il quale, accerchiato, tentava di difendersi alzando le braccia dinanzi al volto. La terza volta vi fu una nuova incursione ai danni' della vittima a cui parteciparono oltre al dichiarante anche RAHO, DIMITRI, DISTRATIS e PISANO; in tale circostanza i suoi amici colpirono, a calci la porta che si aprì; Stano uscì dall'appartamento e gli stessi iniziarono a bagnarlo. con delle bottiglie di acqua, mentre lui era rimasto a guardare la scena dalla sua macchina. Lamusta ha inoltre ammesso, così confermando quanto riferito alla polizia dalla signora Dimitri Adele, di avere in una circostanza sferrato un calcio sulla porta d'ingresso dell'abitazione della persona offesa. Ha poi aggiunto che tra i giovani di Manduria Stano A. era comunemente noto come "il pazzo" e che diverse persone si recavano a compiere atti molesti nei suoi confronti, immortalati anche in alcuni filmati che i suoi amici gli fecero visionare. Ha spiegato che negli episodi ai quali egli aveva partecipato era stato utilizzato il suo telefonino per filmare le scene poiché era quello di migliore qualità e perciò il PISANO solitamente glielo chiedeva per poter effettuare le registrazioni; che solo in una circostanza egli filmò una scena durante una delle solite visite alla vittima; che i filmati registrati sul suo telefono egli provvedeva ad inviarli al PISANO che poi li faceva circolare in varie chat. LAMUSTA ha inoltre, sempre nel corso dell'interrogatorio, visionato i filmati estratti dal suo telefono è da quello di MONTESARDO Davide e ne ha fornito una descrizione, indicando i soggetti ripresi ed anche i partecipanti a ciascun episodio che non appaiono nei filmati ma che ha riconosciuto dalla voce owero ha ricordato essere presenti. Con riferimento al coindagato SPADAVECCHIA, LAMUSTA non è stato in grado di ricordare se costui, presentatogli dal Raho nel marzo 2019, sia stato presente ad altre aggressioni in danno dello Stano oltre a quella sopra descritta verificatasi all'interno dell'abitazione della vittima colpita con delle mazze. In seguito alla visione del filmato n. 1 estratto dal telefono del LAMUSTA veniva quindi individuato tra gli aggressori anche l'odierno indagato SPADAVECCHIA Antonio. A carico del predetto, oltre alla visione del filmato suddetto, vi sono le dichiarazioni rilasciate dalla sua fidanzata DEFAZIO D.. Costei il 12 aprile si è presentata presso gli uffici del Commissariato di Manduria accompagnata da sua madre Epifani Stefania, poiché aveva appreso dallo stesso SPADAVECCHIA che era stato convocato dalla polizia, e ha dichiarato che qualche tempo prima aveva ricevuto, sul suo telefono cellulare, due filmati nei quali si vedeva un signore anziano che veniva violentemente malmenato. Visionando il filmato già in possesso della p.g. estratto dal cellulare di LAMUSTA, la Defazio inoltre ha riconosciuto in esso sia. il fidanzato SPADAVECCHIA Antonio sia LAMUSTA Gregorio.

DOMANDA: la sera di martedì 12 aprile u.s., lei si è presentata spontaneamente in questi Uffici accompagnata da sua madre EPIFANI Stefania, affermando di sapere che tale SPADAVECCHIA Antonio in quel momento si trovava presso il Commissariato. Può chiarirci come ha appreso tale notizia?

RISPOSTA: ho saputo che Antonio SPADAVECCHIA era stato chiamato dalla "Polizia" perchè poco prima mi ha telefonato sua madre che si trovava in Commissariato.

DOMANDA: perché la madre di Spadavecchia Antonio le ha riferito della "convocazione della Polizia"?

RISPOSTA: perché siamo fidanzati da circa 2 anni e mezzo. Io in quel momento mi trovavo in compagnia di alcune amiche ed ho subito telefonato a mia madre dicendole che l'aspettavo presso il Commissariato di Polizia, perche li c'era Antonio e volevo vederlo e parlargli. Quindi quando sono arrivata vicino al Commissariato ho  visto Antonio che aspettava sulla porta d'ingresso insieme ai suoi genitori e all'avvocato. Antonio piangeva e quindi anch'io mi sono commossa, gli ho chiesto se lui era coinvolto in quella brutta storia. Antonio mi ha risposto che lui in quella casa era entrato solo una volta, verso la fine di febbraio, quindi diceva di non essere responsabile del fatto che quel signore si trovava in coma, così come riportato sul giornale. lo gli ho creduto perché spesso la sera Antonio era con me a casa. Per questo motivo non ho avuto alcuna perplessità a fornire all'Ispettore Conte i due video che avevo ricevuto attraverso whatsapp, il giorno 3 aprile 2019, alle ore 22.11 il primo, alle ore 23.07 dello stesso giorno, il secondo. Detti filmati mi sono stati inviati direttamente da un mio amico di nome Lorenzo GRECO.,.di circa vent'anni, residente a Uggiano in C.daSanto Moro.

DOMANDA: Lei ha mai visto altri video simili che riguardano la stessa persona?

RISPOSTA: Di questa cosa ne sta parlando tutta Manduria. Ho saputo, ma davvero non ricordo da chi, che a registrare uno dei due video che io vi ho inviato è' stato tale G. SAMMARCO, un ragazzo di circa 15/16 anni. Lui potrà sicuramente confermarvi che in quella circostanza a picchiare l'anziano fu tale CAPOGROSSO E., persona che conosco solo di vista per averla incontrata svariate volte ma non ci ho mai parlato..

A questo punto del verbale si dà' atto che alla minore Defazio D. vengono fatti visionare altri due video già in possesso di questo Ufficio, ove sono ritratti dei ragazzi dentro l'abitazione che con di bastoni percuotono l'anziana vittima. oltre ai due video forniti dalla stessa ove è ripreso un ragazzo che percuote con un pugno sul volto la vittima.

DOMANDA: ha avuto modo di visionare ripetutamente quattro filmati, di cui due sono quelli che lei ci ha fornito, riconosce i soggetti riprodotti?

RISPOSTA: si nel filmato che voi mi indicate essere il “Video n. 1” (gli operatori danno atto di porre in visione il video in cui sono stati ripresi alcuni ragazzi all'interno di una abitazione con dei bastoni in mano che percuotono una persona anziana) li riconosco. uno purtroppo è il mio fidanzato SPADAVECCHIA Antonio che in quella circostanza indossa una maglietta a righe orizzontali chiare e scure. A questo punto spero che lui sia effettivamente entrato solo una volta in quella casa, così come mi ha confessato quando attendeva vicino l'Ufficio della Polizia, come vi ho già detto. Quello che indossa il giubbotto rosso con pellicciotto sono sicura essere A. Raho.

DOMANDA: ha riferito che il ragazzo che si vede entrare di spalle, insieme ad Antonio SPADAVECCHIA, è RAHO A.. Come fa a riconoscerlo?

RISPOSTA: sono sicura che è  lui perchè lo conosco molto bene, anche se io non lo frequento. Lo incontro sempre in giro per il paese e proprio quel giubbotto rosso con pellicciotto, modello "woolrich", lo ha usato. praticamente per tutto l'inverno e poi per via della sua testa che vista da dietro per me è' inconfondibile, sono assolutamente sicura, porta ancora i capelli molto corti , come sempre.

DOMANDA: chi sono gli altri?

RISPOSTA: un altro che riconosco benissimo si chiama A. PERRUCCI. E' quello che nel filmato indossa la giacca di una tuta da ginnastica ADIDAS di colore nero con le fasce bianche laterali, si intravede inoltre un colletto di colore giallo. Un altro ragazzo che si vede benissimo è' G. LAMUSTA, anche lui indossa il giubbotto rosso e porta gli occhiali. Nei due filmati che, invece, vi ho fornito io, da voi indicati con i numeri 3 e 4, confermo che si tratta di CAPOGROSSO E., persona che come vi ho detto conosco molto bene anche se non ci ho mai parlato. Dal video che mi avete mostrato ove si vede un uomo col cappuccio che picchia un anziano e dal fotogramma che mi mostrate a colori sul monitor del computer in quattro diverse intensità di luce e che sottoscrivo in forma cartacea essere i medesimi riprodotti sul pc, in cui è effigiato il volto dell'aggressore nel momento in cui si volta per scagliare in terra la vittima, posso confermare di riconoscere l'aggressore per CAPOGROSSO E., ragazzo di circa 16 o 17 anni Preciso che affermo ciò perchè lo riconosco chiaramente dal volto, nel momento in cui si volta, essendo persona a me ben nota, e non perchè mi è stato riferito. Inoltre, circa l'autore della registrazione dei due video che vi ho fornito ove è ritratto CAPOGROSSO E., posso affermare di aver sentito da un gruppo di ragazzi che non conosco neanche .di vista e che vedevo per la prima Volta, che l'autore della registrazione è tale Gianni [OMISSIS] che ho sentito dire dallo stesso gruppo essere cugino del CAPOGROSSO. Preciso che il gruppo di ragazzi che commentavano tale circostanza si trovava in questo Viale della stazione, nei pressi di una panchina, nella giornata del 9 aprile u.s. orario serale. Preciso che tale [OMISSIS] non lo conosco neanche di vista. Infine vi posso aggiungere che nella medesima circostanza, mentre mi trovavo nei pressi del bar Jackpot, sempre in Viale Stazione, unitamente ad alcune mie amiche che frequento abitualmente, sempre lo stesso gruppo di ragazzi di cui sopra, dopo aver commentato l'episodio riferito al CAPOGROSSO e al [OMISSIS] indicati dagli stessi quali autore dell'aggressione il primo ed autore della registrazione il secondo, nel chiacchierare tra loro, continuavano dicendo che il signore aggredito stava male e di stare attenti perchè uno zio di CAPOGROSSO E., soprannominato "131", starebbe cercando di contattare tutti i ragazzi coinvolti in questa vicenda affinchè non facessero il nome del nipote" CAPOGROSSO E..

Aggiungo che in relazione a quest'ultimo, ho saputo da qualcuno dei miei amici, non ricordo esattamente da chi, che CAPOGROSSO E. avrebbe fatto vedere uno dei video in cui è stato filmato mentre picchiava un uomo anziano ad una sua professoressa. Non so dirvi che scuola frequenti ne' il nome della professoressa e la stessa avrebbe avvertito gli assistenti sociali circa l'accaduto.

Tengo a precisare che le persone che ho riconosciuto nel video dove compare anche il mio fidanzato non sono tra quelle che escono con noi la sera di solito. Con riferimento al coinvolgimento del Capogrosso; le dichiarazioni della Defazio sono riscontrate da Buccolieri Ilaria, insegnante di sostegno di CAPOGROSSO E., dichiarato affetto da disabilità cognitiva, la quale, sentita a s.i.t. ha. riferito: "Lo scorso 4 aprile 2019, nel corso delle lezioni, CAPOGROSSO E. mi mostrava un video dal suo telefono cellulare. Inizialmente credevo si trattasse di qualche video scaricato dalla rete. Notai una schermata scura sul telefono e inizialmente non riuscivo a distinguere bene le immagini. CAPOGROSSO, quindi, continuando a mostrarmi il video, mi disse testualmente:" guarda guarda professore', sono io." Ho quindi visto il video che riproduceva per pochi secondi la scena in cui un giovane indossante. un indumento scuro con cappuccio, colpiva violentemente con un pugno in volto un anziano signore, che poi trascinava per terra. Rimasi alquanto turbata e incredula da quelle immagini e riferii al CAPOGROSSO che non credevo fosse lui l'autore dell'aggressione. A tanto il CAPOGROSSO, per dimostrarmi che effettivamente era lui quello che aggrediva l'anziano, mi diceva testualmente: "guarda professore: sono io, queste sono le mie scarpe, le mie calze e la mia felpa. Per ulteriore conferma e per convincermi che era lui quello riprodotto nel video, mi faceva vedere un altro filmato, sempre di pochi secondi, in cui, da un'altra prospettiva, si vedeva sempre che un giovane colpiva con un pugno violento un anziano, facendolo cadere per terra. Ricordo che le scene dei due video erano differenti e quindi verosimilmente riferibili a due distinti episodi”. Mostrati alla teste i due video già acquisiti agli atti e contraddistinti rispettivamente dai nr. 3 e 4 in cui un anziano signore viene colpito al volto da un pugno sferrato da un giovane che poi lo trascinava per terra, la predetta dichiarava: “Riconosco i due video che mi mostrate per quelli che mi fece vedere il CAPOGROSSO in classe, non ho alcun dubbio che sono quelli che mi ha mostrato il CAPOGROSSO". Ancora, a carico dello SPADAVECCHIA, oltre alle dichiarazioni del coindagato LAMUSTA, riscontrate dalle risultanze degli atti d'indagine già indicati (filmati, dichiarazioni della Defazio), devono considerarsi quelle rese dallo stesso indagato nel corso dell'interrogatorio all'udienza di convalida. Quest'ultimo ha difatti ampiamente ammesso di aver partecipato all'aggressione a colpi di bastone a casa dello Stano, insieme a LAMUSTA, a RAHO A., a PERRUCCI A.: "in tutto eravamo 4 o 5 ragazzi che però non fanno parte della mia comitiva perché io sono più grande di loro. Quando siamo arrivati a casa di Stano A. la porta blindata era già aperta ma non c'erano altre persone davanti all'abitazione; siamo entrati tutti in casa e RAHO mi ha accompagnato con il braccio spingendomi all'interno. Gli altri ragazzi avevano in mano delle cose che mi sembravano delle mazze. lo ho trovato una mazza nel salotto, un manico di scopa, e lo ho impugnato facendo soltanto la mossa di colpire Stano ma non l'ho toccato; non so se gli altri ragazzi lo hanno invece colpito, anche perché ho subito lasciato l'attrezzo e sono uscito per primo perché soffro di epilessia e perché avevo paura sia per me che per il signor Stano, temendo che si potesse fare male ... Dopo essere entrati a casa dello Stano quella sera, ad un certo punto ho udito qualcosa che si rompeva e per paura sono subito fuggito fuori. Stano gridava aiuto perché aveva paura". SPADAVECCHIA ha inoltre dichiarato nel corso dell'Interrogatorio che tra i giovani di Manduria Stano era noto come "il pazzo" ed era vittima di insulti e scherzi da parte di diversi ragazzi da diversi anni, tanto che circolava in rete un video che riprendeva un'aggressione allo stesso risalente all'anno 2012; che anche lui conosceva di vista Stano poiché da piccolo frequentava l'oratorio che si trova casa della vittima. Ha negato di frequentare i ragazzi della comitiva del Raho poiché più piccoli di lui e di far parte di chat, in particolare del gruppo "comitiva di orfaneIli". Il 15 aprile 2019 il P.M. ha conferito incarico di consulenza tecnica al fine di esaminare il contenuto delle memorie degli apparecchi telefonici sequestrati al Lamusta ad altri coindagati e, dai primi accertamenti svolti, dal C.T. ing. Civino (compendiati in una relazione preliminare) è stato possibile rilevare l'invio di file videoaudio da LAMUSTA a PISANO, dallo stesso LAMUSTA a RAHO, e da quest'ultimo al gruppo "comitiva di orfaneIli", video in cui sono riprese violente aggressioni in danno dello Spano.

I filmati in questione sono stati visionati nel corso dei rispettivi interrogatori dai due fermati e gli stessi, in particolare LAMUSTA, hanno fornito una dettagliata descrizione degli stessi come meglio riportato nel verbale dell'udienza di convalida. I file denominati 01 304dc1a6-6c2c-4ef3-964e-e4b8d20c2775 e 02 19cbc775-8e4d-47c78ea1-5f649a595a68 (indicati a verbale filmato 1 e 2 su CD allegato alla relazione dell'ing. Civino) sono estratti da una conversazione tra LAMUSTA e PISANO del giorno 10/03/2019. Quest'ultimo, alle ore 02:54 richiede l'invio dei video, che LAMUSTA inoltra alle ore 02:55 e 02:56 rispettivamente. Nel video n. 1 è ripresa un'aggressione in danno di Stano davanti alla sua abitazione per strada; in due lo accerchiano e lo colpiscono con calci; uno dei due aggressori ad un certo punto riappare impugnando un bastone. La vittima tenta di difendersi. A tale aggressione, come riferito da LAMUSTA hanno partecipato il predetto fermato, nonché PISANO che riprendeva le immagini e RAHO, DIMITRI e DISTRATIS. Nel video n. 2 (1) altra aggressione davanti alla P9rta di casa in cui la vittima che grida: "polizia, carabinieri", viene colpita da due giovani (RAHO e DISTRATIS) con calci. All'episodio era presente anche LAMUSTA Nel video n. 3 (1): Si vedono degli individui mascherati che varcano la soglia di casa dello Stano impugnando dei bastoni. Nel video n. 3 (2): è ripresa un'aggressione per strada a cui hanno partecipato LAMUSTA, DIMITRI, RAHO e PISANO. A un certo punto uno di loro colpisce Stano con uno schiaffo. Nel video n. 4: Le immagini riprendono alcuni soggetti che prendono a calci la porta di casa di Stano, la aprono e lanciano nel corridoio delle bottiglie di vetro che si infrangono. Si ode Stano che grida terrorizzato. All'episodio hanno partecipato LAMUSTA, RAHO, DIMITRI, DISTRATIS e PISANO. Nel video n. 5: RAHO sputa addosso a Stano e lo chiama "pezzo di merda"; la vittima urla con disperazione e terrore: "Carabinieri, polizia, sono solo. Aiuto". Gli aggressori ridono sguaiatamente. LAMUSTA ha riferito di non ricordare se, sia stato presente o meno. Nel video n. 7: è ripresa un'aggressione in strada ai danni dello Stano; uno dei giovani presenti inizia a saltellargli di fronte e qualcuno fa il gesto di colpirlo. Lo Stano appare confuso e disperato e invoca più volte, a gran voce, aiuto. Lamusta ha al riguardo dichiarato di avere filmato personalmente il video di tale incursione e che gli altri partecipanti erano RAHO, DISTRATIS, DIMITRI e PISANO. Nel video n. 8: si odono grida di Stano e risate di altre persone. Nel video n. 9: è ripreso Stano che viene colpito per strada con un calcio da un giovane aggressore. LAMUSTA non vi ha partecipato e non è stato in grado di riconoscere i soggetti ripresi. Nel filmato n. 1 su CD allegato al seguito di c.n.r. del 14.4.2019 è ripresa la scena dell'aggressione subita in casa dallo Stano. Diversi giovani identificati in SPADAVECCHIA, RAHO, PISANO (che non è ripreso poiché filmava), PERRUCCI e LAMUSTA entrano in casa della vittima percorrendo un lungo e stretto corridoio e sorprendono Stano, rifugiatosi in un angolo della stanza che si apre sulla destra in fondo al corridoio, lo accerchiano e con dei bastoni iniziano a percuoterlo e a colpire anche oggetti presenti nell'appartamento, sghignazzando e gridando. Stano è evidentemente terrorizzato, invoca aiuto e urla per la paura e la disperazione; quindi i giovani si allontanano velocemente ed escono dall'appartamento. Nel filmato n. 4 sul CD da ultimo indicato è ripreso Stano che viene colpito in strada con un pugno e cade per terra; l'aggressore per pochi istanti tenta anche di trascinarlo. Con riferimento alle condizioni fisiche e psichiche dello Stano gli investigatori hanno acquisito documentazione presso la Marina Militare Direzione di Taranto, segnatamente una certificazione del 7/4/2006 nella quale si attesta, ai fini dell'attribuzione della pensione di inabilità, la sussistenza di assoluta inabilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa con revisione a marzo 2008. Gli accertamenti sanitari (in data 18.1.2006) avevano riconosciuto infatti lo Stano affetto da "disturbo cronico dell'umore a significativa incidenza funzionale": tali affezioni psichiche si erano già manifestate nell'anno 2004, come da certificato in data 25.10.2004. Inoltre, come emerso da quanto dichiarato dal dott. Matteo Minardi, in servizio presso l'ospedale di Manduria, reparto di chirurgia, (verbale di s.i.t. in data 16.4.2019), Stano era affetto da gravissime patologie gastroenterologiche (condizione di perforazione viscerale, insufficienza renale acuta e stato di shock settico da peritonite e insufficienza multiorgano), ma ad ogni buon conto, in occasione del ricovero il sanitario aveva avuto modo di riscontrare la presenza di sangue coagulato sulla mucosa buccale, delle gengive e fra i denti, nonché ecchimosi longitudinali estese a livello di entrambi gli arti inferiori; le suddette tracce di sangue della mucosa buccale, come aggiunto dal dott. Minardi, non possono essere ascrivibili alla grave patologia riscontrata, al pari delle ecchimosi agli arti inferiori. Anche il dott. Anselmo Caragli, in servizio presso il pronto soccorso dell'ospedale di Manduria, ha dichiarato (s.i.t. del 16.4.2019) che dall'ispezione effettuata sulla testa, sul torace e sull'addome del paziente aveva notato segni di sangue coagulato sulle labbra.

LEGITTIMITÀ DEL FERMO Alla luce degli elementi sopra descritti si osserva: Per il reato in contestazione sub A) (delitto di tortura, punito con la reclusione da quattro a dieci anni) il fermo è senz'altro consentito, in considerazione sia dei limiti edittali di pena, che degli indizi di colpevolezza ricavabili dagli atti d'indagine sopra esaminati. Tuttavia ritiene questo giudice che sia del tutto insussistente, nel caso in esame, con riferimento ad entrambi i fermati, un fondato pericolo di fuga. AI riguardo il P.M. ha indicato nel decreto di fermo elementi puramente congetturali: il rischio di fuga viene desunto infatti dalla "gravità dei fatti-reato di cui trattasi" e dalla "relativa pena potenzialmente irroganda", nonché dal "clamore mediatico sollevato dalla vicenda, percepibile attraverso la consultazione di tutti i mezzi di informazione", che "ha posto in luce l'assoluta efferatezza con la quale hanno agito gli indagati: essi, consapevoli della oramai più che nota gravità delle condotte, potrebbero darsi alla fuga al fine di sottrarsi alle conseguenze di legge". Ebbene, in tema di fermo, gli specifici elementi dai quali assumere il pericolo di fuga non devono essere tali da poter fornire la prova diretta del progetto di fuga; infatti, essendo la fuga un avvenimento futuro ed incerto, la probabilità del suo verificarsi può essere desunta da elementi indiziari. E invero in tema di convalida del fermo di indiziato di delitto, la fondatezza del pericolo di fuga va verificata con valutazione ex ante, desumendo da elementi concreti la rilevante probabilità che l'indagato si possa dare alla fuga e non può essere ipotizzato in via astratta né ritenuto sulla base del solo titolo di reato sul quale si indaga, poiché quest'ultimo dato integra un limite alla esperibilità del fermo, in relazione alle pene edittali previste ed all'oggetto del reato, e non costituisce un elemento idoneo a configurare di per sé solo la probabilità della fuga. Né può ritenersi, se non in via assolutamente congetturale, che il clamore mediatico della vicenda 'possa incidere sul pericolo che gli indagati si determinino alla fuga per evitare le conseguenze di legge essendo ormai nota la gravità delle loro condotte. E neppure l'avvenuto decesso della vittima può essere ritenuto un elemento concreto ai fini sopra indicati atteso che tale considerazione, pure espressa dal P.M. nel decreto di fermo, si risolve in definitiva su un astratto collegamento tra il pericolo di fuga e la gravità di un titolo di reato, quale l'omicidio preterintenzionale, peraltro in questo caso, del tutto fuori contestazione posto che allo stato non risultano ancora conclusi gli accertamenti disposti sulle cause della morte di Stano Antonio che, allo stato, non appare in alcun modo ricollegabile alle condotte degli indagati. Piuttosto v'è da dire che entrambi gli odierni indagati sono risultati prontamente e ripetutamente reperibili: gli stessi più volte convocati presso gli uffici del commissariato di p.s. di Manduria, per rendere dichiarazioni, ovvero per la notifica di vari atti (si pensi ad esempio alla notifica dell'avviso di accertamenti irripetibili) ed anche· in occasione dell'esecuzione del fermo sono sempre stati immediatamente ritrovati presso le loro rispettive abitazioni ovvero il LAMUSTA anche nel luogo di lavoro. Di talché deve escludersi che nel caso di specie sia sussistente il rischio che LAMUSTA Gregorio e SPADAVECCHIA Antonio, soggetti peraltro con scarsa autonomia finanziaria e di giovanissima età, possano darsi alla fuga. Non può, pertanto, procedersi alla convalida del fermo.

LA RICHIESTA DI APPLICAZIONE DELLA MISURA CAUTELARE DELLA CUSTODIA IN CARCERE

Alla luce della ricostruzione dei fatti, come sopra esposta, e dei numerosi elementi raccolti durante le indagini, ricorrono - ad avviso di questo giudice - gravi indizi di colpevolezza a carico di LAMUSTA Gregorio e SPADAVECCHIA Antonio in ordine ai delitti loro ascritti ai capi A), C) e D). Alcun dubbio può sussistere sulla ascrivibilità del reato di tortura contestato sub A) ai due indagati in concorso tra loro e con diversi altri soggetti minorenni per i quali si procede separatamente.

LAMUSTA Gregorio, per sua stessa ammissione, oltre che secondo quanto emerso dalle altre risultanze d'indagine sopra compendiate, ha partecipato alle violente incursioni presso l'abitazione dello Stano, ha sferrato calci alla porta d'ingresso, ha accompagnato in macchina i suoi complici e ha fornito il proprio telefono cellulare al gruppo per filmare le orrende scene di sopraffazione e violenza in danno della vittima nonché per inviare al PISANO e al RAHO i filmati registrati sul suo telefono e consentire agli stessi di farli girare in altre chat.

Quanto a SPADAVECCHIA Antonio è accertata la sua partecipazione all'aggressione avvenuta in casa della vittima con i bastoni di cui si è più volte detto. LAMUSTA al riguardo non è stato in grado di riferire con certezza di aver visto lo SPADAVECCHIA anche in altre occasioni. Purtuttavia ritiene questo giudice che il predetto indagato fosse pienamente inserito nel gruppo che tormentava Stano Antonio con continue vessazioni, atteso che, oltre ad essere amico di RAHO e cugino di PERRUCCI A., lo stesso mostra una certa disinvoltura nel fare ingresso per primo all'interno dell'abitazione della vittima dove tutti gli aggressori in maniera fulminea raccolgono dei bastoni che si trovavano già presso l'appartamento in questione e, senza attendere neppure un secondo, .all'unisono, incominciano l'azione aggressiva con un sincronismo che induce a ritenere che si trattasse di un sistema oramai rodato e ben noto a ciascuno dei partecipanti. Peraltro, per la configurazione del reato in esame, non occorre la ripetitività delle condotte ave il fatto comporti, come nel caso di specie (come meglio si chiarirà di seguito), un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. La condotta del delitto di tortura è alternativamente configurata dall'impiego di violenza o di gravi minacce, ovvero dall'agire con crudeltà, vale a dire ponendo in essere comportamenti degradanti della dignità umana, umilianti, gratuiti in quanto eccedenti "rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole" (Cass., SS.UU., 23.6.2016, n. 40516). Azioni siffatte possono poi, alternativamente integrare il delitto in esame laddove siano plurime ovvero, ancorché poste in essere con una sola azione, comportino un trattamento inumano e degradante. Il delitto di tortura è un reato di evento e pertanto necessita per la sua configurazione dell'avverarsi dell'evento lesivo rappresentato da acute sofferenze fisiche per la vittima ovvero da un verificabile trauma psichico. Ebbene non v'è dubbio che nel caso in esame le condotte poste in essere dagli odierni indagati e dai loro coindagati minorenni sono state, oltre che plurime, per quanto attiene alla posizione di LAMUSTA, perpetrate in danno di un soggetto affetto da disabilità mentale, che viveva in un evidente stato di abbandono, di disagio sociale e che, pertanto, versava in' un chiaro stato di ,minorata difesa. Tale stato dello Stano era pienamente conosciuto dagli indagati i quali hanno ammesso che la vittima era nota in paese con l'appellativo "il pazzo di Manduria", ed era da anni oggetto di atti di dileggio e di angherie di varia natura: dagli insulti, agli atti vandalici in danno della sua abitazione più volte violata dai gruppi di giovani che si avvicendavano nell'infierire contro Stano Antonio, agli atti di violenza fisica e verbale effettivi (calci, pugni, schiaffi, percosse con bastoni, sputi) o soltanto simulati per incutere disorientamento, timore e disperazione nella persona offesa. Giravano in rete - su youtube e sulle chat degll indagati e dei loro amici - filmati che riprendevano i maltrattamenti in danno dello Stano e che erano divenuti merce di scambio tra i diversi giovani che li ricevevano sui loro telefoni o vi si imbattevano in internet. Stano Antonio è stato quindi fatto oggetto di un trattamento inumano e degradante: braccato dai suoi aguzzini, terrorizzato, dileggiato, insultato' anche con sputi, spinto in uno stato di confusione e disorientamento, costretto ad invocare aiuto per la paura e l'esasperazione di fronte ai continui attacchi subiti, e, di più, ripreso con dei filmati (poi diffusi in rete e nelle chat telefoniche) in tali umilianti condizioni.

Tali comportamenti di inaudita crudeltà, gratuiti, orrendi hanno procurato nella vittima acute sofferenze fisiche (contusioni diffuse e traumi di vario tipo, come potuto appurare dai medici che hanno avuto in cura Stano presso "ospedale di Manduria durante il suo ricovero, e che hanno riscontrato ecchimosi sugli arti e coaguli di sangue a carico della mucosa orale) e in traumi psichici oggettivamente verificati, quali uno stato di timore e di prostrazione in un uomo che viveva nella più totale solitudine ormai arresosi alla crudeltà di giovani privi di ogni sentimento di umana compassione e di solidarietà per i più deboli. Tale stato è stato riscontrato dagli agenti del commissariato di Manduria che, intervenuti il 5 aprile 2019 presso l'abitazione di Stano su richiesta dei vicini, hanno avuto difficoltà a convincerlo ad aprire loro la porta poiché egli era in preda ad uno stato di assoluto timore e di confusione mentale e si era rinchiuso in casa, scegliendo "autoisolamento e la fame, per il terrore di trovarsi di nuovo di fronte ai suoi aguzzini. Ricorrono pertanto a carico di entrambi gli imputati gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di tortura loro contestato ed a quelli di danneggiamento e violazione di domicilio contestati sub B) e C): deve difatti rammentarsi che, nel corso delle diverse incursioni nell'appartamento dello Stano, vari danni sono stati. arrecati alla porta d'ingresso, ad una finestra e ad una persiana; ed ancora che, in occasione dell'aggressione in casa compiuta con i bastoni, entrambi gli indagati insieme ai loro coindagati minorenni si sono, con violenza sulle cose e sulla persona della vittima, introdotti in casa di Stano Antonio contro la sua volontà. Peraltro occorre sottolineare che per il reato di danneggiamento, non ricorrendo l'ipotesi dell'arresto in flagranza, non è possibile l'applicazione della misura cautelare invocata dal P.M., non ricorrendo le condizioni di cui all'art. 280 c.p.p.. Ritiene questo giudice che non vi siano elementi sufficienti per ritenere la sussistenza di un grave quadro indiziario a carico dei due indagati in ordine al delitto di sequestro di persona contestato sub B): dalla visione del filmato è possibile infatti osservare come l'azione posta in essere sia durata non più di un paio di minuti e come in realtà non vi sia stata un'azione di vera e propria privazione (per un tempo apprezzabile) della libertà di movimento della vittima, ma piuttosto un arretramento da parte dello stesso Stano a scopo difensivo, ancorché indotto dall'aggressione degli imputati avvenuta in uno spazio piuttosto angusto. Passando ad esaminare il tema delle esigenze cautelari, richiamato quanto già sopra evidenziato in ordine alla insussistenza del pericolo di fuga, ritiene questo giudice che sussista il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quello per cui si procede, desumibile dalle modalità dei fatti posti in essere per entrambi gli indagati., Non osta alla suddetta conclusione lo stato di incensuratezza sia del LAMUSTA sia dello SPADAVECCHIA poiché, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità dell'esigenza cautelare del pericolo di reiterazione dei reati, prevista dall'art. 274, lett. c), c.p.p., il parametro valutativo costituito dalla personalità dell'indagato va desunto da comportamenti o atti concreti ovvero, in via disgiuntiva, dai suoi precedenti penali, nel senso che gli elementi per una valutazione di pericolosità possono trarsi anche solo da comportamenti o atti concreti - non necessariamente aventi natura processuale - in difetto di precedenti penali (cfr. Casso Sez. 5, Sentenza n. 5644 del 25109/2014). Le modalità e le circostanze dei fatti addebitati ai due indagati denotano una spiccata pericolosità sociale di entrambi: la ripetitività delle condotte nel caso di LAMUSTA e comunque assoluta mancanza di freni inibitori e di rispetto della dignità della persona, l'assenza di sentimenti di umana pietà nei confronti dei soggetti più deboli, le motivazioni da entrambi gli indagati addotte a giustificazione delle loro azioni - ovvero l'aver compiuto atti di inaudita crudeltà e violenza solo per gioca oppure per essere accettati dal gruppo ... sono elementi sintomatici di personalità allarmanti incapaci di tenere a freno gli istinti prevaricatori e violenti. Si ritiene pertanto sussistente con concretezza ed attualità il pericolo che gli stessi, radicati in un ambiente territoriale ristretto possano commettere delitti della stessa specie di quelli per cui si procede ove vengano a contatto con soggetti vulnerabili.

Ricorre inoltre l'esigenza cautelare di cui all'art 274 lett. a) c.p.p.: l'indagine ancora in corso coinvolge altri soggetti ancora in via di identificazione; ed inoltre un concreto pericolo di inquinamento probatorio si evince con evidenza dalla corrispondenza telefonica in whatsapp, in cui il LAMUSTA ed altri suoi interlocutori si propongono di far sparire le tracce delle condotte criminose poste in essere cancellando i video che li riprendono in azione e che potrebbero essere scoperti dalla polizia ovvero forniti agli investigatori dai numerosi soggetti destinatari degli stessi. Con riferimento, poi, alle fonti di prova già individuate in particolare ai testimoni già escussi (i vicini di casa di Stano Antonio, Defazio D.) la personalità degli indagati, in grado senz'altro di condizionare eventuali ovvero già individuate persone informate dei fatti, potrebbe indurii ad avvicinarle e a convincerle a ritrattare ovvero a rendere dichiarazioni compiacenti (cfr. Cass., sez. VI, 23/03/2017, n. 29477: "in tema di misure cautelari personali, il pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova, richiesto dall'art. 2741ett. a) cod. proc. pen., per l'applicazione delle stesse, deve essere concreto e va identificato in tutte quelle situazioni dalle quali sia possibile desumere, secondo la regola dell’'id quod plerumque accidit: chel’indagato possa realmente turbare il processo formativo della prova, ostacolandone la ricerca. o inquinando le relative fonti'). Infine, quanto alla scelta della misura, quella chiesta dal P.M.... custodia cautelare in carcere - appare sostanzialmente adeguata alla gravità dei fatti, avendo gli indagati dimostrato, per i motivi innanzi esposti, notevole inclinazione alla consumazione di reati, totale inaffidabilità e completa assenza di freni inibitori; né vi è misura diversa meno grave rispetto a quella anzidetta idonea a garantire le esigenze di tutela della collettività, stante la personalità dei due indagati che, per quanto sopra evidenziato, non offrono alcuna garanzia circa il rispetto degli obblighi di una misura cautelare meno affittiva, dovendosi pertanto fortemente limitare la loro libertà di movimento, per impedire la ricaduta nel delitto. Peraltro la permanenza, allo stato, dei due giovani indagati nell'ambiente familiare non offrirebbe alcuna garanzia atteso che i rispettivi nuclei familiari - come si desume dalle stesse condotte poste in essere dagli indagati - hanno dato prova di incapacità a controllare ed educare i due giovani. Si ritiene, infine, di formulare prognosi negativa circa la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, in considerazione della pena prevista per il delitto di cui al capo A) ed apparendo tale valutazione, in ogni caso, antinomica rispetto alla ritenuta sussistenza del pericolo di recidiva (cfr. Casso Sez. 2, Sentenza n. 38615 del 24/09/2008). P.Q.M. Visti gli artt. 384, 391 comma 4, c.p.p.:

NON CONVALIDA il fermo di indiziato di delitto, eseguito il 30 aprile 2019, nei confronti di entrambi gli indagati.

Visti gli art 291 e ss. c.p.p.; APPLICA a LAMUSTA Gregorio e a SPADAVECCHIA Antonio (come sopra generalizzati) la misura della custodia in carcere, per i delitti loro ascritti ai capi A) e D) di rubrica, delegando per l'esecuzione la Direzione della Casa Circondariale di Taranto, ove gli stessi rimarranno ristretti a disposizione dell'Autorità Giudiziaria. Rigetta per i restanti titoli di reato la richiesta di misura cautelare.

MANDA alla Cancelleria per le comunicazioni, le notificazioni e gli adempimenti di legge, ivi compresa la trasmissione di una copia della presente ordinanza al P.M., alla Direzione della Casa Circondariale di Taranto ai sensi dell'art. 94 commi 1-bis e 1-ter disp. att. c.p.p. ed alla Polizia Giudiziaria competente per territorio, per lo svolgimento di tutte le attività necessarie; l'ordinanza dovrà essere depositata, unitamente alla riohiesta del P.M. ed agli atti presentati con la stessa" con contestuale avviso ai difensori e comunicata al servizio informatico ex art. 97 disp. att. c.p.p..

Taranto, 2 maggio 2019.

Il Giudice delle Indagini preliminari

D.ssa Rita Romano

LAMUSTA Gregorio, nato il 02.03.2000 a Manduria (TA), ivi res.te alla via Gruppo Cremona nr. 40/a, di fatto ed elettivamente dom.to in Manduria alla via Leontini n.11;

SPADAVECCHIA Antonio, nato il 04.07.1996 a Manduria (TA), ìvi res.te ed elet.te dom.to alla via San Pietro Pal. C.

reati: A) del reato di cui agli artt. 81-110- 112 comma 10 nr. 1) e nr.·4) - 613 bis comma 40 c.p. perché, in concorso tra loro e con i minorenni R. Antonio,  D. Riccardo, D. Mario, P. Andrea, P. Antonio, C. Euprepio, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso avente come obiettivo l'aggressione fisica, la derisione e la vessazione di Stano Antonio, di anni 66 individuato quale l'bersaglio" per le sue condizioni di minorata difesa, in quanto soggetto solo ed affetto da disturbi psichici, in circostanze e tempi diversi, con violenza verbale e fisica ed agendo con particolare crudeltà, cagionavano al predetto acute sofferenze fisiche e un verificabile trauma psichico, tale da indurlo da circa metà marzo a non uscire da casa - neanche per acquistare generi di prima necessità così da cadere in uno stato di astenia - per terrore di essere oggetto di molestie ed aggressioni , e ciò facevano con più condotte e/o comunque ponendo in essere azioni degradanti per la dignità della persona che venivano filmate attraverso l'utilizzo di un telefono cellulare per poi essere diffuse via web.

PESTATO A MORTE. (ANSA 26 giugno 2019) - La Polizia ha diffuso un nuovo video dell'assalto all'abitazione di Antonio Stano e la foto di gruppo, estrapolata dalla chat di whatsapp, di una baby gang in maschera davanti alla casa del 66enne pensionato di Manduria morto il 23 aprile scorso dopo aver subito una lunga serie di aggressioni, angherie, rapine e vessazioni da parte di più gruppi di giovani. Il filmato si riferisce a una delle aggressioni del periodo di carnevale (avvenute il 3 a il 5 marzo scorsi, a cui se ne aggiunge un'altra verificatasi l'11 marzo), contestate nei provvedimenti restrittivi notificati oggi a un maggiorenne e a otto minorenni. Si tratta di un'altra baby gang che ha elementi in comune (quattro minori) con quella precedentemente identificata dagli inquirenti, che aveva portato all'esecuzione di 8 fermi il 30 aprile scorso. Anche il gruppo 'L'ultima dei Carnali' (ultima di carnevale) si scambiava fotografie e filmati relativi alle aggressioni ai danni del pensionato che erano soliti indicare come "lu pacciu".

(ANSA 26 giugno 2019) - "...Cè carnevali …lu pacciu è impacciuto lu triplu" (che carnevale, il pazzo è impazzito il triplo). Erano di questo tenore i commenti dei giovani arrestati oggi dalla Polizia (un maggiorenne e otto minorenni) per le aggressioni compiute nel periodo di carnevale ad Antonio Cosimo Stano, il 66enne pensionato di Manduria che soffriva di un disagio psichico morto il 23 aprile scorso dopo aver subito ripetute aggressioni, torture, rapine e vessazioni da parte di più gruppi di giovani. Dai contenuti della chat "L'ultima dei carnali" (l'ultima di carnevale) e poi ancora dall'ascolto di altre testimonianze, sono emersi altri violenti assalti alla casa di Antonio Stano e scene di sopraffazione e violenza, il tutto al solo scopo di procurarsi materiale da far girare su Whatsapp per quello che viene definito dal Gip che ha emesso le misure cautelari un "malvagio divertimento". La sera del martedì grasso (5 marzo), gli indagati si organizzarono per portare a termine l'ennesima incursione. Decisero tramite chat cosa indossare, l'ora in cui agire, a sera inoltrata, le maschere e le mazze da utilizzare. Poi, dopo il violento raid tornavano a commentare divertiti e con soddisfazione le azioni di ciascuno, e a condividere la "foto di gruppo" in cui tutti indossano delle maschere. Il pensionato da anni veniva preso di mira con insulti, atti vandalici, calci, pugni, schiaffi, percosse con bastoni, anche soltanto simulati per incutergli disperazione. E anche angherie di varia natura, come la sottrazione di una bicicletta che la vittima teneva in custodita nella propria abitazione. Ciò, hanno spiegato gli inquirenti, per il gusto di poterlo deridere e così condividere l'ennesima impresa con gli altri complici. Qualche indagato le ha definite "prove di coraggio", semplicemente un modo per potersi sentire all'altezza degli altri, se non addirittura assumere il ruolo di leader.

(ANSA 26 giugno 2019) - Dell'aggressione a un 53enne disabile di Manduria, avvenuta l'1 aprile scorso, che ha provocato alla vittima l'avulsione di denti incisivi e lesioni permanenti della masticazione, sono accusati due minori e due maggiorenni già fermati dalla Polizia il 30 aprile scorso nell'ambito delle indagini sulla morte del 66enne Cosimo Antonio Stano. I due minori in questione oggi sono stati raggiunti da un ulteriore provvedimento restrittivo (la Polizia ha notificato in tutto 9 misure cautelari nei confronti di un maggiorenne e 8 minorenni). L'episodio è stato scoperto grazie all'analisi tecnica del telefonino sequestrato a uno degli indagati ed è stato poi denunciato dal fratello e dalla badante della vittima. I quattro avrebbero attirato il 53enne, affetto da insufficienza mentale grave, all'esterno della sua abitazione (non distante da quella di Antonio Stano), con "frasi denigratorie e provocanti", colpendolo violentemente con un calcio e facendolo cadere per terra prima di sferrargli pugni che gli hanno causato lesioni permanenti. I dettagli dell'inchiesta sono stati illustrati questa mattina nel corso di una conferenza stampa dal Questore di Taranto Giuseppe Bellassai, dal procuratore Carlo Capristo, dal procuratore minorile Pina Montanaro, dal sostituto procuratore Remo Epifani e dal capo della Squadra Mobile Carlo Pagano.

Altri baby aguzzini a Manduria: «Psicolabile pestato per gioco». Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 Cesare Bechis su Corriere.it. Colpivano con calci e pugni un uomo inerte e terrorizzato, mentre uno di loro filmava e poi condivideva in chat i video. La «banda degli orfanelli» è stata incastrata a Manduria, il 30 aprile scorso a seguito della morte del 66enne Antonio Stano. E ieri la Procura ha chiuso anche il secondo filone d’indagine notificando altre nove ordinanze di custodia cautelare a un maggiorenne e a otto minori, due dei quali già fermati ad aprile. Sono accusati anch’essi di tortura, lesioni, danneggiamento e violazione di domicilio aggravati sempre ai danni di Stano, e di una seconda vittima presa a bersaglio in un solo episodio. Il gip Paola Morelli ha disposto per sei minorenni la custodia cautelare nell’istituto penale minorile di Bari e per altri due, già agli arresti, il collocamento presso una Comunità il cui responsabile vigilerà sul comportamento e collaborerà con i Servizi minorili. Il giudice, disponendo la carcerazione, conferma che i «familiari non danno garanzie di intervento contenitivo educativo e di controllo». Rispondendo ai giornalisti il procuratore Carlo Maria Capristo ha espresso perplessità anche sul ruolo della chiesa di San Giovanni Bosco: «questa struttura religiosa che raccoglieva tanti minori, compresi quelli responsabili di queste azioni, ci ha lasciati, uso un eufemismo, perplessi, per non essere intervenuta in tempo utile». L’inchiesta, oltre a ricostruire le azioni stile «Arancia Meccanica» del gruppo, ha portato alla scoperta e di una seconda banda che si faceva chiamare «L’Ultima di carniali» (L’ultima di Carnevale) e della nuova vittima. Un 53enne affetto da «insufficienza mentale grave», preso di mira il primo aprile scorso. In quattro, due minori e due maggiorenni, lo attirarono di notte all’esterno della sua abitazione. Venne poi colpito da un calcio facendolo stramazzare al suolo. In quella circostanza lo colpirono anche a pugni causandogli la perdita di due incisivi e lesioni permanenti alla masticazione. Tutti episodi di violenza gratuita che il gruppo di giovanissimi organizzava per divertimento. La chat documenta che la mancata partecipazione alle aggressioni veniva bollata come mancanza di coraggio. I nuovi arresti scaturiscono dal ritrovamento del cosiddetto «file nativo». L’ha scovato il consulente tecnico della Procura negli smartphone sequestrati dopo gli arresti del 30 aprile scorso. Passando al setaccio sms, WhatsApp e video ha scovato il momento iniziale del racconto degli orrori e, a seguire, tutta la storia ricostruendo episodi inediti e datandoli con precisione. «Questo file è stato fondamentale — dice il procuratore per i minori Antonella Montanaro — ci ha permesso di ottenere datazione degli eventi e geolocalizzazione. Insieme alle chat e ai riscontri ricavati da interrogatori di persone informate sui fatti abbiamo ricostruito passo dopo passo il quadro completo».

Caso Manduria: un altro anziano picchiato a morte: 9 ordinanze, 8 minori. Il Corriere del Giorno il 26 Giugno 2019. I dettagli dell’inchiesta sono stati illustrati nel corso di una conferenza stampa dal procuratore capo di Taranto dr. Carlo Maria Capristo,  , dal procuratore minorile dr.ssa Pina Montanaro, dal sostituto procuratore dr. Remo Epifani, dal Questore di Taranto dr. Giuseppe Bellassai e dal capo della Squadra Mobile dr. Carlo Pagano. Gli uomini della Squadra Mobile della Questura di Taranto affiancati dagli investigatori e tecnici del Servizio Centrale Operativo di Roma della Polizia di Stato hanno dato esecuzione a 9 ordinanze emesse dai Giudici per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario (dr. Romano) e quello per i minori Paola Morelli nei confronti di un maggiorenne Vincenzo Mazza, 18anni, e di 10 minorenni tra i 15 e 17 anni di età, ritenuti a vario titolo gravemente indiziati in concorso dei reati di tortura, lesioni, danneggiamento e violazione di domicilio aggravati, nei confronti Antonio Cosimo Stano, il 65 enne deceduto il 23 aprile scorso dopo essere stato picchiato e “bullizzato” da una baby gang a Manduria.  Sono in tutto 23 gli indagati, venti minorenni, tra cui una ragazza. C’è anche un tredicenne tra le persone coinvolte,   che però per l’età non è imputabile . Fra i gravi episodi contestati anche quello avvenuto l’1 aprile scorso ai danni di un altro anziano di Manduria, Fiorello Stano, 53 anni. I dettagli dell’inchiesta sono stati illustrati questa mattina nel corso di una conferenza stampa dal procuratore Carlo Maria Capristo, dal sostituto procuratore Remo Epifani titolare del fascicolo d’indagine, e dalla dalla Procuratrice Pina Montanaro capo della Procura della Repubblica per i Minorenni, dal Questore di Taranto Giuseppe Bellassai e dal capo della Squadra Mobile Carlo Pagano. “Con amarezza commentiamo il secondo atto di una storia agghiacciante, perché attraverso un’attenta e scrupolosa verifica tecnica sui telefonini immediatamente sequestrati dalla Polizia agli inizi di questa indagine, siamo riusciti a individuare addirittura un secondo gruppo di minorenni che aveva questo amarissimo, disgustoso atteggiamento nei confronti di persone con minorata difesa“. Così il procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, ha esordito in conferenza stampa per spiegare i particolari dell’inchiesta che ha portato all’esecuzione di 9 misure cautelari nei confronti di un maggiorenne e 8 minorenni per aggressioni nei confronti di Antonio Cosimo Stano, il 66enne pensionato di Manduria morto il 23 aprile scorso e vittima di ripetute aggressioni da parte di più gruppi di giovani e per un pestaggio ai danni di un 53enne disabile avvenuto l’1 aprile scorso.    “Abbiamo scoperto – ha aggiunto Capristo – questo gruppo che era solito chiamarsi ‘L’ultima di Carnali’, che agiva accanto al gruppo della "Comitiva degli orfanelli", che ha imitato e riproposto queste turpi azioni. Nel caso dell’aggressione dell’1 aprile al 53enne hanno agito per puro passatempo, colpendo il malcapitato con calci e pugni fino a provocargli l’avulsione dei denti incisivi. Si ripropone tutta una serie di interrogativi sul ruolo di scuola, famiglia, servizi sociali, tutti aspetti questi sui quali continuiamo a mantenere accesi i riflettori e che ovviamente non possono non contribuire alla crescita dei nostri giovani”. Il 30 aprile scorso la Polizia di Stato ha sottoposto a fermo altri 8 ragazzi, alcuni dei quali hanno ammesso le loro responsabilità, in presenza  dei video ritrovati sull’applicativo Whatsapp installato sui loro rispettivi smartphone, all’interno dei quali gli indagati conservavano le torture inflitte al povero pensionato che implorava invano richieste di aiuto, che venivano filmate con uno spaventoso cinismo sadico. Quattro dei fermati  il 30 aprile scorso  sono presenti e coinvolti anche in questa seconda operazione ed a due di loro viene contestata l’aggressione al 53enne Fiorello Stano dell’1 aprile scorso, in concorso con altri, affetto da insufficienza mentale grave, che attirato in ore notturne all’esterno della sua abitazione, veniva violentemente colpito con calci e pugni per “puro passatempo” . Dopo il pestaggio la vittima perse i denti incisivi. Si tratta di  un episodio ricostruito grazie alla disamina di un ulteriore video rinvenuto nel telefono di uno degli indagati  (colui che ha ripreso l’intera scena) ed agli ulteriori accertamenti compiuti dallaSquadra Mobile e dal Servizio Centrale Operativo, che attraverso l’analisi di tabulati prima ed i rilievi  (analisi morfologica) più tecnicamente avanzati operati dal Servizio di Polizia Scientifica (sezione indagini elettroniche) poi, hanno consentito di risalire all’identità dei responsabili. Ad aver confermato quest’ultimo episodio la stessa vittima, nonché il fratello e la badante del medesimo. Il branco, composto da un maggiorenne il diciottenne Vincenzo Mazza e dai sei minorenni, è accusato dei due raid nell’abitazione di Antonio Stano nel periodo di Carnevale, agendo in maschera. Il 5 marzo era infatti l’ultimo giorno di carnevale. Da qui il nome dato alla chat di  gruppo su Whatsapp, denominato “l’Ultima di Carnali“, utilizzata in un primo momento come ha spiegato il procuratore capo Capristo, per organizzare l’aggressione e successivamente per condividere e diffondere i video dell’assalto all’abitazione dello Stano, che veniva umiliato, deriso, e bastonato anche con delle mazze. Gli episodi sono stati scoperti grazie alle confessioni di alcuni degli indagati,  chiamati in correità dalle dichiarazioni di alcune persone informate sui fatti ascoltate dagli investigatori della Polizia di Stato e grazie all’analisi tecnica delle perizie disposte sullo smartphone di uno degli indagati, le cui evidenze hanno consentito di identificare tutti i partecipanti ai raid e successivamente acquisire i dati della loro geolocalizzazione. La Polizia ha diffuso oggi un nuovo video “allucinante” relativo dell’assalto all’abitazione di Antonio Stano e la foto di gruppo, estrapolata dalla chat di whatsapp, della baby gang in maschera davanti alla casa del 66enne pensionato di Manduria morto il 23 aprile scorso dopo aver subito una lunga serie di aggressioni, angherie, rapine e vessazioni da parte di più gruppi di giovani. Il filmato rinvenuto si riferisce ad una delle aggressioni effettuate del periodo di Carnevale avvenute il 3 a il 5 marzo scorsi, a cui ne è susseguita un’altra accaduta l’11 marzo, che sono state contestate nei provvedimenti cautelari restrittivi notificati oggi nei confronti di un’altra “baby gang” di Manduria che ha quattro minori in comune coinvolti con quella precedentemente identificata dagli inquirenti, che aveva portato all’esecuzione di 8 fermi il 30 aprile scorso. Nel video diffuso dalla Polizia si vede Stano sull’uscio di casa che implora aiuto: “Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza”. vedendo deriso dai bulli di Manduria che gli dicevano: “Vedi che le persone dormono a quest’ora sai?“. Il pensionato cerca di attrarre l’attenzione ed aiuto dei vicini di casa urlando: “Sono solo, aiuto“. La baby gang con strafottenza gli ordinava: “Dai, la foto, mettiti in posa” con parole di scherno e insulti. Si sentono perfettamente le urla di terrore dello Stano, che si rifugiava nel corridoio della propria abitazione, dove veniva inseguito, raggiunto e colpito con le mazze. Anche il gruppo “L’ultima dei Carnalì” (versione in dialetto locale dell’ “ultima di carnevale“) si scambiava fotografie e filmati relativi alle aggressioni ai danni del pensionato che erano soliti chiamare come “lù pacciù“». “…Cè carnevali lu pacciu è impacciuto lu triplu”» (traduzione: “che carnevale, il pazzo è impazzito il triplo“) il  tenore dei commenti dei giovani arrestati oggi dalla Polizia  . Proprio grazie ai contenuti della chat “L’ultima dei carnali”  sono venuti alla luce altri violenti assalti alla casa di Antonio Stano con scene filmate di violenza e sopraffazione psicofisica, al solo fine di procurarsi materiale video da far girare su Whatsapp per quello che viene definito un “malvagio divertimento”,dal Gip che ha ordinato le misure cautelari. Due minori e due maggiorenni già fermati dalla Polizia il 30 aprile scorso nell’ambito delle indagini sulla morte del 66enne Cosimo Antonio Stato, sono accusati anche dell’aggressione ai danni di Fiorello Stano un 53enne disabile di Manduria, avvenuta l’1 aprile scorso, che ha provocato alla vittima l’avulsione di denti incisivi e lesioni permanenti della masticazione. L’episodio è stato scoperto grazie all’analisi tecnica del telefonino sequestrato a uno degli indagati ed è stato poi denunciato dal fratello e dalla badante della vittima. I due minori in questione sono stati colpiti oggi da un nuovo provvedimento restrittivo . I quattro avrebbero attirato il 53enne, affetto da insufficienza mentale grave, all’esterno della sua abitazione non molto distante da quella di Antonio Stano, utilizzando “frasi denigratorie e provocanti”, colpendolo violentemente con un calcio che lo faceva cascare a terra venendo preso a pugni che gli hanno causato delle lesioni permanenti. Gli indagati sono stati tradotti in carcere  il diciottenne Vincenzo Mazza è rimasto associato alla casa circondariale di  Taranto, tutti gli altri sono stati trasferiti nel carcere minorile di Bari.

«Ti faccio vedere io se non ti diverti pizzarrone», nelle chat le serate del branco. Il sistema era questo: s’individuava la vittima, sempre sola e indifesa, poi si dava vita ad un gruppo social che aveva il doppio scopo di radunare il branco. Nazareno Dinoi Manduria Oggi giovedì 27 giugno 2019. L’inchiesta nata dalla morte del pensionato manduriano, Antonio Cosimo Stano, vittima di bullismo e dell’abbandono, ha segnato ieri un’altra tappa decisiva con l’emissione di nuovi mandati d’arresto e affidamenti in comunità di recupero. Undici in tutto i provvedimenti notificati agli indagati, uno solo maggiorenne, tutti gli altri tra i 15 e 17 anni di età. Nove di loro sono finiti in carcere, due già erano detenuti perché arrestati nel precedente blitz del 30 aprile scorso, mentre per altri due, anche loro nel Fornelli dei Bari da quella data, il giudice delle indagini preliminari Paola Morelli che ha firmato le richieste della pubblica accusa, per i reati a loro contestati ha disposto il collocamento in una comunità. A parte il diciottenne Vincenzo Mazza rimasto a Taranto, tutti gli altri sono stati trasferiti nel carcere minorile di Bari. I reati contestati in concorso sono quelli di tortura, lesioni, danneggiamento e violazione di domicilio. Non solo a danno di Stano, ma anche di un altro disabile manduriano che durante una vile aggressione notturna ha perso tre denti. Sono in tutto ventitré gli indagati, venti minorenni, tra cui una ragazza. C’è anche un bambino di tredici anni tra le persone coinvolte, non imputabile per l’età. Questo secondo filone d’indagini, condotte dagli agenti del commissariato di polizia di Manduria e della questura di Taranto con il coordinamento del pubblico ministero Remo Epifani e dei due capi delle procure joniche, Carlo Maria Capristo e, per i minorenni, Pina Montanaro, oltre a fare emergere nuove responsabilità, ha descritto con maggior chiarezza quello che può essere definito un «format dell’orrore». Il sistema era questo: s’individuava la vittima, sempre sola e indifesa, poi si dava vita ad un gruppo social che aveva il doppio scopo di radunare il branco all’ora e sul luogo convenuto e poi di diffondere le violenze che venivano documentate sui videotelefonini. I gruppi individuati sinora dagli investigatori sono tre: «gli orfanelli», «l’ultima di carniali» e «solo noi». Quest’ultimo era un gruppo d’élite quasi tutto composto da ragazzine, solo una indagata per ora. Tutto era codificato, preciso e terribile come nei giochi estremi dove si scommette su qualcosa di proibito e pericoloso. In questo caso a rischiare erano persone inermi impossibilitate a difendersi. E sole. La posta in gioco era il divertimento che doveva essere assicurato. Proprio questo è venuto fuori dalle chat del gruppo «l’ultima di carniali» a cui facevano parte molti degli arrestati di ieri, gli altri erano degli «orfanelli». La sera del 5 marzo scorso, il branco doveva divertirsi così, dal pomeriggio, aveva inizio il rituale. Le prove sono nelle chat. Gli amici si mettono d’accordo su come vestirsi. Uno raccomanda l’altro di portare le mazze. Un altro si chiede se non sarà noioso e l’amico lo assicura: «Non ti diverti? Ti faccio vedere io se non ti diverti pizzarrone… non c’è nessuno meglio, che cazzo ce ne fottiamo, stasera ti faccio vedere io come ti diverti». L’appuntamento quella sera, come quasi sempre, era in via San Gregorio Magno, casa di Antonio Stano. «Lu pacciu», come lo chiamavano tutti, quella sera ha dovuto offrire il suo terrore, le sue sofferenze, la sua impotenza per il piacere del branco. Il divertimento ci fu, documentano le chat. «Ce carnevali» - «bellu, bellu» - «motu casinu ahahah» - «lu pacciu è mpacciutu lu triplu» - «na ma divertiti» - «na ma divertiti, no ni putimu lamentari». E poi il marchio di fabbrica. «Mandate le foto». Nell’ordinanza firmata dal gip Morelli su richiesta del pm Epifani, è raccontato anche l’altro episodio di violenza contestato a due dei minori e due maggiorenni già arrestati il 31 aprile. La vittima presa di mira è un grave disabile intellettivo di Manduria che vive assistito da una badante. La sera del primo aprile scorso era lui il divertimento designato della baby gang. Il video finito in rete mostra il 53enne circondato da quattro individui che lo irretiscono, lo insultano, lo provocato e infine viene picchiato selvaggiamente da uno di loro che gli sferra un diretto sulla bocca. Il giorno dopo i fratelli dell’invalido lo porteranno dal dentista che diagnostica la frattura di tre denti. Il prezzo del divertimento del branco.

Manduria, pestato a morte, altri 9 arresti (8 minori) e nuovo caso: strappati i denti a disabile 53enne. Indagini della Polizia sul caso Stano di Manduria morto a marzo scorso per le percosse: in cella il gruppo degli "Ultima dei Carnali". La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Giugno 2019. Altro nove arresti, di cui 8 minorenni, nell'ambito delle indagini della Polizia e della Procura di Taranto per l'aggressione al 65enne di Manduria, Cosimo Antonio Stano, morto il 23 marzo scorso in ospedale dopo un ricovero d’urgenza per astenia e stato confusionale, quando terrorizzato e già in precarie condizioni igieniche e di salute, aveva deciso di rinchiudersi (privandosi di cibo) perché ripetutamente vittima di “incursioni” da parte di un gruppo di giovani che lo sottoponevano a vessazioni, percosse, angherie ed aggressioni.

Manduria: «È diventato pazzo il triplo», così il branco derideva il disabile. I provvedimenti, in cui si contestano le accuse di tortura, lesioni, danneggiamento e violazione di domicilio aggravati, sono stati eseguiti dalla Squadra mobile di Taranto e dallo Sco di Roma, e sono stati emessi dai gip del tribunale ordinario e dei minorenni, a seguito  dell’attività  di indagini coordinata  dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Taranto, guidata dal Procuratore Carlo Maria Capristo, e dalla Procura della Repubblica per i Minorenni, guidata dalla Procuratrice Pina Montanaro. Fra i gravi episodi contestati al nuovo branco, anche quello consumato il giorno 1 aprile scorso ai danni di altro uomo 53enne affetto da insufficienza mentale grave, che attirato in ore notturne all’esterno della sua abitazione, veniva per “puro passatempo” violentemente colpito con calci e pugni, fino a provocargli l’avulsione dei denti incisivi.

Nel corso delle indagini è emerso che il gruppo si definiva l"Ultima dei Carnali. Il 30 aprile scorso sempre la Polizia ha sottoposto a fermo altri 8 ragazzi, alcuni dei quali hanno ammesso le loro responsabilità: dai video di whatsapp che si giravano gli indagati emergevano le torture inflitte al pensionato che implorava aiuto. L’operazione della Squadra Mobile di Taranto e del Servizio centrale operativo di Roma - 9 misure cautelari per un maggiorenne e 8 minorenni (sei in istituto penale minorile e due in comunità) accusati a vario titolo di tortura, lesioni, danneggiamento e violazione di domicilio aggravati - riguarda due aggressioni avvenute nel periodo di carnevale (3 e 5 marzo scorsi) ai danni di Antonio Cosimo Stano. E anche il violento pestaggio ai danni di un 53enne disabile avvenuto l’1 aprile. L’inchiesta sulla morte di Stano aveva già portato il 30 aprile al fermo di due maggiorenni e sei minorenni. Quattro di questi compaiono anche in questa seconda operazione e a due viene contestata l’aggressione al 53enne dell’1 aprile scorso, in concorso con altri.

IL RAID IL GIORNO DI CARNEVALE - Il branco, composto dal maggiorenne e dai sei minorenni, è accusato dei due raid nell’abitazione di Antonio Stano nel periodo di carnevale. Hanno agito in maschera, con modalità efferate. Il 5 marzo, martedì grasso, era l’ultimo giorno di carnevale. Da qui il nome dato alla chat di Whatsapp, l’Ultima di Carnali, utilizzata per organizzare l’aggressione e poi condividere i video dell’assalto all’abitazione di Stano, deriso, umiliato e picchiato anche con le mazze. Gli episodi sono stati circoscritti grazie alla confessione e chiamata in correità di alcuni indagati, alle dichiarazioni di persone informate sui fatti e all’analisi tecnica del telefonino di uno degli indagati, che ha consentito di identificare i partecipanti e raccogliere i dati di geolocalizzazione. La Polizia ha diffuso un nuovo video agghiacciante, in stile Arancia meccanica, dell’assalto all’abitazione di Antonio Stano e la foto di gruppo, estrapolata dalla chat di whatsapp, di una baby gang in maschera davanti alla casa del 66enne pensionato di Manduria morto il 23 aprile scorso dopo aver subito una lunga serie di aggressioni, angherie, rapine e vessazioni da parte di più gruppi di giovani. Nel video si sente Stano urlare e chiedere aiuto. Poi l’uomo fugge per evitare le bastonate della gang.  Il filmato si riferisce a una delle aggressioni del periodo di carnevale (avvenute il 3 a il 5 marzo scorsi, a cui se ne aggiunge un’altra verificatasi l’11 marzo), contestate nei provvedimenti restrittivi notificati oggi a un maggiorenne e a otto minorenni. Si tratta di un’altra baby gang che ha elementi in comune (quattro minori) con quella precedentemente identificata dagli inquirenti, che aveva portato all’esecuzione di 8 fermi il 30 aprile scorso. Nel video si nota Stano sull'uscio di casa che grida: "Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza». E i bulli lo deridono. «Vedi che le persone dormono a quest’ora sai?». E il pensionato cerca di attirare l’attenzione dei vicini gridando: "Sono solo, aiuto». La baby gang ripete: «Dai, la foto, mettiti in posa». E il 66enne: «Aiuto, aiuto». Seguono parole di scherno e insulti. Poi il telefonino che si abbassa al passaggio di un’auto, e l’incursione nell’appartamento. Si sentono nitidamente le urla di paura di Stano, che scappa nel corridoio. Poi viene colpito con le mazze. Anche il gruppo 'L'ultima dei Carnalì (ultima di carnevale) si scambiava fotografie e filmati relativi alle aggressioni ai danni del pensionato che erano soliti indicare come «lu pacciu». 

GLI AUDIO AGGHIACCIANTI - «...Cè carnevali lu pacciu è impacciuto lu triplu» (che carnevale, il pazzo è impazzito il triplo). Erano di questo tenore i commenti dei giovani arrestati oggi dalla Polizia (un maggiorenne e otto minorenni) per le aggressioni compiute nel periodo di carnevale ad Antonio Cosimo Stano, il 66enne pensionato di Manduria che soffriva di un disagio psichico morto il 23 aprile scorso dopo aver subito ripetute aggressioni, torture, rapine e vessazioni da parte di più gruppi di giovani. Dai contenuti della chat «L'ultima dei carnali» (l'ultima di carnevale) e poi ancora dall’ascolto di altre testimonianze, sono emersi altri violenti assalti alla casa di Antonio Stano e scene di sopraffazione e violenza, il tutto al solo scopo di procurarsi materiale da far girare su Whatsapp per quello che viene definito dal Gip che ha emesso le misure cautelari un "malvagio divertimento». La sera del martedì grasso (5 marzo), gli indagati si organizzarono per portare a termine l’ennesima incursione. Decisero tramite chat cosa indossare, l’ora in cui agire, a sera inoltrata, le maschere e le mazze da utilizzare. Poi, dopo il violento raid tornavano a commentare divertiti e con soddisfazione le azioni di ciascuno, e a condividere la "foto di gruppo» in cui tutti indossano delle maschere. Il pensionato da anni veniva preso di mira con insulti, atti vandalici, calci, pugni, schiaffi, percosse con bastoni, anche soltanto simulati per incutergli disperazione. E anche angherie di varia natura, come la sottrazione di una bicicletta che la vittima teneva in custodita nella propria abitazione. Ciò, hanno spiegato gli inquirenti, per il gusto di poterlo deridere e così condividere l’ennesima impresa con gli altri complici. Qualche indagato le ha definite «prove di coraggio», semplicemente un modo per potersi sentire all’altezza degli altri, se non addirittura assumere il ruolo di leader.

AGGREDITO ANCHE ALTRO DISABILE - Dell’aggressione a un 53enne disabile di Manduria, avvenuta l’1 aprile scorso, che ha provocato alla vittima l’avulsione di denti incisivi e lesioni permanenti della masticazione, sono accusati due minori e due maggiorenni già fermati dalla Polizia il 30 aprile scorso nell’ambito delle indagini sulla morte del 66enne Cosimo Antonio Stato. I due minori in questione oggi sono stati raggiunti da un ulteriore provvedimento restrittivo (la Polizia ha notificato in tutto 9 misure cautelari nei confronti di un maggiorenne e 8 minorenni). L’episodio è stato scoperto grazie all’analisi tecnica del telefonino sequestrato a uno degli indagati ed è stato poi denunciato dal fratello e dalla badante della vittima. I quattro avrebbero attirato il 53enne, affetto da insufficienza mentale grave, all’esterno della sua abitazione (non distante da quella di Antonio Stano), con «frasi denigratorie e provocanti», colpendolo violentemente con un calcio e facendolo cadere per terra prima di sferrargli pugni che gli hanno causato lesioni permanenti. I dettagli dell’inchiesta sono stati illustrati questa mattina nel corso di una conferenza stampa dal Questore di Taranto Giuseppe Bellassai, dal procuratore Carlo Capristo, dal procuratore minorile Pina Montanaro, dal sostituto procuratore Remo Epifani e dal capo della Squadra Mobile Carlo Pagano.

LE PAROLE DEL PROCURATORE - «Con amarezza commentiamo il secondo atto di una storia agghiacciante, perché attraverso un’attenta e scrupolosa verifica tecnica sui telefonini immediatamente sequestrati dalla Polizia agli inizi di questa indagine, siamo riusciti a individuare addirittura un secondo gruppo di minorenni che aveva questo amarissimo, disgustoso atteggiamento nei confronti di persone con minorata difesa». Così il procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, ha esordito in conferenza stampa per spiegare i particolari dell’inchiesta che ha portato all’esecuzione di 9 misure cautelari nei confronti di un maggiorenne e 8 minorenni per aggressioni nei confronti di Antonio Cosimo Stano, il 66enne pensionato di Manduria morto il 23 aprile scorso e vittima di ripetute aggressioni da parte di più gruppi di giovani e per un pestaggio ai danni di un 53enne disabile avvenuto l’1 aprile scorso. «Abbiamo scoperto - ha aggiunto Capristo - questo gruppo che era solito chiamarsi 'L'ultima di Carnalì, che agiva accanto al gruppo della 'Comitiva degli orfanellì, che ha imitato e riproposto queste turpi azioni. Nel caso dell’aggressione dell’1 aprile al 53enne hanno agito per puro passatempo, colpendo il malcapitato con calci e pugni fino a provocargli l’avulsione dei denti incisivi. Si ripropone tutta una serie di interrogativi sul ruolo di scuola, famiglia, servizi sociali, tutti aspetti questi sui quali continuiamo a mantenere accesi i riflettori e che ovviamente non possono non contribuire alla crescita dei nostri giovani». 

PM: I MINORI ARRESTATI INSENSIBILI VERSO I DEBOLI - «Avevamo notato negli interrogatori dei giovani fermati particolare insensibilità nei confronti dell’essere umano non in generale ma in particolare di quello debole e vulnerabile. Parliamo di vittime che hanno disabilità di natura fisica e psichica, soggetti deboli e particolarmente vulnerabili e per questo considerati oggetto di divertimento e non come persone che meritano rispetto e la cui dignità va rispettata». Lo ha affermato il procuratore minorile di Taranto, Pina Montanaro, nella conferenza stampa in cui sono stati illustrati gli sviluppi dell’inchiesta sulla morte di Antonio Stano, che ha portato all’esecuzione di 9 misure cautelari nei confronti di un maggiorenne e 8 minorenni. «Le indagini con l’ausilio di attività tecniche sui cellulari - ha aggiunto - ci hanno consentito di accertare una cronologia degli eventi dai primi giorni di marzo fino a quelle di aprile e abbiamo prove dirette nelle chat di video di aggressioni quasi quotidiane e certe volte ripetute più volte nello stesso giorno ai danni di Antonio Stano, programmate con modalità che si ripetevano, modalità particolarmente violente». Montanaro auspica «che il processo penale diventi una possibilità per questi ragazzi e che si trasformi in un momento per valutare un percorso di rieducazione e di allontanamento, laddove possibile, dal circuito penalmente rilevante. Sono un’inguaribile ottimista, ho fiducia nell’attività della giustizia minorile. Anche i minori indagati e imputati comunque sono oggetto di tutele e bisogna proporre loro un percorso rieducativo e di resipiscenza». «L'istituzione religiosa cosa faceva? Su questo non posso dare una risposta precisa. Su questa struttura continuano le nostre attenzioni. Non posso anticipare nulla». Lo ha sottolineato, rispondendo alla domanda di un giornalista, il procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, in merito agli sviluppi dell’inchiesta sulla morte di Antonio Stano, che ha portato all’esecuzione di 9 misure cautelari nei confronti di un maggiorenne e 8 minorenni. Il riferimento è all’oratorio annesso alla chiesa di San Giovanni Bosco che si trova in via San Gregorio Magno, davanti all’abitazione di Stano. «E' - ha aggiunto il procuratore - un passaggio essenziale. Questa struttura religiosa che raccoglieva tutta una serie di minori, compresi quelli responsabili di queste azioni, effettivamente ci ha lasciati, uso un eufemismo, perplessi, per non essere intervenuta in tempo utile». Dire che «tutta la comunità - ha osservato ancora Capristo - sia in qualche modo attinta da questi fenomeni mi sembra un pò eccessivo. La scoperta di questo secondo gruppo di giovani certamente è sconcertante, ma sono ottimista. Insieme alla collega Montanaro, procuratore minorile, siamo convinti che questa azione dell’Autorità giudiziaria possa servire da esempio e da stimolo anche per i giovani a rinnovarsi in maniera più seria e corretta». «Ci vuole però - ha rilevato - un’azione sinergica. Mi rivolgo alle istituzioni ufficiali, e so che i tre commissari di governo alla guida di Manduria stanno facendo un lavoro splendido, ma anche alle scuole, ai Servizi sociali e soprattutto alla famiglia. Se c'è una cosa che mi ha turbato tantissimo è l’affermazione di una mamma dei minori fermati che disse un giorno: «E questi che devono fare? Non hanno nulla da fare». Quando «è così - ha concluso Capristo, che ha definito 'agghiacciantì i raid dei giovani coinvolti - non c'è speranza e bisogna muoversi con il pugno di ferro». Il procuratore ha infine aggiunto che «c'è urgenza di un intervento istituzionale a livello generale che faccia fronte alla crescita esponenziale di quelle che vengono chiamate baby gang, ma in realtà sono criminali organizzati minorenni e un domani forse saranno criminali più efferati e riempiranno associazioni criminose. Mi auguro chiaramente che non accada e che ci siano interventi da parte delle istituzioni».

Altri mandati di cattura per i primi due "orfanelli" maggiorenni già in carcere per l'aggressione al secondo disabile. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria giovedì 27 giugno 2019. La Procura della Repubblica di Taranto che indaga sulle baby gang manduriane, ha emesso ieri sera altre due ordinanze di custodia cautelare nei confronti dei primi due maggiorenni arrestati nella stessa inchiesta, Gregorio Lamusta di 19 anni e Antonio Spadavecchia di 23. Ai due, già accusati di aver preso parte alle aggressioni nei confronti del sessantaseienne manduriano, Antonio Cosimo Stano, morto per cause non ancora non direttamente legate alle violenze fisiche subite, gli viene contestata la partecipazione, in concorso con due minorenni, ad un'altra aggressione avvenuta il primo aprile a danno di un altro disabile del posto. Si tratta di un episodio avvenuto in ore notturne. La vittima all’esterno della sua abitazione, per “puro passatempo” sarebbe stata colpita violentemente con calci e pugni, fino a provocargli l’avulsione dei denti incisivi. Di seguito il comunicato stampa della Questura di Taranto. Ad esito di indagini condotte dal PM Dr. Epifani e coordinate dal Procuratore Dr. Capristo, personale della Polizia di Stato della Questura di Taranto e del Servizio Centrale Operativo di Roma ha dato esecuzione nella serata di ieri ad un’ordinanza di applicazione di misure cautelari in carcere emesse dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario nei confronti di due soggetti maggiorenni, già in atto detenuti per ipotesi di tortura, lesioni, danneggiamento e violazione di domicilio aggravati consumati in danno di STANO Cosimo Antonio, ed oggi ulteriormente accusati (in concorso con due soggetti minori) di analoghe scorribande consumate in danno di altro soggetto affetto da insufficienza mentale grave. Si tratta di un episodio consumato il giorno 1 aprile scorso, allorquando, in ore notturne, attirata questa seconda vittima all’esterno della sua abitazione, per “puro passatempo” la colpivano violentemente con calci e pugni, fino a provocargli l’avulsione dei denti incisivi. L’episodio, emerso dalla disamina di un ulteriore video rinvenuto nel telefono di uno degli indagati (colui che ha ripreso l’intera scena e che unitamente ad altro minore è stato destinatario della misura del collocamento in comunità), è stato ricostruito grazie ad accertamenti compiuti dalla Squadra Mobile e dal Servizio Centrale Operativo, che attraverso l’analisi di tabulati prima ed i rilievi(analisi morfologica) più tecnicamente avanzati operati dal Servizio di Polizia Scientifica (sezione indagini elettroniche) poi, hanno consentito di risalire all’identità dei responsabili. Ad aver confermato l’episodio la stessa vittima, nonché il fratello e la badante del medesimo. Quest'ultima, in particolare, ha dichiarato un mese più tardi rispetto ai fatti che da circa sette anni, durante la notte, un gruppo di ragazzi si divertiva a disturbare il proprio assistito, suonando al campanello della sua abitazione. All’ennesima azione di disturbo (peraltro posta in essere in piena notte), l’uomo, ormai stanco ed infastidito, si era portato in strada affrontando il gruppo di molestatori. Uno di questi, prima di fuggire, lo colpiva violentemente al volto, cagionandogli la rottura di quattro denti dell'arcata inferiore. Seppure accortasi che l’uomo era sanguinante al volto, la badante non aveva ritenuto in un primo momento di richiedere l'intervento delle Forze dell'ordine. La stessa vittima, forse per timore, aveva preferito inizialmente non confidare neppure al proprio fratello quanto accadutogli, riferendo a quest’ultimo che i denti gli erano caduti durante la consumazione di un pasto. Solo dopo qualche giorno il congiunto avrebbe appreso da un proprio conoscente che il fratello disabile era stato in realtà aggredito e che per tale ragione aveva perciò subito la perdita del dente; circostanza ammessa dalla vittima, che a quel punto ha raccontato che qualche settimana prima alcuni giovani che già da tempo, nelle ore notturne, si recavano davanti alla sua abitazione per molestarlo, avevano bussato alla sua porta e lui era uscito sull'uscio per affrontarli, ma due di loro lo avevano trascinato giù dai gradini sino al marciapiede facendolo cadere, per poi colpirlo violentemente al volto provocandogli la rottura del dente. Le lesioni riportate dalla vittima sono state successivamente confermate da un medico dentista che ha accertata un’avulsione dentaria e la mobilità di altri tre denti, ne riscontrava pure l’origine traumatica e la natura di lesione permanente. I successivi approfondimenti investigativi disposti dalla Procura della Repubblica di Taranto hanno infine consentito di individuare gli autori dell'aggressione. (Nota stampa della polizia)

Baby gang di Manduria, «la morte di Stano è stata una concausa delle vessazioni subite dal branco». Depositata l'autopsia disposta dalle due Procure di Taranto. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria giovedì 28 giugno 2019. Caso Manduria: «Le azioni vessatorie di cui risponde il gruppo di indagati possono considerarsi “concausa” della patologia che ha provocato la morte di Cosimo Antonio Stano». Lo avrebbe stabilito l'autopsia disposta dalla procura ed eseguita dal medico legale Liliana Innamorato. Di seguito la nota della questura di Taranto. A margine dei provvedimenti restrittivi disposti nelle scorse ore, vi è un altro importante elemento di verità emerso dalle indagini condotte dalla Procura della Repubblica ordinaria di Taranto e da quella presso il Tribunale per i Minorenni. Gli accertamenti disposti dalle due Procure sulla documentazione clinica e sugli esiti dell’esame autoptico compiuto sul corpo della vittima, per i quali è stato conferito incarico ad uno specialista in medicina legale, consentono di mettere in correlazione l’esito fatale e le azioni criminose ad oggi addebitate agli indagati. L’analisi della suddetta documentazione clinica, come pure degli ulteriori elementi acquisiti ed evidenziati dalla Polizia di Stato nel corso dell’indagine (ivi compresi contenuti audio e video, nonché le chat da cui si ricava con altrettanta evidenza la natura delle vessazioni cui veniva sottoposta la vittima) ha consentito di ritenere le condotte ad oggi addebitate agli indagati una “concausa” nella comparsa della patologia di cui era affetto l’uomo (ulcera duodenale), favorendone peraltro il tardivo ricovero in ambiente ospedaliero, avendo ingenerato in lui un atteggiamento di paura e chiusura di tipo negativo nei confronti dell’ambiente esterno. La morte di Stano è stata generata da uno “shock settico post-peritonite da perforazione di ulcera peptica duodenale”, ovvero dal conseguente ed irreversibile arresto cardiocircolatorio. L’esito della consulenza tecnica chiarisce l’esistenza di un nesso di concausa tra il quadro clinico che ha interessato il povero uomo e le ripetute vessazioni cui il medesimo è stato sottoposto. Ulteriori approfondimenti investigativi sono condotti al fine di determinare le responsabilità di quanti, più o meno prossimi all’ambiente familiare della vittima, hanno omesso di intervenire a sostegno di quest’ultima, come pure di quanti, diversamente, hanno agito invece al precipuo scopo di favorire gli indagati nel sottrarsi alle loro penali responsabilità. (Nota stampa della polizia)

Il procuratore: perchè la chiesa non è intervenuta? Evidentemente non saranno passate inosservate le dichiarazioni rese dal parroco don Dario De Stefano che...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria giovedì 27 giugno 2019. Mentre in via San Gregorio Magno accadeva di tutto, a venti passi dal civico 8 dove abitava il disabile morto per cause ancora da accertare, la parrocchia di San Giovanni Bosco, al più frequentata dai giovani per la presenza di campi da calcio ed altre attrattive (ora tutto demolito per una riedificazione da 5,5 milioni di euro), educava i suoi ragazzi alla vita religiosa. A chiedersi se adempisse anche ad altri compiti sociali, è stato ieri il procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo. «L’istituzione religiosa cosa faceva? Su questa struttura continuano le nostre attenzioni. Non posso anticipare nulla», ha detto il numero uno degli inquirenti facendo intendere possibili sviluppi anche in quel settore. Il procuratore Capristo che da due mesi, con la sua struttura e quella della Procura per i minorenni stanno lavorando per scardinare la malapianta di una generazione malata, ha fatto questa sottolineatura rispondendo alla domanda di un giornalista che chiedeva appunto se vi fossero responsabilità in altre parti della società che bisogna ancora scandagliate. Con stupore dei presenti che non si aspettavano certo un riferimento così diretto all’oratorio annesso alla chiesa intitolata al santo dei giovani, Capristo ha addirittura definito questo «un passaggio essenziale». Proseguendo il discorso, il procuratore ha spiegato che «questa struttura religiosa che raccoglieva tutta una serie di minori, compresi quelli responsabili di queste azioni, effettivamente ci ha lasciati, uso un eufemismo, perplessi, per non essere intervenuta in tempo utile». Evidentemente non saranno passate inosservate le dichiarazioni rese dal parroco don Dario De Stefano che sentito dagli investigatori in qualità di persona informata sui fatti, ha dichiarato di aver saputo che il suo dirimpettaio era stato oggetto di insulti da parte di ragazzi e che qualche volte si era trovato anche testimone. Solo che non sospettava che gli insulti fossero diventati vere e proprie aggressioni che la procura ha classificato come torture. Molto significativo, in proposito, è anche l’intervento di un educatore della parrocchia, R. D., che su Facebook, dopo la diffusione delle prime notizie sulle malefatte della baby gang, ha pubblicato un lungo intervento che testimonia come le violenze su Stano fossero conosciute da molti. Nel descrivere «un tessuto sociale che si sta deteriorando sempre di più», l’educatore confida le sue difficoltà nel cercare di interagire con i ragazzi e poi ammette: «personalmente – scrive - ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell’ordine e chiamando i genitori, ma senza risultati». Alle famiglie si è anche rivolto il procuratore Capristo. «Ci vuole però - ha rilevato - un’azione sinergica. Mi rivolgo alle istituzioni ufficiali e so che i tre commissari di governo alla guida di Manduria stanno facendo un lavoro splendido, ma anche alle scuole, ai Servizi sociali e soprattutto alla famiglia».

Bullismo, il Vescovo di Oria risponde alle accuse del procuratore: "segnalammo ai genitori". Ecco la replica della curia vescovile di Oria. «I fatti contestati agli indagati...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria giovedì 28 giugno 2019. Le dichiarazioni del procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, che nel corso della conferenza stampa sugli ultimi arresti dei minori accusati di avere aggredito il sessantaseienne Antonio Cosimo Stano, hanno provocato la reazione della diocesi di Oria. Il procuratore aveva sostenuto «che la struttura parrocchiale è oggetto di attenzioni da parte della Procura della Repubblica territorialmente competente». Inoltre Capristo aveva detto «di essere perplesso perché la Parrocchia non è intervenuta in tempo utile nei confronti dei minori presunti responsabili dei deplorevoli fatti». Infine «che i presunti responsabili avrebbero frequentato l’oratorio della Parrocchia “San Giovanni Bosco” in Manduria, di fronte alla quale è ubicata la casa del compianto Antonio Cosimo Stano». Ecco la replica della curia vescovile di Oria. «I fatti contestati agli indagati – scrive - sono avvenuti nell’arco temporale che va dal 3 marzo u.s. al 1° aprile u.s. in ore notturne (come specificato nella stessa conferenza, orario in cui nella Parrocchia non vi è più nessuno, considerato che le attività comunitarie sono già terminate e che il Parroco risiede altrove». Per quanto riguarda gli indagati, la diocesi fa notare che «benché minori, sarebbero però vicini alla maggiore età e … già da qualche anno non frequentavano più abitualmente la parrocchia né partecipavano alle attività formative e aggregative proposte dalla stessa, era dunque pressoché impossibile intervenire sugli stessi». In tono polemico poi il vescovo ribatte ancora. «Come già affermato in altre sedi, si ribadisce che richieste di intervento alle istituzioni preposte alla tutela dei cittadini sono state fatte più volte nel corso del tempo sia dai vicini del compianto Stano che da operatori della Parrocchia».

Caso Manduria, Don Franco: scontro in studio a Storie Italiane. “Difendo la comunità”. Davide Giancristofaro Alberti il  3.05.2019 su Il Sussidiario. Caso Manduria, le parole di Don Franco, il parroco del paese. Si torna a parlare del caso di Manduria, e della gang composta da 6 minorenni e due maggiorenni, in carcere per avere seviziato e malmenato il 66 Antonio Stano, poi deceduto in ospedale. Il programma di Rai Uno, “Storie Italiane”, ha intervistato alcuni dei vicini di casa del defunto, che però preferiscono non esporsi “Non ho visto mai niente, io lavoro tutta la settimana fuori, ho sentito dire che tiravano pietre, insultavano le persone, nel corso degli anni”. “Non ho visto niente”, “Se mi trovo qualcosa in televisione…”. Il programma condotto da Eleonora Daniele ha parlato poi con Don Franco, sacerdote di Manduria: «E’ un fatto gravissimo che ci ha feriti dentro – spiega il prete – il primo problema è un deficit educativo, serve lavorare tutti insieme per il bene della comunità. E’ stato un fatto scioccante. Fra un po’ si spegneranno i fari su questa vicenda – ha aggiunto – e resteranno le famiglie smarrite e i giovani senza speranza, questo è il problema di oggi. Quello che hanno fatto è stata una mostruosità, c’è un problema di comunicazione, di diseducazione. Questi ragazzi vivono la virtualità che ad un certo momento diventa realtà, è più importante apparire che essere. Conosco tanti genitori che hanno le stesse problematiche di questi ragazzi». Parole che però non sembrano convincere più di tanto gli ospiti in studio, visto che il prete sembra quasi voler girare attorno al problema, cercando in particolare di proteggere la sua comunità, e sottolineando quali sono gli aspetti positivi di Manduria: «Lei fa bene a difenderla – dicono in studio – ma nessuno di voi ha ancora ammesso “E’ vero, abbiamo sbagliato, c’è stato un problema in questa comunità». Peccato però che Don Franco non sia ancora convinto: «Ammettere delle responsabilità non risolve comunque il problema, ci sono i giudici per questo. Non so di quale comunità voi state parlando, io la conosco, so quali siano le sue ferite. Il problema, se ci sono delle piaghe, è quello di rimboccarsi le maniche e andare a risolverle, ma dallo studio non si vedono le bellezze di Manduria. Dobbiamo stare attenti a non creare i mostri del villaggio».

Tutti contro Manduria, i commenti degli italiani su Facebook. Accanto alle bellissime immagini, fa contrasto l’orda di commenti negativi e denigratori nei confronti dei cittadini manduriani. Antonio Dinoi su La Voce di Manduria, venerdì 03 maggio 2019. Si sfoga l’ira degli italiani sulla pagina Facebook dedicata a Manduria, gestita dal fotografo Gregorio Fragola, che raccoglie tutte le foto artistiche con protagonista la città Messapica. Accanto alle bellissime immagini, fa contrasto l’orda di commenti negativi e denigratori nei confronti dei cittadini manduriani, da parte di tantissimi utenti che scrivono da ogni parte d’Italia. Essendo una città prevalentemente turistica, i «leoni da tastiera» attaccano Manduria facendole cattiva pubblicità. «Da ieri Manduria passa alla storia per l’omertà e il menefreghismo dei suoi abitanti – commenta Felice Cipriani che termina il suo intervento con un monito: «La parola d’ordine sarà alla larga da Manduria». «Non andate più in vacanza in questi posti pieni di bestie feroci, siete bestie» commenta Ilaria Moretti. «Boicottiamo Manduria, cancellate le vacanze, sapevano tutti – ordina Roberto Mosca – davvero volete andare in un posto dove se chiedete aiuto non sente nessuno?». Le offese che la pagina Facebook registra si focalizzano anche sull’augurare le cose peggiori ai componenti dell’intera comunità Messapica. «Che Dio fulmini le ovaie di tutte le madri balorde che partoriscono dei mostri» spera Silvan Ray Escabor. «Meritate l’estinzione – scrive Gloria Rinaldi – voi e la vostra stirpe». «Mi fate schifo – dice Nadia Di Paolo – siete complici e colpevoli tanto quanto le bestie che hanno devastato la vita di Antonio Stano». Come si evince, la gogna mediatica cui è interessata Manduria la colpisce anche nel modo più insulso e stupido, alimentando nell’animo degli italiani un senso di «sadismo ebete» tipico di chi si erge a paladino della giustizia, stando ben seduto sul proprio divano. Avetrana con il caso Scazzi ha pagato le spese nove anni fa, adesso tocca a Manduria.

MANDURIA, BABY GANG UCCIDE 66ENNE. Ma da dove vengono paura, illegalità e omertà? Salvatore Abbruzzese il 03.05.2019 su Il Sussidiario. Dopo il pensionato Antonio Cosimo Stano, morto in ospedale dopo mesi di aggressioni, è proprio il vicinato di Manduria ad essere la seconda vittima della baby gang. Mi sono spesso chiesto che senso abbia passare la notte ad imbrattare i muri con ghirigori senza senso, interiezioni da fumetto, per di più di dimensioni cubitali, arrampicandosi sulle pareti dei depositi di qualsiasi tipo, cercando di arrivare sempre più in alto, con affreschi sempre più grandi quanto monosillabici. Credo che costi fatica: un vero e proprio lavoro notturno. Se tutte quelle energie fossero riservate a tinteggiare gli appartamenti dei privati, apprendendo il nobile lavoro del pittore, gli ignoti imbrattatori guadagnerebbero molto di più di un insegnante. Mi riusciva pertanto difficile capire tanto dispendio di energie nelle ore notturne per non guadagnare nulla, né dire assolutamente nulla, a nessuno. Mi sbagliavo. Dietro quelle fatiche notturne c’è verosimilmente un mondo, un frammento di vita metropolitana che, di fatto al di fuori di qualsiasi legame con il contesto civile urbano, trova nelle arrampicate notturne e nel defatigante lavoro di imbrattatura un’opera da mostrare ai propri compagni, creando così una propria “galleria” dalla quale è possibile al singolo autore di risalire nel sottobosco del proprio gruppo, mostrando le proprie capacità nello stesso momento in cui irride l’esterno; sbeffeggia, a suo modo, quello stesso mondo nel quale, per sua stessa volontà/incapacità, non entrerà mai. Se una tale ipotesi fosse realistica, i muri spettacolarmente imbrattati costituirebbero la testimonianza di un’ulteriore frangia di marginalità sociale che aspira a farsi notare. Ed è proprio la nostra stessa società della comunicazione che, raccattando tutto ciò che può fare notizia, suggella una simile attività dandole un nome e conferendole così una sua legittimità. Ciò consente di trovare una spiegazione anche alle incomprensibili aggressioni ai danni di persone indifese o rese tali da un sistema di procedure legali che brilla per la sua ripetuta e costante inefficacia. Non è un caso che le aggressioni vengano filmate e condivise nel gruppo dei pari. Poterle mostrare è ancora più importante del poterle compiere. Si tratta di un vero e proprio valore aggiunto che fa di ogni idiota un soggetto che si può esaltare della propria impresa: “quello sono io” dice orgoglioso il baby di turno, mostrando il filmato alla propria figura di riferimento (sia questa un compagno, un adulto o addirittura un componente dei servizi sociali). Fare facendosi notare, quindi entrare nel circuito dell’universo social per poterlo raccontare e potersi in qualche modo qualificare, fornisce un formidabile additivo espressivo ed un’utile scorciatoia ad una notorietà di gruppo e di quartiere, comunque nel proprio ambiente deviante, altrimenti precluse. L’impunità non solo giudiziaria, ma anche procedurale, è il corollario penoso di questa vicenda. Dopo il pensionato Antonio Cosimo Stano, morto in ospedale dopo mesi di aggressioni, è proprio il vicinato di Manduria ad essere la seconda vittima. Infatti l’accusa di omertà nei confronti dei vicini suona insopportabilmente farisaica e proprio per questo insopportabile. Chiamare le forze dell’ordine? Per fare cosa? Con quali risultati? Esiste sul serio un sistema giudiziario in grado di essere efficace? O non c’è, forse, il rischio più concreto di ritrovarsi, due o tre giorni dopo, la baby gang appena inutilmente denunciata, davanti la propria abitazione? Magari assieme a genitori, parenti, amici inferociti, pronti a dare la loro “lezione”? Oppure, qualora ciò non fosse possibile, rendersi capace di un atto di anonima ritorsione (che va dall’incendio della vettura del denunciante ad un’aggressione ai suoi figli). Alla paura del povero pensionato ridotto alla solitudine fa seguito l’umiliazione di un vicinato abituato a subire, a bere ogni giorno l’amaro calice della propria impotenza sociale e civile. Qualunque discorso educativo – di fatto certamente indispensabile – non può fare a meno di prendere atto di questa disastrosa impotenza al quale la comunità di Manduria è condannata e che il nostro sistema giudiziario ha contribuito a rendere possibile. Non c’è nessuna possibilità di recupero del degrado sociale se, accanto agli indispensabili interventi educativi, non si restituisce a quanti volevano intervenire il diritto concreto di farlo senza rischiare ritorsioni. Ma non c’è anche nessuna possibilità di recupero se non si ricostruisce il concetto di responsabilità educativa, a cominciare dagli stessi genitori. I primi che non potevano non sapere, i primi a non essere intervenuti, consentendo una simile escalation di idiozia. Comunità e famiglia debbono allora essere restituiti ai loro ruoli naturali che si concretizzano al diritto ad intervenire per la prima ed al dovere di farlo per la seconda. Solo a queste condizioni il personale insegnante – l’ultimo anello in questa catena di defezioni ad essere chiamato in causa – può realmente avere delle possibilità di recuperare il suo ruolo, pretendendo il rispetto di tutti come regola aurea di ogni sano “clima di classe”. Si impone così una modifica sostanziale delle procedure ed un recupero preciso delle responsabilità genitoriali. Qualsiasi discorso educativo non può iniziare a muovere i suoi primi passi senza il riconoscimento di queste responsabilità ed il recupero al diritto che uno Stato deve saper garantire, se non vuole che sia l’anti-Stato della criminalità organizzata a prendere il suo posto. 

Manduria, chi non parla e chi parla a sproposito. Tarantini Time 1 Maggio 2019. Morte di Antonio Stano. Il presidente della Pro Loco di Manduria scrive una lettera aperta alla dott.ssa Pina Montanaro, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Taranto. Manduria oggi è tristemente al centro di tutte le cronache, questo è un oggettivo dato di fatto. Capita, ogni città subisce, suo malgrado, le conseguenze dei crimini in essa avvenuti, cosa probabilmente non giusta ma a cui la società attuale dovrebbe averci abituato. I nostri cugini di Avetrana ricorderanno con orrore e pena gli anni della triste ribalta mediatica data al paese dall’omicidio Scazzi ed, allora come ora, il pessimo ruolo svolto da gran parte dell’industria nazionale dell’informazione. Ora noi Manduriani ci troviamo a subire la stessa gogna con l’aggravante di un’ulteriore strumento di disinformazione all’epoca ben meno potente, i social network. Oggi è infatti davvero facile creare ed alimentare una macchina del fango, senza alcuna risorsa economica e, come tutti abbiamo potuto aver modo di notare in questi tremendi giorni, senza necessità di possedere alcuna conoscenza della materia né purtroppo alcuna capacità cognitiva. È il triste pedaggio del progresso e, nonostante lo riteniamo profondamente ingiusto, dovremo farcene una ragione. Ciò di cui non possiamo e non dobbiamo farci una ragione è che la cieca ed ignorante macchina del fango contro questa comunità venga alimentata proprio da quelle Istituzioni che dovrebbero difendere i diritti della gente onesta, tra i quali ricordiamo c’è quello inalienabile alla dignità. Oggi questo diritto è stato palesemente calpestato pubblicamente dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa dal Procuratore capo per i minorenni Pina Montanaro che ha detto testualmente che “la quasi totalità della cittadina manduriana era a conoscenza di quello che accadeva e aveva modo di visionare queste crudeltà che sistematicamente venivano poste in atto”. Ecco qua, vi presentiamo la sentenza di morte emanata ancor prima di un regolare processo a danno di un imputato particolare: TUTTI NOI. Troviamo assolutamente ingiustificabile che un organismo inquirente, invece di cercare ed appurare la verità, si abbassi ad offendere la dignità di un’intera comunità. Chiediamo con tutta la nostra forza che la Dott.ssa Montanaro porga le sue scuse a questa città ed ai suoi abitanti, gente degna di rispetto, padri, madri e figli offesi da queste assurde e ingiuste accuse rivolte proprio da chi dovrebbe difenderli. Invitiamo tutti i cittadini e le Istituzioni a partecipare insieme a noi alla Marcia per la Civiltà di Sabato 4 Maggio, per dimostrare che NON siamo solidali con i delinquenti, NON tolleriamo le ingiustizie, ma soprattutto che NON ACCETTIAMO DI ESSERE INFANGATI. Manduria Migliore, Il Presidente Girolamo Vergine.

Modica come Manduria, Angelo Partenza fu vittima della baby gang. Nuovosud.it 4 maggio 2019. La tragica vicenda del pensionato di Manduria, deceduto a causa delle aggressioni e delle violenze di una baby gang, ha sconcertato l’Italia, ma in modo particolare i familiari di Angelo Partenza, che hanno rivissuto l’incubo di due anni fa. Il caso del 64enne di Modica presenta infatti moltissime affinità con quello che ha riempito le pagine dei giornali in questi giorni: anche lui era stato preso di mira da un gruppo di “ragazzi” di (allora) 15 e 16 anni che abitavano nel suo quartiere e non perdevano occasione per infastidirlo; anche lui è stato picchiato senza pietà, e per di più in una piazzetta della città e in pieno giorno; anche lui per quei calci e pugni è morto. L’hanno trovato senza vita in casa il 3 febbraio 2017, ma prima che il grave ematoma riportato al capo gli fosse fatale, aveva fatto in tempo a recarsi al pronto soccorso dell’ ospedale e poi a denunciare i fatti del 19 gennaio ai carabinieri, a cui aveva riferito della raffica di colpi ricevuti, facendo i nomi dei responsabili del pestaggio. I sanitari gli avevano riscontrato una brutta frattura della parete anteriore laterale, mediale e superiore del seno mascellare destro, una frattura delle pareti laterale e mediale dell’orbita destra, un enfisema sottocutaneo a livello della regione orbitaria e malare destra e la scoliosi sinistro convessa del setto nasale, a conferma di come le botte si fossero concentrate sulla testa, per una prognosi di 30 giorni salvo complicazioni. Che purtroppo si sarebbero verificate, conducendo l’anziano alla morte. I presunti responsabili di quelle violenze, minorenni all’epoca dei fatti, sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di omicidio preterintenzionale in concorso, e l’aggravante “di aver profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”. All’udienza preliminare, nel giugno 2018 al tribunale dei minori catanese, i legali dei due imputati hanno chiesto il rito abbreviato e nella successiva udienza del 5 dicembre, in cui si doveva decidere sul rito alternativo, hanno “rilanciato” con l’ulteriore richiesta dell’istituto della Messa Alla Prova. La Presidente del Collegio, Alessandra Chierego, ha voluto risentire i due minori; il Sostituto Procuratore, inizialmente contraria, si è riservata di decidere se accogliere o meno l’istanza, dopo ulteriori approfondimenti sulla personalità dei due imputati. All’udienza del 15 maggio si deciderà se accordare la Map, con conseguente sospensione del procedimento, o se continuare il processo. Con la Messa alla Prova, l'imputato viene affidato all'ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE) per lo svolgimento di un programma di trattamento che preveda attività obbligatorie e alternative, come l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità, consistente in una prestazione gratuita in favore della collettività; o l’attuazione di condotte riparatorie, volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato. “Le somiglianze della tragedia di Manduria con quella di mio fratello – afferma Giuseppina, la sorella di Angelo Partenza - sono tantissime, e se questa vicenda ha destato così tanto sconcerto per la sua gravità, altrettanta indignazione mi auguro che ne susciti, soprattutto tra i giudici, la sorte di Angelo”. A Manduria i minorenni sono finiti in carcere, qui non hanno fatto un giorno dietro le sbarre e c’è il rischio che non lo faranno mai. “Siamo fermamente contrari alla messa alla prova di questi ragazzi – prosegue la sorella della vittima - Non è che si chieda l’ergastolo, comprendiamo che a monte ci sono tante responsabilità delle famiglie, ma non è ammissibile che non ricevano nessun castigo per il male che hanno fatto, che la passino liscia: hanno ucciso un uomo! Non solo per mio fratello e per noi familiari, ma per la società tutta, perché altrimenti poi non possiamo stupirci e scandalizzarci se questi episodi di delinquenza giovanile si ripetono, come appunto, di recente, a Manduria. Chiediamo un segnale forte da parte della giustizia. D’altra parte, la loro messa alla prova l’hanno già avuta, sono già stati seguiti da diverse “agenzie”, a cominciare dalla scuola”.

Massacrarono anziano, se la cavano coi servizi sociali. Partenza fu ucciso da due minorenni: concessi 30 mesi di messa in prova. L'ira della sorella. Valentina Raffa, Giovedì 16/05/2019, su Il Giornale.  Ragusa «L'hanno fatta franca. Una beffa dello Stato contro i più deboli». Non si dà pace Giuseppa, la sorella di Angelo Partenza, l'uomo morto a 64 anni, nella notte tra il 1° e il 2 febbraio 2017 nella sua casa di Modica (Ragusa) per le conseguenze delle botte ricevute da due minorenni, dopo la decisione del collegio del tribunale dei minori di Catania di concedere la messa alla prova per 30 mesi ai due ragazzi, che nel 2017 avevano 15 e 16 anni. «Hanno ucciso mio fratello dice Giuseppa ma non faranno un giorno di carcere». Lo pestarono colpendolo alla testa e al volto, come da referto medico, botte che Angelo descrisse ai carabinieri come provenienti «da una mitragliatrice», ma sia per il più grande, ora maggiorenne, sia per il minorenne, i giudici hanno previsto un periodo di «recupero», attraverso due programmi differenti (visto che uno lavora e l'altro dovrà seguire un corso professionale) che prevede attività «ricreative» e di volontariato presso un'associazione di Modica e incontri clinici periodici con psicologi insieme ai genitori. Il procedimento penale è sospeso, non estinto, ma lo sarà se i due imputati (in precedenza rinviati a giudizio per omicidio preterintenzionale in concorso, con l'aggravante «di aver profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all'età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa»), seguiti da un giudice onorario, avranno dimostrato di aver superato il percorso di recupero, con la possibilità per i loro legali di chiedere un termine anticipato rispetto ai due anni e mezzo stabiliti. Modica come Manduria, continua a ripetere la sorella, ma non negli esiti. «I ragazzi non hanno capito nulla della messa alla prova. Alla fine dell'udienza si scambiavano il cinque con i loro avvocati: una scena vergognosa, se penso che hanno ucciso una persona indifesa e che non faceva male a nessuno. L'unica cosa che hanno capito è che l'hanno fatta franca. Ci scandalizziamo di fatti come Manduria, ma se questa è la giustizia, la società italiana se lo merita». «Ancora una volta ci troviamo di fronte a una decisione difficilmente comprensibile dice Ermes Trovò, presidente di Studio 3A che rappresenta Giuseppa - Purtroppo ci scontriamo spesso con un sistema che non fornisce gli strumenti per rendere una giustizia equa e adeguata».

«Manduria omertosa», la comunità respinge. Le parole pronunciate dai tre esponenti dello Stato, riprese e amplificate a dismisura dalla macchina mediatica che non sono piaciute ai manduriani. La Voce di Manduria giovedì 2 maggio 2019. «Indagheremo sui silenzi che talvolta uccidono. Oggi Stano sarebbe ancora tra noi» (Procuratore capo Carlo Maria Capristo, conferenza stampa). «La cittadina di Manduria era a conoscenza dello stato di terrore e di sofferenza fisica che viveva Antonio Stano» (Procuratore dei Minorenni Pina Montanaro, conferenza stampa). «Se i bulli invece che con quel pover’uomo se la fossero presa con un cane, ci sarebbe stata la rivolta popolare. E invece tutti zitti, in un silenzio assordante che oggi mi lascia amareggiato. Quanto subiva Stano è stato chiuso e isolato in una casa, in una strada, in una comunità: un essere umano che abitava davanti a una parrocchia lasciato solo» (Commissario straordinario del comune di Manduria, Raffaele Saladino, all’AdnKronos). Sono queste le parole pronunciate dai tre esponenti dello Stato, riprese e amplificate a dismisura dalla macchina mediatica che non sono piaciute ai manduriani e che hanno scatenato una serie di reazioni risentite soprattutto sui social. Ne pubblichiamo alcuni.

Gregorio Fragola - «La maggior parte dei manduriani è brava gente e non omertosi. Gente che ha dei valori familiari tramandati da generazioni, gente che ha patito la fame e con esperienze negative, dalle quali ha tratto insegnamento».

Mariella Franco - Vorrei fare una domanda a molti di quelli che stanno gettando fango in maniera ignobile e gratuita contro i manduriani, ma nelle loro cittadine i ragazzi cosa fanno? Il problema del nulla dei giovani è uguale dappertutto. Le azioni di quei ragazzi è deprecabile, condannabile, punibile, ma nessuno è autorizzato a massacrare una comunità di quasi 35.000 anime e di condannarla per colpe che non ha.

Tonino Filomena - Brava Mariella. Non c’è paese o città che si salvi dalla perdizione e dal vuoto esistenziale. I fatti di cronaca del passato e del presente lo dimostrano. Manduria non merita simile sciacallaggio. È una cittadina meravigliosa. Difenderla è un dovere civico.

Nino Filotico - Considerando i confini “geografici” e linguistici, Manduria con 33.486 abitanti è la quarta città più popolosa del Salento: dopo Lecce, Brindisi, Francavilla Fontana, e prima di Nardò, Ostuni, comuni che contano circa 31.000 abitanti. Altro che “paesone dove tutti sapevano”. A qualcuno forse piacerebbe, ma non è così. E dunque cosa pensano di fare le istituzioni che da sempre latitano in una città relegata a ruolo di serbatoio di voti?.

Mirko Giangrande - Le persone che erano a conoscenza della situazione (i vicini, il parroco) hanno parlato, hanno agito. Esatto, loro. E le istituzioni? Sarà forse che con l’invenzione dell’omertà si voglia far ricadere sull’ignara cittadinanza le colpe di chi, a livello istituzionale, doveva (ripeto, doveva) intervenire? Ma poi, pur ammettendo il fatto che tale situazione persecutoria fosse veramente di dominio pubblico, è mai possibile che la voce sia arrivata alle orecchie di tutti tranne a quelle di chi doveva intervenire?

Cosimo Breccia - Esistono degli organi competenti che si strafottono fior di migliaia di euro elargendo incarichi diretti a destra e manca. Ma il loro vero ruolo dovrebbe essere quello di assistere, monitorare tutelare, sorvegliare coloro che vivono una condizione disagiata. E non venissero a dirmi che non sapevano scaricando tutte le responsabilità sui manduriani perché loro vengono pagati per questo! Ci sono stati gli esposti, le segnalazioni, le telefonate, per non parlare di chi in quel palazzo di città ci lavora e conosce molto bene il signor Stano. Sono mai andati a vedere in che condizioni viveva? Se mangiava? Cosa mangiava? Come dormiva? Chi doveva e poteva farlo? Ha mai pensato chi di dovere ad esercitare il proprio ruolo magari anche con un Tso per “costringerlo” a curarsi? No! Tutto questo non c’è stato e quando si sono resi conto che la cosa sfuggiva di mano hanno fatto presto a convogliare tutte le attenzioni sui fatti di cronaca coprendo le principali responsabilità di chi avrebbe potuto evitare che un uomo debole divenisse poi in seguito vittima di balordi.

Marianna Bentivoglio -.Mi domando! Ma tutti i servizi sociali e militari e quant’altro non hanno mai visto o sentito niente visto che questo signore veniva perseguitato da anni?

Alessandro Piccinni - Purtroppo tutti quelli che scrivono e non sono di Manduria possono attenersi solo a quello che dicono i media, e a quello che dicono le istituzioni, vedi commissario e altri, che vogliono scaricare le loro mancanze sui cittadini, quando invece forze dell’ordine e assistenti sociali erano già stati allertati sul fatto dai vicini e dagli insegnanti.

Che senso ha che la Polizia mostri i pestaggi di Manduria? Left Giulio Cavalli il 2 maggio 2019 su Left. C’è una domanda che mi assilla da qualche giorno, io non sono un social manager ma in fondo per lavoro su internet ci devo vivere. Ero già rimasto basito di fronte alle risposte dell’account Facebook dell’Inps che ha pensato bene di prendere in giro chi chiedeva informazioni sul reddito di cittadinanza. Dicono che non ce la facesse più a sopportare le ingiurie eppure se ci pensate la differenza tra un’istituzione e un signor nessuno sta proprio tutta qui: nel rimanere istituzionali anche nelle situazioni più difficili. Se dovessi rispondere alla caterva di insulti che arriva ogni giorno, ogni buongiorno, probabilmente diventerebbe la mia professione per il tempo speso e per il fegato amaro che mi imploderebbe. Ma non sono un’istituzione, io. Capisco anche (e non condivido) che un certo tipo di stampa sembra più impegnato a darci le descrizioni degli stupri come se fossero capitoli di 50 sfumature di grigio scendendo nei particolari dell’atto sessuale, trasformandosi in cronisti del porno, senza nessun rispetto della vittima, per vendere qualche copia barzotta in più. Ma questa cosa che i social della Polizia abbiano voluto mostrare al mondo intero le vessazioni del povero anziano morto a Manduria, quei ragazzotti che spalancano la porta e lo riempiono di mazzate mi lascia più che perplesso. Sono tutti con il volto coperto e l’immagine è molto buia quindi non c’è nessuna possibilità (e del resto non c’è nessuna necessità) di riconoscere gli eventuali colpevoli. Com’è andata l’abbiamo letto praticamente su ogni quotidiano e su ogni testata online. Sentire le urla di un uomo che è morto da poco agisce sulle viscere di chi guarda quel video e non aggiunge nulla all’azione della Polizia come istituzione (appunto) visto che non si tratta di un’operazione di Polizia o dell’arresto eclatante di qualche latitante. Mi chiedo, davvero, che senso ha che un profilo social di un’istituzione diventi improvvisamente un propagatore di bile e di spirito di vendetta come un Salvini qualsiasi? Tutto ciò definisce bene il Far west della comunicazione pubblica che sta invadendo il Paese. Ma esiste una policy dei social della Polizia di Stato? È possibile sapere in base a quale criterio vengano scelti i contenuti da propagare e quale sia esattamente la mission dei canali Facebook e Twitter? Sono curioso. Mica per altro. Dietro internet ci sono le persone (benché a molti faccia comodo credere il contrario) e mi piacerebbe sapere se quella persona lì, quella che cura i social, ha ricevuto l’ordine (e da chi? e perché?) di mostrarci un vecchio agonizzante e malmenato. E cosa dovrebbe insegnarci tutto questo. Ben sapendo che non ci sarà risposta. Perché anche questo succede: le istituzioni non rispondono mica, alle domande cortesi, ultimamente. Buon venerdì.

Giletti scrive a Open: «Sì alle immagini di Manduria, inchiodano chi vuol voltarsi dall'altra parte». Open 04/05/2019. Il conduttore: «Senza vedere non riesci a capire. Senza vedere resti anestetizzato dentro il tuo credo». Abbiamo paura di vedere il male? Abbiamo timore che le immagini della violenza subita da un uomo incapace di difendersi da un gruppo di ragazzini di Manduria possa scuotere le nostre coscienze e aprire un dibattito serio su ciò che sta succedendo nella nostra società? Direi di sì, vista la reazione di alcune persone. Da sempre, da tempi lontani, questo tipo di dibattito esiste: vi ricordate le immagini realizzate con grande coraggio e a rischio della vita dai fotoreporter durante la guerra in Vietnam? Furono anche quelle straordinarie fotografie che raccontavano, più delle parole, il dolore e la sofferenza, che permisero all'America di chiedersi se fosse giusto combattere una guerra laggiù. Senza vedere non riesci a capire. Senza vedere resti anestetizzato dentro il tuo credo. Eppure anche quelle immagini vennero criticate: meglio non far sapere la realtà, meglio girare la testa dall'altra parte. Un giorno di tanti anni fa, quando ero ancora un giovane collaboratore di Giovanni Minoli, andai in una scuola della periferia romana dove si era deciso di dibattere il tema del negazionismo dell'Olocausto. Noi avevamo portato da vedere Memory of the camps, un documentario che raccontava la liberazione di alcuni campi di concentramento nel 1945. Appena si spensero le luci, protetti dal buio in molti urlarono: «Viva Hitler, viva il Duce, morte agli ebrei». Quel clima di follia e di violenza dialettica si placò però all'improvviso di fronte alla visione delle immagini crude e durissime girate in presa diretta da Bernstein e Hitchcock. Un silenzio che ancora oggi porto dentro di me. Un silenzio che faceva rumore. La forza di quelle immagini era penetrata dentro l'anima anche di chi aveva una visione orribilmente distorta di ciò che era veramente successo nei campi di sterminio nazisti. Ecco perché decisioni, seppur forti, come quella presa dalla polizia di Stato, non solo vanno comprese ma vanno anche condivise. A Manduria non siamo di fronte a una “ragazzata“. A Manduria c'è molto di più: c è una violenza precisa, continuata, ricercata, che racconta non solo lo sbando di parte della nostra gioventù, ma anche come il silenzio degli adulti che sapevano serva a coprire irresponsabilmente la banalità del male. Queste immagini inchiodano chi di noi continua a non volere vedere, preferendo pensare che la realtà sia un’altra: quella più comoda, quella meno disturbante.

I servizi sociali del comune di Manduria erano stati informati dalla scuola che uno dei suoi studenti, tra gli accusati di aver aggredito e bullizzato il pensionato Antonio Cosimo Stano...La Voce di Manduria giovedì 02 maggio 2019. I servizi sociali del comune di Manduria erano stati informati dalla scuola che uno dei suoi studenti, tra gli accusati di aver aggredito e bullizzato il pensionato Antonio Cosimo Stano, aveva mostrato ad una professoressa un video delle sevizie finito poi nelle mani degli investigatori che lo indagano con altri tredici presunti componenti della baby gang. La circostanza, comunicata alla stampa dalla dirigente dell’istituto Einaudi, è stata confermata ieri in una nota della commissione straordinaria del comune di Manduria che nel ribadire di non aver «mai ricevuto, formalmente o informalmente», alcuna segnalazione relativa al pensionato deceduto il 23 aprile, ammette che gli uffici dei servizi sociali erano a conoscenza del video. Nel comunicato si evidenzia «che solo dopo il ricovero del signor Stano è giunta una telefonata da parte di una docente dell’Istituto Superiore “Einaudi” di Manduria, con la quale il Servizio Sociale veniva informato in ordine a episodi di estrema gravità posti in essere da alcuni minori, nei confronti del predetto, ripresi in un video». Dopo la comunicazione arrivata negli uffici di via Pacelli, sede dell’Ufficio di Piano sociale diretto da Raffaele Salamino, in una data imprecisata comunque «dopo il ricovero di Stano, il comunicato stampa del comune fa sapere che il proprio «assistente sociale, raccolta l’informativa e tenuto conto che la stessa era riferita ad un minore già in carico ai servizi, ha provveduto sollecitamente a convocare il medesimo e i suoi genitori, relazionando in data 18 aprile 201 9 al Tribunale per i minorenni di Taranto per gli eventuali provvedimenti di propria competenza». Cinque giorni dopo il sessantaseienne moriva nella rianimazione di Manduria dove era stato ricoverato in condizioni disperate lo scorso 6 aprile.

La scuola sapeva dei video degli "orfanelli" e lo aveva segnalato ai servizi sociali comunali. A confermare l’avvenuta trasmissione attraverso i canali ufficiali, è la preside dell’istituto tecnico, «Luigi Einaudi» di Manduria dove si è verificato l’episodio, la dottoressa Elena Silvana Cavallo. La Voce di Manduria mercoledì 1 maggio 2019. Uno dei componenti della baby gang fece vedere ad una sua professoressa del liceo alcuni video dove egli stesso era protagonista delle sevizie subite da Cosimo Antonio Stano. La docente, allarmata e preoccupata del contenuto di quelle immagini, avvertì la sua dirigente che si preoccupò di segnalarlo ai servizi sociali del comune di Manduria. Non era dunque vero, almeno dalla data dell’episodio, che negli uffici comunali non era mai arrivato niente del genere così come sostengono i dirigenti e gli amministratori dell’ente. A confermare l’avvenuta trasmissione attraverso i canali ufficiali, è la preside dell’istituto tecnico, «Luigi Einaudi» di Manduria dove si è verificato l’episodio, la dottoressa Elena Silvana Cavallo «La scuola – dice la dirigente – ha immediatamente attivato le procedure previste in questi casi eseguendo puntualmente quello che prevedono i protocolli». La circostanza dei video mostrati alla prof era stata riferita da uno degli indagati agli investigatori che convocarono immediatamente la professionista sentita come persona informata sui fatti.

 Il pensionato picchiato a morte a Manduria avvisò la polizia un mese prima: "Sono vittima dei bulli".  Il 14 marzo 2019 Antonio Stano fu raggiunto a casa dall'equipaggio di una pattuglia di polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. Un mese dopo il 66enne è morto. La Repubblica il 5 maggio 2019. Il 14 marzo 2019 Antonio Stano, il pensionato di 66 anni morto il 23 aprile scorso e vittima delle torture di una banda di bulli a Manduria, fu raggiunto a casa dall'equipaggio di una pattuglia di polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. E' quanto emerge dagli atti dell'indagine. "Alle ore 22.43 circa - è riportato negli atti - personale dipendente (del commissariato di polizia di Manduria, ndr), nell'ambito della consueta attività di prevenzione e controllo del territorio, su disposizione della  sala operativa, si portava in questa via San Gregorio Magno numero 8", dove viveva il 66enne e dove i bulli passavano il tempo a pestarlo. "Gli operanti sul posto - continua la relazione inviata alle Procure ordinaria e minorile - venivano avvicinati da Antonio Cosimo Stano, un uomo anziano che vive da solo, il quale riferiva loro di essere, già da diversi giorni, costantemente oggetto di vessazioni, angherie, percosse ed aggressioni ad opera di alcuni giovani ignoti". Per i pestaggi e le torture subite da Stano sono in carcere sei minorenni e due maggiorenni. Il successivo documento che parla delle aggressioni è del 5 aprile, giorno in cui viene presentata la denuncia scritta firmata da sette residenti nella via in cui viveva Stano e dal parroco della chiesa San Giovanni Bosco, don Dario De Stefano.

“Io vittima di bulli”. Stano denunciò un mese prima. Il quattordici marzo scorso Antonio Stano, il pensionato 66enne morto il 23 aprile e vittima delle torture della banda di bulli a Manduria, fu raggiunto a casa – in via San Gregorio Magno, 8 alle 22.45 circa – dall’equipaggio di una volante della Polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. È quanto emerso dagli atti dell’indagine. Redazione Teleregione 6 Maggio 2019. Il quattordici marzo scorso Antonio Stano, il pensionato 66enne morto il 23 aprile e vittima delle torture della banda di bulli a Manduria, fu raggiunto a casa – in via San Gregorio Magno, 8 alle 22.45 circa – dall’equipaggio di una volante della Polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. È quanto emerso dagli atti dell’indagine. Gli agenti sul posto – c’è scritto nella relazione inviata alle Procure ordinaria e minorile – venivano avvicinati da Antonio Cosimo Stano, un uomo anziano che vive da solo, il quale riferiva loro di essere, già da diversi giorni, costantemente oggetto di vessazioni, angherie, percosse e aggressioni ad opera di alcuni giovani ignoti”. Il successivo documento che parla delle aggressioni subite dal pensionato è datato cinque aprile, giorno in cui viene presentata la denuncia scritta e firmata da sette vicini di casa e dal parroco della chiesa San Giovanni Bosco, don Dario De Stefano. Il giorno dopo la Polizia si recò nuovamente a casa dell’uomo torturato: gli agenti in quell’occasione bussarono più volte dicendo a Stano di aprire: “Non vogliamo farti del male”, dissero, capirono subito che qualcosa non andava. Dopo aver aperto la porta, trovarono l’anziano legato ad una sedia. Fu trasportato subito in ospedale e dopo due interventi e diciotto giorni di agonia l’uomo è deceduto. Intanto otto persone sono state fermate, di cui sei minori per i reati di tortura e sequestro di persona.

Manduria e il caso Stano a Italia Si, l’attacco di Rita Dalla Chiesa e Platinette. Roberto De Giorgi suagoramagazine.it il 5 maggio 2019. Brutta pagina televisiva, quella di ieri pomeriggio nel contenitore Italia Si, condotto dal giornalista Marco Lioni sul caso del malcapitato Antonio Stano preda di una baby gang. Stavolta, nel flusso inarrestabile di storie e volti, il paese che sfila di fronte a se stesso è finito Manduria, attraverso la testimonianza di un amico di Antonio Stano. Certo dal momento in cui la vicenda manduriana è passata nel tourbillon dei media di tutt’Italia, diventando persino virale con l’esilarante accusa di essere paese omertoso, è stato davvero coraggioso, se non proprio audace l’amico di Stano a salire sul podio della trasmissione di Rai1.

Nel link che indichiamo ciascuno può rivedere la puntata e farsene una ragione (al minuto 1.13.55). A noi compete, da tarantini soprattutto, cercare di capire il senso delle cose. Tutti noi, presi dalla rabbia, nel leggere un fatto sì efferato, abbiamo dato subito ragione a Salvini e al carcere immediato per i minori – cosa peraltro acclarata dalla decisione del giudice – ma un minuto dopo siamo stati d’accordo con Gramellini, il quale narrando il dramma di Antonio ha raccomandato di non ragionare subito con la pancia chiedendo eccessivo rigore, le leggi già ci sono e vanno applicate, ma soprattutto di ragionare sugli aspetti etici della vicenda, il degrado sociale, la povertà educativa e la crisi di umanità che c’è intorno a noi. Due appunti a Rita dalla Chiesa, che pur stimiamo. Non si può, attaccando lo sfortunato "amico" di Stano, attaccare il paese di Manduria, dicendo che essendo un piccolo centro tutti sapevano e non hanno fatto nulla. Ora questa affermazione non può essere accettata per niente. Rita, lei sai come sono diventati i nostri paesi dell’entroterra? Non lo sa che anche in queste realtà strapaesane vive un borgo di periferia, fatto di case popolari omologato alle periferie di Milano, Roma e Torino? Dove un amico, non un amico del cuore che si frequenta ogni giorno nella realtà o nel virtuale, può sparire dai nostri contatti per mesi o anni e cosa centra poi attaccare un intero paese, non solo, come dovrebbe essere, una via o meglio vicini di casa, con l’accusa di avere un comportamento omertoso o comunque di indifferenza. Una generalizzazione che non ci piace e concordiamo con il commissario prefettizio che gestisce il Comune tarantino di aver minacciato querela contro chi diffama il paese. Addirittura sorgono gruppi che vogliono boicottare l’acquisto del primitivo. Poi dire “i video che giravano e tutti sapevano” è davvero una idiozia informatica, perché non si sa che una chat privata di un gruppo di Whatsapp è nota esclusivamente ai membri della chat. Poi ci sono effimeri passaggi su Istagram di storie che durano 24 ore. 

L’altro appunto a Rita della Chiesa riguarda la risposta all’affermazione del manduriano sul podio che, ricordando la bontà di Spano, che subiva da anni questa aggressione, pur essendo portato ad aiutare l’infanzia con elargizioni, proponeva la giusta punizione per i ragazzini ma ricordando il loro status sociale. Rita afferma che non si può puntare alla rieducazione chi nel corso degli anni è cresciuto in questo comportamento violento. Eh no! Se il carcere e soprattutto quello minorile non si pone la rieducazione come scopo pervicace c’è il fallimento dello Stato, cara Rita dalla Chiesa. Mauro Corizzi, più noto come Platinette, se la prende col manduriano perché non si è rivolto alla polizia, accusandolo di avere un comportamento omertoso. Intendiamoci i fatti non li conosciamo. Ma una cosa è certa e sperimentata, quando abbiamo chiamato la polizia ci è sempre stato detto che le denunzie non devono essere generiche, occorrono dati certi, conoscenza vera dei fatti, nomi e cognomi, prove certe, presenza reale sul posto quando questi si sono realizzati e testimoni. Altrimenti è aria fritta, denunzia di parte soggetta a querela. In conclusione possiamo solo dire che i fatti di cronaca non debbono infangare un paese, perché è un modo spiccio e senza ragione alcuna di liquidare gli accadimenti. Avetrana per anni è stata il caso Scazzi, ma non è così per i fatti accaduti in altre parti del Bel Paese. Un modo sbrigativo per assolvere la nostra coscienza non pensando in realtà che è il fallimento delle nostri istituzioni che emerge da queste storie, in primis la famiglia e poi la scuola. Poi viene tutto il resto.

 “MANDURIA OMERTOSA”. I manduriani non ci stanno. La Voce di Manduria mercoledì 1 maggio 2019. Le reazioni di sdegno dei manduriani che non si sentono omertosi si sprecano. Le reazioni di sdegno dei manduriani che non si sentono omertosi si sprecano. Racchiudono il parere della maggioranza gli interventi di due operatori dell’istruzione, l’insegnate Pamela Massari e il professore di matematica del liceo Scientifico, Vincenzo Pizzaleo. «Posso soprassedere sul fatto che a dirlo siano leoni da tastiera che abitano a migliaia di chilometri di distanza che non conoscono nulla del territorio – dice la prima -, ma sentirlo dire in una conferenza stampa dagli inquirenti, gente che conosce il territorio e probabilmente anche i fatti, beh personalmente lo trovo vergognoso ed ingiusto; se sono a conoscenza di atti di omissivi circostanziati – aggiunge - allora dovrebbero prendere altro genere di provvedimenti e non infangare un’ intera comunità fatta da tantissime persone per bene dandola in pasto a chi ora cerca solo uno scoop». Si dice turbato, invece, il prof di matematica. «Non è giusto generalizzare com’è stato fatto – dice - e accomunare qualche decina di persone più o meno distratte alla quasi totalità della popolazione di Manduria, che ammonta a più di trentamila abitanti – conclude -, non è giusto ed è anche offensivo». E’ furioso il giornalista Maurizio Pasculli: «Sono profondamente offeso, sul mio telefonino e su quelli che conosco non è mai arrivato nessun video, l’avrei denunciato altrimenti».

 La foto del mostro in diretta nazionale, ma non era lui. ​Le dirette televisive sul caso Stano hanno fatto un’altra vittima: un ignaro giovane...La Voce di Manduria sabato 04 maggio 2019. Le dirette televisive sul caso Stano hanno fatto un’altra vittima: un ignaro giovane, omonimo di uno dei bulli arrestati, è stato dato in pasto in una diretta nazionale che erroneamente ha pubblicato la sua foto scaricata da Facebook pensando si trattasse del componente della baby gang accusata di avere torturato il povero Antonio Stano. Riconosciuto l’errore, i parenti dell’incolpevole giovane si sono fiondati dove era in corso la diretta tv chiedendo immediata rettifica. L’incredibile e gravissimo errore, però, era già compiuto.

"Non si fa di tutta l’erba un fascio", riflessioni sulla tragedia di Manduria. ​La morte del concittadino Antonio Cosimo Stano ha lasciato nello sgomento un’intera cittadina. I fattori scatenanti sono vari...​La Voce di Manduria, sabato 04 maggio 2019. La morte del concittadino Antonio Cosimo Stano ha lasciato nello sgomento un’intera cittadina. I fattori scatenanti sono vari. Oltre l’efferatezza degli atti vandalici di cui la vittima era da tempo destinataria, colpisce con pari forza il fatto che gli aggressori fossero così numerosi, ad oggi 8 persone, di cui 6 minorenni e due neomaggiorenni. Non può passare in secondo piano l’eco mediatico che tale episodio ha sollevato, tratteggiando una città che da più parti è stata definita come omertosa, insensibile, ovvero priva di quei valori morali su cui si costruisce una sana identità civica. Il fatto, inoltre, che tali giudizi siano stati formulati oltre che dai giornalisti in cerca di effetti sensazionalistici anche da importanti figure istituzionali, più o meno vicine alle realtà manduriana, lascia profondamente esterrefatti, per la banalità e la leggerezza di talune esternazioni. Da tempo vengono pronunciate da più parti (in rete, in tv, nelle sedi istituzionali) giudizi sommari di condanna di un’intera comunità, stigmatizzata come la Sodoma della provincia tarantina, sorda ai proclami della Legge e al rispetto delle più elementari regole di convivenza. Dobbiamo confessare un certo imbarazzo nel tentativo di ribattere a simili cretinerie, che denunciano una pochezza di intelligenza e di senso logico, tanto più ripugnante in considerazione del danno d’immagine che la città, agli occhi del resto d’Italia, sta subendo. Sarebbe bene ricordare ai nostri detrattori un noto adagio popolare: “non si fa di tutta l’erba un fascio” (per rimanere ad un livello elementare della conversazione) per spiegare che estendere la colpevolezza di taluni ad un’intera comunità è da miope, da ignorante, da sedicente analista a meno che non si voglia sottintendere una certa malizia, un risentimento nascosto, un’acredine pregiudiziale. È come dire, in altre parole, che tutti i napoletani sono camorristi perché non hanno impedito che una bambina di quattro anni venisse colpita gravemente in un agguato il 3 maggio scorso, o che gli abitanti di Viterbo sono tutti stupratori perché alcuni cittadini, affiliati a Casa Pound, di cui uno consigliere comunale, si sono resi recentemente protagonisti di un’orribile violenza. E si potrebbe continuare all’infinito. A quanti serenamente desiderano conoscere la storia di Manduria e dei suoi cittadini sarebbe opportuno parlare dell’alto numero di associazioni laiche e religiose che operano con spirito di devozione al servizio dei più deboli della società, di gruppi di cittadini che si adoperano per il rilancio culturale, ambientale, economico, cooperando con le istituzioni pubbliche. A ciò andrebbe aggiunto un dato rilevante: la grande capacità di Manduria di accogliere stranieri, come ricordato dalla stampa, e di favorire un clima di integrazione sociale, anche attraverso il progetto SPRAR del Comune, rivolto agli stranieri rifugiati politici. E volgendo la sguardo al passato, ritroviamo gli stessi segni, di una città ospitale che accolse con grande rispetto per la dignità umana l’allestimento del campo profughi sulla via per Oria nel 2011. Manduria ha una grande storia ed ha un grande futuro inscritto nella laboriosità di tanti cittadini che prima degli eventi di cronaca hanno portato nel mondo l’eccellenza dei talenti (professionisti in ogni ambito) e dei suoi prodotti (frutto di impegno e grandissima professionalità). Ora in ragione della sua forza e del suo grande valore spirituale, la città deve affrontare questo momento difficile. Lo deve fare con onestà intellettuale e lucidità razionale, ricercando oltre le responsabilità dirette anche quelle indirette di un episodio che innegabilmente lancia segnali molto forti. Tracciare, infatti, una linea esclusiva di causalità tra gli aggressori e la vittima, rilevando solo la natura giudiziaria dell’evento, non libera o scagiona i cittadini sani dalla doverosa necessità di riflettere sulle ragioni sociali che hanno portato a tale triste episodio, la cui determinazione è il frutto di un agire comunitario che forse ha smarrito l’antica lezione dei padri, intrisa di valori di condivisione e di solidarietà. La Città da troppo tempo vive una condizione di forte disagio per la difficoltà di una politica incapace di leggere le istanze della comunità, e di attivare misure di sostegno e di efficace intervento con il coinvolgimento degli uffici pubblici presenti sul territorio. Parimenti è sotto gli occhi di tutti la carenza di luoghi di aggregazione pubblici o privati che possano avvicinare i giovani, avviandoli a percorsi formativi decisamente costruttivi. Si avverte, in altre parole, una sensazione di abbandono generale che può essere stato l’alveo culturale, in cui si sono sviluppate da una parte le ragioni intrinseche di comportamenti così violenti, dall’altra una progressiva remissività e passività di parte della comunità. Premesso che nessun forestiero possa esprimere giudizi così sanzionatori sulla storia culturale e valoriale della nostra comunità, sia per ignoranza che per impressione mediatica (ed in tal senso la reazione della comunità manduriana è fortemente legittimata!), occorre però fare uno sforzo comune per uscire dai ristretti argini della notizia di cronaca, i cui effetti termineranno quando saranno a breve spenti i riflettori sulla vicenda e saranno saziati gli appetiti di sprovveduti commentatori. Questo episodio deve indurre alla riflessione, non nella brevità di tempi televisivi, più categorie sociali coinvolte, in primo luogo i genitori di quei ragazzi, e a seguire le istituzioni, le forze dell’ordine, gli assistenti sociali, gli insegnanti, quanti hanno visto e non hanno parlato, quanti sapevano ed hanno ignorato le grida di aiuto di Antonio Cosimo Stano. Questo drammatico episodio può diventare l’occasione per ogni cittadino di rivedere il proprio ruolo all’interno degli ambiti familiari, professionali, comunitari, valorizzando il proprio contributo al fine di recuperare quei valori di convivenza, solidarietà, partecipazione attiva che potranno, più delle aule di giustizia, restituire alla città la credibilità che merita. Associazione Politico Culturale Citta Più – Manduria.

Manduria di oggi….ben diversa dalla nobile Manduria di ieri…Raffaele Vacca 4 maggio 2019 su Attualita.it. L’opinione dello psichiatra Vittorino Andreoli sulla tragedia di Manduria nella striscia quotidiana del Tg5, torna sul caso dei bulli di Manduria e cerca di analizzare le motivazioni dietro ai gesti di questi ragazzi. “Sono 14 ragazzi che si conoscono da tempo e si frequentano per passare il tempo. Ogni volta si ritrovano un luogo e a un certo punto scambiandosi opinioni sul telefonino arriva la domanda. Cosa facciamo? E qualcuno dice: andiamo a giocare col “pazzo”. Vittorino Andreoli, nella striscia quotidiana del Tg5, analizza le motivazioni dietro ai gesti di questi ragazzi. “Che cosa c’è nella mente di questi 14 ragazzi? La risposta è: il vuoto. Non c’è nulla”, dice lo psichiatra e poi aggiunge: “Ma nel vuoto non è impossibile fare delle cose. Si può fare un’azione crudele e persino positiva… Nel vuoto, però,mancano le direttive.. dice Andreoli.. Manca una morale, mancano dei principi e quindi si vive portati non dal pensiero, ma dagli istinti di poter sopraffare e poter mostrare la propria forza”. Come poter arginare questi fenomeni, si domanda lo psichiatra? “Cosa possiamo fare per dei ragazzi che hanno la testa vuota? C’è un’unica parola: educazione. Problema che riguarda le famiglie, la società. Si tratta dell’ emergenza dell’attuale momento storico”. Questa la sintesi dell’intervento dell’autorevole Medico…

Sul "Quotidiano.Net" l’articolo di Cristina Rufini.. “”Appena 50 persone alle esequie dell’uomo perseguitato e ucciso dal baby branco.. La bara con la salma di Stano accompagnata soltanto dagli addetti delle onoranze funebre.. I parenti di Antonio Cosimo Stano, il sessantaseienne morto il 23 aprile a Manduria, in provincia di Taranto lo hanno lasciato abbandonato a se stesso e alle angherie del branco quando era vivo, e lo hanno recluso al mondo nel suo ultimo viaggio, cambiando all’improvviso il luogo delle esequie. Solo cinquanta persone hanno potuto partecipare al funerale. Come se ci fosse la volontà di chiudere ‘la pratica’ il più velocemente possibile e far spegnere i riflettori su questa tragedia umana. Ma, forse, non ce ne sarebbero state molte più di persone. “Siamo un mondo di morti. Ci conosciamo tutti qui a Manduria, ma non ci salutiamo”, ha commentato Lorenzo, un conoscente che avrebbe voluto partecipare alle esequie. E lui, Antonio lu pacciu, certo non veniva salutato da nessuno. Figurarsi se poteva essere aiutato. Nemmeno quando le sue urla squarciavano le sere di via San Gregorio Magno. Nessuno è uscito dalle abitazioni vicine per soccorrerlo. Per scacciare quelle belve che si divertivano a picchiare, terrorizzare e derubare Antonio, colpevole di essere solo e forse un po’ strano. .. Chi sapeva doveva parlare, Stano sarebbe ancora vivo. Si parla di bravate, ma queste sono bravate criminali…””… “Chiederemo pene esemplari” ha sottolineato il Procuratore Capo Capristo.

Ora un passo indietro, anche due…”Manduria un mondo di morti? Dove ci conosciamo tutti, ma non ci salutiamo…?”; si oggi, non già vent’anni addietro, quando da Comandante Provinciale di Taranto dal 1997 al 2001, con l’Arma fortemente impegnata al contrasto della mafiosa “Sacra Corona Unita” , conobbi una realtà molto, molto diversa dal punto di vista sociale e umano…in tutta l’area provinciale e segnatamente a Manduria… Città di antiche tradizioni e detentrice di calda umanità tra gli abitanti… Ciò premesso, come non ricordare quel tragico 14 luglio 2000, quando a Francavilla Fontana (Br), l’eroico Maresciallo Antonio Dimitri, di 32 anni, che in quella Compagnia CC della provincia di Brindisi prestava servizio, originario di Manduria …. tentò di fermare due rapinatori di una banca in fuga., cui conseguì conflitto a fuoco restando mortalmente colpito.. con successiva cattura dei malviventi? Le esequie avvennero ovviamente a Manduria.. Passando alla nostra commemorazione di questo grande Eroe della Patria, qualcuno potrebbe domandarci: “ma chi era realmente il 32enne Maresciallo Antonio DIMITRI?” Diciamo subito che era figlio d’arte in quanto il caro Padre fu per lunghi anni Sottufficiale dell’Arma nella difficile Castellammare di Stabia, dove lasciò bellissimi ricordi del suo operato. Si pensi che ai funerali del diletto figlio, cui presenziarono il Comandante Generale dell’Arma, Sergio Siracusa, Autorità di Governo, Civili, Militari e tutta la cittadinanza con in testa il bravo indimenticabile Sindaco Pecoraro, intervenne anche il Sindaco di Castellammare, con il Gonfalone Comunale di quella Città campana scortato da Vigili Urbani in Grande Uniforme. La Città si mobilitò, numerose scolaresche con bandierine tricolori con gli insegnanti lungo il percorso….molti concittadini commossi batterono le mani al passaggio…lanciando fiori…Questa la Manduria di allora….; ben diversa, purtroppo, dalla Manduria di oggi….

Il fango su Manduria e partono le querele. "Manduria Noscia" incarica l'avvocato Mazza per denunciare i diffamatori della rete. Nazareno Dinoi La Voce di Manduria sabato 4 maggio 2019. C’è chi invoca «la soluzione finale» per tutti i manduriani, chi invita a cancellare il nome di questi luoghi per tutte le future vacanze estive e chi giura che non toccherà mai più un goccio di vino Primitivo di Manduria. E sono le offese più lievi che in questi giorni stanno girando sul web contro «il popolo manduriano omertoso e maledetto». Responsabile, per la rete, della morte del pensionato Antonio Cosimo Stano e dei silenzi che avrebbero coperto il gruppo di bulli che si trova ora in carcere con accuse pesantissime che vanno dalla tortura alla rapina. Effetto di una gogna mediatica già vissuta nella vicina Avetrana con il caso Scazzi contro cui si sta cercando di mettere un freno. Ci sta pensando per ora l’associazione «Manduria Noscia» che ha deciso di querelare tutti. «Ora basta, si stanno oltrepassando tutti i limiti di sopportazione civile», afferma il leader del movimento, Cosimo Breccia che ha già dato mandato all’avvocato Giuseppe Mazza per formalizzare le denunce. Il legale si sarebbe già messo a lavoro raccogliendo i post più diffamanti che finiranno in un file da allegare alla querela che sarà affidata alla sezione Polizia postale della Procura della Repubblica di Taranto. Toccherà agli investigatori dello speciale corpo di polizia interrogare il proprietario del social che renderà disponibile l’Internet Protocol address (IP) attraverso cui si è effettuata la registrazione del profilo Facebook. «Qualcuno ci doveva pensare – prosegue Breccia-, e visto che le istituzioni locali non lo fanno, toccherà a noi difendere il buon nome della città e di tutte le persone sane che in essa ci vivono, lavorano, studiano e che non meritano di essere marchiati a vita per colpa di un piccolo gruppo di balordi». Il fondatore del movimento ha invitato i suoi attivisti a cercare i commenti più sconvenienti meritevoli di querela e di conservare gli screenshot che saranno consegnati all’avvocato Mazza. Girando sui social non è difficile incrociare il l’odiatore di turno che sfoga sulla tastiera il proprio odio pensando di poter esprimere il proprio pensiero dicendo tutto il male possibile sul prossimo. E a ben guardare ce ne sono alcuni davvero difficili da digerire. «Siete delle merde, un paese di omertosi, spero che vi si apra la terra sotto i piedi e sparite dalla faccia della terra, siete tutti colpevoli», scrive Steve S. «Vergognatevi di ciò che avete fatto al pensionato. Siete stati tutti perché tutti sapevate. Non deve venire più nessuno in vacanza dalle vostre parti, siete bestie», digita Ilaria M. E ancora. «Boicotterò Manduria, meritate il male divino», sentenzia Guido A. Per Vito L. deve pagare anche il vino. «Siete lo scarto, bifolchi di merda voi e quel vino di merda». E poi l’anonimo “utente Facebook: «Paesino di sordomuti vigliacchi e omertosi, tutti vi devono carcerare paesino di merda». Fino all’odio più sproporzionato. «Meglio essere del Ruanda o dell’Isis piuttosto che di Manduria 100, 1000, 100000 di tsunami su Manduria e chi la abita rasa al suolo è meglio», commenta Anna F. E via di seguito. «Ci meravigliamo di questi leoni da tastiera? E che dire di chi ci amministra che invece di difendere i manduriani onesti li offende?», replica il leader di «Manduria Noscia» riferendosi alle parole pronunciate all’indomani dell’esplosione dello scandalo dal commissario straordinario che amministra la città Messapica. «Quanto subiva Stano – aveva dichiarato l’ex Raffaele Saladino all’Adnkronos -, è stato chiuso e isolato in una casa, in una strada, in una comunità: un essere umano che abitava davanti a una parrocchia lasciato solo».

 “Manduria: nuova vittima della gogna mediatica”. Azione Liberale, giovane movimento politico nazionale, attraverso il suo presidente, l’avv. Mirko Giangrande, l'1 maggio 2019 si esprime riguardo alla gogna mediatica di cui è vittima la cittadinanza di Manduria, a seguito della morte di Antonio Cosimo Stano. “Negli ultimi giorni nelle case degli italiani è entrata la follia. La follia di un gruppo di ragazzini, molti di buona famiglia, che, in stile “Arancia Meccanica”, ha perseguitato e pestato Antonio Cosimo Stato, un sessantaseienne di Manduria (TA), fino, molto probabilmente, a causarne la morte. Una follia irrazionale ed immotivata, posta in essere solo per puro divertimento e passatempo. Ma al peggio non c’è mai fine. Alla follia si aggiunge follia. Ecco che, puntuale, arriva la gogna mediatica. Noi Avetranesi la conosciamo bene. Incurante di qualsiasi etica, si abbatte sulle cittadine, specie quelle del sud. Manduria sta per entrare nella “lista nera” delle località italiane. È iniziata la fase dell’omertà e si finirà con la complicità. Si addita un’intera cittadina (quasi 35.000 abitanti) come omertosa: come facevano a non sapere? A questa accusa noi non ci stiamo! Quante volte, nel periodo dell’omicidio Scazzi, ce lo siamo sentiti ripetere. Ma che significa? Le persone che erano a conoscenza della situazione (i vicini, il parroco) hanno parlato, hanno agito. Esatto, loro. E le istituzioni? Sarà forse che con l’invenzione dell’omertà si voglia far ricadere sull’ignara cittadinanza le colpe di chi, a livello istituzionale, doveva (ripeto, doveva) intervenire? Ma poi, pur ammettendo il fatto che tale situazione persecutoria fosse veramente di dominio pubblico, è mai possibile che la voce sia arrivata alle orecchie di tutti tranne a quelle di chi doveva intervenire? E’ chiaro, quindi, che dietro al già inquietante fatto di cronaca si nasconde uno sciacallaggio mediatico e giornalistico, mirante a farne di Manduria la cornice omertosa, vile e arretrata. Le istituzioni, i cittadini, la società civile fa ancora in tempo a ribellarsi e a non subire passivamente ciò che Avetrana ha subito quasi dieci anni fa. Altrimenti rimarrà negli annali non come la capitale della Messapia, la Terra del Primitivo, la custode di chilometri di spiagge e mare cristallino ma come un’accozzaglia di vili ed omertosi che ha lasciato morire un pover’uomo, in balia delle angherie di un gruppetto di piccoli delinquenti.” Avv. Mirko Giangrande Presidente di Azione Liberale

Caro Domenico Sammarco, presidente della Proloco, la tua “lettera aperta”, indirizzata alle istituzioni che avrebbero infangato Manduria e i manduriani, è indirizzata solo ai due procuratori. Non manca un altro destinatario che prima di loro lo avrebbe fatto? Come mai ti è sfuggito? Nazareno Dinoi. La Voce di Manduria giovedì 2 maggio 2019.

Antonio Cosimo Stano. Manduria tra gogna mediatica ed ignominia.

I Manduriani ed i loro giornalisti provano sulla loro pelle cosa sia la gogna della vergogna.

Il commento dello scrittore Antonio Giangrande, che tra le altre cose ha scritto il libro “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana”.

Devo dire che a meno di 9 anni di distanza le frasi “omertà del paese”, “tutti sapevano”, sono atti di accusa per un intero territorio e risuonano per tutta Italia per mano di scribacchini che, venuti da lontane sponde, nulla sanno della verità, se non quella filtrata da veline giudiziarie. La denigrazione del paese di origine dei responsabili meridionali di un reato è la pena accessoria di cui tenere conto.

Devo dire che, scartando la gogna di giornalastri forestieri, è proprio dalla medesima Manduria che son venuti attacchi alla stessa Avetrana, quando vi fu l’aggressione con conseguente morte di Salvatore Detommaso, ovvero vi fu il mediatico omicidio di Sarah Scazzi.

«Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti». Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: «Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.» A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.

Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela, che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.

Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.

Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto è direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi e non me ne spiego l'astio. Gli amministratori locali e la loro opposizione, poi, non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.

«La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più - scriveva già il 29 luglio 2015 il nostro Dinoi - Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.»

Detto questo sui corsi e ricorsi storici ed a discolpa dei manduriani andiamo ad analizzare i fatti.

«Chiederemo pene esemplari. Siamo di fronte a una violenza senza limiti». Lo ha detto al Tg1 il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo in merito alle aggressioni subite da Antonio Cosimo Stano da ragazzini tra i 16 e i 23 anni, tutti di Manduria. «L’intervento è stato tempestivo ma sarebbe stato ancora più tempestivo se chi sapeva avesse avvisato prima le forze dell’ordine – ha aggiunto – Saremmo intervenuti in tempo e oggi Stano sarebbe ancora vivo».

«Se i bulli invece che con quel pover’uomo se la fossero presa con un cane, ci sarebbe stata la rivolta popolare. E invece tutti zitti, in un silenzio assordante che oggi mi lascia amareggiato. Quanto subiva Stano è stato chiuso e isolato in una casa, in una strada, in una comunità: un essere umano che abitava davanti a una parrocchia lasciato solo. Il prete ha detto di essere intervenuto più volte, ma perché non ha segnalato subito ai servizi sociali?». E' lo sfogo, forte e appassionato, del prefetto Vittorio Saladino, uno dei tre commissari prefettizi di Manduria che, all’AdnKronos, parla di un "silenzio assurdo" che ha avvolto e cullato la brutalità delle aggressioni subite nel tempo. «Stano era sconosciuto ai servizi sociali perché nessuno, per quanto ne dicano oggi, ha mai fatto segnalazioni - aggiunge - La cosa strana è che il soggetto era preso di mira da tanto tempo e nonostante questo anche il responsabile dei servizi sociali ne era all’oscuro. Manduria tra l’altro è capofila nell’efficienza dei servizi sociali, è un paese ricco tra i primi posti di quelli con cittadini risparmiatori, preso di mira da turisti inglesi e tedeschi». Nessuna giustificazione, dunque, e l’annuncio: «Alla manifestazione di sabato 4 maggio per la legalità - ha detto Saladino - parteciperemo con il gonfalone come Commissione straordinaria. Le colpe le ha una comunità distratta, chiusa, coi giovani bombardati dai media e da episodi negativi. Come si fa a rendere oggetto di gioco un uomo, un soggetto indifeso?».

Allora, Chi mente?

Silvia Mancinelli 27 aprile 2019 Adnkronos. I vicini avevano segnalato, si erano rivolti alle forze dell’ordine per denunciare i soprusi, subiti troppo spesso da Antonio Cosimo Stano. La prova è in un esposto presentato al commissariato di Manduria e firmato da 7 residenti di via San Gregorio Magno, la stessa strada dove viveva il 66enne, e da don Dario. “Da alcune settimane, durante le ore serali e le prime ore del mattino – si legge in una prima denuncia – si stanno verificando diversi episodi di atti illeciti commessi da ignoti (circa 5/6 persone) a danno del signor Antonio Cosimo Stano”. “Nello specifico – si legge ancora – segnaliamo continui e reiterati danneggiamenti che tali ignoti stanno perpetrando a danno dell’abitazione (…) con lancio di pietre e oggetti vari al prospetto dell’abitazione e dando calci e colpi diretti alla porta d’ingresso e agli infissi della medesima casa”. Secondo quanto denunciato dai residenti, la vittima aveva confessato loro quanto stava subendo: “Il signor Stano, da quanto ci ha riferito, ha subito altresì vessazioni, soprusi e lesioni anche fisiche da parte di questi soggetti, i quali in una occasione sono anche riusciti a introdursi in casa. Tale condotta illecita, lesiva della sicurezza e della quiete pubblica, cagiona, inoltre, stati d’ansia, malessere e agitazione soprattutto nei minori residenti nel vicinato”. “In piena notte sentivamo urlare. Erano grida strazianti, terribili. La sera tardi e in piena notte. Mia moglie e con lei altri 7 residenti di via San Gregorio Magno e don Dario, ha così presentato l’esposto, per paura soprattutto, ma anche per tutelare quel povero Cristo”. A raccontarlo all’Adnkronos è Cosimo, che abita due cancelli più avanti rispetto all’abitazione di Stano, al civico 8. “Non tutti hanno voluto firmare, ma noi non ce la siamo sentita di restare inermi”.

Cesare Bechis, Giusi Fasano su Corriere.it. 26 aprile 2019.  Era un uomo malato, Antonio. La sua mente era confusa e tutti, in paese, lo conoscevano come «il pazzo», «quello del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio della chiesa di San Giovanni Bosco che sta proprio di fronte a casa sua. Dicono che fosse in cura al Centro di igiene mentale ma di fatto era abbandonato a se stesso, non seguito dai servizi sociali, come avrebbero richiesto le sue condizioni, né aiutato nella sua vita quotidiana dai parenti che vivono a un passo da lui. Si manteneva con la pensione che si era guadagnato lavorando all’arsenale di Taranto come operaio e tutti, a Manduria, sapevano che ormai da molti anni passava gran parte del suo tempo a coltivare la sua solitudine, aiutato in questo dalle sue condizioni psichiche. Le segnalazioni sono arrivate, ai servizi sociali. Ma lui è rimasto a casa sua, nella sporcizia e nell’indifferenza, sempre più isolato dal mondo. E i bulli hanno capito che era un bersaglio facile. Lo hanno preso di mira e lo hanno vessato senza pietà. I vicini di casa vedevano le bande arrivare, non sempre le stesse. L’ultima volta, prima di quel 6 aprile, dev’essere stata più dura del solito. Perché quando «quelli» se ne sono andati lui si è chiuso in casa e non è più uscito. Niente spesa, niente cibo, niente di niente pur di non incrociarli mai più. I vicini non l’hanno visto uscire e hanno avvisato la polizia. Gli agenti si sono appostati lì fuori nel tentativo di sorprendere qualcuno dei ragazzini ma quel giorno non si è visto nessuno e alla fine la parte più difficile dell’intervento è stato convincere lui, Antonio, ad aprire la porta per lasciarsi aiutare. Da allora in poi è stato in ospedale fino al giorno della morte, con gravi problemi fisici oltre quelli mentali.

Nazareno Dinoi La Voce di Manduria venerdì 26 aprile 2019. Il povero Stano, insomma, era diventato (e così lo chiamavano nel branco), «il pazzo del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio e della chiesa di San Giovanni Bosco situato proprio di fronte alla sua abitazione. La notizia degli indagati sta scuotendo le coscienze dei manduriani che si interrogano sul «come sia potuto accadere». Molto significativo è l’intervento di un educatore della parrocchia in questione, Roberto Dimitri che su Facebook ha pubblicato un lungo intervento che prova quanto le vessazioni e le violenze su Stano fossero conosciute da molti. Nel descrivere «un tessuto sociale che si sta deteriorando sempre di più», l’educatore confida le sue difficoltà di interagire con i ragazzi e poi ammette: «personalmente – scrive - ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell'ordine e chiamando i genitori, ma senza risultati.

Il Fatto Quotidiano. 29 Aprile 2019. Le aggressioni duravano da almeno sette anni, secondo i vicini: uno dei video sequestrati dalla procura risale al 2013. Eppure, stando a quanto emerso finora, nessun segnale è arrivato alle autorità su Stano, conosciuto in paese come “il pazzo del Villaggio del fanciullo”, in riferimento al nome dell’oratorio di fronte casa sua. “Mai ci è arrivata, né formalmente né informalmente, fosse almeno in maniera anonima, alcuna segnalazione su Antonio Cosimo Stano”, riferisce Raffaele Salamino, responsabile dei servizi sociali del comune di Manduria. “Sarebbe bastata una chiamata – aggiunge – e un assistente avrebbe preso in carico la cosa, coinvolgendo il servizio di igiene mentale”. Un anno e mezzo fa gli operatori del 118 intervennero su segnalazione della polizia davanti alla casa di Stano. L’uomo era a terra, con delle ferite alla testa. Forse, anche in quel caso, era stato preso di mira dai ragazzini. Il 66enne venne medicato sul posto perché, vinto dal paura, rifiutò il trasporto in ospedale.

Quindi già un anno e mezzo fa le istituzioni avevano conoscenza dei fatti e non sono intervenuti. Allora perché si continua a nascondere una omissione di atti di ufficio ed accusare la cittadinanza ed il clero di omertà?

A due anni dalla morte di Sarah Scazzi Don Dario De Stefano sul suo profilo facebook il 25 agosto 2012 ha annunciato il suo trasferimento alla parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Avetrana in segno di disapprovazione ha reagito. Una raccolta di migliaia di firme tenta di far smuovere il vescovo di Oria dalla sua decisione di trasferire Don Dario De Stefano, il parroco della parrocchia Sacro Cuore di Avetrana. Sua destinazione la parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Don Dario va via, viva Don Dario e fortunati quei manduriani che lo avranno come parroco. Non è una nota stampa, né un commento ad un fatto di cronaca, ma un ringraziamento pubblico a Don Dario De Stefano, parroco della parrocchia del Sacro Cuore di Avetrana e futuro parroco della parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Lo faccio io che dovrei essere l’ultimo a farlo, in quanto molto cristiano sì, ma poco frequentante le chiese. Anche se non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Eppure non frequento molto la sua casa perché si accompagnano a Gesù in quei posti cattive compagnie. Laici peccatori che sulle panche consacrate sembrano angioletti che con un piccolo obolo si lavano la coscienza od usano le amicizie ivi coltivate a fini elettorali. E’ vero: il parroco raccoglie le pecorelle smarrite, ma mi trovo in disagio a frequentare interi greggi di ovini smarriti. Don Dario è un personaggio votato alle iniziative sociali, ma non alle lotte sociali. Eppure sono convinto che Don Dario, nonostante abbia nessun rapporto con me, merita di essere ringraziato. Una mia poesia dialettale contiene queste strofe: 

“Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè quistu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.”

Bene! Don Dario al suo arrivo era un giovane di Oria ambizioso, tenace, diplomatico fino ad un certo punto e con tanta voglia di fare. Io che guardo l’aspetto materiale, ossia i fatti, elenco alcune delle sue opere che resteranno alla storia sua e di Avetrana. Opere che vanno oltre la competenza parrocchiale, di cui tutta Avetrana ne ha tratto benefici: il rinnovo della sua chiesa e la costruzione del campanile, l’oratorio dove i giovani si educano e passano il loro tempo libero; i campi scuola; “il presepe vivente”; “la grande calza della Befana”; la squadra di calcio di Avetrana; la festa compatronale di Sant’Antonio; “Certe notti qui…”, ossia la “Notte Bianca”: evento agostano dove Avetrana per una notte è invasa dai turisti estasiati da decine di piccole e grandi manifestazioni culturali, culinarie, musicali, ecc…Non dimentichiamoci che ha gestito anche le funzioni religiose per la povera Sarah Scazzi ed avrebbe potuto fare di più se non fosse che la madre di Sarah è dei Testimoni di Geova ed il vescovo ha evitato inutili polemiche con nuove iniziative in suo ricordo. Questo è solo piccola cosa di quanto lui abbia fatto per la sua parrocchia e per tutta Avetrana. Non è stato facile per Don Dario fare tutto ciò in un piccolo paese con piccole vedute, molte maldicenze e con il braccino corto, specie da parte degli imprenditori che fanno affari con gli eventi organizzati da Don Dario.

Non sono mancati sin dall’inizio tra i suoi fedeli fazioni contrarie che spinte da gelosie prima hanno cercato di allontanarlo, per poi, non riuscendoci si sono allontanati loro stessi. Così come Don Dario è stato frenato e si è scontrato con degli amministratori poco illuminati e spesso incapaci a sostenere le sue o le altrui iniziative. Così come è stato vittima dei contrasti politici tra le avverse fazioni.

Intanto, a parità di fondi finanziari gestibili, ha fatto più Don Dario (orietano) in nove anni che tutti i politici avetranesi messi insieme per tutta la loro vita. Lui ha tirato dritto. Si è accompagnato con giovani fidati che lui stesso ha cresciuto. (In nove anni i bambini diventano ragazzi). Naturalmente lui ha i suoi pregi, ma anche i suoi inevitabili difetti, che sono infimi e non si notano pensando alla sua instancabile operosità. Avetrana perderà un attivissimo parroco, nella speranza che il nuovo, con la scomoda eredità, non lo faccia rimpiangere. Ecco perché a lei ed ai suoi lettori, per i passati di Don Dario posso dire: Don Dario va via, viva Don Dario e fortunati quei manduriani che lo avranno come parroco. E pensate un po’ cosa sarebbe una diocesi guidata da gente come lui…….. 

Il parroco di Avetrana che, come spiega Nazareno Dinoi su “La Voce Di Manduria”, smaschera i difensori “preventivi”. Don Dario De Stefano è furioso. Qualcuno gli ha fatto leggere il suo nome su un articolo che lo indica come colui che ha segnalato alla famiglia Misseri, per la difesa di Sabrina, l’avvocato del foro di Taranto, Vito Russo. «Io ho consigliato chi? Assolutamente no. Non conosco questo avvocato», commenta il sacerdote visibilmente contrariato.

Rilegge la notizia e la pressione gli alza. «Ecco un’altra delle cose che non mi piacciono di questa storia, ormai non se ne può più», sospira don Dario il cui volto è stato tra quelli più diffusi nei primi giorni della scomparsa di Sarah Scazzi. Da qualche settimana però, il parroco di Avetrana, fugge ai mezzi d’informazione perché, si dice, la curia vescovile di Oria ha consigliato di tenersi lontano dal circolo mediatico. Non può però tacere o celare la rabbia e, seppure con molto risparmio di parole, si lascia sfuggire dei commenti.

«Come si chiamerebbe questo avvocato? Russo? E di dov’è, chi lo ha mai conosciuto?». Il nome e il volto del legale, ben noto oggi grazie alle trasmissioni televisive, era saltato fuori all’improvviso la mattina del 15 ottobre quando la villa dei Misseri fu circondata dai carabinieri del Ris, inquirenti e investigatori che indagano sulla morte della quindicenne. Via Deledda fu dichiarata off limit e a nessuno fu consentito avvicinarsi al luogo delle operazioni.

Nemmeno all’avvocato Russo che con la sua grossa auto fu invitato da un carabiniere ad attendere poco distante da lì. Qualche giornalista lo riconobbe così il suo nome cominciò a circolare senza che nessuno riuscisse a spiegarsi la ragione della sua presenza.

Anche l’avvocato Daniele Galoppa, il giorno dopo, difensore della controparte, Michele Misseri, si chiedeva come mai il suo collega il giorno prima si trovasse a venti metri da via Deledda se Sabrina, sua futura assistita, non era stata nemmeno interrogata né poteva sapere che dodici ore dopo sarebbe stata addirittura arrestata per la confessione del padre che coinvolgeva nel delitto. In effetti fu lo stesso avvocato Russo, successivamente, a dichiarare pubblicamente che la sua venuta ad Avetrana era stata caldeggiata dal suo «amico don Dario». Il religioso, però, è pronto a smentire.

«Per favore non mi mettete in mezzo a queste cose, per questi comportamenti mi rifiuto di rilasciare interviste, questo modo di fare non mi piace proprio». E non che le richieste siano poche. «Sto dicendo di no a tutti e mi dispiace perché per colpa di pochi debbano patire tutti», afferma don Dario che torna sull’argomento.

«Questa notizia dell’avvocato o è una sua invenzione o un’invenzione del giornalista». L’avvocato Russo, informato del risentimento del parroco, spiega meglio e raddrizza il tiro. «Come? Don Dario non mi conosce? Ho qui i tabulati di due telefonate che personalmente gli ho fatto il giorno prima il mio arrivo ad Avetrana», informa il legale non spiegando, però, il contenuto e il tono di quelle conversazioni».

Si accusa una comunità di omertà. Perche? Perché è molto facile accusare una comunità di omertà. Ma non è omertà, è solo assuefazione al disservizio. Perché, come è ampiamente dimostrato, ma non dai media asserviti al potere, è inutile denunciare: o le indagini si insabbiano o i responsabili restano impuniti.

Questa è l’Italia e tutti lo sanno, ma fanno finta di ignorarlo.

Il caso Manduria: mettiamo in fila le responsabilità. ​Della morte di Antonio Stano, l'uomo di Manduria perseguitato da un branco di cagnulastri fino a morirne, molti danno la colpa al paese...Danilo Lupo su La Voce di Manduria, domenica 05 maggio 2019. Della morte di Antonio Stano, l'uomo di Manduria perseguitato da un branco di cagnulastri fino a morirne, molti danno la colpa al paese: indifferente, distante, omertoso. I veri colpevoli sono i vicini, i concittadini, i componenti della comunità manduriana, secondo molti commentatori. Ma è davvero così? Mettiamo in fila qualche elemento.

• Avendo assistito alle violenze, più volte un educatore della vicina parrocchia aveva rimproverato i ragazzini e aveva avvisato sia le famiglie che le forze dell'ordine, senza esito;

• L'insegnante di uno dei ragazzini, dopo aver visto uno di quei tremendi video che ora tutti conosciamo, aveva avvisato la famiglia di un ragazzo e la sua dirigente. La scuola aveva avvisato i servizi sociali comunali, senza esito;

• Le forze dell'ordine sono intervenute diverse volte sul posto ma non trovando traccia dei baby-persecutori, pare si siano limitate a redigere qualche verbale, senza esito;

• Un anno e mezzo fa il 118 era intervenuto per medicare l'uomo, colpito in fronte da una pietra, su chiamata della polizia. Stano non sporse querela e i poliziotti stilarono l'ennesimo verbale, senza esito.

• In uno di quei video strazianti, il pover'uomo gridava "sono solo, sono solo". Eppure aveva una famiglia, che nei giorni scorsi si è occupata del funerale: possibile che non si sia mai accorta di niente? Possibile che l'uomo non abbia mai confidato nulla? O forse notizie e confidenze ci sono state e sono rimaste senza esito?

• L'anziano è stato trovato in casa dai poliziotti. Ad allertare questi ultimi sono stati i vicini di casa. L'esito, in questo caso, lo conosciamo: Antonio Stano è morto in ospedale.

Ad occhio e croce, le responsabilità in effetti ci sono.

Ma prima di quelle della comunità, ne balzano agli occhi delle altre: quelle dei ragazzi e delle loro famiglie, innanzitutto. 

Ma anche quelle del Comune di Manduria, che avrebbe dovuto prendere in carico la situazione. 

Ma anche quelle delle forze dell'ordine che, di fronte a quelle violenze ripetute, avrebbero potuto convincere l'uomo a sporgere querela oppure avrebbero potuto indagare informalmente.

Ma anche quelle della famiglia del povero Antonio Stano. Famiglia che spero ora abbia il buon gusto di rinunciare all'eredità di quell'uomo, che nei video urlava "sono solo, sono solo". Danili Lupo, giornalista LA7 Non è l'Arena

...inutile chiamare qui, non risponderà nessuno...(Adriano Celentano. Soli, 1979).

"Qui 112, rimanga in attesa", le mie tre inutili chiamate in un mese. Tre episodi - per fortuna non drammatici come quello segnalato da Valentina Ruggiu - danno il quadro del caos (almeno a Roma) per chi chiama il numero di emergenza. In questo caso per un incendio, un allarme sanitario, la segnalazione di un conflitto a fuoco in strada. Claudio Gerino il 9 agosto 2017 su La Repubblica. "Rimanga in attesa". Ho vissuto - anche se in circostanze sicuramente meno drammatiche e tragiche - l'esperienza sconvolgente di Valentina. Per ben tre volte, nell'ultimo mese. Il Nue, numero unico per le emergenze, il 112, evidentemente non funziona come dovrebbe essere una linea telefonica H24 dedicata appunto a tutte le emergenze possibili. E con la necessaria rapidità d'intervento adeguata all'emergenza che viene segnalata. Perché è così, qualcuno dovrebbe spiegarlo, che si dovrebbe rispondere a tutti quegli utenti che - come Valentina - si sono rivolti al 112 sicuri di avere un aiuto immediato.

Primo episodio. In una di queste caldissime mattine d'agosto, stavo andando al lavoro in auto, sulla via del Mare da Ostia a Garbatella. All'altezza di Vitinia (per chi non conosce Roma e la periferia, basta spiegare che è più o meno vicino a dove dovrebbe sorgere il nuovo stadio della Roma), vedo sul ciglio della strada le fiamme che stanno divorando la fitta boscaglia che circonda l'arteria a grande scorrimento. Fiamme alte, fumo che rende anche pericoloso il passare in auto, per la scarsa visibilità. Telefono cellulare, vivavoce, chiamo il 115, il numero dei vigili del fuoco. Automaticamente, la telefonata viene inoltrata al 112, numero unico d'emergenza. E comincia l'attesa. Voce registrata, varie lingue, resto in attesa. Intanto proseguo il viaggio verso il lavoro. Da casa mia a Garbatella, se non è l'ora di punta, ci vogliono un venti-trenta minuti per arrivare. "Rimanga in attesa". Arrivo al lavoro, parcheggio la macchina e sono ancora in attesa. Entro al lavoro e attendo ancora. 35-40 minuti circa. Alla fine, miracolo, risponde un operatore. A cui spiego ciò che ho visto, cosa stava succedendo e quando. "Resti in attesa, le passo i vigili del fuoco". Altra attesa, pochi minuti per fortuna, e finalmente parlo con qualcuno "competente" per l'eventuale intervento. Segnalo l'incendio, mi risponde che sì, anche altri erano riusciti a superare il "rimanga in attesa" e avevano fatto analoga segnalazione. E che una squadra di vigili del fuoco si stava recando sul posto o forse era già lì. Bene. Ho fatto il mio dovere di cittadino, sperando che quella lunga attesa non abbia prodotto danni gravi, che nessuno sia rimasto coinvolto dalle fiamme e dal fumo, che non ci siano stati incidenti stradali dovuti alla scarsa visibilità. Dimenticavo: uno degli avvertimenti registrati in quel "rimanga in attesa" era "non riagganci, se no siamo costretti a richiamare il suo numero". E' andata bene, tornando a casa vedo che sono andati in fumo solo un po' di alberi, un vecchio canile per fortuna abbandonato da tempo (anzi posto sotto sequestro per irregolarità) e tanta sterpaglia. Ma c'è ancora fumo, sono passate otto ore da quel primo "resti in attesa".

Secondo episodio. Questo è ben più grave. Di notte, verso l'una, si sentono intorno casa colpi d'arma da fuoco, spari ripetuti. A distanza di una decina di minuti l'uno dall'altro, da direzioni diverse. Si sente anche qualcuno correre. Ancora una volta provo a chiamare direttamente il 113, la polizia, ma vengo dirottato sul numero unico d'emergenza. E ricomincia l'attesa. Vicino a casa mia c'è anche la linea metropolitana Ostia-Lido/Roma, quei colpi sembrano provenire da quella parte, lungo la massicciata ferroviaria. 25 minuti di attesa prima di una risposta. L'operatore sembra cadere dalle nuvole su cosa fare. Mi dice, ad un certo punto, "la metto in contatto con i vigili urbani". Io protesto, dico che se quelli che sento sono effettivamente colpi d'arma da fuoco, forse è il caso che la mia telefonata venga dirottata a carabinieri o polizia. L'operatore sembra dubbioso, non sa prendere una decisione. Intanto passano i minuti e si continuano a sentire, sporadici, altri colpi. Alla fine mi collega al 113, la polizia. E alla fine posso spiegare cosa sta accadendo, o perlomeno quello che presumibilmente penso sta succedendo, a qualcuno che ha potere d'intervento. Ma passa un'altra mezz'ora prima che arrivino le "volanti". So bene quante poche siano in servizio di notte e quanti interventi i poliziotti devono fare. Nonostante questo, ne arrivano 4 e subito - anche perché gli agenti sentono anche loro "in diretta" i colpi - si mettono a caccia di chi li sta esplodendo. Scacciacani, revolver vero, qualcuno che si divertiva a sparare in aria, non lo saprò mai. Gli agenti inseguono una persona in fuga verso la ferrovia metropolitana, ma lo perdono di vista. Girano con le auto, si allontanano e poi ritornano una ventina di minuti dopo. Non riuscendo però a individuare gli autori o l'autore degli spari, vanno giustamente a fare altri interventi. Non è stata una rapina, non è stato uno dei tanti femminicidi che ormai siamo abituati purtroppo a leggere sulle cronache. Ma se fosse stato uno di questi casi? 25 minuti di attesa solo per parlare con un operatore e altrettanti, alla fine, per comunicare con chi poteva intervenire realmente sono francamente troppi. Anche per un possibile falso allarme, per qualcosa che comunque non aveva le stesse tragiche dimensioni vissute da Valentina.

Terzo episodio. La faccio brevissima, perché memore delle esperienze precedenti, alla fine ho saltato tutti i passaggi. Mio figlio, per un banale incidente casalingo, si procura una leggera lesione alla cornea. Dolorosa, fastidiosa e problematica. Anche in questo caso, il primo istinto è chiamare il 118, la Guardia Medica, perlomeno per farsi indicare dove portarlo eventualmente per un controllo urgente. Per sapere quale ospedale della zona ha un pronto soccorso oftalmico. Il 118 però viene prima dirottato sul Nue, il 112. Che ripete per una quindicina di minuti, "rimanga in attesa", sempre in tutte le lingue. Riaggancio, lascio perdere, vado su Internet e cerco un'oculista che faccia pronto soccorso. Ovviamente a pagamento. Lo trovo, lo chiamo e alla fine fisso un appuntamento per un'ora dopo. Problema risolto, potendo pagare però 110 euro per una visita privata, accuratissima e completa, ma comunque privata. La lesione alla cornea di mio figlio è curata. Particolare non secondario: nonostante quel quasi minaccioso avvertimento - "Non riagganci se no la dobbiamo richiamare - nessuno mi ha mai richiamato per chiedere qual era il tipo di emergenza per cui mi ero rivolto al 112. Ora in casa ho affisso vicino al telefono tutti i numeri di ambulanze private (per le emergenze mediche), quelli dei centri di diagnostica privata della zona e qualche altro numero di cellulare di medici a cui rivolgermi se avessi un problema sanitario serio. E per possibili tentativi di intrusione nella mia casa da parte di malintenzionati, ho stipulato un contratto con un'agenzia di vigilanza privata collegata con un sistema d'allarme e una centrale operativa che opera H24 (e che, devo dire, risponde subito). Una spesa, certo. Ma in qualche modo obbligata e dettata da queste esperienze. Ah, tra l'altro, l'agenzia di vigilanza non fa solo "protezione antifurto e rapina", ma si collega anche a guardie mediche private, se ce ne fosse bisogno. Ma per incendi, rapine, aggressioni o qualche altra emergenza di questo tipo che non avvengono in casa o nei dintorni dovrò sempre rivolgermi al Nue, al 112. Sperando che quel "resti in attesa" non si dimostri purtroppo talmente lungo da rendere inutile poi l'eventuale intervento, come ha vissuto drammaticamente sulla sua pelle Valentina.

Senza uomini e mezzi, la polizia non interviene più. Redazione, Giovedì 03/01/2008 su Il Giornale. Due segnalazioni nel giro di poche ore, la stessa emergenza: la polizia non ce la fa a garantire la sicurezza. Una pensionata di Sampierdarena è sconvolta per quanto accaduto la notte di Capodanno. I suoi vicini del piano di sopra, dalle 18 del 31 dicembre alle 6 della mattina successiva, hanno dato vita a «festeggiamenti» decisamente fuori dal comune. Urla, grida strazianti di bambini, rumori di oggetti scaraventati a terra e contro il muro. La donna ha chiamato preoccupata per cinque volte il «113» e le è stato sempre risposto che l'intervento per la sua chiamata sarebbe stato messo «in lista d'attesa». Una lista infinita, visto che altre telefonate al «112» venivano deviata alla questura, senza esito. La mattina successiva la donna è andata alla caserma dei carabinieri di corso Martinetti, ma il piantone non l'ha nemmeno fatta entrare perché «era solo». Stessa risposta alle quattro del pomeriggio. Le spiegazioni informali, offerte dagli operatori della questura al mancato intervento? Carenza di personale e di mezzi. Stessa cosa che si è sentito rispondere un professionista trentenne, rapinato in strada la notte di Capodanno. «In questura sono stati davvero gentilissimi, squisiti e comprensivi - ha spiegato l'uomo -. Ma mi hanno anche detto che sanno benissimo della presenza delle bande, sanno forse anche chi sono, ma che non hanno la possibilità di intervenire». Una resa dovuta sempre alla cronica carenza di uomini e mezzi nonostante i tanto sbandierati (a parole) rinforzi di cui si è addirittura vantata la sindaco. E nonostante le telecamere installate ovunque. Chissà perché, però, le uniche che funzionano e fanno il loro dovere, sono quelle che danno le multe a chi passa sulle strisce gialle o entra nelle zone a traffico limitato.

Denunciare i furti? È inutile E la politica non ha più scuse. I dati della Procura confermano la percezione di insicurezza che si vive in città Gli uffici dei pm sommersi da casi di microcriminalità. E quasi non si indaga più. Il Giornale, Venerdì 19/12/2014.  Ogni anno migliaia e migliaia di denunce di furto che piovono in Procura. Sono troppe. E vengono archiviate. La morale è deprimente: vincono i ladri. Se vi hanno svaligiato casa, se vi hanno rubato l'auto, i responsabili non li troveranno praticamente mai. E - cosa peggiore - forse non li cercheranno neppure. Due giorni fa la Procura ha reso pubblico il lavoro di un anno. Uno dei dati più eclatanti riguarda il vertiginoso aumento dei furti e degli scippi, cresciuti del 74% rispetto ai dodici mesi precedenti. È una statistica da non trascurare. Racconta di un fenomeno - la cosiddetta «microcriminalità» - che non ha echi mediatici ma che può toccare chiunque. Eppure, nella stragrande maggioranza dei casi a una denuncia contro ignoti per furto o scippo non seguirà un'indagine. I numeri forniscono pochi alibi a chi, dalle parti di Palazzo Marino, continua a descriverla come il paese delle meraviglie. Almeno il presidente Pd della Commissione Sicurezza, Gabriele Ghezzi, non nega i dati («sono incontrovertibili») e il problema. Gelmini (Fi) accusa Pisapia per aver cacciato i soldati.

Quando la denuncia è inutile. Intervista al sociologo Marzio Barbagli, autore di alcuni degli studi più importanti sulla criminalità in Italia. Giovanni Tizian 13 giugno 2013 su L'Espresso.

«È possibile che la crisi economica abbia provocato l'aumento dei reati predatori, come furti e rapine». Parla il sociologo Marzio Barbagli, autore di alcuni degli studi più importanti sulla criminalità in Italia, serviti in passato anche per orientare l'attività del ministero dell'Interno.

Quanto è forte il legame tra recessione e aumento dei reati? 

«È difficile dirlo con certezza. Dalla fine degli anni Sessanta al 1992 l'aumento dei reati predatori è stato costante. Per poi diminuire fino a due anni fa. A partire dal 2011 la curva è di nuovo ascendente, in tutta Europa».

Quanti reati non vengono denunciati? E perché? 

«Lo spirito civico non c'entra nulla. La poca fiducia nelle forze dell'ordine non è l'elemento cruciale. Non è vero che in Emilia Romagna si denunci di più che in Sicilia. Ci sono reati per i quali la mancata denuncia deriva da tutt'altro. La spinta a denunciare varia a seconda del calcolo costi-benefici che le persone derubate fanno. Se penso di non avere la minima speranza di riavere la merce rubata non perderò ore allo sportello denunce. A meno che non abbia subito il furto del portafoglio o dell'auto per cui sono obbligato a sporgere la denuncia».

Migliorare la sicurezza urbana in due mosse: è possibile? 

«Uno dei problemi che nessuna forza politica ha mai affrontato è l'efficienza delle forze dell'ordine. C'è una cattiva distribuzione delle risorse, ci sono studi noti al Viminale su questo e sul difficile coordinamento delle forze. È un assoluto tabù di cui nessuno parla. L'altra grande questione ha a che fare con il contrasto all'immigrazione clandestina. Abbiamo un sistema di controlli degli irregolari che è inefficiente e frustrante per chi se ne occupa».

I carabinieri non vogliono prendere la denuncia: che fare? Sabina Coppola il 6 Giugno 2018. Quali sono i doveri dei carabinieri, nella qualità di pubblici ufficiali, e quali le loro responsabilità nell’esercizio delle funzioni. L’attività dei carabinieri e dei pubblici ufficiali ad essi equiparati (immaginiamo la polizia giudiziaria o urbana) è volta alla tutela dei cittadini e del patrimonio. Carabinieri e pubblici ufficiali sono tenuti a salvaguardare la cittadinanza, garantendo la libertà dei singoli individui e contribuendo alla sicurezza di tutti. Immaginiamo che io voglia denunciare il mio vicino di casa o il mio datore di lavoro perchè ritengo stiano commettendo dei reati; mi rivolgo ai carabinieri ma questi non vogliono prendere la denuncia: che fare? Andiamo con ordine chiarendo prima quali sono i doveri dei carabinieri ed in seguito le loro responsabilità in caso di mancato adempimento di un loro dovere.

I carabinieri fanno parte della categoria dei pubblici ufficiali; agli effetti della legge penale sono, infatti, pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa [1]. Esempi tipici di pubblici ufficiali riconosciuti dalla legge italiana sono:

gli appartenenti alle forze armate e alle forze di polizia;

i vigili del fuoco;

gli impiegati civili della pubblica amministrazione italiana, ma solo in determinate circostanze (ad esempio gli ufficiali dell’anagrafe, dello stato civile e tutti coloro che espletano le funzioni amministrative dello stato demandate ai comuni);

i conduttori, i capitreno, i controllori delle ferrovie dello stato italiane;

i piloti d’aereo, civili e militari, e i comandanti di nave;

il dirigente scolastico e gli insegnanti;

i componenti dell’ufficio elettorale di sezione e i rappresentanti di lista;

i magistrati ed i giudici popolari nell’esercizio delle loro funzioni;

i medici, gli infermieri e i veterinari;

il sindaco quale ufficiale del governo;

il presidente del consiglio dei ministri e tutti i ministri nell’esercizio delle proprie funzioni;

i parlamentari, i consiglieri comunali, i parlamentari, i consiglieri comunali, provinciali e regionali riuniti in assemblea;

il notaio e così via.

I poteri tipici (o, meglio, alcuni dei poteri tipici) del pubblico ufficiale sono, invece:

assumere informazioni;

ispezionare cose e luoghi;

effettuare rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici;

eseguire il sequestro cautelare delle cose oggetto di una confisca amministrativa;

sequestrare il veicolo o il natante privo dell’assicurazione o della carta di circolazione;

ricevere denunce e querele.

I pubblici ufficiali hanno, inoltre, l’obbligo di sporgere denuncia alla magistratura italiana o altra autorità preposta, quando (nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio) ricevono la notizia di un reato perseguibile d’ufficio. In generale, possiamo affermare che l’attività di polizia riguarda la salvaguardia del sereno svolgimento della vita cittadina, attraverso la garanzia della libertà dei singoli individui ed il contributo alla sicurezza dei cittadini. Ha anche lo scopo di assicurare l’osservanza delle leggi, dei regolamenti e delle ordinanze emanate da Stato, Regioni, Comuni. Immaginiamo allora che i carabinieri non vogliono prendere la denuncia: che fare?

Rifiuto di atti di ufficio: quando si commette. Se un carabiniere si rifiuta, ad esempio, di raccogliere una tua denuncia, puoi (anzi dovresti) denunciarlo presso le autorità competenti (carabinieri, polizia, procura della repubblica); devi semplicemente esporre i fatti, oralmente e per iscritto, e allegare le eventuali prove in tuo possesso.

Il carabiniere che si rifiuta di ricevere la tua denuncia sta, infatti, commettendo il reato di rifiuto di atti di ufficio. Ma di cosa si tratta?

Il delitto di rifiuto di atti di ufficio si realizza quando:

il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità deve essere compiuto senza ritardo. Il termine “rifiuto” indica una manifestazione di volontà di non compiere l’atto legalmente richiesto e implica, pertanto, una previa richiesta di adempimento. Il reato sussite, cioè, quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, di fronte alla richiesta di compiere un atto del suo ufficio (il suo lavoro), non lo compie secondo la legge.  Questo vuol dire che se il carabiniere si rifiuta (senza motivo) di accettare la denuncia che un cittadino vorrebbe presentare a carico di un terzo (che ha commesso qualsiasi tipo di reato) ne risponde penalmente.

Cosa fare se i carabinieri rifiutano la denuncia?

In definitiva, se i carabinieri non vogliono prendere la denuncia: che fare? A prescindere dalla ragione che induce il carabiniere a non raccogliere la tua denuncia, in quanto (ad esempio) la ritiene inutile o superflua, puoi denunciarlo per rifiuto di atti di ufficio. Devi recarti personalmente presso qualsiasi ufficio di polizia (preferibilmente diverso da quello in cui è stata commessa l’omissione di atti di ufficio) oppure direttamente alla procura della repubblica della tua città o provincia ed esporre i fatti. Puoi farlo per iscritto o oralmente; l’importante è allegare prove (se ne hai) e segnalare la presenza di eventuali testimoni. Il reato di rifiuto di atti di ufficio è procedibile di ufficio, pertanto non vi è limite di tempo per sporgere la denuncia. A seguito della denuncia, potrebbe essere disposta la misura della sospensione dal servizio; mentre la sentenza di condanna per il reato in oggetto determinerebbe un’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

L’uso della denuncia anonima è illegale, e però è legale. Strane sentenze di Cassazione. Maurizio Tortorella il 28 agosto 2016 su Tempi. Per la Suprema Corte «una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici d’indagine». Tuttavia i suoi «elementi» possono «stimolare l’iniziativa del pm». Nessuno, qui, può o vuole impancarsi a giurista. Però, sommessamente, va detto che strane cose stanno accadendo in Corte di cassazione. A tutti gli studenti di Giurisprudenza viene insegnato che il codice di procedura penale prevede che delle denunce anonime non possa essere fatto alcun uso, salvo alcune rarissime eccezioni (fondamentalmente, se le denunce stesse sono in sé il corpo di un reato). È ovvio che sia così, è razionale. Anzi, è un fondamentale principio garantista: il divieto per le forze dell’ordine e per l’autorità giudiziaria di raccogliere una denuncia anonima serve proprio a garantire il diritto alla difesa del presunto reo, il quale può tutelare i suoi diritti soltanto conoscendo i fatti che gli vengono addebitati e l’autore delle accuse. Inoltre, una società che prendesse per buone le delazioni anonime (come per esempio faceva la Repubblica Veneta nel Settecento), darebbe la stura a un uso strumentale degli esposti, esponendosi a mille abusi e vendette. Alcune settimane fa, invece, la sesta sezione della Corte di cassazione, con la sentenza numero 34450 del 4 agosto che motivava una condanna dello scorso aprile, ha stabilito che anche una denuncia anonima possa essere utilizzata dall’autorità giudiziaria per ordinare perquisizioni e sequestri.

Un ragionamento paradossale. In questo caso, la Cassazione doveva decidere il ricorso di un dipendente pubblico che nel dicembre 2015 aveva pubblicato su Facebook una serie di dichiarazioni offensive verso il presidente della Repubblica. L’uomo, un quarantenne di Ancona, era stato segnalato con un esposto anonimo e la polizia giudiziaria gli aveva sequestrato il cellulare e gli hard disk dei due computer, a casa e al lavoro. L’imputato lamentava proprio che tutto fosse partito da un esposto anonimo. Ecco, parola per parola, che cosa stabilisce la sentenza (la citazione è lunga, ma merita di essere trascritta per intero): «Una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici d’indagine e quindi non è possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l’esistenza d’indizi di reità. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis».

Riassumo brevemente quel che avete appena letto. La denuncia anonima non dovrebbe essere utilizzata da agenti e magistrati; però “se serve per individuare un reato”, allora può essere utilizzata. Vi pare normale? Vi pare logico? A me no. Anzi, il ragionamento della sentenza mi pare irrimediabilmente contraddittorio, incoerente, quasi paradossale. Se in base al codice una denuncia anonima è inutilizzabile in un procedimento penale, lo è sempre. Non diventa improvvisamente legittima e utilizzabile “se può essere utile per l’individuazione di un reato”: non può, perché questo è un rimbalzo del tutto illogico. Ammettiamo che debba essere così. Ma allora chi stabilisce a priori quale denuncia anonima sia potenzialmente “utile a individuare un reato” e quale invece sia “inutile”? Il poliziotto? Il pubblico ministero? E come fanno a deciderlo, costoro, senza indagare (illegittimamente)? Pacatamente, io penso che questa sentenza sia quanto meno bizzarra. Vorrei tanto che un giurista vero mi spiegasse dove sbaglio. Ma chi cassa la Cassazione?

Il pensionato picchiato a morte a Manduria avvisò la polizia un mese prima: "Sono vittima dei bulli".  Il 14 marzo 2019 Antonio Stano fu raggiunto a casa dall'equipaggio di una pattuglia di polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. Un mese dopo il 66enne è morto. La Repubblica il 5 maggio 2019. Il 14 marzo 2019 Antonio Stano, il pensionato di 66 anni morto il 23 aprile scorso e vittima delle torture di una banda di bulli a Manduria, fu raggiunto a casa dall'equipaggio di una pattuglia di polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. E' quanto emerge dagli atti dell'indagine. "Alle ore 22.43 circa - è riportato negli atti - personale dipendente (del commissariato di polizia di Manduria, ndr), nell'ambito della consueta attività di prevenzione e controllo del territorio, su disposizione della  sala operativa, si portava in questa via San Gregorio Magno numero 8", dove viveva il 66enne e dove i bulli passavano il tempo a pestarlo. "Gli operanti sul posto - continua la relazione inviata alle Procure ordinaria e minorile - venivano avvicinati da Antonio Cosimo Stano, un uomo anziano che vive da solo, il quale riferiva loro di essere, già da diversi giorni, costantemente oggetto di vessazioni, angherie, percosse ed aggressioni ad opera di alcuni giovani ignoti". Per i pestaggi e le torture subite da Stano sono in carcere sei minorenni e due maggiorenni. Il successivo documento che parla delle aggressioni è del 5 aprile, giorno in cui viene presentata la denuncia scritta firmata da sette residenti nella via in cui viveva Stano e dal parroco della chiesa San Giovanni Bosco, don Dario De Stefano.

“Io vittima di bulli”. Stano denunciò un mese prima. Il quattordici marzo scorso Antonio Stano, il pensionato 66enne morto il 23 aprile e vittima delle torture della banda di bulli a Manduria, fu raggiunto a casa – in via San Gregorio Magno, 8 alle 22.45 circa – dall’equipaggio di una volante della Polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. È quanto emerso dagli atti dell’indagine. Redazione Teleregione 6 Maggio 2019. Il quattordici marzo scorso Antonio Stano, il pensionato 66enne morto il 23 aprile e vittima delle torture della banda di bulli a Manduria, fu raggiunto a casa – in via San Gregorio Magno, 8 alle 22.45 circa – dall’equipaggio di una volante della Polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. È quanto emerso dagli atti dell’indagine. Gli agenti sul posto – c’è scritto nella relazione inviata alle Procure ordinaria e minorile – venivano avvicinati da Antonio Cosimo Stano, un uomo anziano che vive da solo, il quale riferiva loro di essere, già da diversi giorni, costantemente oggetto di vessazioni, angherie, percosse e aggressioni ad opera di alcuni giovani ignoti”. Il successivo documento che parla delle aggressioni subite dal pensionato è datato cinque aprile, giorno in cui viene presentata la denuncia scritta e firmata da sette vicini di casa e dal parroco della chiesa San Giovanni Bosco, don Dario De Stefano. Il giorno dopo la Polizia si recò nuovamente a casa dell’uomo torturato: gli agenti in quell’occasione bussarono più volte dicendo a Stano di aprire: “Non vogliamo farti del male”, dissero, capirono subito che qualcosa non andava. Dopo aver aperto la porta, trovarono l’anziano legato ad una sedia. Fu trasportato subito in ospedale e dopo due interventi e diciotto giorni di agonia l’uomo è deceduto. Intanto otto persone sono state fermate, di cui sei minori per i reati di tortura e sequestro di persona.

La Mamma di Salvatore De Simone «Il Babbo ha detto che ci sparava a tutti. E’ partito. E’ andato a prende il figlio e so ritornati lì con la pistola dentro. Capito..eh…E io ho chiamato i carabinieri ed ho detto “guarda che qui c’è questo con la pistola”. Venite subito. E non so mai venuti». L’inviato Gabriele Lo Bello: «La madre di Salvatore de Simone ucciso ieri da Raffaele Papa parla la Tg2 Rai a patto di non essere vista in faccia e ricostruisce i minuti prima della sparatoria. Racconta la sua verità. Una tragedia che poteva essere evitata, dive mostrandoci il telefonino con le chiamate al 112.» «Ho chiamato 8 volte, che si poteva evità perché l’ho chiamati all’1 e 26. Alle 2 ancora non arrivavano. Sono arrivati tutti solo quando erano già tutti per terra.»

“UNA MORTE COSÌ È UNA VERGOGNA”. Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 5 luglio 2019. Si chiamava Ulderico Esposito, aveva 52 anni, una moglie, due figlie e ogni mattina si alzava per andare a lavorare nel suo negozio, una tabaccheria della stazione Chiaiano della Linea 1 della metropolitana di Napoli. È morto l' altra notte dopo un mese di agonia all' ospedale Cardarelli di Napoli. Il 9 giugno era stato colpito alla testa con un pugno violentissimo sferrato da un richiedente asilo nigeriano, una delle tante "risorse" che secondo certi buonisti dovremmo accollarci senza discutere, per non passare da cattivoni razzisti. Questo tizio, clandestino sul nostro territorio, passava le sue giornate a sbronzarsi e a molestare i passanti. Faceva paura non soltanto alle donne, ma anche ad altri viaggiatori, eppure nessuno l' ha fermato. Nessuno tranne Ulderico Esposito, che gli amici di Mugnano chiamavano Rico e che ora piangono perché «una morte così è una vergogna, non si può tollerare». Il tabaccaio e la moglie, Daniela, da tre anni si trovavano sull' uscio del negozio il nigeriano bugiardo (diceva di chiamarsi Joseph invece il nome vero era Alfred) che sperava di raccattare qualche soldo dai clienti della ricevitoria. Stava appostato dalle 7 del mattino alle otto e mezza di sera e se non gli davano quello che voleva, l'extracomunitario insultava con le più brutali parolacce. «Era troppo invadente», ricorda la signora Daniela e noi ci permettevamo di fargli notare che avrebbe dovuto cercarsi un lavoro, ma lui rispondeva: «Io un lavoro ce l'ho già». Fare l'elemosina. La moglie del tabaccaio aveva provato a chiedere aiuto, a scrivere alle autorità, ma è stato tutto inutile e, anzi, i due coniugi sono stati scambiati per xenofobi soltanto perché, esasperati da quella presenza quotidiana ingombrante, volevano lavorare con serenità e senza che i clienti fossero infastiditi. «Puoi andartene per favore?», gli ha domandato alla fine l' esercente. Una richiesta garbata, legittima, come garbato era Ulderico: persona buona e stimata da tutti, con il sorriso stampato sul viso e un amore immenso per la sua famiglia. Il tabaccaio non ha alzato la voce, non ha minacciato ritorsioni, ha semplicemente domandato. Ma quella terribile sera di un mese fa, mentre stava tirando giù la saracinesca per andare a casa con la moglie, il 36enne africano si è avvicinato e ha insultato: «Tabaccà omm e m...», poi gli ha tirato un pugno in faccia e l' ha fatto stramazzare a terra. Il 52enne ha sbattuto la testa e ha cominciato a perdere sangue dalle orecchie e dal naso, le sue condizioni sono subito apparse molto gravi. Il pugno gli ha provocato un emorragia cerebrale che non gli ha dato scampo. Rimasto in coma per circa un mese, ieri si è spento in un letto d'ospedale. Straziate dal dolore la moglie Daniela e le figlie, che facevano i turni per tenere aperta la tabaccheria e speravano in un miracolo che invece non è mai arrivato. Il nigeriano, arrestato la sera stessa dell' aggressione, «sarà espulso dopo che si sarà fatto molti anni di carcere», assicura il ministro dell' Interno Matteo Salvini. Per lui l'accusa diventa ora da lesioni gravi a omicidio preterintenzionale, anche se il senatore azzurro, Francesco Giro, avverte: «Ora la magistratura non indebolisca l'atto di imputazione perché il delitto non è preterintenzionale, ma totalmente volontario e doloso, una vera esecuzione capitale». Tristezza e sgomento vengono espressi dal sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, dal governatore campano Enzo De Luca, da tanti esponenti politici locali. Il presidente provinciale della Federazione Tabaccai, Francesco Marigliano invoca «una risposta forte dello Stato». Per il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, invece, si tratta di un duro colpo al cuore la città. C'è indignazione soprattutto da parte dei colleghi commercianti di tutta Italia, specie da chi ha subìto in passato rapine o tentativi di furto e ha deciso di reagire per non soccombere di fronte ai delinquenti. «L'Italia non ha più spazio per le vittime», ha dichiarato Graziano Stacchio, il benzinaio vicentino che sparò alla banda di ladri che tentava il colpo nella gioielleria accanto al suo distributore. «Questi vermi non hanno il diritto di stare in Italia», ha commentato Roberto Zancan, la cui gioielleria fu assaltata dai rapinatori nel 2015. «Non ci sentiamo tutelati», ha detto all' Adn Franco Birolo, tabaccaio padovano, «e il caso di Esposito è l' ennesimo in cui si viene colpiti anche quando non si reagisce; c' è chi lo fa e viene incriminato da qualche giudice che ha poco buonsenso e chi, come questo povero tabaccaio è stato preso a pugni solo per aver parlato». A Chiaiano la serranda gialla è abbassata, davanti c' è un mazzo di rose rosse e sopra un biglietto: «Rico è tornato alla casa del Padre».

Estratto dell’articolo di Stella Cervasio per La Repubblica  del 15 giugno 2019. Daniela Manzi torna con una delle figlie dall'ospedale Cardarelli, dove il sindaco Luigi de Magistris e l'assessore Alessandra Clemente sono passati a salutare lei e la sua famiglia. Le avevano detto che finalmente, sei giorni dopo la barbara aggressione che l'ha ridotto in fin di vita, avrebbe rivisto il marito. […]

[…] Da quanto tempo era lì l'aggressore?

"Da tre anni e aveva sempre infastidito le persone chiedendo il resto ricevuto dopo aver comprato le sigarette o altro nella nostra tabaccheria. Dalle 7 mattina alle 20,30 di sera. Salutava, augurava buona fortuna ma era molto insistente. Se non gli davano quello che chiedeva li insultava con parolacce. Arrivati qui imparano subito le cose più brutte di Napoli...".

E voi vi siete opposti?

"Nel punto vendita lavoriamo in quattro con i miei due figli. Ci arrabbiavamo a turno, mio marito e io, gli dicevamo "vai a lavorare". Ma lui diceva: "Ma io lavoro già". Aveva detto di chiamarsi Joseph e invece si chiama Alfred e di avere 23 anni, invece ne ha 36. Fino a pochi mesi fa gli parlavo, ci ragionavo, gli dicevo "perché non ti metti fuori per favore?". Ma lui si spostava solo quando qualche agente di stazione o vigilante scrupoloso lo invitava a farlo, ma la maggior parte degli agenti lo lasciava stare lì. Io ho chiamato la dirigenza dell'Anm, ma rispondevano che dovevo dirlo alla vigilanza. Quante volte gliel'ho detto! […]".

Avevate chiamato le forze dell'ordine?

"Ma nessuno l'ha allontanato sul serio. […] Due mesi fa lui e un altro vendevano i biglietti fuori dalla metro per un euro (mentre costa un euro e dieci). Dove li avessero presi, falsi, rubati, non lo so. Vennero i carabinieri. Io avevo chiamato la vigilanza, che ha telefonato al 112".

E sabato scorso c'è stata una lite?

"No. Chiudemmo la tabaccheria alle 20,30, mentre uscivamo stavamo progettando come passare la serata, quando quell'uomo si è avvicinato gridando a mio marito: "Tabaccà, omm'' e m...". Ho sentito Ulderico rispondergli "Ma che c...dici?" e quello gli ha sferrato un pugno sulla bocca. È caduto con la testa a terra. A 10 anni fu operato per un tumore al nervo ottico, ha battuto proprio all'altezza di quella vecchia cicatrice e ha avuto un'emorragia cerebrale. L'hanno operato nella notte".

È vero che avevate affisso un cartello nella stazione che raccomandava di non dare soldi all'immigrato?

"Il mese scorso, ma fui subito richiamata dai vertici dell'Anm per razzismo. Spiegai che il razzismo non c'entrava. Scrivemmo "non fate l'elemosina a chi guadagna circa 60 euro, pari all'introito di un operaio specializzato". Ma siamo stati fraintesi da persone con falsi istinti buonisti. E la gente che prendeva la metro l'ha capito, ci ha detto "bravi". […]".

[…] Si riconosce nelle accuse di razzismo?

"Penso che neanche Salvini sia razzista, noi siamo contro chi ci fa del male, anche se fosse un napoletano: quanti delinquono anche tra noi, infatti. A delle persone di colore venute l'anno scorso ho offerto caffè, pizzette, panini. Ce n'era uno, Toby, che mi chiamava "mammà", e a mio marito diceva "papà". Anche loro chiedevano l'elemosina, ma senza aggredire nessuno. Negli occhi di quello che ha ridotto in fin di vita mio marito c'era solo sfida".

Minacce davanti alla piccola figlia. Il Tirreno - Cronaca, domenica 15 aprile 2018. C'era una bambina in strada prima che accadesse tutto. Prima che Raffaele Papa decidesse di impugnare la sua semiautomatica per fare fuoco su tre persone. La figlia di Salvatore De Simone, sei anni, era in viale Matteotti venerdì pomeriggio, insieme al padre e allo zio Massimiliano De Simone. Un caldo primaverile, le prime ore del pomeriggio, in una delle principali vie del centro di Follonica: un momento di calma interrotto bruscamente dal duro litigio occorso tra Raffaele Papa e Annalisa Marcelli, vicini di attività, al quale sono intervenuti in un secondo momento anche i fratelli De Simone, figli della donna. La bambina - secondo alcuni testimoni che hanno assistito alla scena - avrebbe preso parte a quel momento di violenza scellerata e avrebbe ascoltato le parole di Papa, sottolineate da quel gesto con le mani, a simulare un'arma che spara. La piccola avrebbe sentito le minacce di morte pronunciate dal proprietario della gastronomia adiacente all'hotel della nonna. E sarebbe scappata via prima che Papa sparasse contro i fratelli De Simone e contro Paola Martinozzi, che stava passando di lì per andare al lavoro: «Mia moglie era in terrazza mentre è successo tutto - racconta Carlo Fontani, proprietario dell'abitazione che si trova proprio di fronte all'hotel Stella - Io ero in casa, stavo riposando e ho sentito gli spari provenire dalla via. Mia moglie subito dopo è rientrata impaurita e mi ha raccontato dell'accaduto parlandomi anche di quella bambina in strada, scappata via terrorizzata dalle parole di Papa, quando l'uomo ha minacciato di prendere la pistola. Cosa che poi, purtroppo, ha fatto veramente». In molti hanno chiamato i carabinieri venerdì nel primo pomeriggio, tra questi anche Pier Enrico Moda, proprietario del negozio di assistenza Sky che si trova proprio di fronte alla gastronomia Da Buono di Raffaele Papa: «Ho mangiato qui in negozio con mia moglie - racconta l'uomo - Saranno state le 13,30 o le 13,45 quando ho sentito litigare in strada. Non era la prima volta che sentivamo quelle discussioni. Dopo pranzo mi sono messo a lavorare e improvvisamente ho sentito un colpo di pistola, l'ho subito riconosciuto, mia moglie invece si è affacciata dall'altra stanza chiedendomi se fosse caduto qualcosa. Poi pochi istanti dopo ne sono stati sparati altri. Ci siamo affacciati e abbiamo visto una persona a terra, una scena terribile. Abbiamo iniziato a tremare come foglie e abbiamo chiamato i carabinieri che erano già stati avvertiti da diverse persone». Massimiliano De Simone era appena stato colpito dai proiettili sparati da Papa: «Si è accasciato a terra - dice Moda - è caduto ma non voleva andare giù, provava a rialzarsi ma aveva le gambe come paralizzate e si è messo seduto. Sapevo che mia figlia era di turno alla Croce Rossa e l'ho chiamata per rassicurarla che non eravamo noi le vittime della sparatoria di viale Matteotti. Poco dopo, infatti, è arrivata qui e ha soccorso le vittime». Le attività della via poco dopo l'accaduto sono state fatte chiudere una dopo l'altra, tra queste anche la tabaccheria Galati: «Sono arrivata a lavoro - racconta la titolare Silvia - e ho visto un motorino in mezzo alla strada - forse un mezzo lasciato lì da un passante spaventato - e ho visto Salvatore a terra di fronte all'immobiliare. Ho associato il motorino alla persona a terra e ho subito pensato ad un incidente, quindi sono andata a vedere come stesse. Salvatore aveva già perso i sensi e non mi ha risposto. Solo in un secondo momento ho realizzato quello che era accaduto prima del mio arrivo».I fratelli De Simone e Raffaele Papa, come anche Paola Martinozzi, sono tutti conosciuti dagli abitanti della via follonichese dove ieri si respirava un clima di paura e dispiacere. «Conosco le persone coinvolte in questa brutta vicenda - dice la tabaccaia - non posso dire male di nessuno di loro, anche Papa, che aveva aperto qui la sua attività da un paio di anni, mi è sempre sembrata una persona tranquilla ed educata».

La paradossale storia di Maurizio: 12 rapine in 3 anni e lo Stato è assente. Da Redazione vesuviolive.it 30 novembre 2018. Ha subito 12 rapine in tre anni, ma le Forze dell’Ordine sono state sempre assenti. Questa è la paradossale storia in cui si è ritrovato catapultato Maurizio, proprietario di un Bar Tabacchi ad Afragola. Un record incredibile che finisce al centro di un servizio di Luca Abete di Striscia la Notizia che raccoglie la testimonianza dello stesso proprietario dell’esercizio commerciale: “In queste rapine subiamo percosse, vengono armati fino ai denti. Abbiamo paura e non siamo tutelati“. Per Maurizio i rapinatori, anche se sempre a volto coperto, “sono sicuramente del posto perché quando parlano hanno il nostro accento“. Per un caso così eccezionale sono state messe in atto precauzioni eccezionali, anche se sembrano siano servite a poco: “Dalla prima rapina abbiamo potenziato il sistema di videosorveglianza: in 80 mq abbiamo 20 telecamere che registrano in HD. Ma fino ad ora non ci sono servite a niente“. Quindi, Maurizio ha tutte le immagini che vengono mostrate nel servizio di Striscia la Notizia. I ladri, che spesso sequestrano anche i clienti, arrivano quasi sempre in branco, armati (a volte anche di fucile a canne mozze), facendo razzia di tutto: non solo soldi, ma anche altre merci come sigarette, gratta e vinci e una cambia monete. Un danno ingente, in questi anni, che tra beni e soldi ammonta a circa 150mila euro. L’ultima rapina è avvenuta venerdì scorso, intorno alle 13, quando strada e locale erano affollati di persone. Una situazione insostenibile che diventa ancor più pesante per l’assenza dello Stato. Infatti, racconta Maurizio, ogni volta che le Forze dell’Ordine sono state allertate sono sempre arrivate in ritardo (anche un’ora e mezza dopo la rapina), eppure distano a soli 200 metri dall’esercizio commerciale. “Siamo diventati il bancomat di questi criminali – dice sconfortato Maurizio – Ho pensato anche di chiudere, ma così andrebbero in strada 15 dipendenti. Cercheremo di resistere fino a quando ne avremo la forza. Sono, però, sicura di una cosa: se noi ci abbiamo rimesso i soldi, lo Stato ci ha sicuramente rimesso la faccia“.

Aggredito con l'acido: i carabinieri non risposero alla chiamata di Giuseppe. Le Iene 13 maggio 2019. Vi mostriamo lo screen della chiamata che Giuseppe Morgante, accortosi di essere seguito da Sara Del Mastro, fa al 112. Una chiamata di quasi 2 minuti alla quale nessuno risponde. E qualche istante dopo quella telefonata la ragazza gli getta in faccia l’acido. “Dovrei chiamare il maresciallo, mi ha detto di avvisarlo quando la vedo, però cosa faccio? Gli dico che sotto casa c’è una pazza che continua a fare la ronda?”. A parlare è Giuseppe Morgante, il ragazzo aggredito con l’acido da Sara Del Mastro, la 38enne con cui aveva avuto una relazione di meno di un mese. Pochi minuti dopo questa frase, pronunciata da Giuseppe in macchina mentre Sara sta passando per l’ennesima volta davanti alla sua auto, la ragazza gli getterà davvero in faccia un bicchiere pieno di un liquido scuso e denso: un acido potentissimo (come potete vedere nel servizio di Veronica Ruggeri qui sopra). Una premonizione forse, quella di Giuseppe, ma la cosa ancora più incredibile è che subito dopo aver pronunciato quella frase in auto Giuseppe prova davvero a chiamare i carabinieri. Giuseppe chiama i carabinieri alle 21.36 del 7 maggio. Ma quella chiamata di aiuto, che come potete vedere dallo screen dura un interminabile minuto e 43 secondi, cadrà nel vuoto. Giuseppe viene messo in attesa fino a quando stanco di aspettare rinuncia ad avvisare le forze dell'ordine. “Avrebbero potuto avere un occhio di riguardo in più per Giuseppe, vedendo la sua chiamata e conoscendo lo stalking di cui era vittima”, spiegano dalla famiglia del giovane, che questa mattina si sta sottoponendo a un piccolo intervento chirurgico. E Giuseppe ci ha raccontato un altro particolare inquietante. Solo pochi minuti prima dell’agguato il ragazzo aveva rischiato conseguenze fisiche ancora più gravi. Sulla strada tra il posto di lavoro e casa sua Giuseppe, che si è accorto di essere seguito dal’'auto di Sara, prova a entrare in un parcheggio privato, per seminarla. La giovane gli si mette davanti con la sua auto, impedendogli di uscire. All’improvviso Sara scende dalla sua macchina e va verso il finestrino di Giuseppe, prima chiedendogli di ritirare la denuncia e poi dicendogli di volersi scusare. Se Giuseppe avesse abbassato il finestrino o fosse sceso, forse, lei avrebbe potuto tirargli l’acido in piena faccia, con conseguenze ancora più tragiche. Giuseppe però non si fida di lei e le dice di andare sotto casa dei suoi, sapendo che lì ad aspettarlo ci sono suo fratello gemello e sua madre. Il resto è cronaca, con la Del Mastro che una volta arrivata sotto casa di Giuseppe lo attira verso la sua macchina e dal’interno dell’auto gli getta addosso l’acido. Sara e Giuseppe si erano conosciuti in chat ed avevano avuto una frequentazione brevissima. L’uomo, non appena aveva percepito l’asfissiante gelosia di Sara, aveva deciso di interrompere quella relazione. Ed era stato l’inizio del suo “inferno”, fatto di 800 chiamate al giorno, pedinamenti, gomme dell’auto bucate, minacce esplicite di morte e falsi profili social per intimidirlo. E allora Giuseppe aveva chiamato Le Iene, per raccontare le minacce di morte e le persecuzioni della donna, che sarebbe anche arrivata ad assoldare un uomo per pedinare il “suo” Giuseppe oltreché stalkerizzare Arianna Penone, una ragazza che aveva conosciuto Giuseppe online.  Veronica Ruggeri aveva avvicinato anche la stessa Sara, e lei ci aveva detto: “So che il mio è stalking. L’ho fatto per colpa di quello stronzo di merda. Era l’unica persona buona in tutto lo schifo che avevo avuto. È la prima delusione forte. È stata la delusione del ti adoro facciamo una famiglia e poi?”. Sara Del Mastro, che in carcere si sarebbe detta pentita del gesto e avrebbe chiesto una perizia psichiatrica, è in arresto per lesioni personali gravissime e stalking.

800 telefonate in un giorno  e sms con foto di bare:  così Sara perseguitava l’ex. Pubblicato giovedì, 9 maggio 2019 da Andrea Galli su Corriere.it.  Le 16.40 del 19 aprile. Stazione dei carabinieri di Legnano. Da una parte, un maresciallo; dall’altra, un 29enne italiano, Giuseppe Morgante, arrivato per denunciare una 38enne italiana, Sara Del Mastro, conosciuta in chat su Internet, frequentata da inizio ottobre a metà novembre, una relazione che lui ha voluto interrompere e che lei ha trasformato in una persecuzione. Pedinamenti, minacce di morte, ottocento chiamate da numeri sconosciuti nell’arco di un unico giorno. Domanda del maresciallo a Morgante: «Può dirci se lei ha nutrito paura per possibili comportamenti da parte di Del Mastro?». Risposta di Morgante: «Io vivo con l’ansia che Sara possa crearmi seri danni. Temo inoltre possa fare del male alle persone che mi stanno accanto e mi vogliono bene». Da quella stazione dei carabinieri, la denuncia fu subito trasmessa alla Procura di Busto Arsizio. In quella stessa caserma, alle 21.50 dell’altroieri, Sara Del Mastro si è presentata dicendo di «aver fatto un gestito orribile nei confronti del ragazzo». Non di un ragazzo, ma del ragazzo, convinta che fosse o dovesse essere il suo fidanzato. Pochi minuti prima, aveva gettato un bicchiere di acido sul volto di Morgante, ricoverato in prognosi riservata per ustioni di secondo e terzo grado su torace, addome, mano sinistra e soprattutto il viso: rischia di perdere l’occhio sinistro. Davanti ai carabinieri che l’hanno arrestata e accompagnata in carcere, Sara Del Mastro ha urlato: «Quello lì mi ha rovinato la vita». Nella confessione in caserma, la donna, occupata in un’impresa di pulizie, ha ricostruito l’agguato. Nel primo pomeriggio di martedì, «in previsione di incontrare» Morgante, ha acquistato una boccettina di acido. Alle 16 ha chiamato sua madre per avvisarla che, se le fosse successo qualcosa, si sarebbe dovuta occupare della figlia di otto anni. Poi ha atteso a bordo della sua Fiat Punto. Ha incrociato Morgante in via Dei Pioppi a Legnano, la cittadina dove entrambi abitano, è scesa, e quando il 29enne ha abbassato il finestrino della macchina, Del Mastro gli ha rovesciato addosso la sostanza. Se n’è andata e ha raggiunto la caserma, dove ha alternato atteggiamenti d’insofferenza (si alzava e sedeva, toccava freneticamente mani e naso) a lunghi silenzi, e dove ha consegnato due iPhone e una sim; in mattinata, si era sbarazzata di un terzo telefonino lanciandolo nel fiume Olona. Ritorniamo sulle date, adesso. Il 19 aprile la denuncia di Morgante, il 7 maggio l’aggressione. Sono diciotto giorni, durante i quali i magistrati hanno avuto sul tavolo un cristallino quadro della situazione. Nel riportare le frasi di un avvocato che tratta molti casi di stalking come Domenico Musicco («Troppo lente le indagini, troppo lunghe le inchieste, nessun provvedimento preventivo, come il braccialetto elettronico obbligatorio nei casi più gravi, che però in Italia il giudice non dispone mai»), conviene tornare ancora su quella denuncia di Morgante, operaio in un centro commerciale. «Con Sara avevo messo in chiaro che la nostra sarebbe stata esclusivamente una frequentazione, poiché le avevo detto che mi stavo vedendo con altre persone... Ogni mio spostamento è seguito da Sara come se sapesse in anticipo dove intenda recarmi... L’ho notata in numerose occasioni nei pressi della mia abitazione... L’ho notata nel parcheggio dove lavoro... La mia speranza è quella che la smetta... Una volta le ho chiesto perché faceva così, e mi ha detto di essere “marcia dentro”... Ha chiamato la ragazza che frequento e la detto di essere incinta di me... Attraverso falsi profili dei social, mi insulta: “Viscido, bast..., figlio di..., idiota... Uomo di m.. tu sei morto...”. Mi ha anche inviato foto di bare». Domanda del maresciallo a Morgante: «Può dirci se lei è stato costretto a modificare le sue abitudini?». Risposta di Morgante: «Ho dovuto modificare le mie abitudini. Esco di meno. Cerco di fare strade alternative». Mercoledì, con Morgante, c’era il fratello gemello Filippo, che non è riuscito a impedire l’agguato, talmente è stato veloce. Una sera, mentre bucava le gomme della Clio di Giuseppe, la sua ossessione («Ci penso ininterrottamente giorno e notte» ha ripetuto), Del Mastro era stata sorpresa dal fratello. Pensando che fosse Giuseppe, gli aveva puntato addosso il coltello, promettendo: «Mi hai rovinato la vita, io ti uccido». Poi era scappata, l’arma in mano.

Marianna Manduca e Saverio Nolfo: come lo Stato uccide la memoria di una donna che non ha protetto. Next quotidiano il 22 Marzo 2019. Marianna Manduca, 32anni, vita e famiglia a Palagonia, in provincia di Catania, fu uccisa a coltellate il 3 ottobre del 2007 da suo marito, Saverio Nolfo, poi condannato a 21 anni di carcere. Lei aveva firmato 12 denunce contro di lui ma lo Stato non riuscì a proteggerla. E ieri una sentenza della Corte d’Appello in Sicilia ha negato ai figli il risarcimento danni. Perché? Scrive oggi il Corriere della Sera: Ma «ritiene la Corte» che a nulla sarebbe valso sequestrargli il coltello con cui l’ha uccisa «dato il radicamento del proposito criminoso e la facile reperibilità di un’arma simile». Nemmeno «l’interrogatorio dell’uomo avrebbe impedito l’omicidio della giovane donna», scrivono i giudici. Tutt’al più lui avrebbe capito «di essere attenzionato dagli inquirenti». Men che meno avrebbe avuto effetto una perquisizione a casa sua per scovare il coltello mostrato a lei minacciosamente. In pratica, «ritiene la Corte», che «l’epilogo mortale della vicenda sarebbe rimasto immutato». Ventuno pagine di sentenza per descrivere il senso di totale impotenza della magistratura (in quel caso la Procura di Caltagirone) davanti alle suppliche di aiuto di Marianna. E per smentire la decisione di primo grado che invece aveva parlato di «grave violazione di legge con negligenza inescusabile» nel «non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati» e nel «non adottare nessuna misura per neutralizzare la pericolosità di Saverio Nolfo». Il giudizio d’appello, invece, sostiene che la Procura fece il possibile date le leggi del momento (ancora non c’era la legge sullo stalking). Dice che — è vero—non eseguì la perquisizione e quindi non sequestrò il coltello, ma le due non-azioni, appunto, non sarebbero bastate a scongiurare il peggio. Per i maltrattamenti e le minacce di morte era previsto anche allora l’arresto (quello sì che avrebbe scongiurato il delitto) ma i comportamenti di Nolfo non furono interpretati all’epoca, e non lo sono in questa sentenza, come gravi: «Non consentivano l’applicazione della misura cautelare». Nemmeno quando lui accolse Marianna mostrandole un coltello a serramanico con il quale finse di pulirsi le unghie.

"Uccisa dal marito per colpa dell'inerzia dei giudici". Lo Stato complice del femminicidio, ecco le carte delle 12 denunce ignorate. Le carte di una sentenza destinata a fare storia. “I giudici dell’epoca, nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati da Marianna e nel non adottare nessuna misura volta a neutralizzare la pericolosità del marito, hanno commesso una grave violazione di legge con negligenza inescusabile” Claudia Fusani 14 luglio 2017 su Tiscali News. La differenza sta in un coltello. Quando Marianna lo vede, la prima volta, era il 13 maggio 2007 e un brutto presentimento le attraversa la mente. Si spaventa, lo denuncia, “con quel coltello mi ucciderà” disse ai carabinieri. Ma non serve. Sarà quel coltello ad ucciderla pochi mesi dopo, il 3 ottobre, mamma di tre bimbi, moglie uccisa dal marito. Lui si chiama Saverio Nolfo, lo presero quasi subito e non fu difficile per il tribunale di Caltagirone condannarlo a vent’anni per omicidio volontario. I tre bimbi, allora di 3,5 e 7 anni, sono stati nel frattempo adottati, vivono con serenità altrove e chiamano “papà e mamma” i nuovi genitori (lontani parenti di Marianna) e “fratelli” i tre figli naturali della coppia adottiva. E’ una tragedia lontana quella tornata nelle cronache a metà giugno. L’ennesimo femminicidio di cui sono state però punite le colpe dirette – quelle del marito - e anche quelle indirette, cioè dei giudici e di quell’apparato di sicurezza che sembra ancora oggi non essere in grado di capire e prevenire nonostante gli sforzi del ministero dell’Interno sulla formazione del personale e le modifiche al codice penale. Il capo della polizia prefetto Franco Gabrielli la scorsa settimana audito alla Camera spiegò come non sia possibile dare una scorta a tutte le donne che temono aggressioni e violenze da mariti o ex compagni. Vero, certamente. Il fatto è che anche Donata, 48 anni, Maria, 49, Manuela , 25, una donna romena di 48 anni e una italiana di 81, chi più chi meno avevano gridato, chiesto aiuto, denunciato magari con vergogna  le loro paure. Le hanno ammazzate tutte in 48 ore, tra Bari, Salerno, Cagliari, Roma, Montepulciano. E allora gli apparati dello Stato, di sicurezza e giudiziari e sociali, dovrebbero mandare a mente le 31 pagine della sentenza della I sezione civile del Tribunale di Messina che ha condannato al risarcimento (per 260 mila euro) i giudici che dieci anni fa non seppero ascoltare Marianna. Pagine che sono la cronaca di dodici mesi di minacce e paura. Di dodici denunce rimaste inascoltate, comunque sottovalutate. 

Trenta pagine da imparare a memoria. La sentenza firmata dal presidente Caterina Mangano è destinata a fare storia. A dettare la giurisprudenza. Soprattutto a dare speranza. Perché, come si legge, “i giudici dell’epoca, nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati da Marianna e nel non adottare nessuna misura volta a neutralizzare la pericolosità del marito, hanno commesso una grave violazione di legge con negligenza inescusabile”. E’ il risultato della vecchia (1988) legge Vassalli che va a combinarsi con la più recente modificata nel 2015.  Il messaggio è chiaro: mai più sottovalutare alcunché. Anche da parte della vittima. Carmelo Calì, così si chiama il lontano cugino di Marianna che prende in carico prima e poi adotta i tre ragazzini, inizia la sua battaglia nel 2012: sono passati 5 anni dall’omicidio, la pratica per l’adozione si è conclusa, è tempo di chiudere l’unico conto in sospeso perché gli altri – il dolore, la mancanza, lo choc – non sono calcolabili e quindi mai risarcibili. E’ convinto, Carmelo, che “la procura della Repubblica di Caltagirone nulla abbia fatto per impedire la consumazione dell’omicidio di Marianna” nonostante la donna abbia presentato “tra settembre 2006 e settembre 2007 dodici querele nei confronti del marito autore di violenze fisiche, aggressioni e minacce”. La causa civile è promossa contro la Presidenza del Consiglio dei ministri che per i primi tre anni chiede e ottiene la non ammissibilità della causa. Carmelo, affiancato dagli avvocati Alfredo Galasso e Licia D’Amico, insiste finchè la Cassazione gli dà ragione e ordine al tribunale di Messina di procedere. E’ il 17 luglio 2015.  Quante volte Marianna aveva chiesto aiuto. Caterina Mangano, presidente della prima sezione, le mette tutte in fila, una dietro l’altro, 12 querele in 12 mesi. Ne viene fuori la trama sottile di un delitto annunciato.

Dodici denunce in dodici mesi.

La prima volta è il 27 settembre 2006, stazione dei carabinieri di Palagonia. Saverio, il marito di Marianna, ha problemi di tossicodipendenza, e lei lo denuncia per “violenze fisiche e maltrattamenti”. Il pm, una donna, prende sul serio la cosa e chiede ed ottiene dal gip la misura cautelare dell’allontanamento dell’uomo dalla casa di famiglia. Attenzione alle date: il 10 ottobre, poco dopo la denuncia, Marianna chiede la separazione. Due strade, il penale delle querele e il civile per la separazione, destinate ad incrociarsi e condizionarsi. Mentre Saverio è allontanato da casa, a quanto pare ben assistito dai suoi legali, produce un certificato del Sert dell’Asl da cui risulta “l’inesistenza di uno stato di tossicodipendenza” tanto che il 19 dicembre 2006 ottiene l’affidamento dei figli in via provvisoria con diritto di visita della madre. Il motivo dell’affidamento è in queste parole del presidente del Tribunale: “Constatato il timore dei figli alla vista della mamma in aula”. A margine dell’affidamento vengono richieste le solite perizie e relazioni ai servizi sociali i quali certificano “la capacità e la disponibilità di entrambi i genitori ad esercitare la patria potestà”. Sul padre, però, dicono qualcosa in più: “Dinamiche relazionali padre-figli condizionate dalla volontà del padre di tenere i figli con sé; insufficienza della casa dei nonni abitata dai minori”. Insomma: dopo la prima denuncia, Marianna ottiene la cacciata del marito ma perde anche figli.

La seconda denuncia. E’ del 14 ottobre 2006: due giorni prima Saverio è arrivato a casa della suocera dove erano i bimbi e ha cominciato a prendere a calci il portone spaccando il vetro perché “non è vero che dormono, devo vederli”. I carabinieri, chiamati sul posto, fanno rapporto. Ma Marianna non dà seguito alla necessaria querela di parte: è appena stata presentata la richiesta di divorzio ed è bene – suggeriscono gli avvocati – non esasperare una situazione già complicata. La denuncia per danneggiamento muore così.

Quella per ingiurie - la terza denuncia – è archiviata il 17 aprile 2007 perché “non è stato ravvisato nulla di penalmente rilevante”. 

La quarta querela è del 7 novembre 2006: Marianna denuncia di essere stata picchiata dal marito, ha un referto di 15 giorni, e che i figli non sono stati portati a scuola. Nello stesso periodo ci sono le controdenunce del marito perché “vittima di aggressioni e ingiurie da parte della moglie e dei suoi genitori”. Il 28 novembre Saverio sarà allontanato da casa, segno che comunque la situazione creava preoccupazione. I figli però saranno affidati al babbo.

L’anno nuovo, il 2007, inizia con quattro querele: il 15, 16 e 17 gennaio e il 2 febbraio. Marianna dice di non poter andare a casa a prendere le sue cose “per timore di essere aggredita e delle reazioni spropositate del marito”. 

Il 15 marzo ne arriva un’altra: questa volta Marianna denuncia di essere stata schiaffeggiata, di non poter aver accesso alle sue cose e di non aver potuto prendere i figli in consegna come previsto dal giudice. 

Il presidente Mangano prosegue con precisione da laboratorio, dando il dettaglio dell’esito di ciascuna querela archiviata “per elementi inidonei e insussistenti” o dove l’imputato veniva assolto più o meno per gli stessi motivi. Ogni volta, in ogni caso, non è stata possibile l’applicazione delle misure cautelari. 

Si va avanti per pagine e pagine. “Sino al mese di giugno 2007 – si legge nella sentenza – non sono rinvenibili i presupposti per affermare una responsabilità dei magistrati della procura di Caltagirone”. Uno stillicidio di violenze e pressioni non perseguibili. La giustizia, e gli apparati di sicurezza e prevenzione, fino a giugno 2007 hanno fatto, sulla carta, il loro dovere. Anche le perizie psichiatriche dicevano che il marito era capace di intendere e di volere, non era un tossicodipendente, entrambi i genitori idonei alla patria potestà. Per fortuna la giurisprudenza da allora ha fornito giudici e investigatori di strumenti più idonei a contrastare certe follie (il reato di stalking). 

"L’inerzia dello Stato". La storia, già di per sé assurda di Marianna e Saverio e dei loro tre bimbi, cambia però il 2 giugno 2007. “Differente valutazione merita invece la vicenda a decorrere dal mese di giugno del 2007” scrive la presidente Mangano. E’ la denuncia numero 10. Quel giorno Marianna va alla stazione dei carabinieri dove ormai la conoscono benissimo, e racconta di essere andata a casa e di aver trovato il marito che, appena la vede, “estrae un coltello a scatto e con aria di sfida lo usa per pulirsi le unghie delle mani”. E’ un crescendo di minacce perché nei giorni precedenti il marito, da cui è ormai avviata la procedura di separazione, “le aveva puntato contro un arco artigianale con una freccia metallica ricavata da un’antenna”. La freccia era stata scoccata ed era finita a 50 centimetri dai piedi della donna. Negli stessi giorni, andando a prendere uno dei figli, il marito “si era fatto trovare mentre maneggiava lo stesso coltello, a scatto, una lama di circa 10 centimetri e manico scuro”.

Seguono altre denunce: il 25 luglio e il 3 settembre, ogni volta compare il solito coltello. “A fronte delle querele presentate a decorrere dal mese di giugno 2007 – scrive la presidente – dalle quali poteva razionalmente presagirsi un intento se non omicida quantomeno di violenza ai danni della donna, vi è stata una sostanziale inerzia dello Stato”.

Sei coltellate. Il 3 ottobre Marianna Manduca viene uccisa “con plurime coltellate all’addome e al torace con un coltello a serramanico con una lama di circa dieci centimetri”. I carabinieri questa volta non hanno dubbi e vanno ad arrestare Saverio. Mai delitto è stato più annunciato di quello. A pagina 25 e 26 della sentenza si legge: “Il compimento di una perquisizione (ai tempi delle denunce e mai avvenuta, ndr) avrebbe condotto al rinvenimento del coltello e al suo conseguente sequestro per porto abusivo di mezzi atti ad offendere(…)”. E questo “con valutazione probabilistica, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento omicida del 3 ottobre”. Certo, magari Saverio ci avrebbe provato con altri mezzi e in un altro momento. Ma quel rischio specifico non è stato evitato per colpa dell’inerzia dello Stato. “In materia di violenza domestica – scrive qualche riga sotto la presidente – il compito di uno Stato non si esaurisce nella mera adozione di disposizioni di legge che tutelino i soggetti maggiormente vulnerabili ma si estende ad assicurare che la protezione di tali soggetti sia effettiva evidenziando che l’inerzia dell’autorità nell’applicare tali disposizioni di legge si risolve in una vanificazione degli strumenti di tutela in esse previsti”. Una sentenza da studiare nelle università e da mandare a mente in ogni caserma, commissariato e tribunale.  

Erchie come Manduria: «donna sola bullizzata dal branco», la denuncia sul social. A metterlo pubblicamente in piazza, attraverso Facebook, è il titolare di un bar del piccolo comune della provincia di Brindisi. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 02 ottobre 2019. Un altro caso di bullismo nei confronti di un’anziana sola viene segnalato ad Erchie e ricorda la drammatica vicenda di Cosimo Stato, il pensionato di Manduria morto per cause che secondo la magistratura sarebbero la conseguenza delle continue violenze psicologiche e fisiche subite dal «branco». A metterlo pubblicamente in piazza, attraverso Facebook, è il titolare di un bar del piccolo comune della provincia di Brindisi. L’imprenditore racconta di una signora che abita vicino al suo locale, la quale sarebbe stata presa «di mira» da un gruppo di minorenni che si divertirebbero «quasi ogni sera» a svegliarla rompendo bottiglie contro il portone di casa o attaccando il cerotto al campanello. Il «divertimento» dei bulli sarebbe quello di aspettare che la loro vittima si affacci per deriderla e insultarla. «Purtroppo l’abbiamo trovata più di qualche sera in lacrime, spaventata e questo mi fa davvero incazzare», scrive l’autore del post nel denunciare un atteggiamento che potrebbe degenerare e che andrebbe sicuramente fermato sul nascere. «Non mi interessa perdere clienti, non chiudiamo gli occhi davanti a queste nefandezze», si legge nel post che ha provocato un acceso dibattito sul social a cui lo stesso imprenditore ha partecipato individuando «il male» nelle stesse famiglie. «Non diamo sempre colpa ai carabinieri, vigili e polizia – scrive -, se questi ragazzi si comportano cosi un po’ di colpa ce l'abbiamo anche noi. la verità – aggiunge - è che come genitori, nonni, zii, insegnanti stiamo fallendo. Stiamo sbagliando qualcosa. E prima di andare allo scatafascio abbiamo l'obbligo di intervenire iniziando dalle nostre case, dalle nostre famiglie, dai nostri figli».

Ecco il testo della denuncia. «Ho il doveroso bisogno di comunicarvi un episodio grave che accade, ahimè, quasi tutte le sere. Accanto al nostro bar abita un'anziana signora che non da fastidio a nessuno. Anzi, sopporta i vari schiamazzi, la musica a tutto volume, le macchine che suonano e sfrecciano a tutta velocità senza mai lamentarsi. I "nostri" figli si divertono a lanciarle bottiglie di vetro sul portone di casa, le attaccano del nastro adesivo sul campanello svegliandola di soprassalto nel cuore della notte. Lasciano cicche di sigarette , bottiglie di vetro e quant’altro davanti all'uscio della sua abitazione. Quando lei esce per chiedere di smetterla, viene derisa da questi bulletti. Purtroppo l’abbiamo trovata più di qualche sera in lacrime, spaventata, e questo mi fa davvero incazzare. Ci sono tanti negozi qui accanto ma nessuno mai si è accorto di nulla. Non mi interessa perdere clienti, non chiuderemo gli occhi davanti a queste nefandezze. Non siamo mai riusciti (per ora) ad individuare questi "grandi signori o signorine" che si burlano di una donna anziana, sola e indifesa. Spero che leggiate questo post e che proviate un grande, grande immenso senso di vergogna». Nazareno Dinoi

Oltre la Gogna. Don Bosco Manduria. Non è roba da bulli. Don Bosco Manduria: quante novità, anche la squadra femminile. Squadra femminile, nutrizionista e social media manager. Mario Lorenzo Passiatore su La Voce di Manduria sabato 13 luglio 2019. Via i veli alla stagione 2019/2020, sarà l’ottava per la squadra manduriana, che in questi giorni ha avanzato domanda di ripescaggio per partecipare al campionato di prima categoria. Capita, di rado, di vedere una società dilettantistica programmare la nuova stagione sportiva con debito anticipo. E’ stato fatto in casa Asd Don Bosco Manduria, dove nella giornata di ieri hanno presentato lo staff tecnico e dirigenziale di tutte le categorie. Prima conferenza della stagione, presieduta dal parroco/presidente Don Dario De Stefano, il direttore generale Antonio Cimino e dal nuovo numero due, Giovanni Puglia. Quest’ultimo, già noto per aver allenato e condotto la squadra alla ‘salvezza dei miracoli’ nella stagione 16/17. Resta nell’ambiente, con una nuova qualifica e maggiori responsabilità. Riconfermato anche Oronzo Caliandro come dirigente accompagnatore. E’ stato attuato un mini restyling, dal settore giovanile alla prima squadra. Si riparte con tante idee e nuove ambizioni, ma con lo stesso spirito di sempre. Di base resta la dimensione educativa, che contraddistingue questo progetto sportivo dagli altri, ma si è voluto fortemente alzare l’asticella anche da un punto di vista tecnico. Non è un caso, infatti, che da quest’anno ci saranno allenatori qualificati in ogni categoria. Fabiano Cimino, calciatore in forza al Sava (cresciuto nel settore giovanile del Lecce) allenerà i piccoli amici e primi calci. Rino Massaro, vecchia conoscenza del calcio manduriano, si occuperà dei pulcini e degli esordienti. E poi Pasquale Lobarco (allenatore specialista FIDAL) lavorerà con la categoria giovanissimi. Confermati per gli Allievi, Francesco Buccolieri e Andrea Montesardo. Altra peculiarità, Juniores e prima squadra avranno la stessa guida tecnica: Francesco Sportelli (fresco di patentino Uefa B), infatti, sarà coadiuvato dal preparatore atletico Vito Alfarano, entrambi in forza alla squadra messapica dalla passata stagione.

Squadra femminile, nutrizionista e social media manager. Le novità non finiscono qui, perché l’Asd Don Bosco sarà la prima società manduriana ad avere una squadra femminile di Calcio a 5, le ragazze si alleneranno nell’impianto antistante l’oratorio. Un progetto promosso dal team messapico in sinergia con Dario Daggiano, nelle vesti di dirigente accompagnatore. Con la nuova stagione sportiva verrà inserita in organigramma anche la figura del nutrizionista. Si tratta di Marco Quiete che, sarà a disposizione di tutte le categorie e saltuariamente terrà dei convegni specifici sull’alimentazione, dove i ragazzi potranno consultarlo privatamente. Inoltre, è stata introdotto il social media manager, qualifica ormai sdoganata tra i professionisti e, sempre più in voga anche tra i dilettanti. Il giovane Tiziano Pignataro, curerà i canali social (facebook e instagram) della squadra. Per giunta, si sta lavorando per fidelizzare il tifoso, ad annunciarlo è stato il direttore Antonio Cimino, che ha parlato per la prima volta di merchandising. Presto, sarà possibile acquistare gadget brandizzati Asd Don Bosco. Inoltre, con un “Dimitri” pienamente agibile, fare una vera e propria campagna abbonamenti non sarà più un’utopia. Mario Lorenzo Passiatore

Orfanelli, la controperizia getta ombre sui chirurghi. ​La controperizia della difesa punta il dito contro le scelte dei medici. E lancia sul tavolo una lettura diversa della morte di Antonio Cosimo Stano. Ribaltando quella del consulente del pubblico ministero...Mario Diliberto su La Voce di Manduria sabato 17 agosto 2019. La controperizia della difesa punta il dito contro le scelte dei medici. E lancia sul tavolo una lettura diversa della morte di Antonio Cosimo Stano. Ribaltando quella del consulente del pubblico ministero, il medico legale Liliana Innamorato, e escludendo le angherie subite per anni dall’anziano manduriano, dalle potenziali cause scatenanti della morte, avvenuta lo scorso 23 aprile nell’ospedale di Manduria, per le conseguenze di un’ulcera perforata. È battaglia a colpi di perizie mediche nel procedimento che punta i riflettori sulla gang degli “orfanelli”, due maggiorenni e undici minorenni manduriani, finiti nell’occhio del ciclone per gli sconcertanti raid e i pestaggi contro l’anziano disabile. Una storiaccia che allo stesso tempo ha commosso e sconvolto l’Italia. Perché i video delle aggressioni, registrati con il cellulare dagli stessi ragazzi finiti sotto accusa, hanno consegnato un quadro di malvagità avvilente. Una vera e propria galleria degli orrori scandita dalle botte e dagli insulti, ma anche dalle urla di disperazione e dalle vane richieste di aiuto di Stano, perseguitato e chiamato da tutti “Antonio lu pacciu”. La vicenda ora viaggia a grandi passi verso il primo passaggio in aula. Sulle modalità da seguire, però, i difensori degli indagati finiti nel mirino della procura ordinaria e di quella minorile intendono dare battaglia a tutto campo. Ed hanno chiesto il rito abbreviato, condizionato all’ingresso negli atti proprio della perizia affidata ai due consulenti, Rosario Sacco, ordinario di clinica chirurgica dell’Università di Catanzaro, e Massimo Brunetti, specialista in medicina legale. La coppia di specialisti nominata dal collegio di difesa (composto dagli avvocati Antonio Carbone, Franz Pesare, Armando Pasanisi, Cosimo Micera, Nicola Marseglia, Davide Parlatano, Lorenzo Bullo, Daniele Capogrosso, Antonio Liagi, Pier Giovanni Lupo, Gaetano Vitale e Dario Blandamura) nelle quarantasei pagine della relazione ripercorre gli ultimi giorni di vita di Antonio Stano, trascorsi tutti in ospedale. Una lunga degenza partita il 6 aprile, quando il 65enne manduriano venne soccorso nella sua abitazione, più volte violata dagli indagati per aggredirlo, e finita il 24 aprile, con la morte del povero Stano. In mezzo tre interventi chirurgici che i due consulenti della difesa bocciano senza appello. «In coerenza con i dati della letteratura e le linee guida attualmente accettate - spiegano i due professionisti - è ragionevole ritenere che i tre interventi chirurgici avvenuti in successione, il 16 aprile, il 19 aprile, e il 20 aprile, siano stati certamente non solo inutili ma fondamentale dannosi ed abbiano contribuito in modo significativo all’evoluzione infausta del caso». Conclusione in netta contrapposizione con quella della dottoressa Liliano Innamorato, consulente della procura, che invece aveva posto in relazione le aggressioni «con la comparsa o l’aggravamento della patologia» che ha portato alla morte del povero Stano. Due verdetti contrastanti sui quali si gioca buona parte della vicenda processuale. Con i legali che puntano ad alleggerire le responsabilità dei minorenni, finiti a lungo in cella sotto il peso di contestazioni che, in larga parte, hanno contribuito a costruire proprio con quei video che si scambiavamo nell’oramai tristemente nota chat degli “orfanelli”. Immagini che testimoniano le angherie inflitte allo sfortunato anziano, costretto a rinchiudersi nella sua abitazione per tentare di sfuggire ai suoi persecutori. Un incubo dal quale nessuno lo ha liberato. Nonostante le sue urla che risuonavano nel silenzio delle notti di Manduria. Richieste di aiuto rimaste senza risposta. Mario Diliberto

Manduria, anziano pestato a morte: chiesta messa alla prova per altri 11 minori. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Settembre 2019. Così come era accaduto per due minori che stanno affrontando il processo con il rito ordinario, anche per altri 11 minorenni coinvolti nell’inchiesta sulla morte del pensionato di Manduria (Taranto) Antonio Stano, che avevano invece scelto di essere giudicati con il rito abbreviato condizionato all’affidamento di una perizia, i legali difensori oggi hanno avanzato la richiesta di messa alla prova. Toccherà agli esperti dei servizi per la giustizia minorile, così come disposto dal giudice del Tribunale per i minori Bina Santella, presentare un piano che preveda un percorso rieducativo per ciascun minore. L’udienza è stata aggiornata al 9 dicembre. L'inchiesta riguarda la morte di Antonio Cosimo Stano, il pensionato di 66 anni di Manduria deceduto il 23 aprile dopo una serie di aggressioni, poi postate su whatsapp, vessazioni e angherie da parte di più gruppi di giovani. In caso di accoglimento della richiesta di messa alla prova, il processo sarà sospeso per un periodo non superiore a tre anni, decorsi i quali il giudice dovrà fissare una nuova udienza nella quale dichiarerà estinto il reato se ritiene che il percorso abbia esito positivo. In caso contrario il processo si riaprirà. Per i due minori a processo con giudizio immediato la relazione dei servizi minorili sulla messa alla prova sarà presentata il 21 novembre. Tre maggiorenni, infine, saranno giudicati con il rito abbreviato il 16 ottobre. I 16 giovani coinvolti rispondono, in concorso, di tortura aggravata dalla morte del pensionato, lesioni personali, percosse, molestie, furto, sequestro di persona e violazione di domicilio. 

Processo "orfanelli", ed è già sconto di pena. Nell’aula del tribunale dei minorenni di Taranto dove si è svolta la camera di consiglio, erano presenti tutti gli undici minorenni e gli educatori delle rispettive comunità di recupero. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 25 settembre 2019. Non è entrato ancora nel vivo il processo a carico degli “orfanelli”, ma un primo passo importante è stato fatto verso lo sconti di pena in caso di condanna. Infatti saranno giudicati con il rito abbreviato gli undici minori imputati nel procedimento penale nato dall’inchiesta sulla morte del pensionato manduriano Antonio Cosimo Stano. Decesso dovuto, secondo l’accusa, alle continue vessazioni e violenze subite dal branco, sedici ragazzi in tutto, tra i sedici e i 23 anni, componenti della banda dei cosiddetti «orfanelli». Il rito alterativo che in caso di condanna concede lo sconto di un terzo della pena prevista, è stato concesso ieri dal giudice delle udienze preliminari, Bina Santella, accogliendo la richiesta della difesa che incassa anche l’accettazione, da parte del gup, di una contro perizia medico legale di parte. Nell’aula del tribunale dei minorenni di Taranto dove si è svolta la camera di consiglio, erano presenti tutti gli undici minorenni e gli educatori delle rispettive comunità di recupero dove sono stati assegnati dopo il primo periodo di detenzione nel minorile di Bari. Al fianco degli imputati anche gli emozionatissimi genitori che hanno accolto con favore e speranza la decisione dell’abbreviato. L’udienza, durata circa un’ora e mezza, si è conclusa con il rinvio al 4 dicembre prossimo, ufficialmente per decidere se accogliere o meno la richiesta di messa alla prova avanzata dai difensori. Un’altra interpretazione di tale rinvio è quello sollevato dall’avvocato Franz Pesare, difensore di uno dei minori presenti in aula, promotore di un ricorso in cassazione dove cercherà di mettere in discussione il reato di tortura e comunque la partecipazione del suo assistito a tale pratica che, da sola, comporta una pena sino a trent’anni di reclusione. Naturalmente l’accoglimento di tale ricorso per uno degli imputati, riscriverà l’intero iter procedurale, comprese le strategie difensive di tutti, motivo per cui Pesare aveva chiesto il rinvio dell’udienza di ieri in considerazione dell’appuntamento con la corte di Cassazione che ha già fissato la data della discussione per il prossimo 15 ottobre. Abbondantemente in tempo, comunque, per prepararsi alla camera di consiglio del 4 dicembre. Nel frattempo, per quella data, il gup Santella ha chiesto all’Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni di rendere già disponibile un programma per l’eventuale affidamento in prova degli undici ragazzi alla sbarra. Una tale soluzione – che metterebbe d’accordo tutti - comporterebbe per i minori un periodo di rieducazione, della durata non oltre i tre anni, superato positivamente il quale si prescriverebbe il reato. Diversamente la battaglia del collegio difensivo composto dagli avvocati, Cosimo Micera, Franz Pesare, Nicola Marseglia, Lorenzo Bullo, Daniele Capogrosso, Antonio Carbone, Davide Parlatano, sarà tutta concentrata sull’annullamento del reato della tortura. Per questo (se non ci penserà la corte suprema), punteranno molto sulla contro perizia medico legale che ribalta la tesi del consulente della pubblica accusa (la morte del pensionato è la conseguenza diretta delle violenze subite nel tempo da parte dei bulli). Diversa, invece, la lettura della perizia di parte che sul decesso del 65enne allunga ombre sulla buona pratica medica eseguita sul pensionato nel periodo in cui è stato ricoverato. Nazareno Dinoi

·         Tutto su Avetrana.

Avetrana, bimbi di 4 anni bullizzati, picchiati e maltrattati dalla maestra dell'asilo. Un altro episodio di violenza e maltrattamenti su minori viene dalla provincia di Taranto, da Avetrana questa vota dove una educatrice dell’asilo comunale è indagata dalla Procura della Repubblica di Taranto per maltrattamenti. Nazareno Dinoi su Nuovo Quotidiano di Puglia e  La Voce di Manduria sabato 09 novembre 2019. Bambini dell’asilo strattonati, picchiati, bullizzati dalla loro maestra. Un altro episodio di violenza e maltrattamenti su minori viene dalla provincia di Taranto, da Avetrana questa vota dove una educatrice dell’asilo comunale è indagata dalla Procura della Repubblica di Taranto per il reato di maltrattamenti su persone affidatele per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza e custodia. Un’accusa ancor più odiosa se si pensa che le presunte vittime sono tutti bambini di appena quattro anni. Non tutti, secondo l’accusa, ma solo alcuni di loro, tutti maschietti nati nel 2015. Contro la maestra, oltre alle denunce presentate dai genitori dei piccoli, ci sono le immagini delle telecamere e le intercettazioni delle «cimici» installate in tutto l’istituto dai carabinieri di Avetrana che hanno condotto la delicatissima indagine coordinata dal pubblico ministero Francesco Ciardo. L’insegnante prossima al pensionamento che è difesa dall’avvocato Enzo Tarantino, ha ricevuto l’avviso di conclusioni delle indagini che le consentirà di depositare proprie memorie difensive oppure chiedere di essere ascoltata dalla pubblica accusa. Tutto è iniziato l’anno scorso quando i genitori di un bambino frequentante l’asilo nido comunale «Giovanni XIII» di Avetrana, si erano preoccupati per i cambi d’umore del figlio che mostrava segni di particolare nervosismo e irrequietezza quando la mattina veniva portato all’asilo e un marcato distacco quando ritornava a casa con progressiva tendenza all’isolamento. Cogliendo questi segnali e interpretando le risposte del figlio alle loro insistenti domande, i genitori hanno cercato di confrontarsi con le mamma e papà di altri bambini frequentanti la stessa classe. Trovando similitudini con i racconti di altri sei alunni, i rispettivi genitori si sono uniti ed hanno deciso di affidarsi ad un legale. La scelta è caduta sull’avvocato penalista Franz Pesare che dal loro racconto ha preparato la denuncia presentata ai carabinieri. Un compito non facile visto il delicato argomento che ha richiesto numerosi incontri protetti con genitori e bambini i cui racconti coincidevano su molti aspetti. È toccato poi ai carabinieri della stazione di Avetrana, delegati per questo dal sostituto procuratore Ciardo, titolare dell’inchiesta, avviare le altrettanto delicate indagini. L’attività investigativa classica ha poi avuto la svolta decisiva con le immagini registrate dalle telecamere nascoste nelle aule dell’asilo frequentate dalla maestra sospettata. Scene impressionanti a ben leggere quanto scrive il pubblico ministero nell’avviso di garanzia notificato all’indagata. «In qualità di maestra dell’asilo nido – specifica l’atto -, maltrattava gli alunni durante l’orario scolastico percuotendoli con schiaffi e sculacciate, afferrandoli con estrema forza e irruenza, strattonandoli e sollevandoli dal suolo, tirandoli spesso per un braccio e minacciandoli di eventuali conseguenze per i loro comportamenti sbagliati». Un bel caratterino quello della maestra che quando perdeva le staffe, sempre secondo l’accusa, usava minacciare i suoi piccoli alunni con frasi del tipo «ti faccio volare dalla finestra». Dai racconti degli stessi bambini, poi, affiorano episodi di vero bullismo con punizioni di chi non si comportava bene, messi in un angolo oppure isolati dal resto della classe. La direzione scolastica avrebbe a sua volta avviato procedure cautelative nei confronti dell’insegnante che ora rischia il rinvio a giudizio. Nazareno Dinoi su Nuovo Quotidiano di Puglia

Maestra manesca, parla il suo avvocato e il vicesindaco di Avetrana. «E' una donna distrutta e addolorata dalle infamanti accuse che le vengono rivolte». Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria domenica 10 novembre 2019. Tutta Avetrana è sotto shock da ieri dopo avere appreso dal Nuovo Quotidiano di Puglia la notizia delle presunte violenze e maltrattamenti che avrebbero subito gli alunni della scuola materna «Giovanni XXIII» da parte della loro maestra. La donna - che in concomitanza con le indagini che l’hanno riguardata è andata in pensione, è indagata dalla Procura della Repubblica di Taranto per il reato di maltrattamenti su persone affidatele per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza e custodia. Le sue presunte vittime, sei quelli individuati sinora, sono tutti maschietti di quattro anni di età. Contro di lei, oltre ai racconti dei bambini riferiti ai propri genitori che con l’avvocato Franz Pesare hanno presentato la denuncia che ha fatto partire l’inchiesta, ci sarebbero le registrazioni delle telecamere installate dai carabinieri nelle classi e negli ambienti dove l’educatrice sostava con i suoi piccolissimi alunni. Il suo avvocato difensore, Enzo Tarantino, vuole studiare gli atti che ha richiesto agli inquirenti prima di tracciare un percorso di difesa. Descrivendo la sua assistita come «una donna distrutta e addolorata dalle infamanti accuse che le vengono rivolte», il legale esprime un parere su alcune circostanze che contrasterebbero con l’immagine che viene fuori da questa fase preliminare delle indagini.«Fa specie pensare – dice l’avvocato – al fatto che quando la signora ha dovuto lasciare la scuola per il pensionamento, è stata festeggiata e onorata dalle mamme dei suoi alunni che le hanno fatto dei regali e persino un encomio». Sempre secondo il suo difensore, «la maestra non è stata mai sottoposta a nessun provvedimento disciplinare da parte della direzione scolastica». Anche la politica s’interroga sull’inquietante episodio. Per il vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia, «è consigliabile non emettere sentenze e lasciare che la giustizia faccia il suo corso». Detto questo, poi, il numero due del governo cittadino s’immedesima nella vicenda in qualità di genitore. «Ognuno di noi – dice -, a prescindere da eventuali ruoli ricoperti nella società, è un genitore e come tale vuole che i propri figli siano al sicuro nelle nostre scuole e se la giustizia dovesse confermare queste accuse sarebbero di una gravità inaudita». Il pensiero del vicesindaco va poi ai genitori che hanno capito alcuni comportamenti anomali dei propri figli decidendo di denunciare ed anche agli inquirenti «probabilmente anche loro genitori che, sempre se quello che si dice è vero, hanno dovuto vedere e rivedere delle registrazioni video che sicuramente feriscono il cuore».

Tragico viaggio, Avetrana piange il suo giovane pulito. ​Una comunità sotto shock, addolorata, ammutolita dal dolore. Pierfrancesco Copertino, il ventiduenne che ha perso la vita nell’incidente di ieri a Francavilla Fontana. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 06 novembre 2019. Una comunità sotto shock, addolorata, ammutolita dal dolore. Pierfrancesco Copertino, il ventiduenne che ha perso la vita nell’incidente di ieri a Francavilla Fontana, era molto conosciuto ad Avetrana. Ha lavorato come barman nel locale «Blu Angels», il più frequentato e apprezzato dalla gioventù del posto. Quando era più piccolo ha giocato come portiere nella squadra di calcio locale, quella della società minore dilettantistica. Chi ha conosciuto e apprezzato il suo lato sportivo, lo definisce ancora come una vera promessa del calcio che se avesse continuato avrebbe avuto un futuro da campione tra i pali. Lui però voleva lavorare e dopo gli studi all’Istituto statale trasporti e logistica nautico e aeronautico Carnaro di Brindisi, ha fatto la scelta di lavorare e stare tra quelli della sua età, tra i giovani puliti come lui e lavoratori che amano divertirsi senza nessun azzardo. E sempre lavorando, soprattutto, per non pesare sui bilanci di famiglia. Così, dopo l’esperienza nel bar della sua città, Pierfrancesco ha deciso la svolta: si è allontanato dalla sua Avetrana per fare nuove conoscenza personali, umane e professionali. Il nuovo impiego lo aveva trovato a Lecce lavorando al «Cantiere Hambirreria di Lecce». Si occupava del banco bar. Era quello che amava fare ed era attratto dalla bellezza della città barocca. È lì che aveva incontrato Sara Greco, la ragazza sua coetanea, anche lei di Avetrana, che ieri era con lui in macchina e che è rimasta gravemente ferita. La ragazza trasportata con codice rosso all’ospedale Perrino di brindisi, è ricoverata in prognosi riservata nella rianimazione. Anche lei, studentessa all’Università del Salento, è molto conosciuta ad Avetrana. Ieri mattina aveva approfittato del passaggio offerto dal suo amico, Pierfrancesco che con la Citroen doveva portarla a casa. Un passaggio finito tragicamente come peggio non poteva essere. Le famiglie dei due ragazzi ieri sono state protette dai familiari e conoscenti che hanno appreso la notizia attraverso il tam tam della messaggistica dei social. Il padre del ragazzo, soprattutto, lo conoscono tutti in paese per la divisa che indossa. È carabiniere in servizio al reparto radiomobile della compagnia di Taranto. Il dolore e il lutto che lo ha colpito ha messo alla prova ancora una volta la proverbiale solidarietà e fratellanza dell’Arma che ha immediatamente allertato, collegandoli, i comandi delle due province di Taranto e Brindisi. Avetrana è costretta ancora una volta a sopportare un altro lutto. Sono tante le giovani vite strappate alla vita per eventi tragici o per malattia. «Non è possibile, sempre qui e sempre persone giovanissime», commenta con un sospiro il vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia che è stato tra i primi a sapere della terribile notizia. Militare anche lui (è sottufficiale della Guardia di Finanza), quando le prime informazioni non erano ancora precise, il numero due della giunta Avetranese si è messo in contatto con il comando stazione dei carabinieri ricevendo l’amara conferma. «Una famiglia per bene, lui una persona rispettabilissima e non solo perché indossava una divisa», afferma ancora Scarciglia che con il sindaco Antonio Minò e l’amministrazione tutta si apprestano a rendere onore al feretro del ragazzo appena le procedure lo permetteranno. Per i funerali sino a ieri non si conosce ancora la data. Ieri sera la prima testimonianza su Facebook della sua morte l’hanno data i suoi colleghi della «Cantiere Hambirreria di Lecce» con un post in cui si annunciava la cancellazione di una serata musicale organizzata da tempo. Le loro parole fanno rabbrividire. «Ci sono cose che non si possono prevedere in questa vita. Ma che quando accadono, lasciano tutti senza parole. La Jam Night di questa sera è annullata. Scusateci per il poco preavviso, ma questo martedì, sentiamo il dovere di restare in silenzio. Per rispetto a chi doveva esserci dietro quel bancone, ma che da stasera non ci sarà più. Un abbraccio da tutti noi, Pier». Nazareno Dinoi

Folla impressionante sotto la pioggia per Pier. La chiesa del Sacro Cuore non è bastata a contenere le persone rimaste fuori che erano più del doppio di quanto era la sua capienza. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 07 novembre 2019. Un numero impressionante di persone ieri ha partecipato ai funerali di Pierfrancesco Copertino, il ventiduenne di Avetrana morto l’altro ieri in un incidente stradale avvenuto sulla circumvallazione di Francavilla Fontana. Una folla numerosa, in gran parte giovanissimi, ha accompagnato sotto la pioggia il feretro in un silenzio rotto dal pianto inconsolabile di Valentina, la sorella più grande, stretta tra le braccia del padre che cercava di consolarla. Come in trance il fratello Mirko con la madre affranta, senza più anima. La chiesa del Sacro Cuore non è bastata a contenere le persone rimaste fuori che erano più del doppio di quanto era la sua capienza. Uno strazio inimmaginabile ha stretto il cuore dei presenti ammutoliti dai lamenti provenienti da più punti nella chiesa. A celebrare la messa è stato don Giovanni De Mauro assistito per l’occasione dal cappellano militare di Taranto. Per il papà carabiniere in servizio a Taranto erano presenti tutti gli altri ufficiali del comando provinciale e regionale dell’Arma oltre a numerosi colleghi in divisa e in abiti civili. Per tutta la durata del rito funebre si è udito il lamento del cane di Pierfrancesco rimasto in casa poco distante dalla chiesa. Durante i funerali gli esercizi commerciali di Avetrana hanno rispettato l’ordinanza del sindaco che ha disposto il lutto cittadino invitando la cittadinanza a sospendere ogni attività pubblica. A fare onore a Pier, come veniva chiamato il giovane, c’erano anche i proprietari e i colleghi del locale di Lecce dove lavorava come barman, il «Cantiere Hambirreria» che sino a domenica ha sospeso la programmazione musicale imponendo così il silenzio al locale. Ha fatto molta impressione il post sulla pagina Facebook del locale di Lecce che ha riportato il nome dell’ultimo cocktail inventato da Pier: «Il passeggero». Un sinistro presagio quasi. «Ci abbiamo pensato, sai – riporta il post -, e chissà che con quel cocktail non avresti voluto dirci qualcosa in più. Tu che però non sei mai stato un “passeggero” tra noi. Anzi». Anche don Fernando Dellomonaco, ex parroco di Avetrana, ha voluto dedicare un pensiero sui social. «Ho seguito Pierfrancesco negli anni della sua adolescenza e con lui abbiamo vissuto bellissime esperienze in Parrocchia. Purtroppo non potrò essere presente ai funerali, lo ricorderò nella messa questa sera. Il suo sorriso e la sua allegria resteranno per sempre nel mio cuore». Nazareno Dinoi

AVETRANA. “Sicurezza stradale? Una vera emergenza comunale”. Mirko Giangrande, “Azione Liberale” il 4 settembre 2019. “Girando per Avetrana i problemi sono numerosi e sotto gli occhi di tutti: disoccupazione, povertà, emigrazione di massa, mancanza di prospettiva futura, ecc. Ma c’è un problema che, per molti concittadini, è davvero impellente e di primaria importanza: la sicurezza stradale, intesa in tutte le sue sfaccettature. E tutte le lamentele, oltre che essere all’ordine del giorno, sono, purtroppo, provabili. Vediamo sfrecciare, in pieno centro, tir o autosnodati che circolano a pochi metri da mamme con i propri bambini o a pochi centimetri dai balconi; le strade sono vere e proprie gruviere, piste da “slalom”; le auto, nelle arterie principali (da Manduria, da mare, da Erchie, da Salice, da Nardò) fanno il loro ingresso nel paese ad una velocità superiore ai 100 km/h. I marciapiedi, molti dei quali già stretti, sono occupati da alberi o sono impraticabili perché non mattonati o perché pieni di buche (costringendo i pedoni a circolare sulle carreggiate); mancano le piste ciclabili, lasciando così i ciclisti in balia di auto, parcheggi in doppia fila e smog; molti segnali stradali, quali “STOP” o “DARE PRECEDENZA”, sono nascosti dagli alberi; molti tombini sono vere e proprie “trappole” per le auto in circolazione, fonte di incidenti o di danni gravi alle vetture. La situazione non è oltremodo sostenibile e se non c’è mai scappato il morto o tragedie simili è da attribuire solo alla benevolenza del Padreterno. Per evitare tali sciagure occorre agire subito, anche con progetti a medio termine quali dossi, divieti, modifiche al piano della viabilità e persino autovelox, da utilizzare solo come deterrente per gli automobilisti indisciplinati o come strumento di sicurezza stradale e non come semplice cassa comunale”.

Duplice tentato omicidio, confermati i domiciliari per il presunto autore. Secondo la testimonianza delle due vittime, entrambi di Avetrana, e di numerosi testimoni presenti all’aggressione, il trentunenne già noto alle forze dell’ordine...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 06 settembre 2019. Il presunto autore del duplice accoltellamento avvenuto ad Avetrana il 31 agosto scorso, non può essere liberato per la sua comprovata e persistente indole violenta. Con queste motivazioni Il gip del Tribunale di Taranto, Paola Incalza, ha confermato l’arresto ai domiciliari per il trentaduenne manduriano Riccardo Giuliano accusato di essere l’autore del ferimento di due giovani di Avetrana. Assistito dall’avvocato Franz Pesare che aveva chiesto l’annullamento della custodia cautelare, l’indagato non ha dato le necessarie garanzie alla giudice che ha deciso di confermare la misura restrittiva. Secondo la testimonianza delle due vittime, entrambi di Avetrana, e di numerosi testimoni presenti all’aggressione, il trentunenne già noto alle forze dell’ordine per il suo carattere rissoso, sarebbe stato responsabile di una lite, avvenuta intorno a mezzanotte all’interno del bar Blue Angels situato in pieno centro ad Avetrana. La discussione iniziata da semplici insulti, sarebbe poi passata a reciproci spintoni, poi ai calci e pugni e infine alle pugnalate che hanno ferito in maniera non grave i due giovani. L’indagato è stato poi fermato ed arrestato dai carabinieri che lo avevano raggiunto mentre cercava di allontanarsi a piedi. Portato nella caserma della locale stazione, Giuliano ha negato tutto smentendo anche di avere mai avuto un’arma. Il pugnale, infatti, non è stato ancora trovato. Intanto i due feriti sono stati portati al pronto soccorso dell’ospedale di Manduria dove sono stati medicati e suturati e dimessi con una prognosi di 10 e 15 giorni di guarigione.

Lo stesso indagato era stato protagonista di una grave aggressione a inizio giugno 2019 a danno di un ragazzo del posto che aveva rinunciato a presentare querela, nonostante fosse fratello ad un maresciallo dei carabinieri facente servizio a Manduria.

Indimenticabile Avetrana. Fai.informazione.it dal 18/07/2019. Avetrana, un paese lanciato verso l’estremità del  “tacco” dell’Italia, come chiamavano la Puglia una volta, al nord; ché poi, di logica, si sarebbe dovuto pensare alla Calabria come punta, ma si traslava la metafora, e tutto il sud era “quelli del tacco”. Una provincia baciata dal dolce Ionio, circondata da piane a perdita d’occhio, assolate, coltivate, punteggiate da pozzi non censiti, che forse solo i proprietari conoscono. Taranto è lontana con i suoi problemi. Si parlano dialetti curiosi, qualcuno dice messapici, contaminati dal salentino, appena parente del tarantino: quando gli abitanti si esprimono in  italiano, molti li scambiano per siciliani, chissà perché. La Puglia è la regione meno sudista del mezzogiorno, si dice. Non che siano mancate le storiche emigrazioni, né una organizzazione malavitosa di tutto rispetto come la Sacra Corona Unita; tuttavia non si sono formate cosche o archetipi come, per esempio,  per i siculi o i napoletani, parodiati tanto spesso nei film. La regione sconta il problema della scarsità d’acqua, ma è risultata sempre produttiva nel campo agricolo, della pesca, e del turismo di varia natura, come quello religioso nell’area di Monterotondo, patria adottiva di Padre Pio, polo mistico  e medico per i devoti. Lontani culturalmente dal “settentrione” foggiano e barese, i pugliesi meridionali vantano altri blasoni, come la barocca Lecce e la sua fama di città dove si parlerebbe l’italiano con l’accento ideale.

Sarah Scazzi non nacque, però, in questa terra, ma in Lombardia, durante una trasferta della madre in visita al papà Giacomo, colà emigrato; la bambina tornò al sud verso i sette anni. Un colibrì, minuta, diafana, la quindicenne sparì il 26 agosto 2010, con il popolo ancora distratto dall’ultima coda delle vacanze. Forse, come tante coetanee, il paese le stava stretto: dicono sognasse di fare la barista in qualche città o all’estero, e intanto studiava all’istituto alberghiero. Che succede, dal 26 agosto al momento in cui il corpo della ragazzina verrà ritrovato? Lo abbiamo ascoltato mille volte e in varie salse. Analizzeremo i protagonisti della storia e gli aspetti del crimine e della storia processuale che più ci hanno colpito. Le fonti sono mediatiche.

Concetta Serrano Spagnolo. La mamma di Sarah ha due cognomi perché adottata dagli zii. Poco aveva frequentato i veri genitori, era una ragazza di famiglia, che un giorno incontra Giacomo Scazzi e lo sposa. Ma Giacomo partirà per lavoro dopo la nascita del primogenito Claudio e Concetta, divenuta Testimone di Geova, resterà in compagnia della sua nuova religione e degli altri fedeli: ciò che, secondo molti, la renderà forte e poco incline a piegarsi al dolore dopo il dramma, convinta della prossima riunificazione con le anime dei defunti. L'abbiamo conosciuta sempre bella, dalla fiammeggiante chioma, sobria, ma incisiva nell'eloquio. Inviterà da subito a indagare sul nucleo familiare, se stessa compresa; apprenderà la sorte della figlia in modo fumoso e scoordinato, durante una diretta di “Chi l’ha visto?”.

Sarah, la vittima. Quando ancora si pensa a una fuga e non alla tragedia, in attesa di sviluppi, Concetta ci mostra la stanza della fanciulla, emula di Avril Lavigne, di cui tiene i poster in camera; spuntano dei video della sua ultima gita a Roma con la cugina/sorella Sabrina, di una festicciola dove l’adolescente sorride e punta il dito verso la telecamera, o di lei che guarda come si fa una messa in piega, magari pensando, in alternativa, a una carriera da hair stylist. La madre spiega il tipo di educazione che impartisce: niente computer, per esempio. Tuttavia ci viene svelato che Sarah va a chattare in casa di amiche e, per qualche giorno, si puntano i fari su un fornaio di diversi anni più grande, che si giustifica affannosamente: appena saputa la vera età dell’interlocutrice, aveva cessato i rapporti, peraltro rimasti rigorosamente virtuali. Concetta è contraria anche alle feste, a suo dire ormai solo espedienti per attività inappropriate, ma nulla può per frenare Sarah, sola come si ritrova nel fronteggiarne i primi ansiti di ribellione; la definisce tremenda, permalosa, un po’ eccentrica, ritratto che emerge anche dai resoconti sulla condotta scolastica. Forse a quindici anni è normale essere irrequieti ma, se davvero la donna intendeva imporre a Sarah una condotta a briglie più tirate, perché la faceva praticamente vivere in casa degli zii e in compagnia delle cugine? Laggiù, l’atmosfera pareva essere più adattata ai “tempi moderni” e Concetta non poteva ignorare che la compagnia di ultraventenni comportava delle conseguenze, rischiando di farle perdere il controllo sulla ragazzina. Tuttavia Concetta ha sempre riferito di sentirsi tranquilla, perché aveva fiducia in Sabrina Misseri, unica “mentore” di Sarah, dopo il matrimonio della sorella Valentina.

Giacomo Scazzi. Il papà di Sarah fa una curiosa impressione, con le sue palesi difficoltà espressive, mentre la moglie ha evidentemente compiuto un percorso evolutivo; intervistato con difficoltà, in qualche modo afferma che, anche se abita in Lombardia, ciò non significa che sia separato da Concetta. Lo si vedrà poco, a parte in qualche udienza. I media hanno fatto trapelare che Giacomo avesse la fama di correre dietro alle gonne, in modo anche un po’ invasivo. La sorella Cosima, nelle sue dichiarazioni spontanee alla Corte, affermerà che la loro famiglia non si è mai permessa di parlare male di Giacomo alla figlioletta, lasciando intendere che il resto del paese, invece, sussurrava cattiverie al riguardo. Sul punto, mamma Concetta avrebbe sostanzialmente risposto a Sarah in lacrime, toccata da questi pettegolezzi, che le doveva interessare solo il comportamento di Giacomo come padre e di non ascoltare il chiacchiericcio.

Claudio Scazzi. Il giovane, precocemente calvo e dall’aspetto “urban”, residente a San Vittore Olona, dove ha seguito il padre, è solito scendere al paese per una ventina di giorni ad agosto ed è già ripartito quando Sarah scompare. Simile alla madre nella parlata sciolta e di acute osservazioni, dopo la disgrazia allestirà una piccola mostra incentrata sull’amore della sorellina per gli animali, affermando, alla fine, che di lei non parlerà più.

Michele Misseri. Emigra con  la moglie in Germania circa nel 1979, dopo le nozze: una vita di sacrifici, una attitudine al lavoro mai messa in dubbio, forse un po’ succube della consorte, fama di puritano, anche un po’ timido. Dopo le note vicende viene dipinto come una sorta di Pacciani del sud, un primordiale contadino frustrato e incline ai raptus: pregiudizio di classe che si infila sempre nelle cronache criminali provinciali e rurali. L’unica immagine serena di lui che abbiamo visionato lo ritrae, elegante come tutti, al matrimonio della primogenita Valentina, mentre, fiero, la accompagna all’altare. Nello stesso video compare fugacemente Sarah, di rosso vestita. Serpeggia, da alcuni anni, un’ atroce diceria secondo cui il padre di Michele fosse violento, anche sessualmente, in famiglia.

Cosima Serrano in Misseri. Da ragazza molto somigliante a Sarah, precocemente invecchiata per la fatica e – detto a Franca Leosini – perché “ non voglio essere schiava della tinta” ( una frecciata a Concetta?), ci spiega che la loro famiglia è sempre stata normalissima; che tra lei e Michele erano corse incomprensioni negli ultimi tempi, come succede in molti nuclei familiari; di essere stata una madre di larghe vedute, e per nulla legata a costumi ancestrali visto che, d’altronde, la realtà odierna obbliga ad adeguarsi e – sempre da Leosini -  fa l’esempio del gran numero di ragazze madri ad Avetrana: piccola rivalsa di una donna fatta oggetto di insulti, sputi, e invocazioni al linciaggio da parte di una folla di compaesani, al momento dell’arresto. I leoni da tastiera avevano lasciato per un momento la postazione, per dar vita ad una scena rivoltante, che fa il paio con il turismo dell’orrore scatenatosi in particolare attorno a questo delitto. Cosima ribadisce lo smisurato affetto per la nipotina scomparsa, da sempre considerata una terza figlia e praticamente da lei cresciuta.

Sabrina Misseri. Ventiduenne al tempo, estetista con cabina in casa, viene descritta come “cocca di papà”. Pensiamo se non lo fosse stata, cosa di peggio le sarebbe accaduto…Propensa a confidarsi con tutti, pagherà cara la sua sete di comunicazione. La giovane appare molto legata alla “comitiva” di amici, protettiva verso Sarah, probabilmente talora anche un po’ aggravata dalla responsabilità di averla sempre appresso; unica in famiglia, non aveva la patente, particolare che più avanti assumerà un suo rilievo. Provocata dalla Leosini, risponde che non intende aderire alla religione dia zia Concetta, la quale l’ha invitata a convertirsi per espiazione, e si rammarica che la mamma di Sarah possa ancora considerare colpevoli lei stessa e Cosima; anche se, come si vedrà, forse nel tempo le circostanze hanno portato Concetta ad altre considerazioni.

Ivano Russo. Il bello del paese, si è detto spesso: un brunetto dallo sguardo intenso e, osservando le famose foto con le cugine, dalla gradita villosità. Ventisette anni all’epoca dei fatti e, si immagina, alquanto conteso da nutrita compagnia femminile, in effetti viene attratto nell’orbita di Sabrina Misseri, una ragazza che ha sempre ammesso di sentirsi complessata per un eccesso di peso e di peluria. Fatto “il colpaccio” di agganciare Ivano, iniziano i problemi.

In questa storia la fanno da padrone gli sms, predecessori dei whatsapp, ovvero i messaggini, che i giovani di oggi ( e non solo loro) si scambiano a raffica: ricostruirli, nel fatto di specie e considerando alcune cancellazioni a opera degli interessati, intorbidirà la ricostruzione, già di per sé problematica, degli eventi. Tuttavia l’episodio che più interessa è il famoso “rapporto mancato” del 21 giugno 2010 tra Ivano e Sabrina, su cui Franca Leosini infierirà con apprezzamenti sarcastici. In effetti non è ancora chiaro se il coniugio carnale, appena iniziato, fosse stato interrotto perché, all’ultimo secondo, Sabrina aveva ammesso di non assumere o portare anticoncezionali e lui non aveva dietro un preservativo, o per il timore del ragazzo che la partner potesse illudersi di avviare, con l’atto sessuale completo, una storia seria. Sabrina ha sempre disperatamente ribadito di non aver mai pronunciato la parola “amore”, e sfidato chiunque a trovarla in una delle migliaia di messaggi da lei scritti a Ivano stesso o ad altri, Né, in effetti, i testimoni anche più maliziosi hanno mai potuto affermarlo. La Misseri ha sempre parlato di attrazione fisica. C’è però un altro aspetto che investe prepotentemente Ivano, anche solo di riflesso: Sarah era innamorata di lui? E lui, che sponda le offriva? Che la adolescente avesse preso la sua prima vera cotta per Ivano è normale: in qualità di chaperon della cugina, stava spesso in sua compagnia, ne ascoltava gli sfoghi; Ivano era belloccio e di esperienza, vista l’età; ma che lui abbia potuto anche solo farle balenare un feed back, tendiamo a escluderlo, qualunque cosa la giovinetta avesse scritto nel suo famoso diario che, ricordiamolo, da giovani rappresenta l’amico immaginario, il libro dei sogni, il “muro del pianto” (e delle malignità inespresse) delle menti acerbe e degli ormoni in rivolta. Piuttosto, ci chiediamo se Ivano frequentasse con la stessa intensità altre ragazze, con foto di pomeriggi lieti e grande cameratismo. Se l’ha fatto, non sono uscite prove materiali; se invece prediligeva la compagnia delle cuginette diverse, ha scherzato davvero col fuoco, in un paesone di gole profonde.

Dopo i protagonisti, si passa ai comprimari che, talora, finiscono per assumere un rilievo smisurato a seconda della “sceneggiatura”. Maria Ecaterina Pantir. Badante rumena dello zio/padre di Concetta (l’uomo, che viveva con la figlia/nipote, morirà nel settembre successivo alla scomparsa di Sarah). La governante, proprio in agosto, aveva ricevuto la visita del fratello e pare che costui avesse anche dato una mano in lavoretti di riparazione e manutenzione. Subito nel mirino, il Pantir viene scagionato perché già ripartito prima della sparizione di Sarah, ma le Misseri vi avevano alluso, dunque Maria Ecaterina andrà ad aggiungersi alle parti civili contro di loro. E fosse solo questo. Dirà qualcosa di determinante per l’accusa, come vedremo: vendetta?

Mariangela Spagnoletti. Amica intima di Sabrina, molto coinvolta nel suo giro di “vasche” serali, e giri per pub e birrerie, è sulla scena dei fatti, unica estranea al nucleo familiare, nell’arco di tempo fatale.

Anna Pisanò. Altrimenti detta “supertestimone”. Nelle cronache criminali, se ne trova spesso uno, che riferisce molte impressioni non avvalorate e pochi fatti: sembra questo il caso. Testimone di Geova come Concetta, non si rivela altrettanto riservata, come da dettami del culto.

Giovanni Buccolieri, il fioraio che avrebbe sognato la scena del ratto di Sarah da parte di Cosima, per strada; sua dipendente era la figlia della Pisanò, Vanessa Cerra.

Alessio Pisello, amico di Sabrina, molto attivo nelle ricerche subito dopo la scomparsa di Sarah.

Valentina Misseri. Sorella maggiore di Sabrina, fresca sposa al momento della disgrazia, in quei giorni si trovava a Roma, dove abita. Ha sempre sostenuto che, per sfortuna si fosse trovata ad Avetrana, sarebbe finita in carcere anche lei. Ha spiegato accuratamente che la logistica di casa Misseri escludeva una dinamica come quella descritta in sentenza.

I fatti

Sarebbe quantomeno consolante poter riferire di un crimine in termini di certezze, almeno in percentuale accettabile. Sarà che le vite sono complicate e il loro racconto le riflette, quando non le deforma; che la pistola fumante è rara; che i testimoni a volte si esaltano per il momento di celebrità: vuoi per questo, che per altro, la sentenza non ha offerto evidenze schiaccianti.

Interpelliamo per primo Claudio Scazzi, il quale ci fa sagacemente notare l’assurdità del ritrovamento del telefonino di Sarah ( in parte bruciato e privo di Sim) nei pressi del pozzo dove l’hanno gettata: perché non disfarsi di un oggetto incriminante? Dove era stato fino a quel momento? Dal 26 agosto fatidico alla “confessione” di zio Michele, che fece rinvenire il cadavere il 6 ottobre, nessuno si è preoccupato di perlustrare le proprietà dei Misseri, a iniziare dal villino di abitazione con annesso il fatidico garage o le campagne dove erano soliti lavorare, né di setacciare un territorio che, pur vasto, presenta il vantaggio di snodarsi in pianura, senza fratte o pendii, né tantomeno di valutare la presenza dei pozzi? Ce n’erano molti, si è detto. Vero: ma qui si parla dei terreni di una sola famiglia e non dovevano essere sterminati: alberi da frutto, pomodori, fagiolini, queste le principali colture cui si dedicavano Michele e Cosima, e lì si doveva andare insieme a loro, battendoli metro a metro. Concetta stessa aveva già direzionato le indagini verso l’ambito familiare, dunque…Claudio però è attenzionato dai media abbastanza da far sorgere delle domande, alcune forse un po’ oziose, altre ancora senza risposta. Qualcuno osserva che, saputo della scomparsa della sorella, il giovane non si è subito precipitato ad Avetrana per aiutare nelle ricerche: ma è ipotizzabile che, appena rientrato al lavoro, contasse su ( e sperasse in) una soluzione meno tragica, magari un rientro dopo una scappatella, pronto a dare una mano in ogni caso. Più interessanti, invece, appaiono le riflessioni sul suo ruolo nella cerchia in cui erano coinvolti i giovani parenti, sorellina compresa. Sceso per le ferie di rito, anziché godersi il riposo e il divertimento, egli si infila subito nel chiacchericcio più hard (Sabrina dirà di lui “ Claudio non si fa mai i fatti suoi”). Se il teorema accusatorio si basa da una parte sulla feroce gelosia di Sabrina verso Sarah a causa di Ivano, è pur vero che esso è stato puntellato dall’idea che la piccola Scazzi avesse parlato in giro sul “due di picche” che Sabrina si era presa da Ivano in procinto di far l’amore, ma non sarebbe andata proprio così. In realtà la giovinetta ne avrebbe accennato in casa, Claudio aveva saputo ed era andato, in un certo senso, a “sfottere” Russo sull’incidente erotico. Quindi non era Sarah la “colpevole” di aver diffuso il “pastiche”: giovanissima, non “si teneva” niente e si era confidata con il fratellone che per poco ancora avrebbe avuto vicino. La stessa Sabrina, poi, avrebbe avuto di che riflettere sulla sua propensione a raccontarsi senza freni. In ogni caso, notiamo che l’accusa ha un piano A e un piano B, due moventi intercambiabili o integrabili.

Sentiamo Concetta: molto presto si dichiara convinta della colpevolezza di Cosima e Sabrina. Addirittura, seguendo, a suo dire, le confidenze di un’altra sorella, avrebbe affermato - “Mia sorella Emma mi parlò di una corda che aveva visto in bocca a un cane e le era sembrato strano, era come se il cane le volesse indicare qualcosa e mi disse di parlarne con i giornalisti. Dopo l'arresto di Sabrina, Emma non si è più fatta vedere". Bari.repubblica.it.  - Insomma, questa Emma Serrano prima appare solidale con Concetta, poi parrebbe prendere le distanze e schierarsi con Cosima. Ma che significa una corda in bocca a un cane che “ le indica” qualcosa? Qui si inizia a scivolare nell’immaginazione, magari dopo aver appreso che l’accusa non parla più di omicidio a mezzo corda (come da autopsia), ma mediante una cintura. Torniamo a Concetta che, in uno speciale dedicato al caso su TV 9, siamo ormai nel 2018, all’ascolto dell’interrogatorio di Mariangela Spagnoletti, trova che il PM sia pressante e la ragazza “pilotata”.

Ivano Russo che ne dice? Sfiorato dai sospetti, ha l’alibi della madre, anche se i due  fanno un po’ di confusione sugli orari; qualche sms, vivisezionato dagli inquirenti, potrebbe adombrare delle discrepanze, ma, a parte l’imbarazzante deposizione in aula sulla famigerata “ notte del rifiuto”, il ragazzo non viene più disturbato fino ai giorni nostri. Purtroppo il suo nuovo sodalizio sentimentale, da cui è nato un figlio, si rompe con strascichi astiosi e la sua ex, Virginia Coppola, avrebbe dichiarato che di quel 26 agosto Ivano non ha raccontato tutto, che era uscito nelle ore incriminate. La donna viene catalogata come ex vendicativa e il capitolo Ivano potrebbe chiudersi un’altra volta. Forse, vedremo.

Cosa dunque sarebbe accaduto, quel giorno? Scremate le divagazioni di zio Michele, quando ormai la Procura è concentrata su moglie e figlia, apprendiamo che la versione definitiva disegna una certa scena, ovvero: Sarah esce di casa alle quattordici, arriva dai Misseri, dove Michele se ne sta da qualche parte, ma non è chiaro dove ( la teoria del trattore che lo ha fatto infuriare è svanita e con essa anche la sua esatta posizione in quel frangente); si scatena una lite furiosa tra le due padrone di casa e la povera Sarah ( motivo, la gelosia o la spiata su Sabrina e Ivano?); la ragazzina, quaranta chili di leggerezza e gioventù, scappa lesta, ma le due Misseri prendono l’auto; Cosima (peso oltre i cento chili, in piedi dalle tre e mezzo di notte dopo una giornata passata nei campi)  guida a tutto gas, la raggiunge, esce dall’auto, la rincorre, la afferra senza che alcuno senta nulla, la riporta a casa, dove, in qualche maniera, con una cintura, la povera quindicenne viene strangolata a quattro mani. A quel punto, non si sa bene come (su eventuali risultanze di tabulati in merito ci hanno lasciato a bocca asciutta), vengono chiamati i rinforzi, ovvero zio Michele, suo fratello Carmine e suo nipote Cosimo Cosma: i tre, senza fare una piega, né essere visti da qualcuno, arrivano come fulmini, si infila il corpo nel bagagliaio della Panda di Michele e via, tutti, a disfarsi del cadavere nel famoso pozzo di contrada Mosca. Poi, si suppone, ognuno sarebbe tornato tranquillo a casa propria, perché……perché la Spagnoletti, arrivata per la gita al mare, circa tra le quattordici e trenta e le quattordici e quarantacinque, non ha visto nessuno, non cita terzi, non si accorge di alcuna agitazione.

Come si è arrivati a questo finale. Sulle prime, le dichiarazioni di Michele venivano prese sul serio, perfino l’assurda idea di uno stupro post mortem sul corpo di Sarah: non che non siano esistiti tristi figuri capaci di atti simili, ma si doveva quantomeno attendere l’autopsia, che infatti proverà l’inequivocabile verginità della giovane defunta (Cosima, ancora libera mentre va a trovare il marito in carcere, glielo obietta, durante una intercettazione ambientale); dopo aver verificato l’inattendibilità dello zio più famoso d’Italia, gli si offre, tuttavia, ancora abbastanza credito da seguire la sua lenta svolta verso le congiunte: ora diventa un incidente casalingo. Ossia, Sabrina e Sarah, mostrando un intelligenza vicina al minimo sindacale, avrebbero giocato a cavalluccio: con la Scazzi sopra, si sarebbe pensato. No, Sarah faceva il cavallo e Sabrina, di tripla consistenza, il cavaliere, che con una improvvisata briglia (la cintura, che ora fa capolino?) per sbaglio l’avrebbe strozzata (casomai, fosse mai stato vero, Sarah avrebbe rischiato sì, grosso, ma per il peso della cugina sul suo esile corpicino…). Altra giravolta di Michele: non giocavano, ma hanno litigato. Come lo sa? Si è visto arrivare in garage Cosima e Sabrina, cadavere in braccio, transitate per un passaggio interno, sempre chiuso ermeticamente fino a quella data, e in pochi secondi avrebbe dato il via alla congiura per l’occultamento. DNA di Sarah? Nemmeno un po’.

Perplessità. La rincorsa di Cosima è attestata dal famoso sogno/visione/percezione del fioraio Giovanni Buccolieri, sul modello di quanto avviene nella cultura degli indios, che considerano i sogni realtà. L’uomo non avrebbe avuto di meglio da fare che dirlo alla sua dipendente Vanessa Cerra, che ovviamente sarebbe andata subito a “sbrodolare” la succosa confidenza alla madre Anna Pisanò. Buccolieri però, a breve, ritratta tutto; in questo caso non viene creduto, e si becca una condanna a due anni e otto mesi per false dichiarazioni al pubblico ministero, ma non tornerà indietro: non era vero niente, era solo una sua ipotesi, nel mare di supposizioni paesane che si incrociavano in quei giorni. Anna Pisanò, a sua volta, non è stata certo lineare. Prima ha parlato di certi operai che stavano ristrutturando un edificio scolastico e fischiavano alle donne (anche a lei, precisa), quasi alludendo alla possibilità che tra loro si dovesse indagare; poi sterza di brutto, parlando della tristezza di Sarah la sera del 25 agosto, e di un suo malumore anche il 26, giorno in cui, vedi caso, la Pisanò si sottopose a trattamenti estetici da Sabrina (e Sarah era sempre lì), notando il suo pallore, le lacrime trattenute, perché bistrattata da Sabrina. In realtà l’umore altalenante dei giovanissimi è la regola e se la Pisanò la sera non era al pub, quindi parlerebbe de relato, il 26 nessuno oltre lei notò Sarah corrucciata. Le amiche di Sabrina picchiano duro sulla infatuazione di Sabrina per Ivano, ma quanto a Sarah, ne riferiscono in modo non significativo: ogni giorno tra giovani, specie giovani donne e ragazzine, si litiga e si fa pace. L’indomani Sarah in mattinata era già dalla cugina, andò a comprare un prodotto in profumeria per lei, ed era vestita di nero; dopo mangiato, entusiasta alla prospettiva di andare al mare, provocando anche un po’ di disappunto in Concetta, mise il costume da bagno e si cambiò, indossando la famosa maglietta rosa come testimoniato anche da Concetta……ma no. Un manutentore, che l’avrebbe notata per strada, parla di lei vestita di nero nel primo pomeriggio, e le parole di Concetta passano in secondo piano. Né conteranno di più riguardo all’orario: Concetta ha sempre sostenuto che sua figlia era uscita alle quattordici e trenta, ma sul punto verrà ritenuta più affidabile la badante Maria Pantìr, che è fissata con l’uscita alle quattordici. Né varrà più che tanto la testimonianza dei due fidanzati di passaggio, che hanno notato Sarah camminare sul marciapiede e propendono anch’essi per le quattordici e trenta. E perché mai, nel correre dietro a Sarah, si sarebbe impegnata la stanca e pesante Cosima, unica a saper guidare, lasciando in auto l’imperturbabile Sabrina, mentre sarebbe stato del tutto logico che la più giovane si mettesse alla rincorsa e la patentata Cosima aspettasse in auto col motore acceso, pronta a ripartire? Nel giro di circa venti minuti dunque Sabrina avrebbe: ucciso Sarah insieme alla madre, chiamato rinforzi per farla scomparire, mandato messaggi al telefonino della cugina e con lo stesso dispositivo, ora in suo possesso, risposto con uno squillo per far credere che la poveretta fosse ancora viva; inoltre, scambiato altri messaggi con una cliente che nel frattempo l’aveva contattata, per poi scendere in strada dove l’attendeva la Spagnoletti, fingere preoccupazione e dirottare tutti verso casa Scazzi, mentre Michele, incorporeo, si dileguava con la salma in auto. Sembrerebbe una macchinazione davvero fortunata, per un delitto d’impeto, che si suppone lasci l’assassino un minimo sconvolto e poco lucido nell’immediatezza: ci vogliono sempre alcuni minuti per decidere sul da farsi, tempo a disposizione e un luogo non frequentato o isolato.

In questa sede non è il caso di aggiungere altro, che già non si sappia, a parte considerare gli ultimi sussurri al riguardo – “ …intercettato, Ivano dialoga con un amico, Alessio Pisello, e pronuncia una frase inquietante: «Qualcuno di noi ha parlato». Parlato di che cosa? Nella villetta al mare c’è forse un segreto da nascondere? Anche il 29 novembre, sempre intercettati, Ivano e i suoi amici discutono animatamente di quanto dovranno dire agli inquirenti, di che cosa vada corretto e di che cosa andrebbe nascosto” Panorama.it 27 novembre 2018 –  Esisteva, in effetti,  questa villetta, di proprietà del nonno di Sarah, e pare che su certe feste che vi si svolgevano nessuno abbia raccontato la verità: Sarah c’era o no? Circolava droga? La ragazzina aveva visto qualcosa? Per ora, è tutto: ergastolo per Cosima e Sabrina, otto anni per Michele, che ha ripreso a dichiararsi colpevole ed è stato anche condannato per la diffamazione nei confronti del suo primo avvocato Daniele Galoppa e la consulente Roberta Bruzzone, che a suo dire lo avrebbero convinto ad accusare la figlia, in quanto rassicurato sul fatto che le avrebbero dato solo un paio d’anni di carcere….Se solo Sabrina non fosse stata sentita da tutti, nei convulsi momenti in cui Sarah non arrivava, mentre proclamava sicura “ l’hanno presa, l’hanno presa”, forse non avrebbe attirato su di sé quell’attenzione che i suoi detrattori, vedendola così spesso in televisione, hanno bollato impietosamente, additandola quale ovvia pertinenza caratteriale di un’assassina narcisista; se solo Cosima non avesse spintonato il marito dietro la porta del garage, per indurlo a non dire pericolose scemenze dinanzi ai giornalisti, gesto interpretato come volontà di insabbiare la verità…se, se solo Sarah fosse ancora qui. Maria Lucia Monticelli, la giornalista che seguiva la vicenda per “Chi l’ha visto” ci regala a sua volta una visione: prima del ritrovamento del corpo aveva sognato la ragazzina che la avvolgeva in un abbraccio “dolente”: così  aveva intuito che lei non c’era più. Se fosse stato tutto un brutto sogno.

Il Re delle Stoffe: l’intervista all’imprenditore Arturo Prisco. Martina Morelli su Uominiedonnecomunicazione.com 7 maggio 2019. “È bello qualcosa che, se fosse nostro, ci rallegrerebbe, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro”. Non ci sono parole più incisive di quelle del maestro Umberto Eco per cercare di spiegare lo spirito di condivisione e di crescita reciproca alla base di un racconto di bellezza così ampiamente condiviso come quello del made in Italy. Lo stesso racconto che lega a doppio filo il saper fare italiano all’ammirazione del resto del mondo, che permette di guardare al futuro senza mai dimenticare l’importanza della tradizione. Lo sa bene Arturo Prisco, il “re delle stoffe” italiane in Germania, o come preferisce definirsi, un “comunicatore” del made in Italy. Si è detto tante volte che il rapporto tra Italia e Germania è di amore e odio. Bene, lui è la prova tangibile che così non è, insieme ai molti italiani (oggi circa 700mila) per cui questa è una terra promessa. Arturo Prisco è la migliore rappresentazione del valore aggiunto della coesistenza di due anime diverse della stessa Europa. Nominato commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana nel giugno del 2009, oltre ad aver creato un momento d’incontro chiamato Idea Prisco, è stato il primo imprenditore a ricostruire un intero quartiere, quello del centro storico di Dresda. Una storia, la sua, che parla di passione, intraprendenza, lungimiranza e della buona stella che ha illuminato il suo cammino.

Procediamo con ordine. Brianzolo, pugliese di nascita, come è arrivato in Germania?

«Diciamo che è stata in gran parte “colpa” del destino. Mio padre apparteneva al Corpo della Guardia di Finanza ed era in servizio ad Avetrana negli anni della seconda guerra mondiale. Nel 1945 – io avevo due anni – fu trasferito e tutta la famiglia (io, mia madre e le mie due sorelle) partì alla volta di Villasanta, in Brianza, dove poi siamo rimasti e dove ho portato avanti gli studi, diplomandomi in ragioneria. A 19 anni conobbi, sul lago di Garda, una bellissima ragazza tedesca, Helga, e subito me ne innamorai. Avevo bisogno di soldi per andarla a trovare in Germania, così iniziai a vendere libri ed enciclopedie per l’Istituto Geografico De Agostini Novara. Quando portai a casa il primo assegno (600 mila lire) mio padre rimase incredulo, tanto da volersi accertare con il mio datore di lavoro che quella cifra, quasi il triplo del suo stipendio, arrivasse proprio da lui. Da quel momento ci fu una rapida ascesa lavorativa con esperienze che mi diedero modo di affinare le mie capacità comunicative e commerciali. A 22 anni la De Agostini mi aveva affidato la responsabilità della filiale di Lodi. Qui conobbi anche i titolari di un lanificio della zona per cui occasionalmente facevo da interprete con alcuni clienti tedeschi, visto che negli anni avevo acquisito una conoscenza minima della lingua grazie a Helga, divenuta nel frattempo mia moglie. Col tempo diedi prova delle mie capacità con alcune vendite importanti e, nel 1980, quando avevo 37 anni, la ditta mi propose di diventare il loro rappresentante a Monaco. In venti minuti decisi di trasferirmi in Germania».

Sua è la formula di successo dell’Idea Prisco dove due volte all’anno le migliori case italiane di tessuti si confrontavano con i player locali in occasione della presentazione delle collezioni e che oggi è diventata un luogo d’incontro per i marchi italiani con la stampa e la clientela tedesche. Da cosa nasce quest’idea?

«Dopo qualche mese da rappresentante, decisi con mia moglie di aprire uno showroom, la Prisco Haus, in una delle strade più rinomate di Monaco. Un luogo d’incontro e confronto per italiani e tedeschi. Pensammo che far incontrare sotto lo stesso tetto tecnici, disegnatori e titolari delle fabbriche italiane e stilisti, proprietari e dirigenti di quelle tedesche sarebbe stato molto più efficace che mandare un rappresentante impresa per impresa. Sarebbe stato un modo per dare il giusto valore al prodotto stesso. L’idea era di creare una piattaforma di comunicazione che mettesse direttamente in contatto l’artigianalità italiana e la richiesta tedesca. Molti pensarono che eravamo pazzi, eppure al Prinzregentenplatz 23 quella che era iniziata come una piccola fiera privata diventò in poco tempo un appuntamento fondamentale per il settore. Ecco, credo che il nostro punto di forza sia stato proprio questo, parlare con le persone e capirne le necessità realizzando qualcosa di utile. È così che nascono le idee, cercando soluzioni. E la comunicazione è la parola magica».

È anche riuscito a ricostruire un intero quartiere della città di Dresda…

«Abbiamo trasferito parte delle attività a Dresda nel 1995 e ancora ricordo il primo giorno in città. Pioveva, tutto era tremendamente grigio e la città era ben lontana dall’avere le sembianze che ha oggi. Eppure qualcosa mi diceva che qui, in questo luogo simbolo della rinascita della Germania dell’Est, c’era molto potenziale. Acquistai e rimisi a nuovo una grande villa, cercando di interessarmi ed essere d’aiuto alla comunità locale. Proprio alla luce di questo fu lo stesso sindaco ad incitarmi a partecipare a una gara per il rilancio di Dresda. La vinsi con l’obiettivo di restituire dignità, bellezza ed eleganza al centro storico. E credo di esserci riuscito realizzando il “Quartier an der rauenkirche” (QF), con negozi, uffici e un hotel di lusso».

Ha da poco ricevuto il Munchner Phönix Preis, un riconoscimento che la città di Monaco assegna a quegli stranieri che si sono particolarmente distinti. Che effetto le ha fatto?

«Mi ha riempito di orgoglio. A questo Paese devo molto. Mi ha insegnato a mettere da parte i pregiudizi, così come credo abbiano dovuto fare molti dei tedeschi che ho incontrato finora, smentendo quella visione stereotipata degli italiani, di un popolo superficiale e inaffidabile. Il premio mi ha fatto riflettere ancora una volta sul fatto che confrontarsi con le altre culture non può che arricchire di nuove esperienze e visioni, rendendoci ancora più orgogliosi e consapevoli di ciò che siamo e di quanto valiamo. A Sud della Germania il 43% del reddito è prodotto da stranieri verso cui c’è molto rispetto. Dieci anni fa il governo tedesco ha intrapreso un’ottima politica di integrazione, che è un esempio per l’Italia e per i nostri politici. Per cercare di cambiare rotta finché siamo in tempo».

Donna di Avetrana in fin di vita accoltellata dal fratello a Modena. Un dramma familiare consumato nelle mura domestiche a Modena, ha provocato disperazione ad Avetrana. Scrive Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 24 aprile 2019. Un dramma familiare consumato nelle mura domestiche a Modena, ha provocato disperazione ad Avetrana, comune d’origine dei due protagonisti del fatto di sangue, fratello e sorella che da poco tempo si erano trasferiti in Emilia. La vittima, Francesca Rizzello di 36 anni, è stata accoltellata dal fratello che l’ha raggiunta con più fendenti al petto e in altre parti del corpo. Ferita gravemente, la donna è stata soccorsa dal personale del 118 che l’ha trasportata in codice rosso al pronto soccorso dell’ospedale Baggiovara di Modena. L’aggressore, nel pomeriggio di ieri, si è presentato spontaneamente ai carabinieri dicendo: «ho ucciso mia sorella». Non si conoscono i motivi dell’insano gesto. È successo ieri mattina intorno alle 9,30 in via Bolognese dove la donna si era recata per trovare la madre. Cosa sia accaduto in quel frangente non è ancora chiaro. Il fratello che pare soffrisse di disturbi psichici, l’avrebbe colpita con un coltello infierendo per una quindicina di volte al petto e al collo ed anche alla gola. La trentaseienne avrebbe tentato di sfuggire alla furia del fratello che l’ha raggiunta colpendola anche alla schiena. Il dramma è stato avvertito dagli inquilini della palazzina che hanno chiamato i carabinieri e il 118. I sanitari hanno tamponato le ferite e hanno trasportato la donna all’ospedale dove è stata subito sottoposta ad un intervento chirurgico. La paziente, fa sapere la direzione sanitaria del nosocomio, si trova ora ricoverata nel reparto di terapia intensiva e versa in gravissime condizioni. I due fratelli con la madre si erano trasferiti a Modena dove gestivano delle attività commerciali. Ad Avetrana la loro famiglia è molto conosciuta per diverse attività di ristorazione e pesca condotte dal capofamiglia a Torre Colimena. Una famiglia recentemente colpita da un altro grave lutto per la morte di un altro fratello della donna ferita colpito da un malore durate una battuta di pesca subacquea nelle acque di Torre Colimena. Aveva 27 anni ed aiutava il padre nell'attività di pesca anche lui, da giovane, vittima di un incidente di pesca che gli aveva lasciato una grave invalidità.

Modena, i loro ex si frequentano, lui massacra la sorella a coltellate: 36enne gravissima. Scrive Mercoledì 24 Aprile 2019 Il Messaggero. È ancora in gravi condizioni Francesca Rizzello, la donna di 36 anni accoltellata ieri mattina a Modena dal fratello Cosimo Damiano, di 38 anni, attualmente in stato di fermo per tentato omicidio: la vittima, che presentava numerose ferite da arma taglio al petto, alla schiena e al collo, è stata operata ieri e ora è in terapia intensiva in prognosi riservata. Un tentato omicidio avvenuto a quanto pare all'interno di accesi contrasti famigliari: la ex di Cosimo, dopo averlo lasciato, avrebbe iniziato a frequentare un ex di Francesca. «L'indagato - ha spiegato il Procuratore Capo di Modena, Lucia Musti - era piuttosto turbato sia dalla morte, l'anno scorso, di un fratello e dalla fine della relazione con una donna che è rimasta a vivere in Puglia con la loro bambina; questa donna avrebbe poi intrapreso una relazione con uomo che è stato legato proprio alla sorella attinta dai fendenti. Questo evidentemente il motivo che ha portato l'indagato ad agire in modo così grave». Francesca «è tuttora viva, ma non sappiamo se sopravviverà e, qualora sopravviverà, in quali condizioni», ha spiegato il magistrato. «Ha perso un litro e mezzo, o forse due litri di sangue in quanto la persona indagata, dopo aver commesso il fatto, si presume intorno alle 8.30 del mattino, si è recato nella caserma dei carabinieri alle 9.35 da lì sono scattati i soccorsi. Questa mattina il pm ha chiesto la convalida del fermo e la misura della custodia cautelare al gip Andrea Romito», ha detto Musti. L'indagato, fratello di Francesca di due anni più grande, risulta pregiudicato per furto, rapina ed estorsione. Ha affrontato periodi di cura, ma «al momento non risultano patologie che possano far pensare a incapacità di intendere o di volere, totale o parziale. Ha avuto un percorso di dipendenza da stupefacenti e alcol e questo sicuramente - ha concluso Musti - è un elemento di criticità». 

Modena, tentato omicidio. Estetista in fin di vita. Accoltellata dal fratello dopo una lite. Cosimo Damiano Rizzello si è costituito ai carabinieri ed è in stato di fermo. Scrive Valentina Reggiani su Il Resto del Carlino il 24 aprile 2019. Lo ha aiutato e sorretto per anni quel fratello difficile ma lui, forse ritenendola causa dei suoi fallimenti, ha afferrato un grosso coltello da cucina per poi colpirla non una ma sette volte. Dopo aver lasciato la sorella agonizzante sul pavimento si è recato in caserma, dai carabinieri affermando: "Ho ammazzato mia sorella". Ennesima tragedia familiare ieri mattina in città, in via Bolognese, a Villanova. Francesca Rizzello, 36 anni, estetista amatissima in città e mamma di un bimbo di pochi mesi lotta ora tra la vita e la morte. Un altro dramma che, forse, poteva essere evitato poichè lui, l’aggressore, Cosimo Damiano, per tutti Mimmo, 38 anni, accusato di tentato omicidio (video), era stato seguito per sette anni nella casa di cura Villa Igea e dopo dal Csm. Un passato di droga e reati su e giù per l’Italia; due ricoveri nella struttura psichiatrica e la negazione delle cure a fronte di una patologia acclarata. Francesca, originaria di Torre Colimena, Salento era tornata in città lunedì sera, dopo aver trascorso la Pasqua con il marito e il figlioletto. Come ogni giorno o quasi ieri, intorno alle 9, si è recata a casa della mamma, in via Bolognese. La donna è seguita dai servizi sociali non solo per problemi di salute: i figli, tredici, avevano chiesto assistenza un anno fa affinchè la donna iniziasse un percorso di socializzazione. Così come gli stessi figli avevano espresso agli operatori timori e difficoltà legate all’aggressività di Mimmo. Cosa sia successo ieri mattina non è chiaro: quel che è certo è che tra i fratelli è iniziata una discussione probabilmente per dissapori in ambito familiare. Pare che il 37enne la ritenesse responsabile del suo fallimento relazionale ma anche genitoriale. Quel che è certo è che Cosimo, dinanzi agli occhi della madre, ha afferrato un coltello ed ha colpito alla testa, alla gola e al petto la sorella. I sanitari hanno impiegato oltre un’ora per riuscire a stabilizzarla ed è stata sottoposta ad un delicato intervento insieme da un’equipe dell’Hesperia. Rilievi e indagini sono nelle mani dei carabinieri del reparto operativo. L’uomo si è avvalso della facoltà di non rispondere e in serata è stato sottoposto a fermo per tentato omicidio. Tantissimi amici e parenti si sono recati in ospedale per stare accanto a Francesca. Ancora gravissime le sue condizioni, la prognosi resta riservata. Lei, ambiziosa e generosissima, aveva appena realizzato il suo sogno: aprire un centro estetico in via Giardini, dopo il primo che già gestiva a Villanova. «La mattina colazione lei e Mimmo la facevano insieme alla mamma – affermano i conoscenti – la sua era stata una vita di sacrifici ma era sempre pronta ad aiutare tutti, soprattutto Mimmo: dal reintegro nella vita sociale con un lavoro, all’acquisto dell’automobile». Eppure lui ha cercato con ferocia di cancellare il suo sorriso». Stamattina il pm ha chiesto la convalida del fermo di Cosimo Damiano per tentato omicidio.

"Ho ucciso mia sorella": la ricostruzione del tentato omicidio. Scrive il 24 Aprile 2019 la Redazione La Pressa. Questo è quanto dichiarato ai Carabinieri da Cosimo Rizzello, il 40 enne che ieri ha accoltellato la sorella Francesca. Il Procuratore Capo ricostruisce i fatti. Accoltellata alla giugulare, alla schiena e al torace. La 35 enne Francesca Rizzello è viva per miracolo, ma è ancora sospesa tra la vita e morte all'ospedale di Baggiovara dove i sanitari l'hanno trasportata ieri, dopo averla rianimata sul posto, nella casa di Villanova, dove alle 9,30 è stata trovata stesa sul pavimento in un bagno di due litri di sangue perso per i fendenti sferrati dal fratello. Strappata alla morte e rianimata dopo un arresto cardiaco che potrebbe avere provocato (ma si saprà solo dopo il risveglio), danni cerebrali. Il fratello Cosimo, reo confesso, dopo essere stato ascoltato presso la Caserma dei Carabinieri dove si era recato spontaneamente dopo il fatto, dichiarando di avere ucciso la sorella, è stato sottoposto a fermo di polizia giudiziaria per tentato omicidio nel pomeriggio, in attesa della convalida del GIP. Un delitto, il suo, maturato in una condizione famigliare oltre che psicologica, complessa. L'anziana madre disabile e depressa, costretta a letto in modo pressoché costante, la dipendenza, da parte dell'uomo, da alcool e sostanze stupefacenti (che lo aveva portato a diversi passaggi a Villa Igea), ma soprattutto - ha confermato questa mattina il Procuratore Capo della Repubblica Lucia Musti - da dissidi famigliari legati direttamente alla sorella. Il cui ex compagno aveva iniziato una relazione ed una convivenza con la ex moglie di Cosimo, rimasta in Puglia dopo la separazione insieme alla loro figlia. Cosimo, a Modena, non avrebbe sopportato la relazione del suo ex cognato con la sua ex moglie. Motivo di contrasto con la sorella ma non tale da definire né un atteggiamento patologico né una condizione mentale capace di generare - ha specificato il Procuratore - 'una incapacità di intendere e di volere'.  Capace però di generare ugualmente una furia cieca, sfociata in un atto violentissimo, orientato ad uccidere. L'uomo ha impugnato un coltello da cucina e si è scagliato contro la sorella sferrando numerosi fendenti. Alla gola, alla schiena e al torace mentre la madre era allettata. Impossibilitata a chiedere aiuto. Il tutto intorno alle ore 8,30. Poi si è recato in Caserma, presso il comando provinciale dei Carabinieri di Modena, e ha confessato il gesto. Ciò ha comportato anche un allerta ritardata ai soccorsi che giunti sul posto si sono trovati davanti ad un corpo in arresto cardiaco, fortemente dissanguato che ha obbligato i sanitari ad un estremo tentativo di rianimazione, fortunatamente riuscito.  Che ha consentito il trasporto della donna all'ospedale dove è stata sottoposta ad un intervento chirurgico e dove ora versa in prognosi riservata. Soltanto nei prossimi giorni, se e quando la prognosi sarà sciolta, i medici potranno accertare eventuali danni anche cerebrali provocati dai lunghi minuti di arresto cardiaco.

Modena, i rispettivi ex si frequentano: Francesca accoltellata dal fratello, è in fin di vita. Scrive il 24 aprile 2019 Ida Artiaco su Fan Page. Lotta tra la vita e la morte Francesca Rizzello, la 36enne accoltellata dal fratello Cosimo Damiano nell’appartamento della madre a Modena. I medici stanno facendo il possibile, ma “non si sa se sopravviverà”. Proseguono le indagini, dopo il fermo dell’aggressore. Secondo fonti della Procura, l’ex compagna di lui, e madre della sua bambina, avrebbe cominciato una relazione sentimentale con l’ex della vittima. È in fin di vita Francesca Rizzello, la 36enne accoltellata ieri pomeriggio a Modena dal fratello Cosimo Damiano, conosciuto anche come Mimmo, nell'appartamento della madre di Villanova. Mentre l'uomo è in stato di fermo, accusato di tentato omicidio, i medici stanno facendo tutto il possibile per salvare la donna, che è stata colpita per almeno 15 volte, con ferite al collo, alla schiena e al petto. "È tuttora viva, ma non sappiamo se sopravviverà e, qualora sopravviverà, in quali condizioni", ha spiegato il Procuratore capo di Modena, Lucia Musti, che ha aggiunto che la giovane mamma di un bimbo di pochi mesi, estetista di professione, "ha perso un litro e mezzo, o forse due litri di sangue, in quanto la persona indagata, dopo aver commesso il fatto, si presume intorno alle 8.30 del mattino, si è recato nella caserma dei carabinieri alle 9.35, quindi più di un'ora dopo, e da lì sono scattati i soccorsi. Questa mattina il pm ha chiesto la convalida del fermo e la misura della custodia cautelare al gip Andrea Romito". L'aggressione alla sorella da parte di Cosimo Damiano, 38 anni, sarebbe avvenuto al culmine di una accesa lite familiare. Stando a quanto riferito da fonti della Procura, l'uomo era piuttosto turbato dalla morte di un terzo fratello, avvenuta lo scorso anno, e dalla fine della relazione con una donna, madre di sua figlia, che attualmente vive in Puglia e che avrebbe iniziato una relazione sentimentale con l'ex compagno di Francesca. Sarebbe, dunque questo, il motivo che ha scatenato la furia del 38enne, che si è scagliato con estrema violenza sulla sua vittima, lasciandola agonizzante sul pavimento dell'appartamento davanti agli occhi increduli della madre. L'indagato risulta anche pregiudicato per furto, rapina ed estorsione. Ha affrontato periodi di cura, ma "al momento non risultano patologie che possano far pensare a incapacità di intendere o di volere, totale o parziale. Ha avuto un percorso di dipendenza da stupefacenti e alcol e questo sicuramente è un elemento di criticità", ha concluso Musti. La prognosi di Francesca resta riservata, mentre tutto il vicinato è sotto choc. "La mattina la colazione lei e Mimmo la facevano insieme alla mamma – hanno raccontato alcuni conoscenti al Resto del Carlino -, la sua era stata una vita di sacrifici ma era sempre pronta ad aiutare tutti, soprattutto Mimmo: dal reintegro nella vita sociale con un lavoro, all’acquisto dell’automobile». Eppure lui ha cercato con ferocia di cancellare il suo sorriso".

25 aprile per i partigiani e caduti in guerra, il cippo della discordia. Ma il primo cittadino continua a rimanere della sua idea: spostare la tarda dei partigiani. Scrive Monica Rossi su La Voce di Manduria martedì 23 aprile 2019. Fervono i preparativi per festeggiare il giorno della liberazione ma qualcosa non funziona ad Avetrana tra istituzioni e associazioni a livello di comunicazione e di interpretazione della storia. Tutto per un cippo montato l’anno scorso per ricordare i settant’anni della Costituzione su cui l’Associazione nazionale partigiani di Avetrana vorrebbe mettere i nomi degli avetranesi deportati in Germania durante l’ultimo conflitto. L’amministrazione comunale del sindaco Antonio Minò, però, non è d’accordo. «Stiamo studiando le carte e i fogli matricolari dell'Archivio di Stato e non vorremmo escludere nessuno. Al momento le persone deportate da Avetrana in Germania risultano essere 54, quasi nessuno vivo ora, di cui tre inseriti nel monumento dei Caduti. Mentre i partigiani sono al momento 11 , compreso un'unica caduto, fucilato, a Sasso Marconi», spiega Rino Giangrande, attivissimo presidente della sezione ANPI di Avetrana. Ma per questo "cippo" qualcosa non va sin da subito perché, racconta Giangrande, «la targa sparisce quasi subito purtroppo, ma noi ne abbiamo pronta una nuova da posizionare proprio per la festa del 25 aprile vicino al monumento dei caduti in guerra, ma il sindaco, subito in accordo con l’Associazione nazionale caduti e reduci, vorrebbe fare spostare addirittura il cippo! Non sappiamo il perché – aggiunge -, il sindaco non ha mai risposto in maniera diretta alle nostre domande fatte via lettera, ma l'Associazione combattenti (con commissario Luigi Franzoso) ha ultimamente cambiato idea, visto che ha capito che il cippo era per la seconda guerra mondiale». Ma il primo cittadino continua a rimanere della sua idea: spostare la tarda dei partigiani. A spiegare il perchè è il vicesindaco Alessandro Scarciglia. «Rispondo per me e non per il sindaco – precisa il numero due della giunta -, e mi chiedo perché fare un cippo a ricordo dei partigiani e deportati a ridosso del Monumento ai Caduti che ricorda invece le vittime di tutte le guerre? Se si vuole fare un cippo a ricordo dei partigiani e deportati della seconda guerra mondiale io sono d'accordo – aggiunge Scarciglia -, ma facciamolo come si deve da un'altra parte, non dove si trova adesso perché così facendo distinguiamo le vittime». Il vicesindaco conclude: «Tra quelle persone deportate e partigiane mi sembra ce ne siano tre ricordati nel monumento ai caduti". Al sindaco toccherà poi rispondere, visto che per il 25 aprile sono previste alcune iniziative che dovrebbero coinvolgere l'attuale cippo, come la posa della nuova targa ad esempio, iniziative che non possono essere fatte senza la sua autorizzazione (ma che per la quale esiste già una richiesta protocollata in Comune ad Avetrana dal 9 aprile).

·         Sbarchi dei clandestini. L’altruismo e la solidarietà degli avetranesi.

Una giornata di sbarchi ad Avetrana, poi il fermo degli scafisti. Altri clandestini, di cui non si conosce il numero, sarebbero stati segnalati a San Pietro in Bevagna da dove hanno fatto perdere le tracce. Nazareno Dinoi su Quotidiano di Taranto e La Voce di Manduria lunedì 03 giugno 2019. Un numero imprecisato di migranti di probabile nazionalità pakistana è sbarcato clandestinamente ieri mattina sulla litoranea salentina, località Torre Colimena, marina di Manduria. Lo sbarco è avvenuto all’alba sulla spiaggetta denominata «Punta Cacata», una zona priva di strade di accesso al mare e ben riparata dalla visuale dal piccolo centro balneare dell’omonima torre. Settantatré di loro, tutti uomini, 19 minorenni, sono stati rintracciati sulla strada che da Torre Colimena conduce ad Avetrana e scortati dai carabinieri che li hanno portati all’interno dello stadio comunale della cittadina jonica dove hanno potuto ricevere una prima assistenza. A dare l’allarme intorno alle ore 7 alla centrale operativa del 112, è stato un automobilista che segnalava la presenza della colonna umana a circa due chilometri da Avetrana. Altri clandestini, di cui non si conosce il numero, sarebbero stati segnalati a San Pietro in Bevagna da dove hanno fatto perdere le tracce. Gli extracomunitari che erano scalzi e con gli abiti asciutti, saranno stati portati a riva dall’imbarcazione che si è poi allontanata. I carabinieri del nucleo operativo di Manduria al comando del tenente Valentina Scipioni della compagnia di Manduria guidata dal capitano Sergio Riccardi, hanno allertato le autorità politiche avetranesi che oltre alla struttura sportiva comunale hanno messo a disposizione il personale per l’accoglienza. Il vicesindaco Alessandro Scarciglia che ha coordinato gli interventi con l’aiuto di una interprete del posto, si è preoccupato di reperire confezioni di acqua, latte e pane per rifocillare i migranti che mostravano segni di disidratazione e spossatezza. Alcuni di loro presentavano piccole ferite da ustione alle mani e ai piedi che sono state medicate da alcuni sanitari intervenuti in soccorso. Per nessuno è stato necessario il ricovero in ospedale. Dopo la distribuzione di un pasto caldo fornito da un ristoratore di Avetrana, i 74 migranti che hanno dichiarato la nazionalità pakistana, sono stati affidati ai funzionari di Frontex, l'agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, che li hanno accompagnati nell’hotspot di Taranto dove saranno registrati e trasferiti nei centri d’accoglienza che saranno indicati dalla Prefettura jonica. Agli agenti dell’ufficio immigrazione della Questura di Taranto è stato invece affidato il non facile compito di identificare tutti i migranti con particolare attenzione ai sedicenti minorenni la cui età dovrà essere accertata. Nel frattempo i carabinieri della compagnia di Manduria hanno fermato due presunti scafisti di nazionalità ucraina accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Gli investigatori sono entrati in possesso di un video che riprende le fasi dello sbarco e che ha consentito l'identificazione dei due scafisti. I due indagati interrogati per tutto il pomeriggio nella stazione die carabinieri di Avetrana, sono stati rinchiusi nel carcere di Taranto a disposizione della magistratura che dovrà convalidare il fermo. L’imbarcazione utilizzato per il trasporto non sarebbe stata ancora trovata. (Nella foto di Giovanni Loppo il momento del fermo dei due presunti scafisti)

Avetrana, tutto il paese si mobilita per dare da mangiare ai 70 migranti sbarcati all'alba. Alcuni ristoranti hanno offerto un pasto caldo e un negozio di casalinghi ha provveduto a fornire piatti, bicchieri e posate. Anche i cittadini mobilitati per garantire la prima assistenza. Antonio Di Giacomo e Nazareno Dinoi il 02 giugno 2019 su La Repubblica. Una domenica di straordinaria accoglienza ad Avetrana, nell'immediato entroterra Tarantino. All'alba nella vicina Torre Colimena, a cinque chilometri dal paese, erano sbarcati una settantina di migranti pakistani. A individuarli i carabinieri, che subito hanno chiesto la collaborazione dell'amministrazione comunale di Avetrana domandando la disponibilità di locali in cui poter offrire la prima accoglienza. Due uomini di nazionalità ucraina sono stati fermati dai carabinieri per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina: gli investigatori sono entrati anche in possesso di un video che ha consentito l'identificazione degli scafisti. Erano le 7 del mattino quando è squillato il telefono del vicesindaco Alessandro Scarciglia. Che racconta: "Ho subito comunicato di poterli accogliere temporaneamente all'interno del campo sportivo perché ci sono locali idonei e servizi igienici per tutti. Abbiamo poi provveduto immediatamente a fornire ai cittadini extracomunitari acqua, latte e pane. A darmi una mano è stato un consigliere comunale di opposizione, Emanuele Micelli. Ho chiesto aiuto a lui perché entrambi facciamo lo stesso lavoro, indossiamo una divisa - io da finanziere ed Emanuele da carabiniere - e sappiamo come comportarci dinanzi alle emergenze". Così è stato, dunque. Ma a colpire è stata soprattutto la risposta immediata e solidale della comunità, che si è precipitata allo stadio offrendo aiuto. E non importa, evidenzia Micelli, che una settimana fa alle elezioni europee metà degli elettori abbia dato il proprio voto al centrodestra (qui la Lega con il 23 per cento è stata il secondo partito). "Qui ha votato appena il 36 per cento degli aventi diritto - ricorda Micelli - E c'è tanta gente che non si è recata alle urne e ha un'idea dell'accoglienza che non è certamente quella di Salvini. Ai razzisti non bisogna rispondere ai loro attacchi su Facebook, ma nella realtà del quotidiano. Ad Avetrana è accaduto questo: il mio paese ha dato una lezione d'accoglienza". Ne è orgoglioso lo stesso vicesindaco Scarciglia, eletto in una civica di centrodestra. "Essere di destra o centrodestra non vuol mica dire essere automaticamente razzisti", premette. "A noi oggi è spettato il compito di accogliere questi migranti nel migliore dei modi e ognuno, in paese, ha fatto la sua parte. Avevamo il dovere di accoglierli come esseri umani, a prescindere dalla religione e dal colore della pelle. Saranno poi le istituzioni preposte a decidere se rimpatriarli o meno". Cinque ore appena, fino a mezzogiorno circa, è stato il tempo di permanenza ad Avetrana dei migranti. Poi affidati ai funzionari del Frontex, che li hanno ricollocati nell'hotspot di Taranto. Ma è bastato perché cittadini, commercianti, professionisti e associazioni si rimboccassero le maniche. Marcello Nigro, proprietario di un negozio di casalinghi, ha donato alcune scarpe e piatti, bicchieri e posate. "Non cerco pubblicità", taglia corto: "Quando ci sono le emergenze bisogna essere d'aiuto nel concreto. E a prescindere dal colore della pelle di chi hai davanti, è necessario dare una mano". A offrire un pasto caldo, invece, è stato Tommaso D'Ippolito, un ristoratore. "Ero in piazza - spiega - quando si è venuto a sapere dell'arrivo dei migranti e mi sono recato allo stadio per capire se serviva qualcosa. Ed è lì che ho appreso che non mangiavano da tre giorni. Ho fatto il minimo: preparargli un piatto di pasta. Non scordo i loro sguardi persi nel vuoto, impauriti e stremati". Una questione di cuore e umanità, insiste D'Ippolito. "Non sono un razzista e non la penso come Salvini sulla chiusura dei porti. Dobbiamo accogliere i migranti, invece. Senza scordare che lo siamo stati anche noi. I miei nonni emigrarono in Germania e nessuno gli chiuse le porte in faccia. Perché dovremmo farlo noi oggi?".

La lezione di solidarietà degli avetranesi. I volontari hanno poi improvvisato una mensa da campo dove è stata distribuita la pietanza. Numerosi avetranesi hanno portato posate, indumenti e scarpe che hanno donato agli extracomunitari. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria lunedì 03 giugno 2019. Un forte segnale di solidarietà lo hanno offerto ieri gli avetranesi nell’accogliere i 73 migranti affamati e stremati sbarcati all’alba. I primi ad attivarsi, dopo i carabinieri che hanno scortato i clandestini in paese, sono stati i politici. Il vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia, di centrodestra, ha chiesto ed ha ottenuto il supporto dell’esponente di opposizione, il consigliere comunale Emanuele Micelli, del partito democratico assieme al quale ha coordinato gli interventi. È toccato poi alle associazioni di volontariato e ai cittadini dare prova di come di fronte al bisogno dei più deboli si possano e si debbano superare gli steccati delle ideologie e della politica. Un comportamento unanime che ha fatto dimenticare quel 33% di voti concessi a Salvini e alla Meloni nelle recenti elezioni. A pareggiare più di tutti i conti con quelle percentuali di intolleranza di chi predica «i porti chiusi», è stato il ristoratore Tommaso D’Ippolito che si è presentato spontaneamente allo stadio offrendo un piatto caldo per tutti. Con l’aiuto dell’interprete, il ristoratore ha chiesto ai migranti cosa potesse preparare che fosse di loro gusto ricevendo la richiesta di una semplice pasta al sugo. I volontari hanno poi improvvisato una mensa da campo dove è stata distribuita la pietanza. Numerosi avetranesi hanno portato posate, indumenti e scarpe che hanno donato agli extracomunitari. La calorosa accoglienza mostrata nello stadio non è stata gradita sui social dove sono circolati pareri in maggioranza contrari a ciò che si è visto. La risposta indiretta all’intolleranza del web l’ha fornita ancora una volta il ristoratore. «Non m’importa quello che si dice in giro, io sento di aver fatto il mio dovere aiutando chi aveva bisogno; ho ascoltato la lezione dei miei nonni che mi raccontavano di quando molti avetranesi partivano in Germania dove venivano accolti e dove molti di loro hanno avuto fortuna e ricchezze». Stessa lezione di solidarietà l’ha dimostrata il vicesindaco di centrodestra, Scarciglia: «Di fronte a queste cose – dice – l’ideologia non centra, noi tutti prima di essere politici siamo persone civili impegnati nel volontariato e oggi abbiamo fatto quello che andava fatto. Non me ne voglia Salvini».

Migranti ad Avetrana, il vice sindaco Scarciglia replica a infelici commenti su Facebook.  La Voce di Maruggio il 3 Giugno 2019. Riportiamo un post del vice sindaco di  Avetrana sullo sbarco di 70 migranti  sulla costa di Torre Colimena. Alessandro Scarciglia risponde ad alcuni commenti che fanno investito l’operato di alcuni avetranesi nell’ accogliere con cibo e indumenti i migranti. Leggo troppi post sui social scritti da persone che non erano presenti. A tale proposito preciso quanto segue:

Alle ore 7:00 circa sono stato contattato telefonicamente da militari della Stazione Carabinieri di Avetrana per chiedermi disponibilità di alcuni locali a seguito di uno sbarco di cittadini extracomunitari.

Ho subito comunicato di poterli accogliere temporaneamente all’interno del campo sportivo perché ci sono locali idonei e servizi igienici per tutti. Fin da subito ho chiesto la collaborazione del consigliere Emanuele Micelli per vari motivi e, soprattutto, perché veniamo da mondi professionali uguali e sappiamo come muoverci in queste occasioni (a lui, UNICO PRESENTE OLTRE A ME, va il mio ringraziamento per essermi stato vicino fino alla fine delle operazioni).

Abbiamo provveduto immediatamente a fornire ai cittadini extracomunitari acqua, latte e pane. Infine, l’amico Tommaso D’Ippolito ha offerto pasta asciutta a tutti loro e gli amici di Eurocasa hanno provveduto a fornire piatto, bicchieri e posate.

Inoltre, abbiamo provveduto a donare qualche può di scarpe a qualcuno (pochi in realtà) che ne era sprovvisto.

Fin da subito sono stato in contatto con la Prefettura di Taranto per coordinare tutta l’operazione fino al trasferimento dei suddetti cittadini a Taranto.

Voglio ringraziare veramente di cuore Manuele Micelli e gli altri amici della USD Avetrana, i carabinieri e la Polizia di Stato, la Polizia Municipale e gli operatori di Frontex, e Tommaso D’ippolito ed Eurocasa; l’ufficio dei servizi sociali del Comune di Avetrana (dott.ssa Rossana Saracino e dott.ssa Evelina Nigro); Federica Spina ed Elena Palumbo per aver fatto da traduttrici!!!

Senza polemica: chi era sotto ad un bar a farsi l’aperitivo cerchi di scrivere (se proprio ne sente la necessità) cose reali.

P.S. Non c’era nessuna telecamera!

Minacce e offese al vicesindaco di destra che ha “aperto i porti”. Il vicesindaco di destra, da parte sua, conferma la sua appartenenza ideologica alla destra ma anche ciò che ha fatto per i 73 pakistani. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria martedì 04 giugno 2019. Non è piaciuta a tutti la gara di solidarietà degli avetranesi che si sono mobilitati per accogliere e rifocillare i settantatré migranti clandestini sbarcati l’altro ieri, due giugno, sulla scogliera di Torre Colimena, marina di Manduria. A farne le spese, individuato come «responsabile numero uno» di tanta disponibilità, è il vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia. Militare in servizio e politicamente di destra (cresciuto in Alleanza Nazionale, confluito poi in Fratelli d’Italia prima di rifiutare ogni tessera di partito dopo una iniziale simpatia per Forza Italia finita male), Scarciglia è stato bersaglio in queste ore di durissimi attacchi e offese al limite della minaccia. «E’ da ieri che cancello post dal mio profilo Facebook di amici, a questo punto ex amici, che non hanno approvato l’aiuto che abbiamo dato a quelle persone», dice il numero due della giunta di centrodestra che assieme ad altri consiglieri comunali di opposizione ha coordinato le operazioni di accoglienza dei migranti per i quali, domenica mattina, ha aperto le porte dello stadio comunale dove i profughi hanno potuto riposarsi, usare i bagni e mettere qualcosa tra i denti prima di essere trasferiti nell’hotspot di Taranto. «Qualcuno ha detto che non mi voterà più perché avrei tradito la linea dei porti chiusi», spiega Scarciglia che conserva qualche messaggio più duro. «Addirittura uno mi ha avvertito di aver mandato a Matteo Salvini e alla Meloni la foto dove distribuisco i pasti caldi ai migranti; dice di aver chiesto ai due politici di farmela pagare elettoralmente la prossima volta che mi metterò in lista». Un altro gli scrive: «Mi sto incazzando perché Alessandro Scarciglia è stato votato perché ha (o aveva) le mie stesse idee». Altri hanno inviato, non si comprende a chi, le immagini della «vergogna». In un altro post si legge: «Lo screenshot è partito e poi approfondirà chi di dovere. I traditori non devono esserci a Destra». Sino all’esaltazione. «Sembrano bambini bisognosi? Stanno meglio di tanti avetranesi; vedrai se alle prossime elezioni non mi impegnerò per non avere Badoglio in Comune». E ancora. «Da questo momento in poi ritengo giusto non sentirmi più rappresentato da te. Per la prima volta da quando avevo 15 anni, alle prossime elezioni non farò più campagna elettorale per te… e spero che Salvini e Meloni non appoggino né tè, né la compagine che sosterrai: traditore». Il vicesindaco di destra, da parte sua, conferma la sua appartenenza ideologica alla destra ma anche ciò che ha fatto per i 73 pakistani: «la pensino come vogliono e che non mi votino più; io rifarei ciò che ho fatto perché la mia coscienza non la venderei mai con uno o cento voti». Un altro avetranese a cui va il merito di aver fatto il proprio dovere dimostrando quel senso civico che da tutti ci si aspetta, è il misterioso «filmaker» che ha ripreso tutte le scene dello sbarco e i movimenti che hanno poi consentito agli investigatori di mettersi sulle tracce dei due uomini fermati poi con l’accusa di essere gli scafisti. Grazie a lui i carabinieri della compagnia di Manduria che hanno condotto le indagini sono riusciti per prima cosa a dare una identità al natante trovato poi alla deriva e recuperato dai militari della Guardia di Finanza marittima di Gallipoli che l’ha trainato e sottoposto a sequestro. Un veliero registrato nel lontano stato Delaware negli Usa, paradiso fiscale dove hanno messo casa migliaia di società che operano in tutto il mondo e in diversi settori.

Questa volta Avetrana dà lezione a tutti. Di Avetrana, quel paese lì, noto per quel delitto lì, oggi si parla nuovamente per un altro grave crimine commesso questa volta da buona parte della popolazione...Emilio Mola su La Voce di Manduria. Di Avetrana, quel paese lì, noto per quel delitto lì, oggi si parla nuovamente per un altro grave crimine commesso questa volta da buona parte della popolazione: l’aver soccorso e accolto temporaneamente 70 persone provenienti dal Pakistan sbarcate nella vicina Torre Colimena la notte del 2 giugno. Un crimine fatto di mobilitazione e solidarietà, di pasti caldi e vestiti, che ha tra i suoi protagonisti il vicesindaco Alessandro Scarciglia: non proprio un professorone comunista, ma un militante di destra, da AN a Fratelli d’Italia, che ha poi deciso di non avere più alcuna tessera di partito. Uno che nella vita lavorativa indossa una divisa, quella della Guardia di Finanza, e che appena avuta la notizia dello sbarco ha chiamato un collega di lavoro, e consigliere di opposizione (del PD), e assieme hanno acquistato panini, acqua, latte. Poi è arrivato un ristoratore che ha messo sul fuoco chili di pasta asciutta. E via così. La disponibilità che lui e tanti suoi cittadini hanno dato ad accogliere temporaneamente questa gente colpevole di non si capisce bene cosa, ha scatenato gli istinti di altri concittadini per i quali adesso il principale problema di Avetrana è ora questo qui. L’immigrazione.

Ad Avetrana, secondo i dati Istat elaborati da Tuttitalia, i residenti stranieri sono 109. Sono 109 su una popolazione di 6.670 persone. Gli stranieri, ad Avetrana, sono l’1,7%. Non il 30%, il 20% o l’8,5% della media nazionale. Appena l’1,7%. Tutti africani ciondolanti con i muscoli, l’iPhone e il Wi-Fi in albergo? No. Quasi tutti europei, per lo più tedeschi e romene, 9 cinesi, 4 eritrei, 1 senegalese. Sembra insomma che Avetrana abbia tutti i problemi che hanno tanti piccoli Comuni del Sud Italia, ma non proprio quello dell’invasione straniera. Però numerosi suoi concittadini, amici, elettori hanno deciso di massacrare il vicesindaco Alessandro Scarciglia per il reato di accoglienza e solidarietà. Le parole che gli stanno vomitando addosso sono le solite del repertorio: “Vergogna”, “Traditore”, “Non ti voterò mai più”. Però Scarciglia non vuole cedere di un passo. In queste ore sta perdendo amici, simpatizzanti, elettori. Lui risponde che la sua coscienza non è in vendita.

Oggi se provi a cercare su Google “Avetrana” salta ancora fuori come primo risultato “Delitto di Avetrana”. Poi, solo dopo, c’è “Avetrana”. Scarciglia e tanti suoi concittadini stanno provando a liberare la loro città da quell’orribile macchia, che appunto con la comunità di Avetrana non ha nulla a che vedere. Ma altri suoi concittadini, forse gli stessi che si scagliavano contro l’immagine negativa che si dava di Avetrana in quegli anni, oggi lo crocifiggono per aver osato accogliere persone senza colpe. Se non quella di essere arrivati nel Paese sbagliato, nel momento politico sbagliato, dominato da un clima feroce, in cui in una pacifica e accogliente cittadina del Sud che mai ha avuto problemi con l’immigrazione, si sollevano eroi difensori dei confini della Patria, nel nome di un Padano che la patria la voleva dividere in due, e che da loro voleva separarsi tanto era il disprezzo e il disgusto che gli provocavano. Emilio Mola

Scarciglia e l'accoglienza ai migranti: «non sono un eroe, credo che anche Salvini l'avrebbe fatto». Un passato in Alleanza Nazionale, poi Fratelli d’Italia e Forza Italia, partito che ha recentemente abbandonato perché favorevole al depuratore consortile dei due comuni di Manduria e Sava che...Nazareno Dinoi su Quotidiano di Taranto e LaVoce di Manduria mercoledì 05 giugno 2019.  Alessandro Scarciglia è il vicesindaco di Avetrana, giunta a maggioranza di Forza Italia. Ha quarantadue anni, sposato e padre di due figli piccolissimi. Sua moglie è parrucchiera, lui è sottufficiale della Guardia di Finanza. Una smodata passione per la politica e per il prossimo. Da sempre il suo cuore batte a destra con simpatie mai celate, in alcuni casi, per l’estrema destra. Un passato in Alleanza Nazionale, poi Fratelli d’Italia e Forza Italia, partito che ha recentemente abbandonato perché favorevole al depuratore consortile dei due comuni di Manduria e Sava che l’Acquedotto pugliese sta costruendo in zona mare, a Urmo Belsito, proprio al confine con l’unica zona residenziale per la villeggiatura degli avetranesi. Sul suo profilo Facebook è possibile vedere foto di Giorgio Almirante o di Teodoro Bontempo, oppure post condivisi come questo: «Essere italiani una scelta d’amore, No ius soli». Eppure, da domenica scorsa, per tutti è l’eroe dell’accoglienza dei clandestini. Il suo nome è ricercatissimo su Facebook e sui motori di ricerca. È lui che ha «aperto i porti» a 73 profughi pakistani capeggiando la loro accoglienza, assetandoli, offrendogli indumenti e ambienti puliti, un pasto caldo e il benvenuto di un’intera comunità che lo ha seguito e, per questo, apprezzato. Non da tutti, però, perché i suoi elettori, alcuni di loro, hanno detto che cancelleranno il suo nome dalle prossime schede elettorali di quando si voterà. Sono arrivati anche insulti e frasi per niente gradevoli.

Vicesindaco, che storia è questa?

«Se si riferisce alle critiche le dico subito che è una storia stupida e inutile. Cavalcata da chi non ha idea di cosa sia il bisogno e che mischia i valori cristiani e la solidarietà con i voti di preferenza o i seggi da conquistare. Se invece vuole chiedermi perché ho fatto quello che ho fatto la risposta è altrettanto semplice e netta: ho fatto quello che ognuno di noi dovrebbe fare quando c’è una persona che chiede aiuto. Tutto qua».

Però lei non è uno qualunque. Lei rappresenta un’ideologia politica che in questo periodo in Italia rappresenta tutt’altro che la benevolenza e l’accoglienza di chi tocca le nostre coste cercando protezione e aiuti.

«Essere di destra non significa essere insensibili davanti a chi si trova in difficoltà. Un conto è la politica, altra cosa sono le circostanze che ci mette di fronte la vita. Credo che chiunque si trovi nelle condizioni in cui io e tanti altri amici e colleghi ci siamo trovati domenica, farebbe l’identica cosa. Il fatto che abbia aiutato quelle persone non significa che non sono più di destra o che sia diventato di sinistra. La carità, ripeto, non ha un colore politico. Io quando mi svesto dal mio ruolo politico sono una persona con dei valori e con dei sentimenti. Faccio parte di un’associazione che si occupa di clownterapia, periodicamente indossiamo i vestiti da clown e con la pallina rossa al naso andiamo nei reparti pediatrici per strappare un sorriso a chi soffre. Le posso assicurare che non guardiamo il colore della pelle dei nostri pazienti, il nostro compito e la nostra gioia è vederli ridere qualunque sia la loro nazionalità».

Possiamo dire allora che lei fa parte, in questo momento storico, di una destra atipica?

«Vuole arrivare a Matteo Salvini, immagino. Ne approfitto per dire che non sono un salviniano e non ho votato la Lega. E comunque non credo che Salvini si fosse comportato diversamente da noi se si fosse trovato ad affrontare una situazione come quella di domenica scorsa. O, almeno, lo voglio sperare».

Molti suoi elettori non l’hanno presa bene però. Hanno detto che non la voteranno più.

«Non credo siano in tanti e comunque a costoro dico tranquillamente che non mi pento di averlo fatto e che rinuncio volentieri al loro voto. Meglio mille volte la mia coscienza a persone come loro che per come si sono comportati pubblicamente troveranno sicuramente disapprovazione anche nei loro stessi ambienti».

Sbarco migranti a Taranto, per viaggio speranza hanno pagato 5600 euro a testa. I migranti, fermati dai carabinieri su segnalazione di un cittadino che ha ripreso lo sbarco con un telefono cellulare, sono stati prima accompagnati al campo sportivo di Avetrana e poi affidati a Frontex. La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 Giugno 2019. Hanno riferito di aver pagato 5600 euro a testa, affrontando un lungo, difficile e rischioso viaggio per raggiungere l’Italia e cercare di trovare un lavoro i 73 cittadini pakistani, uomini adulti e 19 minorenni, sbarcati ieri mattina sulla spiaggia di Torre Colimena, marina di Manduria. I migranti, fermati dai carabinieri su segnalazione di un cittadino che ha ripreso lo sbarco con un telefono cellulare, sono stati prima accompagnati al campo sportivo di Avetrana e poi affidati a Frontex. Su disposizione della Prefettura, in bus sono stati portati all’Hotspot di Taranto per l’identificazione e nelle prossime ore saranno smistati in centri di accoglienza. Dettagli sulle indagini che hanno portato al fermo di due ucraini per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono stati forniti dal colonnello Luca Steffensen, comandante provinciale dei carabinieri di Taranto. In carcere sono finiti Oleksii Boiko, di 38 anni, e Serhii Cheromukhin, di 48. Il viaggio dei 73 migranti, partiti da Bodrum (Turchia) a bordo di un natante a vela di circa 14 metri e nascosti in una stiva che può contenere al massimo dieci persone, è durato 9 giorni. L’imbarcazione è stata individuata alla deriva nello specchio acqueo antistante ed è stata sequestrata dalla Sezione Operativa Navale della Guardia di Finanza di Gallipoli (Lecce). I migranti sono stati intercettati dalle pattuglie della Compagnia di Manduria mentre in piccoli gruppi percorrevano a piedi la strada provinciale che conduce ad Avetrana, dove la popolazione che ha accuditi e rifocillati. 

I disperati del mare con il veliero del paradiso fiscale Usa. ​Nove giorni di mare stipati come sardine in 73, più i due scafisti, in spazi che di persone ne dovrebbero contenere al massimo 8. Biglietto: 5.600 euro cadauno, senza garanzie di arrivo e nemmeno un salvagente...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria martedì 04 giugno 2019. Nove giorni di mare stipati come sardine in 73, più i due scafisti, in spazi che di persone ne dovrebbero contenere al massimo 8. Biglietto: 5.600 euro cadauno, senza garanzie di arrivo e nemmeno un salvagente. L’odissea dei profughi pakistani è finita all’alba dell’altro ieri sulle coste pugliesi di Torre Colimena, marina di Manduria, dove ha fatto approdo il veliero di sedici metri registrato nel Delaware, paradiso fiscale degli Usa. Il suo carico umano, tutti uomini con 19 minorenni, ha raggiunto la scogliera all’ombra dell’imponente torre saracena, trasbordato a turno con un piccolo gommone che ha fatto la spola una decina di volte tra la terra ferma e l’imbarcazione ferma alla rada. Tutto alla luce del sole, nel punto che più in vista non si poteva e sotto lo sguardo incredulo di alcuni pescatori e soprattutto di un curioso testimone che dalla costa ha filmato tutto consegnando poi il prezioso video alle forze dell’ordine. «Una rotta insolita, la prima nel traffico di esseri umani a raggiungere queste latitudini», ha detto in conferenza stampa ieri il colonnello, Luca Steffensen, comandante provinciale dei carabinieri di Taranto. Che ha aggiunto. «Potrebbe essere l’inizio di una nuova strategia dei trafficanti e questo ci preoccuperebbe», ha ammesso l’ufficiale che con i suoi uomini sul campo, il capitano Sergio Riccardi e la tenente Valentina Scipioni, rispettivamente comandante della compagnia e del nucleo operativo dell’Arma di Manduria, ha illustrato i particolari delle operazioni iniziate alle sette del mattino e concluse nel pomeriggio con l’individuazione dei due presunti trafficanti. Sulle loro tracce erano state scandagliate le pattuglie sin dalla tarda mattina quando i primi profughi ascoltati hanno indicato i particolari relativi ai due «tassisti» che dalle coste turche li avevano condotti nel golfo di Taranto. I due sospettati di etnia slava e dagli inconfondibili tratti somatici dell’Est Europa, percorrevano a piedi la strada che da Torre Colimena porta ad Avetrana quando sono stati bloccati dai carabinieri che li hanno condotti nella caserma della stazione avetranese dove sono stati identificati. Si tratta di Boiko Oleksii, di 38 anni e Cheromukhin Serhii di 48, entrambi ucraini. Il magistrato di turno che ha disposto il fermo di indiziato di delitto per i reati di tratta di esseri umani e sfruttamento dell’immigrazione clandestina, ha spedito i due in carcere in attesa della convalida. A dir poco fantasiosa la loro versione dei fatti. Al capitano Riccardi che li ha interrogati, i due presunti trafficanti hanno raccontato di trovarsi in vacanza in Turchia dove hanno conosciuto delle persone del posto che parlavano il russo e con le quali è nata un’amicizia. Costoro, hanno spiegato i due ucraini al capitano, avrebbero proposto una crociera nel Mediterraneo a bordo del loro veliero battente bandiera Usa. La traversata sarebbe stata talmente spensierata e rilassante, con cene e calici di vodka, da stordirli sino a trovarsi magicamente sulle coste dell’alto Salento circondati da settantatré pakistani che chiedevano di sbarcare. Dopo averli aiutati a prendere terra, i due incantati «turisti» sono scesi a loro volta mettendosi in cammino diretti a Roma da dove avrebbero preso un aereo per tornare a casa. Tanta fantasia ma pochi spiccioli in tasca: circa seicento euro. Evidentemente già al sicuro il vero bottino di quell’attraversata: 480mila euro, la somma pagata dai migranti per raggiungere clandestinamente l’Europa attraverso una nuova tratta che, secondo le preoccupazioni degli investigatori, potrebbe riempire l’agenda futura nel traffico di esseri umani.

Lo sbarco a Torre Colimena, i particolari delle indagini e il video integrale dell'arrivo. Nove giorni di viaggio stipati in spazi ridottissimi. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria lunedì 03 giugno 2019. Il 2 giugno scorso, nelle prime ore del mattino, a bordo di un natante a vela di circa 14 metri, sbarcavano, sulle spiagge di Marina di Manduria, loc. Torre Colimena, 73 soggetti di probabile nazionalità pakistana, tutti di sesso maschile, di cui 19 minorenni, tutti sedicenti e sprovvisti di documenti. L’imbarcazione veniva invece individuata alla deriva nello specchio acqueo antistante, recuperata e posta in sequestro dalla Sezione Operativa Navale della Guardia di Finanza di Gallipoli (LE). I migranti venivano intercettati dalle pattuglie della Compagnia di Manduria mentre in piccoli gruppi percorrevano a piedi la strada provinciale che conduce ad Avetrana. Gli stessi, visibilmente provati da un estenuante viaggio di 9 giorni che trascorrevano stipati nella stiva della citata imbarcazione, ma fortunatamente in buone condizioni generali di salute, venivano condotti presso lo Stadio Comunale di Avetrana dove una e vera e propria equipe inter-istituzionale, composta da militari dell’Arma, agenti della P. di S., personale del Comune di Manduria, della Protezione Civile e dell’Agenzia Frontex, volontari di diverse associazioni, nonché da numerosi cittadini della comunità locale, si prodigavano per prestare loro accoglienza ed assistenza sanitaria. Gli stessi, prima di essere trasferiti presso il Centro Hotspot del capoluogo tarantino, fornivano ai militari, sia informazioni utili alla ricostruzione delle fasi della propria odissea intrapresa dalle coste turche, sia importanti particolari relativi ai due scafisti che li avevano condotti sulle coste del litorale jonico, descritti come due soggetti di etnia slava e dagli inconfondibili tratti somatici dell’Est Europa, identificati in Boiko Oleksii, nato in Ucraina, il 26.1.1981 e Cheromukhin Serhii, nato in Ucraina, il 30.9.1971. Questi ultimi, in tarda mattinata, venivano notati e bloccati mentre percorrevano a piedi la strada provinciale Avetrana - Manduria ed una volta accompagnati in caserma, venivano sottoposti con successo ad individuazione fotografica, che consentiva al PM di turno della Procura della Repubblica presso il Tribunale Jonico, di emettere un fermo di indiziato di delitto per “tratta di esseri umani” e “sfruttamento dell’immigrazione clandestina”, e di disporre conseguentemente l’accompagnamento in carcere dei predetti. Da ulteriori testimonianze fornite successivamente alcuni dei migranti, emergeva ogni “passeggero” versa una somma pari a circa 5.600 euro ed è tenuto a consegnare il proprio passaporto ai membri dell’organizzazione criminale. E’ la prima volta in assoluto che si assiste a uno sbarco di profughi pakistani provenienti dalla Turchia sulle coste del litorale jonico. (Nota stampa dei carabinieri)

·         E’ avetranese. "La Tarantina", l'ultimo femminiello napoletano.

"La Tarantina", l'ultimo femminiello napoletano, scrive il 18 novembre 2013 Repubblica Tv. Il racconto di uno degli ultimi femminielli napoletani. Carmelo Cosma, classe '36, ricorda le fatiche del dopoguerra, i rifiuti dolorosi da parte della famiglia e della comunità di Avetrana in Puglia, la dolce vita romana. Il libro La Tarantina e la sua "dolce vita" (Ombre corte) narra una storia di precarietà e coraggio, alla ricerca ostinata di una felicità che la protagonista troverà a Napoli, "dove ognuno ha il suo posto". Ne parlano l'autrice dell'autobiografia ''autorizzata'', Gabriella Romano, e il critico letterario Francesco Gnerre.

Teatro, film e un murale a Napoli per la Tarantina, ultimo femminiello che Avetrana non ha voluto. Un vero personaggio di nome Carmelo Cosma, classe 1923, di Avetrana, da dove, ancora minorenne, fuggì ripudiato dalla sua famiglia (evidentemente perché gay) diventando “La Tarantina”, scrive domenica 17 febbraio 2019 La Voce di Manduria. Un’opera teatrale sulla sua vita, libri, un docufilm del regista Fortunato Calvino a cura dell'Università degli Studi di Napoli - Federico II, ed ora un murale nel Palazzetto Urban di Napoli che sarà inaugurato domani, lunedì 18 febbraio, con la presenza del sindaco Luigi De Magistris. Tutto per “La Tarantina”, primo transgender pugliese e ultimo “femminiello” di Napoli. Un vero personaggio di nome Carmelo Cosma, classe 1923, di Avetrana, da dove, ancora minorenne, fuggì ripudiato dalla sua famiglia (evidentemente perché gay) diventando “La Tarantina”. All’età di 82 anni (il 22 marzo spegnerà l’83sima candelina), la Tarantina è diventata una leggenda raccontata dalla stessa protagonista nel documentario del regista Calvino dove Carmelo Cosma, alias La Tarantina, ricorda il suo avvio alla prostituzione ancor prima della maggiore età, la persecuzione della polizia e la partenza per Roma, dove visse la sua personale e trasgressiva dolce vita conoscendo nomi come Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Laura Betti, Goffredo Parise e Novella Parigini, la pittrice famosa per le sue donne con gli occhi di gatto, che la ebbe più volte come modella. Di lei ne parla oggi il Corriere del Mezzogiorno in un articolo di Alessandra Chetta che riporta brani di alcune interviste della Tarantina. «Federico non credeva fossi un uomo viste le mie sembianze, fino a quando non gli feci vedere il mio membro» dirà a Gay.it. Conosce Pier Paolo Pasolini e Laura Betti, «anche se non sapevo minimamente chi fossero», o forse furono loro a conoscere lei, star dei salotti. S’imbatte in Alberto Moravia, «un gran cafone», e incrocia più volte Goffredo Parise, che invece descrive come persona meravigliosa. In via Margutta era di casa: posava da modella per Novella Parigini, pittrice esistenzialista di nudi che poi, spesso, coincidevano col corpo travisato del femminiello. Sulla Tarantina degli anni d’oro dei grossi guadagni si favoleggia alla grande». Sempre dal Corriere del Mezzogiorno. «Fa l’intransigente, orgogliosa di essere terzo sesso: «Lgbt, ma che mi significa? Transgender? Mah». Perplessa sulla colorata ostentazione dei Pride e delle nozze gay, come qualche tempo fa la cerimonia della transessuale Alessia ad Aversa: «E’ una cosa che proprio non mi interessa, si fa troppo spettacolo, troppa esibizione, ma se la gente è felice così… Anche se di matrimoni, però finti, tra femminielli ne abbiamo sempre fatti. Sono episodi poi finiti sui libri (i saggi di Eugenio Zito e Paolo Valerio, ndr) e nei film». Disincantata, anche perché fino agli anni Settanta i transessuali erano braccati dalle forze dell’ordine: «Adesso gli omosessuali possono sposarsi ma le offese non sono finite. Ci sarà sempre qualcuno che ti chiama ricchione, femmenélla. Nessuno s’illuda, la discriminazione continua».

La Tarantina e la sua dolce vita, l'amara testimonianza di uno degli ultimi femminielli. Il nuovo libro di Gabriella Romano La Tarantina e la sua "dolce vita"(Ombre corte) è l'autobiografia "autorizzata" di Carmelo Cosma, classe '36: storia di una ricerca ostinata della felicità, scrive Pasquale Quaranta il 18 novembre 2013 su La Repubblica.

Napoli e i femminielli. La città partenopea è la cornice del vissuto di un femminiello negli anni Cinquanta-Sessanta raccolto dalla documentarista Gabriella Romano (La Tarantina e la sua “dolce vita”, racconto autobiografico di un femminiello napoletano, Ombre corte). "D'improvviso la guerra ci sembrò lontana, ci scrollammo di dosso la polvere, la fame, la fatica del dopoguerra" racconta la protagonista.

La Tarantina. A parlare è Carmelo Cosma, classe ’36, originario di Avetrana, provincia di Taranto. A 9 anni è ripudiato dai propri familiari: l’innocente interessamento per un adulto diventa lo scandalo di tutto il paese. Decide così di lasciare la Puglia per trasferirsi subito a Napoli e poi a Roma. "A quei tempi Roma era una calamita, tutti sognavano di vivere nella città del cinema, delle star, la capitale dell'eleganza e della modernità di cui leggevamo sui rotocalchi: e il miraggio era a portata di mano, proprio lì, a pochi chilometri di distanza" ricorda La Tarantina.

Transgender si nasce. Nella Capitale Carmelo inizia a vestirsi da donna, il genere che ha nel cuore. Non si riconosce come omosessuale né come trans, non sogna di operarsi ma assume ormoni: è ciò che definiremmo oggi con transgender ma in quegli anni la Tarantina a Napoli è un femminiello, nella Roma di Giò Stajano un “capovolto”: "La dolce vita romana incalazava, mi seduceva, mi spronava a buttarmi a capofitto in situazioni sempre più scandalose. Erano anni di grande euforia, sfrenatezza, c'era il gusto di esagerare, di infrangere i tabù del passato". 

La “dolce vita”. Persone così sfacciatamente uniche si contavano sulle dita di una mano. La Tarantina vende la sua “diversità” tra Villa Borghese, via Veneto e i Parioli. Ma la dolce vita romana (interessanti gli anneddoti che riguardano Goffredo Parise, Pier Paolo Pasolini, Novella Parigini) è più spesso amara, a causa dell’assenza di amore, delle aggressioni subite in strada, dell’ipocrisia che permea la società italiana. Come molti altri femminielli della sua generazione, la sua è stata anche un'esistenza faticosa, fatta di dolorosi rifiuti (in particolare la famiglia), di precarietà e di carcere, di sogni infranti.

Home is people. “L’età dell’oro” per la Tarantina è a Napoli, dove da bambino incontra la sua famiglia in spirito e dove da adulta sceglie di vivere dopo la parentesi romana. Ovunque sei, sembra dirci la sua storia, la tua casa diventa la gente che scegli di frequentare e le persone che ti scelgono per quella che sei.  Un’adolescenza come domestica in cambio di vitto e alloggio a Chiaia, dalla signora Rosa che affitta camere alle prostitute, e poi una vita da prostituta. Guadagnerà molto La Tarantina e tanto donerà. Perché “Napoli è questa, ‘a verità: niente abbiamo ma molto regaliamo”. Un ponte tra il nostro passato e il nostro presente che si consolida, una biografia che testimonia un’ostinata ricerca di libertà e infine di felicità.

Radici. La realtà dei femminielli è molto studiata: il libro di Gabriella Romano è arricchito dal prezioso saggio Femmin-ielli. C'era una volta a Napoli? del prof. Eugenio Zito che a partire da un'analisi linguistica del termine "femminiello" avanza delle proposte interpretative da un punto di vista antropologico e psico-sociale. Con il prof. Paolo Valerio, Zito è autore del libro Corpi sull'uscio, identità possibili. Il fenomeno dei femminielli a Napoli (Filema). Segnaliamo sul tema anche il film-documentario Cerasella: ovvero l'estinzione della femminella prodotto dall’Università degli Studi Federico II di Napoli, scritto e diretto da Massimo Andrei.

La Tarantina: “Non provate a darmi della trans, io sono un femminiello!”, scrive il 22 Febbraio 2018 quartierispagnoli.org. Fu cacciato di casa all’età di nove anni e la sua unica scuola fu il marciapiede. Per le strade della Roma bene guadagnava poco più di centocinquanta lire e girava spesso con Parise, Moravia, Laura Betti e Pasolini pur non sapendo chi diavolo fossero. È stata la musa della scandalosa pittrice esistenzialista Novella Parigini, ha conosciuto Fellini, ma anche il carcere, la discriminazione, la guerra del ’45 e la fame vera. Oggi Carmelo Cosma alias la Tarantina, l’ultimo ‘femminiello’ rimasto, ha 82 anni, vive di pensione minima e di ‘tombole scostumate’ che la porteranno dai Quartieri Spagnoli di Napoli, alla (sua) tanto amata Roma. Infatti, dal 27 al 31 marzo, sarà all’ Off Theatre in Via Giulia per raccontare la sua ‘assurda’ storia all’insegna dell’autenticità.

Facciamo un po’ di chiarezza: lei è una trans che non vuole essere appellata come tale...

«Senta: io non so neanche cosa significhi il termine trans e se anche lo scoprissi mi rifiuterei di chiamarmi così. Quando arrivai a Napoli, da ragazzino, ultra minorenne, le prime parole che sentii furono: ricchione, finocchio e femminiello. E quest’ultimo, nonostante l’epiteto nascosto dietro, mi diede tanto calore».

Faccio fatica, però, a capire cosa ci trova di così fastidioso nella parola trans...

«Questi nomignoli, come trans e gay, non fanno altro che generare distacco, discriminazione e nuove inutili etichette. La diversità, per come ho visto il mondo io sino ad oggi, non esiste. Siamo tutti uguali, la condizione sessuale è un qualcosa che non deve influenzare la vita di chi ci circonda».

Ripensa mai al suo passato?

«Le dirò: non così tanto. La vita è cambiata molto per tutti. Ai tempi, nonostante la fame e la miseria, ci si divertiva molto, mentre oggi noto una certa insoddisfazione generale che non mi piace affatto».

Si è prostituita per diverso tempo nelle vie della Roma bene. Perché scelse di vendere il suo corpo?

«Perché c’era la fame! Allora non avevo una lira e sarei stata disposta a fare tutto. Dormivo per strada, non avevo nulla da mangiare e non sa quante volte fui costretta a rovistare tra i cassonetti per non morire divorata dalla fame. La prostituzione, alla fine, fu la via della mia salvezza».

Ai tempi la concorrenza era tanta come oggi?

«No, assolutamente. A quei tempi, poi, la prostituzione era tutta al femminile. Quella maschile non esisteva proprio e, se esisteva, non se ne vedeva in giro. Io ero vissuto come un intruso».

Ricorda il suo tariffario di un tempo?

«Pagavano bene, ma parliamo di cifre che oggi fanno sorridere. Si poteva partiva dalle centocinquanta, fino alle cinquecento lire. Quel mestiere ai tempi, e nonostante tutto, era prestigioso e non di certo inflazionato come oggi».

Chi erano i suoi clienti?

«Era gente piuttosto borghese: con soldi e tanta cultura. La volgarità di oggi, ai tempi, non esisteva».

Quell’esperienza l’ha resa più forte o più debole?

«Più forte. Era una lotta continua con la vita, ma le dirò: sarei potuta diventare cattiva, viste le bastonate prese, invece sono rimasta quella di sempre».

Dopo il periodo fatto di sesso e soldi, come si è mantenuta?

«Vivendo di pensione minima e spettacolini di Teatro.

Ad esempio dal 27 al 31 marzo sarà al Teatro Off di Roma...

«Mi racconterò in tre atti: nella prima parte verrà mostrata una parte del mio documentario girato e diretto da Fortunato Calvino. Nella seconda ci sarò io, fisicamente, dove racconterò cose belle, brutte e aneddoti sulla mia vita, mentre nella terza, con il pubblico in sala, farò la ‘Tombola Scostumata’».

A nove anni venne cacciata da casa. Col tempo riuscì a recuperare il rapporto con la sua famiglia?

«Mai! Giusto qualcosa con una sorella, più grande, che oggi ha 102 anni. Quando mi chiama mi dice sempre: “Statte accuorte piccirillo”. Povera, crede ancora che abbia nove anni. Il resto della famiglia, vivi e morti, li ho persi per strada. Non troppo tempo fa, invece, sono morti i miei due fratelli. Hanno passato una vita intera a ripudiarmi».

Certi traumi non lasciano il segno?

«Un po’, ma avendoli vissuti per così poco tempo, non ho mai avuto modo di subire la loro mancanza se non quella di mia madre. Io vengo da Avetrana, in provincia di Taranto, il paese del delitto della povera Sarah Scazzi».

Roma l’accolse, ma Napoli la salvò. Che differenze c’erano, ai tempi, tra le due città?

«Roma, negli anni ’50 e ’60, era meravigliosa, mentre Napoli è da sempre la città che accoglie tutti. È rimasta uguale negli anni. Colorata, calda, viva, ma soprattutto umana. Nelle altre città ho visto e vissuto il distacco, cosa che a Napoli non è mai accaduta. A Roma vivevo in Piazza Rondanini, vicino a Piazza Navona, al Pantheon e ai palazzi del potere».

Zone centrali per una che non aveva una lira, no?

«Vero. Sono sempre stata ‘vanitosa’. Anche senza una lira, mi divertivo ad ostentare e ad inventare. Non volevo essere umiliata più di quanto la vita non avesse già fatto e per tanto mi inventavo la vita che volevo».

Lei oggi ha 82 anni. Se guarda al futuro cosa vede?

«A dire il vero non me ne sento affatto 82, ma molti di meno. Io ho visto così tante cose nella vita, a partire dalla guerra del ’45, che mi piacerebbe continuare ad impegnarmi, sempre più, nel sociale. Ho avuto poco, è vero, ma con quel poco che avevo sono riuscita ad inventarmi un sacco di volte e spero di farlo ancora».

Il fondo l’ha mai toccato?

«Un sacco di volte!»

Ha conosciuto anche il carcere…

«Uh quante volte. Ho perso persino il conto. Da Napoli a Milano. Ricorda il terremoto a Napoli, nel 1980?»

No, sono dell’86...

«Beh, ci fu un terremoto disastroso ed io, in quel momento, ero nel carcere di Poggio Reale. Quanta paura...»

Mi sfuggono, però, i motivi dei vari arresti…

«Roba di travestimenti e prostituzione. Arrivavano le multe, io non le pagavo e loro mi portavano dentro. Sempre la solita storia. Quanta gente ho conosciuto anche lì...»

Ha conosciuto anche Pasolini, Fellini, Laura Betti, Moravia e Parise.

«Sì e mi creda: non sapevo minimamente chi diavolo fossero tutte queste persone. Me ne sono resa conto solo quando diventai adulta. Pasolini mi portava a cena, ma stava sempre zitto. Sembrava molto interessato al mio vissuto. Fellini, invece, non credeva che ero un uomo viste le mie sembianze femminili, fino a quando non gli feci vedere il mio membro. Laura Betti era una pazza, bonariamente parlando, Moravia un gran cafone e Parise, suo amico storico, una persona meravigliosa. Moravia e Parise stavano spesso anche con Marina Ripa di Meana, ai tempi in Lante della Rovere. Una donna bellissima che venne persino a casa mia».

Perché ricorda Moravia come un cafone?

«Perché aveva un atteggiamento bruttissimo nei confronti di tutti. Io, quando lo vedevo, facevo in modo e maniera di evitarlo».

È stata anche musa della scandalosa pittrice esistenzialista Novella Parigini…

«Sì, ma anche di altri a dire il vero. Posavo spesso per un sacco di artisti all’Accademia di Belle Arti nei pressi di Villa Borghese a Roma. Tutti mi volevano e per guadagnare poco e niente, mi prestavo alla loro arte».

Lei, con la chirurgia, che rapporto ha avuto negli anni?

«Nessuno! Mi sono rifatta le labbra, tanti anni fa, quando ancora si poteva utilizzare il silicone ed oggi ne pago le conseguenze. Guardi che bocca che ho: tutta rovinata!»

Oggi è single. Ha avuto grandi amori?

«Sono sempre stata sola. Ho avuto tante avventure, quello sì, ma ho sempre preferito circondarmi di amici».

La trasgressione, oggi, per lei cos’è?

«Non lo so. So solo che quello che oggi è trasgressivo per il mondo, per me è “nu schifo!”»

Intervista di Alessio Poeta su Gay.it

Sfregio omofobo per Cosma "la tarantina" che racconta le discriminazioni subite ad Avetrana.

In questa intervista l'avetranese 82enne racconta come ha scoperto la sua omosessualità e le odiose discriminazioni che lo costringono ancora minorenne a fuggire da Avetrana per stabilirsi prima a Taranto e da lì a Roma e a Napoli, scrive domenica 03 marzo 2019 La Voce di Manduria. Inaugurato qualche giorno fa, il murale realizzato a Napoli che raffigura Carmelo Cosma, omosessuale di Avetrana conosciuto come «La Tarantina», ultimo femminiello di Napoli, è stato sfregiato e vandalizzato. Sul bel disegno realizzato con lo spray nei Quartieri Spagnoli di Napoli e raffigurante uno storico "femminiello" di Napoli, soprannominato "la tarantina" per le sue origini, è comparsa una frase scritta in nero: "Non è Napoli" e poi con la stessa vernice è stato coperto il volto. Sdegno unanime contro i vandali per un attacco che appare di origine politica. Il sindaco di Napoli Luigi De magistris ha fatto sapere che l'opera realizzata dall'artista Vittorio Valiante sarà restaurata. “Chi ha deturpato lo splendido murales, realizzato da Vittorio Valiante, dedicato alla “Tarantina”, ha compiuto un gesto ignobile e meschino. Un’infamia che fa emergere una parte, per fortuna minoritaria, di umanità che popola la nostra città, estremamente ottusa e retrograda. Un atto di ignoranza, inciviltà e omofobia, che offende solo le menti bacate di chi ha realizzato un simile scempio. Si provveda subito a restaurare l’opera per salvaguardare l’immagine di Napoli, città dell’accoglienza e della solidarietà”. Lo ha dichiarato il consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borrelli con quello municipale del Sole che Ride Salvatore Iodice. “Agli autori di questo gesto, che hanno anche scritto la frase ‘non è Napoli’ – hanno proseguito Borrelli e Iodice – vogliamo rispondere: Napoli non siete voi. Siete la vergogna di questa città”. All'episodio omofobo è stato dedicato spazio nella trasmissione de La 7, "Gazebo", dove il conduttore Diego Bianchi (Zoro), ha intervistato «La Tarantina». In questa intervista l'avetranese 82enne racconta come ha scoperto la sua omosessualità e le odiose discriminazioni che lo costringono ancora minorenne a fuggire da Avetrana per stabilirsi prima a Taranto e da lì a Roma e a Napoli dove vive tuttora.

·         Avetrana-Manduria. Mafia-politica.

MAI DIRE MAFIA. ARRESTATI IL SINDACO DI AVETRANA ED ERCHIE. Antonio Minò e Giuseppe Margheriti: estranei, superficiali, corrotti o mafiosi? Intanto sono stati già condannati dalle opposizioni consiliari, dai media e dall’opinione pubblica e bollati come mafiosi.

Processo Impresa: 176 anni di carcere con l’abbreviato​. I nomi, scrive mercoledì 13 febbraio 2019 Taranto Buonasera. Processo Impresa: 176 anni di carcere con il rito abbreviato inflitti dal gup del Tribunale di Lecce. La pena più alta. 16 anni (il pm ne aveva chiesti 20 inflitta al manduriano Antonio Campeggio, ritenuto elemento di spicco del gruppo specializzato nel traffico della droga e nelle estorsioni con interessi nelle pubbliche amministrazioni, che operava tra Manduria, Sava e San Giorgio Jonico. Condanna a 14 anni (il pm ne aveva chiesti 18) per il suo presunto braccio destro, Giovanni Buccoliero. Assolto invece Giuseppe Buccoliero, per il quale la pubblica accusa aveva chiesto 10 anni e 8 mesi: L’uomo è stato difeso dall’avvocato Antonio Liagi. Assolto anche Cosimo Merolla di Sava (difeso sempre dall’avvocato Liagi), su cui pesava una richiesta di 8 anni. Scagionati anche Cosimo Storino per il quale l’accusa aveva chiesto 10 anni e Damiano Locritani, assistiti dall’avvocato Fabio Falco. Assolto anche Simone De Valerio, difeso dagli avvocati Lorenzo Bullo e Cosimo Micera. Sette annie sette mesi per il manduriano Daniele Lorusso (il pm aveva chiesto 20 anni) difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo. Assoluzione per Cosimo Damiano Pichierri, difeso l’avvocato Luigi Danucci. Il pm aveva chiesto una condanna a 8 anni. Quattro anni per il manduriano Giampiero Mazza (il pm aveva chiesto 14 anni) difeso dall’avvocato Michele Iaia). Due anni all’ex presidente del Consiglio del Comune di Manduria, Nicola Dimonopoli (il pm aveva chiesto 4 anni) difeso dagli avvocati Franz Pesare e Armando Pasanisi. Assolto anche l’attuale sindaco di Avetrana, Antonio Minò (difeso dall’avvocato Nicola Marseglia), per il quale anche l’accusa aveva chiesto il proscioglimento. Sette anni e quattro mesi (il pm aveva chiesto 8 anni e 8 mesi) a Massimiliano Rossano, ex assessore allo Spettacolo.

«Mafia-politica», ecco tutte le condanne. Il massimo della pena, 16 anni (il pm ne aveva chiesti 20 compresa la riduzione di un terzo dell’abbreviato), è andata al manduriano Antonio Campeggio, scrive Nazareno Dinoi mercoledì 13 febbraio 2019 su La Voce di Manduria. Forti riduzioni di pena rispetto alle richieste dell’accusa con qualche assoluzione inaspettata e per molti imputati il proscioglimento dal reato associativo mafioso. Si può riassumere così la decisione del giudice delle udienze preliminari del tribunale di Lecce, Giovanni Gallo, che ieri, al termine di quasi quattro ore di camera di consiglio, ha letto il lungo dispositivo relativo ai 57 imputati che hanno scelto il rito abbreviato del processo «Impresa» nato dall’omonima indagine della polizia di Taranto diretta dalla distrettuale antimafia di Lecce. L’inchiesta, che ha visto alla sbarra esponenti della malavita organizzata ritenuti essere affiliati alla frangia manduriana della sacra corona unita, imprenditori e politici del versante orientale jonico, è quella che ha aperto le porte del Comune di Manduria alla commissione d’accesso antimafia che ha portato lo scioglimento per infiltrazione mafiosa dell’ente Messapico. Il massimo della pena, 16 anni (il pm ne aveva chiesti 20 compresa la riduzione di un terzo dell’abbreviato), è andata al manduriano Antonio Campeggio, detto «scippatore», pluripregiudicato già condannato per reati di mafia, ritenuto a capo di un sodalizio criminale di stampo mafioso, specializzato nel traffico della droga e le estorsioni con interessi nelle pubbliche amministrazioni, operante nei comuni di Manduria, Sava e San Giorgio Jonico. Pena ridotta anche per il suo presunto braccio destro, Giovanni Buccoliero che dai 18 anni chiesti dall’accusa è sceso a 14. Inaspettata invece l’assoluzione di Giuseppe Buccoliero, ritenuto facente parte della triade con Campeggio e Boccoliero Giovanni e per questo con una proposta di condanna del pm a 10 anni e 8 mesi: assistito dall’avvocato Antonio Liagi, lascerà il carcere dopo una detenzione continuativa di 22 anni. Assoluzione anche per Cosimo Merolla di Sava (difeso sempre da Liagi), su cui pesava una richiesta di 8 anni e Cosimo Storino per il quale l’accusa chiedeva 10 anni per l’associazione mafiosa caduta anche per Damiano Locritani (questi ultimi tre imputati tutti assistiti dall’avvocato Fabio Falco).

Assolto da ogni accusa anche Simone De Valerio (difeso dagli avvocati Lorenzo Bullo e Cosimo Micera) che era stato indicato come partecipe all’associazione mafiosa e vicina al clan Mazza. Pena più che dimezzata per il manduriano Daniele Lorusso (7 anni e 7 mesi, il pm ne chiedeva 20) ritenuto estraneo all’associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti dove era stato individuato anche come capo promotore; difeso dall’avvocato Bullo, Lorusso è stato assolto anche per aver detenuto armi da fuoco. Accordata l’assoluzione per Cosimo Damiano Pichierri (lo ha difeso l’avvocato Luigi Danucci) che rispondeva di affiliazione mafiosa e su cui pesava una richiesta di condanna di 8 anni. Forte sconto anche per il manduriano Giampiero Mazza (difeso dall’avvocato Michele Iaia), che dai 14 anni della richiesta è sceso a 4 avendo perso anche lui il reato associativo. L’attenzione maggiore del procedimento è stata attratta inevitabilmente dagli ex amministratori politici il cui coinvolgimento nell’inchiesta ha portato alla loro città l’onta dello scioglimento per mafia. Se l’è cavata comunque l’ex presidente del Consiglio del comune di Manduria, Nicola Dimonopoli accusato di voto di scambio politico mafioso. Difeso dall’avvocato Franz Pesare e Armando Pasanisi, l’ex amministratore si è vista dimezzare la pena chiesta dall’accusa che era di quattro anni scongiurando così la malaugurata ipotesi di scontare una pena detentiva. Assolto anche l’attuale sindaco di Avetrana, Antonio Minò (difeso dall’avvocato Nicola Marseglia), per il quale anche l’accusa aveva chiesto il proscioglimento. Più problematica la posizione dell’altro politico manduriano tuttora in carcere, Massimiliano Rossano, ex assessore allo spettacolo, condannato a 7 anni e 4 mesi di reclusione rispetto agli 8 anni e 8 mesi della richiesta del pm. E’ stata mantenuta per lui l’aggravante dell’associazione mafiosa che il gup ha eliminato per quasi tutti gli imputati ad eccezione per quelli della «frangia manduriana»: Davide Biasi, Oronzo Soloperto, Antonio Campeggio, Luciano Carpentieri, Ciro Milizia e Leonardo Trombacca. Nel folto collegio difensivo anche gli avvocati Giuseppe Mazza, Luigi Vitale, Antonio Pezzuto, Armando Pasanisi, Massimiliano Mero, Danilo Dinoi, Donata Perrone.

TUTTE LE CONDANNE. E’ di 176 anni e mezzo la somma degli anni di condanna inflitti ieri dal gup del Tribunale di Lecce ai 57 imputati dell’inchiesta «Impresa» che hanno scelto l’abbreviato. (Il pm ne chiedeva 330). Così distribuiti (tra parentesi la richiesta dell’accusa): Davide Biasi 7 anni (12); Cosimo Bisci 7,4 anni (8); Antonio Bonetti 2 anni (4,8); Giuseppe Borgia 4 anni (5 mesi); Giovanni Buccoliero 14 anni (18); Antonio Campeggio 16 anni (20); Luciano Carpentiere 7,4 (10 anni); Camillo Ciccarè 2,8 anni (2,8); Maurizio Ciccarone 3 anni (4,8); Daniele D’Amore 4 anni (4,8); Francesco D’Amore 5 anni (16); Carlo Gabriele Daggiano 2 anni (8); Agostino De Pasquale 4 anni (10); Giovanni Riccardo De Santis 2,4 anni (6); Leonardo De Santis 2 (6); Nicola Dimonopoli 2 anni (4); Daniele Donatelli 2 anni (1,8); Teodosio Leo 2 (assoluzione); Damiano Locritani 4,2 anni (5,4); Daniele Lorusso 7,4 anni (20); Giuseppe Mancuso 2,6 anni (2,8); Cosimo Mazza 4 anni (6); Gianluca Mazza 2 anni (4,4); Giampiero Mazza 4 anni (14); Vito Mazza 4 anni (14); Ciro Milizia 7,4 anni (8); Marco Monaco 1,4 anno (1,8); Fabrizio Monte 3,6 anni (10); Cosimo Morleo 1,6 anni (4); Francesco Palmisano 4,2 anni (9,6); Cataldo Panariti 2,8 anni (8,8); Pasquale Pedone 5 anni (6,4); Massimiliano Rossano 7,4 anni (8,8); Antonio Scorrano 2 anni (8); Oronzo Soloperto 7,4 anni (12); Leonardo Trombacca 7,4 anni (10); Antonio Fanuli 2 anni (4).

Il sindaco Minò in lacrime: «Nessun patto con la mala», scrive Nazareno Dinoi Venerdì 7 Luglio 2017 sul Quotidiano di Puglia. Tra le lacrime di alcuni e silenzi di altri. Si è conclusa ieri la prima delicata fase degli interrogatori di garanzia delle persone raggiunte martedì mattina dai provvedimenti di custodia cautelare, in carcere e ai domiciliari, emessi dal gip di Lecce su richiesta della Direzione distrettuale antimafia che indaga su presunte contaminazioni della sacra corona unita nel tessuto imprenditoriale e politico dei comuni di Manduria, Avetrana e Erchie. Il più drammatico confronto con il gip Pompeo Carriere, delegato con rogatoria dalla giudice Cinzia Vergine che ha disposto le misure, è stato sicuramente quello con il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, finito in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il primo cittadino, coinvolto nell’inchiesta non nel suo ruolo istituzionale ma come presidente di un’associazione di volontariato, «Avetrana Soccorso», convenzionata con la Asl di Taranto per la gestione della postazione 118 di Manduria, ha dichiarato tra le lacrime la propria innocenza dicendosi quindi estraneo a qualsiasi collusione con gli ambienti della malavita. In merito alla sua presunta pressione esercitata nei confronti del presidente di un’altra associazione di San Giorgio per l’assunzione di un esponente del clan di Antonio Campeggio, ritenuto a capo dell’organizzazione mafiosa, Minò avrebbe giustificato tale circostanza come un atto di solidarietà su cui si fonderebbe l’associazione di cui è presidente. Nel corso dell’interrogatorio non sarebbero mancati momenti di profondo sconforto da parte del politico che in più occasioni è stato costretto a fermarsi perché impossibilitato ad andare avanti. Parlando poi con uno dei suoi avvocati, Mario De Marco, che è anche componente della giunta, il sindaco si è raccomandato per il buon andamento dell’amministrazione invitando il vicesindaco Alessandro Scarciglia, che lo sostituisce, a fare di tutto per non far sentire la sua mancanza e per difendere l’ente nel migliore dei modi. Anche l’ex presidente del Consiglio comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, che deve rispondere di scambio elettorale politico – mafioso, ha preferito rispondere alle domande del gip per respingere ogni accusa. L’ex consigliere, medico alle dipendenze della Asl di Taranto, avrebbe negato qualsiasi accordo con elementi della malavita ai quali non avrebbe chiesto appoggi dicendosi certo di conoscere quasi tutti i suoi elettori. A parte qualche indagato minore che ha voluto fare delle dichiarazioni spontanee, tutti gli altri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande del gip. Una mossa, questa, spiegata probabilmente dalla necessità, per gli avvocati, di prendere visione degli atti in mano alla procura antimafia prima di imbastire una linea di difesa. Tutto il folto collegio difensivo composto dai penalisti Nicola Marseglia, Mario De Marco, Franz Pesare, Armando Pasanisi, Lorenzo Bullo, Mimmo Micera, Gaetano Vitale, Luigina Brunetti, Antonio Liagi ed altri, sono già al lavoro per il ricorso al Tribunale del riesame al quale chiedere intanto la revoca delle misure imposte ai propri assistiti. Desterebbero preoccupazioni infine le condizioni di salute dell’ex assessore manduriano, Massimiliano Rossano, anche lui in carcere con l’accusa di associazione mafiosa, sottoposto più volte a visita medica. Rossano che è operatore socio sanitario in servizio al pronto soccorso dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria, è sospettato di essere stato parte attiva dell’organizzazione mafiosa capeggiata da Antonio Campeggio, detto “Tonino scippatore”. 

Mafia-politica, il sindaco di Avetrana riprende la fascia e l'opposizione scrive al ministro. Luigi Conte e Rosaria Petracca firmatari di una lettera indirizzata al ministro dell’Interno, al Prefetto di Taranto e alla Direzione distrettuale antimafia in cui, tra le altre cose, si chiede di valutare l’ipotesi di considerare, scrive sabato 02 settembre 2017 Monica Rossi su La Voce di Manduria. "Dopo un doveroso silenzio che tende a rispettare la vicenda umana, pur ritenendo che la giustizia debba fare il proprio corso e che il sindaco Antonio Minò potrà dimostrare nelle sedi opportune la propria estraneità ai fatti, noi politicamente non possiamo permettere che nel nostro comune, per la prima volta, si parli di criminalità organizzata». A dirlo sono i due consiglieri di minoranza al Comune di Avetrana. Luigi Conte e Rosaria Petracca firmatari di una lettera indirizzata al ministro dell’Interno, al Prefetto di Taranto e alla Direzione distrettuale antimafia in cui, tra le altre cose, si chiede di valutare l’ipotesi di considerare il reato di voto di scambio a carico del sindaco. Ecco il testo integrale della lettere redatta il 29 agosto scorso. " Oggi 29 agosto 2017, il Presidente del Consiglio Comunale di Avetrana ha provveduto a comunicare ai consiglieri che è stato affisso all'albo pretorio del Comune l'ordine di scarcerazione del Sindaco Antonio Minò, reintegrando lo stesso alla carica di Sindaco da cui era stato sospeso con provvedimento del Prefetto di Taranto, Sua Eccellenza Cafagna Donato.

Considerato che Il Sindaco Minò è stato interessato dal procedimento n. 4129/12 RGNR mod. 21, n. 36/12 REG. D.D.A, n.2922/2013 REG GIP, n. Sl/2017 OCC, emesso dal Giudice delle Indagini preliminari del Tribunale di Lecce, su richiesta del PM, con ordine di carcerazione con l'accusa in merito ai delitti di cui agli artt. 110/416 bis cp. Il capo di accusa è "... presidente dell'associazione Avetrana Soccorso del 118 provincia Jonica, agendo quale concorrente di una frangia dell'articolazione mafiosa denominata Sacra Corona Unita, operante sull'asse Manduria - San Giorgio Ionico con strutture unitarie e precisamente dell'articolazione rappresentata dal clan mafioso D'Amore - Campeggio, forniva consapevolmente e volontariamente un contributo importante al rafforzamento del giro di affari del controllo sul territorio e del prestigio e della fama criminale della predetta associazione, mettendosi a completa disposizione di Campeggio Antonio e D'Amore Francesco".

Si chiede, se la procedura seguita dal Consiglio Comunale espleti completamente quanto prescritto e dia nuovamente pieni poteri sospesi dal precedente provvedimento emesso da S.E il signor Prefetto.

Considerato che i fatti contestati risalgono ai tempi in cui il Sindaco ricopriva il ruolo di assessore ai servizi sociali, si chiede di valutare gli atti compiuti dall'amministrazione in cui il Minò era assessore visto che, nel contempo, era avvezzo a rapporti con persone di dubbia moralità, come dalle intercettazioni telefoniche e da quanto il PM ha ampiamente descritto.

Considerato che Il capo di imputazione appare particolarmente grave, si chiede se è del tutto normale che in attesa di giudizio, lo stesso imputato possa svolgere il ruolo di Sindaco.

Considerato che In un passaggio del provvedimento del GIP che si riporta integralmente, con intercettazione telefonica, è evidente un condizionamento del risultato elettorale: "... si tratta di argomentazioni, tutte, attualizzate dal PM nella integrazione prodotta, che attestano al 2016 i contatti e gli interessi, ancora condivisi con Rossano Massimiliano, assessore al soldo della cosca ed attestano la sua attuale carica di sindaco del Comune di Avetrana. Alla campagna elettorale partecipa, a suo sostegno, Rossano: ... palesa la Minò di essere impegnato a fare per lui campagna elettorale affinchè ottenga un vasto consenso: «stiamo facendo campagna elettorale per te qua, qua siamo con una cinquantina di persone, aspetta che ti pa... ti passo un amico» l'uomo che si trova con il Rossano interviene nella telefonata dicendo al Minò: «e vieni qua, qua da mio qua fratello qua, in Via Mazzini, se no ti perdi una decina di voti qua» . Si chiede di valutare se tali accadimenti possano configurare il reato di voto di scambio".

Intanto loro amici...

·         Taranto, nel carcere più affollato.

Taranto, nel carcere più affollato sono tante le istanze rigettate. Il penitenziario pugliese ospita 632 detenuti a fronte di una capienza di 306 posti. Una delegazione del Partito Radicale lo ha visitato. Rita Bernardini: «ottimo il rapporto con la direzione, mentre è difficile quello con la magistratura di sorveglianza», scrive Damiano Aliprandi il 13 Marzo 2019 su Il Dubbio. Lunedì scorso una delegazione del Partito Radicale composta dalla coordinatrice della presidenza Rita Bernardini, la militante Anna Briganti, l’avvocato di strada Loris Soriano e Alberico Nobile dell’Associazione Deep Green, ha fatto visita all’istituto penitenziario di Taranto. Il carcere più sovraffollato d’Italia con 632 detenuti a fronte di una capienza di 306 posti regolamentari. «Nonostante il sovraffollamento, la vita all’interno del carcere è migliorata grazie al buon rapporto che i detenuti hanno con la direzione del carcere», spiega Rita Bernardini ai microfoni di Radio Radicale. «Ma i rapporti con la magistratura di sorveglianza – sottolinea l’esponente radicale – sono pessimi, perché il giudice, chiamato ad occuparsi di una pena che sia costituzionale, in realtà, agisce senza nemmeno conoscere i singoli detenuti». Secondo le testimonianze dei detenuti raccolte dalla delegazione radicale, la magistratura di sorveglianza rigetterebbe o addirittura non risponderebbe alle istanze. «A differenza del passato – ricorda sempre Rita Bernardini – quando da parlamentare visitai proprio questo carcere e conobbi, assieme a Marco Pannella, il magistrato di sorveglianza Massimo Brandimarte». Quest’ultimo, infatti, si differenziò per la sua attenzione alle problematiche della detenzione, tanto che poi si iscrisse anche al Partito Radicale sostenendo le battaglie per la separazione delle carriere e gli scioperi della fame di Rita Bernardini per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. È stato un presidente del tribunale di sorveglianza che i detenuti hanno stimato. «Oggi invece – continua l’esponente radicale -, in questo carcere il permesso premio viene concesso raramente e così anche le misure alternative». Denuncia poi la carenza degli educatori, «solo due su una pianta organica che ne prevedono otto» sottolinea Rita Bernardini. Molto apprezzata è la direttrice del carcere che con le poche risorse disponibili cerca di ottimizzarle per i trattamenti penitenziari. La militante pugliese del partito radicale Anna Briganti racconta a Radio Radicale che si porta a casa una forza ed energia positiva trasmessa dalle donne detenute che le hanno riempite di braccialetti e borse. «Lo hanno fatto per farsi pubblicità – spiega Briganti -, perché fanno parte di un progetto di sartoria che le impegnano con il ricamo, cucito, maglieria». Un progetto che le tiene impegnate, ma anche per il fatto che venga percepito come «una speranza per il dopo», aggiunge sempre la militante radicale. Ai microfoni di Radio Radicale è intervenuto anche l’avvocato di strada Loris Soriano che è la prima volta che entra in un carcere: «Mi corre il pensiero a tutte quelle persone che, annunciando che sarei entrato in carcere, mi hanno detto che il carcere è come un albergo, non ci va più nessuno e via discorrendo». Frasi fatte che, osserva l’avvocato «purtroppo ora si sentono anche ai livelli altissimi della politica». Soriano dice ha potuto constatare che invece in «carcere si soffre, e si soffre anche molto», per questo invita queste persone a fare una visita almeno una volta «così si rendono conto che la restrizione della libertà di per sé è già una condizione già molto afflittiva, con l’aggiunta però delle condizioni disumane e degradanti». A conclusione dell’intervista di Radio Radicale, Rita Bernardini ricorda che ancora non è stata fissata la data di appuntamento con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per fare chiarezza sul sovraffollamento visto che recentemente «il capo del Dap – spiega l’esponente radicale – ha dichiarato che gli istituti penitenziari avrebbero la capacità di accogliere molti più detenuti dei 60 mila che ci sono».

Interrogazione M5s sul carcere di Taranto. L’interrogazione presentata da due deputate del Movimento 5stelle, Alessandra Ermellino e Valentina Palmisano dopo aver visitato il carcere di Taranto, scrive Damiano Aliprandi il 26 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Grave sovraffollamento, spazi minimi non garantiti ai detenuti, pochi agenti di polizia penitenziaria. Parliamo di una interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia presentata da due deputate del Movimento 5stelle, Alessandra Ermellino e Valentina Palmisano sul carcere di Taranto, visitato dai deputati grillini dopo il suicidio del 78enne Michele Spagnuolo. Era accusato dell’omicidio della moglie e dopo nove giorni di detenzione nel carcere Borgo San Nicola di Lecce, aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Lo scorso novembre, però, si era allontanato dall’abitazione del fratello a Taranto, dove stava scontando la pena, ed era tornato in carcere. Il 17 febbraio ha deciso di togliersi la vita impiccandosi. «Nei giorni scorsi – scrivono le deputate del M5S – il suicidio in cella di un detenuto nel carcere di Taranto ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica le gravi problematiche che riguardano il sistema carcerario italiano, legate principalmente al cronico sovraffollamento e alla inadeguatezza di risorse umane ed economico- finanziarie». Denunciano che la problematica riscontrata riguarda principalmente il sovraffollamento delle celle, con 600 detenuti a fronte di una capienza di 305 posti e con uno spazio minimo per detenuto al di sotto dei 3 metri quadrati per cella collettiva. «Soglia stabilita dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo – sottolineano – che negli ultimi anni ha condannato più volte l’Italia per il ‘ trattamento inumano e degradante’ nelle sue carceri, e alla cui sorveglianza sono adibiti solo due agenti per tre sezioni detentive, ognuna lunga più di 50 metri, con ogni singolo agente impegnato in più servizi contemporaneamente per far fronte alle varie esigenze ed emergenze, tra cui quelle legate alla mancanza di uno spazio all’aperto a disposizione dei detenuti per momenti di socializzazione» . Le deputate aggiungono che ad oggi non hanno nessun riscontro rispetto alle dichiarazioni rilasciate il 5 novembre 2018, in occasione di una manifestazione regionale di protesta del Sappe davanti al carcere di Bari, dal capo del Dap Basentini, «circa una serie di interventi per la regione Puglia, finalizzati a un miglioramento delle condizioni degli istituti penitenziari presenti sul territorio». In considerazione di questi elementi, le deputate grilline hanno presentato una interrogazione al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per richiedere «un intervento urgente finalizzato al reperimento di risorse umane ed economico- finanziarie dirette a garantire condizioni di vita dignitose ai detenuti della struttura penitenziaria del capoluogo ionico e a far sì che gli agenti penitenziaria possano svolgere il lavoro in maniera adeguata, senza sottoporsi a turni massacranti per fronteggiare le varie urgenze che possono verificarsi in un ambiente in cui spesso può crearsi un clima di grande tensione, con ricadute negative sulla sicurezza dell’intero comparto».

Bernardini: «Travaglio, vieni con me nel carcere di Taranto». Sul sovraffollamento l’esponente del Partito Radicale, Rita Bernardini, chiarisce: «Il parametro dei 9 metri quadrati non viene rispettato e soprattutto il più delle volte si è al limite dei tre metri a persona, la soglia minima del diritto», scrive Damiano Aliprandi l'1 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Invito ufficialmente Marco Travaglio a venire alla prossima visita del 9 marzo che faremo al carcere di Taranto, l’istituto penitenziario più sovraffollato d’Italia». Così Rita Bernardini del Partito Radicale si rivolge al direttore de Il Fatto dopo il suo editoriale, scaturito da una analisi di due ricercatori pubblicata tre anni fa su Persona e Danno e riportata ieri sul giornale. Si denuncia l’inesistenza del sovraffollamento, visto che la capacità ricettiva – a differenza della capienza minima di 3 metri quadri di spazio vitale della Cedu – si baserebbe secondo il nostro parametro che prevede 9 metri quadri per ogni cella singola, cui ne vanno aggiunti 5 per ciascun detenuto in quelle multiple. Va precisato che dal calcolo dello spazio vitale vanno esclusi il letto e gli arredi fissi. «Ma non è vero – spiega Rita Bernardini -, non si può dire che abbiamo questo parametro quando non lo si rispetta e soprattutto il più delle volte si è al limite dei tre metri quadri a persona, la soglia minima del diritto». L’esponente del Partito Radicale fa l’esempio dell’ultima visita che hanno fatto al carcere di Terni. «In tutta l’alta sicurezza non esiste il parametro nove metri più 4 (per ogni nuovo detenuto in cella ndr.), perché le celle sono di nove metri quadrati e ci stanno due detenuti. Quindi, senza considerare gli arredi che occupano lo spazio vitale, arriviamo alla soglia minima, considerata di “decenza” anche dal capo del Dap Basentini». Rita Bernardini ricorda anche di aver scritto al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per chiedergli un incontro chiarificatore sull’effettiva urgenza del sovraffollamento penitenziario e l’aggiornamento delle schede riguardanti di ogni singolo istituto penitenziario in nome della trasparenza. Ad oggi ancora nessuna risposta. Travaglio, in effetti, fa un po’ di confusione quando scrive che «L’Italia viene condannata a pesantissimi risarcimenti in base ai propri parametri». No, il detenuto viene risarcito in base ai parametri della Cedu, non i nostri. Quindi, una volta appurato questo dato, sicuramente anche il direttore concorderà che il sovraffollamento è un problema enorme visto che lo spazio disponibile di tre metri quadrati per ogni persona – e non i nove metri quadrati sulla carta – è la soglia minima al di sotto della quale scatta la violazione del diritto umano. Per capire meglio, bisogna fare un esempio concreto. Prendiamo la sentenza della Cassazione n. 52819/ 16 (52819) che dà piena applicazione alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo a partire dal caso Torregiani e lo fa chiarendo il corretto calcolo dello spazio da destinare ai detenuti per non incorrere in una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Tutto è scaturito da una ordinanza del 2 ottobre 2014 del Tribunale di sorveglianza di Perugia che aveva respinto il reclamo (azione inibitoria e risarcitoria) di un detenuto che contestava le condizioni carcerarie provocate dal sovraffollamento. Per il Tribunale, nel calcolo dello spazio destinato al singolo occupante andava incluso il letto che non limita lo spazio vitale, mentre andavano esclusi dal computo della superficie unicamente altre strutture fisse come manufatti e mensole e lo spazio dedicato al bagno. Il criterio di misurazione deciso dal Tribunale aveva portato a escludere un trattamento disumano e degradante perché lo spazio minimo era tra i 3 e i 4 metri quadrati. In modo singolare, tra l’altro, il Tribunale effettuava una compensazione tra acqua calda (assente) e la doccia esterna con acqua calda. Una posizione bocciata dalla Cassazione che ha escluso ogni possibilità di compensazione e ha chiarito che nello spazio minimo vanno considerate tutte le strutture fisse incluso il letto che, quindi, sottrae lo spazio a disposizione del detenuto. Per le modalità di calcolo dello spazio minimo vitale concesso a un individuo posto in una cella collettiva, la Cassazione ha richiamato la prassi di Strasburgo. La posizione della Corte europea è chiara: al di sotto dei 3 metri quadrati si verifica in modo automatico una violazione dell’articolo 3 della Convenzione, senza possibilità di «compensazioni derivanti dalla bontà della residua offerta di servizi o di spazi esterni alla cella». Tra l’altro, osserva la Suprema Corte, il letto deve essere considerato come «un ingombro idoneo a restringere» lo spazio vitale minimo all’interno della cella. Ed invero, – scrive la Cassazione – considerare «superficie utile quella occupata dal letto per finalità di riposo o di attività sedentaria che non soddisfano la primaria esigenza di movimento» non è conforme ai criteri delineati dalla Corte europea, con la conseguenza che non può rientrare nella nozione di spazio minimo individuale. Così, andavano detratti dalla superficie complessiva non solo il bagno e gli arredi ma anche lo spazio occupato dal letto. Pertanto, tenendo conto dell’interpretazione della Corte europea in base alla quale il giudice interno «ha l’obbligo di ritenere un dato integrativo del precetto», sussiste una «forte presunzione di trattamento inumano e degradante, superabile solo attraverso l’esame congiunto e analitico delle complessive condizioni detentive e della durata di tale restrizione dello spazio minimo». Di qui l’annullamento con rinvio per un nuovo calcolo dello spazio minimo. Di sentenze del genere, ce ne sono tante. Quindi è vero come dice Travaglio che siamo oggetti di pesanti condanne, ma in base alla violazione dei parametri minimi (la soglia di decenza) della corte europea e non i nostri come lui erroneamente pensa. Il problema è che – come ha detto recentemente il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma – basterebbe far applicare il parametro della Commissione Europea per la prevenzione della tortura: 6 metri quadrati, più 4 per ogni nuovo detenuto in una cella. Purtroppo non viene rispettato nemmeno quello e ci si affida proprio alla soglia minima che il più delle volte si conteggia assieme agli arredi che occupano lo spazio. Secondo la ricerca pubblicata sul Fatto, emerge che comunque i posti regolamentari si basano proprio sui nove metri quadrati e per questo risulterebbe eccessivo il sovraffollamento. Il problema è che il dato ufficiale non corrisponde affatto alla realtà, perché non si prendono in considerazione le circa 4000 celle inagibili. Quindi il numero delle celle (comprese quelle inagibili) viene usato per suddividere in astratto i detenuti, ma nella realtà le cose sono ben diverse. Così come non è vero che in carcere ci sarebbero non solo pochi reclusi, ma addirittura che vi rimarrebbero per poco tempo. Basterebbero ascoltare le parole di Mauro Palma, una voce istituzionale ed equilibrata, proprio durante l’ultimo congresso del Partito Radicale. «Se analizziamo l’aumento dei numeri, non sono aumentati gli ingressi in carcere, ma sono drasticamente diminuite le uscite: cioè si entra in un mondo da cui non si esce». Il Garante fa anche una seconda osservazione oggettiva: «Attualmente ci sono circa 1800 persone in carcere che stanno scontando una pena inferiore ad un anno». Quindi altro che pochi giorni in carcere, altro che, come scrive Travaglio «i ladri stanno comodamente ai servizi sociali o ai domiciliari (ma davvero è così comodo stare 24 ore su 24 dentro casa? ndr)». Ci sono detenuti che potrebbero scontare misure alternative, ma rimangono dentro. 

·         I Giornalisti e gli avvocati di Taranto.

Studio100. Nel fallimento dell'editrice Jet srl, coinvolta anche la Mastermedia srl. Il Corriere del Giorno il 29 ottobre 2019. Sulla vicenda era stata aperto un fascicolo d’indagine da parte della Procura di Taranto, che però si era perso in qualche cassetto di una ben nota scrivania, dove spesso e volentieri si insabbiano alcuni procedimenti. Come il nostro giornale ha previsto in tempi non sospetti, l’avventura televisiva dei fratelli Cardamone, editori dell’emittente pugliese Studio100, più volte afflitta da fallimenti sempre della stessa proprietà, che incredibilmente ha sempre continuato la sua attività approfittando di giudici “amici” e magistrati troppo innamorati delle telecamere da cui farsi intervistare dimenticando di fare il proprio dovere, sembra essere arrivata al capolinea. Infatti, il Tribunale Fallimentare di Taranto ha esteso e coinvolto nel fallimento della Jet srl anche la Mastermedia Club, i cui soci nelle due rispettive società erano sempre e soltanto i fratelli Gaspare e Giancarlo Cardamone, i quali avevano rilevato “fittiziamente” il ramo d’azienda della fallita Jet srl, un’anno prima della dichiarazione di fallimento e quindi sottoposta a revocatoria, secondo le norme di legge in materia fallimentare. Già lo scorso 14 febbraio 2019  il Tribunale civile di Taranto aveva bloccato beni mobili e immobili nella disponibilità della “Mastermedia Club srl” società che dal novembre 2017 gestisce l’emittente jonica.  Il curatore fallimentare dr, Cosimo Valentini commercialista nominato dal tribunale, rappresentato in giudizio dall’avvocato Adeo Ostilio, aveva chiesto ed ottenuto il sequestro di  900mila euro della nuova società editrice dell’emittente televisiva Studio100. Il giudice dr. Casarano con la sua sentenza, aveva confermato che attraverso “la cessione del ramo d’azienda lo scopo perseguito dalle parti era anche quello di ottenere i contributi: la good company avrebbe potuto conseguire i benefici più facilmente di quanto avrebbe fatto, per così dire, la bad company” che ha accumulato debiti con il Fisco per oltre 5 milioni di euro ed ha anche accertato che il prezzo di cessione era stato simulato evidenziando che l’amministratore unico delle due società era sempre lo stesso cioè Gaspare Cardamone, e sempre in società con suo fratello Giancarlo. Il giudice nella sua sentenza sostenne che “Le due società coinvolte nella cessione facevano capo alla stessa persona fisica, la quale assumeva il ruolo di amministratore unico anche della cessionaria, oltre che della cedente: eloquente nel senso della evidente ricorrenza dell’unicità del centro di interessi da considerarsi artefice della operazione, il rilievo che le due raccomandate nelle quali si sarebbe consacrato l’accordo simulatorio sul prezzo fossero a firma della stessa persona“. Nel frattempo come rivelato “esclusivamente” da questo giornale, si era attivato anche Nucleo Speciale Radiodiffusione Editoria del Comando Generale della Guardia di Finanza, che affianca presso l’ AGCOM, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazione che affianca il Mise (Ministero dello Sviluppo economico). I finanzieri avevano soffermato le proprie attenzioni e controlli sull’assegnazione e controllo della regolarità dei contributi pubblici di Stato per l’emittenza televisiva privata, ed avevano scoperto che la Mastermedia Club srl, pur avendo solo rilevato fittiziamente un ramo d’azienda, aveva persino richiesto nel 2018 i contributi per Studio 100 per l’anno 2016 cioè quando non era neanche stato stipulato il contratto fittizio di cessione del ramo d’azienda. Sulla vicenda era stata aperto un fascicolo d’indagine da parte della Procura di Taranto, che però si era perso in qualche cassetto di una ben nota scrivania, dove spesso e volentieri si insabbiano alcuni procedimenti, per i quali presto potrebbe arrivare un’ispezione del Ministero di Giustizia e l’apertura di un procedimento dinnanzi alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura dell’organo di autocontrollo della giustizia italiana, che dopo lo “scandalo Lotti-Ferri-Palamara”, sembra essere diventato molto rigoroso. Secondo fonti del Tribunale di Taranto nel provvedimento vengono coinvolte anche le operazioni pubblicitarie e sponsorizzazioni  con la società sportiva del Taranto Calcio, che a questo punto sarebbe anch’essa “vittima” delle spregiudicate operazioni pubblicitarie effettuate dai Cardamone. Nel pomeriggio di ieri abbiamo provato a contattare telefonicamente il curatore dr. Valentini, ma non ci è stato possibile parlargli perchè “in riunione” e pur avendo fatto cortese richiesta di essere richiamati, il nostro telefono non ha ricevuto alcuna risposta o richiamata. Vorrà dire che domani chiederemo ufficialmente al Presidente del Tribunale di Taranto facente funzione, la dr.ssa De Simone, di rispettare il nostro diritto di cronaca e di consentirci di avere accesso alla decisione del Tribunale che di fatto è pubblica e non “privata”.

Cessione di Studio100. Il Tribunale di Taranto sequestra 900.000 euro ai fratelli Cardamone, scrive il 14 Febbraio 2019 Il Corriere del Giorno. Il giudice Claudio Casarano del Tribunale di Taranto ha bloccato beni mobili e immobili nella disponibilità della società “Mastermedia Club srl” dei fratelli Cardamone. Il sequestro disposto per 900mila euro compromettere la gestione anche della nuova società editrice dell’emittente televisiva Studio100.  Come previsto in tempi non sospetti ed anticipato dal nostro giornale, è arrivato il provvedimento del giudice Claudio Casarano del Tribunale civile di Taranto che ha bloccato beni mobili e immobili nella disponibilità della “Mastermedia Club srl” società che dal novembre 2017 gestisce l’emittente jonica. La sentenza di fatto riduce notevolmente i danni per Studio100 Tv, infatti a seguito del fallimento della Jet srl, la società che aveva gestito l’emittente tarantina Studio100 per molti anni, il curatore fallimentare Cosimo Valentini nominato dal tribunale, rappresentato in giudizio dall’avvocato Adeo Ostilio, aveva chiesto il sequestro di una somma superiore ai 2 milioni di euro. Il sequestro disposto per 900mila euro compromettere la gestione anche della nuova società editrice dell’emittente televisiva Studio100. Secondo il curatore fallimentare la cessione del ramo d’azienda della Jet srl era di fatto servita a creare una “good company”, cioè la Mastermedia Club la quale, non avendo alcun debito verso il fisco, avrebbe ottenuto con facilità i contributi per l’editoria, lasciando nella Jet srl (la “bad company”) i debiti accumulati negli anni, superiori a 5 milioni di euro. Il giudice dr. Casarano con la sua sentenza, ha confermato che  attraverso “la cessione del ramo d’azienda lo scopo perseguito dalle parti era anche quello di ottenere i contributi: la good company avrebbe potuto conseguire i benefici più facilmente di quanto avrebbe fatto, per così dire, la bad company” che ha accumulato debiti con il Fisco per oltre 5 milioni di euro ed ha anche accertato che il prezzo di cessione era stato simulato evidenziando che l’amministratore unico delle due società era sempre lo stesso cioè Gaspare Cardamone, e sempre in società con suo fratello Giancarlo. Infatti il giudice nella sua sentenza  sostiene che “Le due società coinvolte nella cessione facevano capo alla stessa persona fisica, la quale assumeva il ruolo di amministratore unico anche della cessionaria, oltre che della cedente: eloquente nel senso della evidente ricorrenza dell’unicità del centro di interessi da considerarsi artefice della operazione, il rilievo che le due raccomandate nelle quali si sarebbe consacrato l’accordo simulatorio sul prezzo fossero a firma della stessa persona“. Ma per fortuna dei lavoratori dell’emittente televisiva il giudice ha valutato che questa cessione, oltre a facilitare l’ottenimento dei contributi, è di fatto  l’unico modo per salvare i 26 dipendenti dell’emittente e pertanto  “avendo soprattutto riguardo alle sorti dell’impresa il che si traduce nella salvaguardia dei posti di lavoro di 26 dipendenti ,  non appare opportuno disporre il sequestro giudiziario” e pertanto “si tratta di conservare i contributi statali, senza dei quali ormai le imprese televisive non riescono ad avere una gestione utile, non essendo sufficienti i proventi dalla pubblicità“. Incredibilmente secondo il giudice civile l’operazione di cessione, nonostante la presenza di conflitti d’interesse ed anomalie procedurali rilevate, va “incoraggiata”. Il prezzo di cessione del ramo d’azienda simulato, non può essere accantonato neanche per tutelare i posti di lavoro. Infatti il giudice ha riconosciuto “prudentemente” che il valore della società Jet srl va stimato in 900mila euro che quindi spettano alla curatela nominata dal Tribunale Fallimentare di Taranto per pagare il Fisco, che nel fallimento della società editrice di Studio 100 viene definito “l’unico creditore davvero fortemente pregiudicato”.

La Polizia di Stato denuncia avvocato di Taranto (ed un ex avvocato) che truffavano cittadini extracomunitari, scrive Il Corriere del Giorno il 6 Febbraio 2019. Le indagini della Squadra Mobile di Taranto hanno permesso di recuperare numerosa documentazione che ha testimoniato il consistente giro d’affari dell’avvocato. Nei giorni scorsi, personale della 2a sezione delle Squadra Mobile ha denunciato in stato di libertà un avvocato tarantino, Michele Cervellera di 56 anni per truffa aggravata e continuata in danno di cittadini extracomunitari e per falsità materiale in atti pubblici. Indagato anche un ex-avvocato Antonio Milella, già coinvolto in precedenti attuali inchieste giudiziarie e questa volta denunciato a piede libero. Allo stesso professionista è stata notificatala misura interdittiva del divieto temporaneo di esercizio della professione di avvocato, della durata di sei mesi. Le indagini sono partite nell’ottobre di due anni fa, quando un cittadino del Bangladesh si è presentato agli sportelli dell’Ufficio Immigrazione della Questura Jonica, per regolarizzare la sua posizione sul territorio italiano. Il bengalese in quel frangente aveva dichiarato ai poliziotti di aver affidato le sue pratiche all’avvocato Cervellera il quale, dietro aver ottenuto l’onorario richiesto di 4.000 euro, gli aveva consegnato prima un contratto di lavoro subordinato e, dopo circa un anno, la fotocopia di un’istanza di permesso di soggiorno presentata alla Questura di Taranto. Documenti che sono risultati falsi. Cervellera in cambio del denaro aveva fornito alla vittima una falsa ricevuta che sarebbe stata rilasciata dalla Questura ed un contratto di lavoro come badante, fornito al Cervellera da Antonio Milella (nella foto a lato) che aveva convinto un ignaro cittadino a firmare un documento in bianco per la misera somma di soli 30 euro! Le successive indagini hanno permesso di recuperare numerosa documentazione che ha testimoniato il consistente giro d’affari dell’avvocato che nel corso del tempo era riuscito a mettere in piedi un sistema ben organizzato per compiere simili truffe che avevano come vittime sempre cittadini extracomunitari desiderosi di regolarizzare la loro posizione in Italia. Nell’ordinanza di applicazione di misura cautelare personale interdittiva emessa dal Gip del Tribunale di Taranto dr. Giuseppe Tommasino in data 31.01.2019 emerge che “la acquisizione di tabulati telefonici, ove possibile, avrebbe definitivamente riscontrato la circostanza dei frequenti contatti intercorsi tra le parti offese ed il Cervellera e, probabilmente, avrebbe allargato i confini della illecita attività”. Secondo il Gip Tommasino l’attività illegale e fraudolenta dell’avvocato Cervellera rappresenta una attività seriale effettuata con “organizzazione e con sperimentata esperienza” resa ancora più vergognosa dalle condizioni di necessità degli immigrati dei quali il legale tarantino traeva vantaggi e profitti illegittimi. Il giudice per le indagini preliminari Tommasino esprimendosi sull’inchiesta archiviata dalla Procura di Taranto a seguito della denuncia presentata nei confronti dell’avvocato Cervellera, ha sostenuto nella sua ordinanza che a questo punto “sarebbe opportuno riaprire le indagini”. Affermazione questa che dovrebbe far riflettere non poco i vertici della Procura di Taranto sulla leggerezza dell’operato del pubblico ministero dr.ssa Maria Grazia Anastasia rivelatasi un pò troppo superficiale nell’accertare le responsabilità dei denunciati. E non caso il Gip Tommasino ha rigettato la richiesta di archiviazione disponendo nuove indagini. Lo scorso 4 febbraio è stato notificato all’ avv. Michele Cervellera il provvedimento interdittivo dalla professione, in occasione del quale è stato nominato quale legale difensore l’avv. Nicola Cervellera.

Bimba giù dal balcone, l’avvocato: «Non difendo quel padre, ho un figlio di 7 anni». Il papà: «Voglio rivederli». Il legale nominato dal 49enne accusato di aver tentato di uccidere i figli ha deciso di rinunciare all’incarico: «Ho un bambino di 7 anni e per motivi etici non me la sento di difendere quell’uomo». Convalidato l’arresto al termine dell’interrogatorio di garanzia, scrive Michelangelo Borrillo il 9 ottobre 2018 su Il Corriere della Sera. Un ragazzo di 14 anni accoltellato alla gola, una bambina di 6 anni lanciata giù dal balcone. Troppo grave, per l’avvocato, il doppio gesto di cui è accusato il 49enne che domenica scorsa, a Taranto, dopo l’ennesimo litigio con la ex compagna se l’è presa con i suoi due figli. «Ho un bambino di 7 anni e per motivi etici non me la sento di difendere chi è accusato di una cosa del genere. Dopo l’interrogatorio di mercoledì, per il quale non c’era il tempo per trovare l’avvocato d’ufficio, rimetterò l’incarico». Nicola Cervellera spiega così la decisione presa alla vigilia dell’udienza di convalida tenuta dal gip Paola Incalza e dal pubblico ministero Filomena Di Tursi. Cervellera era stato nominato dall’indagato — accusato di tentato omicidio, violenza e resistenza a pubblico ufficiale — in virtù di passati rapporti professionali: il legale lo aveva assistito due anni fa (il 49enne ha precedenti specifici) «ma per maltrattamenti in famiglia — spiega l’avvocato — questa è una cosa diversa».

«Fatemi vedere i miei figli». Nell’interrogatorio che si è tenuto mercoledì in carcere il 49enne si è avvalso della facoltà di non rispondere. Avrebbe pronunciato solo poche parole, chiedendo in lacrime al gip la possibilità di rivedere i due figli. Al termine dell'interrogatorio di garanzia il gip ha convalidato l’arresto. Il ragazzo di 14 anni guarirà in 15 giorni, mentre la bambina di 6 anni è ancora ricoverata in gravissime condizioni all’ospedale Santissima Annunziata di Taranto e lotta tra la vita e la morte. La piccola, che nella caduta ha riportato un grave trauma cranico, è stata sottoposta, dal ricovero, a tre interventi chirurgici, uno già nella serata di domenica e altri due successivamente, condotti da equipe mediche diverse. Proprio gli ultimi due interventi sono stati giudicati riusciti dall’Asl di Taranto. Di qui l’annuncio del lieve miglioramento, pur in un quadro complessivo di gravità.

L'avvocato Cervellera: ecco perché non potevo difendere quel padre che ha gettato la figlia dal balcone, scrive Nazareno Dinoi Giovedì 11 Ottobre 2018 su Il Quotidiano di Puglia. Cinquantatré anni, sposato, padre di un figlio ancora piccolo e laurea in giurisprudenza, conseguita all’Università di Bari, incorniciata e appesa al muro dietro la scrivania del suo ufficio. Nicola Cervellera, tarantino, è l’avvocato che si è rifiutato di difendere l’uomo che si è macchiato le mani di un delitto disumano. Garantendogli comunque assistenza nell’udienza di convalida dell’arresto che si è tenuta ieri mattina, il penalista si è poi avvalso della facoltà di ogni avvocato di rinunciare al mandato di difesa. Una scelta sofferta ma molto decisa quella del professionista confidata a Quotidiano già alla vigilia dell’interrogatorio di garanzia, quando aveva già deciso che non avrebbe difeso l’uomo accusato di reati così gravi, come il tentato omicidio nei confronti dei propri figli minorenni. Inconsapevolmente quindi è diventato il personaggio positivo di questa bruttissima storia di genitori che si trasformano in mostri. Una vicenda che ha impressionato l’opinione pubblica perché tocca e violenta il concetto stesso di famiglia. Un avvocato che si rifiuta di difendere un indagato.

Una decisione non frequente, immagino molto ponderata e sofferta.

«È proprio così. In questi giorni ho riflettuto tanto sulla vicenda interrogandomi più volte in considerazione dell’efferata azione criminosa posta in essere dall’indagato in danno dei propri figli minori».

In effetti delitti non comuni, di quelli che toccano le coscienze di chi deve per professione trovare una giustificazione in quei gesti. Tutto diventa ancora più difficile. Solo ragioni professionali, quindi?

«Assolutamente no. Anzi, sono soprattutto ragioni morali e personali che mi portano a dover rinunciare al mio mandato difensivo che non potrei svolgere con equilibrio e con la dovuta serenità».

Qualcuno potrebbe obiettare anteponendo a questo il diritto di ogni indagato ad essere difeso.

«La rinuncia al mandato è un diritto dell’avvocato e in questa drammatica vicenda ho avvertito l’urgente necessità di esercitare questo mio diritto».

Questa sua scelta ha suscitato interesse nell’opinione pubblica ed ha alimentato un accesissimo dibattito sui social. Anche sua moglie si è spesa in sua difesa con un post su Facebook in cui traspare orgoglio per quello che ha fatto. In effetti, tranne pochissime eccezioni, tutti sono solidali con la sua decisione.

«Sì, ho letto qualcosa. Effettivamente ho riscontrato che solo un collega ha espresso dubbi sulla mia scelta. C’è da dire però che si tratta di un civilista a cui risponderò personalmente spiegando le mie ragioni. Credo che per esprimere giudizi su questioni simili bisogna prima passarci e viverle personalmente. Non potevo davvero accettare un caso simile, ho un figlio di sette anni, quasi quanto quella povera bambina, pertanto non avrei potuto lavorare serenamente. Meglio così».

·         Mazzarano ed il tracollo del PD.

La “signora delle tessere”, Cascarano, salva il tracollo del Pd. Terminate le operazioni di voto delle primarie di circolo del Partito democratico e analizzando i risultati ottenuti nei cinque comuni del circondario manduriano, scrive martedì 29 gennaio 2019 la voce di Manduria. Terminate le operazioni di voto delle primarie di circolo del Partito democratico e analizzando i risultati ottenuti nei cinque comuni del circondario manduriano, quello che emerge è la quasi scomparsa di tesserati dal partito della sinistra. A salvare «la faccia», manco a dirlo, è la «signora delle tessere», la manduriana Maria Grazia Cascarano che da sola è riuscita a portare alle urne il 64% di tutti i votanti dei cinque comuni (131 su un totale di 204). Ecco i risultati comune per comune con la relativa percentuale di votanti rispetto ai tesserati. Manduria 131 su 351; Sava 36 su 96; Avetrana 26 su 61; Maruggio 12 su 18 e Torricella 2 su 5.L'ex assessore della Regione Puglia Michele Mazzarano (Pd) a giudizio per corruzione elettorale, scrive il 3 Gennaio 2019 Il Corriere del Giorno. Secondo le evidenze investigative dei carabinieri e della Procura di Taranto, il consigliere regionale avrebbe promesso a un uomo l’assunzione di due figli presso una ditta privata in cambio di voti: a sollevare il caso fu Striscia la Notizia ed anche il nostro giornale che dette ampio spazio alla ricostruzione dei fatti.  La Procura della repubblica di Taranto ha emesso un decreto di citazione diretta a giudizio dinanzi al Tribunale monocratico di Taranto, nei confronti  dell’ attuale consigliere regionale del Pd Michele Mazzarano, ex assessore allo Sviluppo economico della Giunta Emiliano,  accusato di corruzione elettorale per una vicenda portata alla luce da Striscia la Notizia e documentata dettagliatamente dal CORRIERE DEL GIORNO,  a seguito di una denuncia di Emilio Pastore, alla trasmissione televisiva, con cui emerse il presunto scambio di favori durante la campagna elettorale del 2015. La prima udienza è stata fissata per il 6 marzo prossimo. A firmare il decreto sono stati il procuratore capo Carlo Maria Capristo ed il procuratore aggiunto Maurizio Carbone. L’ex assessore Mazzarano, non nuovo ad inchieste giudiziarie, interrogato nel corso delle indagini, ha sempre respinto le accuse. Furono proprio le rivelazioni di Pastore a Striscia la Notizia a provocare le dimissioni di Mazzarano dalla giunta regionale e la conseguente apertura del fascicolo d’inchiesta. Secondo l’impianto accusatorio Michele Mazzarano, all’epoca dei fatti candidato alle elezioni regionali pugliesi del 2015, aveva promesso ad Emilio Pastore l’assunzione di due figli presso una ditta privata, ottenendo in cambio l’impegno da parte sua a dargli il proprio voto e quello dei suoi familiari nonchè di procurargli il voto di altri elettori attraverso l’utilizzo a titolo gratuito di un locale che lo stesso Pastore allestì come comitato elettorale. Promessa che Mazzarano avrebbe mantenuto in parte favorendo l’assunzione di uno dei due figli presso la società Ecologica spa operante nello stabilimento siderurgico dell’ex-ILVA (ora Arcelor Mittal). La difesa di Mazzarano: “Ero convinto di aver già dimostrato ai magistrati tarantini la mia totale estraneità ai fatti. Sarà il processo la sede dove dissipare definitivamente ulteriori dubbi laddove ce ne fossero”. Lo rende noto in una dichiarazione l’ex assessore regionale Michele Mazzarano attuale consigliere del Pd alla Regione Puglia, commentando la notizia della sua citazione in giudizio per corruzione elettorale. Mazzarano dimentica qualcosa: primo che se è stato rinviato a processo, ciò dipende dal fatto che non ha convinto il procuratore capo (Capristo) e l’aggiunto (Carbone) su quella che lui chiama “totale estraneità ai fatti” dimenticando che ci sono video, registrazioni e documentazioni che provano esattamente il contrario del suo tentativo di uscire indenne da una torbida e vergognosa vicenda di voto di scambio. Secondo: che ancora una volta lui dice “Sarà il processo la sede dove dissipare definitivamente ulteriori dubbi”, sperando nei ritardi processuali e dell’incombere di una possibile prescrizione dei suoi reati, che lo hanno già salvato in ben due processi. Dubbi non ce ne sono: Mazzarano va processato.

AGGIORNAMENTO del 04.01.2019. Il Nuovo Quotidiano di Puglia questa mattina scrive: “Mazzarano è al suo secondo mandato come consigliere regionale, già nella scorsa legislatura decise di lasciare il gruppo consigliare del Pd dopo essere stato accusato dalla Procura di Bari, sulla scorta delle dichiarazioni di Giampaolo Tarantini, di illecito finanziamento ai partiti. Il processo si è concluso con il proscioglimento.”. Errore. Il processo, infatti si è chiuso a seguito di intervenuta prescrizione. Che è ben altra cosa di un proscioglimento dalle accuse!

Ecco infatti come la redazione di Bari del quotidiano La Repubblica e del quotidiano Corriere del Mezzogiorno-Corriere della Sera hanno dato correttamente la notizia, evidenziando la prescrizione e non il proscioglimento!

·         Chi è contro e chi è a favore del depuratore a Urmo di Avetrana.

"I lavori del gasdotto non erano leciti". E quelli a Specchiarica? Proprio ieri abbiamo pubblicato il contenuto di una lettera firmata dal presidente del comitato ambientalista avetranese che...La Voce di Manduria sabato 07 settembre 2019. Due grosse opere di pubblica utilità, il depuratore a Specchiarica, marina di Manduria e il gasdotto a Melendugno, due inchieste per ipotesi di reato quasi sovrapponibili. La Procura di Lecce che ha indagato sulla Tap, ha concluso le indagini preliminari ravvisando responsabilità penali nei confronti di 19 indagati, tra progettisti e imprenditori, per opere realizzate senza rispettare le direttive della Via, valutazione di impatto ambientale e in violazione di vincoli paesaggistici. Praticamente gli stessi per i quali il comitato di difesa del territorio e del mare di Avetrana chiede da tempo di indagare presentando richieste alla Procura della Repubblica di Taranto che al momento non si sa ancora se abbia o meno aperto un fascicolo d’inchiesta. Proprio ieri abbiamo pubblicato il contenuto di una lettera firmata dal presidente del comitato ambientalista avetranese che solleva dubbi di legittimità dei lavori e di irregolarità delle autorizzazioni perché viziate, sostiene il comitato, da un parere di Via che non poteva essere dato perchè approvato sulla scorta di una perizia fatta da un tecnico dello stesso Aqp (avrebbe autorizzato sé stesso). «Se il redattore della perizia avesse correttamente riportato l’esistenza dei vincoli di area di rispetto dei boschi e quello di rispetto della Riserva naturale orientale – sostiene il Comitato – il dirigente preposto non avrebbe certamente adottato la proroga». Così, a cascata, è la tesi degli ambientalisti, l’Aqp non avrebbe potuto avviare i lavori né la Regione Puglia avrebbe potuto emettere un provvedimento di proroga Via illegittima che in ogni caso, insistono, non può fungere da sanatoria».

La notizia degli indagati per la Tap dà maggiore peso al timore espresso dagli ambientalisti del comitato di difesa del mare e del territorio di Avetrana che chiudono la loro lettera inviata anche al ministero dell’Ambiente e alla Regione Puglia con questo pensiero: «La Regione Puglia e le Forze dell’ordine – si legge - stanno proteggendo l’esecuzione dei lavori che potrebbero risultare totalmente abusivi perché viziati in radice per effetto della citata perizia errata».

Offese contro Massafra: scattano cinque multe da 600 €. Da segnalare, tra le ingiurie più colorite, quelle che definivano Massafra «un povero fallito», o «un pezzo di m….a», o ancora...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 17 maggio 2019. L’ex sindaco di Manduria, Roberto Massafra, fa parlare ancora di sé. Con molto dispiacere per cinque persone, tre manduriani, un avetranese e uno di Erchie, provincia di Brindisi, destinatari di un decreto di condanna per avere offeso il già primo cittadino con messaggi pubblicati su Facebook giudicati oltremodo oltraggiosi. Il giudice delle indagini preliminari del tribunale di Taranto, Benedetto Ruberto, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Mariano Buccoliero, titolare dell’inchiesta a carico dei cinque utenti del social, ha emesso nei loro confronti un decreto di condanna al pagamento di un’ammenda pari a seicento euro ognuno. La decisione della magistratura tarantina fa seguito ad una querela che Massafra aveva presentato a maggio del 2017 quando i social network, come anche il dibattito politico dell’epoca, si infiammarono sul tema del depuratore consortile e in particolare sulla decisione dell’Acquedotto pugliese e delle Regione Puglia, con l’avallo o, secondo i sostenitori della dislocazione dell’opera nell’entroterra, con la non efficace opposizione dell’amministrazione comunale manduriana, di aprire il cantiere in zona Urmo-Belsito-Specchiarica, marine di Manduria. In quella occasione il sindaco di Manduria fu fatto bersaglio di commenti sui social non tutti garbati. Tra i più facinorosi segnalati dall’allora sindaco nella sua denuncia, la magistratura ha individuato quelli più diffamanti, cinque appunto, condannando gli autori al pagamento della multa che non andrà al denunciante, in questo caso all’ex sindaco Massafra, ma finirà nelle casse dell’amministrazione della giustizia. Da segnalare, tra le ingiurie più colorite, quelle che definivano Massafra «un povero fallito», o «un pezzo di m….a», o ancora «rinco… non sai fare il sindaco». Sino ad esporre pareri più pesanti di chi insinuava interessi economici dietro la scelta dell’amministrazione Massafra di non opporsi ai progetti dell’Acquedotto pugliese. Uno dei presunti «haters» destinatari del decreto di condanna, è stato ritenuto colpevole per il contenuto di un’intervista rilasciata ad un giornale locale in cui si gettavano ombre su possibili «interessi» dietro il silenzio di Roberto Massafra.

Aqp invita Mediaset a leggere una nota nel Tg5: "Noi solo acqua pulita in mare". Il giorno prima il telegiornale della rete ammiraglia di Mediaset aveva diffuso il video dello sversamento nel mare di Posillipo di liquami non depurati di quel depuratore andato in tilt per l’eccessiva pioggia. Nazareno Dinoi su Manduria Oggi venerdì 12 luglio 2019. «La società Acquedotto pugliese, in riferimento al servizio sullo sversamento in mare del 10 luglio scorso, chiede di riferire che il il proprio progetto di depurazione delle acque in località Torre Colimena garantirà il rispetto dell’habitat senza sversamento di liquami inquinanti in mare». La notizia, apparentemente di poco conto è, per chi non conosce i fatti, fuori luogo, è stata letta ieri nel corso del TG5. Dietro lo scarno comunicato fatto leggere dal giornalista Mediaset, c’è invece molto, tanto, per chi se ne intende di informazione. Ve lo raccontiamo. Il giorno prima il telegiornale della rete ammiraglia di Mediaset aveva diffuso il video dello sversamento nel mare di Posillipo di liquami non depurati di quel depuratore andato in tilt per l’eccessiva pioggia e per un guasto agli impianti. Nel servizio con le immagini dell’acqua che si colorava di marrone, la giornalista riferiva le dichiarazioni della consigliera comunale delegata al mare di Napoli, Daniela Villani, che attribuiva il fenomeno «al cosiddetto troppo pieno ad uno snodo fognario». In chiusura di quel servizio a Posillipo, l’autrice del pezzo concludeva citando l’opera dell’Acquedotto pugliese in costruzione a Urmo. «Potrebbe diventare una realtà anche in uno dei più belli scorci del Salento dove L’Aqp prevede di utilizzare il bacino di Torre Colimena come valvola di sfogo dei liquami in caso di guasto del depuratore, proprio vicino alla riserva naturale a spiagge finissime e incontaminate». Il paragone, calzante, era venuto fuori perché dalla redazione barese di «NewMediaset», società che produce servizi giornalistici per tutti i canali informativi del gruppo, avevano comunicato che la loro collega Roberta Fiorentini aveva proposto un pezzo proprio su Torre Colimena. Cosa che nel frattempo ha realizzato andando sul posto dove stanno costruendo il depuratore e dove è previsto lo scarico complementare che, per stessa ammissione del progettista, deve scaricare il troppo pieno del depuratore quando piove troppo per almeno 10, 12 volte l’anno. (Aggiungiamo noi che scaricherà anche quando qualcosa non funzionerà a monte dell’opera). Il servizio della giornalista che per l’occasione ha intervistato sul posto il vicesindaco di Avetrana Alessandro Scarciglia e il presidente della Lega Navale di Torre Colimena (con loro anche i manduriani Giuseppe Coco e Cosimo Breccia), doveva essere trasmesso nei Tg Mediaset dell’altro ieri sera, poi lo hanno spostato a ieri mattina. Ma qualcosa ha bloccato tutto. Lo riferisce, sconfortata, la stessa giornalista. «Ho sentito la rettifica di Aqp al Tg%, presumo salti tutto a questo punto», fa sapere. Infatti Aqp aveva «invitato» la redazione Mediaset a far leggere in diretta nazionale il comunicato in cui assicura che «non sverserà acqua non depurata nel canale di Torre Colimena». E chi può contraddirla? Mediaset non lo ha fatto, gli ambientalisti e i politici locali non ne parliamo (tempo di feste) e la collega Roberta Fiorentini ha fatto un viaggio a vuoto. Nazareno Dinoi

Ecco la lettera di smentita che Aqp ha inviato al TG5 sul depuratore con scarico a mare. A seguito di questo, come già anticipato da La Voce di Manduria, le reti Mediaset hanno deciso di non trasmettere un servizio sul depuratore di Manduria che la giornalista Roberta Fiorentini ...La Voce di Manduria venerdì 12 luglio 2019. Ecco la smentita che l’Acquedotto Pugliese ha inviato ieri alla redazione del Tg5 chiedendo di rettificare quanto era stato trasmesso il giorno prima nel servizio sullo sversamento di liquami fognari nel mare di Posillipo. In coda al servizio l’autrice aveva paragonato l’episodio accaduto nelle acqua di Napoli con quello che potrebbe accadere a Torre Colimena dove l’Aqp ha previsto di utilizzare un bacino dell’Arneo per lo scarico complementare del depuratore previsto in zona Urmo. «Non corrisponde al vero – scrive Aqp - quanto riferito a conclusione del servizio mandato in onda nell’edizione delle ore 13:00 del TG5. Esso – continua - riporta lo sversamento di liquami nel napoletano dovuti ad una condotta fognaria andata in carico. Il progetto di Acquedotto Pugliese che coinvolge la località di Torre Colimena – prosegue la nota - non è in nessun modo paragonabile all’episodio suddetto. AQP è impegnato nella realizzazione di un nuovo impianto di depurazione di ultima generazione che prevede l’utilizzo delle acque trattate per uso agricolo e non il rilascio a mare. Nella località Torre Colimena – conclude la lettera inviata al Tg di Mediaset -, potranno confluire esclusivamente acque trattate e di ottima qualità provenienti dall’impianto, a beneficio e tutela dell’habitat naturale coinvolto». A seguito di questo, come già anticipato da La Voce di Manduria, le reti Mediaset hanno deciso di non trasmettere un servizio sul depuratore di Manduria che la giornalista Roberta Fiorentini di NewMediaset (società che produce lavori giornalistici per le redazioni del gruppo Mediaset), aveva realizzato lo stesso giorno della richiesta di smentita di Aqp recandosi sul posto. La giornalista aveva intervistato il vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia che oggi ha pubblicato sui social una autointervista che riproduce il contenuto del servizio che Mediaset non ha più mandato in onda.

Depuratore: Pinuccio scrive e Aqp risponde. E’ stata presa la decisione di utilizzare il bacino di Torre Colimena come scarico complementare per il troppo pieno o come valvola di sfogo dei liquami in caso di guasto del depuratore...La Voce di Manduria - sabato 13 luglio 2019. E’ stata presa la decisione di utilizzare il bacino di Torre Colimena come scarico complementare per il troppo pieno o come valvola di sfogo dei liquami in caso di guasto del depuratore. Siamo in provincia di Taranto, dove non molti sanno, c’è un mare meraviglioso, dove qualcuno dice che bisogna incentivare il turismo per non far parlare di questa provincia solo per le brutture che aimè ha. Poi arrivano queste decisioni, come se nel 2019 non si possono trovare altre soluzioni che in realtà sono state proposte, o come se non ci fossero luoghi meno impattanti. Questo è un luogo meraviglioso, con una riserva naturale formatasi in una vecchia salina dove approdano fenicotteri e altre specie rare di uccelli e la spiaggia che divide il piccolo laghetto della riserva da un mare meraviglioso. io alcune volte non capisco davvero, usare questo luogo per un eventuale “troppo pieno” del depuratore, che in altri termini vuol dire che se si riempie di merda e non solo, per un sovraccarico, la sversa qui. Pinuccio di Striscia

L’Acquedotto Pugliese risponde. Caro Pinuccio, ti vogliamo bene e abbiamo rispetto per le tue opinioni, ma questa volta temo che tu non sia correttamente informato sulla questione. Acquedotto Pugliese è impegnato nella realizzazione di un nuovo impianto di depurazione che servirà Manduria e Sava (oggi non servita da fogna, questo sì uno scempio ambientale) di ultima generazione, che prevede l’utilizzo delle acque trattate per uso agricolo e non il rilascio a mare. Nella località Torre Colimena potranno confluire esclusivamente acque trattate e di ottima qualità provenienti dall’impianto, a beneficio e tutela dell’habitat naturale coinvolto. Aqp Bari

LA VOCE a Remo Croci. Io che a Torre Colimena ci sono stato più volte, ritengo che questo scarico sia davvero uno scempio e che...La Voce di Manduria - sabato 13 luglio 2019. Io che a Torre Colimena ci sono stato più volte, ritengo che questo scarico sia davvero uno scempio e che debba essere scongiurato questo scellerato progetto.

Depuratore Consortile: Emanuele Micelli “valutare la possibilità di far nascere un comitato istituzionale unitario”. La Voce di Maruggio 2 Luglio 2019. Il Consigliere Comunale di minoranza del Comune di Avetrana, nella lettera indirizzata al Sindaco, agli Assessori, al Presidente del Consiglio e a tutti i Consiglieri Comunali del Comune di Avetrana, scrive: ” Il sottoscritto Micelli Emanuele, consigliere comunale di Avetrana, Chiede alle s.v. di valutare la possibilità di far nascere un comitato istituzionale unitario come quello già istituito qualche anno addietro con l’amministrazione precedente. – La lettera continua – In questa fase regna una grande confusione che non aiuta certamente alla lotta per difendere il nostro territorio. Bisognerebbe fare chiarezza su tutti i passaggi fatti sin dai primi anni del 2000 ad oggi, non per trovare i colpevoli – continua il consigliere Micelli – ma per capire gli eventuali passi avanti fatti negli anni dal progetto iniziale e i margini per poter ancora migliorare il progetto attuale. Inoltre bisognerebbe discutere in questa fase anche l’urgenza di trovare i fondi necessari per acqua e fogna alle marine e l’allacciamento al depuratore della zona Urmo Belsito: non possiamo permettere che le nostre zone turistiche restino ancora a lungo senza acqua corrente e rete fognaria. Il Comitato, – conclude Micelli – con l’ausilio di tecnici e associazioni ambientaliste riconosciute, dovrebbe farsi carico di incontrare i vertici di Aqp e della Regione Puglia e farsi portavoce delle esigenze dei cittadini”.

Micelli: anche io contro lo scarico a Torre Colimena e al depuratore a Urmo. «Posizione uguale al Pd provinciale, Lucia Vacca non fa più parte del gruppo "Cambiamo Avetrana"» La Voce di Manduria mercoledì 03 luglio 2019. Il consigliere comunale di Avetrana, Emanuele Micelli, si dichiara essere contro la localizzazione del depuratore in zona Urmo e contro lo scarico complementare previsto nel bacino di Torre Colimena. L’esponente del Pd da sempre vicino alle posizioni del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, chiarisce così, arricchendola di particolari, la sua posizione precedentemente espressa nella lettera indirizzata al sindaco e ai suoi colleghi consiglieri comunali che era priva di riferimenti alla localizzazione e allo scarico. «La mia posizione - dice - è quella del Pd cittadino e provinciale». Sempre Micelli, infine, fa sapere che la consigliere Lucia Vacca non fa più parte, da mesi, del suo gruppo «Cambiamo Avetrana», pertanto le posizioni illustrate non sono da attribuire alla sua ex collega di gruppo.

Depuratore-scempio, "responsabilità di molti, anche degli amministratori di Avetrana". Da sempre riteniamo la posizione del depuratore consortile Manduria Sava lesiva degli interessi economici di più comunità. La Voce di Manduria, domenica 07 luglio 2019. Progettare il depuratore consortile che deve servire Sava ad oltre 15Km e Manduria ad oltre 10 Km alle porte di Avetrana, a qualche decina di metri dalla zona residenziale Urmo Belsito ed a poche centinaia di metri dal mare è una scelta scellerata e demenziale oltre che economicamente onerosa e folle! Da sempre riteniamo la posizione del depuratore consortile Manduria Sava lesiva degli interessi economici di più comunità. Da sempre chiediamo il riesame e la ricollocazione dello stesso in una posizione tale da servire le comunità per cui è stato progettato ma che non intacchi minimamente le possibilità di sviluppo turistico della costa. Comune di Manduria, Regione Puglia e AQP sono i responsabili dello scempio ambientale che si sta realizzando con una massiccia cementificazione in una zona ad alto pregio naturalistico. Pur continuando ad opporci, nei modi e nelle forme che la legge ci consente, alla localizzazione del depuratore nella zona in cui è stato progettato:

CHIEDIAMO CON FORZA

Che sia fatta chiarezza una volta per sempre sul poco chiaro e trasparente iter amministrativo messo in atto finora da AQP e Regione Puglia;

Che vengano forniti i dovuti chiarimenti rispetto alla realizzazione di un depuratore cosi impattante dal punto di vista ambientale di cui ad oggi non si conosce la destinazione dei reflui depurati ne l’ubicazione degli scarichi emergenziali;

Come sia possibile dar luogo ai lavori senza avere ancora le necessarie autorizzazioni e VIA rispetto agli scarichi emergenziali;

che sia chiaro come si intenda riutilizzare l’acqua eventualmente depurata: gestione, costi e utenti finali;

che siano bandite le ultime fantasiose proposte di riversare reflui depurati (o acque piovane in eccesso, come qualcuno afferma) nel bacino di Torre Colimena.

AUSPICHIAMO UN SOLERTE INTERVENTO DELLA MAGISTRATURA IN MERITO AI NUMEROSI ESPOSTI GIÀ PRESENTATI E DI CUI NON SI CONOSCE L’ESITO CHE IL TAR TRATTI QUANTO PRIMA IL RICORSO PRESENTATO E FINANZIATO DA LIBERI CITTADINI CHE HANNO IL DIRITTO DI AVERE UNA RISPOSTA

DENUNCIAMO

la Regione Puglia di essere stata sorda alle richieste della popolazione;

Acquedotto Pugliese, sordo a qualunque forma di dialogo e di scelte alternative;

Gli amministratori del Comune di Avetrana per non aver difeso nei luoghi preposti e con gli atti dovuti gli interessi della comunità…molte parole e nessun atto concreto con le determine regionali fatte scadere senza alcuna opposizione.

La responsabilità e la totale assenza dei consiglieri regionali tutti dileguati ed alcuni grandi sostenitori della condotta sottomarina.

Restii ad apparizioni pubbliche, passerelle e sciacallaggio politico di una faccenda che riteniamo gravissima, compiamo e finanziamo possibili ricorsi confidando che finalmente qualcuno osi approfondire quanto sta avvenendo sul nostro territorio.

Luigi Conte, Lucia Vacca, Rosaria Petracca, consiglieri opposizione Comune Avetrana

Via libera al depuratore con la resa degli oppositori. Scrive Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 24 aprile 2019. Alessandro Scarciglia: «Ai nostri figli dico di perdonarci se non siamo stati in grado di bloccare questi strafottenti incapaci». Ha tutta l’aria di una resa la presa di posizione del vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia che ieri ha pubblicato le immagini delle ruspe a lavoro nel cantiere del costruendo depuratore di Manduria e Sava con un commento che lascia pochi dubbi sulla volontà di arrendersi: «Ai nostri figli – si legge – dico di perdonarci se non siamo stati in grado di bloccare questi strafottenti incapaci». Ad accompagnare il post è la foto di una pala meccanica in azione tra le piante di lentisco e altre essenze della macchia mediterranea che dovranno lasciare il posto a quello che viene ormai definito «l’ecomostro dell’Aqp». Una immagine che genera dolore e senso di impotenza in chi spera ancora in una soluzione differente che salvi il salvabile. Per il vicesindaco Scarciglia - tra i più combattivi sostenitori della necessità di spostare l’opera nell’entroterra per scongiurare il rischio di compromettere irrimediabilmente l’unica zona residenziale di Avetrana (Urmo Belsito) ma anche l’ecosistema di due riserve naturali (Salina dei Monaci e fiume Chidro) e un mare cristallino (Specchiarica) – l’immagina della ruspa che devasta i cespugli è anche il risultato di una sconfitta. «Si sta concretizzando l’assurdo progetto di questo ecomostro – scrive - in una delle zone più belle della costa jonica. I governatori pugliesi, Nichi Vendola e Michele Emiliano – prosegue Scarciglia -, non hanno mai voluto capire le ragioni delle civilissime popolazioni di Avetrana, Manduria, Erchie e Torre Santa Susanna oltre, naturalmente, dei tantissimi turisti che hanno deciso negli anni di investire i propri risparmi in questa località». Chi, tra gli ambientalisti e i sostenitori del «No depuratore sulla costa» si aspettava da lui una reazione di stizza e magari una improbabile soluzione, resterà deluso leggendo il seguito. «A tutti questi cittadini onesti – prosegue lo sfogo dell’amministratore di Avetrana -, mi viene solo di chiedere scusa per non essere riusciti nell’intento di far cambiare idea a chi poteva decidere; non sono bastate le manifestazioni popolari e le denunce che abbiamo subito; ancora una volta, in Italia, gli interessi di pochi (pochissimi a dir la verità) hanno avuto la meglio sugli interessi del popolo». Per poi concludere con l’esito del fallimento: «ai nostri figli dico: perdonateci se non siamo stati in grado di bloccare questi strafottenti incapaci». Anche Mimmo Breccia, leader dell’unico movimento di protesta rimasto in piedi, «Manduria Noscia» sembra aver rassegnato le armi prendendosela, scrive, «con l’intera classe politica che ha decretato la fine dei nostri sogni e del futuro dei nostri figli». Ed anche Breccia, come Scarciglia, non perdona chi ha avuto potere di manovra nelle stanze dei bottoni: «Tutti galoppini al servizio del potente di turno, destra sinistra e cinque stelle». Anche gli oppositori che avevano deciso la strada giudiziaria sembrano si siano dissolti. Non si hanno più notizie, infatti, delle annunciate diffide e ricorsi al Tar come misure utile, si era detto, a rallentare perlomeno i lavori. Senza risultato, sinora, le due interrogazioni parlamentari presentate dall'onorevole Anna Macina del Movimento 5 Stelle e dal senatore Gaetano Quagliariello del movimento «Idea».

Tutti gli "imbrogli" sul depuratore da leggere con attenzione (Le cose che non dicono al cittadino). Premesso che tutti i cittadini desiderano che le acque reflue vengano opportunamente depurate e affinate per un loro riutilizzo - nell’ottica di una economia circolare che è particolarmente pregnante per la risorsa acqua in Puglia. Scrive il Prof. Nicola Sante Iacobellis su La Voce di Manduria mercoledì 24 aprile 2019. Premesso che tutti i cittadini desiderano che le acque reflue vengano opportunamente depurate e affinate per un loro riutilizzo - nell’ottica di una economia circolare che è particolarmente pregnante per la risorsa acqua in Puglia – e/o di rimpinguare le falde acquifere interessate da “importante” processo di salinizzazione. Il comune di Manduria è dotato di un depuratore malfunzionante mentre Il comune di Sava non è dotato di depuratore sebbene abbia avuto finanziamenti nei decenni scorsi per costruirne uno che non ha mai funzionato. Le Marine di Manduria non sono dotate di servizio idrico-fognario. Da ciò la scelta combinata Regione Puglia-Amministrazione di Manduria di fare progettare ad AQP il depuratore consortile Manduria-Sava-Marine di Manduria da ubicare nel sito Urmo-Specchiarica al limite dell’agro di Manduria e a ridosso di quello di Avetrana. In particolare, le acque reflue dell’agglomerato urbano di Sava raggiungeranno con una condotta di circa 6 Km l’attuale depuratore di Manduria e insieme alle acque reflue di Manduria, dopo I primi trattamenti in quella sede, saranno avviate mediante condotta di circa 12 km (tratto Manduria-Marine) verso il costruendo depuratore di Manduria ubicato sulla costa. La domanda del Cittadino è: perchè la Regione Puglia, su proposta delle amministrazioni di Manduria, ha deciso di fare progettare il suddetto depuratore in una nuova sede - a poco più di 1 Km dalla costa, tra aree naturali protette e di interesse comunitario e di potenziale sviluppo turistico, con ulteriore consumo di suolo - invece di fare ristrutturare il vecchio depuratore? La risposta potrebbe essere: per dotare le Marine di Manduria di rete idrico-fognaria. Ma è proprio così? Perchè costruirlo a servizio delle Marine di Manduria, così viene riportato nel progetto originale e le sue varianti, quando, le marine di Manduria non dispongono di rete fognaria? Nè si ha notizia di un progetto finanziato per il suddetto servizio. Inoltre, nell’ultima variante del progetto approvata per gli aspetti dell’impatto ambientale e pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 18 del 14 febbraio 2019 - viene chiaramente riportato che alcune strutture del costruendo depuratore non saranno sufficienti quando le Marine saranno dotate di fogna. Incredibile! Inoltre, improvvisamente i volumi dei reflui dichiarati pro/die e degli abitanti equivalenti nella nuova variante risultano significativamente minori rispetto al progetto originale. Guarda caso la diminuzione di tali “decisivi” parametri sembrerebbe essere relativa alla potenziale utenza delle marine. La considerazione che ne risulta è: nella ultima edizione del progetto non è considerata la depurazione delle acque reflue prodotte nelle marine. Allora perchè fare il mega depuratore a poco più di 1 km dalla costa e denominarlo il depuratore consortile Manduria-Sava e Marine di Manduria? Perchè questa ubicazione presso la costa e le Marine se non c’è la volontà di servirla con acqua e fogna? Da quello che si sa e che si intuisce il progetto è sostanzialmente lo stesso prima della bocciatura su parere della Sezione Idrica della Regione Puglia perchè chiaramente in contrasto con DL. 152/2006 e successivi e, infatti, si fa chiaramente riferimento alla autorizzazione di impatto ambientale del 2011 poi rinnovata nel 2016;non avrebbe potuto essere altrimenti. Improvvisamente Il mega depuratore dalla bocciatura del novembre scorso per la non osservanza del testo unico che regola l'impatto ambientale (DLgs 152/2006) diventa non impattante sull’ambiente !!! Come è possibile ciò se il DLgs 152/2006 dice altro per gli scarichi sul suolo, I volume di fluidi processati e le distanze dal più vicino corpo idrico superficiale (il mare in questo caso!). Inoltre, particolare non da poco, il riutilizzo in agricoltura o uso civile delle acque affinate non è prevista allo stato e viene affidata, forse, a interventi successivi!!!! Ma come è possibile, economia circolare, bla, bla,…..? Il tutto sembra all’osservatore un insieme di azioni poco chiare ma, a dir poco, tutte tese a confondere il Cittadino! Sembra una azione, comunque “contro” incluso l’intelligenza del Cittadino! La scelta più equilibrata nonchè meno onerosa per le finanze pubbliche, sarebbe di avere due depuratori se mai più piccoli, uno per Sava e uno per Manduria. Per Manduria il riutilizzo della sede dell’attuale depuratore potrebbe essere quello più opportuno con risparmio di suolo ma anche finanziario considerando gli elevati costi per la realizzazione di condotte per il trasporto delle acque reflue da Manduria alle Marine! Per le marine si possono prevedere tante soluzioni: un nuovo sistema consortile con i comuni viciniori con interessi simili sulla costa. Questo solo in presenza di un sistema fognario nelle marine di Manduria che tutti i cittadini e utilizzatori dei caseggiati sulla costa, incluso strutture ricettive e della ristorazione, aspettano da decenni e ne auspicano la realizzazione al più presto. Prof. Nicola Sante Iacobellis, Dipartimento di Biologia, Difesa e Biotecnologie Agro forestali Università della Basilicata.

Chi è contro e chi è a favore del depuratore a Urmo. A livello locale, invece, gli unici ad esporsi pubblicamente per dire No all’ipotesi confezionata a livello regionale, sono stati sinora il comune di Avetrana..., scrive venerdì 15 marzo 2019 La Voce di Manduria.  L’audizione sull’argomento «depuratore» avuta l’altro ieri nella quinta commissione consiliare della Regione Puglia, sta demarcando meglio i fronti del Si e del No all’opera secondo i programmi conosciuti. A dirsi favorevoli all’apertura del cantiere in zona Urmo-Specchiarica, sono stati tutti i consiglieri regionali che hanno preso parte a quell’incontro: i grillini Marco Galante e Cristian Casilli, Francesco Ventola e Renato Perrini di Direzione Italia, Francesca Franzoso di Forza Italia e Luigi Morgante di Area Popolare; con il sindaco di Sava, Dario Iaia e il commissario straordinario del comune di Manduria Luigi Cagnazzo. Era già nota, invece, la posizione favorevole dell’assessore regionale; Cosimo Borraccino di Liberi e Uguali- Progressisti. A livello locale, invece, gli unici ad esporsi pubblicamente per dire No all’ipotesi confezionata a livello regionale, sono stati sinora il comune di Avetrana, il comitato spontaneo ambientalista di Avetrana, il movimento Manduria Noscia, i Verdi di Manduria e l’onorevole Anna Macina del M5S (in contrasto con i suoi del regionale). Silenzio da tutti gli altri. I grillini Messapici in evidente imbarazzo per non sapere da che parte stare, il Partito democratico che sembra essere svanito nel nulla, salvo a comparire quando si apre una qualsiasi urna, scomparsi tutti gli ex consiglieri comunali e amministratori vari fatta eccezione per Arcangelo Durante. Oggi pomeriggio alle 16 è previsto un incontro ad Avetrana tra amministratori locali e movimenti ambientalisti dei due comuni (Manduria Noscia e Comitato per la Difesa del Territorio e del Mare di Avetrana) per decidere un alinea comune alla luce degli ultimi sviluppi.

Depuratore: Franzoso accelera sui lavori e Scarciglia lascia Forza Italia. «A seguito di questa riunione tenutasi a Bari ed organizzata da Francesca Franzoso lascio l’incarico di responsabile degli Enti Locali per il comune si Avetrana», scrive Nazareno Dinoi giovedì 14 marzo 2019 su La Voce di Manduria. «Entro il 15 aprile partiranno i lavori per il nuovo depuratore». Lo si è detto ieri nel corso di un’audizione che si è tenuta a Bari nella sede del Consiglio regionale pugliese. L’argomento in discussione era il depuratore consortile di Manduria e Sava e a stabilirlo è stata la consigliera regionale di Forza Italia, Francesca Franzoso che ha deciso anche gli inviti. Una riunione a senso unico quella di ieri perchè seduti attorno ad un unico tavolo c’erano i rappresentanti dei due comuni interessati, rispettivamente il commissario straordinario Luigi Cagnazzo e il sindaco di Sava Dario Iaia e i tecnici della Regione Puglia, l’ingegnere Barbava Valenzano e la responsabile dell’ufficio autorizzazioni ambientali, Tonia Ricci, tutti risaputamente favorevoli all’opera da realizzare quanto prima sulla costa tra i territori di Manduria e Avetrana. Assenti, perché non invitati, gli amministratori avetranesi e i comitati ambientalisti che invece si oppongono al progetto così come proposto dall’Acquedotto Pugliese che lo finanzierà. Il primo effetto di questa esclusione si è già avuto ieri con le dimissioni da Forza Italia del vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia. «A seguito di questa riunione tenutasi a Bari ed organizzata da Francesca Franzoso lascio l’incarico di responsabile degli Enti Locali per il comune si Avetrana», fa sapere in una nota stampa l’amministratore che evidentemente non ha preso bene la presa di posizione della coordinatrice provinciale del suo stesso partito. «La posizione della nostra presidente provinciale – scrive Scarciglia - non si sposa né con la mia né con quella dell’intera comunità avetranese. Mi spiace, ma dopo tanti anni, il mio percorso in Forza Italia finisce qui». Tornando all’audizione di ieri, oltre a ribadire la necessità di avviare nel più breve tempo possibile l’opera, dall’intervento dei due tecnici, la dirigente del Dipartimento opere pubbliche della Regione, Balenzano e la responsabile dell’ufficio valutazioni ambientali, Ricci, si è saputo che il progetto definitivo (che non prevede più la condotta sottomarina) non è ancora pronto perché mancherebbe ancora la definizione certa del recapito finale dei reflui non utilizzabili in agricoltura. Altro punto da chiarire è quello sulla capacità di utilizzo da parte del consorzio di bonifica Arneo del bene idrico depurato. Nel corso dell’audizione è nata una polemica tra la consigliera Franzoso e il suo collega manduriano, Luigi Morgante. Quest’ultimo è stato accusato di promuovere «riunioni carbonare sul tema depuratore». L’accusa era riferita agli incontri che il consigliere Morgante ha avuto con gli amministratori di Avetrana e gli esponenti del movimento civico «Manduria Noscia», promotori entrambi di un progetto alternativo che prevede la dislocazione dell’impianto più nell’entroterra. Morgante da parte sua ha rivendicato la propria autonomia delle attività sul territorio difendendo l’iniziativa congiunta con gli amministratori di Avetrana e gli ambientalisti del movimento civico definita di «natura politica, non carbonara e quindi legittimissima».

L’alternativa a Urmo voluta da tutti ma poi arrivò la lettera di Vespa. Tutta la vicenda politica da quel 7 aprile 2017. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 13 luglio 2019. Di fronte al letargo della politica manduriana e al vergognoso silenzio delle associazioni turistiche e ambientaliste del territorio affaccendate in tutt’altri affari, è compito di chi fa informazione dare risalto agli eventi che hanno portato allo stato in cui ci troviamo: un mega depuratore in costruzione in una zona, diciamo così, poco adatta, che scaricherà il troppo pieno nel mare di Torre Colimena; un’opera che le popolazioni non vogliono e che la politica, quella che decide, ha invece accettato. Prima bisogna partire da un presupposto: il depuratore sulla costa deve per forza scaricare il troppo pieno in mare. Per cui si era proposto di spostarlo più nell’entroterra.

C’erano tutti riusciti, il 7 aprile del 2017, in uno storico incontro che si tenne negli uffici della Regione Puglia a Bari dove si firmò un protocollo d’intesa in cui si individuava una zona più spostata verso l’interno (Contrada Serpenti). Quel documento fu firmato all’unanimità dai due comuni di Manduria e Avetrana, dalle associazioni e comitati ambientalisti con i propri tecnici e dalla Regione Puglia. In quell’accordo si stabilì che il Comune di Avetrana avrebbe dovuto deliberare la disponibilità di ospitare nel proprio depuratore una parte di reflui delle marine manduriane, mentre il comune di Manduria doveva deliberare lo stesso atto consiliare confermando la volontà di spostare il depuratore dalla costa. La decisione fu annunciata trionfalmente sul palco in piazza Garibaldi a Manduria davanti ai diecimila manifestanti che parteciparono alla manifestazione ambientalista del «Si al depuratore, No sulla costa, No scarico a mare».

Il 9 aprile 2017 il comune di Avetrana adempì all’impegno deliberando in Consiglio comunale. Per l’11 aprile il presidente del Consiglio comunale di Manduria, Enzo Andrisano, convocò la seduta consigliare con all’ordine del giorno lo spostamento del sito del depuratore. Gli ambientalisti esultarono, non tutti per la verità perché Legambiente poneva riserve sui «Serpenti». Ma erano la minoranza e tutto sembrava ormai deciso.

La mattina del Consiglio accadde qualcosa. Il giornalista-imprenditore Bruno Vespa scrive una accorata lettera che indirizza al sindaco di Manduria, Roberto Massafra e a tutti i consiglieri che nel pomeriggio avrebbero dovuto approvare lo spostamento del sito. Nella lettera si legge. «Caro Signor Sindaco, Caro Roberto (Massafra, il sindaco, Ndr) Cari Signori Consiglieri, mi ha chiamato allarmatissimo Gianfranco Fino (altro imprenditore del vino con interessi in quella zona “Serpenti”, Ndr), anche a nome delle altre Masserie e delle strutture produttive della nostra zona sulla ipotesi dello spostamento del depuratore dalle aree già indicate a quella della Masseria Serpenti. Per le nostre strutture ricettive e produttive sarebbe la rovina.Per me personalmente un fortissimo disincentivo agli investimenti compiuti e a quelli programmati. Ho il più alto rispetto per il comune di Avetrana, ma credo che sarebbe folle penalizzare una delle aree più pregiate del Primitivo di Manduria. Vi saremmo tutti assai grati se poteste scongiurare questo pericolo. Grazie e un caro saluto a tutti». Le parole di Vespa che parla a nome di altri imprenditori della zona, destabilizzano i politici e il sindaco. Il Consiglio comunale di Manduria salta per mancanza di numero legale.

Il 12 aprile si riunisce in seconda convocazione e, a maggioranza dei voti, si decide di ritirare il punto sullo spostamento del depuratore. Il primo luglio nuovo consiglio che ripropone quel punto ma viene bocciato. Gli unici a votare favorevolmente allo spostamento furono cinque consiglieri: Arcangelo Durante, Marcello Venere, Antonio Giuliano, Mariagrazia Cascarano e Mario Doria. In quella occasione l’allora sindaco Massafra dichiarò che: «la maggior parte dei manduriani è contraria alla costruzione del depuratore in contrada Serpenti quanto lo è anche per la zona Urmo e per qualsiasi località vicino alla costa». La storia seguente la stiamo vivendo ora. Nazareno Dinoi

Vespa scrive a La Voce: io nessun interesse da difendere al Serpenti, ma sollecitato da altri colleghi e dalle preoccupazioni del sindaco. La redazione de La Voce di ​Manduria, martedì 16 luglio 2019. In merito all’articolo di “La Voce di Manduria” sul depuratore di Urmo apparso il 13 aprile scorso, desidero precisare quanto segue:

1. Quando ho scritto la lettera dell’aprile 2017 a proposito dell’ipotesi che il depuratore sfociasse nei pressi di Masseria Serpenti, lo feci su sollecitazione di molti imprenditori che temevano di compromettere lo sviluppo delle loro attività vinicole e turistiche. Personalmente ero molto preoccupato per il futuro di una intera area, ma tra i meno direttamente interessati, visto che i miei tre vigneti distano rispettivamente due, quattro e diciannove chilometri in linea d’aria dalla zona Serpenti dove non ho proprietà alcuna.

2. E’ falso che nel Consiglio comunale di Manduria tutti fossero favorevoli al depuratore in zona Serpenti. Il sindaco e una parte dei consiglieri erano molto contrari (il sindaco me lo disse apertamente prima che scrivessi la lettera)e dopo il rinfocolarsi di questa polemica mi fa piacere constatare che l’allora vice sindaco scrivendo nell’aprile 2017alla “Voce di Manduria” abbia elencato lunga serie di vincoli che avrebbero impedito la localizzazione del depuratore a Serpenti. L’avvocato Gianluigi De Donno parla del sito archeologico messapico, del “meraviglioso bosco dei Serpenti” e cita la vicinanza ad alcune belle masserie, Marcantuddu e Potenti. Non viene citata la nostra Masseria Li Reni.

3. Mi fa piacere che il governatore Emiliano si sia messo a disposizione per trovare la soluzione più idonea. Il depuratore va fatto per migliorare le condizioni igieniche e ambientali e non per peggiorarle. E non sarà difficile trovare un sistema che salvaguardi l’integrità del paesaggio e le aree agricole più pregiate. Al tempo stesso è molto sospetto che a freddo, a più di due anni di distanza, si riprenda e si personalizzi una polemica che può avere risvolti molto sgradevoli. Una signora ha invitato i suoi seguaci su Facebook a radere al suolo i miei vigneti e a dargli fuoco. Di questo si occuperà l’autorità giudiziaria, come avvenne quando anni fa un mio vigneto fu danneggiato. Ma questa carica di odio mi sorprende e mi amareggia. Più d’uno mi chiede se valeva la pena che facessi investimenti di milioni a Manduria visto che i risultati sono questi. Io rispondo che la grande maggioranza dei manduriani sono gente per bene e ospitale, desiderosa sinceramente di valorizzare la propria terra .Non mi pento perciò di aver trascurato offerte di fare vino in altre regioni, dal Veneto alla Toscana, dal mio Abruzzo alla Sicilia.

Sono innamorato della Puglia e ci resto. Ho promosso questa terra in Italia e all’estero. Non cerco gratitudine, ma non accetto offese e minacce. Reagirò pertanto con ogni mezzo a squallide azioni intimidatrici. Bruno Vespa

A Manduria qualcosa non va. Non voglio pensare che tutti i cittadini del paese messapico siano in sintonia con i loro amministratori. Al contrario, la cosa sarebbe grave e da far pensare.

Gli amministratori manduriani, che si presume rappresentino tutta la cittadinanza di Manduria, sembra che adottino provvedimenti amministrativi paradossali e poco condivisibili dal resto del mondo.

Gli amministratori manduriani e quelli savesi, pur avendo un vasto territorio idoneo alla bisogna, furbescamente, prima hanno deciso di disfarsi delle loro feci, scaricandoli sul territorio di Avetrana, con la realizzazione del depuratore consortile a fianco dell’Urmo, frazione turistica di Avetrana ad 1 km dal mare, giusto per rovinare lo sviluppo turistico di Avetrana, poi, non contenti decidono di sversare il liquame nel mare prospiciente, di competenza manduriana.

Questo con la colpevole, se non dolosa, complicità dei rappresentanti locali e regionali di tutti gli schieramenti politici: da Calò, Massaro fino a Massafra; da Fitto a Vendola.

Non è che per anni Manduria abbia fatto qualcosa per quel suo territorio di costa. Abusivismo, abbandono e degrado. Quello che fa Maruggio con Campomarino, o Porto Cesareo per sé e con Torre Lapillo per valorizzare la costa e creare sviluppo e lavoro, (giusto per citare i loro vicini più prossimi), per i manduriani è una missione impossibile.

Cosa si può pensare di una amministrazione che ti vieta addirittura il parcheggio per le auto dei bagnanti pendolari che dall’entroterra si versano sulla costa. Giusto per respingerli come se fossero migranti venuti dall’Africa. E poi per difendere cosa? Se non una costa abbandonata e desolata.

Per i manduriani considerare il Salento come la nuova El Dorado del turismo al pari del resto della Puglia o della Versilia o del litorale marchigiano romagnolo è una utopia scolastica. Purtroppo i limiti culturali ed imprenditoriali son quelli. Chissà se gli amministratori manduriani hanno mai visitato quei luoghi, giusto per imparare qualcosa dai loro colleghi.

Oggi che si vedono stretti in un cul de sac dalle proteste di tutte le popolazioni spalleggiate dalle loro amministrazioni comunali dei paesi limitrofi per la questione depuratore consortile, il Consiglio Comunale di Manduria ha approvato all’unanimità l’avvio dell’iter per l’istituzione di un’area marina protetta a tutela degli ecosistemi marini e costieri del tratto di mare che ricade nella giurisdizione della città messapica. I diciotto chilometri della costa di Manduria si allungano in direzione sud-ovest da Torre Borraco a Torre Columena dove arrivano le ultime propaggini delle Murge Tarantine, passando per San Pietro in Bevagna. Quasi a tempo di record, quindi, la proposta avanzata dal circolo di Manduria di Legambiente è stata recepita dall’intero consesso elettivo. Legambiente ha prodotto tutta la documentazione necessaria, oltre alle cartine dell’area interessata. Il Consiglio Comunale, pertanto, non si è lasciato sfuggire l’occasione di avviare l’iter per dotarsi di uno strumento per loro prezioso.

Ergo: sotto l’egida degli ambientalisti hanno approvato l’adozione di un progetto di desertificazione. Le mire degli ambientalisti manduriani è come quello degli ambientalisti tarantini: anziché incrementare aziende sanificate tendono a desertificare il territorio dal tessuto produttivo.

L’adozione della proposta assomiglia alla barzelletta di quel marito tradito che per punire la moglie si taglia il…….

In un periodo di recessione, intervenendo sullo sviluppo, impedendone la crescita è un paradosso.

Per chi vuol sapere cosa sia una Area Marina Protetta, basta leggere Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

L'area naturale marina protetta, definita per comodità, anche a livello internazionale, generalmente e più brevemente solo come area marina protetta o AMP, è una zona di mare circoscritta, in genere di particolare pregio ambientale e paesaggistico, all'interno della quale è in vigore una normativa limitativa e protettiva dell'habitat, delle specie e dei luoghi, e relativa alla regolamentazione e gestione delle attività consentite. Rientrano nell'ambito delle aree naturali protette e spesso sono anche definite riserve; in alcune di esse viene consentita anche la pesca commerciale tradizionale, presumibilmente non distruttiva.

In Italia dopo un lunghissimo iter di studio e fattibilità, contrastato soprattutto da pescatori, persone e politici con interessi particolari soprattutto speculativi all'interno delle aree dove ne era prevista l'istituzione, un estenuante e acceso dibattito politico nonché un profondo ritardo nei confronti di tutti gli stati occidentali, è stata finalmente attuata una legge quadro ed infine nel giro di diversi anni sono state infine istituite nel tempo tutte le aree marine ora in esercizio.

Le motivazioni di base erano e sono la necessità di preservare l'ambiente ed in particolare la flora, la fauna e la geologia delle aree prese in esame, di rendere impossibile o limitare, se non per motivi di effettiva necessità istituzionali, la costruzione di nuovi edifici e di non effettuare attività turistiche, commerciali ed industriali che potessero in qualche modo snaturare e danneggiare e fasce costiere di tali località, anche se in effetti le tardive istituzioni hanno consentito negli anni passati di costruire alberghi e insediamenti abitativi completamente inadeguati e fuori dalle logiche ambientalistiche all'interno delle aree costiere di pregio. Le AMP sono in pratica delle zone dove è praticamente molto difficile se non impossibile costruire lungo i litorali nuovi edifici, nel caso possono e devono essere restaurati e resi fruibili per le normali attività degli enti e associazioni preposti alla tutela, valorizzazione e promozione di tali aree.

Una delle peculiarità delle regole dell’AMP è quella di limitare le attività di pesca e prelievo con delle regolamentazioni specifiche, ma anche quella di promuovere ed effettuare dei programmi di studio, ricerca e ripopolamento abbinati a dei programmi didattici ed educativi che permettano la maggiore conoscenza e sensibilità nei confronti della natura.

In Italia le aree sono suddivise in 3 zone denominate zona "A", zona "B" e zona "C" Le zone "A" sono delle aree delimitate dove non è possibile svolgere alcuna attività, quindi neanche il transito e la balneazione, che non sia di carattere scientifico e di controllo, mentre le zone "B" e "C" sono fruibili ma con relativi limiti alla pesca e agli attrezzi utilizzabili ed alla velocità di transito, in genere sotto i 6 nodi vicino alle coste. La pesca sportiva con canne e lenze è generalmente consentita con autorizzazioni contingentate mentre la pesca subacquea sportiva è completamente vietata, ed è consentita solo la pesca subacquea professionale limitatamente alla raccolta del riccio di mare Paracentrotus lividus che hanno raggiunto la taglia commerciale e solo in apnea, con ulteriore limitazione delle quantità prelevabili.

In poche parole Area Marina Protetta significa area marina e costiera non più fruibile da alcuno, residente o turista.

Bene, ma come si concilia da desertificazione e quindi l’inibizione di qualsivoglia opera urbanistica igienico sanitaria con la sanificazione di tutta un’area aggredita dall’edilizia abusiva con migliaia di case che scaricano i liquami domestici nella falda acquifera?

C’è da chiedersi: a Manduria come si scelgono i rappresentanti politici? Per la loro capacità o solo per la loro ambizione e capacità di proporsi per apparire?

DEPURATORI. COME CI PRENDONO PER IL CULO.

Dal 23 luglio 2014 una piattaforma attrezzata per le trivellazioni marine ha effettuato dei carotaggi (trivellazioni per prelevare campioni da esaminare), nei fondali in zona Specchiarica, marina di Manduria, scrive “La voce di Manduria”. La società che se ne occupa è la Ce.Sub. di San Giorgio, incaricata dalla ditta Putignano, l’impresa aggiudicataria dei lavori di realizzazione del depuratore con scarico a mare. I lavori già autorizzati dalla Capitaneria di porto prevedono «l’esecuzione di un’indagine stratigrafica dei fondali marini tramite attività di carotaggio continuo e l’esecuzione di video riprese subacquee lungo l’asse di varo della condotta negli specchi acque meglio di seguito individuati, propedeutici alla costruzione di una condotta sottomarina asservita all’impianto di depurazione e collettori di scarico a servizio degli abitanti di Sava e Manduria».  Di tali lavori di carotaggio sono stati già informati sia la Regione Puglia che il Comune di Manduria. A quest’ultimo la comunicazione è pervenuta proprio mercoledì 23. Sicuramente prima al presidente Nichi Vendola e al suo assessore ai Lavori Pubblici, Giovanni Giannini che proprio lunedì (due giorni prima che al comune di Manduria arrivasse il fax dell’Aqp), ha incontrato i sindaci di Manduria, Sava, Avetrana e Maruggio ai quali – invitati a Bari proprio per discutere la questione depuratore -, non è stata data comunicazione di un iter oramai più che avviato. Alla vigilia dell’importante incontro sulle sorti del depuratore consortile tra gli assessori regionali Giannini e Nardoni, rispettivamente ai lavori pubblici e all’agricoltura, e i sindaci di Sava, Manduria e Avetrana, il primo cittadino di Sava, Dario Iaia, che ha chiesto e ottenuto l’incontro, prende posizione e lancia la proposta che «potrebbe mettere d’accordo tutti». «E’ necessario – dice – che vi sia un ulteriore sforzo da parte degli organi regionali per finanziare e rendere concreto un maggiore affinamento delle acque reflue ed il riuso in agricoltura, con lo sversamento dei reflui nelle cave di Avetrana o nei terreni messi a disposizione dal comune di Manduria, prevedendo la condotta sottomarina solo per i casi di emergenza». Consapevole delle resistenze che opporranno alla sua proposta «gli oltranzisti dell’ambiente i quali si opporranno sempre e comunque a qualunque soluzione», il sindaco Iaia presenta per la prima volta una proposta alternativa al vecchio progetto dell’acquedotto pugliese che, allo stato dei fatti, prevede un depuratore sulla costa manduriana con lo sversamento nel mare di Specchiarica attraverso una condotta sottomarina, dei reflui non affinati. La proposta del sindaco di Sava è sostanzialmente identica a quella che il sindaco di Manduria ha ribadito nel corso di una riunione avuta venerdì mattina nel suo studio con i rappresentanti dei comitati ambientalisti di Manduria e Avetrana. Il sindaco savese ha le idee chiare in proposito. «Ho chiesto ai miei colleghi sindaci ed agli assessori Nardoni e Giannini di insediare un tavolo politico – afferma Iaia – per confrontarci, ancora, su quale possa essere la soluzione più condivisa per risolvere questa annosa questione. Come abbiamo avuto modo di chiarire anche in altre occasioni – continua il primo cittadino di Sava – questo non può più essere il tempo dell’attesa, ma deve essere quello della decisione e della responsabilità che deve essere assunta da chi ha ruoli politico amministrativi. Il mio comune con 17 mila abitanti – sottolinea Iaia – non può più attendere la realizzazione di quest’opera perché le condizioni igienico sanitarie sono al limite, a meno che – avverte – non si voglia che si ritorni a parlare di colera anche da noi. Queste considerazioni, avverte il sindaco Iaia, valgono anche per Manduria, per Avetrana e per le marine, «ancora oggi – ricorda – prive completamente o in gran parte di sistema fognario». Rivolgendosi agli ambientalisti soprattutto avetranesi, il sindaco di Sava conclude così il suo intervento: «dovrebbero ammettere – dice – che oggi tutti noi stiamo inquinando la falda acquifera e quindi il mare; anche se non lo vediamo lo sappiamo ed è sufficiente guardare i dati dell’Arpa sul decadimento della qualità delle acque nei mesi estivi, causato dagli scarichi in falda». Alla luce di questo nuovo intervento di Sava le posizioni delle parti si possono così delineare. Le istituzioni di Manduria e Sava, mantenendo ferma la necessità di un nuovo depuratore, spingono per l’ambientalizzazione dell’opera: sì al depuratore; sì all’affinamento dei reflui da utilizzare per uso irriguo; sì alla condotta sottomarina a Specchiarica ma solo per il troppo pieno quando cioè le falde o le cave non riusciranno a smaltire la quantità dei reflui prodotta in eccesso. Le istituzioni di Avetrana e gli ambientalisti più convinti (questi ultimi quasi tutti avetranesi), dicono no al depuratore sulla costa, no alla condotta sottomarina e sì alle alternative delle cave o trincee drenanti. Insieme alla comunicazione di inizio lavori di carotaggio, l’Acquedotto pugliese ha fatto sapere come si muoverà sino al completamento dell’opera (depuratore tabella 2 con condotta sottomarina di un chilometro) che dovrebbe entrare in esercizio il 15 marzo del 2017 mentre i lavori, sempre secondo il cronoprogramma della società che lo gestirà (l’Aqp stessa), termineranno il 15 luglio del 2016. L’apertura vera e propria del cantiere invece, è stata fissata per il prossimo 15 settembre 2014.

Questo non basta. In piena estate e in periodo di fulcro turistico si impedisce la balneazione. Secondo quanto previsto dall’ordinanza della Capitaneria di Porto che autorizza l’impresa «Ce. Sub», incaricata di effettuare i sondaggi e le videoriprese dei fondali dove sarà ancorata la condotta del depuratore, tutta la zona interessata deve essere interdetta alla balneazione, navigazione e pesca. Questo sino alla fine delle operazioni prevista per il 10 agosto. Sino a quella data, quindi, una vasta zona di mare (una lingua larga 400 metri e lunga un chilometro in direzione di Specchiarica) è off-limits. «Negli specchi d’acqua sopra indicati – si legge infatti nell’ordinanza della capitaneria – durante le attività specificate sono vietate la navigazione di qualsiasi unità navale, la pesca e qualsiasi altra attività legata all’uso del mare».

Non hanno perso tempo e sono passati ai fatti gli avetranesi che per protesta hanno bloccato la litoranea. Sin dalle prime ore del pomeriggio gli attivisti dei comitati avetranesi e semplici residenti della zona di Specchiarica si sono raccolti sul tratto di spiaggia dove, al largo, erano in corso i lavori di trivellazione e carotaggio. Ne è nata una manifestazione spontanea cresciuta a dismisura. Il gruppetto di protestanti si è trasformato in folla rumorosa e arrabbiata composta anche da ambientalisti manduriani. I manifestanti tra cui alcuni amministratori di Avetrana, hanno detto che non si muoveranno da lì sino a quando non si fermeranno i lavori. Disagi intanto sono stati creati alla circolazione per l’interruzione della litoranea all’altezza del Bar D’Alì nella Marina di Specchiarica. Tra le proposte di lotta avanzate, oltre al sit in permanente, la raccolta firme e l’occupazione pacifica con imbarcazioni civili del tratto di mare interessato ai saggi della ditta di San Giorgio. Durante i comizi improvvisati non sono mancate accuse di lassismo al popolo e alle istituzioni di Manduria. Assenti gli amministratori messapici.

Già tutte anime candide. E vi si elencano.

Gli Amministratori di Manduria e Sava vogliono sversare la loro “merda” nel territorio di avetrana: «E’ necessario – dice – che vi sia un ulteriore sforzo da parte degli organi regionali per finanziare e rendere concreto un maggiore affinamento delle acque reflue ed il riuso in agricoltura, con lo sversamento dei reflui nelle cave di Avetrana o nei terreni messi a disposizione dal comune di Manduria, prevedendo la condotta sottomarina solo per i casi di emergenza» Dice il Sindaco di Sava Daio Iaia. La proposta del sindaco di Sava è sostanzialmente identica a quella che il sindaco di Manduria Roberto Massafra ha ribadito nel corso di una riunione avuta nel suo studio con i rappresentanti dei comitati ambientalisti di Manduria e Avetrana.

I manduriani, si sa, sono inconcludenti dal punto di vista amministrativo; litigiosi e polemici dal punto di vista politico; sono molto volpini, così come i savesi, se devono fottere i vicini stupidi, come sono quelli di Avetrana. Il progetto sul depuratore e sullo scarico a mare fu avviato da Antonio Calò e proseguito da Francesco Saverio Massaro, Paolo, Tommasino Roberto Massafra.

I governatori e le giunte regionali hanno autorizzato i depuratori e gli scarichi a mare, (quindi non solo quello consortile di Manduria-Sava posto a confine al territorio di Avetrana e sulla costa). I vari governatori sono stati Raffaele Fitto del centro destra e Nicola Vendola del centro sinistra. Entrambi gli schieramenti hanno preso per il culo le cittadinanze locali, preferendo fare gli interessi dell’Acquedotto pugliese, loro ente foriero di interessi anche elettorali.

Le popolazioni in rivolta, in particolare quelle di Avetrana, sono sobillate e fomentate da quei militanti politici che ad Avetrana hanno raccolto, prima e dopo l’adozione del progetto, i voti per Antonio Calò alle elezioni provinciali e per tutti i manduriani che volevano i voti di Avetrana. Il sindaco Luigi Conte, prima, e il sindaco Mario De Marco, dopo, nulla hanno fatto per fermare un obbrobrio al suo nascere. Conte ha pensato bene, invece, con i soldi pubblici, di avviare una causa contro Fitto per la riforma sanitaria. In più, quelli del centro destra e del centro sinistra, continuavano e continuano ed essere portatori di voti per Raffaele Fitto e per Nicola Vendola, o chi per loro futuri sostituti, e per gli schieramenti che li sostengono.

Certo, però, è che la ritorsione non si è fatta attendere.

Gestiva un chiosco-bar in muratura con tanto di tettoria ricoperta in legno per la sistemazione di tavolini e sedie per gli avventori direttamente realizzato sulla spiaggia libera, in un tratto di pubblico demanio marittimo del litorale del comune di Manduria, per la precisione in località Specchiarica, per una superficie totale abusivamente occupata di circa 200 mq., all’interno della quale i militari accertatori appartenenti al Nucleo Difesa mare della Guardia Costiera di Taranto hanno rinvenuto anche un ripostiglio in legno, una vasca di stoccaggio e persino una fossa imhoff, il tutto in difetto di alcun titolo concessorio che legittimasse l’occupazione di pubblico demanio oltre che di alcuna concessione edilizia rilasciata dal Comune competente, scrive “La Voce di Manduria” in questo lunghissimo periodo senza soluzione di continuità sintattica. All’atto del controllo, condotto in prima mattinata del 24 luglio 2014 , il chiosco, ubicato in un tratto di litoranea altamente frequentato da turisti e bagnanti, iniziava ad affollarsi per il sopraggiungere di clienti, che sorpresi del fatto che l’intera struttura fosse completamente abusiva, hanno assistito agli accertamenti condotti dal personale militare procedente. Di tutta l’operazione è stata prontamente informata la Procura della Repubblica di Taranto che ha disposto l’immediato sequestro penale di tutte le opere abusive realizzate. Il titolare del chiosco-bar è stato quindi denunciato dai militari procedenti per la abusiva occupazione ai sensi dell’articolo 1161 del Codice della Navigazione.

“Ecco un esempio come in Italia funzionano i controlli. Quel kiosco si trova là da minimo 40 anni, prima era invisibile o altro!!!”, commenta Maria.

“Ma dai un ristoro come ce ne sono a centinaia. Proprio un comune pochissimo virtuoso come quello di Manduria che fa le pulci ad un poveraccio che tira a campare. Ma mi faccia il piacere se volete controllare andate a vedere quello che non viene fatto per gli abitanti di tutta la Marina di Manduria.Mancanza di acqua potabile e fognatura per cominciare. Ma proprio per cominciare……”, scrive invece Rossiandrea900.

L’acquedotto Pugliese, invece, fa gli affari suoi. Non riusa i reflui della depurazione per l’agricoltura perché troppo oneroso. Come se l’acqua resa non se la facesse pagare.

La stampa, poi, più che altro è manduriana o tarantina. Sai quanto se ne fottono di quei quattro indigeni avetranesi?

Basta guardare cosa succede a chi sputa nel piatto in cui si mangia.

E’ stato licenziato Luigi Abbate, il giornalista di Taranto divenuto famoso per le sue domande scomode e il microfono che gli fu strappato dalle mani durante una conferenza stampa da Girolamo Archinà, il responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva, arrestato nell’ambito dell’inchiesta della magistratura tarantina "Ambiente Svenduto". Lo scrive in una nota il presidente di Assostampa Puglia, Raffaele Lorusso. Già un anno fa, nell'assordante silenzio delle istituzioni e delle forze politiche di Taranto, Blustar Tv - scrive Lorusso - licenziò quattro giornalisti adducendo quale motivazione il venir meno dei centomila euro annualmente garantiti dall'Ilva.

Sentiamo la voce del dissenso dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e dell’Associazione Pro Specchiarica entrambe di Avetrana. La prima a carattere nazionale e la seconda prettamente di interesse territoriale. Il perché di un rifiuto a partecipare alla lotta con gli altri, spiegato dal Dr Antonio Giangrande, componente del direttivo di entrambe le associazioni avetranesi.

«L’aspetto da affrontare, più che legale (danno emergente e lucro cessante per il territorio turistico di Avetrana) è prettamente politico. La gente di Avetrana non si è mobilitata in massa e non vi è mobilitazione generale, come qualcuno vuole far credere, perché è stufa di farsi prendere in giro e conosce bene storia e personaggi della vicenda. Hanno messo su una farsa poco credibile, facendo credere che vi sia unità di intenti.» Esordisce così, senza giri di parole il dr Antonio Giangrande.

«Partiamo dalla storia del progetto. La spiega bene il consigliere comunale Arcangelo Durante di Manduria: “Che la realizzazione a Manduria di un nuovo depuratore delle acque reflue fosse assolutamente necessario, era già scontato; che la scelta del nuovo depuratore non sia stata fatta dall’ex sindaco Francesco Massaro,  ma da Antonio Calò, sindaco prima di lui, ha poca importanza. Quello che invece sembra molto grave, è che il sindaco Massaro, in modo unilaterale, nel verbale del 12 dicembre 2005 in allegato alla determina della Regione Puglia di concessione della Via (Valutazione d’Impatto Ambientale), senza informare e coinvolgere il consiglio comunale sul problema, ha indicato il mare di Specchiarica quale recapito finale del depuratore consortile”. Bene. Da quanto risulta entrambi gli schieramenti sono coinvolti nell’infausta decisione. Inoltre questa decisione è mirata a salvaguardare il territorio savese-manduriano ed a  danneggiare Avetrana, in quanto la localizzazione del depuratore è posta sul litorale di Specchiarica, territorio di Manduria (a poche centinaia di metri dalla zona residenziale Urmo Belsito, agro di Avetrana)».

Continua Giangrande, noto autore di saggi con il suffisso opoli (per denotare una disfunzione) letti in tutto il mondo. «L’unitarietà della lotta poi è tutta da verificare. Vi sono due schieramenti: quello di Manduria e quello di Avetrana.  Quello di Manduria è composto da un coordinamento istituito solo a fine maggio 2014 su iniziativa dei Verdi e del movimento “Giovani per Manduria” con il comitato “No Scarico a mare” di Manduria. Questo neo coordinamento, precedentemente in antitesi, tollera il sito dell’impianto, purchè con sistema di filtrazione in tabella IV, ma non lo scarico in mare;  quello di Avetrana si oppone sia alla condotta sottomarina che alla localizzazione del depuratore sul litorale di Specchiarica. Il comitato di Avetrana (trattasi di anonimo comitato ed è tutto dire, ma con un solo e conosciuto uomo al comando, Pino Scarciglia)  ha trovato una parvenza d’intesa fra tutti i partiti, i sindacati e le associazioni interpellate, per la prima volta sabato 17 maggio 2014, e si schierano compatti (dicono loro), superando ogni tipo di divisione ideologica e ogni steccato, che sinora avevano reso poco incisiva la mobilitazione. In mattinata del 17 maggio, il Consiglio Comunale di Avetrana si è riunito per approvare, all’unanimità, la piattaforma di rivendicazioni già individuata nella riunione fra il comitato ristretto e i rappresentanti delle parti sociali. In serata, invece, maggioranza e minoranza sono saliti insieme sul palco di piazza Giovanni XXIII per rivolgere un appello alla comunità composta per lo più da forestieri. Si legge nel verbale dell’ultima riunione del Movimento. “E’ abbastanza chiaro, inoltre, che le Amministrazioni Comunali di Manduria, che si sono succedute nel tempo da 15 anni a questa parte, non hanno avuto nè la volontà nè la capacità di modificare o di bloccare questo obbrobrio, trincerandosi dietro a problematiche e a questioni tecniche/burocratiche, a parer loro, insormontabili”. Il gruppo di lavoro unitario avetranese è composto da consiglieri di maggioranza e minoranza (Cosimo Derinaldis, Antonio Baldari, Pietro Giangrande, Antonio Lanzo, Emanuele Micelli e Rosaria Petracca). “Vorrei innanzitutto far notare come, finalmente, si stia superando ogni tipo di steccato politico o ideologico – afferma l’assessore all’Agricoltura e al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. Steccato veramente superato? A questo punto reputo poco credibile una lotta portata avanti da chi, di qualunque schieramento, continui a fare propaganda politica contrapposta per portare voti a chi è ed è stato responsabile di questo obbrobrio ai danni dei cittadini e ai danni di un territorio incontaminato. Quindi faccio mia la domanda proposta da Arcangelo Durante “Bisogna dire però, che il presidente Vendola è in misura maggiore responsabile della questione, poichè di recente ha firmato il decreto di esproprio, nonostante che, prima il consiglio comunale dell’ex amministrazione Massaro e dopo quello dell’amministrazione Tommasino, si siano pronunciate all’unanimità contrarie allo scarico a mare. Presidente Vendola, ci può spiegare come mai, quando si tratta di opere che riguardano altri territori, vedi la Tav di Val di Susa, reclama con forza l’ascolto e il rispetto dei cittadini presenti sul territorio; mentre invece, quando si tratta di realizzare opere che interessano il nostro territorio, (dove lei ha il potere) non rivendica e utilizza lo stesso criterio, come l’ultimo provvedimento da lei adottato in qualità di Commissario Straordinario sul Depuratore?”»

A proposito del depuratore consortile con scarico nel mare incontaminato di Specchiarica.

Un comitato si è formato per fermare quello che il Comune di Manduria, l'Acquedotto Pugliese e la Regione Puglia vogliono fare in prossimità della località "Ulmo Belsito", frazione turistica di Avetrana, ossia il depuratore con lo scarico a mare nella marina incontaminata di Specchiarica, frazione di Manduria; nessuno, invece, ha mai alzato la voce per obbligare a fare quello che si ha sacrosanto diritto a pretendere di avere come cittadini e come contribuenti che sul posto pagano milioni di euro di tributi.

Comunque, i comitati in generale, non questo in particolare, sono composti da tanti galletti che non fanno mai sorgere il sole e guidati da personaggi saccenti in cerca di immeritata visibilità o infiltrati per parte di chi ha interesse a compiere l'opera contro la quale lo stesso comitato combatte. Questi comitati sono formati da gente compromessa con la politica e che ha come referenti politici gli stessi che vogliono l'opera contestata, ovvero nulla fanno per impedirlo. Valli a capire: combattono i politici che poi voteranno alle elezioni. Spesso, poi, ci sono gli ambientalisti. Questi a volte non sanno nemmeno cosa significhi amore per la terra, la flora e la fauna, ma per ideologia impediscono il progresso e pretendono che si torni all'Età della Pietra. Ambientalisti che però non disdegnano i compromessi speculativi, tanto da far diventare le nostre terre ampie distese desertiche tappezzate da pannelli solari che fanno arricchire i pochi. Pannelli solari che offendono il lavoro dei nostri nonni che hanno conquistato quei terreni bonificandoli da paludi e macchie. Sicuramente non vi sono professionisti competenti a intraprendere le azioni legali e giudiziarie collettive adeguate, anche con l'ausilio delle norme comunitarie. Di sicuro i membri del comitato non vogliono sborsare un euro e si impelagano in proteste infruttuose fine a se stesse. Se il singolo può adire il Tar contro un atto amministrativo che lede un suo interesse legittimo (esproprio), la comunità può tutelare in sede civile il diritto alla salute ed all'immagine ed alla tutela del proprio patrimonio.

Per quanto riguarda la costruzione ed il funzionamento del depuratore vi sono norme attuative regionali che regolano la materia. A livello nazionale invece, si fa riferimento ai due decreti legislativi il n. 152/06 (“Norme in materia ambientale”) e il n. 152/99 (recante “Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole”) che, recependo la normativa comunitaria allo scopo di tutelare la qualità delle acque reflue, disciplinano che gli scarichi idrici urbani siano sottoposti a diverse tipologie di trattamento in funzione della dimensione degli agglomerati urbani. Altro è il controllo successivo rispetto ai parametri microbiologici di riferimento, gli stessi fissati dal D. lgs. 116 del 30 maggio 2008 ad integrazione del D.p.r. n. 470 dell’ 8 giugno 1982, norma emanata in recepimento della direttiva 79/160/CEE sulla qualità delle acque di balneazione e ora sostituita dalla più recente direttiva 2006/7/CE. Il trattamento delle acque reflue urbane costituisce uno dei punti chiave della politica ambientale dell’Unione Europea. Gli agglomerati con più di 10.000 abitanti equivalenti che scaricano i loro affluenti in zone particolarmente sensibili (nel nostro caso l'Area Marina Protetta), dovranno intervenire per rispettare tali obblighi. Naturalmente questa direttiva rafforza la nostra convinzione che il progetto della Regione e dell'AQP non dovrebbe neanche essere più discusso. Che senso avrebbe, infatti, realizzare un'opera faraonica di decine di milioni di euro, che come ammette la stessa Europa sarebbe dannosa verso l'Ambiente, se sappiamo che sarà in contrasto con le indicazioni Comunitarie e quindi si dovranno spendere altri milioni di euro (che avremmo a disposizione se e chissà quando...), per adeguare il sistema di smaltimento a mare dei reflui fognari entro tre anni. Cioè quando l'eventuale opera dovrebbe essere appena terminata. Sarebbe davvero il colmo! Si rafforza, quindi, la necessità di modificare il piano di Tutela delle Acque della Regione Puglia, ormai superato dai fatti e dal prossimo quadro normativo dell'Unione Europea, nella direzione auspicata del riuso in agricoltura e/o per altri usi. Possibile che Regione ed AQP non siano a conoscenza di tali prossime disposizioni comunitarie e vogliano "buttare a mare" oltre ai reflui, anche milioni di euro? Comunque in base alla normativa imminente che incombe, ovvero alla lesione del diritto d’immagine e di proprietà, vi sono ampi spazi per intraprendere azioni giudiziarie collettive, anche d’urgenza, senza che ci si avvalga di strumentali proteste fine a se stesse. Insomma, con l'accidia e la negligenza si fa di tutto per impedire il turismo e con l'illogica inerzia o mala fede si frena la volontà imprenditoriale che crea lavoro ed investimenti.

Avetrana. Manifestazione contro il Depuratore consortile Manduria-Sava. 31 marzo 2017. Ad Avetrana, nell’indifferenza dei media, migliaia di persone da ogni dove venuti a dire no al depuratore consortile Manduria-Sava, da costruire al confine con la zona turistica di Avetrana, ed al relativo scarico al mare prospicente delle acque reflue di risulta.

L’opinione dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

A Sava e a Manduria va bene che si faccia scempio di quelle zone, sostenute da politici locali tarantini e regionali pugliesi, disinteressati agli interessi del posto. I media nazionali e locali, che se ne infischiano della questione, potrebbero pensare di avere a che fare con una cricca di ambientalisti comunisti anarchici, se non essere, addirittura, i giornalisti asserviti al potere.

Se io non fossi di Avetrana, ma fossi un barbaro leghista, però, me ne fotterei dell’aspetto ambientale, sì, ma non potrei esimermi, però, dal chiedermi come cazzo si fa a sperperare dei soldi pubblici, per perorare un’opera che dista una trentina di chilometri dal sito da servire. Se il costo dell’opera rientra nei bilanci pubblici, è inaccettabile ed illogico spendere soldi pubblici per chilometri di condutture, per portare la merda manduriana e savese alle soglie di Avetrana. E poi il costo dei tanti terreni da espropriare e dei tantissimi ulivi secolari da estirpare (se fossero autorizzati a farlo). La questione Tap a Lecce, in confronto, sarebbe un’inezia. A questo punto non sarebbe l’organo amministrativo ad essere interpellato, ma l’organo contabile della Corte dei Conti, affinchè gli amministratori incapaci possano pagare di tasca propria le nefandezze che combinano.

Depuratore di Specchiarica. I tanti padri di un fallimento. Ricordo molto bene quando Emiliano promise solennemente che lo scarico a mare imposto da Vendola non si sarebbe fatto.

Il Pd di Avetrana abbandona la linea Emiliano-Del Prete in tema di depurazione, scrive "La Voce di Manduria" il 12 marzo 2017. Al partito democratico di Avetrana non convince più il piano del governatore Michele Emiliano del depuratore con scarico emergenziale sul terreno e chiede di spostare il sito altrove. Dicendosi ora «da sempre contrari alla localizzazione nella località Urmo Belsito», appena due settimane fa i piddini avetranesi, esprimevano «la massima soddisfazione in merito alle decisioni che, in itinere, la Regione Puglia ed Acquedotto Pugliese, con il prezioso contributo dei Comuni Interessati, dei Consiglieri Regionali del territorio e quelli del Gruppo PD, e soprattutto del Prof. Mario Del Prete, sono in fase di elaborazione, riguardo il Depuratore Consortile Manduria-Sava». Evidentemente convinti a cambiare idea dall’onda di proteste della loro comunità che vuole contrastare a tutti i costi il progetto Aqp-Del Prete-Emiliano, gli esponenti del Pd di Avetrana scrivono ora che «i recenti sviluppi della vicenda, che prevedono uno studio di fattibilità per il superamento dello scarico in mare delle acque come recapito finale della depurazione, nonché il venir meno della realizzazione della rete fognaria nelle località marine di Manduria, rendono superata quella localizzazione. Si considera, infatti – aggiungono -, che un depuratore posto presso il mare abbia dei costi molto maggiori rispetto ad una struttura che dovrebbe servire solo ed esclusivamente i nuclei abitati di Manduria e Sava». Per questo, secondo quanta nuova linea, «Il Circolo di Avetrana del Partito Democratico chiede a gran voce che sia preso in considerazione lo spostamento del sito del Depuratore per i motivi sopra esposti, ovvero: la mancanza del servizio fognario presso le marine di Manduria, il superamento dello scarico in mare, ed i costi eccessivi di una condotta che da Sava dovrebbe arrivare fino a Urmo Belsito». Il Pd avetranese, infine, «invita tutte le componenti politiche e sociali di Avetrana a ritrovare l’unità per poter ottenere un risultato utile all’intera popolazione, piuttosto che intraprendere lotte in solitaria che non fanno altro che dividere il fronte e rendere vana la deliberazione unitaria del Consiglio Comunale del 17 febbraio scorso, in cui si confermava la contrarietà di Avetrana all’ubicazione del sito del depuratore».

SPECCHIARICA. Quando il turista malcapitato viene a San Pietro in Bevagna, a Specchiarica o a Torre Colimena dice: “qua non c’è niente e quel poco è abbandonato e pieno di disservizi. Non ci torno più!”. Al turista deluso e disincantato gli dico: «Campomarino di Maruggio, Porto Cesareo, Gallipoli, Castro, Otranto, perché sono famosi?» “Per il mare, per le coste, per i servizi e per le strutture ricettive” risponde lui. «Questo perché sono paesi marinari a vocazione turistica. Ci sono pescatori ed imprenditori e gli amministratori sono la loro illuminata espressione» chiarisco io. «E Manduria perché è famosa?» Gli chiedo ancora io. “Per il vino Primitivo!” risponde prontamente lui. Allora gli spiego che, appunto, Manduria è un paesone agricolo a vocazione contadina e da buoni agricoltori, i manduriani, da sempre i 17 km della loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna ed edificati abusivamente, perciò da trascurare. 

Specchiarica è Salento. Specchiarica è un territorio costiero posto sul lato orientale della marina di Taranto. E' una lontana frazione decentrata di Manduria, provincia di Taranto, attigua al confine territoriale di Porto Cesareo, provincia di Lecce. Specchiarica confina con altre frazioni manduriane: ad est con Torre Colimena; ad ovest con San Pietro in Bevagna. Specchiarica è meno nota delle precedenti località pur se, in periodo estivo, ospita il doppio dei loro villeggianti. Le sue spiagge sono alternativamente sabbiose e rocciose ed il mare è incontaminato. Specchiarica è delimitata da due importati risorse ambientali. Sul lato est di Specchiarica vi è la Salina dei Monaci, sul lato ovest vi è il fiume Chidro. Specchiarica è formata da 7 contrade: quota 10; quota 11; quota 12; quota 13; quota 14; quota 15; quota 16. Le contrade non sono altro che delle strade di campagna comunali perpendicolari alle parallele strade provinciali e statali: la litoranea Salentina e la Tarantina. Le strade contradaiole oggi asfaltate alla meno peggio, sono bucate da tutte le parti. Ai lati di queste strade comunali da sempre si è lottizzato e costruito abusivamente. Prima a ridosso della litoranea e poi man mano, fino all'interno senza soluzione di continuità. Migliaia di case e decine di strade che da private sono divenute pubbliche. Gli organi preposti giudiziari ed amministrativi, anzichè regolare questo scempio, lo hanno agevolato.

A Specchiarica è quasi impossibile arrivarci: non ci sono vie di collegamento degne di un paese civile. Non vi è una ferrovia: i treni si fermano a Taranto (50 km). Non vi è un aeroporto: gli aerei si fermano a Brindisi (50 km). Non vi sono autostrade: l'autostrada si ferma a Massafra (60 km). Non vi sono porti: le navi si fermano a Taranto o Brindisi. Non vi sono autolinee extraurbane: gli autobus si fermano a Manduria (20 km) e qualche volta ad Avetrana (6 km).

Di questo diciamo grazie a chi ci amministra a livello provinciale, regionale, statale, ma diciamo grazie anche alla maggioranza di chi abita il territorio, abulici ad ogni autotutela e servili con il potere per voto di scambio o altre forme di clientelismo. Compromessa con la politica, la maggior parte degli abitanti di Specchiarica sono consapevoli del fatto che tutte le abitazioni della zona (Specchiarica, ma anche San Pietro in Bevagna e Torre Burraco e Torre Colimena) sono insalubri (mancanza di fogna e acqua potabile) e quindi inabitabili, oltre che inquinanti la falda acquifera. Devono solo ringraziare le omissioni delle Autorità preposte allo sgombero degli immobili per sanità e sicurezza pubblica, se si può ancora usufruire di quelle case.

Gli abitanti di Specchiarica sono degni e meritevoli dell'irridenza e dello sberleffo dei "Polentoni" (mangia polenta ovvero un pò lentoni di comprendonio) che definiscono i "Terroni" retrogradi ed omertosi, anche se molti settentrionali abitano la zona e non si distinguono per niente dalla massa. Gli specchiarichesi anziché ribellarsi, subiscono e tacciono. In questo modo, per non pretendere quello che gli spetta, le loro proprietà sono svalutate ed improduttive.

Percorrendo la litoranea Salentina, Specchiarica, a guardarla dal lato del mare è un paradiso vergine ed incontaminato, ma volgendo gli occhi all'interno ci si trova un ammasso di immobili, per lo più seconde case, costruite tutte abusivamente nell'indifferenza delle istituzioni. L'urbanistica del posto non esiste, e quello che c'è, di fatto, è mancante di qualsivoglia servizio civico. Mancano: acqua potabile e sistema fognario, la cui mancanza incide sull'inquinamento della falda acquifera; percorsi di viabilità pedonale ed automobilistica; illuminazione pubblica e luoghi di svago e di ritrovo. Assurdo, ma manca addirittura una piazza e perfino i marciapiedi per camminare o passeggiare. Tempo fa a Specchiarica vi era un luogo di ritrovo. Un bar-ristorante-pizzeria con annesso parcheggio roulotte, parco giochi e sala da ballo all'aperto. Vi era movimento, luci, suoni, svago, intrattenimento. Svolgeva altresì la funzione di ufficio informazioni. Era frequentato per lo più dai turisti, ma era malvisto da molti locali, erosi dal tarlo dell'invidia, abituati all'assistenzialismo e disabituati all'iniziativa imprenditoriale ed all'emancipazione culturale ed economica. In precedenza quel luogo era usato come campo di calcio da comitati estemporanei di gente locale, per lo più di Avetrana, avendoselo appropriato illegalmente, senza ristoro economico per il proprietario. Un intrattenimento gratuito per chi si accontenta di poco o di niente e pretende che gli altri facciano lo stesso. Hanno perso il giocattolo nel momento in cui chi ne aveva diritto ha creato un'azienda. Pur essendo proprietà privata, dei "Pesare" noti possidenti di Avetrana prima di passare all'attuale legittima proprietà, le malelingue diffamatorie divulgarono la convinzione che il terreno fosse stato usurpato illegalmente a danno del demanio. Il venticello della calunnia tanto soffiò forte che un giorno d'inverno qualcuno appiccò il fuoco alla struttura. Un avvertimento del racket a chi non voleva pagare il pizzo o una mano armata dall'invidia. La calunnia ancor oggi è un venticello che non smette di soffiare. L'amministrazione pubblica non ha più dato modo ai proprietari di ricostruire quello che la mafia o l'invidia aveva distrutto. La mafia ti rovina la vita; lo Stato ti distrugge la speranza. Le rovine di un passato sono ancora lì a ricordarci l'incapacità degli amministratori pubblici di governare e gestire un territorio.

Il paradosso è che a Specchiarica ha più diritto una pianta vegetale, pur non inserita in un sistema protetto di macchia mediterranea, che un essere umano, la sua proprietà, la sua azienda.

Se tocchi una pianta o bruci le erbacce le autorità ti distruggono con la delazione di pseudo ambientalisti. Vi è indifferenza, invece, se si abitano case insalubri ed inabitabili, in zone prive di ogni strumento urbanistico.

L'amministrazione comunale di Manduria è incapace di dare un'immagine ed una regolamentazione affinchè il territorio sia una risorsa economica e sociale per il territorio. Specchiarica è un luogo desolato ed abbandonato a sè stesso. Posto nel limbo territoriale e culturale tra i comuni di Avetrana e Manduria è un luogo di vacanze. Ambìto da entrambi i Comuni, il territorio è oggetto di disputa sulla sua titolarità. Avetrana ne vanta l'autorità per precedenti storici e per l'infima prossimità. L'argomento ad Avetrana è l'unico tema per le campagne elettorali. I proprietari delle case o i locatari che li occupano temporaneamente (pagando affitti in nero) sono gente di varie origini anche estere o extra regionali o provinciali. I specchiarichesi per lo più sono di origini autoctone, ossia sono cittadini di Avetrana, ma anche di Erchie, Torre Santa Susanna, Manduria e di altri paesi pugliesi limitrofi che si affacciano sulla costa ionica.

Specchiarica ha un solo ristorante, un solo bar, un posteggio per roulotte: troppo poco per sfruttare economicamente la risorsa del turismo. Ma i locali son contenti così. I saccenti amministratori locali ed i loro referenti politici provinciali e regionali, anzichè impegnarsi a porre rimedio ad un danno economico e d'immagine incalcolabile, nel deserto hanno pensato bene di progettare lo sbocco a mare del depuratore fognario di Manduria e Sava (paesi lontani decine di chilometri), arrecando addirittura un probabile danno ambientale.

Un comitato si è formato per fermare quello che il Comune di Manduria, l'Acquedotto Pugliese e la Regione Puglia vogliono fare in prossimità della località "Ulmo Belsito", frazione turistica di Avetrana, ossia il depuratore con lo scarico a mare nella marina incontaminata di Specchiarica, frazione di Manduria; nessuno, invece, ha mai alzato la voce per obbligare a fare quello che si ha sacrosanto diritto a pretendere di avere come cittadini e come contribuenti che sul posto pagano milioni di euro di tributi.

Comunque i comitati in generale, non questo in particolare, sono composti da tanti galletti che non fanno mai sorgere il sole e guidati da personaggi saccenti in cerca di immeritata visibilità o infiltrati per parte di chi ha interesse a compiere l'opera contro la quale lo stesso comitato combatte. Questi comitati sono formati da gente compromessa con la politica e che ha come referenti politici gli stessi che vogliono l'opera contestata, ovvero nulla fanno per impedirlo. Valli a capire: combattono i politici che poi voteranno alle elezioni. Spesso, poi, ci sono gli ambientalisti. Questi a volte non sanno nemmeno cosa significhi amore per la terra, la flora e la fauna, ma per ideologia impediscono il progresso e pretendono che si torni all'Età della Pietra. Ambientalisti che però non disdegnano i compromessi speculativi, tanto da far diventare le nostre terre ampie distese desertiche tappezzate da pannelli solari e fotovoltaici che fanno arricchire i pochi. Pannelli solari che offendono il lavoro dei nostri nonni che hanno conquistato quei terreni bonificandoli da paludi e macchie. Sicuramente non vi sono professionisti competenti a intraprendere le azioni legali e giudiziarie collettive adeguate, anche con l'ausilio delle norme comunitarie. Di sicuro i membri del comitato non vogliono sborsare un euro e si impelagano in proteste infruttuose fine a se stesse. Se il singolo può adire il Tar contro un atto amministrativo che lede un suo interesse legittimo (esproprio), la comunità può tutelare in sede civile il diritto alla salute ed all'immagine ed alla tutela del proprio patrimonio.

Per quanto riguarda la costruzione ed il funzionamento del depuratore vi sono norme attuative regionali che regolano la materia. A livello nazionale invece, si fa riferimento ai due decreti legislativi il n. 152/06 (“Norme in materia ambientale”) e il n. 152/99 (recante “Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole”) che, recependo la normativa comunitaria allo scopo di tutelare la qualità delle acque reflue, disciplinano che gli scarichi idrici urbani siano sottoposti a diverse tipologie di trattamento in funzione della dimensione degli agglomerati urbani. Altro è il controllo successivo rispetto ai parametri microbiologici di riferimento, gli stessi fissati dal D. lgs. 116 del 30 maggio 2008 ad integrazione del D.p.r. n. 470 dell’8 giugno 1982, norma emanata in recepimento della direttiva 79/160/CEE sulla qualità delle acque di balneazione e ora sostituita dalla più recente direttiva 2006/7/CE.

Il sindaco di Avetrana aveva firmato per il depuratore a Ulmo, scrive il 10 settembre 2015 "La Voce di Manduria". Scarico a mare no, depuratore in zona Ulmo Belsito sì. E’ scontro su questo tra il vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia e il consigliere regionale di Torricella, Peppo Turco. Il numero due della giunta avetranese fomenta la polemica postando su facebook gli atti deliberativi e i documenti attestanti la contrarietà degli avetranesi non solo alla condotta sottomarina, ma anche all’ubicazione delle vasche di raccolta e deposito previste a due passi dalla zona residenziale di Ulmo Belsito. Il consigliere Turco, da parte sua, fa notare la differenza di vedute di Scarciglia con il suo sindaco il quale, spiega Turco, è invece favorevole al sito Ulmo. «Da sempre – scrive il vicesindaco di Avetrana – siamo stati contro lo sversamento in mare delle acque reflue e contro l’ubicazione del depuratore (collettore) nei pressi dell’unica località turistica del nostro comune». Come prova di questo, l’amministratore avetranese posta tutte le delibere prodotte negli anni che, in effetti, attestano l’opposizione degli avetranesi sia alla condotta che alla sede delle vasche». Il consigliere di Torricella che con il suo collega manduriano, Luigi Morgante hanno preso a cuore la vicenda del «no scarico a mare», richiama l’amico Scarciglia e fa emergere la contraddizione tra lui e il suo sindaco. «Gli atti – scrive Turco – sono che stai facendo una figuraccia; per vincere una campagna elettorale avresti dovuto dirci tutto prima e non dopo. Negli incontri – continua il consigliere regionale – abbiamo sempre parlato di condotta». Infine Turco smaschera il capo dell’amministrazione di Avetrana citando un documento da lui sottoscritto. «Perché – chiede a Scarciglia – non posti il documento sottoscritto dal tuo sindaco in cui accetta tutto?». Più imbarazzante, per l’amministratore di Avetrana, l’intervento pubblico dell’ambientalista Nicolò Giangrande che su Facebook ha pubblicato la lettera richiamata da Turco (con tanto di firma del sindaco De Marco), con questo duro commento: «È semplice sbraitare, oggi, contro un tavolo riannodato tra mille difficoltà – si legge nel post – quando, invece, il Comune di Avetrana è stato il primo a firmare a Bari, il 4 agosto 2014, un avallo all’AQP per la condotta sottomarina. Una firma che ancora oggi pesa come un macigno nella ricerca di una soluzione condivisa tra tutti gli attori coinvolti. E’ meglio rinfrescare la memoria a quegli amministratori avetranesi – aggiunge Giangrande -, forse un po’ distratti o smemorati, che ricostruiscono la vicenda del depuratore sempre in maniera incompleta e sempre omettendo i documenti a loro più scomodi».

LA STORIA DEL DEPURATORE PUNTO PER PUNTO. Intervento del 24 aprile 2015 di Nicolò Giangrande su "Viva Voce Web". Dopo aver ascoltato molti degli interventi alla manifestazione di domenica 19 aprile, reputo sia doveroso ricostruire brevemente la decennale vertenza “no scarico a mare” per fare chiarezza sulle responsabilità del progetto al quale ci stiamo opponendo. Uno sguardo all’indietro non per motivi nostalgici bensì per chiarire alcuni elementi che, a mio avviso, stanno portando il dibattito, e il conseguente scontro, ad una contrapposizione “locale” versus “regionale”. La realtà è ben più complessa e chi vuole ridurla ad un banale schema del tipo “noi” contro “loro” ha come obiettivo quello di nascondere le responsabilità e confondere la situazione. Se vogliamo capire quanta responsabilità abbiano i diversi attori istituzionali coinvolti, dobbiamo analizzare le “parole” e i “(f)atti” che caratterizzano il loro discorso e le loro azioni.

Partiamo dal livello locale: Manduria.

Primo punto. L’Amministrazione Comunale di Manduria (sindaco Francesco Massaro, centrosinistra) ha indicato una localizzazione per il depuratore tanto lontana dal centro abitato cittadino quanto vicino all’unica area turistico residenziale di Avetrana con la motivazione di voler servire la marina manduriana. Una scelta miope che ha portato, sì, l’impianto lontano dal naso dei cittadini-elettori di Manduria ma lo ha avvicinato così troppo alla costa che l’unico scarico possibile dei reflui era, e rimane, il mare.

Secondo punto. Quando è stata presentata la Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) vi era la disponibilità regionale alla modifica del sito (leggere pag. 13 della VIA, febbraio 2011) e, quindi, del conseguente scarico a mare. Il Comune di Manduria (sindaco Paolo Tommasino, centrodestra) non ha colto quella preziosa occasione e la VIA è stata approvata lasciando invariato il sito. Sei mesi dopo, nell’agosto 2011, lo stesso sindaco Tommasino era in prima fila nella manifestazione di San Pietro in Bevagna ad arringare la folla contro lo scarico a mare.

Terzo punto. L’attuale Amministrazione di Manduria (sindaco Roberto Massafra, liste civiche) si oppone alla costruzione dello scarico a mare ma non lo ha ancora dimostrato con degli atti amministrativi rilevanti. Passiamo ora dal livello locale a quello regionale. Salto volutamente i commissariamenti prefettizi della Città di Manduria e il livello provinciale poiché le responsabilità in questi livelli, pur essendoci, sono minime. Metto di lato anche l’AQP perché l’Acquedotto in questa partita è il braccio operativo della Regione Puglia.

Quarto punto. Nichi Vendola – nel suo triplice ruolo di Presidente della Regione Puglia, Commissario Straordinario all’Ambiente nominato dal Governo e leader nazionale di “Sinistra, Ecologia e Libertà” - è rimasto totalmente indifferente dinanzi alle richieste, provenienti da più parti, di ascoltare le soluzioni alternative. Una persona come lui, tanto impegnata nel mettere in luce le contraddizioni di alcune opere in altre regioni italiane e pure sulla costa adriatica pugliese, avrebbe dovuto rivolgerci un’attenzione particolare. Tra le incoerenze che voglio sottolineare vi è quella lettera a firma di Luca Limongelli (dirigente del Servizio Idrico della Regione Puglia), in cui si riconosce la netta contrarietà delle popolazioni interessate, si citano le autorizzazioni mancanti e si chiede al Ministero dell’Ambiente di inserire la costruzione del depuratore nel decreto “Sblocca Italia”. È paradossale come la Regione Puglia di Vendola sia tanto impegnata ad opporsi allo “Sblocca Italia” -poiché considerato un provvedimento calato dall’alto che non permette alcun confronto con la popolazione locale- e poi un funzionario della stessa Regione lo invoca, nel silenzio di tutti i vertici regionali, per imporre una scelta ad un territorio nettamente contrario.

Quinto punto. Fabiano Amati e Giovanni Giannini - rispettivamente l’ex e l’attuale assessore regionale ai Lavori Pubblici (entrambi del Partito Democratico) - si sono rivelati strenui difensori delle scelte e degli interessi dell’Acquedotto Pugliese. Infatti, tutti e due non hanno mai voluto ascoltare le nostre proposte alternative allo scarico a mare.

Sesto punto ed ultimo. Gli attuali consiglieri regionali eletti nella circoscrizione di Taranto -Anna Rita Lemma, Donato Pentassuglia, Michele Mazzarano (PD), Alfredo Cervellera (SEL, oggi Misto), Francesco Laddomada (La Puglia per Vendola), Giuseppe Cristella, Arnaldo Sala, Pietro Lospinuso (PDL-Forza Italia), Antonio Martucci (Italia dei Valori, oggi Moderati e Popolari) - sono stati tutti quanti, chi più chi meno, interpellati per occuparsi della vertenza. Gli impegni presi, però, non sempre si sono trasformati in atti tangibili. Tra di loro vi è qualcuno che negli ultimi giorni ha pure espresso vicinanza alla nostra lotta. Questi atteggiamenti da convertiti sulla via di Damasco, forse meglio dire “sulla litoranea di Specchiarica”, li fanno apparire superficiali quanto quegli studenti che il 6 di gennaio si ricordano di non aver fatto i propri compiti e pensano a quale giustificazione usare il giorno dopo. Come vediamo le responsabilità della condotta sottomarina non sono solo da un lato bensì interessano le Istituzioni di ogni livello e i Partiti di ogni colore. Manduria e Bari sono accomunate entrambe dal dire una cosa e farne un’altra. Una pericolosa separazione tra “parole” e “(f)atti” che sta portando ad un progressivo allontanamento tra le Istituzioni e i cittadini e tra i Partiti e gli elettori. Non ci si può, quindi, meravigliare se poi i giovani presenti in piazza domenica scorsa contestano apertamente i simboli e gli uomini delle Istituzioni e dei Partiti. Per risolvere questa vertenza non c’è bisogno di alcun eroe pronto a immolarsi davanti alle ruspe. Sembrerà strano ma è sufficiente che i rappresentanti che tutti noi abbiamo eletto, dal Comune fino alla Regione, facciano semplicemente il proprio dovere. Il Coordinamento Intercomunale deve quindi giocare su tre fronti: in piazza, nei tribunali e nel Palazzo. È indispensabile continuare a tenere alta l’attenzione sulla nostra lotta, spingere i rappresentanti delle Istituzionali locali a dare mandato ad avvocati che possano predisporre una corretta azione legale e, infine, preparare l’incontro con il Ministero dell’Ambiente. Una volta coinvolto il Ministero, sarà compito di quest’ultimo decidere se affrontare la questione o rimandarla indietro alla Regione Puglia che, a quel punto, avrà un nuovo Presidente, una nuova Giunta e un nuovo Consiglio regionale.

Monta la polemica per il divieto ai sindaci di salire sul palco con Romina Power, scrive il 9 aprile 2017 Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. Non ancora passati gli echi della grande manifestazione unitaria di venerdì contro ogni forma di scarico in mare del depuratore e per lo spostamento del costruendo impianto previsto sulla costa, il dibattito s’infiamma ora nella polemica tra organizzatori dell’evento e i sindaci e politici con cariche varie a cui l’altro ieri è stato impedito di conquistare il palco. Mantenendo fede agli accordi precedentemente presi da tutti i promotori della manifestazione, partiti, associazioni, comitati ed enti, tra cui il comune di Avetrana, al termine del corteo a cui hanno partecipato non meno di diecimila persone, gli esponenti politici presenti, sindaci con il tricolore, consiglieri regionali e consiglieri dei comuni di Manduria, Sava, Erchie, Lizzano ed Avetrana, hanno espresso la volontà di salire sul piccolo palco dove, secondo i programmi, sarebbero dovuti salire solo la cantante Romina Power, per un appello al presidente Michele Emiliano, e il portavoce degli organizzatori il quale avrebbe letto (come ha letto) un messaggio unitario indirizzato al sindaco di Manduria e alla struttura tecnica della Regione Puglia. Il tentativo di intrusione non è piaciuta ai coordinatori i quali avevano fatto di tutto per impedire qualsiasi caratterizzazione politica, o peggio ancora partitica, all’importante e riuscitissima manifestazione. Ne è nata un’accesa e verbalmente violenta discussione dietro al palco con i sindaci e il loro codazzo di politici al seguito che tentavano di conquistare la scaletta, e gli organizzatori che glielo impedivano. Urla, minacce, improperi, alcuni dei quali davvero irripetibili, hanno rischiato di rovinare la bella festa. I politici per convincere chi si opponeva, hanno detto di avere bisogno di una deroga al divieto concordato poiché quella mattina c’era stata a Bari un’importante riunione in cui si sarebbero prese decisioni importanti in tema di depurazione. E che bisognava riferire al popolo tali novità. Con uno sforzo alle regole, gli organizzatori della manifestazione hanno dato mandato ad uno di loro di salire sul palco e informare la folla di quanto stesse accadendo e chiedere il loro parere in merito. Il rifiuto dei manifestanti è stato univoco e rumoroso: «Niente politici sul palco». E così è stato. L’arrivo, finalmente di Romina Power, ha tolto ogni speranza ai sindaci che hanno dovuto rinunciare all’eccezionale platea dei diecimila assiepati sulla piazza. Tra le fasce tricolori che anelavano un posto su quel palco c’era anche il sindaco di Manduria, Roberto Massafra, lo stesso che una settimana prima aveva rifiutato il permesso di quella piazza che ora desiderava avere, motivando il diniego con la concomitanza del consiglio comunale che poi non si è più tenuto. Ieri, infine, è stato il giorno delle arrabbiature. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, che si era fatto garante con gli altri suoi colleghi facendo lui stesso parte del comitato che ha organizzato l’appuntamento, si è scusato pubblicamente con gli ospiti tricolore accusando ancora una volta gli altri del comitato di aver privato i manifestanti delle buone notizie che venivano da Bari. In effetti dagli uffici della Regione Puglia, più che una soluzione (questo lo si è capito ieri quando le carte sono cominciate a circolare), è venuta fuori una proposta, anzi tre. In sostanza la Regione Puglia ha demandato ai consigli comunali di Manduria e Avetrana la scelta su tre ipotesi progettuali: quella originaria con il depuratore in zona residenziale Urmo e la condotta sottomarina; la seconda, proposta di recente con il depuratore sempre a Urmo, i buffer per uso irriguo dei liquami, e lo scarico emergenziale al suolo, tra le abitazioni e un hotel a 700 metri dal mare; infine una terza ipotesi che prevede lo spostamento del depuratore nell’entroterra con le vasche di drenaggio e senza scarico a mare ma in una lama che va a finire nel fiume Chidro.

Noi ambientalisti colpiti dal fuoco amico, scrive il 10 aprile 2017 Francesco Di Lauro su “La Voce di Manduria". Un clamoroso caso di fuoco amico noi sul palco a parlare di soluzioni condivise, di tavolo permanente per adottarle, ed Avetrana, che tiene famiglia, pur avendo firmato quel documento va e propone (sarebbe meglio dire si fa suggerire dall’aspirante sindaco geometra Coco) la soluzione Serpente- Canale Rizzo-Chidro. Chapeau, tutto da decidere in due giorni, neanche il tempo di prendere fiato dalla manifestazione di venerdì scorso. Alla faccia delle ‘istanze’ che dovevano arrivare dalla gente ed essere recepite dai politici, e tutto per consentire alla ditta Putignano di non perdere un appalto già assegnato (che è, naturalmente riassegnabile, ma perché “lasciare il comodo per lo scomodo?”). Non abbiamo nessun timore, da sempre, di dire quello che pensiamo anche contro una dura realtà, e la dura realtà è che questo è l’ennesimo colpo di mano a danno del territorio, ma soprattutto di un metodo che permetta davvero soluzioni condivise. Questo accade ad esserci fidati dei ‘politici’, altri, ma pur sempre politici, questa volta avetranesi, che, “giustamente ” secondo le logiche di questo raffinato ambiente, si portano a casa un risultato anche se questo lo si è ottenuto con lo stesso metodo dei savesi: per dirla con un eufemismo, “futti e camina…” Così, nello stesso istante in cui Romina Power parla di tutela della bellezze naturali della Puglia a 10.000 persone, il geometra Coco firma e fa firmare il Comune di Avetrana, di cui è neo consulente, per l’ipotesi Serpente-Chidro. Certo non rappresenta, mai ha rappresentato e mai nemmeno potrebbe, nessuno di noi, convinti assertori di quanto sia fondamentale avere un’idea di programmazione e vocazione del territorio, di rispetto dell’ambiente e delle dinamiche ecologiche. Non ho nessuna difficoltà ad esprimere l’assoluta contrarietà all’ipotesi Serpente: burocrati che hanno passato la vita a mummificare nei retrobottega amministrativi forse non sanno neanche dove sia e quanto sia intatto e pregevole il contesto Serpente-Canale Rizzu-Chidro, a fronte di centinaia di ettari di pietraie a nord di Manduria, lungo la direttrice Sava-San Pancrazio, la zona industriale, insomma ovunque ci sia onestà progettuale e soprattutto politica. Certo, restringe il campo all’obbligo dello scarico di emergenza in corpo idrico superficiale, ma proprio per questo avevamo previsto nel documento congiunto, firmato dai consiglieri di opposizione manduriani e dal sindaco di Avetrana, l’abbandono della ipotesi consortile, ‘madre di tutte le magagne’. Noi ci siamo. Tra un anno ci saranno le elezioni a Manduria, e qualcuno dovrà assumersi la responsabilità di questa ennesimo deserto (di cemento e liquami) in una cattedrale (naturalistica.) Tra pochi giorni invieremo una richiesta a Cantone (Anticorruzione) di mettere finalmente il naso in questa maleodorante vicenda. Alla magistratura contabile e penale, compresa quella ‘locale’, il compito di tappare le voragini della politica, magari ponendosi una domanda semplice semplice: se, alla luce del nuovo accordo, sarà Avetrana ad ospitare gli scarichi delle reti fognanti dei centri costieri (quelli che saranno costruiti …nel 3017) anche il progetto consortile che si vuole cominciare a tutti i costi deve essere dimezzato o ridotto in proporzione. Così come l’importo dell’appalto. Così come la necessità dello scarico emergenziale in corpo idrico, quindi la presunta necessità di farlo lì. Per tutti coloro che credono ancora nel valore di ciò che si firma e con chi lo si firma, e’ il momento di battersi per le nostre proposte alternative. Francesco Di Lauro

La minoranza di Avetrana: «il nostro depuratore in cambio di Colimena». Intervista del 10 aprile 2017 di Monica Rossi su "La voce di Manduria". Alla vigilia del consiglio comunale di domani convocato ad Avetrana per approvare la disponibilità dell’ente al futuro accoglimento dei reflui delle marine di Manduria nel proprio depuratore quale condizione indispensabile per spostare il depuratore consortile lontano dall’Urmo Belsito, il consigliere comunale di minoranza, Luigi Conte, esprime tutti i dubbi in merito a tale proposta. E ci anticipa le mosse del proprio gruppo.

In merito alla proposta partorita dall’incontro a Bari tra rappresentanti del comuni di Manduria e Sava, rispettivi tecnici e la Regione Puglia, lei l’ha definita: “dalla padella alla brace”. In che senso?

“Certo, un documento firmato con superficialità e ora quel consiglio comunale convocato in tutta fretta per dare il consenso per i reflui delle Marine…”

Ma se lei fosse stato sindaco lo avrebbe firmato quel documento?

“Assolutamente no”

Ma come mai allora?

“L’amministrazione di Avetrana paga delle scelte sbagliate fatte nel 2014, quando l’allora sindaco De Marco e assessore Minò, firmarono il documento che prevedeva il depuratore in zona Urmo. Ora abbiamo sia il depuratore che i reflui delle marine. Una idea geniale di Manduria…”

Ma la nuova collocazione del depuratore lo ha scelto il comune di Avetrana se non sbaglio.

“Certo! Un paradosso! Un comune che sceglie un luogo vicino a sè per un depuratore che servirà ad un altro comune e per di più si prende in carico i reflui delle Marine! Ma dico io: almeno avessero chiesto come contropartita Torre Colimena!”

Ma perché il sindaco e il vice sindaco hanno firmato allora?

“Non stanno comprendendo cosa hanno firmato”.

Domani lei è il suo gruppo voterete il consenso?

“Assolutamente no. Noi chiediamo che questa proposta venga spiegata ai cittadini. Se loro diranno di sì noi ci adegueremo. È grazie ai cittadini e al loro protestare e scendere in piazza che si sta cominciando a parlare di delocalizzare il depuratore. Fino a pochi giorni fa in molti dicevano che non era possibile, anche quel primo cittadino (di Manduria, ndr) che ora sale sul carro dei vincitori. Il depuratore si deve spostare anche da contrada Serpenti”.

Come mai anche questo luogo della terza ipotesi non va bene secondo lei?

“Perché se il depuratore non deve più servire le Marine, visto che vogliono dare i reflui ad Avetrana, allora perché continuarlo a fare vicino alla costa e lontano da Sava e Manduria?”

Cosa propone il vostro gruppo?

“Di rescindere il rapporto con la ditta Putignano. Di migliorare il depuratore a Manduria e farne uno a Sava. Che se proprio ce ne deve essere uno consortile, va fatto tra Sava e Manduria. Che se le Marine dovranno in futuro (ora non esiste rete fognaria e acqua) scaricare nel depuratore di Avetrana, questo deve essere accettato con indennizzo (Torre Colimena agli avetranesi). In ultimo che nessun depuratore va fatto vicino alla costa”.

Ma perché secondo lei si parte a costruire dal depuratore?

“Mistero. Mai visto costruire una casa partendo dal comignolo. Sava non ha le fogne, Manduria le ha al 50 per cento, nonostante questo che fanno? I lavori li fanno partire dal depuratore…”

E perché secondo lei si parla più volte nel documento di sanzioni della commissione europea quando non sembra essere a rischio di sanzioni questo depuratore?

“Non lo so. Forse bisogna spendere quei soldi e basta”.

Di seguito Comunicato Stampa sul depuratore Manduria-Sava del gruppo consiliare Avetrana Riparte. Avetrana Riparte durante il Consiglio Comunale di Avetrana di lunedì 10 aprile, non ha preso parte al voto che ha approvato un documento sottoscritto a Bari venerdì 7 aprile secondo il quale si chiede lo spostamento del depuratore Manduria Sava in contrada Serpente e asservimento del depuratore di Avetrana per la depurazione delle acque reflue delle marine di Manduria.

I fatti. In data 7 aprile 2017, alla presenza del Direttore del Dipartimento Opere Pubbliche (tra le altre cose) ing. Barbara Valenzano, il Sindaco di Avetrana sottoscrive un verbale in cui si prende atto della proposta del Comune di Avetrana di localizzare il depuratore consortile Manduria Sava non più in zona Urmo Belsito ma in contrada Monte Serpente. In conseguenza dello spostamento Avetrana si impegna “a ricevere i reflui delle Marine nel proprio depuratore consortile”. Detto verbale viene chiuso e sottoscritto in tarda mattinata (primo pomeriggio) a Bari. Alle ore 15:00 a Manduria inizia il corteo di protesta che sfila sulla base di una piattaforma condivisa anche dal Comune di Avetrana, che ha come obiettivi:

l’immediata sospensione dei lavori;

la delocalizzazione del depuratore lontano dalla costa;

la rinuncia alla scelta di un impianto di tipo consortile;

la rinuncia formale dello scarico a mare, sia pure di tipo emergenziale, da parte della Regione, attraverso atto deliberativo.

Al termine della manifestazione nulla si dice circa il verbale sottoscritto in Regione. Detto verbale comincia a circolare sul web.

Sabato 8 aprile nel primo pomeriggio siamo convocati in consiglio comunale per lunedì (Consiglio Comunale già convocato precedentemente) per approvare un deliberato che attesti la volontà del Comune di Avetrana a ricevere i reflui delle marine. In tutto questo, il grande assente, ancora una volta ignorato, è il cittadino. Il protagonista delle proteste, quello invocato per riempire le piazze, quello vocato al sacrificio perché cede parte del suo guadagno (con la serrata) alla causa, viene superato dai propri rappresentanti. Considerato ormai inutile. Noi invece riteniamo che questo tema non può essere liquidato in 24 ore.

Le favole. Lunedì 10 aprile alle ore 12:00 si tiene il Consiglio Comunale in cui la realtà lascia il posto alla fantasia. Scopriamo infatti che il deliberato del Consiglio è sostanzialmente diverso dal verbale sottoscritto: infatti il Consiglio Comunale di Avetrana, pur richiamando il verbale, dice che è disponibile “al recepimento dei reflui delle Marine di Manduria e, comunque, fino al raggiungimento della capienza massima prevista dal depuratore di Avetrana”. Quindi a Bari si sottoscrive una cosa e ad Avetrana se ne approva un’altra. Alla richiesta dell’opposizione di Avetrana Riparte di rinviare anche solo di 24 ore il Consiglio per avere il tempo di spiegare alla cittadinanza questa novità e chiedere il relativo parere, la maggioranza e la minoranza di Cambiamo Avetrana, vota contro, adducendo il fatto che la cittadinanza è ampiamente rappresentata. Consigliere di maggioranze e ex Sindaco grande scettico sulla possibilità di riaprire la partita con la Regione e firmatario di un accordo con il Sindaco di Manduria in cui accettava il sito in cambio di opere che fornissero accurata ambientalizzazione come risarcimento del danno per la localizzazione, si permette ora di giudicare le osservazioni di Avetrana Riparte con la solita arroganza. Certo è comprensibile perché l’attuale Sindaco ha prodotto in pochi mesi più azioni concrete rispetto al suo decennale inconcludente mandato. Consiglieri di maggioranza e minoranza poi millantano, come specchietto per le allodole, la possibilità di accedere a finanziamenti per servire con acqua potabile e impianto fognario le marine. Ricordiamo che le marine sono territorio di Manduria e che Manduria è l’unica deputata a partecipare all’assegnazione di fondi per le infrastrutture stesse. Infrastrutture che sarebbero già state realizzate se il Comune di Manduria e la Regione Puglia non fossero state così caparbie (precedente amministrazione regionale) nel non voler risolvere la questione depuratore consortile.

Conclusioni. Avetrana Riparte non volendo danneggiare il voto unanime del Consiglio e non potendo prendere a cuor leggero decisioni gravi e importanti senza adeguato approfondimento e senza un serio coinvolgimento popolare, decide di uscire dall’aula al momento della votazione.

Manduria, depuratore: troppi gli assenti in Consiglio comunale, scrive il 12 aprile 2017 "Il Corriere di Taranto". “Restiamo sconcertati da quanto accaduto in Consiglio comunale: l’Amministrazione Massafra, la stessa che appena quattro giorni fa proclamava al mondo di avere in tasca la soluzione definitiva al problema depuratore, tanto da volerla ad ogni costo sbandierare in piazza, dimostra ancora una volta tutta la sua inconsistenza, non riuscendo a racimolare i voti necessari ad approvare l’ipotesi progettuale tanto caldeggiata”: è la dura accusa del laboratorio politico Manduria Lab, al termine del Consiglio comunale di ieri. “Maggiori perplessità suscita inoltre l’assenza dall’assise cittadina dei due consiglieri che fanno riferimento al consigliere regionale Luigi Morgante, principale fautore del tavolo tecnico apertosi in Regione e massimo sostenitore dell’ipotesi C – aggiunge il movimento -. Non minore stupore suscita, inoltre, la scelta dell’opposizione di abbandonare l’aula, facendo venire meno il contraddittorio e rendendo possibile il rinvio ad una seconda convocazione, che probabilmente perverrà all’approvazione del provvedimento da parte di una risicatissima rappresentanza”. Il comportamento “degli uni e degli altri rende evidente l’assenza di certezze in chi dovrebbe comunque pronunciarsi, a favore o contro, rispetto alla problematica in esame e avvalora la nostra convinzione della necessità di un approfondimento della questione, attraverso un pubblico dibattito, con il contributo della cittadinanza e delle categorie professionali e sociali”. Quanto all’ipotesi di spostare il depuratore in Contrada Serpente (zona di grande pregio naturalistico e ricca di insediamenti produttivi), “la nostra opinione è che tale soluzione al momento non è sufficientemente motivata dal punto di vista tecnico-giuridico, per poterne discutere con cognizione di causa, e risulta comunque vincolata all’approvazione da parte di AQP e della ditta appaltatrice. Risulta tuttavia difficile da comprendere la scelta di collocare l’impianto in tale località, alla luce della accettazione da parte del Comune di Avetrana di accogliere i reflui delle marine nel proprio depuratore: se proprio si vuole conservare la soluzione consortile, in presenza di un dimensionamento proporzionato alle effettive utenze, risulterebbe più logico collocare il depuratore in una località compresa tra Sava e Manduria”.

Legambiente: giù le mani dal Monte dei Serpenti, scrive il 12 aprile 2017 "La Voce di Manduria". Noi soci del circolo Legambiente di Manduria, abbiamo sempre espresso dei dubbi sulle criticità che si andavano di volta in volta evidenziando, ma sempre con spirito collaborativo nel comune intento di conciliare la salvaguardia dell’ambiente con la necessita di avere un moderno impianto di depurazione. Adesso però, alla luce della pericolosa ed estemporanea proposta di taluni di delocalizzare il sito spostandolo in una delle aree più belle e pregevoli dal punto di vista paesaggistico e naturalistico, non possiamo assolutamente restare in silenzio. All’interno di questa lunga vicenda, questa proposta è sicuramente, di gran lunga, la peggiore fra tutte le ipotesi fino ad ora formulate (non che le altre fossero idonee, sic!) ed è ovvio, che se dovesse essere questo il sito, ci opporremo con tutti i mezzi che la legge ci mette a disposizione. L’area individuata come nuovo sito del depuratore (monte dei Serpenti) si trova circondata da innumerevoli vincoli paesaggistici ed ulteriori contesti e a differenza, di quanto affermato da qualcuno, non si tratta di 10 ettari, ma di molto meno (probabilmente sarà sfuggito qualche vincolo). Inoltre la bellezza incomparabile e l’unicità di tutta quella zona (ripeto una delle più pregevoli di questa parte del Salento) la rende inidonea ad essere utilizzata per questo scopo, infatti:

– si trova vicino a molte meravigliose masserie (ad es. Masseria Marcantuddu, la stupenda masseria dei Potenti, ecc.);

– si trova vicino al famoso sito archeologico messapico della città fortificata di Felline;

– è a fianco del meraviglioso bosco dei Serpenti che con la sua ampia biodiversità costituisce un unicum in tutta l’area di Manduria e paesi limitrofi (presenza di enormi esemplari di corbezzolo, presenza di erica arborea e presenza unica di un nucleo di querce angustifolie probabilmente ibridate con quercia virgiliana;

Inoltre si devono tener conto dei vincoli derivanti dalla legge 353 del 2000 sulle aree percorse dal fuoco (vincoli che scattano anche in mancanza di inserimento nel catasto delle aree percorse dal fuoco, perché, come ha stabilito una sentenza del Tar Liguria confermata dal Consiglio di Stato, tale inserimento ha solo valore dichiarativo e non costitutivo del vincolo); proprio a tale scopo, la nostra associazione possiede un vasto archivio documentale e video fotografico delle aree percorse dal fuoco per fini probatori.

Per ultimo, ma non per importanza, segnaliamo che:

– la nuova localizzazione del buffer 2 andrebbe a ricadere pienamente all’interno della Riserva Regionale del Litorale Tarantino Orientale;

– anche il nuovo scarico emergenziale andrebbe a finire all’interno della Riserva Regionale, proprio in una delle aree più belle e suggestive di detta Riserva. (Tra l’altro anche area bosco).

– lo scarico emergenziale in questa area, oltre che incompatibile per i motivi su esposti, lo sarebbe anche per la rarissima presenza di tane di tasso e per la tipologia di vegetazione che predilige un ambiente arido e non troppo umido (ambiente il cui microclima andrebbe stravolto con uno scarico emergenziale, oltre che per i danni meccanici che tale scarico potrebbe avere sulla flora).

Quindi proprio alla luce di quanto esposto sembra incomprensibile la decisione di spostare il sito all’interno di questa area: se le motivazioni erano quelle che il vecchio sito non era idoneo per motivi paesaggistici e per motivi di vicinanza alle aree protette, a maggior ragione questo sito risulta improponibile visto che questo progetto ricade in aree sicuramente più pregevoli e , in parte, addirittura all’interno delle stesse Riserve. Se si dovesse scegliere questo nuovo sito, risulta evidente che i rischi di ricorsi al Tar da parte di più di qualcuno, sono molto alti e concreti con un’inevitabile allungamento dei tempi per la realizzazione del depuratore per Manduria. Sempre con lo stesso spirito collaborativo che ci ha contraddistinto, restiamo a disposizione di tutte le istituzioni per un'eventuale incontro per poter descrivere le motivazioni delle nostre perplessità e soprattutto per individuare un sito idoneo che finalmente sia privo di vincoli e che abbia un bassissimo impatto sull’ambiente, sul paesaggio e sugli insediamenti turistico e produttivi. Legambiente Manduria

Depuratore, interviene anche Bruno Vespa. Il giornalista ha investito nel Primitivo ma definisce scoraggiante il nuovo progetto, scrive Nando Perrone su “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 12 Aprile 2017. «L’ubicazione del depuratore nell’area di masseria “Serpenti” sarebbe, per me, un fortissimo disincentivo agli investimenti compiuti e a quelli programmati». Dopo Romina Power, intervenuta in una trasmissione di punta di Rai Uno (“L’arena” di Giletti) e alla mobilitazione di venerdì scorso a Manduria, ecco un altro personaggio molto popolare che esprime la propria opinione sull’ubicazione del depuratore consortile della città messapica e di Sava. E’ Bruno Vespa, giornalista che conduce da anni la trasmissione “Porta a porta”, che, da produttore vitivinicolo, invia una lettera aperta al sindaco Roberto Massafra e all’intero Consiglio Comunale poche ore prima della riunione, in prima convocazione, del consesso elettivo, che doveva discutere di depuratore ma, mancando il numero legale, è stato aggiornato ad oggi. Chiaro l’obiettivo: convincere i presenti a non approvare la delocalizzazione del sito. «Caro signor sindaco, caro Roberto, cari signori consiglieri» scrive Bruno Vespa nella lettera aperta del giornalista, «mi ha chiamato allarmatissimo Gianfranco Fino (altro produttore vitivinicolo, ndr), anche a nome delle altre masserie e delle altre strutture produttive della nostra zona, sulla ipotesi dello spostamento del depuratore dalle aree già indicate a quella della masseria Serpenti. Per le nostre strutture ricettive e produttive sarebbe la rovina. Per me personalmente un fortissimo disincentivo agli investimenti compiuti e a quelli programmati». Poi il giornalista e scrittore entra nel merito della questione esprimendo un proprio parere. «Ho il più alto rispetto per il comune di Avetrana, ma credo che sarebbe folle penalizzare una delle aree più pregiate del Primitivo di Manduria» sostiene Vespa. «Vi saremmo tutti assai grati se poteste scongiurare questo pericolo. Grazie e un caro saluto a tutti». Parlando al plurale, Vespa interpreta evidentemente la preoccupazione di tutti gli altri operatori vitivinicoli della zona. Com’è noto, il giornalista ha acquistato, nell’area di Manduria, ampi appezzamenti di vigneti (in cui produce il Primitivo di ottima qualità, già da qualche anno sui mercati internazionali) e una masseria, che sta trasformando in azienda in cui imbottigliare i propri prodotti. Nel progetto, Vespa ha pensato altresì di destinare un’area dell’immobile per la ricettività degli eno-turisti. Sin qui la posizione di Bruno Vespa. Molto meno facile quella del Consiglio comunale di Manduria, che ha ora solo tre opzioni: la prima con lo scarico in mare; la seconda con il depuratore in contrada Urmo e con il contestatissimo “ruscellamento”; la terza con la localizzazione del depuratore in contrada “Serpenti”. Non crediamo che la Regione possa ulteriormente pazientare. Non è un caso, infatti, se venerdì scorso è stato concesso un termine ristrettissimo (una settimana) per deliberare la scelta fra le tre opzioni. E temiamo che si sia ormai innescata una spirale: ovunque si tenterà di spostare il depuratore, ci sarà qualcuno che protesterà...

La replica il 12 aprile 2017 su “La Voce di Manduria”. Ma… ma, è lo stesso Bruno Vespa che, con Michele Emiliano seduto nel suo salotto televisivo, spalava merda sulla presunta sindrome Nimby dei salentini che si oppongono alla Tap? Ed è sempre lo stesso Bruno Vespa che, ora che la merda tocca a lui, sale sulle barricate sulla base – guarda un po’- della vocazione turistica del territorio (ma soprattutto dei suoi personalissimi investimenti)? Caro Vespa, e allora diciamola una volta tanto la verità. Per alcuni illustri commentatori, onorevoli, eccellenze, cavalieri, monsignori, la sindrome Nimby vale solo in un caso: quando il culo è degli altri. Danilo Lupo, giornalista La7 (La Gabbia)

Perchè a Urmo? Tutta la storia sul depuratore, scrive il 7 aprile 2017 Nazareno Dinoi su "La voce di Manduria". L’idea di localizzare il depuratore sulla costa e non nell’entroterra è nata da due fatti contingenti: il primo di natura giudiziaria, il secondo per garantire una rete fognante nelle località marine completamente (ancora) sprovviste. Percorrendo a ritroso tutti i passaggi, bisogna partire dal 2000 quando dalla Regione Puglia arrivò l’invito all’allora sindaco di Manduria, Gregorio Pecoraro, ad adeguare il vecchio depuratore situato sulla via per San Pancrazio (dov’è tuttora). L’impianto, inoltre, doveva essere potenziato per permettere un recapito anche alla rete di Sava in virtù di un accordo consortile tra i due comuni. L’amministrazione Pecoraro predispose le carte per un nuovo depuratore che ebbe il primo intoppo. Il sito confinava con un centro sportivo, regolarmente condonato, quindi incompatibile normativamente. Così gli uffici individuarono un altro lotto più distante, sempre in quella contrada «Laccello», ma i proprietari del terreno si opposero all’esproprio e il Tar gli diede ragione.

Sindaco Antonio Calò. Non se ne parlò più sino alla nuova amministrazione del sindaco Antonio Calò. Siamo nel 2003 e dalla Regione continuavano ad arrivare solleciti per il nuovo depuratore. Bisognava individuare un altro sito così l’allora sindaco Calò ebbe l’idea di spostare il depuratore verso la costa. Avanzò la proposta dei terreni della Masseria Marina, più vicini a San Pietro in Bevagna che avrebbe avuto la concreta possibilità di una rete fognante. Un’opportunità che avrebbe eliminato il fenomeno degli scarichi civili abusivi e nello stesso tempo dato più valore catastale a tutto l’abitato. Si presentò però un altro problema: all’epoca gli scarichi dei depuratori lungo la costa potevano avere solo il recapito in battigia per cui fu improponibile pensare ad una cosa simile proprio al centro di San Pietro in Bevagna così densamente abitato. Si doveva trovare una soluzione diversa, sempre sulla costa, ma lontana dalla località balneare principale.

Sindaco Francesco Massaro. Cade il sindaco Calò e viene eletto Francesco Massaro. Toccò a lui la scelta di un sito che non fosse San Pietro in Bevagna, quindi o a destra, verso Torre Borraco e l’omonimo fiume, o dall’altra parte, Torre Colimena con i corsi d’acqua della Palude del Conte, i canali dell’Arneo e la Salina. La scelta cadde proprio qui, nel punto più distante dei confini territoriali di Manduria ma più vicino a quelli di Avetrana: zona Urmo Belsito, appunto. Fu allora che si cominciò a temere l’infrazione comunitaria che aveva già puntato gli occhi sulla Puglia per i troppi depuratori non a norma: non era più possibile scaricare in falda. Bisognava fare in fretta e l’allora sindaco Massaro si preoccupò di evitare almeno lo scarico in battigia. Presentò un ricorso al Tar di Lecce che gli diede ragione. Secondo il tribunale amministrativo, uno scarico in battigia non sarebbe stato concettualmente compatibile con la vocazione turistica della zona. La soluzione alternativa fu trovata dai tecnici regionali: una condotta sottomarina che scaricasse in mare i liquami frullati e non depurati come prevedeva la normativa di allora.

Sindaco Paolo Tommasino. Dopo Massaro è stata la volta del sindaco Paolo Tommasino. Il presidente della Regione era Nichi Vendola. Le proteste degli ambientalisti e l’intervento dell’amministrazione Tommasino ottennero un altro risultato: l’affinamento delle acque in tabella 4. Acqua pulita da impiegare in agricoltura ma sempre con la condotta sottomarina di emergenza. Solo promesse, senza progetti, però. E’ stato allora che l’amministrazione Tommasino commissionò uno studio di fattibilità ai tecnici Muscoguri-Dellisanti che ipotizzarono lo spostamento del depuratore in zona Monte Serpenti e le vasche di drenaggio in zona masseria Marina. Progetto mai preso in considerazione.

Sindaco Roberto Massafra. Finisce l’era Tommasino e, dopo un periodo di commissariamento, entra in gioco l’attuale sindaco Roberto Massafra che formalizza, in accordo con l’allora sindaco di Avetrana, Mario De Marco, il progetto del depuratore all’Urmo con affinamento in tabella quattro, le vasche di raccolta e drenaggio in contrada Marina e l’uso quasi esclusivo dei liquidi depurati in agricoltura. Lo scarico emergenziale in mare, però, rimane.

Morgante-Turco-Del Prete. La storia diventa recente. I due consiglieri regionali Luigi Morgante e Giuseppe Turco, con la consulenza del geologo Mario Del Prete, convincono i tecnici regionali e dell’Aqp alla soluzione dei buffer: depuratore sempre all’Urmo, vasche alla Marina (buffer 1) e vasche a Specchiarica (buffer 2) con recapito emergenziale, per almeno 15 volte l’anno e comunque quando l’impianto a monte non funzionerà (impossibile fare ipotesi sulla frequenza e sulla durata dei guasti), sul terreno tra le abitazioni di Specchiarica, in discesa verso il mare che dista circa 700 metri. Secondo il sostenitore del famoso ruscellamento nel terreno, i liquami di emergenza non arriverebbero mai al mare e anche se fosse, a bloccarle ci penserebbero le dune. Iin realtà, proprio in quel tratto non ci sono più dune ma la strada litoranea che taglia in due la zona del buffer con il mare.

L’ultima proposta, che piace al comune di Avetrana e a molti manduriani (non al sindaco Massafra che accetta a malincuore), prevede il depuratore in zona Monte Serpenti, a circa 4 chilometri dalla costa, con impianti di dispersione e raccolta in loco, sempre uso irriguo delle acque, e uno scarico emergenziale in una lama naturale. Il resto lo stiamo vivendo in queste ore.

Il tema di nuove tecnologie per la depurazione delle acque reflue e il loro riutilizzo c’è la Tecnologia MBR - Impianti per acque di scarico municipali. C’è una grande richiesta di impianti moderni e più efficienti nel trattamento delle acque reflue urbane. Dalla decarbonizzazione, con ampia eliminazione di nutrienti, fino alla purificazione, i sistemi a membrane a ultrafiltrazione offrono la soluzione ottimale per ogni esigenza. La tecnologia siClaro®, una combinazione di comprovata tecnologia fanghi attivi e processo a membrana innovativo, offre numerosi vantaggi rispetto al tradizionale processo a fanghi attivi. Il filtri a membrana siClaro® sono posizionati direttamente nelle vasche di aerazione o in camere di filtraggio a valle di queste, dove assicurano un sicuro mantenimento dei fanghi attivi, batteri e virus. Ciò significa che non occorre più il bacino per la convenzionale decantazione secondaria. Vantaggi:

meno spazio richiesto, design compatto, nessuna vasca di sedimentazione secondaria.

Il processo del depuratore rende un effluente di qualità eccezionale.

immediata possibilità di riutilizzo del filtrato, anche come acqua di processo industriale.

la robustezza del sistema di filtrazione siClaro ® assicura un funzionamento di grande affidabilità.

Note Estese. L’inquinamento globale delle acque superficiali e dei mari combinato con la costante diminuzione dei depositi naturali di acqua potabile richiede un uso ecologicamente sensibile delle risorse idriche. Le acque reflue scaricate provocano un disturbo notevole per l’equilibrio naturale. Sempre più nuove sostanze tossiche vengono trasferite all’uomo attraverso la catena alimentare e il ciclo dell’acqua minacciandone la salute, per cui le conseguenze di ciò sul nostro attuale stile di vita moderno non possono ancora essere pienamente previste. Le nuove norme europee definiscono inequivocabilmente la qualità delle acque reflue destinate alla dispersione sul terreno del stesso tipo di quelle destinate allo scarico nei flussi di acque correnti. Le membrane a ultrafiltrazione siClaro ® separano le particelle più piccole, fino ai colloidi, nei liquidi soltanto su base fisica per le dimensioni dei pori <0,1 micron. Le membrana trattengono queste sostanze senza modificarle in alcun modo, sia fisicamente che chimicamente, così che non possano originarsi sostanze pericolose. Nella realizzazione dei filtri sono usate membrane piane, derivanti da polimeri organici, ottimizzate e molto efficaci che impediscono l’intasamento dovuto a capelli, fibre o altre sostanze grossolane. Il filtrato prodotto dall’impianto soddisfa gli elevati standard qualitativi richiesti per l’acqua di balneazione a norma del regolamento 75/160 / CEE (“EWG” Comunità Economica Europea) del Consiglio dell’Unione europea. La membrana a ultrafiltrazione costituisce una barriera assoluta per batteri e larga parte di virus come quello responsabile della paralisi infantile. Piccole molecole organiche, ioni metallici nonché sali solubili, in parte essenziali per la vita, possono attraversare le membrane a ultrafiltrazione.

Comunque per quanto riguarda il tema depuratore di Manduria-Sava rimane il controverso aspetto del costo di impianto delle condutture e dell’esproprio dei terreni, con il conseguente espianto di migliaia di alberi di Ulivi, pari ai trenta chilometri di distanza tra sito servito ed impianto servente. Tema che fino ad oggi nessuno ha avuto la capacità di trattare, impegnati tutti a contestare l'allocazione dell'impianto di depurazione principale e dello scarico delle acque reflue.

Depuratore sulla costa, tutta la storia dal 2004 ad oggi: nomi e responsabilità. ​Per comprendere come si è arrivati all’individuazione del depuratore in zona mare e specificatamente a ridosso dell’are residenziale Urmo Belsito a Specchiarica, bisogna fare un salto indietro di 15 anni. La Voce di Manduria sabato 20 luglio 2019. Per comprendere come si è arrivati all’individuazione del depuratore in zona mare e specificatamente a ridosso dell’are residenziale Urmo Belsito a Specchiarica, bisogna fare un salto indietro di 15 anni.

Nel 2004 l’Acquedotto pugliese (Aqp), nell’ambito degli interventi per il completamento delle reti fognarie e adeguamento degli impianti di depurazione, presentò un progetto preliminare che prevedeva un depuratore a servizio degli abitanti di Sava, Manduria e delle marine di Manduria ubicato in località Iazzu della Specchiarica. Il progetto era dotato di una sezione di affinamento per il riuso irriguo prevedendo uno scarico di emergenza, nell’ipotesi di scarsa richiesta della rete irrigua, nel bacino retrodunale denominato «Palude del Conte» (la salina).

Nel 2005 (dicembre), l’allora commissario delegato (il presidente Nichi Vendola), bocciò la proposta perché:

a) le valutazioni non hanno preso in considerazione la localizzazione già individuata dall’Amministrazione Comunale di Manduria;

b) allo stato le marine non sono dotate di rete di fognatura nera per cui potrebbe essere inficiata la corretta funzionalità dell’impianto;

c) attualmente l’area non risulta attrezzata da rete irrigua tale da poter ipotizzare, a breve termine, un riuso irrigo delle acque reflue depurate.

Pertanto, il Commissario Delegato richiedeva che lo studio venisse esteso, previa concertazione con le Amministrazioni Comunali interessate, tenendo conto delle considerazioni succitate e «valutando anche l’ipotesi di scarico a mare, anche attraverso la realizzazione di apposita condotta sottomarina».

Il 12 dicembre 2005 il comune di Manduria (sindaco Francesco Massaro, centrosinistra, poi Pd), nelle figure dell’assessore ai Lavori pubblici Gregorio Dinoi e del Responsabile dell’area tecnica, dell'epoca, indicava «in merito al nuovo sito dell’impianto di depurazione, l’area compresa tra la Strada Provinciale Tarantina e la strada comunale di collegamento tra la Tarantina e la provinciale Castelli (Urmo-Belsito). Per quanto riguarda, invece, il recapito finale, il Comune di Manduria acconsente allo scarico a mare solo a mezzo di condotta sottomarina, preferibilmente da realizzare in corrispondenza della strada comunale Specchiarica, ribadendo la sua assoluta opposizione all’ipotesi di scarico in battigia in qualsiasi punto del litorale». Contro lo scarico in battigia la stessa amministrazione Massaro fece ricorso al Tar che gli diede ragione. Questo comportò la modifica del progetto iniziale con l’introduzione dello scarico in condotta sottomarina.

Il 19 dicembre 2005, il commissario delegato per l’Emergenza ambientale in Puglia finanziava la costruzione del nuovo impianto di depurazione a servizio degli abitati di Sava, Manduria e delle marine di Manduria, per un importo di 11.360.000 euro rinviando “l’assunzione di determinazioni in ordine all’importo necessario a finanziare la realizzazione della condotta sottomarina all’adozione di successivo provvedimento”, e prevedendo, di conseguenza, lo scarico del nuovo impianto in battigia.

Nel 2006 Acquedotto Pugliese, recependo le risultanze del progetto 2004, redasse un nuovo progetto preliminare con le seguenti caratteristiche:

nuovo impianto di depurazione a servizio degli abitati di Sava, Manduria e delle marine di Manduria ubicato nell’area compresa tra la SP Tarantina e la strada comunale di collegamento tra la SP Tarantina e la SP Castelli (Urmo-Belsito);

recapito finale, scarico in battigia.

Il 5 aprile 2007 la conferenza di servizi viene sospesa per il parere contrario del Comune di Manduria che «pur valutato favorevolmente il progetto di depurazione, nondimeno si esprime contrarietà al recapito finale previsto con scarico in battigia e si conferma al contrario la necessaria previsione, nell’ipotesi di scarico a mare, attraverso idonea condotta sottomarina. Si esprime consenso a quanto proposto dall’Arneo in sede di conferenza in ordine alla possibilità di utilizzo delle acque di depurazione per fini irrigui».

A luglio 2007 il Commissario delegato invita AQP a procedere ai successivi livelli di progettazione.

A novembre 2007 Aqp consegna il progetto esecutivo.

A febbraio 2008 il Commissario delegato esprimeva parere favorevole in linea tecnica sul suddetto progetto, condizionato alla preliminare acquisizione del parere di compatibilità ambientale. Nel medesimo provvedimento si precisava che «l’impianto pur essendo stato concepito in funzione della condotta sottomarina dovrà funzionare regolarmente anche in assenza della stessa».

Ad ottobre 2008 Aqp trasmetteva all’Assessorato Ecologia della Regione Puglia il progetto esecutivo, lo studio d’impatto ambientale e la Valutazione d’Incidenza relativi all’intervento in oggetto.

A marzo 2009 il Servizio Ecologia della Regione Puglia richiedeva integrazioni alla documentazione trasmessa. La motivazione alla base delle integrazioni richieste deriva dall’aver considerato che «il Comune di Manduria ha vincolato il proprio assenso alla costruzione delle opere alla realizzazione di una condotta sottomarina che consenta di salvaguardare un’area di indubbio richiamo turistico». AQP trasmetteva il progetto preliminare della condotta sottomarina completo di Studio di Impatto Ambientale e Valutazione di Incidenza.

A febbraio 2011 la Regione Puglia esprimeva parere favorevole alla compatibilità ambientale del progetto.

A dicembre 2016, proroga della compatibilità ambientale.

Nell’Analisi delle alternative allegate al progetto di massima redatto da Aqp a maggio-giugno 2019 (quello della condotta complementare a Torre Colimena), i tecnici osservano quando segue: «Al di là delle strumentalizzazioni e delle distorsioni che normalmente accompagnano opposizioni di questo genere, il dibattito ha definito varie soluzioni alternative (dalla ricarica della falda alla fitodepurazione). In particolare le amministrazioni comunali di Manduria e Avetrana, nel 2014, hanno definito congiuntamente una proposta alternativa identificando una “soluzione di utilizzo idrico sostenibile dei reflui” indicando che le acque non utilizzate dal Consorzio Arneo potranno “raggiungere l'area della Masseria della Marina al fine della sua valorizzazione turistico-sportiva ovvero potranno essere recapitate nell'area di sicurezza idraulica costituita dai pozzi e/o dalle trincee drenanti, insistenti su una piccola parte della suddetta area. È del tutto evidente che la messa a disposizione da parte del Comune di Manduria di tale sito, situato in tutta prossimità con la località turistica più frequentata dai suoi abitanti, mitiga l’indubbia penalizzazione subita dai cittadini di Avetrana per la localizzazione del depuratore in contiguità con l’area residenziale di Ulmo Belsito. Per entrambi i siti, Masseria Marina e Ulmo Belsito, occorrerà provvedere ad un’accurata ambientalizzazione degli impianti per ridurne l’impatto visivo e gli odori».

Depuratore a Urmo, atto masochistico dei sindaci. A ricordarlo, rifacendosi a documenti contenuti nella relazione tecnica del nuovo progetto di fattibilità per il riutilizzo dei reflui depurati e relativi scarichi complementari che l’Aqp ha presentato all’Ufficio per le...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria martedì 23 luglio 2019. Mentre i sostenitori del «No scarico in mare, Sì al depuratore lontano dalla costa» si preparano per organizzare al meglio la manifestazione popolare del primo agosto (Torre Colimena, piazzale dell’omonima torre con interventi di artisti vari e liberi cittadini delegati dal comitato promotore), l’interesse della gente si sposta sulle responsabilità di chi, in passato, ha individuato zona così vicina al mare come sito del costruendo depuratore consortile di Manduria e Sava. E si scopre che, almeno in questo, né la Regione Puglia e né l’Acquedotto pugliese hanno responsabilità. A ricordarlo, rifacendosi a documenti contenuti nella relazione tecnica del nuovo progetto di fattibilità per il riutilizzo dei reflui depurati e relativi scarichi complementari che l’Aqp ha presentato all’Ufficio per le valutazioni ambientali della Regione, è l’ex sindaco di Avetrana, Luigi Conte (in “Riflettori su” pubblichiamo il suo intervento integrale), che rispolvera un documento vecchio di cinque anni. «Si viene a sapere – scrive l’ex primo cittadino del Partito democratico, attualmente consigliere comunale indipendente -, che nel 2014 gli allora sindaci di Manduria e Avetrana, rispettivamente Roberto Massafra e Marco De Marco, sottoscrissero una proposta in cui si decide di allocare il depuratore-mostro a ridosso di Urmo-Belsito». (Sona residenziale, questa, che ricade in territorio di Avetrana, Ndr). L’aspetto più sconcertante che il consigliere Conte definisce come «un vero capolavoro di masochismo», attribuendolo ai dei due ex sindaci, è che i firmatari di quell’accordo sarebbero stati «consapevoli dell’indubbia penalizzazione» che tale atto avrebbe comportato per i propri cittadini. Gli avetranesi per la localizzazione del depuratore in contiguità con l’area residenziale di Urmo Belsito e i manduriani perché il loro sindaco Massafra, ha scelto il sito di Masseria Marina (San Pietro in Bevagna, Ndr) come recapito finale con le trincee drenanti. È di ieri, invece, un’altra presa di posizione contraria ai piani attuali di Aqp e Regione Puglia. Con una lunga relazione più tecnica che politica, i responsabili provinciale e cittadino del movimento «Idea» dell’ex ministro per le Riforme costituzionali, Gaetano Quagliarella, hanno presentato una serie di «osservazioni al progetto del depuratore consortile». Il documento lungo dieci pagine fa emergere numerose contraddizioni e presunte irregolarità nell’intero iter autorizzativo, sia vecchio che recente, con particolare attenzione allo scarico complementare previsto nel bacino di Torre Colimena e quindi in mare e ai lavori di interramento delle condutture che sconfinerebbero in zone sottoposte a obblighi di tutela di varia natura. Latto che porta la firma del presidente provinciale di Idea, Salvatore Faggiano e del coordinatore cittadino di Manduria, Giuseppe Coco, è indirizzato alle massime cariche istituzionali della Regione Puglia, ai responsabili tecnici di Aqp e al Ministero per i beni ambientali. Nazareno Dinoi

Depuratore sulla costa, responsabilità e silenzi. Una storia che va avanti da 15 anni, un tiremmolla fatto di progetti imposti con la forza, piccole modifiche, qualche aggiustamento, accordi insensati, appelli inascoltati...Luigi Conte su La Voce di Manduria, martedì 23 luglio 2019. Egregio direttore, ho apprezzato il coraggioso tentativo di stilare una cronologia sulla annosa questione Depuratore Consortile Manduria-Sava. Una storia che va avanti da 15 anni, un tiremmolla fatto di progetti imposti con la forza, piccole modifiche, qualche aggiustamento, accordi insensati, appelli inascoltati, manifestazioni popolari di civile protesta, denunce subìte da comuni cittadini, amministratori nascosti nell’ombra, consci di aver creato un mostro ambientale di cui si vergognano (forse!) e totalmente incapaci di compiere un gesto serio e deciso per mettere fine ad una tristissima vicenda. Come ex sindaco del Comune di Avetrana ho sopportato per anni e sopporto ancora feroci accuse in merito (come se fossi io il colpevole!) mentre, questo è lo scandaloso paradosso, le tre amministrazioni succedutemi, che potevano fare veramente qualcosa di concreto, sono rimaste non solo inattive ma, addirittura, hanno spianato la strada affinché il depuratore consortile rimanesse nel posto deciso in origine. Sindaci, vice sindaci e giunte che son venute dopo di me, hanno fatto passare tempo preziosissimo senza muovere un dito. Ignavia, indolenza, scarsa autorevolezza e perfida strumentalizzazione politica per utilizzare il depuratore consortile come strumento di lotta politica con uno sciacallaggio feroce contro di me basato sul nulla. Poichè ho la coscienza pulita e libera, più volte ho sfidato pubblicamente di mostrare atti pubblici da me sottoscritti ma mai nulla è uscito fuori né mai uscirà fuori alcunché per il semplice motivo che non esiste nulla di nulla firmato da me. Si scopre invece che sono altri ad aver sottoscritto accordi come si legge nel suo articolo del 20 luglio 2019. Si viene a sapere che nel 2014 il sindaco di Manduria dott. Massafra ed il sindaco di Avetrana, avv. De Marco sottoscrivono una proposta in cui si decide di allocare il depuratore-mostro a ridosso di Urmo –Belsito nella consapevolezza che risulta evidente “l’indubbia penalizzazione subita dai cittadini di Avetrana per la localizzazione del depuratore in contiguità con l’area residenziale di Urmo Belsito”…un vero capolavoro di masochismo insomma. Due sindaci vocati al “tafazzismo” considerato che anche il sindaco di Manduria, scegliendo il sito di Masseria Marina, come recapito finale con le trincee drenanti, non stesse facendo proprio un favore alla comunità di Manduria! Nel frattempo nessun intervento di tipo legale se non un flebile incarico per un ricorso ad adiuvandum dato qualche mese fa per sostenere il ricorso al TAR presentato e finanziato da liberi cittadini nel tentativo postumo di salvare la faccia. Nessuna posizione chiara, coerente, stabile. Nessuna opposizione nelle conferenze dei servizi, nessun esposto in Procura nonostante le macroscopiche anomalie! Vi è da chiedersi quali siano le motivazioni che spingano un sindaco a sottoscrivere un accordo così penalizzante per la propria comunità ma, dubito che avremo mai una risposta credibile e sincera. Quando il Sindaco De Marco faceva questo accordo i componenti della sua giunta, tra cui il vicesindaco Scarciglia Alessandro e l’assessore Minò, attuale Sindaco di Avetrana, ne erano a conoscenza? Erano consapevoli del danno che stavano provocando alla comunità da loro amministrata? Con quale coraggio hanno impoverito il tessuto economico-sociale avetranese sapendo che nel tempo le conseguenze sarebbero state devastanti e laceranti? Dovrebbero nascondersi per la vergogna ma per vergognarsi occorre conoscere cosa significhi dignità! Mi auguro che presto giustizia possa essere fatta e che qualche magistrato blocchi i lavori del depuratore-mostro. Nel frattempo la ringrazio per il contributo di verità che ha offerto ai suoi lettori. Luigi Conte, già sindaco di Avetrana

Sfilano in 10mila contro il depuratore a Urmo e lo scarico a mare. Gianluca Ceresio su pugliapress.org l'1 Agosto 2019. C’era davvero tantissima gente oggi pomeriggio sulla litoranea a Torre Colimena, marina di Manduria, erano oltre 10mila ed hanno sfilato issando bandiere e cartelli con slogan per chiedere lo spostamento del depuratore dalla zona Urmo Belsito a soli 1.700 metri dal mare. Inoltre, i manifestanti hanno ribadito e gridato a gran voce No allo scarico a mare. Erano presenti al corteo, il sindaco di Avetrana, Antonio Minò assieme ai colleghi di numerosi centri limitrofi; inoltre le associazioni ambientaliste Azzurro Jonio, Manduria Noscia e Wwf Italia, gruppi della Protezione civile Prociv ed Era di Manduria, quindi dell’associazione di tutela ambientale Nucleo Guardia Ambientale di Avetrana. A garantire l’ordine pubblico erano presenti numerosi agenti e mezzi della Polizia di Stato e della Polizia Locale di Manduria. Nessun rappresentante politico della Regione era presente alla manifestazione come pure del comune di Manduria. Se da una parte si è manifestato per dire si al depuratore e no alla dislocazione a Urmo, ebbene, bisogna però ricordare che i lavori di costruzione dell’impianto sono già in fase avanzata, per cui uno spostamento parrebbe quasi impossibile. Per quanto attiene allo scarico a mare, si spera che si possa evitare. Nel frattempo, sarebbe forse opportuno che da parte della Regione si tenga conto della volontà popolare che, come è stato più volte rimarcato ieri durante il corteo, potrebbe, tra l’altro, ritorcersi politicamente contro gli stessi governanti regionali alle prossime elezioni.  

Settemila persone dicono No all’Aqp e c'è polemica sul palco. Il primo a parlare dopo la breve sfilata per le vie della piccola località turistica, è stato il sindaco Minò che rivolto alla Regione Puglia ha chiesto l’apertura di un nuovo tavolo tecnico. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 02 agosto 2019. Diecimila persone, secondo il sindaco di Avetrana, Antonio Minò. Più realisticamente sei, settemila, per dire «Sì al depuratore ma lontano dalla costa». Comunque ben riuscita la manifestazione a Torre Colimena dove ieri intere famiglie, turisti, villeggianti e pochi politici («Fuori la politica dal corteo» era uno degli slogan urlati), hanno prima sfilato e poi hanno partecipato al sit-in previsto sotto la torre che dà il nome alla località balneare di proprietà di Manduria ma, di fatto, «ad uso» degli avetranesi che sono privi di sbocco a mare. L’opera contestata è quella che l’Acquedotto pugliese ha già appaltato ed iniziato con i lavori in località Urmo Belsito, zona residenziale turistica che ricade in territorio di Avetrana, distante meno di due chilometri dal mare di Specchiarica. Un progetto che dalle ultime carte pubblicate dalla Regione Puglia, prevede lo scarico del troppo pieno nel mare del porticciolo naturale di Tore Colimena, attraverso un bacino di acqua dolce con cui è collegato da un canale. Il primo a parlare dopo la breve sfilata per le vie della piccola località turistica, è stato il sindaco Minò che rivolto alla Regione Puglia ha chiesto l’apertura di un nuovo tavolo tecnico con la presenza delle istituzioni locali con i propri tecnici. Stessa cosa hanno chiesto i rappresentanti dei comuni presenti, Torre Santa Susanna e Porto Cesareo (assenti gli altri che avevano accettato l’invito, come Maruggio, Torricella, Erchie). Nessuno degli esponenti con la fascia tricolore, comunque, ha infiammato la piazza tanto quanto invece è riuscito agli ospiti della serata, i Boomdabash (che hanno intonato una breve strofa del loro successo di Sanremo, «Ti aspetterò») e il giornalista, Alessio Giannone, («Pinuccio» di Striscia la notizia). È stato un esponente del gruppo salentino il primo a dire quello che tutti evidentemente aspettavano che si dicesse, se è vero che le sue parole sono state seguite da un boato di approvazione e applausi. Rivolto ai sindaci presenti, il cantante ha chiesto: «scusatemi, ma se il problema esiste da quindici anni, voi dove siete stati sinora?». Qui è scattata la scomposta reazione del sindaco Minò che ha strappato il microfono dalle mani del «Boonda» esibendosi in un teatrino che non è stato apprezzato dal pubblico. «Il sottoscritto con altri pochi ha creato il primo comitato contro il depuratore», ha urlato il primo cittadino rivolgendosi al pubblico che evidentemente non ha gradito l’intrusione. Ancora più pungente e diretto è stato l’inviato di «Striscia» il quale ha esordito confidando che aveva deciso di non parlare proprio perché c’erano i sindaci sulla gradinata della torre trasformata in palco. Tra gli applausi del numeroso pubblico, ha poi fatto andare su tutte le furie il sindaco di Porto Cesareo, Salvatore Abano che lo ascoltava. «Il Salento – ha ricordato “Pinuccio” -, è la decima provincia in Italia per l’abusivismo edilizio; signori, non si può venire qui a dire “No al depuratore” se poi a Porto Cesareo ci sono diecimila case abusive». Sempre rivolgendosi ai politici, il giornalista gli ha invitati piuttosto ad incatenarsi davanti alla Regione per ottenere qualcosa. La carrellata di ospiti si è conclusa con la diffusione di un messaggio audio del giornalista Remo Croci e della cantante Romina Power che hanno espresso la loro vicinanza alle rivendicazioni delle popolazioni e la loro assoluta contrarietà al depuratore con vista mare. Nazareno Dinoi

Retroscena e polemiche all’ombra della Torre. Il “segnale” di Macina, la rabbia di Breccia e il veto su Di Lauro. La Voce di Manduria venerdì 02 agosto 2019. La manifestazione di ieri a Torre Colimena ha definitivamente acclarato le differenti visioni sul problema depuratore che esistono all’interno del Movimento 5 Stelle regionale, locale e tra i portavoce al Parlamento. Tra le migliaia di persone che hanno preso parte attiva all’evento, era presente, contravvenendo agli ordini di scuderia di non partecipare, l’onorevole pentastellata di Erchie, Anna Macina. La parlamentare grillina ci ha tenuto a far sapere di esserci postando sul suo profilo Facebook la sua foto tra il pubblico con la scritta molto eloquente: «Torre Colimena, ora! Chiaro il messaggio?». Chiaro, sì. Anche dietro le quinte della manifestazione di ieri a Torre Colimena si sono registrati attriti tra gli organizzatori. Non è sfuggito a tutti, infatti, il nervosismo di Cosimo Breccia che ha preso la parola per rispondere il sindaco di Avetrana, Minò, che aveva detto di avere al suo fianco, nella battaglia sulla delocalizzazione, i commissari straordinari di Manduria. A proposito di questa presunta collaborazione dei commissari, Breccia ha fatto intendere di essere stato invece ostacolato nell’organizzare la parte logistica della manifestazione. Da segnalare, infine, l’assenza sulla gradinata della torre del rappresentante di Wwf Italia, Francesco Di Lauro dovuta, pare, ad un veto che qualche politico di Avetrana avrebbe posto nei suoi confronti.

Aqp e Conte: sul depuratore anche Avetrana ha detto Sì. ​In definitiva, fa sapere l’Acquedotto pugliese in una nota stampa, a scegliere la località Urmo Belsito quale sito ideale per la costruzione del depuratore consortile dei comuni di Manduria-Sava, «al netto – scrive - di tutti...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria martedì 13 agosto 2019. In definitiva, fa sapere l’Acquedotto pugliese in una nota stampa, a scegliere la località Urmo Belsito quale sito ideale per la costruzione del depuratore consortile dei comuni di Manduria-Sava, «al netto – scrive - di tutti i vincoli ambientali e paesaggistici dell’area circostante», è stata anche l’amministrazione di Avetrana. Territorio pesantemente penalizzato da tale scelta perché intacca l’omonimo insediamento residenziale-turistico vicino alla costa. «Con un documento congiunto del 2014 – fa sapere il numero uno dell’ente idrico Simone Di Cagno Abbrescia -, le amministrazioni comunali di Manduria e Avetrana hanno condiviso formalmente il sito prescelto, condizionandolo all’abbandono della condotta sottomarina e proponendo un recapito sul suolo attraverso trincee disperdenti in località Masseria della Marina». Tale evenienza viene poi addolcita dal vicesindaco avetranese, Alessandro Scarciglia, che in una lettera aperta indirizzata al presidente dell’Aqp, pur ammettendo l’accordo, bolla il virgolettato di Di Cagno Abbrescia come «un goffo tentativo di annullare l’unità dei vari movimenti popolari che contestano la costruzione del suddetto depuratore». Ad infuocare la polemica, con accuse dirette rivolte proprio a Scarciglia (all’epoca die fatti sempre numero due della giunta), è l’ex vicesindaco e attuale consigliere comunale di opposizione, Luigi Conte che in un commento pubblicato sui social fa vacillare la credibilità della figura istituzionale punta di lancia del movimento «No al depuratore ad Urmo». Parlando di «accordi condivisi» tra le due amministrazioni «con l’indubbia penalizzazione dei cittadini di Avetrana», Conte fa i nomi di chi amministrava la cosa pubblica dell’epoca. «Rammento a quelli che hanno problemi di cattiva memoria – scrive l’ex sindaco -, chi erano gli amministratori di Avetrana nel 2014: De Marco Mario (sindaco), Scarciglia Alessandro (vicesindaco), Minò Antonio, Tarantino Enzo e Petarra Daniele (assessori). Finalmente la neve si scioglie», conclude Conte». Nella sua replica a Di Cagno Abbrescia (e non ancora a Conte), la difesa di Scarciglia appare debole perlomeno rispetto ai termini attuali dello scontro. Ammettendo l’esistenza di quell’accordo siglato nel 2014 tra il sindaco di Manduria, Roberto Massafra e di Avetrana, Mario De Marco, il vicesindaco Scarciglia cerca di «chiarire che in quel momento storico (ma nulla è cambiato oggi) l’allora presidente della Regione Puglia vietava di discutere di delocalizzazione del depuratore e, quindi, con quel documento datato 12 novembre 2014, gli allora sindaci dei comuni di Avetrana e Manduria riescono ad ottenere dalla Regione l’eliminazione della condotta sottomarina». Unica difesa dell’allora primo cittadino di Avetrana, la dichiarazione fatta inserire nel verbale in cui si riconosceva «una indubbia penalizzazione subita dai propri cittadini per la scelta della localizzazione del depuratore in contiguità con l’area residenziale Urmo Belsito». Ben poca cosa rispetto al risultato ottenuto da Aqp e Regione Puglia che con quell’accordo portarono a casa il preziosissimo placet dei sindaci dei due comuni grazie al quale si è poi mossa la complessa macchina delle autorizzazioni e, in seguito, delle ruspe. Nazareno Dinoi

Addio a Nadia Toffa, la conduttrice de Le Iene morta a 40 anni. È morta oggi Nadia Toffa, la conduttrice de Le Iene a cui era stato diagnosticato un tumore nel dicembre 2017. Francesco Curridori, Martedì 13/08/2019, su Il Giornale. È morta oggi a soli 40 anni la ‘Iena’ Nadia Toffa a cui, nel dicembre 2017, era stato diagnosticato un tumore. L'annuncio è arrivato dai profili social de Le Iene, la trasmissione televisiva che l'ha resa famosa. "Niente per noi sarà più come prima", si legge nel lungo post.

Morta a 40 anni Nadia Toffa. Il suo ultimo post risale al primo luglio, quando ha pubblicato una foto sorridente con il suo cane: "Io e Totò unite contro l’afa", scriveva, "E dalle vostre parti come va? Vi bacio tutti tutti tutti".

Gli esordi nelle reti locali. Nadia nasce il 10 giugno 1979 a Brescia dove prende il diploma di maturità classica e, poi, si trasferisce a Firenze per laurearsi in lettere con percorso storico-artistico con una tesi sulla Storia della chiave iconografica di San Pietro. La sua prima partecipazione televisiva arriva a 23 anni su Tele Santerno, una tivù locale dove ha presentato il programma di intrattenimento Dolce e amaro. Prima di iniziare a lavorare per Mediaset, per quattro anni conduce vari programmi e telegiornali su Retebrescia.

L'arrivo di Nadia Toffa alle Iene. Nel 2009 diventa un'inviata del programma di Italia Uno, Le Iene, per il quale confeziona numerosi servizi sulle sale di slot machine, sullo smaltimento illegale dei rifiuti in Campania ad opera della camorra e sui casi di tumori riscontrati nel "triangolo della morte" tra Napoli e Caserta e sulla "terra dei veleni" a Crotone. Finisce sotto processo per presunta diffamazione dopo la sua inchiesta sulle truffe che alcune farmacie avrebbero compiuto ai danni del servizio sanitario nazionale. Nel 2014 pubblica il libro Quando il gioco si fa durosul fenomeno della ludopatia in Italia e, nel 2015, vince il primo premio nella sezione TV del Premio Internazionale Ischia di Giornalismo.

I servizi sui vaccini e sul Gran Sasso. Sempre nello stesso anno debutta su Italia1 con Open Space, un talk show di prima serata tutto suo. Qui innescherà molte polemiche una puntata dedicata al tema dei vaccini con ospiti molto particolari. Da una parte Red Ronnie sosterrà che se ne può fare a meno e che basta curarsi con rimedi naturali, dall’altra Alice Pignatti, una mamma che aveva iniziato una campagna a favore delle vaccinazioni pediatriche e due medici su posizioni completamente opposte sul tema. Dopo questa puntata la Toffa si ritrova contro tutto il mondo novax. Dal 2016 conduce, insieme a Pif e Geppi Cucciari, Le Iene, nella puntata infrasettimanale, mentre dall'autunno dello stesso anno cambia partners e passa alla puntata domenicale. Un suo servizio del novembre 2017 sul SOX, uno degli esperimenti di fisica delle particelle realizzato nei Laboratori nazionali del Gran Sasso, viene smentito dal mondo accademico che critica la Toffa per aver paragonato quello che sarebbe potuto succedere in Abruzzo con il disastro di Fukushima. Il filosofo Gilberto Corbellini, sul Foglio, aveva contestato “il metodo Iene” dicendo: “Nel caso del Gran Sasso l’effetto paura è scatenato dalla parola 'nucleare' e dall’associazione mistificante tra un esperimento con materiale radioattivo, condotto in condizioni super-controllate, e centrale nucleare, che nell’immaginario collettivo è associata a catastrofi devastanti”. E ancora: “Naturalmente la manipolazione psicologica va condita con opportune falsità. E cosa c’è di più manipolatorio che affermare, falsamente, che gli scienziati dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) hanno tenuto nascosto l’esperimento e i rischi?”. Il magazine Focus, invece, aveva confutato ogni paragone con il Giappone:“Il confronto, o anche la semplice associazione di idee, tra il disastro di Fukushima e l’esperimento SOX non si fonda su argomenti concreti né realistici, ed è un’operazione mediatica scorretta che ha come effetto quello di diffondere tra le persone uno stato di ingiustificato allarme”.

Il malore e la scoperta del tumore. Il 2 dicembre 2017 ha un malore nella sua camera d'albergo a Trieste e viene ricoverata nel reparto di terapia intensiva dell'Ospedale di Cattinara. L'11 febbraio 2018 ritorna a condurre Le Iene e rivela di aver sconfitto un tumore grazie alla chemioterapia e alla radioterapia. “Ho avuto un cancro. In questi mesi mi sono curata: prima ho fatto l’intervento, poi la chemioterapia e la radioterapia. L’intervento ha tolto interamente il tumore, ma poteva esserci una piccola cellula rimasta e quindi ho seguito i consigli del medico e ho seguito le cure previste. Ora è tutto finito: il 6 febbraio ho finito la radio e la chemio”, aveva detto nel corso della trasmissione. Affermazioni che avevano suscitato forti polemiche sui social da parte dei malati di cancro tanto che la Toffa aveva, poi, precisato su Instagram: “Nessuno di noi può parlare di guarigione e nemmeno la sottoscritta lo ha fatto”. Una frase che, forse, lasciava presagire che non tutto era risolto. Domenica 8 aprile, infatti, annuncia via Twitter che non avrebbe partecipato al programma: “Ciao ragazzi, - si legge sul suo profilo - stasera non sarò alla conduzione del mio programma preferito, #LeIene, perché negli ultimi giorni ho fatto delle cure che mi hanno provata un bel po' e quindi mi tocca saltare la puntata di questa domenica. Vi prometto comunque che da settimana prossima tornerò”.

L'amore di Nadia Per il Salento. Le iene show, la puntata del 30 novembre 2015. Samuele Perotti Lunedì, 30 Novembre 2015.  È andata in onda su Italia1 una nuova puntata de Le Iene Show, condotto da Ilary Blasi e Teo Mammucari con le voci fuori campo del Trio Medusa. L’atteso documentario che per la prima volta racconta il calcio dal punto di vista degli arbitri con protagonista Nicola Rizzoli, è andato in onda in chiusura di puntata. Riviviamo tutti i servizi odierni. Soliti inizio danzante, con successive simpatiche prese in giro tra i due conduttori, spalleggiati dal Trio Medusa. Il primo servizio è di Nadia Toffa, che ancora una volta si trova in Puglia. Tra Manduria e Sava si vuole costruire un depuratore che scarica in mare. Il geologo Del Prete aveva presentato un progetto di scarico al suolo, con la possibilità di riutilizzarle in agricoltura, ma non ha ricevuto consensi delle istituzioni, così come tutte le soluzioni alternative. Ad approvare questo è stato l’ex governatore della regione Puglia Nichi Vendola, che oltre a rigettare le varie opzioni, gira la patata bollette all’attuale presidente Michele Emiliano; prima di salutarla con un numeroso vaffa. Nemmeno lui però ha rispettato le promesse preelettoriali. Nadia Toffa si reca in Puglia, nel territorio compreso tra Manduria e Sava. Quest’area protetta rischia di essere compromessa a causa di un progetto che prevede la costruzione di un depuratore che raccolga gli scarichi fognari e che, grazie a una tubatura di qualche chilometro, scarichi poi direttamente in mare. Tutto è iniziato 10 anni fa quando la Regione Puglia si è trovata a dover risolvere un problema: da una parte Manduria, con un depuratore vecchio e inquinante che andava sostituito, dall’altra il paese di Sava, non dotato di depuratore. Contro l’implementazione del progetto si sono schierati ben 16 comuni. La Iena intervista in merito il Sindaco di Avetrana Mario De Marco, Francesco Di Lauro del WWF Taranto, Mario Del Prete, geologo e professore Università di Potenza, il Sindaco di Manduria Roberto Massafra, il Direttore Legambiente Puglia Maurizio Manna, che sottolineano come siano state presentate alla Regione Puglia diverse proposte alternative e come una misura di questo tipo possa provocare ingenti danni ambientali, nuocendo profondamente anche al turismo. Nadia Toffa raggiunge infine Nichi Vendola, l’allora Presidente della Regione Puglia che sposò fin dal principio il progetto, e Michele Emiliano, attuale Presidente Regione Puglia.

Che fine farà lo scarico a mare di Manduria? Giovanni Drogo l'1 Dicembre 2015 su Next Quotidiano. Ieri le Iene hanno mandato in onda un servizio di Nadia Toffa sull’annosa questione del depuratore con annesso scarico a mare tra Manduria e Avetrana a poche centinaia di metri dalle aree protette diFoce del Chidro, le Saline Monaci-Palude del Conte senza dimenticare le dune di Torre Colimena. Un mese fa dello scarico fognario alla foce del fiume Chidro a Marina di Manduria se n’era occupato Pinuccio per Striscia La Notizia.

La storia dello scarico a mare di Marina di Manduria. La situazione è grossomodo questa, da diversi anni è in progetto la creazione di un sistema fognario per le marine del litorale di Manduria, nonché i comuni di Manduria e Sava. Il problema, se vogliamo chiamarlo solo così, è che il progetto approvato dalla Regione Puglia nella scorsa legislatura prevedeva lo scarico in mare delle acque reflue del depuratore. Scarico la cui ubicazione era stata individuata sul litorale tra due aree marine protette in prossimità della foce del fiume Chidro tra San Pietro in Bevagna, Specchiarica e Torre Colimena. Vale la pena di notare che il Chidro è un fiume già fortemente inquinato; già nel 2009 Legambiente e Goletta Verde avevano denunciato la presenza di numerosi scarichi abusivi lungo il corso del fiume. Cosa prevede il progetto? Innanzitutto la costruzione del depuratore e dei collettori fognari, dal depuratore poi dovrebbe partire un’ulteriore conduttura verso la spiaggia da dove proseguirà in mare per altri novecento metri fino a raggiungere i 14 metri di profondità. E lì, di fronte a uno dei litorali più belli del Salento verranno rilasciate in mare tonnellate di cacca. Non che sia proprio un’idea innovativa, anzi è un progetto vecchio dal punto di vista delle soluzioni tecniche, ma la società Aquedotto Pugliese, che si occupa della gestione delle fognature, l’ha già adottata altrove in Salento. Anche lì all’interno di un’area marina protetta, quella di Torre Guaceto. Dal 2011 le comunità di Manduria e dei comuni limitrofi hanno iniziato una battaglia, al grido di No allo scarico a mare, e sono state avanzate diverse proposte alternative. Perché, spiegano, un’opera del genere anche se necessaria (come in altre parti d’Italia i comuni interessati non hanno uno sistema di fognature) rischierebbe di provocare danni irrimediabili all’ambiente e di conseguenza alla principale industria salentina: il turismo. Chi mai vorrebbe fare il bagno in acque contaminate? Nessuno. Però l’ammodernamento del sistema fognario resta una necessità e quindi la Regione in questi anni non ha saputo fare di meglio che mandare avanti il progetto. Il professor Mario Del Prete(ordinario di Geologia e Idrogeologia all’Università della Basilicata e consulente scientifico del Comune di Avetrana) ha proposto una depurazione totale degli scarichi fognari in modo da poter riutilizzare l’acqua impiegandola per l’irrigazione delle colture e per altri scopi civili. Maurizio Manna di Legambiente Puglia propone anche l’utilizzo della fitodepurazione, ovvero il trattamento delle fogne successivo al passaggio in depuratore in appositi bacini dove le piante verrebbero utilizzate per raffinare la depurazione delle acque.

Le responsabilità di Nichi Vendola. La colpa di tutta questa situazione è imputabile all’ex-Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, che pure appartiene ad un partito che si chiama Sinistra Ecologia e Libertà. Intervistato dalla Toffa Vendola nega ogni addebito scaricando (lol) tutto sul nuovo Presidente Michele Emiliano. Vendola, dicendo che tutto è stato fatto in ottemperanza ai criteri normativi vigenti (in realtà già nel 2010 il TAR aveva bloccato la costruzione del depuratore di Manduria-Sava) ad un certo punto sbotta e manda affanculo la Toffa. Vendola oggi su Twitter tace, ma ieri aveva retwittato un tweet di Sinistra Italiana molto critico nei confronti dell’atteggiamento poco ambientalista del Governo Renzi.

No alle trivelle in mare ma sì alle fogne in mare? Eppure, come riporta il quotidiano La Voce di Manduria, all’epoca la Regione Puglia aveva dichiarato che tra tutte le varianti del progetto ce n’era una (condotta sottomarina lunga 3600 metri e profonda 35) considerata “la più cautelativa” mentre quella adottata nella fase finale e che si dovrebbe costruire (condotta di 1000 metri e 10 di profondità) veniva definita “non ottima, in quanto lo scarico dei reflui depurati avviene all’interno dell’area Sic” (Sito di interesse comunitario). Come mai la Regione ha scelto di mandare avanti questo secondo progetto?  

Emiliano ha già bloccato i lavori,  ma solo fino al 4 dicembre. A questo punto la palla passa a Michele Emiliano, che in campagna elettorale aveva promesso proprio alla Toffa di fare il possibile per fermare la costruzione dello scarico a mare di marina di Manduria. A quanto pare Emiliano ha mantenuto la promessa, appena eletto ha bloccato i lavori. Ieri su Twitter il Presidente della Regione aveva detto di aver mantenuto la promessa: Alcuni utenti però lo incalzano, è vero che il progetto del depuratore è stato bloccato ma solo fino al 4 dicembre, come mai? Emiliano spiega che manca un progettista che firmi il nuovo progetto, quello alternativo. Davvero la Regione Puglia non è riuscita a trovare in sei mesi qualcuno in grado di farlo?

NADIA TOFFA IL VAFFA DI VENDOLA E IL DEPURATORE IN PUGLIA CHE SCARICA IN MARE. VIDEO LE IENE. Scritto da Lorella Casella il 30 novembre 2015. Ancora una volta uno dei servizi più attesi in questa serata di lunedì 30 novembre di Le Iene Show è stato quello di della iena Nadia Toffa. La Toffa questa volta si è recata in Puglia, precisamente alle porte del salento, per occuparsi del progetto di un depuratore che scarica direttamente in mare. Cosa ha portato a casa? Un Vaffanculo dell’ex presidente della regione, Nichi Vendola. Nadia Toffa questa volta si è recata nella bellissima Puglia, precisamente nel territorio compreso tra Manduria e Sava, per occuparsi di una questione che da anni indigna l’intera regione. Quest’area protetta, e ribadiamo protetta, rischia di essere compromessa gravemente e irrimediabilmente a causa di un progetto che prevede la costruzione di un depuratore che raccoglie gli scarichi fognari e che, grazie a una tubatura di qualche chilometro, scarichi poi direttamente in mare. Ebbene sì, avete capito bene, lo splendido mare del salento e il turismo si questi comuni, potrebbe essere presto compromesso a causa di questa spiacevole vicenda iniziata ben 10 anni fa, quando la regione Puglia si è trovata a dover risolvere un problema: da una parte Manduria, con un depuratore vecchio e inquinante che andava sostituito, dall’altra il paese di Sava, non dotato di depuratore. Per ovviare a questo problema, ha quanto pare, è stato scelto il metodo peggiore, visto che la stessa Toffa ci ha presentato delle proposte alternative ben più ecologiche. E a proposito di ecologia, la iena ha deciso di interrogare a riguardo l’ex presidente della regione Puglia, Nichi Vendola (presidente di Sinistra Ecologia Libertà), che nel 2011 ha approvato il progetto, sposato sin dall’inizio. Se avete perso il servizio di Nadia Toffa su un mare di… cacca, andato in onda nella puntata di stasera lunedì 30 novembre 2015 a Le Iene Show.

È morta Nadia Toffa, i malati di Taranto perdono la loro voce più importante. Ci mancherai. Gianluca Lomuto bari. Ilquotidianoitaliano.com il  13 Agosto 2019. Dopo tutto il clamore che l’ha circondata per mesi, tra l’affetto dei fan e l’odio dei famigerati hater, alla fine se n’è andata in silenzio. Nadia Toffa non c’è più, il cancro se l’è portata via. La Iena più famosa dl bel paese, nota in ugual misura per il suo sorriso e la sua tenacia di conduttrice e inviata della trasmissione televisiva di Italia1, non ce l’ha fatta a vincere la sua personalissima battaglia di cui non ha fatto mistero, battaglia che tanto per cambiare le ha attirato una valanga di critiche dei soliti leoni da tastiera. La notizia, a dirla tutta, era nell’aria da un po’, il misterioso silenzio, calato improvvisamente su di lei, non faceva presagire niente di buono. Moltissimi hanno sperato fino all’ultimo che si riprendesse, lei stessa via social ha più volte mandato messaggi di incoraggiamento e di speranza. Alla fine la malattia ha vinto sul corpo, ma non su Nadia, le cui fotografie oggi riempiono le bacheche di facebook: “Quelli come te non perdono mai” scrive la redazione del programma nel dare il triste annuncio, e hanno ragione. In Puglia era diventato il volto dei malati di Taranto, d quei morti di inquinamento che per molto tempo tantissimi politici, locali e nazionali, hanno fatto finta di non vedere. Di Taranto era anche diventata cittadina onoraria. Si era battuta anche per la Xylella, che sta flagellando gli ulivi del Salento. In Italia era diventata la faccia di una trasmissione, che nel bene e nel male, tra alti e bassi di credibilità, ha riportato l’approfondimento giornalistico in prima serata. È arrivato per lei il momento di passare il testimone, certa che qualcun altro porterà avanti le sue battaglie. Riposati ora, guerriera. Ci mancherai.

Morta Nadia Toffa, la Iena sempre in prima linea a difesa degli ulivi del Salento. Leccenews24.it il 13 Agosto 2019. La popolare conduttrice è morta a causa di un grave male che l’aveva colpita. È stata spesso in Salento per parlare di emergenza xylella. Le Iene, “Niente per noi sarà più come prima”. “E forse ora qualcuno potrebbe pensare che hai perso, ma chi ha vissuto come te, NON PERDE MAI. Hai combattuto a testa alta, col sorriso, con dignità e sfoderando tutta la tua forza, fino all’ultimo, fino a oggi. D’altronde nella vita hai lottato sempre. Hai lottato anche quando sei arrivata da noi, e forse è per questo che ci hai conquistati da subito”, con questo post commovente sul loro profilo facebook “Le Iene” hanno annunciato la morte di Nadia Toffa. La popolare conduttrice della trasmissione di Italia Uno aveva compiuto da poco 40 anni e da tempo lottava contro una grave malattia. Tutto era iniziato nel dicembre 2017, quando, a Trieste per un servizio, avvertì un malore. Da qui la diagnosi di una grave malattia contro la quale ha combattuto fino all’ultimo, con dignità e senza mai nascondersi. Nadia Toffa è stata molto legata al Salento, tantissime, infatti, sono state le sue visite sul territorio per occuparsi dell’emergenza xylella. “Le Iene”, infatti, è stata tra le primissime trasmissioni scese in campo per difendere gli ulivi e porre un fascio di luce sul dramma che hanno vissuto tantissimi agricoltori e diversi sono stati i servizi, firmati proprio dalla conduttrice, nei quali non solo si è parlato del batterio ma, con l’aiuto di esperti, si è cercata una soluzione per debellarla.

“Le Iene che piangono la loro dolce guerriera– concludo i colleghi – inermi davanti a tutto il dolore e alla consapevolezza che solo il tuo sorriso, Nadia, potrebbe consolarci, solo la tua energia e la tua forza potrebbero farci tornare ad essere quelli di sempre. Niente per noi sarà più come prima”.

Xylella. Le Iene portano bene…speriamo! Nadia Toffa tra gli ulivi del Salento. Leccenews24.it il 28 Marzo 2015. Le Iene accendono i riflettori sulla xylella fastidiosa e sulla sperimentazione targata Copagri. Fabio Ingrosso ha accompagnato l’inviata Nadia Toffa nelle campagne del Salento. Gli ulivi del Salento non sono solo e soltanto una questione che interessa quel lembo di terra compreso tra l’Adriatico e lo Ionio, o tutt’al più l’intero tacco dello stivale. Il grido d’aiuto lanciato dagli alberi che possono avere una vita millenaria comincia ad espandersi e diffondersi, purché non si affronti la questione con un allarmismo che non solo sarebbe inutile, ma rischia di essere dannoso. Certo, nemmeno il complottismo può funzionare quasi che i salentini siano stati vittime di chissà quale trama ordita da chi lo vuol vedere piegato agli interessi extralocali. La faccenda Xyllella fastidiosa, che di per sé è seria, merita di essere letta con la lente di ingrandimento della cultura e della scienza che insieme devono dare risposte concrete a quei contadini che – come raccontato a Leccenews24 – nel giro di pochi anni si sono ritrovati senza quelle piante considerate quasi “amiche”. Oggi, a volerne sapere di più, sono state Le Iene, la nota trasmissione di approfondimento giornalistico di Italia1 che prova ad andare dietro alle questioni per vederne risvolti spesso trascurati. A visitare il Salento ed i suoi ulivi è giunta così Nadia Toffa, viso noto per le sue inchieste nel settore del gioco d’azzardo e delle prescrizioni farmaceutiche. La bionda inviata ha voluto conoscere i dettagli della ricerca coordinata da Copagri, una ricerca che non vuole mettersi di traverso al piano presentato dal commissario straordinario, Giuseppe Silletti, nominato dalla Protezione Civile per la costituzione del famoso e famigerato cordone sanitario, ma fornire una chiave di lettura diversa e, perché no, una soluzione prima di giungere a ciò che deve essere l’extrema ratio e non il punto di partenza per fronteggiare l’emergenza. Così, Fabio Ingrosso e Nadia Toffa hanno fatto visita ad alcuni uliveti situati nel Nord Salento che saranno oggetto della sperimentazione portata avanti dall’Università di Foggia con i professori Lops e Carlucci e dell’Università di Lecce con Luigi De Bellis, attraverso l’uso di molecole naturali. Ci si è fermati anche in appezzamenti che, pur trovandosi, in un’area drasticamente colpita dal batterio killer presentano alberi non infetti, ma anzi rigogliosi a testimonianza che sulla Xylella e sulla sua capacità di propagarsi non solo non è stato detto tutto, ma forse ancora tutto non si sa. Ecco perché sulla ricerca bisogna spingere e accendere i riflettori – come stanno facendo Le Iene –  non può che essere positivo per il nostro territorio. 

“LE IENE”, NADIA TOFFA NEL SALENTO PER SALVARE GLI ULIVI. Paolo Pagnotta il 10 Novembre 2015 su zon.it. Nadia Toffa è tornata in Puglia dopo l’abbattimento di ulivi secolari, simbolo della regione. È stata trovata una cura per sconfiggere il batterio della Xylella. Il pianto inconsolabile di un contadino, mentre pronuncia la frase: «Mi si spezza il cuore», ha aperto il servizio sugli ulivi del Salento dell’inviata Nadia Toffa, andato in onda ieri sera durante la 7ª puntata de “Le Iene”, su Italia 1. Dopo la parentesi di “OpenSpace”, la “iena” torna in Puglia, precisamente in provincia di Brindisi, dove hanno iniziato a sradicare centinaia di ulivi centenari a causa del batterio della Xylella; la giornalista bresciana aveva già affrontato il problema nella puntata andata in onda il 2 aprile scorso, dopo che gli ulivi erano stati colpiti da uno strano disseccamento in forte espansione, costituendo il primo caso al mondo, dopo che questo batterio killer aveva già devastato i vigneti della California e degli agrumeti in Brasile. L’UE ha chiesto all’Italia un intervento drastico per prevenire il contagio di altre piante, ma un assurdo decreto per l’emergenza Xylella stabilisce che oltre a estirpare gli ulivi infetti, bisogna abbattere anche quelli sani nel raggio di 100 metri, così molti ulivi carichi di olive sono già stati rasi al suolo, creando zone desertiche. «Vedere abbattute delle piante sane con delle olive sopra, piene di vegetazione, ti fa male al cuore» dice Fabio Ingrosso, presidente della Copagri (Confederazione Produttori Agricoli) di Lecce. Ma un barlume di speranza lo restituisce la prof.ssa Antonia Carlucci, dell’Università di Foggia, secondo la quale questo batterio che ammala gli alberi può essere curato, dimostrando questa tesi con l’illustrazione di fotografie che ritraggono alberi “scheletrici” che dopo i trattamenti hanno ripreso a fiorire e persino a fruttificare, sottoponendo questi risultati di una rinascita insperata al ministro dell’agricoltura Maurizio Martina, che si è mostrato immediatamente disponibile a incontrare i ricercatori per trovare delle soluzioni. Uno studio positivo che ha convinto anche Francesco D’Alonzo, presidente degli Agronomi della provincia di Brindisi, il quale scarta categoricamente l’ipotesi dell’abbattimento, aggiungendo che la cura è l’unico metodo per risolvere il problema. Il servizio prosegue con l’abbraccio dell’inviata al contadino affranto, mentre un altro non ha la forza di guardare quando abbattono gli ulivi sotto i suoi occhi disperati, invece un altro ancora si interroga sul futuro di questi terreni e dei suoi figli. L’inchiesta poi si chiude con la Toffa che mostra un ulivo secolare di valore inestimabile, con la targhetta che lo certifica come patrimonio UNESCO, che secondo Al Bano, originario proprio del brindisino, ha 900 anni, la stessa età della Torre di Pisa e più giovane di due secoli rispetto alla nascita del Sommo Poeta Dante Alighieri, in un’idea straordinaria di antichità. «Questi ulivi sono le mie braccia, la mia infanzia, la mia fantasia; questi giganti della natura hanno ancora diritto alla vita. La Puglia senza ulivi è come il Vaticano senza la Cappella Sistina» ha asserito il cantante di Cellino San Marco, mentre scruta il simbolo della sua terra. La “iena” ha interpellato anche Caparezza, un altro pugliese appartenente al mondo musicale: «L’albero di ulivo è esattamente come un parente, per cui quando si ammala un parente la prima cosa che pensi è salvarlo, non abbatterlo» ha dichiarato ai microfoni de “Le Iene” il rapper di Molfetta. Speriamo che l’Unione europea ponga fine a questi folli abbattimenti degli ulivi, fonte di ricchezza e simbolo della regione più bella del mondo (un riconoscimento testimoniato anche da National Geographic); non ricordiamoci della Puglia solo d’estate per soddisfare i nostri desideri vacanzieri, la nostra voce può salvare i giganti del Salento!

La giornalista de “Le Iene” Nadia Toffa torna in Salento per occuparsi di ulivi, Xylella, eradicazioni e responsabilità. Olio Salve 29 febbraio 2016. Xylella, eradicazioni e responsabilità: Nadia Toffa, torna in Salento. La giornalista, da quest’anno anche co-conduttrice de “Le Iene”, nota trasmissione di Italia1, è tornata in Salento dopo il primo servizio per affrontate il problema che affligge gli ulivi: la Xylella. L’intento della giornalista è quello di informare su ciò che sta accadendo realmente in Salento e descrivere la situazione attuale, analizzando la condizione degli ulivi e le eventuali responsabilità del Governo e del Ministero delle Attività Agricole. L’Unione Europea con il “Decreto emergenza Xylella” ha ordinato le eradicazioni coatte di interi uliveti. Il Decreto prevede che ogni ulivo, anche se con un solo ramo secco, sia estirpato e si taglino tutti gli alberi, anche sani, in un raggio di 100 metri. Le immagini del servizio, mostrano alcuni terreni in cui sono già iniziate le prime eradicazioni: una situazione tragica con alcune famiglie che hanno subito ingenti danni e che sono state costrette a vedersi privare dei loro ulivi, dal grandissimo valore affettivo e storico. L’inchiesta ha rivelato che la Xylella, questo batterio killer, contrariamente a quanto si possa pensare, esiste già da circa 30 anni, secondo quanto affermato dal Procuratore di Lecce, Cataldo Motta.

Xylella, eradicazioni e responsabilità: Nadia Toffa in Salento ha cercato di far luce su una vicenda che sembra quindi poco chiara. Non si riesce a capire, infatti, perché nel frattempo siano state ordinate le eradicazioni coatte. Alcuni di questi alberi, infatti, sono sopravvissuti a secoli di storia e di accadimenti, sono stati testimoni di eventi importanti, tanto da essere considerati “Patrimonio dell’Umanità” da parte dell’UNESCO, come affermato dalla giornalista. Provate a pensare: alcuni di loro erano già presenti nel Medioevo, prima di Dante. Per questo il loro valore storico e culturale è inestimabile e il nostro compito dovrebbe essere quello di tutelarli e prendercene cura, non certo quello di abbatterli. In casi come questi si dovrebbe investire nella ricerca, invece di spendere i soldi per le eradicazioni. L’Università di Foggia nel frattempo ha dimostrato che la Xylella si può curare, curando tutti e 120 ulivi che sembravano condannati a morte. Ci sono riusciti utilizzando dei prodotti biologici a basso impatto ambientale. Questo perché in molti casi si rischia di confondere la Xylella con la “sindrome di disseccamento precoce” dell’ulivo. Questo è un punto fondamentale perché sembra evidenziare la mancanza di collaborazione tra il Ministero e gli scienziati coinvolti, che potrebbe invece portare alla soluzione definitiva del problema. A tal proposito, la Procura di Lecce ha ordinato lo stop delle eradicazioni, ritenute dannose e non risolutive, ed ha aperto delle indagini per disastro ambientale colposo e per diffusione colposa della malattia delle piante perché si sospetta che le persone colpevoli delle eradicazioni, abbiano agito consapevoli del danno che avrebbero creato. Olio Salve.

Eleonora Brigliadori e il commento su Nadia Toffa. Nadia Toffa è stata oggetto di un commento raggelante di Eleonora Brigliadori che su Facebook così scrive del tumore che ha colpito la Iena: "Chi è causa del suo mal pianga se stesso il destino mostra le false teorie nella vita e dove la salute scompare la falsità avanza". Intanto monta la protesta contro la partecipazione dell'attrice a Pechino Express, soprattutto per le pericolose dichiarazioni contro la medicina tradizionale e le cure contro il cancro.

«Il depuratore di Manduria non è opera mia». Emiliano scarica responsabilità anche sulla scelta del sito. La Voce di Manduria venerdì 16 agosto 2019. «Non ho alcun potere di bloccare i lavori del costruendo depuratore consortile di Manduria e Sava, si tratta di un appalto dell’Acquedotto pugliese e non della Regione Puglia». Lo ha dichiarato il presidente Michele Emiliano nel corso di una trasmissione di Radio Rai uno mandata in onda ieri. Il governatore ha risposto così all’invito rivolto dall’avvocato Cosimo Manca, curatore con il suo collega Pietro Nicolardi, di un ricorso contro il depuratore in costruzione a Urmo Belsito, marina di Specchiarica, proposto dal comitato ambientalista di Avetrana. «Il presidente Emiliano – aveva detto l’avvocato Manca - potrà rendersi conto di persona dello scempio che comporta la costruzione del depuratore Sava Manduria. Se i lavori del depuratore dovessero proseguire, ci sono più di 350 ville di italiani e stranieri che vedranno depauperato il valore del proprio investimento; venga a vedere e blocchi subito i lavori prima che intervenga la Procura, perché qualcuno dovrà pagare», ha concluso l’avvocato. Emiliano si è lavate le mani girando la patata bollente all’azienda idrica di cui la Regione Puglia è proprietaria. «L’appalto non è della Regione Puglia ma dell’Aqp», ha detto Emiliano scaricando su altri anche la colpa di avere individuato lì il sito. «Si tratta della localizzazione scelta anni fa dal Comune di Manduria – ha detto - e mai cambiata da nessuno fino ad oggi. Il depuratore in costruzione aumenterà il valore di tutte le case dell’area che finalmente potranno essere allacciate alla fogna e tutelerà il mare dagli scarichi in falda».

SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Il Bomba day.

"Bomba day", evacuazione a Brindisi per un ordigno bellico. All'alba di domenica 15 dicembre il suono delle sirene ha dato l'avvio all'evacuazione degli oltre 53mila cittadini che risiedono nella zona rossa. Maria Girardi, Domenica 15/12/2019, su Il Giornale.  Il giorno dell'evacuazione è giunto. Domenica 15 dicembre più di 53mila brindisini dovranno lasciare la zona rossa. Con un messaggio sul proprio account Twitter, l'Esercito Italiano ha comunicato l'avvio dei lavori di protezione per la bonifica della bomba d'aereo della Seconda Guerra Mondiale ritrovata nei pressi del Maxicinema Andromeda di Brindisi. Per la precisione si tratta di un ordigno modello MK V SAP 500 libbre di fabbricazione inglese, del peso di 226,80 chili. La bomba, sganciata dalla Raf (Royal Air Force) nel corso di una delle ondate di bombardamenti che distrussero la città pugliese, contiene un esplosivo di caricamento di ben 40,87 chili di tritolo. Dopo il disinnesco, essa sarà trasportata presso la cava di Autigno, nelle campagne brindisine, e qui verrà fatta brillare la mattina del 16 dicembre. Il delicato compito è stato affidato agli artificieri dell'11º Reggimento Genio Guastori della Brigata Pinerolo che, con l'ausilio di un robot, rimuoveranno la spoletta danneggiata la mattina del 2 novembre. In quell'occasione, infatti, un escavatore urtò l'ordigno durante i lavori di ampliamento del multisala. All'lba il suono delle sirene darà l'avvio all'evacuazione degli oltre 53mila cittadini che risiedono nel raggio di 1617 metri dal punto in cui si trova la bomba. Entro le 8 la zona rossa dovrà essere sgomberata. Quattordici sono i centri di accoglienza istituiti dall'amministrazione comunale (di cui quattro con ricovero per gli animali domestici) presso le scuole di ogni ordine e grado che apriranno i battenti dalle 18. Qui, complessivamente sono state distribuite 300 brandine per trascorrere la notte. Quattro, invece, le aree di attesa: Parcheggio Stadio Comunale, Parco del Cillarese, via Andrea Mantegna e piazza dei Pini. Per ragioni di sicurezza sarà altresì necessario interrompere l'erogazione del gas per tutte le forniture nel raggio di 500 metri. Spetterà ad ogni utente chiudere la propria valvola. Al fine di evitare qualsivoglia episodio di sciacallaggio, la città sarà sorvolata da un velivolo Predator dell'Aeronautica Militare e da droni dei Vigili del Fuoco. Le Forze dell'Ordine, che effettueranno anche pattugliamenti nella zona rossa, sorveglieranno quarantuno varchi di accesso al centro abitato. Inevitabili le ripercussioni sulla viabilità. A partire dalle ore 7 fino al termine delle operazioni, un tratto della superstrada Brindisi-Lecce verrà chiuso. I voli saranno sospesi dalle 9.30 a mezzogiorno, così come i treni fermi dalle 8 alle 12. Un'ordinanza vieta la navigazione e la pesca dalle ore 14 fino alle 12.30 del giorno seguente. Nulla è stato lasciato al caso, nemmeno dal punto di vista sanitario. L'Asl, attraverso il servizio 118 dell'ospedale Perrino, ha allestito tre postazioni mediche con 52 posti letto. Saranno quese le aree di riferimento per tutte le emergenze territoriali. La stessa azienda sanitaria ha curato il servizio di trasporto di pazienti allettati. Una vera e proria task force, dunque, che vedrà coinvolte centinaia di persone in quello che è a tutti gli effetti uno dei piani di evacuazione più imponenti in Italia dalla seconda guerra mondiale ad oggi. 

Brindisi, la diretta dell’evacuazione per una bomba: è la più grande della storia. Pubblicato domenica, 15 dicembre 2019 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo. Circa 54 mila persone dall’alba di domenica hanno iniziato a lasciare la zona rossa all’interno della città. La bomba trovata un mese fa nel cantiere di un cinema.

Ore 8:25. Come scriveva Michelangelo Borrillo qui, si tratta della più grande evacuazione mai effettuata in Italia in tempi di pace: 54 mila persone su un totale di 87 mila abitanti, più del 60% della popolazione. Il motivo della vastità dell’operazione è semplice: la bomba è stata danneggiata in uno dei due congegni di attivazione, e il rischio di esplosione è più alto rispetto ai ritrovamenti più «tradizionali». E così oggi a Brindisi si ferma quasi tutto: aeroporto (dalle 9.30 fino al termine delle operazioni, perché la distanza di sicurezza iniziale sul piano verticale è pari a 1.244 metri) , ferrovie (dalle 7.30) e traffico stradale. Evacuati non solo le case che rientrano nella zona rossa, ma anche due cliniche (con i degenti trasportati all’ospedale Perrino) e il carcere. La città è deserta: nessuno può lasciare l’auto all’interno della zona rossa (per evitare che, in caso di scoppio dell’ordigno, possano essere danneggiate), tapparelle e persiane di tutte le case devono essere lasciate chiuse, e aperte le finestre. Nessuno può decidere di rimanere in casa, nemmeno a suo rischio e pericolo: chi violerà l’apposita ordinanza sindacale andrà incontro a una denuncia penale. Le uniche eccezioni sono previste per chi ha patologie molto gravi — ed è già stato contattato dalla Asl che ha rilasciato la certificazione — oppure per chi è gravemente impossibilitato e in possesso di un certificato medico che sconsiglia lo spostamento. Ma occorre anche una liberatoria in cui la persona interessata o un suo familiare dichiara di assumersi la responsabilità di rimanere in casa. E per chi teme incursioni di ladri, le forze dell’ordine garantiscono il presidio di tutte le strade, anche con 5 droni che sorvoleranno la città, così come un Predator messo a disposizione dall’Aeronautica.

Ore 8:15. La bomba, di fabbricazione inglese, pesa 500 libbre, è lunga un metro e contiene 40 chili di tritolo. È stato sganciata, presumibilmente, nel 1941. La spoletta è stata danneggiata durante il ritrovamento.

Ore 7:45. Nei pressi del cinema Andromeda — dove è stato rinvenuto l’ordigno — è iniziato il primo briefing per il coordinamento dell’attività di messa in sicurezza della bomba: gli artificieri dell’undicesimo reggimento genio guastatori di Foggia potrebbero avviare le loro attività per la messa in sicurezza e poi lo spostamento dell’ordigno all’incirca alle 9.

Ore 7:30. Dall’alba di domenica è iniziata l’evacuazione di 54 mila persone dalla zona rossa all’interno della città di Brindisi per consentire il disinnesco di un ordigno bellico. La bomba è stata trovata il 2 novembre scorso all’interno del cantiere di ampliamento di un cinema multisala. Dalle 5 del mattino i 41 varchi di accesso alla città sono chiusi. Più di 1000 gli operatori di forze dell’ordine impegnati nelle operazioni, circa 250 i volontari di protezione civile.

Brindisi si svuota per il disinnesco di un ordigno bellico. Evacuate circa 54mila persone. La bomba contiene 40 chili di tritolo. Il Dubbio il 15 dicembre 2019. Città deserta, case svuotate, artificieri pronti. Si presenta così, questa mattina, Brindisi, dove verrà disinnescato un ordigno bellico risalente alla seconda guerra mondiale, ritrovato il 2 novembre scorso all’esterno del maxicinema Andromeda. L’ordinanza d’evacuazione riguarda 54 mila persone, in un’area di 1.617 metri. Precauzioni prese dopo il danneggiamento della bomba, che contiene 40 kg di tritolo, al momento del ritrovamento. L’ordigno verrà disinnescato sul posto, poi verrà trasportato in una cava di sabbia tra Brindisi e San Vito dei Normanni, dove sarà fatta brillare. «La situazione è sostanzialmente sotto controllo», ha informato il sindaco Riccardo Rossi che segue le operazioni dalla sala operativa della Protezione civile. Gli abitanti che hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni entro le 8 per l’ora di pranzo dovrebbero ritornare a casa, se tutto procederà senza intoppi. «Le operazioni di svuotamento del gas sono completate – ha aggiunto il primo cittadino – L’ultimo treno delle 7.29 è passato regolarmente nella stazione ferroviaria, quindi anche il personale ha abbandonato la stazione. Si sono alzati in volo i droni che dall’alto controllano la città». Nelle aree di accoglienza ci sono circa 500 persone.

Michelangelo Borrillo per corriere.it il 15 dicembre 2019. A Brindisi, dall’alba di domenica mattina, decine di migliaia di persone hanno dovuto lasciare le loro case per permettere il disinnesco di una bomba del 1941, trovata per caso durante i lavori per l’ampliamento di un cinema. Si tratta dell’evacuazione più grande della storia, in Italia, in tempi di pace. Questa è la diretta delle operazioni.

Ore 11:15. A quanto si apprende da fonti dei vigili del fuoco, l’ordigno bellico a Brindisi è stato disinnescato. Resa innocua, la bomba sarà fatta brillare in una cava del brindisino domani.

Ore 9:55. Il sindaco di Brindisi Riccardo Rossi dalle 6.30 di questa mattina monitora la situazione dal centro coordinamento soccorsi nella sede della protezione civile, dove — in una sorta di «situation room» — si possono vedere le immagini riprese da 4 droni che sorvolano la zona rossa, dalle telecamere che stanno utilizzando gli artificieri e da quelle posizionate ai 41 varchi di ingresso alla città. «La situazione è sostanzialmente sotto controllo», ha detto.

Ore 9:50. Sono cominciate le operazioni di «despolettamento» dell’ordigno bellico. All’opera ci sono 15 militari, esperti artificieri dell’undicesimo reggimento genio guastatori di Brindisi, unità alle dipendenze della brigata Pinerolo. L’attività è stata avviata dopo che dal Centro di coordinamento soccorso presieduto dal prefetto Umberto Guidato, è giunta comunicazione dell’avvenuta evacuazione dell’intera zona rossa (un’area dal raggio di 1.617 metri dal luogo in cui trova l’ordigno bellico)

Ore 9:45. Secondo quanto comunicato dai vigili del fuoco di Brindisi, le operazioni di disinnesco dureranno circa 40 minuti. Si smonterà la spoletta per rendere innocua la bomba che poi domani sarà fatta brillare in una cava del brindisino.

Ore 9:30. Secondo una nota del Comune di Brindisi, «il traffico (in uscita dalla zona rossa) è regolare e le operazioni di disinnesco dovrebbero cominciare a breve». Dei 53.669 residenti nelle zone «rossa» e «gialla», però, solo 433 si sono recate nelle aree di accoglienza predisposte negli Istituti scolastici cittadini posti nei quartieri non interessati all’evacuazione.

Ore 8:55. Gli artificieri hanno spiegato di essere pronti a intervenire non appena ci sarà l’ok del prefetto.

Ore 8:45. I militari del Genio guastatori contano di terminare le operazioni entro le 13. Nel dettaglio, gli artificieri guideranno a distanza un braccio meccanico, già utilizzato in teatri di guerra, dall’Iraq all’Afghanistan, che dovrà disinnescare la bomba. Solo per l’ora di pranzo i 54 mila brindisini evacuati potranno far ritorno a casa. Per le ore della «città vuota», però, i centri commerciali periferici si sono attrezzati, anticipando l’apertura alle 8. E lo ZooSafari di Fasano ha previsto biglietti ridotti per i brindisini. Anche l’evacuazione, evidentemente, può diventare business.

Ore 8:25. Come scrivevamo qui, si tratta della più grande evacuazione mai effettuata in Italia in tempi di pace: 54 mila persone su un totale di 87 mila abitanti, più del 60% della popolazione. Il motivo della vastità dell’operazione è semplice: la bomba è stata danneggiata in uno dei due congegni di attivazione, e il rischio di esplosione è più alto rispetto ai ritrovamenti più «tradizionali».

E così oggi a Brindisi si ferma quasi tutto: aeroporto (dalle 9.30 fino al termine delle operazioni, perché la distanza di sicurezza iniziale sul piano verticale è pari a 1.244 metri) , ferrovie (dalle 7.30) e traffico stradale. Evacuati non solo le case che rientrano nella zona rossa, ma anche due cliniche (con i degenti trasportati all’ospedale Perrino) e il carcere. La città è deserta: nessuno può lasciare l’auto all’interno della zona rossa (per evitare che, in caso di scoppio dell’ordigno, possano essere danneggiate), tapparelle e persiane di tutte le case devono essere lasciate chiuse, e aperte le finestre. Nessuno può decidere di rimanere in casa, nemmeno a suo rischio e pericolo: chi violerà l’apposita ordinanza sindacale andrà incontro a una denuncia penale. Le uniche eccezioni sono previste per chi ha patologie molto gravi — ed è già stato contattato dalla Asl che ha rilasciato la certificazione — oppure per chi è gravemente impossibilitato e in possesso di un certificato medico che sconsiglia lo spostamento. Ma occorre anche una liberatoria in cui la persona interessata o un suo familiare dichiara di assumersi la responsabilità di rimanere in casa.  E per chi teme incursioni di ladri, le forze dell’ordine garantiscono il presidio di tutte le strade, anche con 5 droni che sorvoleranno la città, così come un Predator messo a disposizione dall’Aeronautica.

Ore 8:15. La bomba, di fabbricazione inglese, pesa 500 libbre, è lunga un metro e contiene 40 chili di tritolo. È stato sganciata, presumibilmente, nel 1941. La spoletta è stata danneggiata durante il ritrovamento.

Ore 7:45. Nei pressi del cinema Andromeda — dove è stato rinvenuto l’ordigno — è iniziato il primo briefing per il coordinamento dell’attività di messa in sicurezza della bomba: gli artificieri dell’undicesimo reggimento genio guastatori di Foggia potrebbero avviare le loro attività per la messa in sicurezza e poi lo spostamento dell’ordigno all’incirca alle 9.

Ore 7:30. Dall’alba di domenica è iniziata l’evacuazione di 54 mila persone dalla zona rossa all’interno della città di Brindisi per consentire il disinnesco di un ordigno bellico. La bomba è stata trovata il 2 novembre scorso all’interno del cantiere di ampliamento di un cinema multisala. Dalle 5 del mattino i 41 varchi di accesso alla città sono chiusi. Più di 1000 gli operatori di forze dell’ordine impegnati nelle operazioni, circa 250 i volontari di protezione civile.

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 15 dicembre 2019. Oggi Brindisi è una città fantasma. Dei suoi 88mila abitanti, ne restano a casa appena 34mila. Tutti gli altri, cioè la stragrande maggioranza, cioè ben 54mila persone, sono stati fatti evacuare. Azzerato il traffico, bloccata pure la superstrada per Bari. Stop totale delle ferrovie, dell' aeroporto manco a parlarne. Sgomberati anche 217 detenuti e un numero imprecisato di pazienti in degenza in due cliniche diverse. A Brindisi, dall' alba di questo 15 dicembre fino a che serve, gli unici uomini che circolano per le strade del centro sono gli artificieri del primo reggimento Genio guastatori di Foggia: e hanno le mani occupate su un ordigno bellico della seconda guerra mondiale. Devono mettere in sicurezza una bomba inesplosa, qualcosa tipo cento chili di esplosivo da disinnescare prima che venga giù mezzo Municipio. Non è mica uno scherzo. Al contrario, è «un' operazione senza precedenti per garantire l' incolumità di tutti». Parola di Riccardo Rossi, il sindaco. È che a Brindisi è sbucata fuori una delle 25mila bombe che teniamo (senza saperlo) sotto il materasso, ed è sbucata fuori quasi per caso. Come sempre. Succede che il cinema Andromeda, a due passi dalla questura, deve essere ampliato e succede che, mentre sta manovrando la sua pala meccanica, un operaio che esegue i lavori cozza con qualcosa di duro. Si affaccia e strabuzza gli occhi: non è un sasso, è un ordigno della Raf (l'aviazione britannica), sganciato in Italia nel 1941 e sepolto per 78 anni sotto le strade della Puglia. Ci vogliono cinque settimane per organizzare il disinnesco: nel recuperarla, la bomba è danneggiata in uno dei due congegni di attivazione. Basta un piccolo errore per farla detonare. E allora la zona rossa, la zona a rischio, a Brindisi, è di quelle imponenti: ha un raggio di oltre un chilometro e mezzo (1.617 metri, per essere precisi), coinvolge il 60% delle abitazioni (e della popolazione) e l' ordine è tassativo, tocca chiudere anche il gas di casa. Non si sa mai.

Un dispiegamento di misure cautelari mai visto (ma utilissimo) per un problema che (invece) si è visto fin troppo. Ché qui di ordigni bellici dormienti ne siamo pieni. Letteralmente. Il primo dicembre è toccato a Torino: «solita» bomba della Raf rinvenuta con gli scavi per il teleriscaldamento del centro, 10mila evacuati.

Poi è toccato a San Casciano, nell' area metropolitana di Firenze: venti bombe, 60 famiglie evacuate. Prima però c' è stato Bolzano, 4mila evacuati. A maggio è stata la volta di Adro (Brescia), 1.600 evacuati.

A gennaio di Ancona, 12mila evacuati. L' anno scorso lo stesso copione a Fano (23mila evacuati) e a Terni (9mila evacuati). E per il febbraio del 2020 gli artificieri hanno già un appuntamento in Trentino, a Romagnano: per ora si parla di 1.800 persone da spostare, ma il numero potrebbe salire.

L' agenda degli addetti ai lavori è fitta di impegni. Il fatto è che siamo seduti sopra un' immane Santa Barbara e non ci facciamo neanche caso. Lo insegnano alla Scuola nazionale dell' Amministrazione, quella che forma i prefetti dello Stivale: le dispense del corso «La bonifica da ordigni bellici» si trovano anche on-line. E dicono che in Italia ci sono circa 25mila bombe inesplose, che l' esercito ne fa brillare otto ogni giorno. Vivaiddio ci sono loro. Di questo passo significa che ci vorranno ancora circa dieci anni per smaltirle tutte. Ammesso e non concesso che vengano recuperate, perché molte sono finite chissà dove. La guerra al nazifascismo ha sganciato sul nostro Paese qualcosa come un milione di ordigni per un totale di oltre 378mila tonnellate di tritolo: non proprio una robetta. E però il 10% di questo arsenale (nel vero senso della parola) non è mai scoppiato. Vuoi a causa di qualche difetto di fabbricazione o per via di condizioni ambientali non favorevoli (al momento).

Lazio, Abruzzo, Molise, Friuli, Lombardia: è tutto una gran polveriera. Una bomba su quattro degli alleati è da recuperare. Senza contare le granate, quelle a mano e le mine che si rinvengono ogni giorno.

Nel 2014 l' associazione nazionale Vittime civili di guerra ha provato a tirare le somme e ha scoperto che ogni anno le nostre forze dell' ordine mettono in sicurezza circa 60mila ordigni di varia grandezza e potenza (non solo bombe dunque ma anche mine e le più pericolose, come quelle di Brindisi, non sono la maggioranza). Qualcuno si fa pure male. L'ultimo bilancio disponibile è targato 2013: quell' anno ci sono stati undici feriti gravi, tra cui due ragazzini (sono spesso i bambini a farne le spese) che hanno perso la vista e un agricoltore che si è ritrovato la faccia ustionata dall' esplosione di un ordigno azionato mentre stava zappando la sua terra. Il rapporto bombe - popolazione è di uno a 2.400, lo Stivale non è proprio un campo minato ma non è nemmeno una prateria vergine. Siamo onesti. Per cui ben vengano tutte le misure di prevenzione, a Brindisi fan bene. Che poi non si salvano nemmeno i mari: a giugno i palombari del gruppo operativo subacquei del comando Incursori della Marina militare hanno perlustrato palmo a palmo le acque lungo la costa di Siracusa. In undici giorni hanno neutralizzato 396 ordigni esplosivi e 4mila munizioni. Tra di loro c' era anche una mina inglese.

·         «Luigi in volo da Maria»: l'ultimo saluto al centauro.

«Luigi in volo da Maria»: l'ultimo saluto al centauro. Giuseppe Perrucci il 6 maggio 2019 su Il Quotidiano di Puglia. Si è svolto ieri pomeriggio a Torre Santa Susanna il funerale del 38enne Luigi Volpe: il centauro torrese morto a seguito delle ferite gravissime riportate nell'incidente stradale il pomeriggio di Sabato scorso sulla provinciale Torre Columena-Avetrana. Luigi era alla guida della sua moto di grossa cilindrata, con lui, in sella, viaggiava la fidanzata, la 28enne Maria Mandurino, quando per cause in corso di accertamento, Luigi ha perso il controllo del mezzo. Violento lo schianto contro un muretto di cinta. La fidanzata è deceduta sul colpo, mentre il giovane, soccorso dagli operatori del Servizio 118 e sottoposto a due interventi chirurgici, si è spento l'altro ieri nell'ospedale Santissima Annunziata di Taranto. Acclarata la morte cerebrale, i famigliari avevano consentito l'espianto multiplo di organi, tra cui il cuore. Ieri pomeriggio, dopo una notte di veglia presso l'abitazione in via Neviera, i funerali. Il corteo funebre, con in testa la bara ricoperta da fiori bianchi, è giunto in chiesa madre dove Don Patrizio Missere, parroco di Cristo Re, ha celebrato la messa, mentre Don Antonio Carrozzo, parroco della Chiesa Madre ha officiato l'omelia. «Avremmo assolutamente desiderato non doverci ritrovare qui per constatare ancora una volta i nostri limiti di fronte a questi drammi. La giovinezza stroncata, ha proseguito il parroco, appare ai nostri occhi come un treno in corsa che si arresta o come una strada dritta che improvvisamente sfocia sul precipizio. Ma noi siamo certi di non cadere nel vuoto. Anche se ci sentiamo abbandonati, più che mai sentiamoci uniti, perché la condivisione del dolore, della nostra incapacità umana di dare una risposta al perché, ci trovi pronti ad accogliere l'unica luce che dal fondo del tunnel splende che è la resurrezione di Cristo, eterna giovinezza dell'umanità». «Luigi - ha concluso Don Antonio - adesso riposa in pace tra le braccia del Padre nostro, e voi genitori e parenti di Luigi, rimanete legati al messaggio di Cristo in croce, e sia la Croce la vostra forza». All'uscita della bara dalla chiesa, da parte della folla dei presenti è stato tributato un fragoroso applauso mentre salivano al cielo palloncini bianchi. Al passaggio obbligato da Piazza Umberto, la bara - dietro alla quale c'erano gli anziani genitori, il padre Andrea e la madre Giovanna, i tre fratelli della vittima, gli zii, ed una folla interminabile di amici e amiche della sfortunatissima coppia di fidanzati - ha sostato per un minuto di fronte alla saracinesca chiusa da giorni de Il Bar, il locale della famiglia della fidanzata, dove la stessa, sino a venerdì scorso, aveva lavorato. Il corteo, lentamente e con la bara portata in spalla, ha quindi ripreso il cammino verso il cimitero, dove la banda ha eseguito l'Ave Maria di Schubert, per tributare un estremo saluto a Luigi e Maria Mandurino, una brillante coppia di giovani che la sorte malvagia e beffarda ha strappato alla vita ed all'affetto di famigliari e amici. Un bilancio pesantissimo per la comunità locale: tre giovani morti in meno di un mese in incidenti stradali, ha ricordato con sofferenza ieri pomeriggio il sindaco Michele Saccomanno.

·         Brindisi, scomparsa tutta una famiglia.

Brindisi, scomparsa tutta una famiglia. Tea Sisto 30 aprile 2019 su La Repubblica. “Dov’è mio figlio. Dove avete ammazzato Romolo, dove avete nascosto il suo corpo. Lo so che siete stati voi. Lo sanno tutti, qua in paese, che siete stati voi. Non ve la caverete. Ridatemi il corpo di mio figlio”. Nicola Guerriero aveva 55 anni, ma ne dimostrava molti di più. Come sua moglie, la coetanea Salvatora Tieni. Sui loro visi i segni di una vita di fatica nelle campagne, ma anche altre rughe profonde provocate dal dolore per quel loro figlio scomparso nel nulla il 29 maggio del 1990, quel figlio che si era messo a “lavorare” per la persona sbagliata. Siamo a Torre Santa Susanna, paese della provincia di Brindisi, territorio da sempre tenuto sotto scacco dalla famiglia di Ciro e Andrea Bruno che lì ha “governato” con l’arma di una forza intimidatoria senza limiti e del sostegno elettorale anche a una parte della politica locale. Una “famiglia” affiliata alla Sacra corona unita che, nonostante le inchieste, i processi e gli arresti, “governa” ancora. La Direzione investigativa antimafia, nella sua ultima relazione semestrale, scrive a proposito della mafia brindisina: “Nel limitrofo comune di Torre Santa Susanna permane il clan Bruno”. Nicola Guerriero non perdeva occasione, quando incontrava i Bruno e i loro luogotenenti nella piazza e nei bar del paese. Urlava, inveiva senza paura. Rivoleva suo figlio, voleva sapere dove era stato nascosto il suo corpo.  Gli uomini del clan fingevano di ignorarlo, dicevano in giro che era un pazzo. Ma in verità covavano agitazione per quelle accuse pubbliche, per le indagini private che quei genitori disperati continuavano a condurre cercando di avere informazioni, di sfondare il muro di omertà che aveva ridotto al silenzio un intero paese dove, in quel 1990, erano scomparse nove persone. E, soprattutto, marito e moglie andavano spesso in Procura, a Brindisi. Ha aspettato poco più di un anno la mafia di Torre. Poi ha fatto sparire anche loro, Nicola Guerriero e la moglie Salvatora Tieni. Era l’11 agosto del 1991. Siamo nel pieno dei festeggiamenti per la patrona del paese, Santa Susanna. I coniugi decidono di dare qualche ora di tregua al loro dolore. Si mettono i vestiti buoni ed escono dalla loro casa di via Duca d’Aosta. Salgono sulla motoape. Non vengono visti mai più, né in piazza, né a casa, né altrove. Svaniti.  E se il corpo di Romolo, ormai ridotto a poche ossa, viene trovato sette anni dopo la scomparsa in contrada Monticelli, dei suoi genitori ancora oggi non si sa niente.  Almeno tre volte in questi quasi trent’anni gli investigatori hanno ritenuto e sperato di aver finalmente scoperto i loro resti in fondo a pozzi abbandonati, in terreni mai frequentati. Ma gli esami su quelle ossa hanno dato esiti negativi: erano tutti altre vittime della Scu.  Niente corpi, nessun colpevole, nessun processo, nessuna condanna. Era questo che si voleva. Caso chiuso, archiviato, a meno che non emergano altri elementi, a meno che qualcuno del clan di Torre si decida a collaborare, a raccontare. A meno che non si apra uno spiraglio in quell’omertà diffusa a Torre. Cose che sino ad oggi non sono accadute. Perché era stato ammazzato Romolo Guerriero? Per uno dei soliti eventi che accadono lì dove comanda la mafia. Romolo si era unito al boss Cosimo Persano, imprenditore vitivinicolo. Persano si stava rendendo troppo autonomo. Fu accusato di aver compiuto una rapina ai danni di una bisca del fondatore della Scu, Pino Rogoli. Con i Bruno era in corso una faida per i possedimenti agricoli. Il 9 marzo 1990 Persano era in auto, Romolo era il suo autista.  Spararono e uccisero il boss mentre Romolo riuscì a sfuggire all’agguato. Ma, in meno di due mesi, lo scovarono. Aveva visto in faccia gli assassini del suo capo. Fu un’esecuzione in pieno stile mafioso.  La Scu torrese non voleva lasciare tracce: l’obiettivo era eliminare tutti coloro che indagavano anche privatamente e collaboravano con la Procura. Il 7 febbraio del 1991, qualche mese prima dei coniugi  Guerriero, scomparve anche la compagna di Cosimo Persano, Silvana Foglietta, madre dei suoi quattro figli. Era in auto a Ostuni. Fu accerchiata da un commando. Si chiuse dentro terrorizzata, bloccando le portiere. I killer spaccarono i parabrezza con un grosso masso e la portarono via. Aveva 37 anni. Neanche il suo corpo è mai stato ritrovato. Cinque vittime, tre delle quali del tutto innocenti, per uno sgarro. Così funzionava la mafia brindisina. E a Torre i Bruno hanno continuato a comandare. I Guerriero hanno un’altra figlia, Mina, unica sopravvissuta alla strage e diventata collaboratrice di giustizia, testimone fondamentale in un processo che ha fatto condannare il clan per associazione a delinquere di stampo mafioso e per l’omicidio del fratello Romolo. Per molti anni inserita in un programma di protezione e lontana dal suo paese, aveva tentato di vendere le proprietà di famiglia a Torre. Non le è stato mai concesso. Appena affissi i cartelli “in vendita” davanti all’abitazione dei genitori, comparvero sui muri le scritte “Chi compra muore” e “Lascia o muori”. Un potenziale compratore che aveva mostrato interesse alla casa fu picchiato a sangue da aggressori a volto scoperto e tra i passanti. Disse di non averli riconosciuti e rinunciò all’acquisto. Un altro, che aveva già versato la caparra di 10mila euro ad un notaio, preferì perdere i soldi pur di non rischiare la vita. I boss non danno tregua nonostante i processi, le condanne, gli arresti. I boss continuano a decidere su tutto a Torre Santa Susanna. Il patrimonio dei Bruno di contrada Canali? E’ enorme ed è stato ovviamente confiscato. E’ la più consistente confisca alla mafia in Puglia. L’Amministrazione comunale non pare interessata a utilizzarlo per fini sociali. Con la nuova legge sicurezza potrebbe essere venduto a privati. Dunque, cerchiamo di indovinare nelle mani di chi, in un modo o nell’altro, ritornerà.

·         «Chiamo mia figlia Melissa, come te».

Brindisi, la dedica all’amica morta nell’attentato: «Chiamo mia figlia Melissa, come te». Pubblicato martedì, 30 aprile 2019 da Corriere.it. Il 19 maggio di sette anni fa, alle 7.42 del mattino, la vita e la morte incrociarono un gruppo di ragazze che stava entrando a scuola. Erano scese da un autobus arrivato a Brindisi da Mesagne, e si erano incamminate senza saperlo verso tre bombole piene di zolfo, carbone e nitrato di sodio. Melissa Bassi, 16 anni, morì quasi subito dopo l’esplosione. Molte sue amiche rimasero ferite, alcune gravemente. Come Azzurra Camarda, ricoverata nel reparto Grandi ustionati della città. Il giorno dopo un’amica raccontò: «Ho visto Azzurra con i capelli bruciati e il volto pieno di sangue che gridava». Azzurra adesso ha 23 anni, si è sposata, e una settimana fa, il 24 aprile, ha avuto una bimba. L’ha chiamata Melissa, come l’amica del cuore che non c’è più. La morte e la vita si sovrappongono ancora una volta nella vita di questa ragazza che a fatica ha cercato di riprendere un’esistenza normale. Non ha mancato un incontro per ricordare la compagna morta, ha assistito alle udienze del processo contro Giovanni Vantaggiato, il pensionato che ha ammesso l’attentato, ma ha sempre cercato di evitare la ribalta. Anche ieri, dopo che il «Nuovo Quotidiano di Puglia» partendo dai messaggi su Facebook ha raccontato della nascita della sua bambina e di quella scelta del nome così piena di significati, ha cortesemente rifiutato di aggiungere altro. Nella foto del suo profilo Facebook ci sono tre adolescenti sorridenti, si intuisce che sono a una festa. Azzurra è a destra, Melissa a sinistra, al centro l’altra amica del cuore, Selena Greco, anche lei rimasta ferita, che sui social ha salutato così la nuova arrivata. «Lei che ci riempirà i giorni di gioie immense, lei che solo nel chiamarla per nome ci farà venire un nodo alla gola e ci farà riempire gli occhi di puro amore e felicità, lei che solo da poche ore passate nel guardarla negli occhi vedevo l’immenso ormai nei nostri giorni. Lei che porta il suo nome, semplicemente Lei, piccola Melissa». Si sa che i genitori di Melissa, con cui Azzurra è rimasta in contatto, hanno apprezzato la sua decisione, un modo per non dimenticare la loro bambina come avviene soprattutto quando si avvicina l’anniversario della tragedia, con iniziative come il Memorial a lei intitolato. Vantaggiato è in carcere, condannato all’ergastolo dopo aver confessato di aver azionato il telecomando perché ce l’aveva con lo Stato, ha raccontato una storia di truffe e della giustizia che gli sarebbe stata negata, salvo poi decidere di vendicarsi contro inermi studentesse dell’Istituto professionale Morvillo Falcone. Quando nel 2013 venne condannato dalla Corte d’Assise, Azzurra, come Selena e le altre ragazze, era in tribunale. Poco dopo scrisse: «Ehi Melì hai visto? Abbiamo vinto! Non ci sono parole per descrivere la nostra gioia, non ci sono pensieri da esprimere ma solo lacrime di gioia che scendono sui nostri volti». Era rimasta a lungo ricoverata. Per non perdere l’anno scolastico i professori erano andati in ospedale e lei aveva superato l’esame da una stanza asettica parlando attraverso un interfono. A settembre, al rientro in classe, aveva incontrato con le compagne l’inviata di «Gente» e confidato: «Ora ho paura di tutto: i rumori, uscire di casa, attraversare la strada. Ho vergogna, non voglio mi si fissi. Ogni giorno è una fatica, una lotta contro la paura. Ma ci dobbiamo provare». Adesso Azzurra ha una famiglia, e una figlia. La piccola Melissa non cancella la morte, ma conservandone la memoria offre una nuova possibilità di vita.

SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Succede a Lecce.

Quattro morti e un ferito: la tragedia e la disperazione. Valeria BLANCO Mercoledì 27 Novembre 2019 su Il Quotidiano di Puglia. Tragico incidente lungo la circonvallazione di Galatone, che dalla statale 101 conduce a Galatina, in provincia di Lecce. Una Golf che percorreva quel tratto di strada, a causa di un brusco sorpasso, è finita contro un camion della Ecoman Salento, fermo lungo il ciglio della strada perché gli operai erano intenti a potare degli ulivi. Nell'impatto - avvenuto all'altezza dell'hotel Gala - sono morti in quattro: il conducente della Golf, Alessandro Liguori (44 anni), di Neviano, ma sposato ad Aradeo, e i tre operai che si trovavano a terra: si tratta di Pasquale Filieri, titolare dell'impresa e vicepresidente della locale Protezione Civile, 62 anni; Luigi Casaluci, 64 anni e Toni Mezzi, 44 anni. Sul luogo dell'incidente uno dei figli di Filieri, sposato e con una famiglia numerosa. Mezzi, invece, viveva da solo: i genitori risiedono in Svizzera dove lui è nato. Liguori, sposato, aveva una figlia di 19 anni. Faceva il meccanico alla Alfa Impianti di Galatone, all'uscita del paese. Gli mancava un chilometro per arrivare al lavoro. Poi l'impatto. Ferito gravemente il quarto operaio, Gianni Benegiamo, che si trovava sul “cestello” - utile a raggiungere le parti più alte delle chiome degli alberi - e che ha rimediato un grave trauma cranico e toracico nella caduta improvvisa dal cestello: giudicato inizialmente in pericolo di vita, sarebbe stato operato e salvato grazie alla tempestività dei soccorsi.

Luigi e Antonio, una vita tra casa e lavoro. Lutto cittadino, tre sindaci con le famiglie. Valeria BLANCO Mercoledì 27 Novembre 2019 su Il Quotidiano di Puglia. Galatone spegne le luci di Natale e proclamerà due giorni di lutto cittadino in segno di solidarietà alle quattro famiglie colpite dal lutto improvviso. Un dolore che unisce il paese a Neviano ed Aradeo, di dove era originario e dove viveva l'uomo alla guida della Golf. «Oggi dice il sindaco di Galatone, Flavio filoni - è stata una giornata tragica per la nostra città. Il pensiero non può far altro che continuare ad andare a loro, ai nostri concittadini Pasquale Filieri, Luigi Casaluci e Antonio Mezzi, e a Alessandro Liguori, di Aradeo. E mentre tutta la comunità si unisce allo strazio delle famiglie riceviamo la notizia che Giovanni, ferito gravemente durante il tragico impatto, nelle ultime ore vede fortunatamente migliorare le proprie condizioni. Il giorno dei funerali verrà comunicato appena il magistrato darà le disposizioni necessarie. Un giorno tragico, che Galatone difficilmente dimenticherà». Annullati fino a domenica tutti gli eventi pubblici previsti per festeggiare l'imminente arrivo del Natale. Un dolore condiviso dal sindaco di Aradeo, Luigi Arcuti, che insieme con tutta l'amministrazione si è stretto attorno alla famiglia di Liguori, che ad Aradeo viveva da quando si era sposato e si era integrato nella comunità tanto che prendeva parte anche all'allestimento del Carnevale. Un messaggio di cordoglio alle famiglie arriva anche da Neviano: «La disgrazia - dice il primo cittadino silvana Cafaro - ha scosso le comunità del nostro territorio e per questo, insieme a tutti i miei concittadini sono vicina alla cittadinanza di Galatone e alla famiglia Liguori, conosciuta da tutti in paese, per la perdita del caro Alessandro. Alle famiglie delle vittime rivolgo, a nome di tutti i nevianesi, le più sentite condoglianze con la speranza che tragedie simili non succedano mai più».

Pasquale, Luigi, Toni e Alessandro: chi sono le vittime dello schianto. Di Toni Mezzi, 44 anni, e Luigi Casaluci, 64enne, entrambi di Galatone, non c'è molto da dire se non che erano due brave persone, casa e lavoro. Quando non lavoravano, al massimo erano al bar del paese per una chiacchiera con gli amici. Persone semplici e senza grilli per la testa. Uniti nel lavoro e ora uniti anche in un unico, tragico destino, quello di morire mentre si guadagnavano la giornata. Antonio, 44 anni, era nato in Svizzera, dove vive il resto della sua famiglia. Qui a Galatone viveva da qualche tempo da solo, ma aveva uno zio e tanti cugini. Sono stati proprio loro, ieri mattina, ad accorrere sul luogo della tragedia e poi è spettato sempre a loro, con il cuore pesante, rintracciare le sorelle al telefono per informarle che Tony non c'era più. Alla madre la notizia non è stata data subito: la donna proprio il giorno prima aveva subito un'operazione e si è temuto che non potesse reggere allo strazio. Anche Luigi era casa e famiglia: una vita dedicata alla moglie Maria Luisa e alle tre figlie, tutte già grandi: Jessica, Claudia e Federica. Da quando era diventato nonno, la sua unica distrazione erano i nipoti e i loro giochi. Salvo per un miracolo l'altro collega, Giovanni Benegiamo, che al momento dell'impatto della Golf contro il furgone Iveco si trovava nel cestello. Ha rimediato una brutta caduta e anche per lui si è temuto il peggio. L'uomo, 43 anni, è stato soccorso dai medici giunti a bordo di un'ambulanza del 118. Viste le sue condizioni, i sanitari hanno optato per l'immediato trasferimento, in codice rosso e a sirene spiegate, verso l'ospedale Fazzi di Lecce. Qui l'uomo, che aveva riportato lesioni multiple, è stato sottoposto a tutti gli esami del caso, compresa una Tac per scongiurare il peggio. Ha riportato un grave trauma cranico, toracico e alla milza, ma ieri pomeriggio era cosciente e forse riuscirà ad evitare l'operazione. È stato ricoverato nel reparto di Rianimazione, dove gli sono vicini la moglie e il figlio, e i medici si sono riservata la prognosi. Non dovrebbe correre pericolo di vita.

Lo strazio del figlio «Ho visto le scarpe sotto il lenzuolo». Valeria BLANCO Mercoledì 27 Novembre 2019 su Il Quotidiano di Puglia. Era passato attorno alle 7.30, per fare un saluto al padre che lavorava su via Almirante, prima di andare al lavoro anche lui. Lo aveva trovato sul ciglio della strada che fumava una sigaretta. È questa l'ultima immagine che Antonio Filieri, operaio anche lui per una ditta di Galatone, avrà del padre Pasquale. Quando, mezz'ora più tardi, lo hanno avvisato che qualcosa di terribile era successo al padre e ai suoi operai, non ci poteva proprio credere. Ha lasciato il lavoro ed è corso lì, sicuro che si trattasse di un errore: poi ha visto a terra un lenzuolo. Da sotto s'intravedevano le scarpe di Pasquale e le ha riconosciute, le aveva comprate in Germania. Così, Antonio ha avuto la certezza che il padre non c'era più. Un uomo buono, Pasquale. Un gran lavoratore: orgoglioso titolare della Eco.Man Salento, cooperativa multiservizi con sede su via Torrente che si occupa di manutenzioni del verde, ristrutturazioni, impianti e carpenteria. Era impegnato anche nel sociale come vicepresidente della Protezione civile Car ed era titolare anche del bar Jolly, situato proprio accanto alla sede della sua ditta, che da poco aveva affidato in gestione. Quando non era al lavoro con i suoi operai, lo trovavi nella sede dell'azienda, oppure a casa circondato da figli e nipoti. Alle ultime amministrative, si era candidato anche consigliere comunale, ma poi non era stato eletto. Attivissimo anche sui social: sia sul profilo personale, dove compare seduto alla scrivania, che su quello della ditta, su cui postava le immagini dei lavori e dei suoi ragazzi intenti a potare o sfalciare, imbiancare o costruire muri. E proprio su Facebook in tanti lo ricordano con dolore e affetto: la pagina della Protezione civile Car Sannicola-Galatone da ieri è listata a lutto e tutti gli amici che con Pasquale hanno condiviso tante avventure, hanno scritto a Filieri e agli altri concittadini deceduti una commovente lettera d'addio. «Caro Pasquale, nessuno di noi avrebbe mai immaginato che questo giorno sarebbe arrivato così all'improvviso e che saremmo stati qui a ricordare insieme la bella persona che sei, il tuo coraggio e la tua determinazione, il tuo entusiasmo e la tua forza, la tua grinta e la tua allegria, infine - ma non per importanza - la tua generosità e il tuo altruismo. Nessuno avrebbe mai pensato insomma che saresti diventato un angelo prima di tutti noi e senza avvisarci». Tante le qualità che gli amici di sempre riconoscono a Pasquale, primo tra tutti il sorriso. «Tutti ricordiamo quanto fosse bello il tuo sorriso e quanto rassicuranti fossero le tue parole; tutti ti abbiamo conosciuto come un grande amico, un persona senza malizia e con tanta voglia di fare e di lavorare; tutti insomma sappiamo chi eri. Un po' siamo gelosi: chissà dove sarai adesso e chissà chi potrà gioire assieme a te, guardarti negli occhi e farsi una fragorosa risata. Siamo gelosi perché noi potremo guardarti solo in foto, non potremo più abbracciarti e tutto quello che resta di te è racchiuso nei nostri ricordi». Ma i colleghi della Protezione civile non si lasciano prendere dallo sconforto. «I ricordi - proseguono - sono l'arma più potente di tutte: nessuno è in grado di cancellarli e quelli più forti sopravvivono persino al tempo che fugge senza pensare alle vittime che miete. I ricordi sono il ponte tra questa vita e l'eternità che ci aspetta tutti. Questi ricordi sono il nostro bene più prezioso e anche se un giorno ci verrà voglia di abbracciarti e non potremo farlo ci tufferemo proprio in un ricordo, lo rivivremo assieme e allora sarà compiuto un piccolo grande miracolo. Caro nostro Vicepresidente qui mancherai a tutti, ai più grandi e ai più piccoli, agli amici di sempre e a quelli conosciuti da poco. Mancherà soprattutto la tua sincerità, il tuo modo di vedere la vita e di affrontare il mondo, la tua serietà che diventava simpatia all'occorrenza. Ci mancherai in tutti i modi in cui una persona può mancare e immagino che anche per te sarà lo stesso. Questo improvviso saluto è stato solo un arrivederci. Un abbraccio e bacio al Cielo. A-Dio, Pasquale, Luigi e Toni». La lunga lettera si chiude con un «pensiero ed una preghiera per Alessandro e la Città di Aradeo».

La testimonianza shock: «Il sorpasso, poi li ho visti morire tutti». Valeria BLANCO Mercoledì 27 Novembre 2019 su Il Quotidiano di Puglia. Si voleva concedere mezza giornata di libertà dal lavoro e ieri mattina alle otto si stava dirigendo verso Manduria. Era da sola in auto e sarebbe rientrata ad Aradeo, dove fa la vigilessa, nel pomeriggio. Laura Mauro in serata è ancora sotto choc: è sua l'auto che Alessandro Liguori ha sorpassato prima di perdere il controllo della Golf e finire la sua corsa sui corpi dei tre operai della Eco.Man Salento. E lei, la vigilessa, dall'interno dell'abitacolo, ha assistito a tutta la scena impotente, come se fosse un brutto film.

«Non riesco a togliermi dagli occhi quello che ho visto - racconta provata -. La Golf mi ha sorpassato e qualche metro dopo ho visto l'auto come impazzita fare un testacoda e finire come una palla da biliardo sul camion, davanti al quale c'erano i tre operai rimasti uccisi». Scene che non si dimenticano, e che infatti Laura ricorda con precisione: «I tre operai erano piegati e guardavano qualcosa, forse una motosega che non funzionava. Erano davanti al camion, ma all'interno dell'area delimitata dai birilli». Pochi attimi costati la vita a quattro persone, tutti gran lavoratori. Sulle cause della tragedia, la vigilessa - che è stata anche ascoltata dagli inquirenti - avanza qualche ipotesi: «L'asfalto era viscido a causa dell'umidità ed è probabile che l'uomo alla guida della Golf, nel rientrare verso la corsia di destra, abbia perso il contatto con l'asfalto. L'auto era come impazzita». La dinamica dello schianto e le cause della tragedia saranno ricostruite sulla base dei rilievi effettuati dai carabinieri, ma il racconto dell'unica testimone oculare della tragedia potrà essere determinante per chiarire molti dubbi. È stata la vigilessa a comporre il 118 prima ancora di scendere dall'auto. «Quando dal 118 mi hanno richiamato pochissimi minuti dopo - racconta - già si sentivano le sirene in lontananza. I soccorsi sono stati tempestivi, ma le quattro persone a terra erano già morte. Solo uno era vivo e si lamentava e per lui è scattata la corsa in ospedale per salvargli la vita». Sebbene la vigilessa sia abituata, per lavoro, ad affrontare situazioni simili, la tragedia immane di ieri mattina l'ha scossa profondamente: «Per lavoro - riflette - si arriva sempre dopo. Avere a che fare con la morte e con il dolore è sempre brutto, ma ieri ho visto quattro persone morire in un attimo, uno choc difficile da superare. L'unica consolazione, se così si può dire, è avere la certezza che non si sono accorti di nulla. Un attimo dopo lo schianto erano già a terra ed erano morti».

Galatone, la strage degli operai. L'omelia ai funerali: viene solo da piangere. La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Novembre 2019. Galatone si é fermata oggi nel giorno dell’addio a Pasquale Filieri, Luigi Casaluci e Antonio Mezzi, i tre operai della Eco.man Salento travolti e uccisi da un’auto martedì scorso sulla circonvallazione mentre potavano degli alberi. I feretri sono arrivati in paese alle 10.30. Dopo aver sostato davanti alla sede della Eco.man, in via Torrente, sono stati portati in corteo presso il Santuario del SS. Crocifisso dove si sono svolte le esequie celebrate dal rettore don Agostino Lezzi. Numerosi i sindaci presenti. Sulla bara di Pasquale Filieri, vice presidente del C.A.R Protezione civile, é stata deposta la divisa e il berretto che indossava come autista soccorritore a bordo della sua ambulanza. "Verrebbe solo da piangere per una verità troppo dolorosa, una fonte amara capace di avvelenare pensieri e sentimenti», ha commentato nel corso dell’omelia don Agostino. Il sindaco di Galatone, Flavio Filoni, ha espresso nel suo intervento sull'altare cordoglio per Alessandro Liguori, la quarta vittima della tragedia, il meccanico che guidava l’auto che ha falciato i tre operai. «Occorre impegnarsi tutti insieme a fare di più per impedire queste morti assurde - ha detto Filoni -, sulla necessità di tutelare la vita specialmente quando ci si mette sulla strada». L'uscita dal santuario dei tre feretri é stata accompagnata da un lungo applauso e dal suono delle sirene dei mezzi della Protezione civile.

·         Ivan Ciullo. Il dj impiccato: una nuova autopsia cambia l’ora della morte.

Il dj impiccato: una nuova autopsia cambia l’ora della morte. Pubblicato venerdì, 17 maggio 2019 da Bepi Castellaneta su Corriere.it. Non sarebbe morto alle 18, ma tra le 22 e mezzanotte. Un particolare che potrebbe rivelarsi un tassello rilevante in un mosaico investigativo ancora tutto da decifrare. È questa la novità emersa dalle indagini sulla morte di Ivan Ciullo, in arte «Navi», il deejay di 34 anni trovato impiccato a un albero di ulivo il 22 giugno del 2015 ad Acquarica del Capo, poco meno di cinquemila abitanti, una sessantina di chilometri da Lecce. La svolta in questa vicenda tinta di giallo da quasi quattro anni è affiorata ieri pomeriggio dopo l’autopsia. L’esame è stato eseguito su disposizione del sostituto procuratore Maria Vallefuoco. Che ha deciso di riaprire un caso su cui rimangono ancora diversi punti oscuri nonostante in passato l’inchiesta sia stata archiviata già due volte. Il magistrato inquirente ha ordinato ulteriori accertamenti dopo le indagini della famiglia del 34enne, rappresentata dagli avvocati Valter Biscotti e Paolo Maci. Per il momento l’unico indagato è un uomo di 65 anni con cui Ciullo avrebbe avuto una tormentata relazione: l’ipotesi di reato è istigazione al suicidio. Secondo una prima ricostruzione investigativa il deejay si sarebbe impiccato con il cavo di un microfono; nella sua auto, parcheggiata là vicino, fu trovata una lettera di addio. Uno scenario che in un primo momento ha indotto gli inquirenti a imboccare con decisione la pista del suicidio. Ma le consulenze degli avvocati della famiglia hanno contribuito a sollevare nuovi dubbi sulla tragica fine del 34enne, noto come una persona solare con la passione per la musica: sul collo sono stati rilevati segni compatibili con uno strangolamento ma non con il cavo del microfono, inoltre sul luogo del ritrovamento è stata notata un’impronta che non è del deejay. E ancora: non ci sono tracce sullo sgabello che invece l’uomo avrebbe utilizzato per impiccarsi e i piedi poggiavano a terra. La madre, Rita Bortone, non ha riconosciuto la grafia del figlio nella lettera e ha sempre respinto con decisione la tesi del suicidio: secondo la donna Ivan è stato ucciso, il corpo sarebbe stato trasportato solo successivamente laggiù, tra gli ulivi delle campagne salentine.

Dj salentino impiccato, riesumata la salma: indagine deve ripartire da zero. Inchiesta ter dopo consulenza famiglia che non crede al suicidio. Gli avvocati: «L'orario della morte viene posticipato tra 22 e le 24, ben oltre le 18:30, l’ora stabilita dal primo medico legale». La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Maggio 2019. Dall’autopsia compiuta oggi sui resti del dj salentino Ivan Ciullo, trovato impiccato ad un albero di ulivo nelle campagne di Acquarica del Capo il 22 giugno 2015, sarebbero emersi elementi che sposterebbero in avanti nel tempo l’orario della morte del giovane. Il dj non sarebbe morto attorno alle 18:30, così come aveva stabilito il medico legale che compì l’accertamento esterno il giorno del decesso, ma tra le 22:00 e le 24:00. Lo riferiscono i legali della famiglia di Ivan Ciullo, Paolo Maci e Walter Biscotti. «L'orario della morte - spiegano i due avvocati - viene posticipato tra 22 e le 24, ben oltre le 18:30, l’ora stabilita dal primo medico legale Ermenegildo Colosimo durante l’ispezione cadaverica». Pertanto - afferma Biscotti - «l'indagine deve ripartire a questo punto da zero, perché tutto quello che é stato fatto precedentemente non serve a nulla». Il pm del Tribunale di Lecce, Maria Vallefuoco, che ha avviato l’indagine ter dopo due archiviazioni chieste ed ottenute in precedenza dalla Procura che aveva stabilito che si trattava di un suicidio, ha dato ai medici legali 90 giorni di tempo per depositare la perizia.

L'AUTOPSIA - È in corso nel cimitero di Acquarica del Capo (Lecce) l’autopsia sul corpo di Ivan Ciullo, in arte Navi, il dj salentino trovato impiccato ad un albero di ulivo il 22 giugno 2015. La salma é stata riesumata dal loculo della cappella dov'é tumulata e viene sottoposta per la prima volta all’esame autoptico. Lo ha deciso il pm Maria Vallefuoco che ha riaperto il caso, per due volte archiviato come suicidio dalla magistratura salentina, sulla scorta delle conclusioni contrarie all’ipotesi del suicidio delle due consulenze depositate dai legali dei genitori della vittima, che non hanno mai creduto che il figlio si sia tolto la vita. Per permettere le operazioni in corso il cimitero é stato interdetto alla fruizione del pubblico fino alla conclusione dell’autopsia, compiuta dai medici legali della Procura, Alberto Tortorella e Francesco Introna, alla presenza dei consulenti della famiglia, Roberto Lazzari e Giuseppe Panichi. 

·         Porto Cesareo, un pezzo di villa del pm su suolo demaniale.

Porto Cesareo, un pezzo di villa del pm su suolo demaniale. «Senza risposta da 50 anni». Una interrogazione dei parlamentari del M5S scatena la polemica, la replica del legale del magistrato, scrive il 20 Febbraio 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. «Non si capisce perché oggi, a distanza di oltre 50 anni dalla realizzazione dell’immobile, con una prospettazione dei fatti assolutamente errata e fuorviante, venga posta all’attenzione pubblica una simile vicenda». Così l'avvocato Saverio Sticchi Damiani, a cui si è rivolto il procuratore aggiunto di Lecce Elsa Valeria Mignone, interviene dopo l’interrogazione di sei parlamentari del M5S sulla casa al mare del magistrato a Porto Cesareo. L’immobile - spiega il legale in una nota - «è stato legittimamente assentito con licenza di costruzione del 31 ottobre 1962 e realizzato conformemente al progetto. Una delle unità immobiliari è stata successivamente acquistata, con regolare atto notarile nel 1969, dal padre della dottoressa Mignone. Soltanto nel 1970 la Capitaneria ha accertato che una ridotta porzione dell’area di sedime dell’immobile ricadeva in uno spazio demaniale. A valle di questo accertamento i proprietari dell’epoca con istanza del settembre 1970, poi reiterata nel 1978 avanzarono formale richiesta di sdemanializzazione dell’area in esito alla quale venivano acquisiti i pareri favorevoli da parte di tutti gli enti preposti». «Un procedimento ancora in corso - specifica l'avvocato Saverio Sticchi Damiani - con la sua definizione sollecitata da ultimo con istanza del 6/11/2018».  Nella nota si precisa come la dottoressa Mignone peraltro subentrava nella titolarità dell’immobile e del rapporto concessorio nel maggio 2014 in seguito alla morte della madre, "provvedendo regolarmente al pagamento dei canoni. Attualmente la proroga della concessione in questione è sino al 31 dicembre 2020».

Atto n. 4-01278 Pubblicato il 19 febbraio 2019, nella seduta n. 91. DESSI', SANTILLO, RICCARDI, L'ABBATE, DI NICOLA, LOMUTI, CASTELLONE - Ai Ministri delle infrastrutture e dei trasporti e dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. - Premesso che il Comune di Porto Cesaraeo (Lecce), in data 28 giugno 2018, ha affisso all'albo pretorio "Avviso di pubblicazione domanda di concessione demaniale marittima" (prot. n. 15361) relativamente alla richiesta della dottoressa Elsa Valeria Mignone, presentata per conto proprio e degli altri soggetti interessati, tesa ad ottenere il rilascio della concessione per un'area demaniale marittima di circa 42,60 metri quadrati, in località Scalo di Furno-Bacino grande, allo scopo di mantenere una porzione di fabbricato a tre piani e relativo giardino di pertinenza;

considerato che, per quanti risulta agli interroganti:

la richiedente a tutt'oggi è proprietaria dell'immobile costruito in parte su suolo demaniale;

la proprietaria stessa in data 6 novembre 2018 ha inoltrato, alla Capitaneria di porto di Gallipoli, alla Direzione regionale Puglia e Basilicata dell'Agenzia del demanio, al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e al Provveditorato di Bari (ufficio genio civile), una richiesta di sollecito alla conclusione dell'istanza di sdemanializzazione presentata con nota del 21 dicembre 1978 e acquisita in pari data al protocollo della Capitaneria di porto di Gallipoli;

considerato inoltre che, per quanto risulta:

si apprende dalla richiesta di sollecito che dopo 41 anni si insiste ancora nell'ottenere la sdemanializzazione;

risulta che l'immobile, costruito all'interno del sito archeologico di Scalo di Furno-Bacino grande, area di grande pregio ambientale sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta, disti 76 metri dal nucleo centrale del sito stesso e 13 metri dal mare;

la dottoressa Mignone è procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Lecce presso la quale è preposta, tra l'altro, al perseguimento dei reati ambientali,

si chiede di sapere:

se i Ministri in indirizzo siano a conoscenza dei fatti sopra esposti;

se, nell'ambito delle proprie competenze, vogliano valutare l'opportunità di adottare iniziative in relazione a quanto descritto;

se e quali iniziative, nei limiti delle proprie attribuzioni, intendano assumere, al fine di arrestare il fenomeno dell'abusivismo edilizio e della cementificazione selvaggia, che arreca gravi danni al territorio, all'ambiente, alla convivenza civile e al concetto stesso di legalità.

Dai parlamentari M5S un’interrogazione contro il Procuratore Mignone. La difesa: ricostruzione parziale, scrive il 20 Febbraio 2019 Telerama News. Un’interrogazione parlamentare ai ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti e dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare. Parte da sette parlamentari del Movimento 5 Stelle: Dessì, Santillo, Riccardi, L’Abbate, Di Nicola, Lomuti e Castellone, una richiesta di chiarimenti su una vicenda che riguarda il Procuratore Aggiunto di Lecce Elsa Valeria Mignone, proprietaria di un’abitazione a Porto Cesareo, per cui una piccola parte è risultata, dopo un riperimetrazione, sul demanio marittimo. I parlamentari, nella loro ricostruzione, partono dalla pubblicazione all’Albo Pretorio del Comune di Porto Cesaraeo, il 28 giugno 2018, della domanda di concessione demaniale marittima richiesta della dottoressa Mignone, che non è l’unica proprietaria essendo, l’immobile, una palazzina a tre piani. La richiesta del procuratore è tesa ad ottenere il rilascio della concessione per un’area demaniale marittima di circa 42,60 metri quadrati, in località Scalo di Furno-Bacino grande, allo scopo- si legge nell’interrogazione- di mantenere una porzione di fabbricato a tre piani e relativo giardino di pertinenza. Il 6 novembre 2018 la dottoressa Mignone- e anche questo viene riportato nell’interrogazione dei 5 Stelle- ha inoltrato alla Capitaneria di porto di Gallipoli, alla Direzione regionale Puglia e Basilicata dell’Agenzia del demanio, al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e al Provveditorato di Bari (ufficio genio civile), una richiesta di sollecito alla conclusione dell’istanza di sdemanializzazione presentata con nota del 21 dicembre 1978 e acquisita in pari data al protocollo della Capitaneria di porto di Gallipoli. Richiesta che i 5 stelle interpretano, evidentemente, come l’insistenza, dopo 41 anni, nell’ottenere la sdemanializzazione dell’area su cui sorge l’immobile che- dicono- costruito all’interno del sito archeologico di Scalo di Furno-Bacino grande, area di grande pregio ambientale sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta, disti 76 metri dal nucleo centrale del sito stesso e 13 metri dal mare. Infine i parlamentari chiedono se i Ministri siano a conoscenza dei fatti, se, nell’ambito delle proprie competenze, vogliano valutare l’opportunità di adottare iniziative in relazione a quanto descritto; se e quali iniziative, nei limiti delle proprie attribuzioni, intendano assumere, al fine di arrestare il fenomeno dell’abusivismo edilizio e della cementificazione selvaggia, che arreca gravi danni al territorio, all’ambiente, alla convivenza civile e al concetto stesso di legalità. Ben diversa la ricostruzione dei fatti da parte della difesa, l’avvocato Saverio Sticchi Damiani: “L’immobile di Porto Cesareo è stato legittimamente assentito con licenza di costruzione ed è stato realizzato conformemente al progetto asserito. Una delle unità immobiliari realizzate è stata, successivamente, acquistata con regolare atto notarile del 1969, dal padre della dottoressa Mignone. Soltanto nel 1970 la Capitaneria di Porto ha accertato che una ridotta porzione dell’area di sedime dell’immobile scadeva in uno spazio demaniale. A valle di tale accertamento, i proprietari dell’epoca, con istanza del settembre 1970, poi reiterata nel 1978, a seguito del parere favorevole del Ministero della Marina Mercantile (oggi MIT) nel senso che “la zona non interessa i pubblici usi del mare”, avanzavano formale richiesta di sdemanializzazione dell’area, in esito alla quale venivano acquisiti i pareri favorevoli da parte di tutti gli Enti preposti: tale procedimento è ancora in corso e la sua definizione è stata sollecitata, da ultimo, con istanza del 6/11/2018. Nelle more della definizione di detto procedimento, le autorità preposte concedevano l’uso dell’area demaniale senza soluzione di continuità ai proprietari, i quali corrispondevano regolarmente il canone concessorio. Da ultimo, in data 1/5/2014, la dottoressa Mignone subentrava, a seguito della dipartita della propria madre, nella titolarità dell’immobile e, dopo specifica istanza, nella titolarità del rapporto concessorio, provvedendo regolarmente, al pagamento dei canoni. La concessione demaniale n. 19/2007, rilasciata in favore della madre della d.ssa Mignone, riporta un timbro attestante la proroga della concessione sino al 31/12/2020. Così ricostruiti i fatti, non è dato comprendere le ragioni per cui oggi, a distanza di oltre 50 anni dalla realizzazione dell’immobile con una prospettazione in fatto assolutamente errata e fuorviante, venga posta all’attenzione pubblica una simile vicenda”.

Casa a Porto Cesareo: interrogazione del M5S contro il procuratore aggiunto Mignone. La difesa: "Ricostruzione fuorviante, tutto in regola", scrive il Quotidiano di Puglia Mercoledì 20 Febbraio 2019. Il caso della concessione demaniale chiesta dal magistrato Elsa Valeria Mignone finisce in Parlamento: sei parlamentari del Movimento 5 Stelle hanno presentato ieri un'interrogazione ai ministri delle Trasporti e dell'Ambiente su una vicenda che riguarda il litorale di Porto Cesareo. Il punto di partenza, come si legge nell'interrogazione, è l'affissione all'albo pretorio del Comune, lo scorso 28 giugno, "dell'avviso di pubblicazione domanda di concessione demaniale marittima relativamente alla richiesta della dottoressa Elsa Valeria Mignone, presentata per conto proprio e degli altri soggetti interessati, tesa ad ottenere il rilascio della concessione per un'area demaniale marittima di circa 42,60 metri quadrati, in località Scalo di Furno-Bacino grande, allo scopo di mantenere una porzione di fabbricato a tre piani e relativo giardino di pertinenza". I sei parlamentari sono Emanuele Dessì, Agostino Santillo, Alessandro Riccardi, Patty L'Abbate, Primo Di Nicola, Arnaldo Lomuti, Maria Domenica Castellone. La Mignone, si legge nell'interrogazione, "è a tutt'oggi è proprietaria dell'immobile costruito in parte su suolo demaniale. E la stessa Mignone - attualmente procuratore aggiunto - in data 6 novembre 2018, secondo quanto scrivono i parlamentari pentastellati, "ha inoltrato, alla Capitaneria di porto di Gallipoli, alla Direzione regionale Puglia e Basilicata dell'Agenzia del demanio, al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e al Provveditorato di Bari per l'ufficio Genio civile, una richiesta di sollecito alla conclusione dell'istanza di sdemanializzazione presentata con nota del 21 dicembre 1978 e acquisita in pari data al protocollo della Capitaneria di porto di Gallipoli. Si apprende dalla richiesta di sollecito che dopo 41 anni si insiste ancora nell'ottenere la sdemanializzazione". Fin qui la cronologia ricostruita dai parlamentari. Nell'interrogazione si fa riferimento anche al fatto che "l'immobile è costruito all'interno del sito archeologico di Scalo di Furno-Bacino grande, area di grande pregio ambientale sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta, disti 76 metri dal nucleo centrale del sito stesso e 13 metri dal mare". E sempre nell'interrogazione viene sottolineato che "la dottoressa Mignone è procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Lecce presso la quale è preposta, tra l'altro, al perseguimento dei reati ambientali". L'interrogazione dei pentastellati si chiude con una triplice richiesta: "Se i Ministri in indirizzo siano a conoscenza dei fatti sopra esposti; se, nell'ambito delle proprie competenze, vogliano valutare l'opportunità di adottare iniziative in relazione a quanto descritto;  se e quali iniziative, nei limiti delle proprie attribuzioni, intendano assumere, al fine di arrestare il fenomeno dell'abusivismo edilizio e della cementificazione selvaggia, che arreca gravi danni al territorio, all'ambiente, alla convivenza civile e al concetto stesso di legalità". Lunga e articolata la difesa della Mignone, attraverso una nota dell'avvocato Saverio Sticchi Damiani: "L'immobile sito in Porto Cesareo è stato legittimamente assentito con licenza di costruzione del 31 ottobre 1962 ed è stato realizzato conformemente al progetto assentito. Una delle unità immobiliari realizzate è stata, successivamente, acquistata con regolare atto notarile del 1969, dal padre della dottoressa Mignone. Soltanto nel 1970 - prosegue il legale - la Capitaneria di porto ha accertato che una ridotta porzione dell'area di sedime dell'immobile ricadeva in uno spazio demaniale. A valle di tale accertamento, i proprietari dell'epoca, con istanza del settembre 1970, poi reiterata nel 1978, a seguito del parere favorevole del ministero della Marina mercantile, nel senso che 'la zona non interessa i pubblici usi del mare', avanzavano formale richiesta di sdemanializzazione dell'area, in esito alla quale venivano acquisiti i pareri favorevoli da parte di tutti gli enti preposti: tale procedimento è ancora in corso e la sua definizione è stata sollecitata, da ultimo, con istanza del 6 novembre 2018". E arriviamo dunque ai giorni nostri. Aggiunge infatti l'avvocato Sticchi Damiani che "in data 1 maggio 2014 la dottoressa Mignone subentrava, a seguito della dipartita della propria madre, nella titolarità dell'immobile e, dopo specifica istanza, nella titolarità del rapporto concessorio provvedendo regolarmente al pagamento dei canoni. La concessione demaniale numero 19/2007, rilasciata in favore della madre della dottoressa Mignone, riporta un timbro attestante la proroga della concessione medesima sino al 31 dicembre 2020". Quindi la conclusione, netta: "Così ricostruiti i fatti, non è dato comprendere le ragioni per cui oggi, a distanza di oltre 50 anni dalla realizzazione dell'immobile, con una prospettazione in fatto assolutamente errata e fuorviante, venga posta all'attenzione pubblica una simile vicenda".

·         L’Assassinio di Noemi Durini.

Omicidio Noemi, confermata condanna a 18 anni per il fidanzato. La madre: "Ora s'indaghi su lati oscuri". A Lecce la sentenza d'appello per Lucio Marzo, che ora ha 19 anni: nel settembre 2017 uccise la 16enne e nascose il suo corpo a Castrignano del Capo. Si indaga ancora su possibili complici. La Repubblica il 07 giugno 2019. Confermata in appello la condanna a 18 anni e 8 mesi per Lucio Marzo, il 19enne che il 3 settembre 2017, quando era minorenne, uccise la fidanzatina di 16 anni, occultandone il corpo sotto un cumulo di pietre nelle campagne di Castrignano del Capo, facendolo trovare dieci giorni dopo. Lo ha deciso in appello la sezione minori del Tribunale di Lecce. "Mi aspetto la riconferma dei 18 anni e 8 mesi che gli hanno inflitto in primo grado. Se li deve fare tutti, e in galera, perché Lucio è capacissimo di intendere e volere. Non basterebbe una vita per quello che ha fatto a mia figlia". Aveva detto così Imma Rizzo, madre di Noemi, entrando in Tribunale a Lecce dove era  cominciato nella sezione minori il processo di Appello a carico di Marzo. "Non lo perdonerò  mai per quello che ha fatto - ha detto la donna - Mi ha tolto un pezzo di cuore e a mia figlia ha tolto il bene più prezioso, la vita". Lucio Marzo era in aula, portato a Lecce dal carcere di Quartuccio, in Sardegna, dov'è detenuto. I giudici della Corte d'appello (presidente Maurizio Petrelli) hanno respinto la richiesta di rinnovare la perizia psichiatrica e della messa alla prova con il riconoscimento delle attenuanti generiche avanzata dalla difesa dell'imputato. "Non sarò mai contenta ma posso ritenermi soddisfatta". E' stato questo il primo commento di Imma Rizzo, dopo la lettura della sentenza. "Ho incrociato i suoi occhi in aula per un istante - dice la donna riferendosi a Lucio - ma lui ha abbassato subito lo sguardo". La donna, che al collo aveva una collanina d'argento con inciso il nome della figlia morta, aveva gli occhi lucidi per le lacrime. "La nostra battaglia giudiziaria continua - ha precisato - perché ci sono tanti lati oscuri in questa vicenda che devono essere chiariti, confidiamo nella magistratura che sta lavorando molto bene". Il riferimento della donna è all'indagine in corso da parte della Procura di Lecce per accertare il coinvolgimento di altre persone nella successiva attività di favoreggiamento. Il padre e la madre di Noemi sospettano infatti che i genitori di Lucio, assenti in aula, possano aver avuto un ruolo nello svolgimento di fatti successivi al delitto.

NUOVO PROCESSO PER L’ASSASSINO DI NOEMI DURINI: MINACCIÒ CON UN COLTELLO UN AMICO DELLA RAGAZZA, scrive l'1 Febbraio 2019 Piazza Salento. Ora l’assassino reo-confesso di Noemi Durini dovrà rispondere anche per aver minacciato, con il coltello, un ragazzo che chiedeva informazioni sulla scomparsa della giovane. I fatti risalgono ai giorni in cui si pensava che la 16enne di Specchia fosse soltanto scomparsa: in un bar di Montesardo Salentino (frazione di Alessano) un 34enne incontrando Lucio (che era insieme al padre) “osò” chiedergli di Noemi ricevendo come risposta un coltello rivolto verso l’addome. Il nuovo processo verrà celebrato con il rito abbreviato il prossimo 16 maggio con l’ascolto dei testimoni che erano davanti al bar. Per l’omicidio di Noemi, l’allora fidanzata ritrovata cadavere il 3 settembre del 2017, Lucio è stato condannato a 18 anni e otto mesi di reclusione. Intanto il 19enne di Montesardo è stato pure condannato a due anni e otto mesi per aver calunniato un meccanico di Patù cercando di dargli un ruolo nell’omicidio di Noemi.

“Lascia stare Noemi” e Lucio lo minaccia con un coltello: nuovo processo per il giovane di Montesardo, scrive Angelo Centonze il 31 Gennaio 2019 Lecce News 24. Domattina, invece, il 19enne di Montesardo dovrà presentarsi per il processo relativo alla calunnia nei confronti di un meccanico di Patù. Avrebbe minacciato con un coltello un conoscente, pochi giorni prima dell’omicidio di Noemi Durini. Lucio Marzo dovrà ora affrontare un nuovo processo. In mattinata, il gup Aristodemo Ingusci del Tribunale dei Minori ha accolto l’istanza di rito abbreviato, avanzata dal suo difensore, l’avvocato Luigi Rella. L’udienza è stata aggiornata a maggio. Il giovane di Montesardo risponde del reato di minaccia aggravata e porto d’armi od oggetti atti ad offendere. I fatti si sarebbero verificati nell’agosto del 2017, poco prima dell’omicidio della ragazza di Specchia, nel periodo in cui, comunque, il rapporto con Lucio si era già deteriorato. Secondo l’accusa, rappresentata dal pm Anna Carbonara, il ragazzo all’epoca dei fatti 17enne, avrebbe minacciato un conoscente 34enne, nei pressi di un bar di Montesardo. Lucio gli avrebbe, infatti, puntato un coltello all’altezza dell’addome, lambendolo, poiché questi gli avrebbe detto, ma senza alzare i toni, di “lasciare stare Noemi”. Per fortuna, la situazione non sarebbe degenerata, ma la vittima dell’aggressione sporse denuncia (dopo l’omicidio della studentessa di Specchia). Lucio Marzo era presente oggi in aula all’udienza preliminare, ma non ha rilasciato dichiarazioni. La persona offesa è assistita dall’avvocato Francesco Martinese. L’altro processo. Domattina, invece, egli dovrà presentarsi presso il Tribunale di viale De Pietro per un altro processo. È prevista difatti la discussione e la sentenza di un altro abbreviato, ovvero quello riguardante le missive scritte dal carcere minorile di Quartucciu, in cui Lucio accusava un meccanico di Patù dell’omicidio di Noemi Durini. Nelle lettere veniva additato come il vero colpevole dell’uccisione della studentessa di Specchia. In una precedente udienza Nicolì, attraverso l’avvocato Luca Puce, ha presentato l’istanza di costituzione di parte civile, dinanzi al gup Carlo Cazzella, invocando in risarcimento per 100mila euro. Il 19enne di Montesardo risponde del reato di calunnia aggravata. Il pm Donatina Buffelli aveva anche aperto un’inchiesta, iscrivendo Fausto Nicolì nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario. Un atto dovuto, per effettuare i necessari accertamenti investigativi che hanno dato esito negativo. Successivamente, la Procura ha chiesto l’archiviazione del procedimento, anche per l’infamante accusa di prostituzione minorile. Invece, come sappiamo, si è già concluso il processo a carico di Lucio Marzo, per l’omicidio di Noemi Durini. Il 18enne di Montesardo è stato condannato a 18 anni ed 8 mesi, al termine del rito abbreviato, celebratosi presso il Tribunale dei Minori.

Accusò falsamente Fausto Nicolì di aver ucciso Noemi Durini: nuova condanna per Lucio, scrive l'1 febbraio 2019 Corriere Salentino. Seconda condanna, dopo quella dell’omicidio di Noemi Durini, per Lucio Marzo. L’assassino reo confesso della ragazza di Specchia ha incassato 2 anni e 8 mesi per aver accusato falsamente il meccanico di Patù Fausto Nicolì di aver ucciso la 16enne nella versione di grafomane improvvisato in carcere. La sentenza è stata emessa in abbreviato dal gup Carlo Cazzella che ha aumentato di 8 mesi la richiesta di condanna invocata dal pubblico ministero di udienza, Giovanna Cannarile che ha sostituito in udienza la collega Donatina Buffelli. Calunnia aggravata il reato. Aggravata perché per l’accusa falsamente contestata al meccanico (l’omicidio volontario) la pena prevista superiore ai 10 anni di reclusione. Lucio era presenta in aula al momento della lettura del dispositivo. Non Fausto Nicolì allontanato dopo alcuni momenti di tensione con gli agenti della polizia penitenziaria prima della discussione del processo. Il giudice lo ha redarguito per poi disporre l’espulsione dall’aula. Sarà comunque risarcito con una provvisionale di 5mila euro mentre il resto del danno verrà quantificato in separata sede. Novanta giorni per il deposito delle motivazioni. Subito dopo l’avvocato Luigi Rella potrà appellare la sentenza per evidenziare, come oggi, che Lucio ha agito in un momento di totale scoramento e fortemente condizionato da una lunga detenzione. Salvo poi compiere un passo indietro e ritrattare. Troppo tardi, però. Per la persona offesa finita al centro di un’indagine dal clamore mediatico nazionale che decise di denunciarlo e per un giudice poi che ha emesso un verdetto di colpevolezza. La condanna odierna si aggiunge ai 18 anni e 8 mesi incassati in primo grado per l’omicidio della fidanzata emessa dal Tribunale per i Minori. Per proporre un continuato tra le due sentenze la condanna per il delitto della 16enne di Specchia dovrà prima diventare definitiva. Nelle missive scritte di pugno proprio nel carcere di Quartucciu (in provincia di Cagliari) dove Lucio è sempre detenuto il giovane raccontava di essere stato costretto a confessare l’omicidio della fidanzata perchè minacciato dal meccanico. A dire del giovane, il 50enne avrebbe ammazzato Noemi “per cose loro” davanti ai suoi occhi e di aver dovuto rispettare la consegna del silenzio perchè in caso contrario Fausto “avrebbe sterminato la sua famiglia”. Complessivamente Lucio (nell’insolita versione di grafomane) ha scritto sei manoscritti: il 2 gennaio; il 3 gennaio; il 15 gennaio; il 9 febbraio; l’1 marzo in cui faceva riferimento persino a forniture di droga di Nicolì e il 13 marzo quando Luciò inviò una missiva al padre di Noemi in cui scriveva: “Umberto volevo soltanto dirti che ad uccidere Noemi non sono stato io…c’entra fausto e qualcun altro…fausto è solo un miserabile assassino”. Tutto falso per la Procura. Così come per lo stesso Lucio che, con alcune spontanee dichiarazioni fornite il 17 marzo e nell’interrogatorio del Venerdì Santo, riferì che le accuse mosse nei mesi scorsi nei confronti del meccanico non erano veritiere. Da subito il meccanico, assistito dall’avvocato Luca Puce, contestò le accuse che Lucio gli aveva mosso in più occasioni. In un lungo interrogatorio davanti al magistrato inquirente (il sostituto procuratore Donatina Buffelli) Nicolì negò fermamente di aver ucciso Noemi con cui aveva instaurato solo un rapporto di amicizia.

Omicidio Noemi, nuova condanna per ex fidanzato, calunniò meccanico. Lucio Marzo indicò Fausto Nicolì come l’esecutore materiale dell’omicidio, scrive l'1 Febbraio 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Nuova condanna per Lucio Marzo, il 19enne di Montesano Salentino condannato a 18 anni e 8 mesi di reclusione per l’omicidio, compiuto quand’era minorenne, della fidanzata 16enne Noemi Durini. La ragazzina il 3 settembre 2017 fu picchiata, accoltellata e poi sepolta sotto un cumulo di pietre mentre era ancora viva. Il gup del Tribunale di Lecce Carlo Cazzella, al termine del processo con rito abbreviato, ha condannato il giovane a 2 anni e 8 mesi di reclusione per calunnia aggravata nei confronti di Fausto Nicolì, il meccanico di Patù (Lecce) che Lucio, in alcune missive scritte dal carcere minorile di Quartuccio, in Sardegna, indicò come l’esecutore materiale dell’omicidio. Lucio era presente oggi in aula alla lettura del dispositivo della sentenza.

Accusò un meccanico dell'omicidio di Noemi, nuova condanna per Lucio, scrive Venerdì 1 Febbraio 2019 Il Quotidiano di Puglia. Due anni e otto mesi sono stati inflitti a Lucio Marzo,18 anni, già condannato per l'omicidio di Noemi Durini per avere accusato ingiustamente il meccanico Fausto Nicolí. Prima di confessare la sua piena responsabilità, Lucio aveva infatti accusato il meccanico di avere ucciso la sua fidanzata. La condanna è stata inflitta dal giudice per l'udienza preliminare Carlo Cazzella che ha accolto in rialzo la richiesta di due anni presentata dal pubblico ministero Giovanna Cannalire. Questa ennesima puntata della tragedia di Noemi, ammazzata il 3 settembre di due anni fa dall'allora fidanzato (18 anni ed 8 mesi la condanna nel processo al Tribunale per i minorenni), ha vissuto anche oggi momenti di tensione: il meccanico infatti è stato allontanato dalla stanza del giudice dalla polizia penitenziaria e dai carabinieri perché aveva messo lo Smartphone in modalità video e per avere alzato i toni della voce. Nicolí - cui sono stati riconosciuti 5mila euro come provvisionale - è assistito dall'avvocato Luca Puce, Lucio Marzo é difeso dall'avvocato Luigi Rella.

“Quelle pietre conoscono la verità!”. Papà Umberto e l’avvocato Zacheo non si arrendono, scrive Tiziana Protopapa il 13 Gennaio 2019 Lecce news 24. Nel salotto di Quarto Grado, la trasmissione di Gianluigi Nuzzi andata in onda venerdì scorso, Umberto Durini accompagnato dal suo legale, l’avvocato Francesco Zacheo, torna a chiedere la verità per Noemi, convinto che Lucio non possa aver fatto tutto da solo. Gli occhi bassi e il pudore di celare una sofferenza troppo grande. Perché se sopravvivere ad un figlio è innaturale, convivere con il dolore per una figlia strappata alla vita da mani assassine, è insopportabile. Lo incontriamo così, Umberto Durini, il papà di Noemi, la ragazzina uccisa dal fidanzato a Specchia. Umberto è di ritorno dal viaggio che lo ha portato ancora una volta a Cologno Monzese. Nello studio 10 di Mediaset, che trasmette in diretta ogni venerdì la trasmissione Quarto Grado, ci è andato con il suo legale, l’avvocato Francesco Zacheo, per chiedere a gran voce, “vera verità” per la figlia.

Codice rosso. Il titolo della puntata di Quarto Grado, andata in onda venerdì 10 gennaio, era “Codice rosso”. Una dedica speciale alle donne uccise da amori malati; una battaglia contro la violenza che spezza la vita a donne di ogni età, diventata la bandiera del programma di Gianluigi Nuzzi e del suo staff. Ed è un “codice rosso” anche la richiesta d’aiuto di papà Umberto che non si vuole arrendere davanti a chi vorrebbe chiudere le indagini e archiviare la morte della piccola Noemi come un delitto passionale compiuto dal fidanzatino in un moto d’impeto.

Noemi. Abbiamo imparato a conoscere e riconoscere nelle foto il volto dolce di Noemi, i suoi lineamenti delicati e quel suo sguardo vivace che racconta la sua gioia di vivere. L’abbiamo conosciuta così ma l’hanno raccontata le parole di chi l’ha amata veramente: Noemi, una ragazzina mite, forse un po’ inquieta come tante sue coetanee, ma sensibile e affettuosa con tutti. Papà Umberto la ricorda con commozione. La sua Noemi, piena di vita, inarrestabile, con mille interessi e una grande passione: le moto. Era il suo sogno, prendersi il patentino per guidarne una. Lo racconta papà Umberto, con gli occhi lucidi, a Gianluigi Nuzzi. A dicembre Noemi sarebbe diventata maggiorenne ma quel sogno, oramai, non lo potrà più realizzare.

Chi ha aiutato Lucio? L’avvocato Francesco Zacheo, che assiste papà Umberto, è convinto che Lucio Marzo non possa aver fatto tutto da solo e per questo nei mesi scorsi ha presentato richiesta contro l’archiviazione della posizione di Biagio Marzo e di Rocchetta Rizzelli, genitori di Lucio. Richiesta accolta dal Gip di Lecce, Vincenzo Brancato che a dicembre scorso ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero, Donatina Buffelli, ritenendo che il sospetto che anche il padre e la madre di Lucio abbiano, in qualche modo, preso parte all’omicidio di Noemi Durini, meriti nuovi accertamenti da parte della Procura. Nell’ordinanza del giudice si legge che è “ipotizzabile il coinvolgimento degli indagati nei reati di omicidio della minore e di soppressione di cadavere”.

Quelle pietre sul corpo di Noemi. Quattro altri mesi per dimostrare che Lucio non ha potuto fare tutto da solo. Quattro mesi per analizzare reperti e per esaminare i devices di Noemi e Lucio e trovare la firma di altri responsabili. E poi quelle pietre che ricoprivano il corpo della povera Noemi al momento del ritrovamento, mai esaminate. Se potessero parlare, racconterebbero gli ultimi respiri di Noemi e con ogni probabilità punterebbero il dito contro assassini e complici. Durante la trasmissione Quarto Grado è stata mandata in onda una clip con un documento importante recuperato da Remo Croci. Nelle riprese Lucio, in carcere a Cagliari, racconta agli psicologi il momento dell’omicidio e alcuni passaggi risuonano come un j’acuse. Nella registrazione, infatti, Lucio torna a parlare proprio di quelle pietre, troppo grosse, a suo dire, per essere state spostate da lui. Chiaramente il tentativo è quello di coinvolgere nell’omicidio terze persone anche se per Umberto Durini ad aiutare l’omicida sono state con ogni probabilità persone vicinissime a Lucio. Come e con quale ruolo spetterà ai giudici stabilirlo.

La nostra intervista.

Avvocato Zacheo, cosa si attende dalle indagini adesso che è stata accolta la Sua richiesta?

«Abbiamo altri quattro mesi per capire che ruolo hanno avuto i coniugi Marzo in questo efferato delitto. Siamo intervenuti nella trasmissione Quarto Grado per ribadire la necessità di continuare ad indagare nella direzione giusta, quella che porterà, come mi auguro, a far emergere, al più presto, il coinvolgimento e la responsabilità degli indagati o di coloro che hanno aiutato Lucio».

Umberto, cosa cerca ancora il papà di Noemi?

«Il papà di Noemi cerca ancora la “vera verità”, quella che faccia finalmente venire fuori ciò che è successo realmente in quelle ore. Io ho molta fiducia negli inquirenti e nei RIS che stanno conducendo le indagini in maniera scrupolosa e sono certo che non potranno non trovare conferme ai sospetti che sin dal primo momento ho avuto anche nei confronti dei genitori di Lucio Marzo».

Lei, Umberto, insieme all’avvocato Zacheo, si sta battendo perché vengano fuori le responsabilità e i nomi di chi può aver aiutato Lucio.

«Sono più che convinto che Lucio non può aver fatto tutto da solo. L’ho detto dal primo momento e a confortare questa mia tesi ci sono anche l’acredine e la rabbia dei signori Marzo nei confronti di mia figlia. Noemi non era ben vista perché Biagio Marzo temeva di perdere il “potere” sul proprio figlio. Del resto non è un mistero che Lucio fosse succube del padre».

Noemi Le aveva raccontato di essere stata in qualche modo infastidita dai genitori di Lucio?

«Noemi pensava di poter affrontare i problemi con i genitori di Lucio da sola. Mia figlia era una ragazza coraggiosa e non mi ha mai coinvolto in situazioni che pensava di poter gestire da sola. Non mi ha mai parlato dell’atteggiamento astioso dei genitori di Lucio ma nemmeno dei maltrattamenti che Lucio stesso le riservava.

Per questo motivo mi porto dentro una montagna di rimorsi perché come padre non ho saputo capire e proteggere mia figlia».

Umberto, si sente supportato in questo suo dolore?

«Si, in vari modi. Da un lato ho il sostegno dell’avvocato Zacheo che, prima di essere il mio legale e quindi prima di battersi per la verità, mi sostiene umanamente in questo momento difficile della mia vita. Dall’altra ho la vicinanza delle persone che hanno conosciuto Noemi o che hanno imparato a conoscerla attraverso questa tragedia. Pensi che io ogni giorno vado al cimitero per salutare mia figlia e ogni giorno trovo bigliettini, disegni, fiori, lettere e peluches che mani amorevoli depongono sulla sua tomba. Segno e significato che Noemi ha lasciato in tanti di noi un vuoto immenso».

La trasmissione Quarto Grado era iniziata con Gianluigi Nuzzi che parlava di un amore da codice rosso. Già, quello tra i due ragazzini di Specchia era un amore malato che non si può giustificare. Ma è stato solo questo ad uccidere la povera Noemi e spegnere per sempre la luce nella vita di Umberto Durini e della mamma Imma Rizzo?

Noemi Durini, parla Lucio Marzo: “Sembrava pippata”. Video, l’ombra della droga e dei video hot (Quarto Grado). Noemi Durini: parla Lucio Marzo in un documento inedito trasmesso da Quarto Grado, video. “Sembrava pippata”, l’ombra della droga e dei video hot con un’altra persona, scrive il 12.01.2019 Silvana Palazzo su Il Sussidiario. Un documento inedito sull’omicidio di Noemi Durini: lo ha trasmesso Quarto Grado nella puntata di ieri. Si tratta della ricostruzione del delitto da parte di Lucio Marzo, fatta con lucida freddezza: parla della fidanzata come di una persona strana e pericolosa, uscita di casa con un coltello. Il 19enne racconta di essere andato a casa della 16enne a Specchia, poi hanno fatto un giro in macchina fino a Leuca. «Era strana quella sera… Lei di solito fumava sempre con me, anzi la canna se la fumava quasi sempre tutta lei. Quella sera non ha voluto fumare. Si muove strano… Sembrava pippata». Quando si sono fermati a Castrignano hanno fatto l’amore, poi è nata una violenta discussione, senza motivo per Lucio. La ragazza avrebbe cominciato a insultare lui e la sua famiglia, quindi Lucio avrebbe deciso di lasciarla. La reazione di Noemi sarebbe stata violenta: avrebbe preso un coltello dalla macchina e l’avrebbe minacciato. Il giovane ha raccontato di essersi difeso e di aver fatto cadere il coltello dalle mani della ragazza, poi l’avrebbe colpita. Da qui, spiega, il tragico epilogo. Clicca qui per il video della versione di Lucio. Lucio Marzo, stando a quanto emerso dal documento trasmesso da Quarto Grado, ha raccontato che non è stato lui a coprire il corpo di Noemi Durini con i massi pesanti. Il ragazzo tira in ballo un’altra persona, che avrebbe avuto un legame particolare con Noemi. «Era stata convinta da questa persona a fare fuori la mia famiglia, sai perché? Se la sc… e faceva video, e faceva queste cose con altre ragazzine». Una persona che girava video hard con lei, che la minacciava e le faceva fare brutte cose «in cambio di cocaina. Me l’ha rovinata…». Dopo aver visionato il video inedito di Lucio Marzo, il padre di Noemi Durini ha dichiarato: «Ho un dolore immenso nel cuore: non ho saputo proteggere mia figlia da questo assassino e da chi gli sta dietro». Ma nel documento si parlava anche della possibilità che il corpo fosse stato spostato, perché lui non ricorda di averla uccisa dove è stata trovata. «Non bisogna esseri esperti, basta guardarlo in faccia: si commenta da solo». Clicca qui per lo sfogo del padre di Noemi Durini.

Noemi Durini, la madre contro la famiglia di Lucio: ecco cosa ha detto, scrive il 10 gennaio 2019 Antonella Liberatoscioli su Velvet. A La Vita in Diretta si è tornati a parlare dell’omicidio di Noemi Durini.  Per la morte della sedicenne di Specchia (LE) è stato condannato a 18 anni di reclusione il fidanzato reo confesso Lucio Marzo. Lo scorso 18 dicembre, il gip di Lecce Vincenzo Brancato ha disposto nuove indagini per i genitori del ragazzo: Biagio Marzo e Rocchetta Rizzelli. L’ipotesi è che i due coniugi abbiano aiutato il figlio nell’atroce delitto. “Ipotizzabile il coinvolgimento degli indagati nei reati di omicidio della minore e di soppressione di cadavere” è quanto scritto nell’ordinanza.

“Noemi non era accettata dalla famiglia del fidanzato”. Ad intervenire nel corso della trasmissione è stata la signora Imma, madre della giovane vittima. Al centro del suo intervento, lo scontro verbale tra le due famiglie, in particolare tra Imma e Biagio, papà di Lucio. Al vaglio alcuni sms che il padre di Lucio avrebbe inviato a Imma: “Tua figlia continua a contattare Lucio. Sparite dalla nostra vita. Lunedì mi rivolgo ai carabinieri e agli assistenti sociali”. Parole confermate anche dalla donna alle telecamere della trasmissione di Rai 1, spiegando la non accettazione della famiglia Marzo della ragazzina nelle loro vite ed in quelle del figlio. Secondo la madre della vittima, tuttavia, era Lucio a chiamare di continuo sia Noemi che la stessa donna. Quella relazione tra i due ragazzi era diventata davvero un problema, come aveva confermato in passato lo stesso Biagio in una intervista alla medesima trasmissione. Imma, tutt’oggi, non sa spiegarsi perché Noemi rappresentasse un problema per la famiglia del fidanzato. “Non so cosa risponderle, questi soggetti io li ho rimossi perché per me non esistono, per me esiste solo mia figlia per come era e sarà mia figlia, ovvero una ragazzina dolce”, dice la donna commossa. “Queste diffamazioni nei confronti di un angelo che non c’è più e non si può difendere e queste motivazioni così brutte se le possono tenere per loro”, ha proseguito Imma. “Noemi mi ha detto spesso di non essere accettata da questa famiglia, ci sono anche dei messaggi ed anche lei lo scrive. Dava fastidio al signor Biagio. […] Lucio non ha detto la verità, adesso deve avere il coraggio di chiedere perdono a lei in ginocchio e dire tutta la verità per farla riposare in pace. Mi manca tanto, anche se io la sento tanto e lei vivrà sempre dentro di me”, ha concluso commossa la donna.

“Lucio uccise Noemi perché succube del padre”. “Lucio uccise Noemi per impedirle in futuro di poter donare ad altri il suo amore e per punirla della sua diversità da sé. In particolare per la forza ed il coraggio con la quale viveva la propria esistenza. Quella forza, quel coraggio e quella libertà che, invece, a lui erano sempre mancate nelle fasi cruciali della vita” scrive il giudice Aristodemo Ingusci. Secondo quest’ultimo, il delitto sarebbe maturato per la pressione esercitata dal nucleo familiare (e in particolare del padre) sul 19enne. E’ come se Lucio fosse stato messo dinanzi a un bivio. Da un lato, c’era la fidanzata, e dall’altro, i genitori che non l’accettavano. Marzo ha scelto la famiglia e, non tollerando l’idea di perdere Noemi, con atto di insano egoismo, ha deciso di eliminarla. “Una decisione che, scellerata e assurda, cionondimeno venne pianificata e fortemente voluta dal suo autore che ad essa si determinò in modo libero e cosciente avendo in quella intravisto la via d’uscita ad una condizione di personale grave disagio divenuta oramai insostenibile”, spiega il giudice, secondo il quale l’omicidio si presenta a Marzo come la soluzione per risolvere il conflitto venutosi a creare nel tempo con il padre.

Noemi Durini, mamma Imma cerca la verità. “Per la famiglia di Lucio era un problema, mia figlia manca tanto”. Noemi Durini, mamma Imma a La vita in diretta: “mia figlia era un problema per la famiglia di Lucio, cerco verità e giustizia”, scrive il 9 gennaio 2019 Emanuela Longo su Il Sussidiario. La mamma di Noemi Durini, la signora Imma, è intervenuta oggi alla trasmissione La vita in diretta per chiedere ancora una volta che sia fatta verità sulla morte della figlia, all’epoca dei fatti minorenne, uccisa a Specchia nel settembre del 2017. Al centro del suo intervento, lo scontro verbale tra le due famiglie, in particolare tra Imma e Biagio, papà di Lucio Marzo, condannato lo scorso ottobre con rito abbreviato a 18 anni di carcere per l’omicidio della fidanzatina. Al vaglio alcuni sms che il padre di Lucio avrebbe inviato a Imma: “Tua figlia continua a contattare Lucio. Sparite dalla nostra vita. Lunedì mi rivolgo ai carabinieri e agli assistenti sociali”. Parole confermate anche dalla donna alle telecamere della trasmissione di Raiuno, spiegando la non accettazione della famiglia Marzo della ragazzina nelle loro vite ed in quelle del figlio. Secondo la madre della vittima, tuttavia, era Lucio a chiamare di continuo sia Noemi che la stessa donna. Quella relazione tra i due ragazzi era diventato davvero un problema, come aveva confermato in passato lo stesso Biagio in una intervista alla medesima trasmissione. Imma, mamma di Noemi Durini, non sa esattamente perché la figlia rappresentasse un problema per la famiglia Marzo: “non so cosa risponderle, questi soggetti io li ho rimossi perchè per me non esistono, per me esiste solo mia figlia per come era e sarà mia figlia, ovvero una ragazzina dolce”, dice la donna commossa. “Queste diffamazioni nei confronti di un angelo che non c’è più e non si può difendere e queste motivazioni così brutte se le possono tenere per loro”, ha proseguito Imma. Alla donna non resta che attendere gli esiti dei prossimi quattro mesi di indagine che vedono al lavoro anche la criminologa Roberta Bruzzone, consulente di parte della famiglia della giovane uccisa. Durante questi mesi, si spera di fare chiarezza sul presunto coinvolgimento dei genitori di Lucio nel delitto di Noemi. L’attenzione torna ancora sulla questione della non accettazione della ragazzina da parte della famiglia di Lucio. “Noemi mi ha detto spesso di non essere accettata da questa famiglia, ci sono anche dei messaggi ed anche lei lo scrive. Dava fastidio al signor Biagio”, ha commentato Imma. La donna ora più che mai ha chiesto piena giustizia per la figlia uccisa barbaramente. “Lucio non ha detto la verità, adesso deve avere il coraggio di chiedere perdono a lei in ginocchio e dire tutta la verità per farla riposare in pace. Mi manca tanto, anche se io la sento tanto e lei vivrà sempre dentro di me”, ha chiosato commossa.

Omicidio Noemi, il giudice: «Fu il contesto familiare a spingere Lucio a ucciderla», scrive Alessandro Cellini Sabato 5 Gennaio 2019 su Il Quotidiano di Puglia. Le «continue interferenze» e i «pesanti condizionamenti esercitati dal nucleo familiare» di Lucio M. «hanno avuto un peso nella decisione poi maturata» di uccidere Noemi Durini, la 16enne di Specchia morta poco più di un anno fa. Questo si legge nelle motivazioni della sentenza che ha condannato Lucio alla pena di 18 anni e 8 mesi di reclusione. E' pesante il giudizio del giudice per l'udienza preliminare Aristodemo Ingusci nei confronti soprattutto del padre di Lucio, dipinto come colui il quale «detesta Noemi e la demonizza in ogni occasione». Il ragazzo è stretto in una morsa: da un lato il rapporto intensissimo con il padre («vera e propria subordinazione», la chiama il giudice), dall'altro l'affetto nei confronti di Noemi. Ma quando capisce che lei vuole lasciarlo - per la sua gelosia, per le botte che in più di un'occasione riceve - lui fa la sua scelta. E vede solo nella eliminazione fisica della ragazza il modo per risolvere il "problema". «Di fronte all'ormai ineludibile alternativa tra sacrificare definitivamente il rapporto familiare per preservare quell con Noemi da un lato e, dall'altro, perdere la ragazza per salvare il primo, con aberrante lucidità e freddezza e senza rimorsi» decide di uccidere la ragazza. Non c'è alternativa: «Non tollera che Noemi possa essere di altri; sceglie allora, con atto di insano egoismo, di sopprimerla». L'omicidio avviene il 3 settembre del 2017, intorno all'alba. Le modalità con cui Lucio uccise la ragazza sono ormai note: una coltellata alla nuca (con la punta del coltello che si spezzò) e alcuni colpi di pietra in testa. Poi Noemi fu sepolta, ancora viva, sotto un cumulo di pietre. Trovò la morte per asfissia. In quei momenti concitati, secondo il giudice, per Lucio «non un momento di cedimento, né un attimo di umana pietà». Il verdetto di colpevolezza arriva il 4 ottobre: oggi, a distanza di tre mesi, sono state depositate le motivazioni della sentenza. Una volta valutato il da farsi, il legale dell'imputato, l'avvocato Luigi Rella, potrebbe decidere di impugnare la sentenza e presentare appello.

Noemi Durini, troppi punti che non tornano, scrive Leonardo l'8 gennaio 2019 su Controcopertina. In questi giorni ce stato un importantissimo sviluppo nel caso di Noemi Durini. Il gip del Tribunale di Lecce ha accolto la richiesta di opposizione presentata dai genitori di Noemi, disponendo tutta la serie di approfondimenti che avevamo chiesto, perché ritenuti indispensabili per fare luce sul brutale delitto. Io sono stata nominata consulente tecnico da parte della madre della vittima e ho depositato agli atti, a supporto della richiesta di opposizione, una corposa consulenza tecnica. L’obiettivo è sollecitare ima serie di doverosi approfondimenti per chiarire la posizione dei genitori di Lucio Marzo (reo confesso dell’omicidio, già condannato a 18 anni e 8 mesi), Biagio Marzo e Rocchetta Rizzelli. A mio avviso sono davvero troppi gli aspetti che non tornano, sia per quanto riguarda le varie versioni fornite da Lucio nel corso dell’inchiesta, sia per quanto riguarda ciò che realmente avvenne la mattina del 3 settembre del 2017, intorno alle 7-30, subito dopo il ritorno di Lucio a casa. Il gip, pertanto, ha indicato una serie di attività investigative alla Procura e ha assegnato altri quattro mesi per espletare queste integrazioni. In particolare, la Procura dovrà acquisire il traffico telematico dei cellulari di Noemi, di Lucio e dei suoi genitori, oltre alle immagini degli impianti di sorveglianza che hanno inquadrato la macchina della famiglia Marzo. Il gip ha poi disposto che vengano cercati, sequestrati e analizzati gli altri massi usati per seppellire il cadavere, per verificare se vi siano tracce biologiche degli indagati. Dovranno poi essere effettuati ulteriori accertamenti sugli indumenti della vittima per la ricerca di tracce biologiche. Anche per il gip, come per noi, il caso non può essere considerato chiuso.

Noemi Durini, indagini su genitori Lucio Marzo. Delitto Specchia, tracce su vestiti? Scrive il 02.04.2019 Niccolò Magnani su Il Sussidiario. Noemi Durini, il tremendo omicidio di Specchia: indagini sui genitori di Lucio Marzo, accertamenti sui vestiti. Nuove tracce e caso riaperto? Le novità che emergono sull’atroce delitto di Specchia, dove la giovanissima Noemi Durini venne uccisa il 3 settembre 2017, sono altrettanto inquietanti: dopo la condanna a 18 anni e 8 mesi per il fidanzatino Lucio Marzo ora è qualche settimana che si indaga anche sui genitori del ragazzo – Biagio Marzo e Rocchetto Rizzelli – perché potenziali complici dell’indegno omicidio. Va detto che nei mesi scorsi il gip Vincenzo Brancato aveva già accolto l’istanza di opposizione all’archiviazione dei genitori della 16enne di Specchia, convinti che l’ex fidanzato non possa aver fatto tutto da solo: negli ultimi giorni sono stati anche disposti degli accertamenti tecnici, in particolare sugli indumenti di papà e mamma Marzo, per capire se vi siano delle tracce di Noemi che ribalterebbero decisamente l’intero impianto accusatorio. Solo pochi giorni fa a La Vita in Diretta l’avvocato Luigi Piccinni spiegò «Non abbiamo ritenuto opportuno la presenza di un nostro consulente e dubitiamo che l’ accertamento possa portare a rilievi interessanti». Oggi il caso di Specchia torna in tv, ma a Pomeriggio 5 dove novità sugli accertamenti dalla Puglia potrebbero essere mostrate dalla inviata di Barbara D’Urso. Secondo Umberto Durini, papà distrutto di Noemi, «Spero che questi punti oscuri vengano chiariti perché mia figlia merita tutta la verità. Deve riposare finalmente in pace. Noi stiamo vivendo un ergastolo di dolore e solitudine»: non è la prima volta che vengono messi dubbi in merito alla complessa e farraginosa dichiarazione di confessione del ragazzino omicida di Noemi Durini. In particolare la criminologa Roberta Bruzzone, sempre a La Vita in diretta lo scorso 29 marzo, sottolineò quanto fosse sospetta l’amnesia di Lucio su quella circostanza: «In una delle ultime versioni fornite Lucio attribuisce al padre l’attività successiva all’aggressione, sostiene che sia tornato da solo e abbia provveduto al seppellimento di Noemi, che però era ancora viva, come è emerso. Non lo raccontiamo noi, lo ha raccontato il figlio». Nel dolore la comunità di Specchia e in particolare la famiglia di Noemi tenta ormai da mesi di poter lentamente tornare alla normalità: ad inizio marzo, in una scuola gremita di Brindisi, l’iniziativa “Oltre il muro del silenzio” ha permesso alla mamma della ragazzina trucidata, Imma Rizzo, di rilasciare una breve ma commovente testimonianza «L’amore non è mai violenza, non è negazione del rispetto per sé, non è controllo. Non è mai amore se fa male».

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Val D’Agri ed il memoriale ignorato.

Disastro ambientale Val D'agri, suicida avvisò con memoriale. Uno scritto di Gianluca Griffa - dal 2011 ingegnere responsabile della produzione nell’impianto lucano - avrebbe chiuso il cerchio» sull'inchiesta dei pm potentini. Scrive il 23 Aprile 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Il disastro ambientale nell’area del centro oli di Viggiano (Potenza) ipotizzato dalla Procura è riconducibile alle «condotte omissive degli indagati», e «ben noto al management Eni": un ruolo «chiave», in questo senso, lo ha un memoriale lasciato prima di suicidarsi, nel 2013, da Gianluca Griffa - dal 2011 ingegnere responsabile della produzione nell’impianto lucano - con «un alto valore probatorio», che «chiude il cerchio» sulle indagini dei pm potentini sulle estrazioni in Basilicata, e dimostrerebbe così che la compagnia petrolifera sarebbe stata a conoscenza dei problemi ai serbatoi del Cova (e quindi dello sversamento di greggio). Il corpo di Griffa fu ritrovato a luglio 2013 nelle campagne di Montà d’Alba (Cuneo) molti giorni dopo la scomparsa, e con particolari mai del tutto chiariti: in una «lettera testamento" l'uomo spiegava che gli era «stato imposto di tacere», che "nell’aria c'era un suo allontanamento», e la compagnia "preferisce assumere giovani inesperti per poterli manovrare" (Griffa si suicidò a 38 anni). Tutto nasceva, secondo l’ingegnere, dalle segnalazioni fatte all’Eni sulla corrosione dei serbatoi, sulla qualità della produzione che era stata notata anche dalla raffineria di Taranto, e dall’aumento dell’uso di glicole. In altre parole - sempre secondo l’accusa - Griffa "anticipava» nel 2013 non solo quanto emerso oggi dall’inchiesta della Procura su un presunto disastro ambientale nel Cova, ma anche «pezzi» importanti dell’inchiesta sulle estrazioni petrolifere del 2016 (di cui si sta svolgendo il processo di primo grado a Potenza). Un «testamento» restato per anni in Piemonte, e riemerso nel 2017 quando i pm potentini Laura Triassi e Francesco Basentini decisero di verificare alcuni particolari sulle persone che avevano lavorato per l’Eni a Viggiano, imbattendosi così nel suicidio di Griffa. L’ingegnere si rivolse più volte ai vertici locali del centro oli, ma gli fu detto di «smettere di rompere - secondo quanto scrive nel memoriale - e di credere di essere stato allontanato per questo motivo». Griffa, secondo il gip di Potenza, «pur non essendo in possesso dei dati dei vertici - è scritto nell’ordinanza - e volutamente emarginato», aveva cercato "soluzioni che, se eseguite, avrebbero scongiurato il disastro ambientale scoperto quattro anni dopo».

Disastro ambientale in Val D'Agri, il tenente Di Bello: "Ringrazio Striscia". Scrive il 24 aprile 2019 Libero Quotidiano. Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) importanti aggiornamenti sull’inchiesta di Pinuccio sul COVA (Centro Olio Val d’Agri) di Viggiano. Dal 2017 il Tg satirico di Antonio Ricci denuncia e documenta le perdite di petrolio in Val d’Agri e la conseguente contaminazione dell’invaso del lago del Pertusillo. Ieri è stato arrestato un dirigente Eni e sono stati rinviati a giudizio altri dirigenti Eni e tecnici della Regione Basilicata e la stessa Eni: la procura di Potenza ipotizza i reati di disastro, disastro ambientale, abuso d’ufficio, falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale. Il tenente Giuseppe Di Bello, che indagò sul caso, dice ai microfoni di Pinuccio: «Ringrazio Striscia la notizia perché tutto ciò che è emerso due anni fa dai servizi di Striscia è oggi presente nel provvedimento della procura».

Tenente demansionato per aver denunciato inquinamento: caso Di Bello di nuovo sul tavolo dell’Ue. Mobbing e violazione dei diritti umani. L'eurodeputata Forenza chiede il reintegro per il tenente della Polizia provinciale di Potenza. Scrive il 19 aprile 2019 basilicata24.it. Con una interrogazione con richiesta di risposta scritta alla Commissione europea, l’eurodeputata Eleonora Forenza (Sinistra unitaria europea), porta nuovamente all’attenzione dell’Ue il demansionamento del tenente della Polizia provinciale di Potenza, Giuseppe Di Bello. Di Bello, denunciato per violazione del segreto d’ufficio, viene spostato al Museo Archeologico di Potenza. Era il 201o. Sebbene alcuni mesi dopo il gip avesse emesso un ordine di reintegro, il tenente non ritornò alle sue mansioni e fu invece oggetto di un procedimento disciplinare. Oltre che di un processo penale. Oggetto della denuncia, e poi del processo al tenente, furono le rivelazioni fatte sui valori di diversi inquinanti riscontrati nelle acque degli invasi di Monte Cotugno, del Pertusillo, della diga della Camastra. La sentenza di assoluzione arriva al termine di lungo e complesso iter processuale che si snoda dal 2012 tra il Tribunale di Potenza, la Corte di Appello nel 2013, quindi la Corte di Cassazione nel 2015, la Corte di Appello di Salerno nel 2016, a sua volta annullata dalla Corte di Cassazione nel 2017. Il 6 dicembre 2018 la Prima Sezione Penale della Corte di Appello di Napoli mette la parola fine con l’annullamento della sentenza di condanna emessa in primo grado. Da allora nulla è cambiato, Di Bello è rimasto a fare il guardiano al Museo, nonostante le sue richieste di reintegro nelle mansioni svolte prima della denuncia. La sua vicenda per mezzo dell’eurodeputata Forenza approda alla Commissione Europea dopo che già nel 2016 un’altra interrogazione era stata presentata dall’europarlamentare Piernicola Pedicini (M5S). Di Bello-scrive Forenza nella sua interrogazione- era stato accusato nel 2010 di diffusione di notizie coperte da segreto in merito ad indagini in corso. In realtà, il Di Bello era addetto a controlli di natura ambientale e grazie alla sua iniziativa contribuì a scoperchiare uno scandalo di grandi proporzioni sull’inquinamento delle acque potabili che servono milioni di persone in diverse regioni del sud Italia. A distanza di 9 anni dalle accuse-prosegue l’eurodeputata- per Di Bello continua la situazione di demansionamento lavorativo rispetto al proprio grado e qualifica, che è stato causa negli anni di un notevole danno economico e di gravi conseguenze personali e familiari. Rispondendo all’interrogazione E-001516/2016, quella appunto presentata da Pedicini, la Commissione riconosceva la competenza delle autorità nazionali sul tema che però non sono intervenute. Alla luce di questa ulteriore inerzia l’europarlamentare Forenza chiede: “Come pensa la Commissione, oggi, concluso l’iter giudiziario e amministrativo italiano e respinte tutte le sue richieste di reintegro nelle funzioni antecedenti al 2010, di intervenire per far sì che i diritti umani siano rispettati, così come sancito dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea TFUE (art.2) e dalla Convenzione dei Diritti dell’Uomo?”  

Val d’Agri. La storia del poliziotto in guerra contro l’inquinamento. Scrive lunedì 11 dicembre 2017 e-gazette.it. Estromesso e denunciato, l’agente Giuseppe Di Bello è finito a fare il custode in un museo. Aveva denunciato l'inquinamento delle falde acquifere in Basilicata da parte delle multinazionali del petrolio, anticipando di 6 anni l'azione della magistratura e ora, dopo 8 anni e 2 sentenze della Cassazione che gli hanno dato ragione, si trova demansionato a fare il custode di un museo a Potenza. Senza divisa, aggiornamenti professionali, avanzamenti di carriera e a stipendio ridotto. La storia del poliziotto di provincia Giuseppe Di Bello (nella foto) approda in Senato grazie all'intervento del senatore di Sinistra Italiana Giovanni Barozzino, che sul suo caso ha presentato diverse interrogazioni "rimaste tutte senza risposta". Così, in una conferenza stampa a Palazzo Madama, Di Bello può raccontare la sua storia, tra commozione, rabbia e richiesta di "dignità" che gli deve venire ridata da quelle istituzioni che invece di premiarlo lo hanno messo all'angolo. Tutto comincia nel 2010, quando "vedendo i sassi delle acque" che era chiamato a controllare, "cambiare colore" e "migliaia di pesci morire", decide di fare dei prelievi per controllare. Tutto a sue spese, "anche per non gravare sulle casse dello Stato" e mentre era in ferie. E quando scopre che quell'acqua che finisce nelle case di milioni di persone tra Basilicata e Puglia è diventata veleno, denuncia. "E da qui - racconta - comincia il mio calvario". L'assessore regionale del Pd lo denuncia per "procurato allarme", ipotesi di reato che "poi si trasforma in divulgazione di segreto d'ufficio". Affronta il processo e dopo essere stato condannato viene totalmente scagionato "dalla Cassazione che invece riconosce l'utilità della mia azione e della mia denuncia". Subito dopo la condanna di primo grado viene avvicinato da esponenti del M5S, che prima gli dicono di vedere in lui "un esempio" e poi gli propongono una candidatura. Ma quando lui accetta e supera le primarie ("con il 70% delle preferenze"), Grillo gli telefona e gli dice che siccome è un condannato non si sarebbe neanche potuto presentare. Così scelgono quello che era arrivato subito dopo di lui. Di Bello incassa e resta lontano dalla politica. Poi, quando il giudice di legittimità annulla quella condanna, torna alla carica: "Rivoglio il mio lavoro - dichiara commosso - e, ripeto, rivoglio la mia dignità" che invece gli viene negata anche quando riesce a sventare un tentativo di richiesta di pizzo nel bar dove era andato a mangiare. Sul verbale di polizia per l'episodio, subito denunciato da lui e dalla vittima, gli scrivono "ex tenente". "Ecco, questo mi ha fatto ancora più male - dice - perché io sono un tenente, non un ex, e voglio che almeno questo mi venga riconosciuto". Un tenente da 8 anni chiuso in un museo di Potenza come custode. "Anche se io - avverte - continuo ad essermi e a sentirmi un ufficiale di polizia". E per questo, conclude, "chiedo giustizia". "Cancellare la dignità dai luoghi di lavoro - commenta Barozzino - penso che sia profondamente sbagliato. La sinistra deve tornare a farsi carico di questi problemi e deve tornare a far diventare quello del lavoro il tema principale della propria azione politica".

Inchiesta Centro oli in Val d’Agri, gip: “Eni sapeva da anni delle perdite dei serbatoi. Scelte scellerate per interessi economici”. Nelle carte dell'inchiesta per disastro ambientale che coinvolge 14 persone e ha portato ai domiciliari l'ex responsabile del Centro Oli, accuse verso i manager: agirono per "non compromettere l'efficienza e la redditività dell'attività, considerata in un'ottica meramente economica sganciata dal contesto ambientale". Gli sforzi erano concentrati a "silenziare" le criticità" per evitare che Viggiano diventasse "l'anello debole della catena produttiva". Scrive Andrea Tundo il 24 Aprile 2019 su Il Fatto Quotidiano. Eni sapeva, ma ignorò il problema. Persino quando a segnalarlo fu un consulente ingaggiato per le verifiche su quei serbatoi che hanno sversato almeno 400 tonnellate di petrolio nel suolo e compromesso il “reticologo idrografico” della Val d’Agri, arrivando a lambire la diga del Pertusillo che rifornisce d’acqua parte della Basilicata e tutta la Puglia. Uno “stillicidio” di idrocarburi che – secondo la procura di Potenza – avrebbe causato un “disastro ambientale”. I manager del Cane a sei  zampe impegnati nel Centro oli di Viggiano lo fecero per “motivi economici” all’interno di una “precisa strategia” attuata a livello locale “ma certamente condivisa dai vertici di Milano” tesa a “nascondere i gravi problemi” di “corrosione” dei serbatoi.

“Il profitto unico faro delle scellerate scelte”. Le condotte portate avanti sono state “caratterizzate da una sconcertante malafede e spregiudicatezza”, secondo il gip Ida Iura che ha disposto i domiciliari per l’ex responsabile del Centro oli di Viggiano, Enrico Trovato, indagato con altre 13 persone e la stessa azienda. Nascondendo quanto accadeva nell’impianto lucano e non intervenendo subito per tappare i buchi dei serbatoi che contenevano il petrolio, sono quindi stati “sacrificati” per anni la tutela di salute e ambiente di fronte alle “ragioni economiche d’impresa”, definite “l’unico faro” che “ha illuminato e sorretto tutte le scellerate scelte aziendali”.

Dal Comitato tecnico “avallo ingiustificato” all’azienda. Sono accuse pesantissime quelle rivolte al management dell’azienda petrolifera nell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti dell’ex responsabile dell’impianto. Perché – pur non essendoci manager apicali sotto inchiesta – ricostruiscono un presunto modus operandi all’interno dell’azienda. Che avrebbe coinvolto anche i predecessori di Trovato, Andrea Palma e Ruggero Gheller, sotto inchiesta come anche 5 membri del Comitato tecnico regionale della Basilicata che avrebbero potuto forzare l’azienda all’intervento e invece diedero un “avallo ingiustificato” alle posizioni di Eni nel 2014. Così, secondo il procuratore capo di Potenza Francesco Curcio, se nel febbraio 2017 le perdite non fossero venute alla luce per un malfunzionamento dell’impianto fognario i danni avrebbero potuto essere ancora più gravi.

“Corrosione ignorata. Sforzi per silenziare criticità”. Stando alla ricostruzione dei carabinieri del Noe – ai quali i pm Laura Triassi e Veronica Calcagno hanno delegato l’indagine – l’inerzia dell’azienda, dettata da motivazioni economiche, ha comunque causato un disastro ambientale. E a un anno dalla scoperta delle perdite, inquinanti come benzene, Soa, tetracloroetilene e triclorometano superavano ancora i valori soglia fino a 38 volte. Tutto “provocato dal difetto di contenimento di quattro i serbatoi” del Centro oli, interessati da “fenomeni rilevatissimi di corrosione del fondo, noti, persino studiati e volutamente ignorati dai vertici aziendali”, così da “non compromettere l’efficienza e la redditività dell’attività” che veniva “evidentemente considerata” in un’ottica “meramente economica” del tutto “sganciata dal contesto ambientale in cui era svolta”, scrive il gip del Tribunale di Potenza. Tanto che “tutto lo sforzo dei responsabili locali, con l’avallo degli organi di vertice della società – si legge nell’ordinanza – è stato quello di “silenziare” le criticità (…) allo scopo di evitare che le inevitabili problematiche ambientali rendessero” l’impianto di Viggiano “l’anello debole della catena produttiva, considerato l’interdipendenza con la struttura di Taranto”.

L’ispettore ai pm: “Per il Cova esiste solo la produzione”. A supporto della tesi ci sono le dichiarazioni di chi intervenne a Viggiano già nel 2012, ben cinque anni prima delle perdite, come l’ispettore di impianti dell’Istituto italiano di saldature, Domenico Di Donato. In un serbatoio vennero trovati “ben 8 fori”. Ascoltato dagli inquirenti nel 2018, Di Donato ha messo a verbale: “Per il Cova esiste solo la produzione (…) Avevo detto a tutti che i serbatoi B e D che stavano accanto ai serbatoi A e C, che già avevamo perso, dovevano essere nella stessa condizione e pertanto chiedevo cosa aspettassimo a ispezionarli. Era ovvio aduna persona di media intelligenza che la condizione dovesse essere la stessa”. E nel corso dell’inchiesta si è scoperto che nel 2013 Eni aveva anche dato incarico a un professore del Dipartimento di chimica del Politecnico di Milano di studiare il problema.

Il gip: “Nascondono tutto ciò che non viene scoperto”. Ma poco o nulla venne fatto, anche se l’azienda ha rivendicato in una nota il “tempestivo intervento”. Secondo il gip, invece, anche quando venne a luce lo sversamento tra l’agosto e il novembre 2016, che poi porterà nel 2017 alla chiusura dell’impianto per tre mesi, l’azienda dimostrò “clamorose inefficienze”. Da alcune intercettazioni riportate nell’ordinanza emergerebbe per la sede di Viggiano “l’inesistenza di procedure ambientali di verifica” e la “superficialità della gestione del problema della sicurezza dell’ecosistema”, nonché “la grave e inescusabile confusione in cui versava” persino il tecnico responsabile del settore Salute, Sicurezza, Ambiente del distretto Meridionale dell’azienda petrolifera. E, secondo gli inquirenti, anche dopo il febbraio 2017 Eni ha continuato “a nascondere tutto ciò che non viene scoperto” dalle autorità di controllo. Dei dipendenti citati negli atti l’unico che agì con “coscienza e scrupolo” è Gianluca Griffa, l’ex responsabile della produzione di Viggiano ritrovato morto in un bosco nel 2013. Aveva capito cosa stava accadendo già nel 2011 e denunciò ai superiori: “Volutamente era stato emarginato – scrive il gip – Ma se le precauzioni suggerite, siamo nel 2013, fossero state considerate avrebbero scongiurato il disastro ambientale scoperto quattro anni dopo”. A ringraziarlo, quasi sei anni dopo la morte, è stata la procura.

Inchiesta Centro Oli Eni in Val d’Agri, la professoressa che denunciò: “Situazione è critica, ma tutti hanno paura ad esporsi”. Albina Colella, docente di Geologia all’università di Potenza, nel 2015 era stata denunciata dalla compagnia petrolifera: "Quanto accaduto è la conferma di quello che studio e scrivo da tempo su ciò che accade in Val d’Agri". Gli ambientalisti: "Avviare subito le bonifiche, al momento sono ancora ferme. E Regione e Governo non rinnovino la concessione al Cane a sei zampe". Scrive Maria Teresa Totaro il 23 Aprile 2019 su Il Fatto Quotidiano. “Dobbiamo ringraziare una persona che non c’è più: Gianluca Griffa”. A parlare è il procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, la cui indagini hanno portato agli arresti domiciliari Enrico Trovato, all’epoca dei fatti responsabile del Centro oli dell’Eni di Viggiano. Gianluca Griffa, ex responsabile dello stabilimento lucano, scomparso e poi trovato morto nell’agosto del 2013, in una lettera aveva raccontato come le fuoriuscite di greggio dai serbatoi del Cova sarebbero avvenute nel 2012 ma poi “per ordini superiori” sarebbero state nascoste “per non fermare la produzione”. Ora si aggiunge un nuovo tassello alla vicenda e – oltre all’arresto di Enrico Trovato – sono indagate anche 13 persone, tra le quali dirigenti della compagnia, pubblici ufficiali facenti parte del Comitato tecnico regionale della Basilicata e la stessa Eni come persona giuridica. I componenti del Ctr avevano il compito di controllare l’attività estrattiva della compagnia petrolifera sotto il profilo della sicurezza e dei rischi ambientali. I reati ipotizzati sono disastro, disastro ambientale, abuso d’ufficio, falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale. La storia risale al 2017, quando l’Eni ammise lo sversamento di 400 tonnellate di petrolio da uno dei serbatoi del Centro Oli della Val d’Agri (Cova) a Viggiano, in provincia di Potenza. Lo sversamento si era verificato tra agosto e novembre del 2016. Secondo gli inquirenti c’è stata “la contaminazione e la compromissione di 26mila metri quadri di suolo e sottosuolo dell’area industriale di Viggiano e del reticolo idrografico a valle dell’impluvio denominato Fossa del lupo”. “Quanto accaduto è la conferma di quello che studio e scrivo da tempo su ciò che accade in Val d’Agri – racconta la professoressa Albina Colella – già nel 2011 avevo riscontrato un’elevata concentrazione di idrocarburi nelle acque del Pertusillo, e successivamente anche nei sedimenti. La situazione, che all’epoca avevo fotografato, ha poi trovato riscontro nelle parole dell’ingegner Griffa, che aveva capito tutto”. La Colella, docente di Geologia all’università di Potenza, nel 2015 era stata denunciata dalla compagnia petrolifera per diffamazione e danni morali e patrimoniali, dopo alcune dichiarazioni rese in tv sulle acque contaminate di Contrada La Rossa in aerea di reiniezione petrolifera. All’epoca dei fatti a capo del Cova c’era Enrico Trovato e alla professoressa venne chiesto un risarcimento di 5 milioni di euro. Ma il 19 luglio 2017, la Prima Sezione Civile del tribunale di Roma ha rigettato integralmente la richiesta di risarcimento danni avanzata da Eni, legittimando così la validità degli studi scientifici della docente. “Oggi – spiega – la situazione del Pertusillo è molto critica, perché dal versante petrolizzato (quello del Centro Oli, ndr), in più punti fuoriescono dal sottosuolo liquami rossi contaminati che si immettono nelle acque dell’invaso. Ed è allarmante, sia per la Basilicata che per la Puglia, che fa grande uso di tali acque. L’acqua è alla base della catena alimentare e della salute, se è inquinata tutto viene compromesso”. Stando ai racconti della professoressa Colella, in Basilicata c’è grande preoccupazione per la situazione ambientale ma anche tanta “paura di esporsi”. “Gli agricoltori mi chiedono cosa sta succedendo, vogliono documentazione scientifica, analisi per sapere come stanno le cose”. A esprimere preoccupazione anche Pasquale Stigliani, presidente dell’associazione ambientalista ScanZiamo le Scorie, che chiede con urgenza la bonifica di acqua e suolo: “È giusto che chi inquini paghi e che il processo faccia il suo corso, ma occorre avviare subito la bonifica, al momento ancora ferma. Chiediamo poi che Regione e Governo non rinnovino la concessione per la “coltivazione di idrocarburi” in Val d’Agri. Abbiamo anche raccolto più di 8500 firme per chiudere i pozzi”. Secondo la professoressa Colella, però, “la bonifica delle acque sotterranee è molto complessa e costosa. Può richiedere molto tempo e in alcuni casi potrebbe non essere sufficiente”.

Basilicata, professoressa universitaria vince causa contro Eni: la multinazionale l’aveva querelata per diffamazione. La professoressa Albina Colella aveva svolto uno studio sulle acque affiorate vicino a qualche chilometro di distanza da un impianto gestito da Eni. E la multinazionale aveva chiesto oltre 5 milioni di euro di risarcimento danni. Il tribunale ha dato ragione alla docente, condannando il Cane a Sei Zampe per lite temeraria. Scrive Il Fatto Quotidiano l'11 Agosto 2017. Lei, professoressa universitaria di geologia, aveva fatto degli studi. E ne aveva parlato in televisione, anche durante trasmissioni trasmesse a livello nazionale. Le ipotesi scientifiche di Albina Colella, ordinaria all’università della Basilicata, riguardavano le acque sotterranee ricche di idrocarburi, gas, metalli e tensioattivi che 6 anni erano affiorate in Contrada la Rossa, a Montemurro, a poco più di 2 chilometri dal pozzo di reiniezione di scarti petroliferi di Costa Molina 1 in Val d’Agri. E le acque – sosteneva la professoressa – mostravano diverse affinità con i reflui di scarto petrolifero. Così Eni, che gli impianti della Val d’Agri li gestisce, l’aveva querelata per diffamazione e danni morali e patrimoniali, chiedendo un risarcimento di poco più di 5 milioni euro. Ma lo scorso 19 luglio, la Prima Sezione Civile del tribunale di Roma ha rigettato integralmente la richiesta di risarcimento danni avanzata da Eni, dando ragione alla professoressa. Sancendo, di fatto, la legittimità dell’informazione scientifica. Gli avvocati di Colella, Giovanna Bellizzi e Leonardo Pinto, hanno spiegato che la sentenza stabilisce il diritto all’informazione in materia ambientale e riconosce la valenza costituzionale della libertà di opinione: “Non vi è dubbio che la divulgazione dei risultati della ricerca costituisca legittima espressione del diritto di libertà di manifestazione del pensiero, sancito dall’art. 21 della Costituzione, e di libertà della Scienza garantita dall’art. 33 della Costituzione, senza limiti e condizioni”, si legge nel testo con cui il tribunale ha dato ragione alla professoressa. Non solo: perché vista la somma richiesta dalla multinazionale, sganciata da qualsiasi parametro che regola il risarcimento in materia, hanno spiegato i legali, Eni è stata anche condannata per lite temeraria.

·         Basilicata, la “lista verde” di Pittella per i concorsi.

Caso Pittella, Cassazione distratta. I punti oscuri della sentenza sulle accuse per i concorsi truccati, scrive Leo Amato su Il Quotidiano del Sud, Giovedì 13/12/2018.  Anche la Cassazione, per la fretta, può inciampare. E' quanto commentano, a denti stretti, gli addetti ai lavori, il giorno dopo il deposito delle motivazioni per cui la Corte ha disposto una nuova udienza davanti al Tribunale del riesame di Potenza sulle accuse al governatore Marcello Pittella sui concorsi truccati nella sanità. Sono diversi, infatti, i punti interrogativi aperti nelle 18 pagine con cui il presidente della V sezione, Grazia Miccoli (già addetto alla segreteria generale del Consiglio superiore della Magistratura), ha accolto il ricorso presentato dai legali del governatore, i professori Franco Coppi e Donatello Cimadomo, contro l'ordinanza che a fine luglio aveva confermato gli arresti domiciliari disposti 3 settimane prima dal gip di Matera, Rosa Nettis. Interrogativi da cui nei prossimi giorni dipenderà la revoca del divieto di dimora per il governatore, che è anche sospeso dall'incarico per effetto della legge Severino, o la conferma della misura cautelare a cui resta sottoposto, solo “attenuata” a settembre per la chiusura delle indagini e il venir meno del rischio d'inquinamento probatorio. 

GLI ATTI “STRALCIATI”. Il primo è senz'altro quello costituito dalle lacune in tema di indizi a carico di Pittella che si sono aperte nelle motivazioni del Riesame, nel momento in cui la Cassazione ha bocciato il richiamo integrale effettuato, «per la completa disamina dell'attività d'indagine» dal loro estensore, il presidente del Tribunale Aldo Gubitosi, all'ordinanza “madre” del gip: «in modo che essa costituisca parte integrante della presente». Uno stralcio deciso d'iniziativa dai giudici del “Palazzaccio” sulla base di un orientamento recente dei colleghi della VI sezione (marzo 2018), senza alcun rilievo in tal senso formulato dai difensori, che ha lasciato automaticamente “scoperti” proprio gli aspetti fondamentali della vicenda, dati per acquisiti dal Riesame in quanto già trattati dal gip, benché oggetto di specifica contestazione dei legali. «A questa Corte non è consentito (…) integrare o correggere la motivazione del provvedimento impugnato attraverso il riferimento alla motivazione dell'ordinanza applicativa della misura cautelare stessa». Così i magistrati di Trastevere, che si sono astenuti anche dall'esame delle rare intercettazioni telefoniche citate dal Riesame, sempre perché le altre erano state già ampiamente trattate nell'ordinanza del gip. «La ricerca del valore indiziante delle conversazioni – aggiunge la Cassazione - non può essere compiuta in sede di legittimità, tramite una lettura delle trascrizioni delle conversazioni». 

LE LACUNE. Il risultato, pressoché inevitabile, è stato che l'ordinanza del Riesame, presa singolarmente, è risultata mancante rispetto all'«obbligo motivazionale», e caratterizzata dalla sottolineatura di «una serie di elementi indiziari, come indicati anche nell'ordinanza genetica, omettendo una reale e autonoma valutazione critica di tali elementi (…) e sostanzialmente aggirando le obiezioni difensive, sulla cui fondatezza non spetta certamente a questa corte esprimersi, neppure facendo ricorso – ribadiscono i giudici – a una lettura integrata». Di qui la censura, anche a livello stilistico, per la genericità di una «una serie di affermazioni che non superano il confine meramente congetturale», perché effettivamente sganciate dalla riproposizione di tutti gli elementi a loro sostegno, e le «letture “probabilistiche” del ruolo di Pittella». 

LA LISTA VERDE. L'esempio più eclatante è quello riferito al concorso per l'assunzione di 8 funzionari di categoria protetta all'Asm, con l'«attribuzione al Pittella della cosiddetta “lista verde” dei raccomandati», e la ricostruzione dell'incontro con l'ex direttore amministrativo dell'Asm, Maria Benedetto, avvenuto nella residenza di Lauria del governatore, in cui quest'ultimo, secondo il Riesame: «con ogni probabilità, veniva informato dalla Benedetto proprio della insufficienza delle votazioni riportate dai candidati della cosiddetta lista verde». Nell'ordinanza annullata dalla Cassazione non viene ripetuto il contenuto delle intercettazioni in cui la Benedetto prepara la “lista” spiegando a una collaboratrice che «quelli verdi sono di Pittella», e poi spiega all'ex commissario Pietro Quinto la stessa cosa, concordando di andare di persona a Lauria per sottoporgli i punteggi ottenuti dai “suoi” nella prova scritta. Non viene contestualizzata, come fatto in precedenza dal gip, nemmeno un'altra intercettazione, immediatamente successiva all'incontro a Villa Pittella, in cui Benedetto rassegna a Quinto l'accaduto e gli spiega di dover effettuare dei «correttivi», per poi tornare in ufficio e rimettere mano alla graduatoria provvisoria della selezione “incriminata”, sotto l'occhio delle telecamere nascoste dalla Guardia di finanza. Ne si citano, ovviamente (perché giudicati superflui anche dal Riesame), l'interrogatorio di garanzia in cui Benedetto ha riconosciuto la paternità di quelle raccomandazioni («avevo messo un puntino io personalmente. Avevo mosso un puntino verde (…) Su quelli che mi aveva detto Quinto, eh sarebbero state le persone gradite a Pittella. Diciamo “gradite”. Un puntino avevo messo io verde»), o, ancora, l'acquisizione di un'altra “lista verde” (riferita a una selezione successiva) scoperta durante le perquisizioni nell’archivio di una dipendente Asm, che ha confermato i sospetti degli inquirenti.  Così per la presidente della V sezione, che ha sostituito nella scrittura della sentenza la relatrice Caterina Mazzitelli, anche l'associazione “lista verde” - Pittella diventa «congetturale». Toccherà quindi al Riesame tornare sulla questione, ed eventualmente rimettere assieme certosinamente tutti i pezzi del puzzle, per motivare la sua seconda decisione sul ricorso dei legali di Pittella, adeguandosi ai criteri dettati dai giudici della Suprema Corte. Sempre che di qui a 10 giorni il governatore non abbia già ottenuto la revoca del divieto di dimora dal gip, a cui ieri è stata presentata un’istanza in tal senso. D'altro canto il collegio potentino, riprendendo in mano la vicenda, non dovrebbe avere difficoltà nel rispondere a un altro degli interrogativi aperti dalla pronuncia della Cassazione, rintuzzando il furore delle veementi critiche al suo operato. 

ABUSO O FALSO? Si tratta di quello, sempre sul tema dei gravi indizi di colpevolezza a carico di Pittella, dell'atteggiamento psicologico attribuito al governatore rispetto ai reati che gli sono contestati e alle doglianze dei suoi difensori per l'addebito di una sua presunta istigazione in forma indeterminata («implicita o esplicita») dei commissari delle selezioni truccate a favorire i suoi raccomandati. Per i magistrati romani il Riesame, nell'ordinanza annullata, avrebbe attribuito a Pittella il «dolo eventuale» rispetto sia alla falsificazione delle graduatorie che agli abusi d'ufficio commessi dai commissari per pilotare l'esito dei concorsi finiti nel mirino dei pm («La condotta di istigazione viene ascritta al ricorrente a titolo di dolo eventuale»). In pratica Pittella non avrebbe voluto avvantaggiare ingiustamente nessuno, ma avrebbe soltanto accettato il rischio che qualcuno dei commissari lo facesse, anche facendo carte false, raccogliendo le sue raccomandazioni. Per questo evidenziano che «per la configurabilità dell'elemento soggettivo del reato di abuso d'ufficio è richiesto che l'evento sia voluto dall'agente e non semplicemente previsto e accettato come possibile conseguenza della propria condotta». «E’ del tutto ovvio - aggiungono - come tutto ciò finisca per riverberarsi anche sull’elemento soggettivo riferito al reato di falso ideologico, considerata la evidente strumentalità nella vicenda in esame di tale reato rispetto alla condotta in ufficio». 

L’EQUIVOCO. Peccato che nell'ordinanza annullata il riferimento al «dolo eventuale», come pure all'istigazione «implicita o esplicita» dei commissari dei concorsi, sia limitato espressamente all'unico capo d'imputazione per un altro reato, peraltro più grave: quello di falso. Mentre sulle due contestazioni per abuso d'ufficio il Riesame sostiene perentoriamente che «nessun dubbio è possibile (…) sulla consapevolezza e sulla volontarietà delle condotte ascritte al ricorrente con riferimento alla manipolazione delle procedure del concorso». Quindi avrebbe agito proprio con quella precisa volontà di agevolare i suoi raccomandati evocata dalla Cassazione. Fin qui l'abuso d'ufficio. Poi avrebbe accettato il rischio che per assecondare le sue indicazioni i commissari di gara falsificassero le carte, dal momento che c'era una graduatoria da ritoccare. Dunque il falso e il riferimento al dolo eventuale («accettava il rischio che i commissari, per adeguarli al suo volere e in presenza di votazioni dei raccomandati ampiamente al di sotto della sufficienza, alterassero i punteggi assegnati»). Un equivoco  di facile risoluzione, insomma. D'altronde è normale una svista durante la redazione di una sentenza in tempi record (meno di 3 settimane quando per un deposito in Cassazione – anche in caso di detenuti in carcere – possono volerci fino a tre mesi). Lo stesso Riesame, a fine luglio, aveva fatto prestissimo, depositando dopo soli 15 giorni (rispetto all'identico termine di legge di un mese), e una consuetudine che tende ad aggiungervi qualche settimana.

Basilicata, la “lista verde” di Pittella per i concorsi: “Tutti i raccomandati hanno fatto schifo. Sia fatta la sua volontà”. "Mezzucci", logiche clientelari anche per alimentare "il consenso elettorale" per cui i concorsi erano truccati a favore di candidati segnalati dal governatore. Il gip: "È il deus ex machina, nulla si muove senza il suo suggello". Nelle carte anche sponsor eccellenti: politici e anche religiosi come l'ex viceministro Bubbico (Leu), don Angelo Gallitelli (segretario del vescovo di Matera, l'ex sottosegretario De Filippo (Pd), il deputato Piepoli (Cd), e il questore di Matera, Paolo Sirna. Nelle intercettazioni anche l'ex senatrice Lucia Esposito, "la discepola della Campania", vicina a De Luca. Nessuno di loro risulta indagato, scrivono Giuseppe Pipitone e Giovanna Trinchella il 6 Luglio 2018 su Il Fatto Quotidiano. Una madre che si sente “un verme” perché sa di essere parte di un “sistema” in cui i “meritevoli” devono lasciare spazio ai raccomandati. Dove la sua stessa figlia potrebbe essere vittima di chi come lei aggiusta i concorsi. È esemplare l’intercettazione che il gip di Matera Angela Rosa Nettis riporta quasi alla fine dell 425 pagine con cui ha firmato trenta misure cautelari tra cui i domiciliari per il governatore della Basilicata Marcello Pittella. È lui il deus ex machina, che “detta le sue regole partitocratiche, trasmette i suoi elenchi, le sue liste verdi, le sue direttive”. Cioè i nomi dei raccomandati che devono vincere i concorsi, che se “hanno fatto tutti schifo”, come registrano gli investigatori in un’intercettazione. Poco importa. A contare è la volontà di Pittella: “Sia fatta la sua volontà”, è il refrain di religiosa ispirazione con cui i sottoposti eseguono le indicazioni del presidente. A parlare in una conversazione captata dagli investigatori delle fiamme gialle è Maria Benedetto, direttore amministrativo della Azienda sanitaria di Matera, finita in carcere come il commissario dell’Asm, Pietro Quinto (ex dg Asm) considerato dagli inquirenti “il collettore delle raccomandazioni che promanano” dal presidente Pittella. La donna, parlando con la sua segretaria, si lamenta del destino della sua brillante figlia, studentessa a Bologna, rispetto a quello del figlio di Quinto, neo laureato in giurisprudenza a Bari e già tirocinante in uno studio legale nel capoluogo pugliese grazie al padre: “Mia figlia senza voler essere…mia figlia…è dieci volte più brava e poi dico io i nostri figli, tu immagina quando aggiusto le cose nei concorsi e se capita a mia figlia? Che pur essendo più brava di…non può andare avanti … e allora mi sento un verme ... dico mi sa che faccio parte anche io di questo sistema! però veramente, se il figlio veramente … ma io provo ammirazione per le persone brave. Siccome lo so i mezzucci, mi … cioè una cosa alluci… cioè il mio cruccio… ma così, ma questo come farà… andrà sempre avanti così”.

Voti gonfiati anche per gli omonimi dei raccomandanti. – Mezzucci, raccomandazioni, favori, logiche clientelari per cui i concorsi erano truccati, anche quelli per i disabili: i candidati a ricoprire anche posti da dirigenti – segnalati da Pittella – avevano in anticipo le tracce “con domande facili“, “generiche“, anzi a uno dei raccomandati sarebbe stato anche chiesto quale argomento avrebbe voluto affrontare nelle tracce. C’è stato anche il caso di un candidato, essendo omonimo dello sponsorizzato che si era ritirato, si è visto attribuire un voto altissimo. Chi partecipava ai concorsi poteva sapere anche già in anticipo le domande che sarebbero state fatte all’esame orale. Tra i capi di imputazione c’è anche la distruzione dei verbali di correzione con “le reali votazioni“. Sì perché i voti (che in alcuni casi erano espressi anche in giudizi e non in punteggi), stando alla procura di Matera, venivano anche gonfiati o attribuiti a “tavolino” dai commissari in favore dei candidati con uno sponsor. E che gli inquirenti hanno individuato nell’ex viceministro dell’Interno Filippo Bubbico (Leu), in don Angelo Gallitelli, segretario del vescovo di Matera Antonio Caiazzo, nel deputato nonché ex sottosegretario alla Salute Vito De Filippo (Pd), nell’ex parlamentare barese Gaetano Piepoli (Cd).

“La discepola della Campania” vicina a De Luca – Nelle carte si parla anche di Lucia Esposito, vincitrice di un concorso il 28 giugno del 2017, indicata nelle intercettazioni come “della Campania…la discepola“. Esposito infatti è vicina al governatore della Campania, Vincenzo De Luca. Esponente del Pd è stata pure eletta al Senato, subentrando nel settembre del 2017 a Vincenzo Cuomo, eletto sindaco di Portici, per alcuni mesi titolare di un doppio incarico. Il gip annota anche il nome del questore di Matera, Paolo Sirna. Che avrebbero sollecitato Quinto a intercedere su altre vicende, come l’assunzione del figlio di Piepoli alla Fondazione Matera 2019 (mai avvenuta perché secondo il gip gli indagati erano stati informati dell’esistenza dell’inchiesta). Nessuno di loro risulta indagato. Anche perché come ricorda il giudice esiste una sentenza della Cassazione (la n° 32035 del 2014) che stabilisce che la mera “raccomandazione” o “segnalazione” non costituisce una forma di concorso morale nel reato di abuso d’ufficio in assenza di ulteriori comportamenti.

Pittella deus ex machina: “Sia fatta la sua volontà” – “Uno squallido e disarmante spaccato i cui protagonisti con disinvolta facilità si muovono con un malinteso senso di impunità“, scrive il gip nell’ordinanza. Anche perché stando alle indagini delle Fiamme Gialle proprio Quinto avrebbe saputo di essere intercettato dal senatore Salvatore Margiotta, appena rieletto dal Pd. Ma non solo: “Alla luce di quanto su esposto può fondatamente formularsi a carico di tutti gli odierni indagati una prognosi di pericolosità in considerazione della straordinaria gravità dei fatti loro ascritti aventi a oggetto la mercificazione della funzione pubblica, la spartizione partitocratica degli incarichi dei posti messi a concorso nel settore attenzionato della sanità pubblica, che offre uno squallido e disarmante spaccato”. Questo perché i protagonisti di questa ennesima storia di malaffare “agiscono nella consapevolezza di uno scambio di reciproci favori dimenticando di essere investiti di una pubblica funzione, interessati unicamente alla realizzazione del proprio tornaconto ed ingerendo – prosegue il giudice – anche nei soggetti privati che a vario titolo vengono in rapporto con loro la convinzione che il potere pubblico implichi prevaricazione e abuso, privilegio guarentigie e sottrazione a ogni regola di correttezza”. E in questo quadro che il numero uno della Regione “detta le sue regole partitocratiche, trasmette i suoi elenchi, le sue liste verdi, le sue direttive”. Anche se “non si sente molto nelle intercettazioni perché è accorto, le sue direttive sono sempre mediate… Ma è il deus ex machina, nulla si muove senza il suo suggello”. Anche come lui stesso ammette lo scambio deve essere biunivoco: “Dobbiamo accontentare tutti“. Del resto parlando di “Marcello” o “lui”, “come si fa – sottolinea il gip – riferimento quando lo si chiama in causa in un accezione che lo vede sovraordinato e vigile determinatore delle sorti e delle carriere: accezioni che tutti comprendono e per le quali ossequiosamente tacciono in un ‘sia fatta la sua volontà‘: il Quinto ‘nulla fa’ se non con il ‘placet‘ del suo referente politico Pittella”.

Pittella voleva ricandidarsi, gip: “Continuerà a garantire favori” - E per farlo esiste, anzi esisteva un “collaudato sistema attraverso il quale vengono pilotati i concorsi pubblici per l’assunzione di personale, specie amministrativo, e ciò anche al fine di dare sfogo alle segnalazioni che promanano da esponenti politici e non solo. E – chiosa il gip – Quinto ne è il dominus”. Un sistema che andava infranto perché secondo il giudice “il pericolo di reiterazione è quantomai attuale e concreto, solo se si considera che Pittella negli ultimi giorni ha manifestato la volontà di ricandidarsi come governatore della Basilicata e ciò fa ritenere che continuerà a garantire i suoi favori e imporre i suoi placet ai suoi accoliti pur di consolidare il suo bacino clientelare, potendo contare su appoggi locali, in uno scambio di utilità vicendevoli”. Come quando Pinto otteneva dall’imprenditore Gaetano Appia, che aspirava a ottenere convenzioni, “lavori di imbiancatura e muratura di casa”. I domiciliari per il presidente sono stati decisi anche perché c’era ancora una “questione in sospeso” che Pitella avrebbe voluto portare a termine: “Che se non riuscirà a realizzare fino alla fine della presente consiliatura la nuova candidatura – ragiona il gip – gli consentirà di raccogliere consensi da parte di coloro che sono i collettori delle esigenze e delle aspirazioni” che provengono dalla futura unificazione dell’ospedale Madonna della Grazie di Matera e il quello di Policoro per creare l’ospedale regionale San Carlo “e creare un’azienda ospedaliera unica con sede nel capoluogo e Quinto aspirava al ruolo di dg della Ausl Basilicata“.

Documenti distrutti, il gip: “Mondo delinquenziale” - Pittella e tutti gli altri “hanno manifestato consapevolezza e adesione a tale metodo di accapparramento e violazione delle regole di legalità e trasparenza, ancorché emersi nel ruolo di concorrenti morali o istigatori o anche beneficiari. A leggere le risultanze investigative emerge uno sconfortante scenario la dove i meritevoli non protetti, considerati inutile zavorra, viene negata ogni speranza che le regole vengano rispettare”. Ma non solo. Tutto sarebbe potuto essere considerato regolare se gli investigatori non avessero colto gli illeciti nel momento stesso in cui avvenivano: “Le procedure di concorso sarebbero apparse connotate da legalità, come detto, se la falsificazione, l’occultamento, la distruzione dei documenti, non fosse stata dimostrata da immagini e discorsi, se l’illecito non fosse stato documentato in presa diretta dai sussurri, dai pizzini (quando ormai era noto che ci fosse un’inchiesta, ndr), da una gestualità che appartiene davvero a un mondo delinquenziale di elevata caratura”. Non ci sono solo i comportamenti di coloro hanno una funzione pubblica a essere stigmatizzati: “Anche i privati che si interfacciano con i principali protagonisti sanno di poter contare su questo uso distorto della funzione pubblica e con l’ausilio e la complicità degli stessi funzionari infedeli di realizzare i loro interessi (come gli imprenditori Gaetano Appio o i quattro Lascaro, ndr). Reiterata poi è l’attività duplice e a doppio binario condotta dal professore universitario Agostino Meale, documentata ed emersa dai molteplici elementi a suo carico”.

Il professore universitario “corrotto” con le consulenze – L’ordinario dell’Università di Bari è infatti tra coloro per cui il giudice ha disposto i domiciliari con l’accusa di corruzione con Quinto, per aver ottenuto incarichi di consulenza e assistenza legale in cambio della disponibilità ad agevolare la carriera universitaria e professionale del figlio di Quinto, studente a Bari. Quel figlio di cui parlava Maria Benedetto. Il docente, stando all’accusa, avrebbe accettato di fare da relatore della tesi di laurea e lo avrebbe inserito per la pratica forense nello studio di un avvocato amico e, infine, avrebbe dato la sua disponibilità ad aiutarlo nel dottorato di ricerca presso la propria cattedra. Da Quinto avrebbe in cambio ottenuto, fra giugno 2017 e gennaio 2018, incarichi per  57mila euro circa in qualità di legale di volta in volta della Asm, della Asp e della Asl di Bari, in sette diversi procedimenti dinanzi ai Tribunali amministrativi di Matera, Potenza e Bari. C’è poi il pericolo di inquinamento probatorio “in considerazione della rete di conoscenza e di espansione del potere, a vario, titolo, esercitato dai soggetti indagati nell’odierno procedimento”. Nell’ordinanza si legge un episodio in particolare e si cita una intercettazione di una indagata: “O mi devo fare pure scannerizzare le carte, mi devo fare le fotocopie perché questi siccome sono delinquenti ancora quando io me ne sono andata, le fanno sparire, mica è la prima volta che hanno fatto queste cose capito?”.

Assunzioni e favori per alimentare “il consenso elettorale” -  Questo perché “la politica” è “nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta, non più a servizio della realizzazione del bene collettivo ma a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di poteree condizionamento sociale”. Le assunzioni e i favori sarebbero servite ad alimentare “il consenso elettorale” e come merce di scambio per “politici di pari schieramento che governano regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania“. E proprio sul ruolo di Pitella il gip scrive anche che, relativamente a un concorso del 2015 “il cui esito ha vacillato fino alla fine“, tutto è stato poi “sopito con la mediazione del governatore Pittella, che avrebbe suggerito… di accontentare tutti”. Il paradosso è che l’inchiesta è iniziata un anno e mezzo fa dopo l’esposto di un ex dipendente della cooperativa “Croce verde Materana” che denunciava un tentativo di truffa proprio i danni della Asm, cuore di questo coacervo di illeciti, per le irregolarità contributive nell’ambito di un servizio di trasporto malati che sarebbe stato svolto da personale non assunto. Lì non c’era bisogno né di concorsi, né di sponsor, né di essere “nell’elenco del presidente”.

COME AL “PRONTO SOCCORSO”, UN CODICE PER OGNI RACCOMANDAZIONE: QUELLO DI PITTELLA ERA VERDE, scrive il 7 Luglio 2018  Cronache Lucane. Il governatore lucano, Marcello Pittella, è passato in pochi giorni dalla vacanza dorata all’Hilton di Matera, in occasione della festa della Bruna, agli arresti domiciliari a Lauria presso l’immobile di color amaranto, sito in via Rocco Scotellaro, dove c’è un cartello che riporta l’indicazione: “Villa Pittella”. Proprio Villa Pittella compare in più occasione nell’ordinanza del Gip Angela Rosa Nettis, e rappresenta, stando alle risultanze investigative, il fortino del “gladiatore” dentro il cui perimetro non arrivavano occhi e orecchie indiscrete, quali quelle degli investigatori. Un pò come Villa San Martino ad Arcore per Berlusconi. Un pò come se Villa Pittella fosse in acque internazionali o uno Stato nello Stato. Pittella durante l’attività investigativa attuava, come riportato nel faldone dell’inchiesta, strategie per fare in modo che le tracce si interrompessero pochi metri prima di condurre a lui. Gli inquirenti scrivono di lui: «Non si sente molto nelle intercettazioni perché è accorto, le sue direttive sono sempre mediate, da lui si reca la Benedetto per riceverle o le comunica attraverso altre persone, ad esempio la Berardi, direttore Amministrativo dell’Ospedale San Carlo di Potenza». Avvengono vari incontri a Villa Pittella di cui gli investigatori sanno per quale scopo vanno gli interlocutori del governatore e sanno poi, tramite intercettazioni, quali sono gli esiti, poi confermati dai risultati dei concorsi truccati. Nonostante le tattiche di difesa, comunque gli inquirenti ritengono di aver ricostruito fatti e ruoli tali da sostenere che: «Nella sanità lucana c’è un “sistema di corruzione e asservimento della funzione pubblica a interessi di parte di singoli malversatori”. Sistema al cui centro c’è «sempre la stessa ratio ispiratrice, la politica nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta».

IL RUOLO DI PITTELLA E LA “LISTA DEI VERDI”. I concorsi nella Sanità lucana veniva truccati con «l’attribuzione di punteggi artatamente “gonati”» nei confronti di quei candidati che risultavano «raccomandati dal Presidente Pittella», che segnava i nomi, suoi e di altri, «comprese autorità civili e religiose», nella sua personale «“Lista dei verdi”». Chi era in questa lista, «quelli verdi sono di Pittella», come emerge dalle indagini, passava qualsiasi concorso e in qualsiasi modo. Un insufficienza, come quella di Annuzo Eliana, per fare un esempio, ma i nomi sono molti, segnalata dal Presidente, valutata dalla commissione 18/30 diventava poi 25/30.  Pittella per gli inquirenti è il «Deus ex machina della distorsione istituzionale nella sanità lucana». Pittella «influenza anche le scelte gestionali delle Aziende sanitarie ed ospedaliere lucane interfacciandosi direttamente con i loro Direttori Generali i quali sono stati tutti da lui nominati prima nel 2015 e poi a gennaio scorso in qualità di Commissari straordinari.  Pittella faceva in modo di manipolare «le procedure selettive per assumere personale nella sanità e ciò al ne non solo di ampliare il consenso elettorale ma anche allo scopo di “scambiare” favori ai politici di pari schieramento che governano Regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania». Non è tutto. Pittella, insieme agli altri indagati, agisce « nella consapevolezza di uno scambio di reciproci favori dimenticando di essere investiti di una pubblica funzione, interessati unicamente alla realizzazione del proprio tornaconto ed ingenerando anche nei soggetti privati che a vario titolo vengono in rapporto con loro la convinzione che il potere pubblico implichi prevaricazione ed abuso, privilegio e guarentigie e sottrazione ad ogni regola di correttezza». E ancora: «Nel corso delle indagini è emersa la figura del Pittella Marcello, governatore che detta le sue regole partitocratiche, trasmette i suoi elenchi, le sue liste “verdi”, le sue direttive … nulla si muove senza i suoi dictat, senza il suo “’suggello”». Se non eri nella “Lista dei verdi” di Pittella ed eri comunque preparato al più venivi giudicato uno dei tanti «meritevoli non protetti», ma comunque considerati perentoriamente una «inutile zavorra» a cui «viene negata ogni speranza che le regole vengano rispettate».

PITTELLA E QUINTO. Quinto è tra coloro che «rientrano a pieno titolo tra i “fedelissimi” del governatore lucano» e la sua figura «assurge a quella di soggetto totalmente asservito al suo principale referente politico». Perchè Pittella puntava molto sull’Asm? Perchè il governatore lucano «ha ben individuato nell’Asm di Matera, per quel che qui interessa, una possibile proficua leva sociale di consenso elettorale in vista, altresì, di future e vicine elezioni nel prossimo autunno. E nulla è più efficace, allo scopo, della leva delle assunzioni nella pubblica amministrazione ed a tempo indeterminato, in una Regione, quale è la Basilicata, storicamente afflitta dalla piaga della disoccupazione». «La incondizionata vicinanza del Quinto al Presidente, «a Marcello» «a lui» come si fa solitamente riferimento quando lo si chiama in causa» fa si che  svolga quasi un ruolo da notaio rispetto ai dicktat del governatore, dinanzi ai quali «ossequiosamente» tace rimettendosi «in un “sia fatta la sua volontà”». In pratica «Quinto “nulla fa” se non con il “placet” di Pittella».

IL CONCORSO AL CROB. La cabina di regia svolta da Pittella nel pilotare i concorsi, così come contestato dai pm di Matera, emerge con evidenza nel selezione indetta, nel 2015, dal Crob di Rionero per la copertura a tempo indeterminato di un posto da dirigente amministrativo. «Anche in tal caso, così come è emerso per i concorsi oggetto di indagine, la procedura selettiva è stata condizionata dalla politica, ed ancora una volta con il “suggello” del Governatore Pittella, con la particolarità che il candidato vincitore è un soggetto di fuori regione, esponente attivo, peraltro di recente proclamato Senatore, del Partito Democratico nonchè persona molto vicina al Governatore campano De Luca». «Ma in realtà – proseguono gli inquirenti – anche in questo concorso è lecito ipotizzare che vi saranno più vincitori atteso che il primo in graduatoria, acquisita la posizione dirigenziale, beneficerà della mobilità verso qualche azienda sanitaria campana, e di conseguenza, come peraltro è emerso nel concorso per dirigente Asm, si procederà a far scorrere la graduatoria e ad assumere i candidati raccomandati che sono stati collocati nelle prime posizioni». Chiarelli vedendo le prove scritte «esprime disappunto su come è stata eseguita la traccia, a suo avviso prevedibile, tanto che i candidati meriterebbero di essere “uccisi e cacciati tutti quanti”» Il fatto però è che, come emerso dalle intercettazioni che «confermano la manipolazione di tale concorso, le direttive ricevute dal Governatore Pittella» sorge un dilemma «… il problema è questo, e che Marcello ha detto che c’è un’esigenza qua, perché questa andrebbe portata da …  lì purtroppo ci ha messo il suggello, il suggello». In sintesi, come ricostruito dagli inquirenti, doveva in primis doveva vincere «quella … della Campania … la discepola» di De Luca, poi bisognava piazzare  Maria Carmela Varasano (funzionario amministrativo in servizio a Roma presso il Ministero della Salute). Varasano ed Esposito sono quel «qualcuno di fuori che se ne deve andare» e che, scorrendo la graduatoria, avrebbero fatto conferire l’incarico dirigenziale sarà a Patrizia Aloè. La graduatoria finale è risultata essere; Esposito, Varasano e inne Aloè. Per questo Chiarelli, Benedetto e Amendola sono accusati di aver «assegnando il voto dopo aver individuato l’autore dell’elaborato (senza anonimato) ed attribuendo “a tavolino” (“..dottò ma Aloè … metti 24″) i relativi punteggi che venivano all’occorrenza “gonfiati” per consentire il superamento della prova pratica da parte dei candidati segnalati dal Presidente della Regione Basilicata Pittella, nella specie Esposito, Varasano e Aloè al ne di procurare agli stessi un indebito vantaggio patrimoniale relativo al superamento del concorso e quindi all’assunzione a tempo indeterminato presso quell’ente pubblico ovvero altre aziende sanitarie beneficiando dell’istituto del cosiddetto “scorrimento delle graduatorie”»

Basilicata al centrodestra: centrosinistra «sfrattato» dopo 24 anni, tonfo M5S. Bardi: «Abbiamo scritto la storia». Dopo 24 anni di governo il centrosinistra perde la regione.  Affluenza definitiva al 53,58, in crescita di 6 punti rispetto alle precedenti amministrative, scrive il 24 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. La Basilicata si lega a destra. Vito Bardi (Centrodestra) è il nuovo Presidente della Regione Basilicata: è stato eletto con 124.716 voti, pari al 42,2%. Lo scrutinio è terminato poco fa. Al secondo posto Carlo Trerotola (Centrosinistra; con 97.866 voti, pari al 33,11%), poi Antonio Mattia (M5S; con 60.070 voti pari al 20,32, mentre alle scorse regionali di 6 anni fa la lista prese il 9%, il candidato pentastellato meno del 14%) e Valerio Tramutoli (Basilicata possibile; con 12.912 pari al 4,37%). Primo partito il M5S con il 20,27%, seguito da Lega (19,15%) e Forza Italia (9,15%).

BARDI: «SARO' IL GOVERNATORE DI TUTTI» - «Quando sono stato contattato, ho risposto presente: lo dovevo alla mia terra, lo dovevo ai lucani. Siamo qui per costruire il presente: è un risultato straordinario che va al di là di ogni aspettativa e che premia il centrodestra unito, l’unico orizzonte possibile per il buon governo». Lo ha detto a Potenza, in una conferenza stampa, il neo presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi. «E' - ha sottolineato - una giornata storica e io sarò il governatore di tutti». Il neo presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, ha telefonato al presidente Berlusconi. Ha ringraziato per «il forte sostegno e la grande generosità nel momento della scelta del candidato e successivamente nel corso della campagna elettorale» ed ha ricevuto «molti sinceri complimenti per l’energia e lo stile con il quale ha condotto la competizione, che ha portato un risultato storico». Berlusconi ha messo a disposizione «le competenze delle donne e degli uomini di Forza Italia perché si possa dare avvio con rapidità ed efficacia al progetto di governo della Basilicata».

RISULTATO STORICO - Per la prima volta nella storia della Regione Basilicata ci sarà un presidente espressione del centrodestra. Il profumo di vittoria del centrodestra si era avvertito già in tarda serata quando, rompendo il silenzio elettorale e ad urne aperte, lo stesso vicepremier Matteo Salvini, avrebbe parlato di governo della Lega da stasera in Basilicata. Con la vittoria in Basilicata nello scacchiere nazionale, il risultato di pareggio 10-10 fra centrodestra e centrosinistra passerebbe così 11 a 9 a favore dei primi. La Lega "traina" il centrodestra: Nelle liste collegate al presidente favorito, Forza Italia si attesta all'11,5% confermando i dati delle scorse regionali, la Lega supera il 17% (doppia il dato delle Politiche), Fratelli d'Italia il 6%, Idea per un'altra Basilicata 3,4%, Basilicata positiva Badi presidente 3,5%.

COME ANDO' NEL 2013 E NEL 2010 - Alle scorse elezioni regionali del 17 e 18 novembre 2013 è andato a votare il 47,6 per cento degli aventi diritto. Marcello Pittella, risultato vincitore, ha riportato 148.696 voti, pari al 59,60%. Sei le liste collegate: Partito democratico (24,83%), Pittella presidente (16,1%), Partito socialista italiano, (7,47%) Realtà Italia (5,92%), Centro democratico (5,04%) e Italia dei valori (3,45%). Il candidato di centrodestra, Saltatore Tito Di Maggio ha ottenuto 48.370 voti, pari al 19.38%. Le liste collegate: Popolo della libertà (12,27%), Scelta civica, grande Sud e Fratelli d’Italia (5,08%), Unione di centro (3,80%), Moderati in rivoluzione (0,35%). Il candidato del Movimento 5 Stelle, Piernicola Pedicini 32.919 voti pari al 13,19%. La candidata di Sinistra Ecologia e Libertà (Sel), Maria Murante, 12.888 voti (5,16%), Florenzo Doino del Partito comunista dei lavoratori 2.178 voti (0,87%), Doriano Manuello di Matera si muove 1.917 (0,76%), Franco Grillo di Lavoro e Pensioni 1.300 (0,52%), Elisabetta Zamparutti di La Rosa nel pugno 1.215 preferenze (0,48%). Alle regionali del 2010, infine, Vito De Filippo, candidato del centrosinistra, al suo secondo mandato consecutivo, vinse totalizzando 202.980 voti pari al 60,81%. Il primo partito fu il Pd con il 27,13%. Il candidato del centrodestra, Nicola Pagliuca, ottenne 93.204 preferenze, pari al 27,92%. Al terzo posto Magdi Cristiano Allam sostenuto da Io amo la Lucania e Io Sud con 29.107 voti (8,72%).

I dati dell'affluenza alla Regionali 2019.

Ore 12. L'affluenza ai seggi (Alle 12) è del 13,31%. La provincia con l’affluenza più alta è quella di Potenza dove a mezzogiorno ha votato il 13,42% (il 21,13% a Potenza città). In provincia di Matera ha votato il 13,08% (il 15,36% a Matera città). I seggi per eleggere il presidente della Regione e i 20 componenti del consiglio regionale (13 in provincia di Potenza e sette in quella di Matera) hanno aperto alle ore 7 e rimarranno aperti fino alle ore 23, con lo scrutinio dei voti che inizierà subito dopo la chiusura dei seggi. Durante la notte inizieranno ad arrivare i primi risultati ufficiali, ma non dovrebbero mancare anche gli exit poll che proveranno ad anticipare l’esito di queste elezioni.

Ore 19. L'affluenza ai seggi registrata alle 19 è del 39,7%. Nella provincia di Potenza la quota di votanti alle 19 è stata del 39,23% (53,89 nel capoluogo). Leggermente più alta in quella di Matera (40,82%, nel capoluogo 44,39). L’affluenza finale alle precedenti regionali del 2013 era stata del 47,6%.

Ore 23. L'affluenza ai seggi registrata alle 23 è del 53,8%. Nella provincia di Potenza la quota di votanti alle 23 è stata del 52,40%: il capoluogo di provincia ha superato il 68& dei votanti. Nella provincia di Matera la percentuale dei votanti ha raggiunto il 56,22%, nel capoluogo di provincia ha votato poco meno del 60% degli aventi diritto.

Giuliano Foschini per ''la Repubblica'' il 25 marzo 2019. C' è un filo lungo dieci anni che unisce il generale della Guardia di Finanza in pensione, Vito Bardi, e l' ex premier, Silvio Berlusconi. Una storia che parte a giugno del 2009 da Bari e arriva oggi qui a Potenza, dove Bardi è in pole per diventare il nuovo governatore della Basilicata. Fortemente voluto proprio dal Cavaliere. Bardi è stato al cuore di uno dei passaggi più drammatici e delicati di quella fase che segnò l' inizio della fine dell' avventura politica di Silvio Berlusconi. Fu l' alto ufficiale che per primo conobbe, in un pomeriggio di giugno del 2009, quando poteva essere ancora depotenziato, l' affaire di Patrizia D' Addario, Gianpaolo Tarantini e della sua scuderia di ragazze per "l' utilizzatore finale". Silvio Berlusconi, appunto. Un segreto, quello, che Bardi ha custodito per anni anche davanti ai magistrati di Lecce che, quando gli chiesero come fossero andate le cose, si sentirono rispondere soltanto un elenco infinito di "non so" e "non ricordo". 26 Giugno 2009, quindi. L' Italia aveva appena scoperto Tarantini: dopo le interviste di Patrizia D' Addario prima e Barbara Montereale poi, si era aperto lo scrigno delle "cene eleganti" a Palazzo Grazioli. Dell' inchiesta nei palazzi romani nessuno sapeva nulla, e tutti avevano un disperato bisogno di sapere. Da Bari temevano fughe di notizie e per questo avevano tenuto il massimo riserbo fino alle uscite pubbliche delle due ragazze. Nella Legione allievi di Bari viene così convocata una riunione tra i magistrati e i finanzieri che stanno conducendo l' indagine, il procuratore appena nominato dal Csm, Antonio Laudati. E Bardi, appunto. Che arriva a riunione in corso. Perché c' è Bardi? «Per riprendere aspramente e con toni assai duri il colonnello del nucleo di Polizia tributaria che aveva omesso di tenerlo aggiornato sul contenuto e lo sviluppo delle indagini» scrivono i magistrati di Lecce. Ai quali il pm che conduceva l' inchiesta, Giuseppe Scelsi raccontò: «La durezza dell' intervento dell' ufficiale aveva poi determinato uno stato di intimidazione e di tensione del personale». Perché Bardi voleva sapere? E soprattutto perché lui, che all' epoca era comandante interregionale del Sud, e non il comandante regionale, Luciano Inguaggiato, che in linea gerarchica avrebbe dovuto gestire la cosa? I pm di Lecce hanno provato a fare questa domanda a Bardi ma «non soltanto - scrivono- si è trincerato dietro una serie di non ricordo ma, per giustificare la sua cattiva memoria, ha addirittura prospettato il dubbio di non essere stato presente a quella riunione». Come andarono effettivamente le cose quel giorno, e soprattutto perché, non si è quindi mai riuscito a ricostruire con certezza. Certo è che Bardi poco dopo diventò vice comandante generale della Finanza, esponente di quella corrente di generali dalle ottime relazioni (Niccolò Pollari, Michele Adinolfi, per non parlare di Emilio Spaziante, arrestato per tangenti nell' inchiesta del Mose) che ha scritto la pagina nera degli ultimi anni delle Fiamme gialle in Italia. E che anche tanti polveroni giudiziari ha sollevato, seppur come nel caso di Bardi poi finiti nel nulla: il generale è finito per due volte - nell' inchiesta sulla P4 e in quella sulle corruzioni di alcuni finanzieri - nel registro degli indagati del pm John Henry Woodcock. Ha subito perquisizioni violente e onte mediatiche. Ma è stato vittima di due errori giudiziari: per lui la procura ha dovuto poi sempre chiedere l' archiviazione. Quelle inchieste bloccarono però inevitabilmente la sua carriera nell' arma. Ora, dieci anni dopo, grazie al Cavaliere, è arrivato il tempo della politica.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Tangentopoli calabra.

Regioni e potere. In Calabria nessuno vuole davvero vincere le elezioni. A destra e a sinistra, tutti contro tutti. Non c’è bisogno di governare, anzi è persino controproducente: basta un consigliere di opposizione per avere influenza su affari e appalti. Gianfrancesco Turano il 17 dicembre 2019 su L'Espresso. Giochi diffusi in Calabria: il tressette a perdere. Per le regionali del 26 gennaio la battaglia a chi si assicura meno mani di carte sta raggiungendo livelli senza precedenti. D’altra parte, a chi conviene governare l’ingovernabile? Se la corsa a scansarsi vale per l’Italia, infuria a maggior ragione in una terra di disoccupazione, redditi di cittadinanza, commissariamenti a tappeto di Comuni e Aziende sanitarie, inquisizioni giudiziarie a volontà e contrazione demografica, come a Riace, il paesino salvato per opera leghista dal “modello Lucano” e riconsegnato a una lenta ma sicura estinzione. Quando mancano due settimane alla presentazione delle liste elettorali, a sinistra si è visto il licenziamento in tronco del governatore uscente, Gerardo Mario Oliverio, membro della direzione nazionale e soldatino del Pci-Pds-Ds-Pd dalla sua prima consiliatura (1980). Motivo del provvedimento: Oliverio, 67 anni il prossimo gennaio, rappresenta il vecchio. Al suo posto, il segretario nazionale Nicola Zingaretti e il commissario regionale Stefano Graziano - terra fertilissima di commissari, la Calabria - si sono proposti invano all’editore Florindo Rubbettino e a Maurizio Talarico produttore di cravatte con base a Roma e frequentazioni all’Antico circolo del tiro a volo del calabrese Antonio Catricalà. Respinti da entrambi, i democrat hanno candidato l’industriale del tonno Filippo Callipo detto Pippo, 73 anni, simpatizzante dipietrista quando si presentò alle regionali del 2010 (terzo classificato con il 10 per cento). In tempi più recenti Callipo si era avvicinato al M5S ma con alcuni capi locali c’è scarsa intesa. La sua candidatura è stata caldeggiata dal simpatizzante grillino Nino De Masi, imprenditore minacciato dalla ’ndrangheta come lo stesso Callipo. Poi la piattaforma Rousseau, versione moderna dell’oracolo di Delfi applicata in terra magnogreca, ha detto no, andiamo da soli e non con Callipo. Caso mai con Francesco Aiello, ordinario di politica economica a Cosenza dotato di elevatissima autostima (una sua ora di lavoro ne vale tre del votante normodotato, sostiene) ed erede di abuso edilizio per via di padre. La decisione finale di Rousseau ha confermato Aiello. Non è ancora stato deciso invece il candidato della destra, che dovrebbe essere il vincitore, se continuerà a valere la norma, finora senza eccezioni, per cui in Calabria una coalizione non vince mai per due volte di fila. Ma a destra non c’è Delfi, né Rousseau. A destra c’è Matteo Salvini, uomo solo al comando e vincitore di un seggio senatoriale a Rosarno il 4 marzo 2018 che è stato poi revocato per errori contabili e riassegnato alla forzista Michela Caligiuri. Salvini ha lasciato il governo della Calabria a disposizione di Forza Italia con una piccola clausola: è lui, non Forza Italia, a scegliere il candidato. Quindi stop a Mario Occhiuto, sindaco di Cosenza e fratello di Roberto, vicecapogruppo azzurro alla Camera. Motivo del no: carichi giudiziari in sospeso. Il segretario leghista ha interpellato il sindaco di Catanzaro Sergio Abramo, inviso agli Occhiuto. Poi ha chiesto a Caterina Chiaravalloti, figlia dell’ex governatore di centrodestra Giuseppe e presidente del tribunale di Latina in concorso per la stessa carica a Roma. Nel frattempo, si è mosso su Jole Santelli, avvocato-deputato-ex vicesindaco di Occhiuto a Cosenza, lanciata anni fa sulla scena politica da un notissimo legale calabrese, Cesare Previti. Ma gli Occhiuto l’hanno presa male e hanno lasciato trapelare la minaccia che il fratello maggiore si presenti per conto suo, come salvo ripensamenti intende fare Oliverio con sei liste civiche a sfidare Graziano, che ha commissariato il Pd dissidente di Cosenza e Crotone. Aiello invece potrebbe ripensare di non correre e di appoggiare una civica Callipo, non fosse che Nicola Morra, presidente grillino della commissione parlamentare antimafia (Santelli è vicepresidente), non vede Callipo di buon occhio e avrebbe voluto al suo posto la giovane deputata Dalila Nesci, contro il parere del sottosegretario ai Beni culturali Anna Laura Orrico, che nell’azienda Callipo ha lavorato, finché Luigi Di Maio ha avocato la scelta all’oracolo Rousseau.

I RESISTENTI, Il lettore non calabrofono può considerare il pre-elezioni piuttosto complicato. Eppure questa è una sintesi già molto semplificata. A guardarla con occhio spassionato la frammentazione ad angolo giro riproduce su scala legale certe strutture, locali ma meno legali, che applicano in modo rigoroso l’indipendentismo territoriale. La faida fra clan dei partiti si riflette nell’ambizione di molti a un seggio da consigliere, possibilmente di minoranza perché è più comodo e perché rappresenta il livello di galleggiamento ideale su un mare sempre più tempestoso e inquinato, non solo in senso lato. Al di là di questo cabotaggio, l’impressione dei cittadini riluttanti al voto del 26 gennaio è che della Calabria importi poco a tutti, alla politica di Roma come allo stesso crimine organizzato che segue rotte nazionali e internazionali molto più redditizie. Ma fra chi resta e chi torna non tutti hanno mollato. Ci sono persone che non si sono lasciate intaccare dalle piccole comodità e dalla tentazione della nullafacenza come accade in Gogol e Cechov visto che «lo sanno tutti che fra i russi e i calabresi non c’è tanta differenza» (Primo Levi, “La chiave a stella”). È il caso di Amalia Bruni, scienziata di punta a livello internazionale negli studi sulle demenze e l’Alzheimer, direttrice del centro regionale di neurogenetica a Lamezia Terme. Il suo laboratorio di biologia molecolare ha dovuto chiudere dopo l’estate per mancanza di fondi. «Genetisti che lavoravano con me da anni», dice Bruni, «sono andati a fare esami del sangue, con tutto il rispetto per i laboratori di analisi. Dopo lo scioglimento dell’Asp di Catanzaro per mafia un anno fa, non abbiamo mai incontrato i commissari. Il Besta di Milano ci voleva inglobare ma riconosceva solo la ricerca e noi facciamo anche assistenza. Come glielo spiego alle famiglie dei nostri malati in una regione dove i medici di base che vanno in pensione non vengono rimpiazzati? Adesso spero in un accordo con l’Irccs di Ancona che ha una base a Cosenza ma sarebbe meglio conquistare la qualifica di Irccs per il nostro centro che molti politici, a destra e a sinistra, hanno visto come il mio giocattolino personale per oltre vent’anni preferendo finanziare le sagre di paese. Potevo andarmene al nord o magari in Sicilia dove mi avrebbero steso i tappeti rossi ma ho preferito continuare la lotta qui. I miei tre figli, no. Sono partiti e questa è una sconfitta». La diaspora calabrese conosce anche la via del ritorno. È il caso di Patrizia Giancotti, antropologa con anni di studi sul campo in Brasile, nata a Torino da una famiglia calabrese e tornata a vivere a Palermiti, sulla cintura collinare che sovrasta lo Ionio. «L’aspetto positivo dell’offerta culturale in Calabria», dice, «è che si può partire da una sorta di Ground Zero evitando gli errori fatti in Puglia e in Basilicata dove, però, si sono mossi con decisione. La notte della taranta in Salento ha forse snaturato le sue premesse ma ci vanno migliaia di persone e a Matera non c’è posto per sedersi. Noi non dovremmo puntare solo sull’archeologia e sul turismo ma anche sui beni immateriali della Calabria, sulla relazione uomo-natura in area grecanica, sul rapporto familiare con la trascendenza fra vivi e morti, su quello che va di moda chiamare economia circolare e che qui ha radici antiche. Perfino l’orrore dell’incompiuto architettonico racconta di figli partiti e mai tornati, di uno sviluppo economico che non c’è stato. La carenza identitaria si vede dovunque, anche nei menu dei ristoranti che non puntano ancora abbastanza sulle eccellenze locali quando la Bettolab di Berlino, un locale aperto da Emanuele Femia, un ragazzo di qua, sta avendo grande successo». Il discorso identitario, in realtà, ha l’andamento del pendolo fra denigrazione e autoesaltazione neoborbonica. «I cosiddetti neomeridionalisti sono una reazione confusa e storicamente infondata all’insulto salvinista», dice Pino Ippolito Armino, tornato da Torino a Palmi dove dirige un circolo culturale e dove ha scritto il saggio “Quando il Sud divenne arretrato”. «Dicono che si stava meglio sotto Franceschiello e re Ferdinando e che bisognerebbe tornare a dividersi dall’Italia. Ma questa scissione, predicata in forma leghista o neoborbonica, è già nei fatti e basta fare duecento chilometri a nord per prenderne atto. Qui i giovani restano fino a 16-18 anni e poi se ne vanno fuori a studiare o a lavorare». Per trattenerli ci vorrebbe qualcosa di più concreto di uno slogan. Ma se la deindustrializzazione ha colpito duro in Lombardia e Veneto, figurarsi in Calabria. Vittorio De Paola, pensionato del Nuovo Pignone, ha un ristorante a Vibo. Se si guarda in basso, c’è la vista bellissima del porto, del Tirreno, di Stromboli. Se si guarda in alto, ci sono i piloni dell’autostrada più inaugurata del mondo, la Salerno-Reggio, che proprio nei viadotti di Vibo-Pizzo ha la prova della sua incompiutezza definitiva. «In questa zona esisteva un tessuto industriale di livello nazionale», ricorda De Paola. «Oltre allo stabilimento del Pignone, che ora è passato a General electric, c’erano altri insediamenti del gruppo Eni, c’era Snamprogetti, c’era Saipem. Per uno come me, che ho iniziato a lavorare da ragazzo al porto ripulendo le reti dei pescherecci dai pesciolini rimasti attaccati, e quella era la mia paga, la grande industria è stata un’opportunità straordinaria. Oggi il Pignone fa componentistica e il resto è scomparso».

I SUBAPPALTATORI. Il declino dei pochi distretti industriali ha accentuato la dipendenza dalle erogazioni Stato-Ue. Oliverio ha fatto il possibile per sfruttare meglio i fondi europei ma un certo modo di gestire il denaro pubblico è duro a morire. Prendiamo la Cittadella della giunta regionale a Germaneto (Catanzaro). Il palazzone in stile egizio-dorico è stato inaugurato il 29 gennaio 2016 alla presenza del presidente Sergio Mattarella. Da qualche mese i nuovi impianti elettrici, la climatizzazione, il ricircolo dell’aria funzionano a singhiozzo, le pulizie pure e d’estate astenersi cardiopatici. Il calore è micidiale. Eppure la Consip ha messo a disposizione 12 milioni di euro con la gara europea di facility management da 2,7 miliardi complessivi (Fm4), che si è poi scoperto essere ampiamente manipolata. È la stessa che ha provocato l’inchiesta in cui sono stati coinvolti, fra gli altri, l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, l’ex comandante dei carabinieri Tullio Del Sette, il verdiniano Ezio Bigotti e il braccio destro di Matteo Renzi, Luca Lotti. L’appalto di manutenzione e pulizie alla sede della giunta regionale era stato vinto dalla Manital di Ivrea, impresa che è uscita distrutta dallo scandalo Consip. Manital ha prima vinto la gara Consip con un ribasso enorme (30 per cento). Subito dopo ha subappaltato gli interventi alla Euroservices di Lamezia (pulizie) e a Max plus energy di Casoria (manutenzione) in cambio di una commissione del 20 per cento. Nell’azienda campana controllata dalla famiglia D’Addosio, nota per avere frequentato fin dalla Prima repubblica la zona grigia della politica, ha lavorato fino a un anno fa Valeria Fedele, attuale direttore generale della Provincia di Catanzaro per Forza Italia e molto vicina a Domenico Tallini. Oggi consigliere regionale, al tempo dell’aggiudicazione dell’appalto (2012-2013) Tallini era assessore al personale nella giunta di Giuseppe Scopelliti, l’ex governatore di centrodestra che vinse nel 2010 proprio contro Callipo e Agazio Loiero e che è da qualche settimana in semilibertà dopo una condanna definitiva per i bilanci falsi firmati da sindaco di Reggio. Anche da semplice consigliere regionale Tallini, molto legato ad Abramo che come stampatore ha un credito con la Regione da 1,5 milioni di euro, ha continuato a seguire di persona le vicende delle due società. I responsabili del settore economato hanno ricevuto forti pressioni personali da Tallini per non creare disturbi ai subappaltatori. Uno di loro, Ernesto Forte, è stato rimosso qualche mese fa dopo avere inserito nella manutenzione la Siram (gruppo Véolia). Due perizie giurate hanno dimostrato che gli impianti non funzionano perché la manutenzione è stata omessa in toto oppure fatta male contro le indicazioni di Max plus energy che attribuivano i problemi a difetti del costruttore. È lo schema in fotocopia di tante inchieste sugli appalti delle infrastrutture: gara vinta con ribassi insostenibili, subappalto a imprese locali con un santo patrono nella politica, richiesta di interventi extra canone, come quelli effettuati per i pozzetti delle prese elettriche o per il trasloco dei computer dalla vecchia sede della giunta. Lo scenario si è completato quando nel 2017 Manital, colpita dall’inizio della crisi giudiziario-imprenditoriale del caso Consip, inclusa una pesante multa dell’Antitrust, ha smesso di pagare dipendenti e subappaltatori. Il resto è un film già visto nelle piazze calde della disoccupazione al Sud: bandiere sindacali e sit-in davanti ai palazzi di un potere che può sempre meno.

CINICI ED EMOTIVI. Qualche parola in più su questi temi la sinistra nazionale avrebbe potuto dirla. Con gli slogan si fa prima. «Abbiamo candidato Callipo», ha dichiarato il commissario democrat Graziano, «per tre motivi. È un imprenditore onesto che ha denunciato la ’ndrangheta. Ha portato il nome della Regione in tutto il mondo. È l’Adriano Olivetti della Calabria». Il parallelo è ardito ma è certo che in ordine sparso la sinistra non ha chance. Forse non ne ha comunque di fronte a una destra che, come ricorda un democrat di lunga navigazione, «vincerebbe anche senza un candidato, anzi, vincerebbe molto più facilmente senza un candidato». Ma c’è modo e modo di perdere, anche per le ripercussioni sugli equilibri politici a Roma. Gli inizi, con tutta la stima che certamente meritano Callipo e il suo sponsor De Masi, non ispirano ottimismo. Venerdì 6 dicembre 2019 il candidato del Pd ha lanciato la sua campagna da un albergo di Lamezia Terme, a cinque minuti di macchina dalla palazzina gialla con vista sulla statale dei due mari dove Oliverio ha inaugurato il suo quartier generale due giorni prima, ornandolo con una sua fotografia formato lenzuolo. Da Callipo il 6 dicembre c’erano un migliaio di persone strette in una sala convegni contro i diecimila del giorno dopo in piazza Maggiore a Bologna per l’inizio di campagna di Stefano Bonaccini. Età media piuttosto alta, non contando le hostess in tailleur nero e cartellino “staff” come ai convegni di Confindustria, in giro fra la gente a mettere ordine e distribuire le spillette “io resto in Calabria” avanzate dalle elezioni del 2010. All’incontro Zingaretti ha ribadito che Callipo non l’ha candidato nessuno, che è stato lui a scendere in campo e che risponderà solo alla sua comunità. Dopo una battuta polemica contro i personalismi diretta a Oliverio, ha concluso con parole simili a quelle usate nel 2018 da Salvini: «Ci vedremo molto spesso da qui al 26 gennaio. Intanto non abbiate paura di usare la parola amore. Lo slogan è: con Callipo per amore della Calabria». Callipo a sua volta ha dichiarato di non avere un programma ma di volerlo mantenere, a differenza dei predecessori. La sua voce si è incrinata tre volte, l’ultima quando ha parlato dell’anniversario della strage del 1907 quando a Monongah negli Stati Uniti esplose una miniera uccidendo, fra gli altri, una quarantina di calabresi emigrati da San Giovanni in Fiore, incidentalmente il paese di Oliverio. Applausi scroscianti hanno accolto la mozione della memoria dedicata ai sacrifici dei lavoratori calabresi ma per il polso reale della situazione è più attendibile un passaggio dai bagni dell’hotel a fine incontro. Lì due uomini di esperienza inquadrano lo stato dell’arte. Uno elenca i vip democrat presenti in contrapposizione a Oliverio: «C’erano Falcomatà, Irto, Bova, Battaglia, Giudiceandrea, perfino Iacucci». L’altro: «Vedrai che fino al 26 gennaio arrivano tutti». E il primo: «Speriamo, perché c’è bisogno».

Nuova richiesta di rinvio a giudizio per il governatore della Calabria Oliverio. E' la terza in sei mesi. Adesso la palla passa al giudice per le indagini preliminari, che il 20 febbraio si dovrà esprimere sul caso. Probabile la rinuncia alla candidatura per le prossime elezioni. Alessia Candito il 23 dicembre 2019 su La Repubblica. Tre richieste di rinvio a giudizio in meno di sei mesi. A poco più di 30 giorni dalla conclusione del suo mandato da governatore della Calabria, la procura di Catanzaro torna a chiedere di spedire Mario Oliverio a processo. Dopo l’inchiesta per gli appalti “aggiustati” a Cosenza in cui risponde anche di associazione a delinquere ed un’altra per abuso d’ufficio e corruzione, adesso il governatore deve affrontare un’accusa di peculato per un maxi-finanziamento da 95mila in teoria destinato ad “attività di promozione turistica”, in realtà servito per una “personale promozione politica”. Sulla carta, quei soldi erano destinati ad un evento promozionale sulla Calabria nell’ambito del festival di Spoleto, o almeno in questi termini erano stati messi a bilancio. In realtà – sostengono il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri e il suo aggiunto Vincenzo Capomolla - sono serviti  per permettere a Mario Oliverio di essere il protagonista di uno dei “Dialoghi di Paolo Mieli”, talk show dal vivo organizzato dalla società Hdrà Spa a margine della manifestazione. Oltre che per Oliverio, la procura ha chiesto il processo anche per Mario Luchetti, rappresentante legale di Hdrà e l’ex deputato del Pd, Ferdinando Aiello, che avrebbe messo in contatto il governatore e la società, dunque per la procura è “l’istigatore e determinatore della condotta nonché in parte beneficiario dei fondi distratti”. E la trasferta di Oliverio a Spoleto nel 2018, è costata assai cara alla Regione Calabria. In cambio di un’intervista di circa 40 minuti al governatore e della proiezione di un brevissimo spot sulla Calabria, in conto all’Ente sono finiti non solo i 21 mila euro chiesti dalla società che ha organizzato l’evento, ma anche una cena di gala, l’acquisto di 500 copie del libro di Mieli “Caos italiano - Alle origini del nostro dissesto”, vitto e alloggio dei vip intervistati dall’ex direttore del Corriere della sera, nel cui salotto quell’anno si sono avvicendati Raffaella Carrà, Paola Cortellesi, Marco Travaglio e nomi noti dello spettacolo e persino 100 «coprisedie con stampa a più colori» per le poltrone del pubblico. Per altro, sottolinea l’accusa, l’evento non faceva neanche parte del programma ufficiale del Festival, che per di più ha fatto sparire la Regione Calabria da manifesti, brochure e programmi perché “la promozione di un soggetto istituzionale qual è un ente territoriale come la Regione Calabria per una manifestazione come il Festival poteva essere fonte di equivoci e ambiguità”. Adesso la palla passa al giudice per le indagini preliminari, che il 20 febbraio si dovrà esprimere sul caso. Sempre nello stesso periodo, dovrebbe arrivare il responso degli altri due magistrati incaricati di vagliare la sussistenza delle accuse nelle altre due inchieste che vedono l’ex governatore indagato. Grane giudiziare che hanno complicato non poco la vita di Oliverio. Scaricato dal suo partito, che gli ha negato la ricandidatura cui aspirava, il governatore uscente per mesi ha terremotato il Pd con proteste, dichiarazioni al vetriolo, raccolte firme e minacce di candidatura autonoma, ma arrivato quasi alla vigilia della presentazione delle liste sembra pronto ad una ritirata ordinata. Una decisione forse in parte obbligata. Negli ultimi mesi, anche molti dei suoi fedelissimi sono stati travolti dalle inchieste, da Reggio Calabria a Catanzaro. Ultimi in ordine di tempo, Nicola Adamo e Luigi Incarnato, coinvolti nel maxiblitz antimafia di giovedì scorso e rispettivamente destinatari di un divieto di dimora in Calabria e dell’arresto domiciliare. Altri si sono via via sfilati, per tornare a bussare alla porta del Pd, che con l’appoggio a Callipo ha scompaginato le carte di una tornata elettorale che sembrava già scritta. Oliverio si è trovato sempre più solo. E forse alla fine ne ha preso atto.

Calabria: il bilancio regionale è “taroccato”. Lo dice la Corte dei Conti, che mette a nudo l’infernale "loop" del sottosviluppo calabrese. Andrea Sparaciari su it.businessinsider.com l'1 novembre 2019. Taroccare i bilanci è usanza assai diffusa nel nostro Paese. Lo fanno le aziende, le grandi società, ma, sfortunatamente, lo fanno anche le regioni e i comuni. Un esempio tristemente lampante è la regione Calabria che, secondo la relazione di parificazione sul bilancio redatta dalla Corte dei conti, avrebbe fatto più di un maquillage per mascherare conti altrimenti terribili. Una pesantissima cosmesi che, per il presidente della Corte, Vincenzo Lo Presti, sarebbe passata per una lettura “creativa” di crediti e debiti iscritti nei libri contabili, dove i primi risultano sovrastimati (cioè compaiono soldi che non si potranno mai riscuotere per prescrizione, per morte o per sopravvenuta insolvenza del debitore), mentre i secondi sono sottostimati (essendo iscritti “in misura inferiore a quella effettiva o, in qualche caso, non riportandoli affatto”). Risultato: il bilancio della regione guidata dal Pd Gerardo Mario Oliverio, detto “Palla-Palla”, risulta “alterato” e “in frontale contrasto con gli obblighi di veridicità e trasparenza delle scritture contabili sanciti espressamente dalla nostra Costituzione”. Per i giudici, scoprire il “giochino” non è stato difficilissimo: è bastato confrontare i debiti/crediti iscritti dalla Regione con i debiti/crediti iscritti dai singoli comuni calabresi. In teoria, la somma dovrebbe fare zero. In realtà fa numeri di fantasia. Un esempio per tutti è il credito che Regione Calabria vanta nei confronti dei Comuni per la fornitura del servizio idrico: secondo il bilancio regionale, nelle casse dovrebbero arrivare la bellezza di 266.620.466,45 euro; tuttavia, nelle proprie scritture contabili dei capoluoghi di provincia debitori di quei soldi non v’è traccia.  Un’asimmetria che fa comodo a tutti, perché “da un lato, i Comuni debitori espongono una situazione patrimoniale migliorata ma non corrispondente a quella reale”; “dall’altro, la Regione riporta, nel rendiconto, come residuo attivo, il predetto credito, il cui adempimento, però, non è stato mai richiesto in via giudiziale (ciò con evidente rischio di prescrizione del credito medesimo)”. In ogni caso, sono tutti soldi che la Regione non vedrà mai, visto che per legge i crediti vantati nei confronti di comuni “in dissesto o pre-dissesto finanziario” possano essere pagati “abbattendo in parte l’importo originario del debito”. E i comuni in pre-dissesto o in dissesto in Calabria oggi sono 69 su 405! E, siccome i giudici contabili sono pignoli, hanno estratto a caso tra la gigantesca massa di debiti iscritti a bilancio e hanno analizzato ciò che ne veniva fuori a campione. Il risultato è stato che, per esempio, “la Regione vanta crediti per il servizio di conferimento rifiuti (RR.SS.UU.) per circa 47 milioni di euro di euro verso i Comuni in dissesto; parimenti, i crediti per fornitura idropotabile, sempre verso Comuni in dissesto, sono pari a circa 64 milioni”. Tutti soldi che non vedrà mai. In generale, se si considera solo quanto riscosso nel 2018 tra tasse e tributi, il saldo di cassa (cioè il rapporto tra entrate e uscite) è negativo per circa 37,5 milioni, mentre a fine 2017 era positivo per 47,5. Ma, e qui siamo nell’incredibile, quel fondo cassa già negativo è ulteriormente “gravato da consistenti pignoramenti che ammontano a circa 111 milioni di euro”. Ovvero “un quarto delle risorse liquide non sono disponibili perché pignorate” a causa “di oltre 6.700 atti di esecuzione nei confronti della Regione, alcuni risalenti anche al 1999”. “Una simile quota di pignoramenti rappresenta un’anomalia nel panorama nazionale: infatti, oltre alla Calabria, solo la Campania e il Lazio (anche se per quest’ultimo i “vincoli” di cassa sono in diminuzione su base annua) evidenziano quote talmente alte di pignoramenti da rasentare un fenomeno di grave patologia”, scrivono i giudici. E quando i giudici hanno chiesto quale fosse il motivo di una tale gestione palesemente inefficiente, le risposte della giunta Oliverio hanno ricordato molto la celebre invocazione di John Belushi nel film Blues Brothers quando chiama in causa perfino le cavallette: “la non disponibilità di molti fascicoli del contenzioso più datato, la scarsità di risorse, la poca disponibilità delle Cancellerie e la eccessiva “rigidità” del Tesoriere…”. Al di là dell’ironia, i pignoramenti dipendono soprattutto dai ritardi nei pagamenti dell’Ente, i quali generano ingenti costi per interessi e spese legali, sottraendo alle già asfittiche casse erariali risorse che potrebbero essere più utilmente destinate per offrire servizi ai cittadini. Qui l’esempio plastico è la gestione sanitaria in cui, solo nell’esercizio 2018 “le Aziende Sanitarie Provinciali e le Aziende Ospedaliere hanno pagato, per interessi e spese legali, la considerevole somma di 23.265.175 euro, un chiaro indice delle inefficienze dell’Amministrazione”.  Pleonastico dire che se i pagamenti fossero stati tempestivi, quei 23.265.175 avrebbero potuto essere destinati a incrementare le prestazioni sanitarie, piuttosto che a compensare i creditori per il ritardo nel pagamento. E per il futuro il trend non cambierà: nonostante le informazioni richieste dalla Corte siano state fornite da Regione Calabria in modo incompleto, i giudici hanno ricostruito che i debiti verso i fornitori degli enti del Sistema Sanitario Regionale attualmente superano 1,1 miliardi di euro. Naturalmente, sono debiti che a loro volta, causano cospicui interessi di mora, anche perché i tempi di pagamento medi delle Aziende nel 2018 sono stati di 212 giorni, mentre gli interessi di mora “scattano” dopo 60 giorni. Così, solo di interessi e oneri accessori si è creato un ulteriore debito di 38.358.052,11 per il 2016 e di 51.165.848,73 euro per il 2017. Per il 2018 siamo già a 23 milioni, ma ogni giorno che passa, la cifra aumenta. A questi oneri “straordinari” si aggiungono poi le spese correnti: nonostante gli enti del SSR siano soggetti a politiche di contenimento dei costi per il personale e per l’acquisito dei beni e servizi, queste policy vengono ampiamente disattese. In particolare, “i costi per acquisito beni e servizi non solo non sono in calo (come prescriverebbe la normativa regionale, che fissa specifici “tetti di spesa”), ma continuano a crescere e, a fine 2018, sono pari a complessivi 2,9 miliardi, in aumento di 41,3 milioni rispetto al 2017”. Il tutto a fronte di un’offerta di servizi sanitari che “continuano a restare su livelli inadeguati (nella griglia dei Livelli essenziali di assistenza (LEA) , la Calabria è al penultimo posto in Italia)”. Con una situazione tanto tragica, la giunta guidata dal Gerardo Mario Oliverio, sarà corsa ai ripari, si potrebbe pensare… Infatti lo ha fatto, varando leggi per il contenimento della spesa pubblica tanto efficaci… da far lievitare gli esborsi della Regione! È il caso paradossale della Legge regionale n. 3 del 13 gennaio 2015, “Misure per il contenimento della spesa regionale”. Tale norma prevedeva che “Ai fini del contenimento della spesa, nelle more della riorganizzazione di Aziende, Agenzie, Enti collegati a qualsiasi titolo alla Regione, Commissioni e Comitati nominati dalla Regione, gli emolumenti e/o gettoni di presenza spettanti ai componenti, anche di vertice, sono ridotti della metà rispetto a quelli attualmente in essere, con decorrenza 1° gennaio 2015”. Cioè dimezzava stipendi e gettoni presenza. Il 25 giugno 2019, però, il Consiglio regionale decide di apportare alcune piccole modifiche lessicali, poche parole, “cosa minima” avrebbe detto Janancci, queste:

la parola “Commissioni” è stata sostituita da un “per”;

le parole “gli emolumenti e/o” sostituite da una “i”;

le parole “anche di vertice” soppresse.

Tanto è bastato per escludere dai tagli tutte le “aziende, agenzie ed enti collegati a qualsiasi titolo alla regione”, nonché le “commissioni e comitati nominati dalla regione”. Non solo, eliminando il riferimento agli “emolumenti” ai componenti “anche di vertice”, ha limitato i tagli ai soli gettoni di presenza, e ha contemporaneamente consentito di ripristinare gli emolumenti in misura piena, “con l’effetto di comportare un aumento della spesa riferita alla finanza regionale allargata”.

La foresta dei 4.476  forestali. Ma non si può parlare di bilancio regionale calabrese senza un accenno all’esercito dei forestali. Qui i giudici sono stati impietosi, affermando che la piaga non è tanto nel numero di lavori in carico alla Regione – che comunque sonio 3.214 per una spesa complessiva di 117.391.830 milioni di euro -,  quanto nella selva di  dipendenti sub-regionali. “I costi del personale (compreso quello interinale) della galassia degli enti partecipati e strumentali, nel medesimo anno, è stato di 287.136.811,42. È da evidenziare l’enorme peso, su tale voce di costo, che ha il c.d. bacino del personale forestale: in base alle risultanze dell’istruttoria specificamente condotta dalla Sezione, è emerso che l’ente strumentale “Calabria Verde” nell’anno 2018 ha nel complesso n. 4.476 dipendenti, quasi tutti a tempo indeterminato, per una spesa totale di 138.265.930,48 euro. Il “Parco Regionale Naturale delle Serre” impiega invece n. 39 operai forestali a tempo indeterminato, per una spesa annua pari a € 1.067.975,22. Ci sono, inoltre, n. 11 Consorzi di bonifica che, nell’anno 2018, assorbono nelle dotazioni organiche complessivamente 2.261 unità per un costo totale, tra impiegati ed operai forestali, pari a € 73.516.636,49”. Nella relazione la Corte dei Conti annota, in maniera insolitamente chiara e palese, molti dei motivi del sottosviluppo calabrese, una concatenazione di cause/effetti che descrivono un circolo vizioso infernale. Più o meno questo: la regione Calabria ha un’evidente difficoltà nella riscossione delle entrate sia tributarie che extratributarie. Ciò ha causato nel tempo la formazione di una massa gigantesca di crediti non riscossi (e che non riscuoterà mai). Tale difficoltà ha come prima conseguenza la riduzione della liquidità di cassa e quindi, l’impossibilità di far fronte ai pagamenti nei tempi previsti. Il ritardo nei pagamenti, a sua volta, genera mostruosi costi per interessi e spese legali, sottraendo alle casse erariali risorse che potrebbero/dovrebbero essere invece destinate ai servizi per i cittadini. Non solo: dall’intempestività nei pagamenti derivano anche ulteriori costi per la collettività:

gli imprenditori che vendono prestazioni all’Ente mettono in conto, nella loro programmazione finanziaria, il ritardo del pagamento e lo fronteggiano spesso aumentando il costo del servizio reso;

gli imprenditori che, invece, hanno già venduto prestazioni all’Ente, soffrono di costanti crisi di liquidità in quanto, da un lato, non riescono a riscuotere il loro credito, causa il ritardo nei pagamenti, dall’altro viene loro intimato di versare tempestivamente contributi e imposte;

gli imprenditori, a volte, per ottenere comunque un pagamento ed evitare il fallimento (non licenziando, così, il personale), rinunciano, in sede transattiva, a parte del credito ricevendo, in tal modo, una perdita secca ed irrecuperabile che altera il regime di concorrenza e l’efficientamento del mercato.

“I debiti non vanno nascosti tra le pieghe delle scritture contabili, come la polvere sotto il tappeto”, conclude il presidente Lo Presti, “ma vanno fatti emergere e saldati anche a costo di ridurre quella parte della spesa corrente che non sia espressamente destinata al pagamento di spese obbligatorie dell’Ente. Bisogna evitare, a tutti i costi, di far gravare, sulle generazioni future, i debiti contratti dalle generazioni precedenti, diversamente i nostri figli non potranno avere le nostre stesse opportunità”. Parole che è difficile non fare proprie.

Oliverio: «Sarebbe grave se il Pd prendesse  ordini dai pm». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 da Corriere.it. Centrosinistra, premesse di un altro pasticcio. Per capirci: a metà pomeriggio, telefonano due dal Nazareno (non due qualsiasi, ma due pezzi piuttosto importanti).

Vanno giù espliciti. «Ha parlato con Oliverio? In via informale, possiamo sapere cosa le ha detto?».

Ansia. Sensazione di pericolo imminente. Nervosismo (i due non hanno provato nemmeno a dissimulare). Comunque: Mario Oliverio, il governatore della Regione Calabria che il Pd non vuole ricandidare alle prossime elezioni regionali, sta come un Rottweiler preso a schiaffi sul muso. Sentiremo cosa dice. Intanto, per dare al lettore un po’ di scena, ecco una sintesi della durissima nota ufficiale di sabato pomeriggio, firmata da Nicola Oddati, della segreteria nazionale. «Oliverio non unisce il partito, non garantisce la possibilità di formare una coalizione competitiva, non garantisce rinnovamento» (hanno avuto il tatto di non ricordargli le due inchieste giudiziarie in cui è coinvolto e l’arresto, ad agosto, di Sebi Romeo, l’ex capogruppo piddino in regione a lui molto vicino: che costrinsero il partito a spedire in Calabria, come commissario, Stefano Graziano). Oliverio, nel suo ufficio, s’è fatto leggere la nota due volte. Poi l’ha letta lui. Lentamente. Un testimone racconta: aveva il viso tutto rosso. È rimasto in silenzio qualche secondo. Ad un certo punto, l’hanno sentito che diceva più a se stesso, che ai presenti: «Questi, a Roma, non hanno capito con chi hanno a che fare». In effetti. Quest’uomo di 66 anni soprannominato «Palla Palla» — che poi è il nome di una contrada di San Giovanni in Fiore, il paese dei nonni — è un personaggione. Che cresce nel vecchio Pci. Quel partito che, negli anni Settanta, guidando il superamento delle lotte contadine calabresi, scende dalla Sila e, arrivato a Cosenza, crocevia di commerci e terziario, sogno di una concreta urbanizzazione, si accorge di un giovane dirigente: appunto, Palla Palla. Il ragazzo — determinato, empatico, appassionato — va portato a Roma, nella scuola politica delle Frattocchie. E’ l’inizio di una carriera importante: nel 1980, appena ventisettenne, è eletto consigliere regionale. Sei anni dopo, diventa assessore all’Agricoltura della prima giunta di sinistra presieduta da Francesco Principe. Nel 1990 viene eletto sindaco del suo paese di origine, San Giovanni in Fiore. Poi: deputato per quattro legislature consecutive (dal 1992 al 2006) e, per dieci anni filati, presidente della Provincia di Cosenza.Al Nazareno ora dicono: grazie, può bastare. Un po’ perché, secondo alcuni sondaggi arrivati sulla scrivania di Nicola Zingaretti, il centrosinistra con Oliverio candidato governatore viene dato intorno al 10% (il Pd, alle ultime Europee, era al 18%). Un po’ perché il progetto, per adesso sullo sfondo, complicato ma non impossibile, sarebbe questo: lasciare urlare ancora per qualche settimana Luigi Di Maio — «Mai più accordi locali con il Pd!», frase cult del post voto in Umbria — e poi portarlo, dolcemente, su un nome condiviso della società civile: tipo Filippo Callipo, imprenditore specializzato nel commercio del tonno (vedremo come reagirà a questo piano Di Maio: intanto, ha già stoppato la candidatura della deputata grillina Dalila Nesci).

In Calabria, ha scritto Carlo Macrì sul Corriere, si respira però un’aria un po’ diversa. Pezzi importanti del Pd sarebbero infatti ancora fedeli ad Oliverio. Che, ovviamente, non molla.

«Vuol sapere se sono pronto a candidarmi da solo? Guardi: io mi affido alla ragione. Spero lo facciano anche a Roma. Perché senza la ragione, si determinano sfaceli. Vogliono farmi fuori? Io dico: facciamo le primarie, e poi vediamo».

Non vogliono farla fuori: l’hanno già fatta fuori.

«Ripeto: con un percorso condiviso, si eviterebbero disastri. E poi no, non ho capito: in base a cosa mi avrebbero fatto fuori?».

Dicono che la sua popolarità ormai è consumata.

«Chi lo stabilisce se sono popolare? Zingaretti?».

Hanno dei sondaggi.

«A me, non risultano sondaggi».

Dicono pure: è un volto della vecchia politica.

«Bene. Allora propongano un volto nuovo, primarie, e vediamo se sono così vecchio».

Senta, stiamo girando intorno al vero problema.

«E quale sarebbe?».

Quello giudiziario.

«Non la seguo».

La deputata del Pd, Enza Bruno Bossio, a lei vicina, e a sua volta indagata, ha detto: «Gratteri ha ordinato a Zingaretti di non ricandidare Oliverio».

«Beh, in effetti c’è questa voce... che qui circola da un po’... del resto, sarebbe gravissimo se Zingaretti prendesse ordini da una procura, non trova?».

Poi ci salutiamo: lei è pronto a candidarsi da solo, sì o no?

«Io, tra qualche ora, a Lamezia Terme, riunisco i miei. Una specie di Leopolda calabrese, diciamo così».

Ecco, a proposito: qualcuno giura che Oliverio starebbe pensando di unirsi a Italia viva di Matteo Renzi. I due del Nazareno, che hanno chiamato poco fa (sprezzanti): «Ah, beh... Matteuccio tanto è capace di imbarcare chiunque».

Nuova indagine per il governatore Oliverio. Lui: «Contro di me gogna feroce». Indagati anche il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, e l’ex deputato dem Nicola Adamo. Il presidente calabrese è certo: «mi contestano condotte di natura politica, nel senso aristotelico del termine». Il Dubbio 8 Maggio 2019. «La magistratura mi contesta scelte politiche e/ o tecniche, cui si “abbinano” ipotesi di reato, alcune operate nel 2014, cioè precedentemente al mio insediamento alla guida della Regione». E’ la reazione decisa del governatore della Calabria Oliverio che ieri è stato raggiunto da un avviso di garanzia. Secondo gli inquirenti il presidente della Regione Calabria del Pd e il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, di Fi, aspirante candidato governatore, avrebbero promosso un’associazione per delinquere finalizzata a «commettere una serie di delitti contro la Pa». Oliverio è ritenuto «il referente politico istituzionale degli associati, nonché degli amministratori pubblici e degli imprenditori in ordine agli sviluppi delle procedure di gara pubbliche bandite dalla Regione e di interesse dell’associazione, nonché alle vicende politiche ed istituzionali correlate alle stesse». «Sono quanto mai certo che, anche in questa occasione, nessun Giudice condividerà una simile impostazione accusatoria, che intravede sospetti di reato in normali condotte di natura politica, nel senso aristotelico del termine», ha ribadito il governatore. Un dato sintomatico, che andrà pure approfondito, è quello che attiene ad una indagine che è iniziata a fine 2014, ovvero il giorno stesso del mio insediamento alla guida della Regione e che si è, guarda caso, conclusa verso la fine dello stesso, nel 2019. Questo ennesimo avviso di garanzia mi porta ad esprimere profonda amarezza per quanto mi sta accadendo. Non posso in alcun modo accettare di essere additato come il promotore di “una associazione per delinquere con lo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti contro la Pubblica Amministrazione” Ebbene, ribadisco, come già fatto in altre occasioni, che combatterò con tutte le mie energie per dimostrare la mia assoluta estraneità ai fatti contestati. La mia non vuole essere una sfida rivolta agli apparati giudiziari ed investigativi. E’ solo l’unico modo che, come politico, cittadino e uomo, mi resta per contrastare questa feroce gogna cui sono sottoposto, posso ora dirlo, dal primo giorno del mio insediamento».

Appalti, indagati in Calabria il presidente Oliverio e il sindaco di Cosenza. Venti persone sotto indagine. Nel mirino le gare per la costruzione del nuovo ospedale, della metropolitana e del museo di Alarico. Il governatore: "Profonda amarezza, sono assolutamente estraneo e combatterò contro questa feroce gogna. Mi vengono contestati atti di normale vita amministrativa, vedono sospetti di reato in condotte normali di natura politica". Alessia Candito il 7 maggio 2019 su La Repubblica. In Calabria c’è una cupola di politici, imprenditori e tecnici che amministra gli appalti e decide a chi debbano andare e come debbano essere gestiti. È questa l’ipotesi alla base della nuova inchiesta della procura di Catanzaro che travolge la politica calabrese e il governatore Mario Oliverio (Pd), accusato di associazione a delinquere. Per questo ed altri reati, dalla turbativa d’asta alla corruzione, altri 19 avvisi di conclusione indagini sono stati recapitati nelle ultime ore a tecnici e politici, fra cui Nicola Adamo, ex consigliere regionale e vice presidente della Giunta e il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, forzista candidato alla presidenza della Regione. Per gli inquirenti – il procuratore capo Nicola Gratteri, l’aggiunto Vincenzo Capomolla e il pm Vito Valerio – è Adamo il “capo” della cricca, “punto di riferimento costante” ed “elemento di raccordo tra esponenti politici, amministratori pubblici e imprenditori privati”. Vicino ad Oliverio, sarebbe lui il “suggeritore delle principali strategie” del governatore – emerge dalle indagini sviluppate dal Nucleo Tutela Ambientale dei Carabinieri di Roma – ma soprattutto il vero deus ex machina delle gare grazie agli uomini di fiducia che nel tempo è riuscito a piazzare “in posti strategici delle amministrazioni pubbliche regionali e locali”. Uomini come Luigi Zinno, dg del dipartimento regionale Lavori pubblici, che - a detta degli investigatori - si occupava di sviluppare e finalizzare sul piano amministrativo le procedure di gara pubbliche “nei tempi e nei modi dettati dagli interessi individuali, economici e politici degli associati”. O Giuseppe Lo Feudo, dg di Ferrovie della Calabria srl, considerato dagli inquirenti il terminale di collegamento fra la parte istituzionale e imprenditori come Pietro Ventura, Giuseppe Trifirò e Rocco Borgia, intermediario della Cmc-Cooperativa muratori e cementisti di Giuseppe Trifirò. Al centro delle indagini, tre maxi-progetti del cosentino: la metro-leggera di Cosenza-Rende, il nuovo ospedale della città e il Museo di Alarico. Secondo le accuse, i primi due appalti sarebbero stati viziati da una serie di turbative d’asta, frodi nelle pubbliche forniture ed episodi di corruzione, anche grazie a “uomini di fiducia” che l’ex consigliere Adamo sarebbe riuscito a piazzare all’interno dell’amministrazione. Il terzo appalto, il Museo di Alarico, sarebbe stato invece il “prezzo” pagato ad Occhiuto in cambio del proprio assenso al progetto per la metro-leggera, al quale da sindaco si era mostrato strenuamente contrario. Un lavoro – filtra dagli ambienti di procura – che sarebbe stato definito all’esito di una “gara d’appalto illegittima”. Ma uno dei capitoli dell’inchiesta riguarda anche le presunte manovre che avrebbero condizionato il primo mandato da sindaco di Occhiuto, naufragato in seguito alle dimissioni anticipate di numerosi consiglieri comunali. Secondo l’accusa, il burattinaio di quella crisi sarebbe stato il consigliere regionale Luigi Incarnato, che avrebbe “convinto” diversi esponenti del consiglio comunale alle dimissioni. Per il “servizio”, sarebbe stato “remunerato indebitamente” con la nomina a commissario liquidatore della Sorical, la partecipata regionale che gestisce l’acqua in Calabria. Nel medesimo contesto, un “premio” sarebbe stato promesso anche a Luca Morrone, consigliere comunale e figlio del consigliere regionale Ennio, arruolato fra i “congiurati” con la promessa di diventare il futuro vicesindaco o un ingegnere della Regione Calabria. “Mi si contestano scelte politiche e/o tecniche, cui si “abbinano” ipotesi di reato, alcune operate nel 2014, cioè precedentemente al mio insediamento alla guida della Regione” protesta Oliverio, “sono quanto mai certo che, anche in questa occasione, nessun giudice condividerà una simile impostazione accusatoria, che intravede sospetti di reato in normali condotte di natura politica, nel senso aristotelico del termine”. Ma per il governatore è “un dato sintomatico” che l’inchiesta sia “iniziata a fine 2014, ovvero il giorno stesso del mio insediamento alla guida della Regione e si sia, guarda caso, conclusa verso la fine dello stesso, nel 2019! Questo ennesimo avviso di garanzia mi porta ad esprimere profonda amarezza per quanto mi sta accadendo”. Non è la prima volta che i nomi di Oliverio, Bruno e Adamo finiscono nelle carte di indagine relative ad appalti “addomesticati”.  Qualche mese fa, la procura di Catanzaro ha notificato a tutti l’avviso di conclusione indagini per l’inchiesta “Lande desolate”, che ha svelato come un imprenditore dei clan sia riuscito a mettere le mani su una serie di appalti del cosentino. Per quell’inchiesta, il governatore Oliverio è stato obbligato a non lasciare per mesi San Giovanni in Fiore,  il proprio paese di residenza, perché colpito da obbligo di dimora. Il provvedimento è stato poi annullato senza rinvio dalla Cassazione, che ha ritenuto insussistenti le esigenze cautelari. Nell'inchiesta Lande desolate, Oliverio e Adamo sono indagati per corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio, aggravata dalla finalità di stipula di contratti e corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio. L'indagine riguarda presunti illeciti in a tre appalti: l'impianto di risalita di Lorica, nella Sila cosentina, l'aviosuperficie di Scalea (Cosenza), e la realizzazione di piazza Bilotti a Cosenza.

·         Maria Concetta Cacciola morta di 'Ndrangheta.

Maria Concetta morta di 'Ndrangheta. Ludovica Mazza il 5 maggio 2019 su La Repubblica. È il 20 agosto 2011 quando Maria Concetta Cacciola muore durante la corsa verso l’ospedale, dopo aver bevuto una bottiglia di acido muriatico. Come se fosse un normale caso di suicidio. Ma quando hai il nome Mafia inciso sulla pelle, niente di ciò che appare è limpido e trasparente. Piana di Gioia Tauro, Rosarno, Calabria. Cosche dei Bellocco e dei Cacciola. Lei, 31 anni, figlia moglie e madre. E tutto intorno, ‘ndrangheta. Un’esistenza intrappolata nell’esecrabile moralità delle famiglie mafiose, il codice d’onore come mantra e la rispettabilità come veste quotidiana. Un’esistenza intrappolata nel regime delle apparenze, aggrappata al sangue come vincolo di salvezza e di condanna, come utero e carnefice. Maria Concetta Cacciola è donna “di mafia”? Costretta a vivere sotto controllo, osservata, definita in ogni azione, incastrata nei dettami che la ‘ndrangheta stabilisce: chinare la testa, accettare i soprusi, assecondare la violenza, dimenticare la libertà. La donna di mafia non appartiene a sé stessa, appartiene alla famiglia e al clan, così come a loro appartiene la sua vita. Maria Concetta Cacciola è moglie “di mafia”? Sposata con l’illusione dell’amore con Salvatore Figliuzzi, per finire con una pistola puntata alla testa durante un litigio. Sognare la libertà di una vita condivisa, ritrovarsi ancora più sola, ancora più in gabbia, tra minacce e violenze. La voglia di scappare, per poter salvare i 3 figli dal destino che troppo pesante pendeva sulle loro vite, già stabilito. Ma “questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita”, così le disse il padre, il boss Michele, rispondendo alla sua richiesta d’aiuto. Perché la moglie deve piegarsi alla volontà del suo uomo, perché solo così si rende rispettabile agli occhi del mondo mafioso. Maria Concetta Cacciola è amante. Nel 2005 il marito viene arrestato e condannato a 8 anni di carcere nel processo “Bosco Selvaggio”. Lei rimane sola, dopo anni di sofferenza e reclusione, e ciononostante controllata in maniera sempre più invadente dalla famiglia. Su Facebook conosce un uomo, se ne innamora. Un uomo non di mafia, una parvenza di normalità, una scintilla di luce tra le sbarre della gabbia che ogni giorno diventava più soffocante. Un germoglio di amore, come una goccia di felicità che ha più forza di ogni vincolo imposto, che le dà il coraggio di decidere di lasciare il marito. Un germoglio di amore stroncato, distrutto, sventrato dai pugni del padre e del fratello Giuseppe, che la massacrano di botte, fracassandole una costola. Perché sopra ogni cosa, l’onore. E lei, donna infedele, lo stava infangando. Maria Concetta Cacciola è testimone di giustizia. Lo diventa per caso, nel maggio del 2011, approfittando di una convocazione in caserma per un problema col motorino del figlio. Un appiglio per sfuggire a una vita di segregazione e tormenti, parole che diventano nomi, luoghi, fatti. Parole che condannano, che inchiodano. Perché la donna di mafia sa più di quanto dovrebbe sapere. E allora fuggire è l’unica via, il terrore che inizia a segnare i giorni della sua vita, la paura che diventa carne: i suoi figli, affidati alla madre, con una preghiera di perdono e la speranza che possano guardare il futuro a testa alta, senza mai avere paura. E una condanna: “So che non ti vedrò mai perché questa sarà la volontà dell’onore che ha la famiglia, per questo avete perso una figlia”. Così la notte tra il 29 e 30 maggio viene prelevata dai Carabinieri e trasferita prima a Cassano sullo Ionio, poi a Bolzano e infine a Genova. I giorni passano lenti, assaporando quella libertà fino ad ora sconosciuta, finalmente padrona delle proprie azioni e dei propri pensieri, lontana dalla terra natia e dalla consapevolezza dell’aver violato il codice d’onore. Ma Maria Concetta è donna, madre, figlia. La nostalgia penetra nelle vene come acido, le mancano i figli. Perché per lei è l’amore sopra ogni cosa. Cede, Maria Concetta, e chiama la sua famiglia, che per due volte va a prenderla. La prima, fallimentare, la seconda sarà quella buona. In macchina con i genitori Concetta sa di dirigersi verso la morte. Maria Concetta Cacciola è figlia “di mafia”? Quando il legame più antico del mondo, quello tra madre e figlia, viene spezzato, quando la madre diventa boia e la figlia vittima. Quando la scelta diventa “o cu nui o cui iddi”, o con noi o con loro, capisci che la dicotomia tra amore e onore penderà sempre a favore di quest’ultimo. Perché fu la madre, Anna Rosalba Lazzaro, la genitrice, colei che avrebbe dovuto essere casa, rifugio, protezione, a condannarla al suo destino. Fu la madre a ricattarla giocando sulla nostalgia di Concetta per i figli. Fu la madre a logorarla, giorno dopo giorno, pregandola di tornare a casa. “Cetta, a noi puoi darci il torto, non a te, a noi.. tu hai una vita davanti, stai tranquilla con la tua famiglia...”. L’apparenza del perdono, del ritorno a casa del figliol prodigo, una bontà quasi cristiana. In realtà, la volontà di far ritrattare tutto, di lavare l’onta che l’infame aveva gettato non solo sulla famiglia ma su tutti i clan della Piana di Gioia Tauro. E l’amore, l’amore di madre e la fiducia nella madre, vincono. Torna a Rosarno, Concetta, lucida, atrocemente lucida, nonostante tutto: “l’onore non lo perdonano e questa cosa gli è caduta più del fuoco e della fiamma”. Maria Concetta Cacciola è vittima di mafia. Muore il 20 agosto 2011 dopo aver bevuto una bottiglia di acido muriatico. La morte riservata ai testimoni di giustizia. Soffocati e uccisi dalle proprie parole. Una morte atroce, dolorosa, una morte che lacera e taglia e devasta. Sangue che si rivolta contro il sangue.

Suicidio, così conferma il medico legale. Il 23 agosto, dopo i funerali, i genitori depositano un esposto alla procura di Palmi che sostiene che Cetta è stata vittima di un raggiro delle forze dell’ordine che hanno fatto leva sulla sua instabilità psicologica per costringerla a raccontare falsità e menzogne contro la sua volontà. Allegano una cassetta in cui Cetta dichiara di aver inventato tutto solo per vendicarsi dei soprusi di padre e fratello.

Cosi Cetta muore due volte. Infangata da ogni lato. Le investigazioni successive porteranno nel 2015 all’arresto del padre, della madre, del fratello Giuseppe, che verranno condannati per maltrattamenti e istigazione al suicidio, insieme a due avvocati complici nell’aver costretto Cetta a registrare la cassetta. Nel “Processo Onta”, che prende il nome proprio dall’onta che la giovane ragazza di Rosarno ha arrecato alle potenti ‘ndrine calabresi, conclusosi recentemente, si definisce quanto avvenuto un simbolico omicidio di mafia, come riportato nella sentenza della Corte d’Assise di Palmi, condivisa dalla Corte d’Assise d’Appello e confermata dalla Corte di Cassazione, pur non essendo ancora noto il nome dell’assassino. Non una povera donna pavida e debole, traviata dalle forze dell’ordine. Non una suicida disprezzante la vita. Non una meschina bugiarda. Una coraggiosa, forte, impavida vittima di mafia, una donna che ha voluto sfidare il sistema ’ndrangheta in nome di una giustizia più alta.

·         La Calabria è l’Inferno!

La Calabria è l’Inferno! Scrive Domenica 14/04/2019 Ilario Ammendolia su La Riviera On LIne. Qualche giorno fa, il giornalista Francesco Merlo, sulla prima pagina di “Repubblica” ha scritto un interessante articolo sulla vicenda di Riace, contribuendo con grande lucidità a inquadrare il “caso” di Mimmo Lucano come un caso di “politica” nazionale. Secondo il giornalista, la sentenza della Cassazione che non individua indizi di colpevolezza e alcun comportamento “fraudolento” nella vicenda di Riace è un oggettivo atto di accusa nei confronti dei metodi spicci e sommari che molti magistrati usano in Calabria. Merlo non ha dubbi di sorta e lo dimostra la frase che riporto integralmente: “Ora che la Cassazione lo ha riabilitato magna cum laude, bisognerebbe premiare Mimì Lucano con una medaglia al valor civile per come ha rispettato e applicato la legge nell’indiavolata terra dei fuorilegge…”. Giovedì sera il GUP di Locri ha rinviato a giudizio Mimmo Lucano e altri perché ritiene ci siano sufficienti indizi per celebrare il processo. Quindi Lucano, quantomeno per i prossimi mesi brucerà sulla graticola infernale della “giustizia” pur non avendo intascato un euro come riconosce la Suprema Corte. Una biforcazione giuridica e culturale tra i magistrati di Cassazione e molti di quelli che operano in Calabria rappresenta il frutto avvelenato delle due parole poste alla fine della frase in cui Merlo definisce la nostra Regione come “indiavolata terra dei fuorilegge” senza rendersi conto che proprio tale “sentire” sta alla base dell’arresto di Lucano: tra i diavoli non nascono i Santi. Ed è quindi legittimo "crocefiggere" i malcapitati sul capestro della “legalità formale”. Conosco bene i problemi della Calabria e so che è l’Eden bensì una Terra scolpita da una Storia che ci ha visto soccombenti. Non potrebbe essere diversa da com’è! L’Oggi è figlio di una secolare oppressione. La repressione a volte raffinata e impalpabile, altre volte stupida e rozza tende più che a combattere i “fuorilegge” e rimuovere la cattiva coscienza di quanti sono stati responsabili del “regresso” della Regione. Molto tempo fa, un ufficiale dell’esercito di occupazione francese ha definito la Calabria come «un paradiso se non fosse abitata da diavoli»; e contro i demoni è stato legittimo usare la mannaia e la forca; squartare donne incinte come è successo a San Luca, sgozzare sacerdoti sull’altare. Giorgio Bocca ha scritto “L’inferno” mettendoci tutti (o quasi) dentro. Tralascio Imma Vitelli che ci ha definito “la terra più barbara di Europa”. Noi Calabresi siamo eternamente inseguiti dall’inferno e così anche un bravo giornalista come Merlo cade nella “trappola”! Ma a sua discolpa bisogna dire che più che sua la responsabilità è di quanti, soprattutto “calabresi”, hanno contribuito a farci marchiare come delinquenti. E oggi si ritiene normale insultare e opprimere i calabresi come non si farebbe mai con i lombardi, i veneti o gli emiliani! Sembra quasi lecito pensare che il calabrese sia un bruco che spiccando il volo diventa ndranghetista. E invece è vittima di una storia infame che lo costringe a fuggire dalla propria Terra a causa di una lunga oppressione oppure vivere in Calabria dove ormai la Costituzione è stata abolita. I nostri giovani non resteranno in una Regione massacrata della mafia e dall’antimafia e fuggiranno via da questa terra di “pretori”, di “sbirri” e di “banditi”! Merlo fa eccezione per “Lucano” perché il suo caso ha fatto “storia” e ha riscosso tanta solidarietà ma io lo inviterei a girare per la Calabria (e io gli farei gratuitamente da guida) per vedere con i propri occhi quanti “Lucano”, senza nome e senza difesa alcuna, hanno lasciato le proprie carni vive sull’invisibile filo spinato che ci circonda. Noi calabresi siamo deboli e paghiamo perché tali! Lunedì scorso a Catanzaro s’è svolto un convegno alla presenza del ministro della Giustizia, del presidente della commissione antimafia Nicola Morra e con tre punte avanzate del giustizialismo dominante: Davigo, Travaglio e Gratteri. Ne è venuto fuori un “manifesto” oscurantista che cancella con un colpo di spugna l’Illuminismo, Cesare Beccaria, e soprattutto la Costituzione. Nella Regione più oppressa d’Italia, costoro pensano di risolvere ogni questione invocando la galera. Nessuna autocritica per le immense somme spese in repressione mentre la ndrangheta spiccava il volo verso lidi più prosperi. Nessuna riflessione sugli innocenti fatti sfilare in manette; o sui soldi spesi per intercettare migliaia di cittadini estranei a ogni disegno criminale. È un caso che tale incontro sia avvenuto in Calabria? No! Perché la Calabria è stata degradata a “ inferno” ed è la terra adatta a esperimenti estremi. Non dimentichiamo mai che il fascismo non ha mai abolito lo “Statuto Albertino” ma s’è limitato a svuotarlo con leggi ordinarie imponendo la dittatura. Rifletta Merlo, neanche il convegno oscurantista di Catanzaro e neanche i magistrati calabresi a cui il giornalista di Repubblica fa riferimento vogliono abolire formalmente la Costituzione, piuttosto svuotarla per fare veramente della Calabria un inferno in grado di bruciare la democrazia nell’Italia intera.

«Presidente Mattarella, in Calabria anche la giustizia fa paura…». La lettera appello che 60 giovani della provincia di Cosenza hanno indirizzato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, scrive il 2 Febbraio 2019 Il Dubbio. La lettera appello che 60 giovani della provincia di Cosenza hanno indirizzato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi, al Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Guido Raimondi e al vicepresidente del Csm, David Ermini. Signori Presidenti, siamo giovani calabresi impegnati nell’associazionismo, nelle organizzazioni politiche giovanili e nella rappresentanza studentesca. Ci ha sempre mosso l’idea di una società più equa e la speranza di garantire il progresso sociale della nostra regione, la Calabria. Abbiamo fatto della lotta per legalità democratica la nostra principale ragione di vita e di impegno pubblico e siamo, ogni giorno, in prima linea contro ogni forma d’illegalità e contro l’influenza della criminalità organizzata. Vi scriviamo perché convinti, però, che difendere la legalità significhi anche richiamare ogni potere dello Stato al vincolo della legge, compreso quello giudiziario, e Vi confessiamo di iniziare ad avvertire la stretta morsa di un leviatano fuori controllo abbattersi contro chi fa politica in Calabria. Abbiamo assistito con relativo sgomento alle modalità con cui talune Procure hanno portato avanti inchieste nei confronti di chi ha alte responsabilità istituzionali nella nostra regione e oggi iniziamo ad avere timore di fare politica in Calabria. Non fraintendeteci, non è la ricerca della verità a spaventarci, ma i metodi con cui essa viene ricercata. Da noi fare politica non vuol dire essere circondati dal velluto, ma prendere decisioni difficili, in un tessuto sociale molto complesso dove la distinzione fra bene e male spesso sta nel pianerottolo di casa o fra il vuoto che divide due scrivanie in un ufficio. Se si decide di sporcarsi le mani e provare a cambiare la realtà i rischi sono enormi e noi ora abbiamo paura, paura della sola cosa al mondo che può spaventare le persone oneste: una cattiva giustizia. Temiamo che la nostra libertà personale un giorno possa essere minacciata da decisioni sommarie prese durante le indagini preliminari che precedono di anni i tempi della giustizia; che il nostro diritto alla segretezza della corrispondenza possa essere violato senza nemmeno essere indagati ad opera di un distorto uso delle intercettazioni; che la diffusione sistematica di notizie coperte dal segreto istruttorio possa esporci alla pubblica gogna. Siamo stanchi di vedere gli operatori della giustizia impegnati più che nelle aule, nelle sale conferenza stampa, dove è possibile formulare imputazioni nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario e senza contraddittorio. Noi non vogliamo sederci al tavolo di un pericoloso gioco fra guardie e ladri che umilia la democrazia proprio mentre i poteri criminali operano indisturbati lontano dei riflettori della guerra fratricida fra le istituzioni. Abbiamo rispetto della magistratura, del suo diritto di indagare e ove fosse necessario di esercitare l’azione penale, ma vogliamo denunciare prima che sia troppo tardi l’avanzare in Calabria di una nuova cultura del sospetto, che alimenta nostalgie per le barocche iniquità del modello inquisitorio del processo penale, segna un arretramento delle garanzie processuali e persegue una profonda limitazione dei diritti politici dei cittadini. Una cultura che, per usare le parole di Giovanni Falcone, non è mai «l’anticamera della verità», scredita la nostra secolare civiltà giuridica e indebolisce la separazione fra poteri dello Stato. Ci appelliamo pertanto al vostro ruolo di Garanti e alla Vostra sensibilità istituzionale perché possiate nei modi che riterrete più opportuni, fugare il dubbio che lo Stato di Diritto sia entrato nella sua parabola discendente, almeno nella nostra regione. Speriamo un giorno di poter tornare a guardare con fiducia alla magistratura e al futuro.

Abate Nicholas, Falbo Gina, Longo Mario, Aiello Francesco, Galli Gaspare, Manna Enrica, Alimena Francesco, Gencarelli Davide, Massenzo Gaetano, Belmonte Mattia, Gencarelli Valerio, Medaglia Melody, Bernardo Gianluca, Giannotti Carlo Antonio, Misasi Luigi, Bonavita Michela, Grosso Maria, Orrico Emanuele, Bria Marco, Guido Simone, Paldino Pasquale, Bria Roberta, Raimondo Rocco, Pecoraro Vittorio, Bruno Alessio, Riccio Lara, Piraine Gabriele, Caligiuri Rosi, Stancati Letizia, Plastino Giulio, Callegari Kevin, Tignanelli Carmela, Raimondo Rocco, Caruso Federica, Ienaro Eleonora, Riccio Lara, Catizzone Manuel, Interno’ Alfredo, Stancati Letizia, Cosentino Angelica, Interno’ Marco, Tignanelli Carmela, Crocco Giulio, Intrieri Daniele, Toto Rebecca, Di fino Antonello, Iusi Pietro, Tucci Giada, Dodaro Eugenio, Lavia Salvatoria, Viteritti Giorgia.

·         Poveri con il lavoro.

Poveri con il lavoro. Agricoltore a 800 euro, ecco i privilegiati dell’Aspromonte dove si vive con 393 euro al mese. Pubblicato martedì, 21 maggio 2019 da Antonio Crispino su Corriere.it. Il «Cristo dei sequestrati» è ancora lì a ricordare la triste storia di questa montagna, l’Aspromonte, per più di un ventennio sinonimo di rapimenti e faide. Le viuzze scabre che si inerpicano per la montagna sembrano condurre tutte davanti a questo crocefisso, crocevia di pastori, agricoltori e, in tempi lontani, pagamenti di riscatti. Ai piedi del Cristo si incatenò per protesta Angela Casella, la mamma di quel Cesare Casella rimasto nelle mani della ‘ndrangheta per più di due anni (18 gennaio 1988 - 30 gennaio 1990). Prima di lui fu la volta del nipote di John Paul Getty. Dopo, di altri rapimenti più o meno eccellenti fino all’ultimo, Alessandra Sgarella nel 1997. Chiusa quella stagione iniziarono le faide, violentissime, dove i capibastone venivano trucidati e dati in pasto ai maiali (come Francesco Raccosta). Lo scenario, sempre lo stesso: l’Aspromonte. Che fuori dalla cronaca nera è un susseguirsi di paesaggi meravigliosi, con distese a perdita d’occhio di faggi e campagne incontaminate, ruscelli di acqua cristallina, aria purissima, nessuna fonte di inquinamento, specie animali e vegetali delle più diverse. Arriviamo a 1200 metri di altezza rispetto al livello del mare, che si intravede all’orizzonte. Una ricchezza naturale che fa a pugni con la povertà economica. Siamo a Zervò, una frazione di Oppido Mamertina, un comune di poco più di cinquemila abitanti. E’ a trenta chilometri (che però si percorrono in un’ora) da Giffone dove il reddito pro capite è di 4.726 euro. Chi nasce qui vive mediamente con 393 euro al mese, al di sotto della soglia di povertà assoluta calcolata dall’Istat (560 euro/mese). «Le persone da queste parti sono talmente abituate a lavorare in nero che un paio d’anni fa mi sono imbattuto in un gruppo di giovani lavoratori di Platì, comune noto per la presenza criminale, che non sapeva cosa fosse un assegno, non lo aveva mai visto e ne ignorava l’esistenza» racconta Vincenzo Messineo, coordinatore della Fai Cisl della provincia di Reggio Calabria. Lungo la strada costeggiata da anonime e incomplete case rurali abbagliano le ville con giardino di chissà chi. È una zona, questa, dove più potente della ‘Ndrangheta regna il sospetto. Il non sapere a chi si può tendere la mano condiziona i rapporti sociali, mette in discussione accordi commerciali, rallenta le transazioni economiche. Questioni di cautele in un mondo che fuori da qui viaggia alla velocità del 5g. Così, quando Antonio Murdaca della cooperativa agricola «Monte Zervò» ci dice che è un ex assessore e porta come ricordo un proiettile nella schiena, le conclusioni della storia sembrano prendere una piega oscura. L’altopiano dove ha deciso di innestare la sua società si raggiunge percorrendo una stradina sterrata che attraversa il parco nazionale dell’Aspromonte. In realtà, nemmeno esisteva. Prima del suo arrivo il terreno è rimasto per cinquant’anni incolto. Il primo investimento è stato necessario proprio per spianare una via d’accesso che consentisse di raggiungere il posto di lavoro. Gli è costato centomila euro e qualche grana con il Comune. E’ la stessa strada che devono percorrere i corrieri che trasportano i prodotti della cooperativa a Milano, nella grande distribuzione. Li ritroviamo, tra gli altri, sui banconi della Esselunga. Si tratta di fagiolini (meglio conosciuti come «pappaluni»), broccoletti, cavoli, verze, more, patate… di assoluta qualità. Le patate, ad esempio, hanno una concentrazione di amidi superiore alla media e un sapore che si distingue subito. Ci mostra cavolfiori anche di quattro chili. Le condizioni ambientali favoriscono la crescita di ortaggi di eccellenza. Basti pensare che i campi sono irrigati con le acque di una sorgente chiamata «Fonte d’oro». Praticamente è acqua minerale. E’ come se i trentacinque ettari di terreno fossero irrigati con acqua imbottigliata. Gran parte degli investimenti infrastrutturali sono stati fatti grazie ai fondi europei, senza i quali non sarebbe nemmeno pensabile l’esistenza della Monte Zervò. Dal 2013 a oggi ha avuto accesso a circa 750 mila euro di sovvenzioni comunitarie che hanno consentito di migliorare l’azienda e procedere al consolidamento idrogeologico del territorio circostante. Nella cooperativa lavorano mediamente trenta operai. D’estate il numero cresce e si arriva anche a 42 agricoltori. Hanno dai 19 ai 60 anni, sia uomini che donne. «Sono tutte persone che avevano le valigie pronte per andare via dalla Calabria, poi hanno deciso di restare. Significava rimboccarsi le maniche indipendentemente se il lavoro agricolo piaceva o meno» racconta Murdaca. Lo stipendio mensile difficilmente supera gli ottocento euro. «Si può arrivare anche a novecento euro ma devi lavorare sodo senza perdere un solo giorno di lavoro» dice Vincenzo, uno degli operai. Quello che sembra un reddito di povertà assume nuova luce rispetto al contesto. Nel senso che il contesto non è migliore della situazione personale, anzi, e per questo nessuno si reputa indigente o bisognoso di un reddito di cittadinanza. «Non l’ho chiesto perché tra qualche anno vado in pensione ma probabilmente nemmeno lo avrei fatto. Chi è abituato a lavorare deve andare a lavorare, non ce la fa a restare con le braccia incrociate» aggiunge lo stesso Vincenzo. Si respira l’essenza delle comunità rurali: si cucina e si mangia tutti assieme, si lavora in gruppo, si torna a casa nello stesso furgone e anche nei giorni di festa si sta uno accanto all’altro; i problemi e le gioie del compagno sono le proprie, se ne discute come di un familiare e si cercano soluzioni. Un valore aggiunto che, se preso nella sua sfumatura negativa, rappresenta l’ossatura della mafia più impenetrabile del mondo ma nel suo lato virtuoso è ciò che permette di sopravvivere tra mille ostracismi, quelli offerti dalla criminalità, dalla cattiva amministrazione, dalla povertà , dalle carenze infrastrutturali e dalle calamità naturali che qui non mancano (l’anno scorso l’azienda è stata colpita da un’alluvione). «Il problema delle aziende agricole calabresi non è la ‘ndrangheta perché quelli bene o male non ostacolano chi porta soldi nel territorio - dice provocatoriamente Vincenzo Messineo -. Il vero problema è trovare amministratori competenti, che conoscano l’economia e il mondo del lavoro, che sappiano che qui un agricoltore - come a Rosarno - preferisce lasciare le arance sugli alberi piuttosto che venderle a cinque centesimi al chilo, cioè meno del costo di produzione». Tra i manovali incontriamo Caterina, si alza alle cinque del mattino e torna a casa nel tardo pomeriggio con 35- 40 euro in tasca. Ha una figlia di tredici anni che vorrebbe imitarla, «qui il lavoro si eredita dai genitori», commenta. In caso di emergenze economiche non va in banca o al Comune, «…mi rivolgo al datore di lavoro, chiedo un anticipo sul prossimo stipendio o ai miei colleghi, ti danno una risposta immediata. Chi ha bisogno ha bisogno subito, e un agricoltore calabrese lo sa ancora meglio».

·         Influenza della 'Ndrangheta.

'Ndrangheta: sciolta l'Asp, l'azienda sanitaria di Reggio Calabria. Infiltrazioni della criminalità organizzata, il governo commissaria. Un debito di 200milioni di euro. Negli ultimi dieci anni 600mila pazienti costretti a farsi assistere fuori regione. La ministra Grillo: "Allarmante il quadro sanità in Calabria, urgente un decreto", scrive Alessio Candito il 13 marzo 2019 su La Repubblica. Maxi confisca a un clan, nel parmense sequestrati 146 immobili e 4 società. Chiusa per mafia. Anche l’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria, da cui dipendono tutti i nosocomi della provincia escluso il Grande ospedale metropolitano della città, è stata sciolta per infiltrazioni della 'ndrangheta. Lo ha deciso il Consiglio dei ministri, convinto che i clan abbiano messo le mani anche sulla sanità. I sospetti c’erano da tempo. Nel luglio scorso, l’Asp era stata commissariata e negli uffici dell’azienda era arrivata una triade di ispettori che ha passato al setaccio appalti, bandi, gare, convenzioni. È finito tutto dentro una relazione rimasta assolutamente riservata, da cui sono emersi solo alcuni dettagli, assai parziali. All’attenzione dei ministri sono finiti dati ed evidenze su interferenze illecite nella guida amministrativa dell’ente, appalti sospetti per servizi e forniture, gare anomale e inspiegabili proroghe negli affidamenti. Quali non è dato sapere, come sia stato possibile non è difficile da immaginare. Fino a qualche tempo fa a Reggio Calabria, capitale dei clan, per partecipare ad una gara dell'Asp non era neanche necessario presentare il certificato antimafia, ma bastava una semplice autocertificazione. Già nei mesi scorsi poi, diversi scandali, spesso finiti al centro di fascicoli di indagine, hanno fatto intuire come i clan avessero messo le mani anche sul budget della sanità. Per anni – si è scoperto qualche tempo fa – l’Asp ha continuato a retribuire soggetti colpiti da condanna non definitiva per mafia e altri gravi reati. Fra loro, per lungo tempo c’è stato anche Alessandro Marcianò, l'ex caposala dell'ospedale di Locri, condannato come il mandante dell'ex presidente del Consiglio regionale, Francesco Fortugno. Una ditta colpita da interdittiva antimafia – è emerso più di recente – ha continuato a erogare il servizio di fornitura, noleggio e lavaggio biancheria delle strutture ospedaliere anche dopo la notifica del provvedimento, in attesa che l’Asp bandisse una nuova gara. Altro capitolo riguarda i doppi e tripli pagamenti. Gli amministratori di Villa Aurora, piccola clinica convenzionata finita al centro di uno scandalo societario che è costato ai manager il carcere, non solo hanno incassato per due volte fatture per 6milioni di euro, ma – ha rivelato un’indagine della Guardia di Finanza – hanno tentato di riscuoterlo per una terza volta, cedendo persino parte del credito ad una società di factoring milanese, attraverso la stipula di un “contratto di cessione”. Oltre 210mila euro invece se li è autoliquidati il responsabile dell’ufficio pagamenti dell'Azienda, che dal 2011 al 2016 ha versato emolumenti non dovuti alla moglie ed ha continuato a farlo anche dopo la morte della donna, deceduta nel 2013. Sotto inchiesta è finito poi anche il servizio residenziale per i pazienti psichiatrici, per una serie di anomalie riscontrate nelle procedure di accreditamento delle strutture. Si tratta di indagini della procura ordinaria, che si sappia, di mafia nelle carte non c’è traccia, ma che danno il metro di un ente disastrato. Schiacciata da un debito che si aggira attorno ai 200milioni di euro, trascinata innumerevoli volte di fronte al Tar per i ritardati pagamenti a ditte e strutture, l’Asp da anni boccheggia. Il risultato sta nei numeri. Negli ultimi dieci anni oltre 600mila pazienti sono stati costretti a farsi assistere fuori regione, mentre i dipendenti dal 2013 hanno smesso di percepire l’indennità di produttività e dal 2016 i buoni pasto. A causa dei tagli del budget e dei debiti pregressi, i concorsi sono bloccati da anni, mentre le stesse strutture ospedaliere mostrano i segni di guasti e mala gestione. Non più tardi di qualche settimana fa a Locri medici e infermieri sono stati costretti a portare a braccia una paziente dalla Cardiologia alla Rianimazione perché nessuno degli ascensori era funzionante. “Lo scioglimento dell’ASP di Reggio Calabria per infiltrazioni mafiose conferma il quadro che ho descritto giorni fa. Il governo non fa un passo indietro e continua il suo impegno per cambiare radicalmente la sanità calabrese a dispetto di chi si avvantaggia di questa situazione” ha twittato la ministra della Salute Giulia Grillo, che la scorsa settimana, al termine di una visita negli ospedali reggini, ha annunciato "un decreto per affrontare la situazione della sanità pubblica in Calabria contenente diverse misure, compresa la sostituzione dei vertici delle Asp e delle Aziende ospedaliere, e se necessario dei direttori sanitari”. Misure ordinarie, da accompagnare se necessario a provvedimenti straordinari come “l’invio della Protezione civile” e l’eventuale costruzione di un ospedale da campo. La proposta-provocazione era stata lanciata dai medici di Palmi, ma il ministro sembra averla presa assai sul serio “Abbiamo pensato anche a questo – ha detto - Bisogna valutarlo perché ci sono situazioni che sono veramente ai limiti dell’umano”.

«Non ci fotte nessuno»: la trap con i mitra in mano dei figli della 'ndrangheta. «Siamo i numeri uno»: in un video i giovani vicini ai clan Pesce e Bellocco di Rosarno inneggiano alla violenza e ai facili guadagni. Ma Glock 21 non rappresenta la Calabria migliore, scrive Lirio Abbate il 19 febbraio 2019 su L'Espresso. Cantano in Calabria amici e parenti di boss della 'ndrangheta. Cantano stringendo in mano mitragliatrici pesanti, inneggiano che a loro “non li fotte nessuno” e che sono i “numeri uno”. «Rosarno è il nostro paese, non è il mondo che piace ma frate, è il mondo nostro. Non scherza la mia gente, ti riduce all'osso». Il cantante si fa chiamare Glock 21, come il modello della pistola usata spesso dalla 'ndrangheta in omicidi o attentati. Ma il suo vero nome è Domenico Bellocco, un giovane di Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, nel cuore del regno mafioso dei Pesce e Bellocco. Il cantante è nipote e cugino di affiliati alle cosche. E la canzone che adesso sta scuotendo successo in rete, con decine di migliaia di visualizzazioni in poco più di 48 ore da quando è stata caricata da Glock 21 su un canale di YouTube, è un'incitazione a stare con le bande. A stare dalla parte di chi con la violenza si arricchisce. Mutando il linguaggio delle cosche calabresi che si evolvono e mutano verso nuove generazioni. È il linguaggio che sembra essere cambiato, anzi evoluto. Non sono certo mafiosi questi ragazzi che partecipano al video, ma di fatto interpretano il peggio dei giovani e onesti calabresi, ne trasmettono un'immagine diversa esaltando il lato criminale di una terra massacrata dai clan e di cui oni giorno sono vittime centinaia di persone oneste. Quello che cantano è la trap, è il genere musicale del momento. Trap deriva dallo slang di strada di Atlanta e indica il luogo dello spaccio. La corrente musicale è nata negli anni Zero negli Stati Uniti e i temi affrontati nelle rime erano soprattutto quelli del mondo della droga. Musicalmente la trap fa un uso massiccio dell’elettronica e l’autotune, l’effetto che robotizza la voce. Glock 21 si circonda in questo video di altri ragazzi che hanno collegamenti con la 'ndrangheta per via dei genitori, dei fratelli, di nonni e zii che sono stati arrestati, processati e alcuni parenti sono attualmente latitanti, come il giovane fratello di una biondina, Sara Di Marte, 18 anni, che presta il suo volto al video. Il fratello Giuseppe Di Marte è ricercato da tempo. È una famiglia legata a doppia mandata al clan di Ciccio Pesce “testuni”, il boss della piana. La passione per le canzoni di Domenico Bellocco, alias Glock 21, è una tradizione di famiglia, non perché cantanti – è escluso questo termine con il quale si intende nella malavita chi collabora con la giustizia – ma perché lo zio e il nonno componevano canzoni a favore della 'ndrangheta e contro i carabinieri che arrestavano i boss in latitanza. In alcune intercettazioni di vecchie indagini il mafioso Domenico Sibio, cantava al figlio piccolo una canzone composta da Gregorio Bellocco, inteso “Lupo solitario” durante la sua latitanza a cui aveva dato il titolo “u bunker”, la melodia calabrese è incisa sui nastri delle intercettazioni della procura distrettuale antimafia. Le parole del testo erano stata ispirate a Bellocco da avvenimenti realmente accaduti in cui i carabinieri del Ros avevano arrestato ricercati dentro un nascondiglio segreto. Da qui "u bunker". Ieri c'erano i cantanti melodici che lanciavano messaggi e raccontavano dei fatti criminali a difesa dei criminali, oggi assistiamo a una evoluzione nel linguaggio di chi sa parlare alla pancia dei criminali e lo fa con un nuovo mood musicale. Tutto questo nuovo trap di Glock 21 che amici e affezionati stanno spargendo per la rete, si svolge a Rosarno territorio dei Pesce e dei Bellocco, un borgo trasformato più di trent'anni fa in un incubo grigio. Il grigio delle case non finite dalle tristi facciate in mattoni forati, da cui fioriscono tondini di ferro rugginosi; il grigio dei marciapiedi sbrecciati, o delle fabbriche con le tettoie in lamiera e i cancelli sbarrati. Una pazzia edilizia che non ha portato lo sviluppo e il benessere che tutti speravano. Persino il Municipio è stato in affitto, fino a poco tempo fa. E pure all’interno di quelle mura le ’ndrine hanno allungato i tentacoli. Nel 1992 e nel 2008 il Consiglio comunale di Rosarno è stato sciolto per infiltrazioni mafiose con decreto del presidente della Repubblica. Le indagini hanno riscontrato collegamenti diretti e indiretti di alcuni amministratori locali e di alcuni dipendenti comunali con la ’ndrina dei Pesce. Tempo fa un’illuminata giunta di sinistra decise di offrire ai cittadini di Rosarno un anfiteatro di cemento armato. Idea ammirevole, peccato che si scelse di innalzarlo proprio all’incrocio di due strade trafficatissime: sono anni che sulle gradinate già sbrecciate non si siede nessuno ad ascoltare Sofocle o Euripide. Il palazzetto dello sport è stato progettato male perché il campo è troppo piccolo. Anche le poche fabbriche che davano un po’ di lavoro hanno i battenti serrati. Alcune, giù alla ex zona industriale, non hanno mai nemmeno aperto. Da quando hanno capito che farsi la guerra non è conveniente, le ’ndrine dei Pesce e dei Bellocco appianano tutte le beghe a parole anziché con le armi e si accordano quando c’è da spartirsi un affare. Soprattutto un appalto. A Rosarno, grazie al business, non scoppia una faida da tempo. E i clan fanno soldi a palate. Possiedono società, imprese, negozi intestati a devote figure di copertura, e liquidità di denaro per decine di milioni di euro. E controllano il porto di Gioia Tauro. I Pesce e i Bellocco tengono sotto il giogo l’intero sistema economico. Tutti a Rosarno pagano la guardiana, il pizzo o la mazzetta, se vogliono continuare a lavorare tranquilli, senza incidenti. E così devono fare i proprietari terrieri della Piana, frazionata in micro appezzamenti (i «giardini») coltivati soprattutto a kiwi e ad agrumi, se vogliono vendere quello che producono. Perché è la ’ndrangheta a controllare gli ortomercati, e se non sei in regola con i pagamenti la frutta la puoi lasciare a marcire sulle piante. Eppure, malgrado il loro criminale parassitismo, i clan godono del consenso di molti settori della società. Coi soldi che ricavano dalle attività illecite, infatti, creano lavoro dove il lavoro non c’è, e sono percepiti quasi come benefattori. Omertà e connivenza trovano spesso giustificazione nella convenienza, oltre che nella paura: meglio schierarsi con chi ti dà il pane che con uno Stato che ti promette sviluppo e benessere e poi latita e ti abbandona a te stesso. E sono sempre di più quelli che scelgono di affiliarsi, soprattutto a Rosarno. E adesso Glock 21 canta, canta la trap e dice che sono i “numeri uno” e che “non li tocca nessuno”. Ma i calabresi non sono tutti così. Questa è solo una canzone che mostra una piccola parte della mentalità di questa terra, il resto, è cioè la maggioranza, sappiamo che è migliore.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto dei saggi dedicati)

·         L’Università dei Baroni.

Sistema Baronale: un'associazione a delinquere con metodi paramafiosi.

Concorsi truccati all'Università, sospesi il rettore di Catania e 9 professori. La intercettazioni tra il rettore e il direttore amministrativo all'origine del caso, che ha portato a 40 docenti di 14 università indagati. Natale Bruno il 28 giugno 2019 su La Sicilia. L’hanno denominata "Università bandita" ed è l'inchiesta della polizia di Stato di Catania, su delega della locale Procura Distrettuale della Repubblica, per far luce sui concorsi che hanno riguardato le carriere universitarie. Un'inchiesta che si estende in tutta Italia. Intanto, nove professori dell’università etnea con posizione apicale e il rettore Francesco Basile sono stati sospesi con un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici emesso dal gip. I reati ipotizzati dall'ufficio inquirente presieduto dal procuratore Carmelo Zuccaro sono quelli di associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Tra i nove professori indagati ci sono l’ex rettore Giacomo Pignataro, Giuseppe Sessa (Medicina), Filippo Drago (Medicina), Carmelo Monaco (Agraria), Giancarlo Magnano di San Lio (Filosofia), Giuseppe Barone (Scienze Politiche), Michela Maria Bernadetta Cavallaro (Economia), Giovanni Gallo (Matematica) e Roberto Pennisi (Giurisprudenza). A tutti gli indagati  - giunti stamattina in questura per la notifica del provvedimento - sono state fatte perquisizioni a casa, sequestrati i loro cellulari. L’inchiesta è coordinata dal procuratore Carmelo Zuccaro e affidata ai sostituti Bisogni, Vinciguerra e Di Stefano.

Le denunce dell'ex direttore amministrativo all'origine del caso. L'inchiesta '"Università bandita" è stata avviata nel luglio del 2015 e si è conclusa nel mese di marzo del 2018, ed è nata dalle denunce tra l'ex rettore Giacomo Pignataro e Lucio Maggio, ex direttore amministrativo generale dell'Ateneo. Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali è emersa l'esistenza di un'associazione a delinquere con a capo il rettore dell'Università Francesco Basile. Nel corso della conferenza stampa è stato rivelato un particolare che ha riguardato proprio il passaggio di consegne tra i due rettore e la bonifica da eventuali cimici nella stanza del "Magnifico" da parte del neoeletto Basile. La corruttela, secondo gli inquirenti, sarebbe avvenuta per il conferimento degli assegni, delle borse di studio e dei dottorati di ricerca, ma anche per l'assunzione di personale tecnico-amministrativo, per la composizione degli organi statutari dell'Ateneo (consiglio di amministrazione, nucleo di valutazione, collegio di disciplina) e per l'assunzione e la progressione in carriera dei docenti universitari. Il "sistema delinquenziale" secondo gli investigatori della polizia di stato, non è ristretto alla sola università di Catania, ma si estende ad altri atenei  i cui docenti sono stati selezionati per fare parte delle commissioni esaminatrici: in particolare è emerso che questi ultimi si sarebbero sempre "preoccupati di non interferire sula scelta del futuro vincitore compiuta preventivamente favorendo il candidato interno che risultava prevalere anche nei Casi in cui non fosse meritevole". 

Il codice "sommerso". Dalle indagini è emerso un vero e proprio codice di comportamento “sommerso” che veniva applicato nell'ambito universitario secondo il quale gli esiti dei concorsi dovevano essere predeterminati dai docenti interessati e nessuno spazio doveva essere lasciata selezioni meritocratiche e soprattutto neo doveva essere presentato alcun ricorso amministrativo contro le decisioni degli organi statutari.

"Macchia pesante". "C'è un sistema di nefandezza che purtroppo macchia in maniera pesante l'Università di Catania": è il quadro sconfortante tratteggiato dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro in conferenza stampa. "E’ un mondo desolante quello che emerge da questa inchiesta. Quando l’espressione della cultura Accademica che dovrebbe essere assolutamente non soggetta al potere si sottomette al potere... Il merito purtroppo non è il metodo di selezione dei candidati, ma una scelta che dall’alto viene calata. È il sistema corruttivo è quello per cui oggi un candidato accede a quel posto, non per merito, ma perché qualcuno lo ha già deciso. Se nel mondo accademico catanese queste cose avvengono sistematicamente, come siamo riusciti a provare, veramente il quadro è desolante. Bisogna fare i conti con quello che è emerso e poi voltare pagina". L’operazione della Digos ha accertato l’esistenza di 27 concorsi truccati in giro per gli atenei italiani: 17 per professore ordinario, 4 per professore associato, 6 per ricercatore. Sono in corso 41 perquisizioni anche nei confronti di ulteriori indagati. Nel procedimento sono complessivamente indagati 40 professori delle Università di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona.

Quaranta docenti indagati in tutta Italia​ per concorsi universitari truccati. Coinvolti professori delle Università di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona. Giuseppe Marinaro il 28 giugno 2019 su Agi. Sono 40 i professori indagati - delle Università di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona - nell'operazione della Digos di Catania denominata Università Bandita. L'inchiesta - nell'ambito della quale 9 professori dell'università di Catania con posizione apicale, e il rettore Francesco Basile, sono stati sospesi con procedimento di interdizione dai pubblici uffici - ipotizza i reati di associazione a delinquere, corruzione, turbativa d'asta ed altro. Sarebbe stata accertata l'esistenza di 27 concorsi truccati: 17 per professore ordinario, 4 per professore associato, 6 per ricercatore. Scattate decine di perquisizioni. Ulteriori particolari nella conferenza stampa convocata alle ore 10 alle procura di Catania. Un codice sommerso e un sistema sanzionatorio, in grado di pilotare concorsi e bandi. Una "associazione a delinquere", "con a capo il rettore dell'università di Catania ed il suo predecessore", rispettivamente Francesco Basile e Giacomo Pignataro, "finalizzata a commettere un numero indeterminato di reati". E che coinvolgeva docenti di 14 atenei italiani. Dieci professori sospesi a Catania, fra cui un rettore e un ex rettore, quaranta complessivamente gli indagati e decine le perquisizioni. La procura etnea ha disposto per nove professori dell'università cittadina con posizione apicale, e per il rettore Francesco Basile, la sospensione con procedimento di interdizione dai pubblici uffici, tutti ritenuti responsabili di associazione a delinquere nonché, a vario titolo, di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, corruzione per l'esercizio della funzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, falsità ideologica e materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, abuso d'ufficio e truffa aggravata. Un'associazione a delinquere, volta "ad alterare il naturale esito dei bandi di concorso" per il conferimento degli assegni, delle borse e dei dottorati di ricerca; per l'assunzione del personale tecnico-amministrativo; per la composizione degli organi statutari dell'Ateneo (Consiglio d'amministrazione, Nucleo di Valutazione, Collegio di Disciplina); per l'assunzione e la progressione in carriera dei docenti universitari. Su questo ultimo aspetto, spiegano gli inquirenti, il "sistema delinquenziale" non è ristretto all'università' etnea ma si estende ad altri atenei italiani, i cui docenti, nel momento in cui sono stati selezionati per fare parte delle commissioni esaminatrici, si sarebbero sempre preoccupati di "non interferire" sulla scelta del futuro vincitore "compiuta preventivamente favorendo il candidato interno che risultava prevalere anche nei casi in cui non fosse meritevole". Le regole del codice hanno un preciso apparato sanzionatorio e le violazioni sono punite con ritardi nella progressione in carriera o esclusioni da ogni valutazione oggettiva del proprio curriculum scientifico. Il gip parla di "estrema pericolosità'" e "piena consapevolezza" delle "gravi illiceità" commesse dal gruppo spinto "da finalità diverse dalla buona amministrazione e volto, al contrario, alla tutela degli interessi di pochi privilegiati che condividono le condotte criminali dell'associazione a delinquere". Emergono inoltre dalle raccomandazioni dei sodali di "non parlare telefonicamente" o dalla volontà palesata di effettuare delle preventive "bonifiche" degli uffici pubblici per ridurre il rischio di indagini e accertamenti nei loro confronti. Il provvedimento interdittivo è stato emesso sulla base della attività di indagine condotta dal giugno 2016 al marzo 2018 e interessa, oltre al rettore Basile e al predecessore Pignataro, i professori Giuseppe Sessa (Medicina), Filippo Drago (Medicina), Carmelo Monaco (Agraria), Giancarlo Magnano di San Lio (Filosofia), Giuseppe 'Uccio' Barone (Scienze politiche), Michela Maria Bernadetta Cavallaro (Economia), Giovanni Gallo (Matematica), e Roberto Pennisi (Giurisprudenza). 

Catania, concorsi truccati all’università: sospesi rettore e 9 docenti. Indagati 40 prof in tutta Italia. L'inchiesta riguarda in particolare l’assegnazione di 17 posti per professore ordinario, quattro per professore associato e sei per ricercatore. Le accuse sono di associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Il Fatto Quotidiano il  28 Giugno 2019. Associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Sono queste le accuse nei confronti del rettore di Catania, Francesco Basile, e di altri nove professori, che sono stati sospesi dal servizio dal Gip. Al centro delle indagini su Università bandita della Digos coordinate dalla Procura etnea 27 concorsi che secondo l’accusa sono stati truccati. Sono complessivamente 40 i professori indagati degli atenei di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona. L’ordinanza applicativa della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio emessa dal Gip di Catania, su richiesta della locale Procura distrettuale, è stata eseguita da personale della polizia di Stato. I nove docenti destinatari del provvedimento sono professori con posizioni apicali all’interno dei Dipartimenti dell’università di Catania. Un vero e proprio “codice di comportamento sommerso” operante in ambito universitario secondo il quale gli esiti dei concorsi devono essere predeterminati dai docenti interessati. È quanto emerge dall’operazione ‘Università bandita’ della Polizia di Stato di Catania, secondo quanto ha raccontato in conferenza stampa il procuratore Carmelo Zuccaro. Le indagini hanno accertato come nessuno spazio doveva essere lasciato a selezioni meritocratiche e nessun ricorso amministrativo poteva essere presentato contro le decisioni degli organi statutari. Secondo quanto accertato, inoltre, le regole del codice avevano un un preciso apparato sanzionatorio e le violazioni erano punite con ritardi nella progressione in carriera o esclusioni da ogni valutazione oggettiva del proprio curriculum scientifico. La polizia di Stato sta eseguendo 41 perquisizioni nei confronti dei 40 professori indagati. L’inchiesta riguarda in particolare l’assegnazione di 17 posti per professore ordinario, quattro per professore associato e sei per ricercatore. L’ordinanza applicativa della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio emessa dal Gip di Catania, su richiesta della locale Procura distrettuale, è stata eseguita da personale della polizia di Stato. I nove docenti destinatari del provvedimento sono professori con posizioni apicali all’interno dei Dipartimenti dell’università di Catania. L’inchiesta della Digos di Catania è la terza che coinvolge l’Ateneo fiorentino, dopo le due avviate dalla procura del capoluogo toscano. La prima in ordine di tempo è quella sui presunti concorsi truccati relativi alle abilitazioni nella disciplina di diritto tributario, che nel 2017 portò a sette arresti e all’interdizione dalle università per 22 docenti. Poi c’è quella più recente che ha sconvolto la facoltà di Medicina di Firenze e che ipotizza presunte turbative nella programmazione dei concorsi per prof e ricercatori. L’udienza preliminare è prevista per i primi di settembre. Le accuse contestate, a vario titolo, sono quelle di induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione, turbata libertà del procedimento di scelta, abuso d’ufficio, frode in pubbliche forniture e truffa. Tra i nomi più in vista anche quello dell’ex ministro Augusto Fantozzi, che venne interdetto dalla docenza universitaria per nove mesi, provvedimento poi revocato dal tribunale del riesame su ricorso del suo difensore, avvocato Nino D’Avirro. Ancora aperta invece l’inchiesta sulla facoltà di medicina, coordinata dal pm Tommaso Coletta. Le indagini, partite nel 2017, avrebbero messo in evidenza, irregolarità nella programmazione dei concorsi e in una procedura concorsuale per l’individuazione di un professore associato.

Concorsi truccati, sospesi l’attuale rettore di Catania Basile e il suo predecessore Pignataro. Quotidiano della Sicilia venerdì 28 Giugno 2019. Quaranta professori di quattordici atenei indagati per associazione per delinquere, corruzione e turbativa d'asta. Indagini della Digos per l'assegnazione di diciassette posti da ordinario, quattro da associato e sei da ricercatore. Il procuratore Zuccaro, "Sistema di nefandezze". Il clientelismo "Disonore per il mondo della Cultura". Il rettore di Catania, Francesco Basile e altri nove professori etnei tra i quali il suo predecessore Giacomo Pignataro, sono stati sospesi dal servizio dal Gip dopo essere stati indagati per associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Al centro delle indagini dell’operazione denominata “Università bandita” della Digos coordinate dalla Procura della Repubblica di Catania sono 27 concorsi.

Quaranta docenti indagati. Sono complessivamente quaranta i professori indagati degli atenei di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona.

L’ordinanza applicativa della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio emessa dal Gip di Catania, su richiesta della Procura distrettuale, è stata eseguita da personale della polizia di Stato.

Basile – 61 anni, dal 1992 ordinario di Chirurgia generale nella Scuola di Medicina e oggi direttore dell’unità di Clinica chirurgica dell’ospedale Vittorio Emanuele di Catania – venne eletto nel febbraio del 2017 al posto di Giacomo Pignataro. Nel 2016 è stato eletto presidente della società Italiana di Chirurgia Day Surgery.

I nove docenti destinatari del provvedimento sono professori con posizioni apicali all’interno dei Dipartimenti dell’università di Catania. La polizia di Stato sta eseguendo perquisizioni nei confronti dei professori indagati. L’inchiesta “Università Bandita”, è scaturita da indagini avviate dalla Digos della Questura di Catania su concorsi che per l’accusa sono stati “truccati”. E in particolare riguardano l’assegnazione di diciassette posti per professore ordinario, quattro per professore associato e sei per ricercatore.

La conferenza stampa. Un vero e proprio “codice di comportamento sommerso” operante in ambito universitario secondo il quale gli esiti dei concorsi devono essere predeterminati dai docenti interessati. E’ quanto emerge dall’operazione ‘Università bandita’ della Polizia di Stato di Catania sfociata stamane nella sospensione dal servizio da parte del Gip del rettore Francesco Basile e altri nove professori, indagati per associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. L’operazione è stata illustrata durante una conferenza stampa alla quale ha preso parte il procuratore della Repubblica Carmelo Zuccaro. Le indagini hanno accertato come nessuno spazio doveva essere lasciato a selezioni meritocratiche e nessun ricorso amministrativo poteva essere presentato contro le decisioni degli organi statutari. Secondo quanto accertato, inoltre, le regole del codice avevano un preciso apparato sanzionatorio e le violazioni erano punite con ritardi nella progressione in carriera o esclusioni da ogni valutazione oggettiva del proprio curriculum scientifico.

I nomi dei professori sospesi. Come detto c’è anche l’ex rettore dell’Università di Catania Giacomo Pignataro tra gli indagati e anche per lui è stata disposta la sospensione dal servizio. Gli altri docenti sono il prorettore Giancarlo Magnano di San Lio; l’ex direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Giuseppe Barone; il direttore del Dipartimento di Economia e Impresa Michela Maria Bernadetta Cavallaro; il direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologiche Filippo Drago; il direttore del Dipartimento di Matematica e Informatica Giovanni Gallo; il direttore del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali Carmelo Giovanni Monaco; il direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Roberto Pennisi; il presidente del coordinamento della Facoltà di Medicina Giuseppe Sessa.

Zuccaro, “Sistema di nefandezze”. “L’indagine – ha detto Zuccaro – ha consentito di svelare un sistema di nefandezze che purtroppo macchia in maniera veramente pesante il nostro Ateneo perché coinvolge tutti i personaggi di maggiore responsabilità al suo interno”. “Abbiamo accertato che questo sistema, che vedeva al vertice il precedente rettore e il rettore attuale – ha aggiunto – ha inquinato il sistema di votazione all’interno dell’Ateneo per la nomina del rettore e per la nomina degli organi più importanti. A cascata questo sistema si é perpetuato per condizionare numerosi concorsi di tutti i dipartimenti”.

Il sistema “baronale”. Quello descritto dal Procuratore è un sistema che un tempo sarebbe stato definito “baronale”. “Un sistema – ha affermato Zuccaro – che non esito a definire squallido perché le persone che vengono proposte non sono le più meritevoli per aggiudicarsi il titolo. Quando qualcuno ha il coraggio di proporsi come candidato per questo posto nonostante il capo del dipartimento abbia deciso che non sia venuto il suo momento, queste persone vengono fatte oggetto di critiche pesanti, addirittura di ritorsioni da parte del capo del dipartimento”. “Si è usata la parola, da parte di qualcuno, non da parte mia – ha aggiunto -, di metodi paramafiosi. Parto dal principio che se tutto è mafia, nulla è mafia. Io uso la parola mafia per sistemi effettivamente mafiosi. Però questi sono sistemi criminali e anche i sistemi criminali organizzati non mafiosi posso produrre effetti devastanti”.

Disonore al mondo della Cultura. “I fatti – ha concluso – sono estremamente gravi e certamente non fanno onore a persone che dovrebbero appartenere al mondo della cultura: cultura che non può soffrire l’adozione di sistemi clientelari e non basati sul merito per potersi perpetuare. Una cultura che si basa su questi sistemi è una cultura destinata a rimanere sterile e a perseguire più esigenze clientelari che non esigenze di progresso e di sviluppo della nostra società”.

Terremoto all'Ateneo, 40 indagati. Antonio Condorelli su Live Sicilia 28 giugno 2019. Ventisette concorsi truccati, diciassette per professore ordinario, sei per ricercatore e i vertici dell'Università sono stati decapitati dalla magistratura. Arriva come un ciclone l'ultima operazione della Procura di Catania sull'Ateneo, eseguita dalla Digos, gli indagati sono quaranta e spiccano i nomi eccellenti, a partire dall'attuale Rettore, Francesco Basile e dal suo predecessore, Giacomo PIgnataro. I NOMI - Oltre ai due Rettori, il Gip di Catania ha sospeso Giancarlo Magnano San Lio, prorettore dell'Università, Giuseppe Barone, ex direttore del dipartimento di Scienza Politiche, Michela Cavallaro, direttore del dipartimento di Economia, Filippo Drago, direttore del dipartimento di scienze biomediche, Giovanni Gallo, direttore del dipartimento di matematica, Carmelo Monaco, direttore del dipartimento di Scienze biologiche, Roberto Pennisi, direttore del dipartimento di Giurisprudenza e Giuseppe Sessa, presidente del coordinamento della Facoltà di Medicina dell'università di Catania. La Procura aveva richiesto per loro gli arresti domiciliari.

L'INDAGINE - L'inchiesta nasce dalle denuncie incrociate presentate dall'ex Rettore Giacomo Pignataro e da Lucio Maggio, direttore amministrativo. La Digos inizia a eseguire le intercettazioni e viene fuori un sistema di preconfezionamento dei concorsi universitari. Il 2 febbraio del 2016, dopo l'elezione di Basile, la prima domanda che ha posto al suo predecessore è stata emblematica: "La stanza l'hanno bonificata?". Il passaggio di consegne avviene mentre le cimici della Digos registrano. La Digos ha accertato che "il futuro vincitore dei concorsi veniva deciso a tavolino e i concorsi venivano costruiti ad hoc per chi dovesse vincere, stabilendo chi dovessero essere i commissari, i membri esterni, nei casi più gravi era il candidato stesso a elaborare i criteri del concorso".

"IL CAPO" - Francesco Basile è ritenuto il "capo" dell'associazione a delinquere finita nel mirino della Procura. Il Cda è stato eletto grazie a dei "pizzini", consegnati anche ai rappresentanti degli studenti "che - sottolinea la Digos - non si sono sottratti a questa logica". Tra gli indagati, Giuseppe Barone, è accusato anche per il concorso predisposto in favore del proprio figlio dai vertici dell'Università.

IL TRUCCO - Tutto sarebbe stato stabilito "a tavolino", anche il numero delle pubblicazioni che dovevano essere presentate. Il condizionamento da parte dei vertici universitari riguarderebbe anche il conferimento degli assegni, l'assunzione di personale tecnico amministrativo, la composizione degli organi statutari dell'Ateneo, l'assunzione e la carriera dei docenti universitari.

IL CODICE - Metodologie "paramafiose", e un codice basato sul "ricatto" e l'assenza del merito. I concorsi erano stati già prestabiliti per alimentare un sistema fatto da "figli dei figli", spiega la Procura di Catania, nel quale "si prescinde totalmente dalla meritocrazia". "Chi non accettava di dare qualcosa in cambio - continuano i magistrati - era escluso in partenza. La culla della cultura adottava gli stessi metodi delle associazioni mafiose. La cultura della forza e del ricatto".

L'INTERCETTAZIONE - "Dobbiamo soggiacere al potere". Tra gli indagati ci sono anche i beneficiari dei "concorsi", alcuni di questi pretendevano - spiega il Pm Santo Distefano - di vincere il concorso e si dolevano della presenza di altri candidati che non sottostavano alle regole e spingevano affinché il concorso fosse dedicato solo a loro, che stavano dentro il sistema. Gli stessi beneficiari del sistema sollecitavano il Rettore ad avere condotte ritorsive nei confronti degli altri candidati che continuavano a insistere per partecipare al concorso". È un sistema, "non c'è il pagamento di una mazzetta", spiega il procuratore Carmelo Zuccaro, "essere professore o meno cambia completamente i parametri economici".

ALTRI ATENEI - Nel sistema di gestione dei concorsi truccati sono coinvolti professori di altre Università italiane. I professori coinvolti farebbero parte di un sistema di scambio di favori.

Concorsi truccati all'Università, sospesi il rettore di Catania e 9 professori. Tra gli indagati anche l'ex procuratore D'Agata. La intercettazioni tra il rettore e il direttore amministrativo all'origine del caso, che ha portato a indagare 60 docenti di 14 università e altre sei persone. Natale Bruno il 28 giugno 2019 su La Repubblica. L’hanno denominata "Università bandita" ed è l'inchiesta della polizia di Stato di Catania, su delega della locale Procura Distrettuale della Repubblica, per far luce sui concorsi che hanno riguardato le carriere universitarie. Un'inchiesta che si estende in tutta Italia. Intanto, nove professori dell’università etnea con posizione apicale e il rettore Francesco Basile sono stati sospesi con un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici emesso dal gip. I reati ipotizzati dall'ufficio inquirente presieduto dal procuratore Carmelo Zuccaro sono quelli di associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Tra i nove professori indagati ci sono l’ex rettore Giacomo Pignataro, Giuseppe Sessa (Medicina), Filippo Drago (Medicina), Carmelo Monaco (Agraria), Giancarlo Magnano di San Lio (Filosofia), Giuseppe Barone (Scienze Politiche), Michela Maria Bernadetta Cavallaro (Economia), Giovanni Gallo (Matematica) e Roberto Pennisi (Giurisprudenza). A tutti gli indagati  - giunti stamattina in questura per la notifica del provvedimento - sono state fatte perquisizioni a casa, sequestrati i loro cellulari. L’inchiesta è coordinata dal procuratore Carmelo Zuccaro e affidata ai sostituti Bisogni, Vinciguerra e Di Stefano.

L'inchiesta '"Università bandita" è stata avviata nel luglio del 2015 e si è conclusa nel mese di marzo del 2018, ed è nata dalle denunce tra l'ex rettore Giacomo Pignataro e Lucio Maggio, ex direttore amministrativo generale dell'Ateneo. Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali è emersa l'esistenza di un'associazione a delinquere con a capo il rettore dell'Università Francesco Basile. Nel corso della conferenza stampa è stato rivelato un particolare che ha riguardato proprio il passaggio di consegne tra i due rettore e la bonifica da eventuali cimici nella stanza del "Magnifico" da parte del neoeletto Basile. La corruttela, secondo gli inquirenti, sarebbe avvenuta per il conferimento degli assegni, delle borse di studio e dei dottorati di ricerca, ma anche per l'assunzione di personale tecnico-amministrativo, per la composizione degli organi statutari dell'Ateneo (consiglio di amministrazione, nucleo di valutazione, collegio di disciplina) e per l'assunzione e la progressione in carriera dei docenti universitari. Il "sistema delinquenziale" secondo gli investigatori della polizia di stato, non è ristretto alla sola università di Catania, ma si estende ad altri atenei  i cui docenti sono stati selezionati per fare parte delle commissioni esaminatrici: in particolare è emerso che questi ultimi si sarebbero sempre "preoccupati di non interferire sula scelta del futuro vincitore compiuta preventivamente favorendo il candidato interno che risultava prevalere anche nei Casi in cui non fosse meritevole". 

Il codice "sommerso". Dalle indagini è emerso un vero e proprio codice di comportamento 'sommerso' che veniva applicato nell'ambito universitario secondo il quale gli esiti dei concorsi dovevano essere predeterminati dai docenti interessati e nessuno spazio doveva essere lasciata selezioni meritocratiche e soprattutto neo doveva essere presentato alcun ricorso amministrativo contro le decisioni degli organi statutari.

"Macchia pesante". "C'è un sistema di nefandezza che purtroppo macchia in maniera pesante l'Università di Catania": è il quadro sconfortante tratteggiato dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro in conferenza stampa. "E’ un mondo desolante quello che emerge da questa inchiesta. Quando l’espressione della cultura Accademica che dovrebbe essere assolutamente non soggetta al potere si sottomette al potere... Il merito purtroppo non è il metodo di selezione dei candidati, ma una scelta che dall’alto viene calata. È il sistema corruttivo è quello per cui oggi un candidato accede a quel posto, non per merito, ma perché qualcuno lo ha già deciso. Se nel mondo accademico catanese queste cose avvengono sistematicamente, come siamo riusciti a provare, veramente il quadro è desolante. Bisogna fare i conti con quello che è emerso e poi voltare pagina".

Concorsi truccati nelle università: i nomi di tutti gli indagati. Natale Bruno su La Repubblica il 28 Giugno 2019. Nell’operazione della Digos sono state effettuate 41 perquisizioni. L'inchiesta ha accertato l’esistenza di 27 concorsi truccati in giro per gli atenei italiani: 17 per professore ordinario, 4 per professore associato, 6 per ricercatore. Ma si indaga su altre 97 procedure concorsuali. Gli indagati sono complessivamente 66: 40 professori dell'università di Catania e 20 degli atenei di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona, più altre sei persone collegate a vario titolo all'università del capoluogo etneo. E tra i nomi eccellenti c’è pure quello dell’ex procuratore di Catania Enzo D’Agata finito nel registro degli indagati assieme alla figlia Velia che avrebbe, secondo l’accusa, ottenuto una via preferenziale per una cattedra di professore associato. Ecco i nomi dei 62 indagati dell’inchiesta ‘Università bandita’ordinata dalla procura di Catania: Salvatore Cesare Amato (Unict), Massimo Antonelli (UniRoma), Marinella Astuto (Unict), Pietro Baglioni (UniFirenze), Laura Ballerini (Sissa Trieste), Antonio Barone (Unict), Giuseppe Barone (Unict), Francesco Basile (rettore Unict), Alberto Bianchi (Unict), Antonio Giuseppe Biondi (Unict), Paolo Cavallari (UniMilano), Michela Maria Bernadette Cavallaro (UniCt), Giovanna Cigliano (UniNapoli), Umberto Cillo (UniPd), Giorgio Conti (La Cattolica Roma), Agostino Cortesi (UniVe), Velia Maria D’Agata (Unict), Enzo D’Agata, Stefano De Francisci (UniCz), Francesco Saverio De Ponte (UniMessina), Santo Di Nuovo (Unict), Francesco Di Raimondo (Unict), marcello Angelo Alfredo Donati (Unict), Filippo Drago (Unict), Alessia Facineroso (Unict), Santi Fedele (UniMessina), Enrico Foti (Unict), Giovanni Gallo (Unict), Anna Garozzo (Unict), Eugenio Gaudio (UniRoma La Sapienza), Maria Giordano (Unict), Sebastiano Angelo Granata (Unict), Salvatore Giovanni Gruttadauria (Unict), Calogero Guccio (Unict), Alfredo Guglielmi (UniVr), Giuseppina La Vecchia (UniChieti-Pescara), Giampiero Leanza (Unict), Massimo Libra (Unict), Giancarlo Magnano di San Lio (Prorettore Unict), Luigi Vincenzo Mancini (UniRoma La Sapienza), Claudio Marchetti (UniBologna), Massimo Mattei (UniRomaTre), Paolo Mazzoleni (Unict), carmelo Giovanni Monaco (Unict), Maura Monduzzi (UniCagliari), Marco Montorsi  (Rettore Humanitas Rozzano), Giuseppe Mulone (Unict), Paolo Navalesi (UniCz), Matteo Giovanni Negro (Unict), Ferdinando Nicoletti (Unict), Karl Jurgen Oldhafer (Barmbek Asklepios Hospital Amburgo), Giuseppe Pappalardo (Unict), Pietro Pavone (Unict), Roberto Pennisi (Unict), Vincenzo Perciavalle (Unict), Giacomo Pignataro (Già rettore Unict), Giovanni Puglisi (Unict), Stefano Giovanni Puleo (Unict), Maria Alessandra Ragusa (Unict), Antonino Recca (già rettore Unict), Romilda Rizzo (Unict), Salvatore Saccone (Unict), Giovanna Schillaci (Unict), Giuseppe Sessa (Unict), Luca Vanella (Unict) e Giuseppe Vecchio (Unict). 

·         Tangentopoli sicula.

Appalti truccati, arrestati quattro funzionari a Palermo. Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 da Corriere.it. Bastava “scucire” i “piccioli”, bastava pagare le mazzette e un gruppo di infedeli funzionari del Provveditorato regionale per le opere pubbliche garantiva appalti, revisioni, stati di avanzamento agli imprenditori consenzienti. Almeno questa è l’accusa di una inchiesta non a caso a caso chiamata “cuci e scuci” dalla Procura e dalla Squadra mobile di Palermo. Con un blitz che ha portato all’arresto di quattro funzionari: Carlo Amato, Francesco Barberi, Antonio Casella e Claudio Monte. Nel provvedimento altri due impiegati amministrativi risultano sospesi dal servizio per un anno. Mentre otto imprenditori ritenuti i corruttori sono stati raggiunti da una interdittiva e non potranno lavorare con la pubblica amministrazione. Nell’inchiesta della Squadra mobile diretta da Rodolfo Ruperti e coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Sergio Demontis e dai sostituti Giacomo Brandini, Maria Pia Ticino e Pierangelo Padova, oltre la corruzione, vengono contestati i reati di falso e truffa ai danni dello Stato con “revisioni” per lavori eseguiti in scuole, caserme e altri uffici pubblici generosamente lievitati in proporzione alle tangenti riscosse dai funzionari. Si tratterebbe di «uno stratificato sistema corruttivo», come viene definito dai magistrati che hanno fatto leva sulla coraggiosa denuncia di un imprenditore deciso a non piegarsi e a non “scucire”. E’ il racconto di un tormento denso di minacce seguito alle proposte indecenti di una facilitazione della pratica per la ristrutturazione di una scuola in provincia di Palermo in cambio di doni, cene e denaro, anche in coincidenza con le festività più importanti. Forse non a caso le prime rivelazioni risalgono al dicembre del 2017 quando i dirigenti della questura diretta da Renato Cortese si presentarono al provveditorato, ufficio periferico del ministero dei Lavori pubblici, per sequestrare una pila di incartamenti. Documentazione che avrebbe consentito di accertare gli imbrogli su alcune scuole, ma anche il pilotaggio di appalti per la costruzione di alcuni complessi edilizi dell’ateneo palermitano, soprattutto al padiglione 18 della cittadella universitaria di viale delle Scienze. Ed ancora appartamenti per le forze dell’ordine, compresa la vecchia sede di un commissariato di polizia in via Giusti a Palermo e la caserma dei carabinieri della vicina Capaci. L’interesse dei funzionari arrestati a “scucire” quattrini agli imprenditori avrebbe spaziato da un capo all’altro della Sicilia. Non a caso sono accusati di avere chiesto tangenti per lavori eseguiti anche nelle provincie di Enna e Catania. In particolare, ai raggi X i lavori appaltati per la ristrutturazione a Enna di immobili dei vigili del fuoco, dell’Agenzia delle Entrate e del commissariato di polizia con targa intestata al commissario Boris Giuliano, vittima di mafia nel 1979. Sequestrati anche i fascicoli per i lavori eseguiti a Centuripe nella chiesa di San Benedetto e nella scuola “Ansaldi”, a Nicosia nell’istituto “Pirandello”, a Sant’Alfio e Casteldaccia nelle scuole “La Pira” e “Piraino”. Metodi privilegiati il cosiddetto “cottimo fiduciario” con lavori sotto la soglia obbligatoria per bandire una gara o il ricorso all’escamotage degli «interventi urgenti» con semplificazione delle procedure. Di qui la convinzione di magistrati e polizia sul «sodalizio criminoso allocato presso gli uffici del Provveditorato» dove sarebbe stata sperimentata la formula della “mazzetta rimborsata”: un anticipo della tangente da parte dell’imprenditore al funzionario che, subito dopo, interveniva con una calibrata “revisione” per garantire il rimborso di quanto estorto.

·         Gaspare Palmeri, un altro innocente morto di mafia.

Gaspare Palmeri, un altro innocente. Filippo e Giovanni Palmeri il 4 maggio 2019 su La Repubblica. Quella di Gaspare Palmeri è una storia comune a molti: un innocente ucciso dalla violenza mafiosa senza pietà e soprattutto senza motivo. Era nel posto sbagliato al momento sbagliato? In realtà sono sempre i mafiosi ad essere nel posto sbagliato. Era il 18 giugno 1991, e ad essere ucciso dai colpi di tre pistole calibro 38 un operaio della forestale con la passione per il calcio. Da Ficuzza stava rientrando nella sua città, Castellammare del Golfo, quando il fuoco mafioso uccise lui e gli altri colleghi. Tra loro, come riveleranno diversi anni dopo alcuni collaboratori di giustizia, caddero due innocenti: Gaspare Palmeri e Stefano Siragusa. Per anni Gaspare è stato “etichettato”, la sua famiglia isolata. Marchiati a fuoco dal dubbio di essere vicini ad ambienti mafiosi. La vedova e i figli Giovanni e Filippo però non si sono mai arresi, hanno ottenuto verità e giustizia soltanto nel 2003, quando la Corte di Assise di Palermo ha stabilito l’innocenza di tre dei presenti, le due vittime e l’unico sopravvissuto, Antonino Mercadante. Oggi l’eredità di Gaspare cammina sulle gambe dei nipoti e dei suoi figli che incontrano i ragazzi delle scuole da nord a sud. A Gaspare Palmeri nel 2017 il Comune di Castellammare del Golfo ha intitolato una via. (Emanuel Butticè)

“Ciao a tutti, Mi chiamo Gaspare Palmeri, ho 61 anni e vivo a Castellammare del Golfo in provincia di Trapani. Faccio l'agente tecnico della forestale alle dipendenze della Regione Siciliana. Sono sposato con Anna ed ho due figli Filippo e Giovanni. Sono una persona normale, che al mattino si alza presto per andare al lavoro, come tanti siciliani cerco onestamente di portare a casa il pane per mantenere la mia famiglia. Il 18 giugno 1991, con un collega di Castellammare partiamo a bordo della mia Fiat 127 per andare a Ficuzza, vicino a Corleone, per assistere alla partita di calcetto nella quale gioca la squadra di cui è presidente un dirigente del Corpo Forestale di Trapani.Il programma è di trascorrere qualche ora in compagnia e di divertirsi guardando la partita per poi tornare a casa. Ma questo non è un giorno come tanti. Raggiungiamo Alcamo, dove nella piazza principale abbiamo appuntamento con altri due colleghi, Siragusa Stefano e Parisi Domenico, quest'ultimo lo conosco solo di vista, in quanto non lavoriamo insieme. Saliamo sulla Golf nuova di Siragusa e ci dirigiamo verso Ficuzza dove ci attende la partita di calcetto. Dopo la partita ci fermiamo in un bar di Ficuzza a festeggiare la vittoria della squadra locale e la fine del campionato e poi, verso le 18 ripartiamo alla volta di casa, percorrendo lo stesso tragitto fatto all'andata. Ad un certo punto, dopo l'incrocio con la strada che porta al Santuario della Madonna di Tagliavia, l'auto rallenta perché c'è del fuoco ai bordi della carreggiata e un attimo dopo sento il crepitio di colpi di arma da fuoco, una mitraglietta e delle pistole, non capisco...che mi colpiscono...e poi più nulla. Siamo state vittime di un agguato in piena regola. Degli occupanti di quell'auto solo una persona miracolosamente si salva, protetta dal corpo di un collega che gli ha fatto da scudo e che, appena tutto finisce riesce, con grande difficoltà a raggiungere il vicino ospedale di Corleone per farsi soccorrere e dare l'allarme. Io non c'è l'ho fatta. Ero seduto sul sedile posteriore della Golf e sono morto senza neanche rendermene conto, “attinto da diversi colpi concentrati nell'emitorace anteriore destro ed alla regione scapolare sinistra e al braccio sinistro”, come scriverà poi, durante il processo, il medico legale. Non so perché è accaduto. Le indagini e il processo, apertosi nel 2003, grazie alle dichiarazioni di alcuni collaboratori, hanno chiarito che la ragione del triplice omicidio era colpire uno degli occupanti dell'auto, imparentato con il clan Greco che si era contrapposto ai Corleonesi di Totò Riina e che le altre due vittime “Il Siragusa e il Palmeri erano cadute nell'agguato sol perché quel giorno si trovavano nella stessa auto in cui viaggiava Parisi Domenico, obiettivo dei killer”. Per l'omicidio, l'11 aprile del 2003 la 1° sezione della Corte d'Assise di Palermo ha condannato Agrigento Giuseppe, Benenati Simone, Madonia Salvatore e Riina Salvatore alla pena dell'ergastolo e Brusca Giovanni, divenuto collaboratore di giustizia, alla pena di 14 anni di reclusione. Chi ha detto che i mafiosi si ammazzano tra di loro e che la cosa, a noi persone normali, non ci riguarda? Cosa c'entravo io in questa faccenda? All'inizio, prima del processo, e ancora oggi, c'è gente che pensa e dice che quello che è capitato è in qualche modo anche colpa mia, che me lo sono andato a cercare e che, se è successo un motivo deve pur esserci... Il motivo è che la mafia, cosa nostra, non guarda in faccia a nessuno, per perseguire i suoi obiettivi e annientare gli avversari non ha esitato a uccidere due innocenti e a rovinare due famiglie che nulla avevano a che fare con gli affari dei boss. Ogni anno, il 21 marzo il mio nome, insieme a quello di tanti altri, viene letto in una piazza di questo Paese durante la Giornata della memoria e dell'impegno organizzata da Libera per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie. Mi chiamo Gaspare Palmeri e questa è la mia storia”. (Questa lettera è stata scritta dai figli Filippo e Giovanni e da alcuni ragazzi di Castellammare del Golfo)

·         Gli Spaccaossa.

Palermo, la banda degli "spaccaossa": due milioni all'anno e la Porsche per i capi dell'organizzazione. Nomi e ruoli dell'inchiesta. La città suddivisa in tre zone, le "squadre" che operavano sul territorio sapevano a chi dover vendere il falso sinistro a seconda della zona in cui veniva inscenato, scrive Francesco Patanè il 15 aprile 2019 su La Repubblica. Erano in tre i capi che gestivano le due organizzazioni specializzate nelle truffe alle assicurazioni con vittime ferite e menomate dalle squadre di picchiatori, che inscenavano i falsi incidenti stradali. Un business, questo degli spaccaossa, che garantiva almeno due milioni di euro all'anno a Giovanni Napoli, 44 anni, che oltre a gestire le pratiche di risarcimento non disdegnava di fratturare le ossa, ad Antonino Di Gregorio, anche lui 44 enne, e a Domenico Schillaci, titolare del bar "Dolce Vita" di via Brunelleschi a Palermo, che viaggiava a bordo di una Porsche ed era proprietario di un gommone fuoribordo: tutti beni che secondo la guardia di finanza acquistati con i proventi dei risarcimenti dei falsi incidenti con feriti. I tre capi si erano suddivisi la città in tre zone e le squadre di spaccaossa che operavano sul territorio sapevano a chi dover vendere il falso sinistro a seconda della zona in cui veniva inscenato. I sostituti procuratori Daniele Sansone, Alfredo Gagliardi, Francesca Mazzocco e Andrea Zoppi coordinati dagli aggiunti Sergio Demontis ed Ennio Petrigni hanno azzerato le due organizzazioni che in un anno riuscivano ad inscenare un migliaio di falsi incidenti. Secondo gli investigatori sono circa 300 le persone che hanno accettato di farsi menomare per poche centinaia di euro, alcune più volte in un anno, altre con più lesioni per volta. "Un sabato sera in un pronto soccorso c'erano sette casi di spaccaossa contemporaneamente - racconta un inquirente - Tutte le vittime avevano accanto un membro delle diverse bande di picchiatori che controllava che non raccontassero ai medici come effettivamente si erano feriti". Solo cinquanta vittime hanno accettato di collaborare con la squadra mobile e la guardia di finanza. "Mi state ammazzando... aiuto mi state ammazzando... la gamba...". A gridare è Antonia B. una delle vittime degli spaccaossa a cui risponde Monia Camarda che gli dice: "Non gridare...". La frattura avveniva in via Imera, in una delle "stanze degli orrori" usate dagli spaccaossa per le vittime designate. In un caso l'organizzazione aveva tentato di mettere a segno un falso incidente sul traghetto Palermo-Genova. Un passeggero aveva detto di essere caduto dalle scale della nave fratturandosi le gambe mentre in realtà gli arti gli sarebbero stati spaccati appositamente sul traghetto. L'uomo a Genova è stato poi ricoverato in Rianimazione per un'embolia polmonare a seguito delle gravi fratture. Nel corso delle perquisizioni è stato trovato un libro mastro con diversi episodi di rotture di ossa provocati ad arte, nomi di vittime e località dell'incidente. Le indagini si sono anche avvalse della collaborazione di tre uomini che erano stati arrestati lo scorso agosto. I tre hanno fornito una serie di elementi che hanno squarciato il velo sull'organizzazione. Le vittime erano scelte tra i tossicodipendenti, persone con disturbi psichici e donne che in condizioni di povertà che si prestavano a mettere in scena i falsi incidenti. Tra i fermati anche l'avvocato Graziano D'Agostino, uno dei professionisti che curava le pratiche con le assicurazioni e che secondo gli inquirenti era al corrente delle truffe e si era intascato parte dei guadagni.

I 42 fermati sono Carlo Alicata (coinvolto in cinque casi fratture e menomazioni per ottenere risarcimenti assicurativi), Gaetano Alicata (3 casi), Filippo Anceschi (un episodio), Salvatore Arena (cinque casi), Monia Camarda (cinque casi), Gioacchino Campora (nove casi), Vincenzo Cataldo (tre episodi), Graziano D'Agostino (sette casi), Salvatore Di Gregorio (due casi), Salvatore Di Liberto (sei casi), Giuseppe Di Maio (tre casi), Orazio Falliti (4 casi), Mario Fenech (sei casi), Vittorio Filippone (quattro casi), Antonino Giglio (nove episodi), Gesué Giglio (venticinque casi), Gaetano Girgenti (tre casi), Giovanna Lentini (dieci casi), Alfonso Macaluso (dieci casi), Benedetto Mattina (nove casi), Giuseppe Mazzanares (nove casi), Maria Mazzanares (nove casi), Rita Mazzanares (ventisei casi), Salvatore Mazzanares (quattro casi), Mario Modica (diciannove casi), Piero Orlando (due casi), Cristian Pasca (sei casi), Vincenzo Peduzzo (due casi), Giuseppa Rosciglione (sei casi), Alessandro Santoro (quattro casi), Alfredo Santoro (undici casi), Natale Santoro (cinque casi), Antonino Saviano (tre casi), Domenico Schillaci (dodici casi), Letizia Silvestri (cinque casi), Maria Silvestri (dieci casi), Patrizia Alaimo, Ermanno Campisi, Antonino Di Gregorio, Giovanni Napoli, Fabio Riggio ed Emanuela Gallano.

Con le ossa rotte e senza soldi, le vittime degli spaccaossa si presentano in fila alla polizia, scrive  Ignazio Marchese il 16/04/2019 su blogsicilia.it. Sono rimasti con le ossa rotte, con fratture scomposte dalle quali difficilmente  si guarisce, e senza soldi visto che la prima retata ad agosto aveva assestato un duro colpo all’organizzazione. Così cinquanta delle vittime degli spaccaossa si sono presentati alla squadra mobile e hanno raccontato quello che hanno dovuto subire per avere 500 o 1000 euro. Violenze inaudite sulle quali i fermati di ieri ridevano e scherzavano pensando di non essere intercettati.”Pareva una addina quannnu ci stiraru u cuoddo” (sembrava una gallina quando ci stiravano il collo). Si sono presentati alla squadra mobile con stampelle e anche con le sedie a rotelle. Hanno raccontato di avere fatto una follia. Distruggersi la vita e restare zoppi per mille euro. Che per di più non avevano visto. Ma gli spaccaossa nonostante i primi arresti hanno continuato a mietere vittime. Una in diretta l’hanno sentita anche gli agenti della polizia che non sono potuti intervenire perchè non si riusciva a comprendere dove si stava svolgendo la menomazione. La banda non risparmiava nessuno. Anche i minorenni rischiavano di finire nelle stanze delle torture. I loro racconti iniziano tutti così: «Avendo già contratto dei debiti…», oppure «versando in precarie condizioni economiche…». E subito dopo la frase: «Accettavo di farmi rompere una gamba per inscenare un falso incidente stradale». Il copione è più o meno sempre lo stesso, con particolari sempre più raccapriccianti, come descrive Sabina T.

«Venivo condotta in un casolare di proprietà di Mocciaro, uno dei tre soggetti tale Giosuè mi somministrò tre punture di anestetico al braccio destro: nell’attesa che il farmaco entrasse in circolo, ricordo che i tre mi invitarono a fumare una sigaretta all’esterno del casolare e, dopo circa dieci minuti, lo stesso Giosuè mi invitava a distendermi per terra comunicandomi che erano pronti per la frattura del braccio – dichiara a verbale -. Quindi dopo essermi distesa, mentre Giosuè mi teneva la testa evitandomi di guardare, venivo colpita con un corpo contundente da Mocciaro che mi fratturava in più punti il braccio destro e, in più, lo stesso Mocciaro mi praticava un grosso taglio con un coltello arrugginito nella parte alta del braccio destro. Immediatamente i tre soggetti mi rimettevano in macchina e mi accompagnavano all’ospedale Villa Sofia per ricevere soccorso”. Ma il racconto più inquietante è quello di un giovane che confessa di avere portato l’amico sedicenne dagli spaccaossa. Una storia che ancora una volta affonda nel degrado sociale della città, dato che il maggiorenne si prostituisce alla stazione centrale e il ragazzino è da anni affidato ai servizi sociali. E solo per un soffio non venne torturato. Gli volevano frantumare il femore, lui l’avrebbe fatto per aiutare il compagno che non ha i soldi per campare. Una confessione che risale allo scorso gennaio, quando la polizia aveva già ascoltato alcune conversazioni. Grazie alle intercettazioni, pochi minuti prima che si passasse ai colpi di pietra dentro una casupola di Ballarò, gli agenti simularono un controllo e il piano venne sventato. Coinvolti nella vicenda Rita Mazzanares e il convivente Gesuè Giglio, entrambi arrestati ieri. “Il mio ragazzo conoscendo i sacrifici che io faccio ogni sera pur di guadagnare quanto basta a farci sopravvivere, solo esclusivamente con l’intenzione di aiutarmi economicamente, si rendeva disponibile a tale truffa – dichiara a verbale il testimone -. Ha detto ai due che lui era disponibile a farsi procurare delle lesioni. L’uomo ha quindi spiegato che facendosi rompere la gamba, lui avrebbe poi simulato un incidente stradale chiedendo all’assicurazione il relativo indennizzo economico. Ci disse pure che a noi sarebbe spettato il 35% della somma incassata. Ci hanno detto che per la disponibilità del ragazzo ci avrebbero dato subito 600 euro. Abbiamo concordato di rivederci in serata». Subito dopo l’appuntamento, gli spaccaossa erano pronti ad entrare in azione. «Ieri sera mi hanno richiamato dandomi appuntamento a Ballarò, poiché la stessa sera, si dovevano procurare le lesioni – aggiunge il teste -. Per fortuna giunti a Ballarò, appena ci siamo incontrati con Rita e suo marito, siamo stati controllati da una pattuglia di polizia. Spaventatomi di ciò, ho preferito fare rientro a casa mia assieme al ragazzo».

·         I ladri impuniti.

Quei ladri impuniti per il tesoro nero. Ma ora arriva la sentenza a sorpresa. Derivati milionari in perdita. Che sono stati venduti alla regione. Il reato è “provato al di là di ogni dubbio”. Però nessuno ha ancora pagato per i danni pubblici. Ma ora le motivazioni del verdetto, firmate dal giudice  riaprono il caso, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani l'11 aprile 2019 su L'Espresso. La mafia. La mala politica. Le banche internazionali. La turbo-finanza. Le valigie piene di denaro. La crisi economica. Il debito pubblico. La sanità in deficit. L’evasione fiscale. C’erano tutti gli ingredienti, i numeri e i fatti nelle carte processuali per arrivare a condanne esemplari. Invece non ha pagato nessuno. Neppure i beneficiari immediati di un tesoro nero che un magistrato di Palermo ha definito «la tangente più grande della storia siciliana». Uno scandalo che sembrava insabbiato dalla prescrizione, ma ora è riaperto dalle motivazioni di una sentenza a sorpresa, depositata nei giorni scorsi dai giudici del tribunale di Palermo. Questa è la storia di una regione indebitatissima del nostro Sud, che secondo l’Istat è al secondo posto in Italia per numero di famiglie indigenti (dietro alla Calabria) tra quartieri degradati, discariche esaurite e ospedali al collasso, che riesce a regalare più di cento milioni di euro a un colosso della finanza mondiale. Che per aggiudicarsi quel maxi-affare con un ente pubblico distribuisce almeno 16 milioni, segretamente, ai consulenti e tesorieri di un politico eccellente, condannato per favoreggiamento a Cosa nostra. Tutti arricchiti, a spese dei cittadini siciliani, grazie ai derivati: proprio quei contratti ad altissimo rischio e bassissima trasparenza che da più di un decennio, da quando è esplosa la crisi economica, sono additati come simbolo della finanza tossica, dei peggiori eccessi del capitalismo moderno. Che la giustizia finora non è mai riuscita a colpire.

«La maxi-tangente siciliana non deve restare impunita». Una sentenza del tribunale di Palermo riapre gli scandali finanziari dell’era Cuffaro: le vecchie accuse sono ormai prescritte, ma Procura, Corte dei Conti e antimafia devono aprire tre nuove istruttorie, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani il 12 aprile 2019 su L'Espresso. L'indebitatissima Regione Sicilia ci ha rimesso più di cento milioni di euro. Ma i consulenti e tesorieri dell'ex governatore Salvatore Cuffaro hanno intascato almeno 16 milioni. In nero. Su conti esteri non dichiarati al fisco. Con pacchi di soldi riportati dalla Svizzera a Palermo, di nascosto, e distribuiti in contanti: un traffico di valigie di denaro continuato per almeno cinque anni. Fino alla condanna di Cuffaro per favoreggiamento della mafia. L'Espresso nel numero in edicola da domenica 14 aprile e  già online su Espresso+ , svela i protagonisti, le cifre e i retroscena di uno scandalo politico-finanziario che un magistrato di Palermo ha definito «la più grande tangente della storia siciliana». Un caso giudiziario che sembrava insabbiato dalla prescrizione, ma ora viene riaperto dalle motivazioni di una sentenza a sorpresa, depositata nei giorni scorsi dai giudici del tribunale, finora inedita. A pagare i danni dello scandalo sono tutti i cittadini della Sicilia, la regione che secondo l'Istat è al secondo posto in Italia (dopo la Calabria) per numero di famiglie indigenti, tra quartieri degradati, discariche esaurite e ospedali al collasso. Le carte processuali mostrano che proprio la Sicilia è riuscita a regalare non meno di 104 milioni di euro a un colosso della finanza mondiale, la banca giapponese Nomura. Che per aggiudicarsi quel maxi-affare ha distribuito oltre 16 milioni, segretamente, ai consulenti e tesorieri dell'allora governatore Cuffaro, democristiano, in carica dal 2001 al 2008 con il centrodestra berlusconiano. L'operazione che, come conferma il verdetto del tribunale di Palermo, ha provocato le maxi-perdite per le casse regionali, innescando i pagamenti in nero all'estero, riguarda complicati strumenti finanziari, utilizzati per rinviare di trent'anni l'esplosione dei debiti della sanità siciliana, accumulati nell'era di Cuffaro e scaricati così sulle generazioni future, aggravandone l'entità. In gergo, si chiamano derivati: sono proprio quei contratti ad altissimo rischio e bassissima trasparenza che da più di un decennio, da quando è esplosa la crisi economica mondiale, vengono additati come simbolo della finanza tossica, dei peggiori eccessi del capitalismo moderno. Che la giustizia finora non è mai riuscita a colpire. L'inchiesta giudiziaria sui derivati della sanità siciliana, nata nel 2006 dalle rivelazioni di un pentito di mafia, ha avuto un cammino lungo e tormentato, con trasferimenti per competenza da Roma a Milano fino a Palermo, segnato anche da scontri personali tra magistrati (per altre vicende). L'imputato principale, Marcello Massinelli, scelto da Cuffaro come consulente «per l'economia, le banche e i finanziamenti della Regione» (nonché tesoriere elettorale e consigliere di amministrazione del Banco di Sicilia), è stato processato solo nel 2018, insieme a un suo socio e collaboratore. Nella sentenza emessa il 20 febbraio scorso, al tribunale di Palermo non è rimasto che dichiarare la prescrizione di tutte le accuse.

Derivati milionari in perdita. Che sono stati venduti alla regione. Il reato è “provato al di là di ogni dubbio”. Però nessuno ha ancora pagato per i danni pubblici. Ma ora le motivazioni del verdetto, firmate dal giudice  riaprono il caso. Ma ora le motivazioni del verdetto, firmate dal giudice Lorenzo Matassa, riaprono il caso. La sentenza infatti spiega che i consulenti di Cuffaro hanno potuto evitare la condanna solo per scadenza dei termini legali di durata del processo, ma i reati rimangono «provati al di là di ogni ragionevole dubbio». E uno scandalo così grave non può restare impunito. Quindi il tribunale ordina tre nuove istruttorie. La Procura di Palermo dovrà aprire una nuova indagine per «associazione per delinquere» e altri reati non ancora prescritti. La Corte dei Conti siciliana dovrà attivarsi per «recuperare l'immenso danno erariale», «quantomeno simile al risarcimento multi-milionario che la Regione Calabria ha ottenuto dalla stessa banca Nomura». Mentre il tribunale delle misure di prevenzione viene invitato a dichiarare Massinelli e il suo collaboratore «evasori abituali» e confiscare tutti i loro beni.

·         Agrigento. Ritorsione di Stato.

Arrestato l’avvocato che contestava i giudici di Agrigento. La vicenda di Giuseppe Arnone accusato di calunnia, diffamazione e lesioni. Il legale avrebbe violato le restrizioni, pubblicando sui suoi profili social alcuni capitoli del suo libro “storie comiche di otto importanti e pessimi magistrati”, scrive Giulia Merlo il 28 Marzo 2019 su Il Dubbio. La Digos lo ha arrestato eseguendo l’ordinanza di revoca dell’affidamento in prova ai servizi sociali mentre si trovava nel tribunale di Agrigento per ragioni professionali: si sono aperte così le porte del carcere per l’avvocato siciliano Giuseppe Arnone. Quando ha visto comparire i militari, il legale avrebbe gridato e provato a resistere all’arresto. Arnone era stato condannato complessivamente a 3 anni e 5 mesi di reclusione per i reati di diffamazione, calunnia (ai danni di una giudice, Sara Marino) e un caso di lesioni. Aveva però ottenuto di scontare la pena attraverso una misura alternativa, alla quale dovevano seguire le prescrizioni indicate dal tribunale di Sorveglianza: il divieto «di inviare mail e Pec, comunicare tramite mailing list, accedere a forum e chat, utilizzare facebook e piattaforme web, anche per interposta persona; diffondere volantini o apporre striscioni riportanti immagini o affermazioni diffamatorie, calunniose o moleste nei confronti di soggetti pubblici o privati, ovvero lesive della reputazione e onorabilità delle istituzioni Repubblicane; realizzare pubblicazioni (libri, articoli di stampa, opuscoli, volantini, striscioni)». L’avvocato, però, avrebbe violato ripetutamente queste condizioni, pubblicando sui suoi profili sui social network alcuni capitoli del suo nuovo libro, dal titolo “Storie comiche di otto importanti e pessimi magistrati”. Due giorni fa, poi era stato visto volantinare davanti al tribunale la copertina del libro, come parte della sua campagna elettorale per l’elezione al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Agrigento: «Negli ampi e articolati volantini – come scrivono i giudici di sorveglianza- Arnone riproduce la copertina di un suo libro, asseritamente di prossima pubblicazione, intitolato “Storie comiche di otto importanti pessimi magistrati”, riportandone ampi stralci dove prende di mira in particolare due magistrati in servizio presso il Palazzo di giustizia, Salvatore Vella, definito “calunniatore”, e Alessandra Vella, ritenuti inequivocabilmente responsabili in concorso di una grave condotta illecita perpetrata nei suoi confronti e della Giustizia in genere per la quale è prendente procedimento penale a Caltanissetta». L’ordinanza del tribunale di sorveglianza è scattata dopo che, per tre volte, era stata rigettata la richiesta di revoca dell’affidamento in prova ai servizi sociali avanzata dal procuratore Luigi Patronaggio. Per i giudici di sorveglianza, Arnone «instaurando un’unilaterale interlocuzione con gli utenti che frequentano il Palazzo di giustizia, attribuendo malefatte a soggetti pubblici o privati con modalità deliberatamente sensazionalistiche al fine di metterli alla gogna, utilizzando toni di scherno e di sfida nei confronti di magistrati che ci lavorano, mostrandone pure le effigi fotografiche, ha palesemente violato il decoro e l’onorabilità delle istituzioni». Inoltre, ha dimostrato «una palesata mancanza di affidabilità e anzi la dichiarata volontà di continuare a porre in essere, anche a breve, in sostanziale spregio delle prescrizioni e delle numerose diffide, condotte analoghe e quelle appena descritte». Da qui la necessità di un «provvedimento urgente di sospensione della misura». Diversa la versione del suo difensore, Daniela Principato: «L’opinione pubblica deve sapere che lo scorso marzo 2018, un anno addietro, era stata tolta all’avvocato Arnone la possibilità di comunicare tout- court, doveva stare in silenzio! La relativa ordinanza è stata annullata dalla corte di cassazione il 20 novembre 2018, perché lesiva di diritti costituzionali. lo scorso febbraio 2019, con un’ordinanza nuova, gli veniva restituita la libertà di parola, anche di tenere comizi e interviste televisive, fare volantinaggio e scrivere libri. a fronte di tutto ciò oggi per questi stessi motivi viene riarrestato, con la sospensione del provvedimento di affidamento in prova». Arnone è un volto noto nella città dei templi: ambientalista e più volte candidato sindaco, l’avvocato era stato arrestato nel 2016 per una presunta estorsione ai danni di una collega, misura cautelare poi revocata dal Tribunale del Riesame. Arnone è stato poi al centro delle cronache locali per essersi reso protagonista di manifestazioni di protesta eclatanti, con maxi manifesti raffiguranti i suoi avversari e numerosi esposti nei confronti dei vertici del tribunale di Agrigento. Ieri, dopo le operazioni di notifica dell’ordinanza, è stato trasferito in carcere.

·         Blutec e la presa in giro di Termini Imerese.

Blutec, la rabbia ai cancelli di Termini Imerese: "Presa in giro, sulla pelle dei lavoratori". Gli operai dello stabilimento ricordano il modellino di Lamborghini realizzato per Ginatta, patrol della Blutec agli arresti domiciliari. "Ogni tanto ci mandano a tagliare le erbacce nei piazzali o a verniciare qualcosa, ma noi siamo metalmeccanici, il nostro lavoro è un altro", scrive Marco Patucchi il 13 Marzo 2019 su La Repubblica. "In realtà era una Lamborghini, non una Ferrari...". La storia del modellino della supercar fatto costruire da Roberto Ginatta agli operai della Blutec come regalo di compleanno per uno dei figli, passa di bocca in bocca davanti ai cancelli della fabbrica di Termini Imerese. "Il caso del modellino Ferrari è la dimostrazione di come la Blutec non abbia mai fatto sul serio, giocando a prendere in giro tutti sulla pelle dei lavoratori " tuona Roberto Mastrosimone, segretario della Fiom siciliana, durante una delle assemblee volanti nell'impianto ex-Fiat, e prima di incontrare i sindaci del territorio (oggi) e i rappresentanti della Regione a Palermo (domani). C'è grande tensione a Termini Imerese da quando è arrivata la notizia degli arresti domiciliari di Ginatta, patron di Blutec, e del suo amministratore delegato, Cosimo Di Cursi, sospettati di distrazione dei fondi pubblici che lo Stato, attraverso Invitalia, aveva elargito per il rilancio dello stabilimento. L'aneddoto del modellino è il paradigma di questa fabbrica mai ripartita, con 570 tute blu in cassa integrazione e 130 rientrate ma praticamente senza molto da fare perché quasi tutti i progetti produttivi di Blutec sono rimasti solo sulla carta. "Quel modello in scala della Lamborghini lo abbiamo costruito proprio nel nostro reparto, con la stampante 3D - racconta un operaio che, ovviamente, chiede l'anonimato -. Si tratta di uno dei pochi lavori realizzati da quando un centinaio di noi sono rientrati nella fabbrica. Qualche mese fa da Torino è arrivata la richiesta, con disegni e misure: non sapevamo per chi fosse, ci siamo limitati a tagliare i pezzi e a montare scocca e telaio. Poi il modello è stato rispedito a Torino". C'è da scommettere che gli operai hanno messo tutta la perizia possibile in quel lavoro, perché si sentono ancora metalmeccanici attivi e perché la fabbrica la vivono come la loro casa. Più ancora della mancanza di salario, a pesargli è la dignità ferita: sia di chi da anni non può varcare i cancelli dello stabilimento, sia di chi invece lì dentro ci va ogni giorno ma poi rimane forzatamente con le mani in mano: "A parte il reparto che costruisce i contenitori delle batterie e chi cura la realizzazione delle Cinquecento Spiaggetta di Lapo Elkann, tutto il resto è quasi fermo - dice l'operaio del modellino - . Avevamo iniziato a lavorare ai prototipi del Doblò da trasformare in elettrico, ma dopo le prime visite i tecnici della Fca non si sono più visti. Ogni tanto ci mandano a tagliare le erbacce nei piazzali o a verniciare qualcosa, ma noi siamo metalmeccanici, il nostro lavoro è un altro. Così non c'è dignità ". E poi il paradossale senso di colpa rispetto ai tanti colleghi rimasti fuori dalla fabbrica: "Davanti a loro siamo quasi dei privilegiati, perché noi siamo pagati per metà con lo stipendio e per metà con la cassa. Eppure siamo tutti sulla stessa barca. Se qui non riparte nulla, sarà un dramma per ogni famiglia".

·         Arresti in casa PD.

Arresti in casa PD, scrive il 7 marzo 2019 Alessandro Bertirotti su Il Giornale. È tutta questione… disallineamento. Tra le notizie che riguardano il PD, in questi giorni, ce n’è una che la luminosa (sulla carta, ovviamente) ascesa di Zingaretti non può oscurare: l’arresto, per associazione mafiosa, di Paolo Ruggirello, ex deputato alla Regione Sicilia nelle file del PD e, nello specifico, appartenente all’ala renziana. Qualcuno potrà dire che in Italia vige la presunzione di non colpevolezza e che la responsabilità penale è personale e, quindi, Ruggirello è innocente, finché non interverrà, a suo carico, un provvedimento di condanna passato in giudicato. Inoltre, Renzi potrà avere molte colpe, ma non quella di ciò che può aver (eventualmente, ove e se verrà accertato) commesso Ruggirello. Tutto vero e l’onestà intellettuale non può sottacere quel che è vero. Ma ci sono due aspetti che questa vicenda sottolinea con forza. Gli atti di indagini sulla scorta dei quali è stato disposto l’arresto raccontano una scalata elettorale di Ruggirello fortemente appoggiata dalla “famiglia” in cambio di “favori” che l’ex deputato avrebbe fatto al clan. In altre parole, si conferma il trend socio-economico mafioso degli ultimi anni. Cosa nostra ha fatto un salto di qualità, scala il potere, vuole entrare nei gangli delle istituzioni dove si decidono e si assumono gli strumenti giuridici necessari a muovere l’economia siciliana. Ai clan non basta più partecipare alla festa, vogliono organizzarla decidendo location, invitati, catering, l’ordine da tenere al banchetto e i buttafuori. Si chiama “evoluzione”, un vocabolo al quale il linguaggio corrente ha assegnato la funzione di esprimere, pressoché esclusivamente, un giudizio di valore positivo, ma non è così. Da un punto di vista antropologico, ogni volta che un essere umano pone in essere un’azione, con modalità differenti dalle precedenti, ottenendo così risultati più efficienti rispetto ai trascorsi, quell’uomo si è evoluto. Ora, sulla base di questo presupposto, è importante ricordare che l’evoluzione intellettuale non collega l’azione ad un concetto etico in sé. Questa correlazione è di tipo fideistico oppure ideologico. In Antropologia la correlazione è fra un’azione e le sue conseguenze, ossia il suo risultato che, a sua volta, potrà definirsi morale, immorale o amorale, in ragione di un giudizio a posteriori. Una importante e dirimente differenziazione. Dunque, la mafia trapanese si è sicuramente evoluta. L’altra considerazione da svolgere è che questo signore era giunto nelle file del PD dopo aver attraversato una discreta parte dell’arco costituzionale. Prima esponente della forza autonomista siciliana, poi il centrodestra e poi ancora, dulcis in fundo, la sinistra renziana. È ovvio che, nella vita, ognuno di noi può cambiare opinione politica, anche in dipendenza ai mutamenti storici del paese di appartenenza. Ma ben diverso è impegnarsi politicamente in modo attivo dapprima su un fronte, e poi sul suo opposto speculare. E dunque, delle due, l’una: o il centrodestra siciliano non è poi così lontano dalla sinistra siciliana e viceversa, cosicché il trapasso dall’una all’altra forza è privo di specificità, oppure Renzi avrebbe dovuto controllare meglio la scelta di coloro da inserirsi in un’assemblea regionale, così importante come quella siciliana. Il controllo andava esercitato non solo e non tanto per ragioni di opportunità preventiva, ma per mantenere saldo il solco etico che la sinistra da sempre vanta nei confronti delle altre formazioni politiche. La sinistra italiana ci ha insegnato che per fare gli ideologicamente puri bisogna scegliere coloro che sono ideologicamente puri fin dall’origine, e che per fare i duri bisogna scegliere chi non indulge alla via più facile e più breve. Ecco perché, oggi, ci dobbiamo domandare: cosa è cambiato nelle scelte della sinistra? Come si è evoluta? Credo proprio che la nuova Segreteria del PD sia chiamata ad assolvere un compito urgente, ossia a riappropriarsi della questione morale. Certo, non è una novità, e questo vale da molto tempo anche per la destra. E per usare le parole del nostro magistrale connazionale, Giuseppe Verdi, direi con lui: “Torniamo all’antico e sarà un progresso”!

Trapani, l'ex deputato del Pd e i mafiosi. Ecco le foto degli incontri segreti. Il saluto affettuoso fra Paolo Ruggirello e il boss Carmelo Salerno. Paolo Ruggirello sorpreso dai carabinieri con due fedelissimi del latitante Messina Denaro, scrive Salvo Palazzolo il 6 marzo 2019 su La Repubblica. Paolo Ruggirello non dialogava mai direttamente con Pietro Virga, il nuovo padrino di Trapani. Aveva un ufficiale di collegamento d’eccezione, un mafioso con tanto di sentenza passata in giudicato, Carmelo Salerno, da Paceco. Il giorno in cui Salerno finì di espiare la libertà vigilata – era il 2 novembre 2017 - gli telefonò per dire: "Mi hanno levato quella cosa, hai capito?". Due giorni dopo, fu Ruggirello ad andare a trovarlo nel suo negozio. Il giorno delle elezioni, poi, le intercettazioni dei carabinieri del nucleo Investigativo hanno sorpreso il politico e il mafioso mentre commentavano l’affluenza alle urne. Erano spesso insieme. E quando si incontravano, si scambiavano un'affettuosa vasata, due baci sulle guance, come fossero vecchi amici. Ecco un altro inquietante retroscena dell'indagine che ieri ha portato in carcere l'ex deputato del Pd e lo stato maggiore della cosca di Trapani. Al mafioso Salerno, Ruggirello chiese di "intervenire" anche sul fidanzato della figlia, che non gradiva, perché troppo grande. Salerno rassicurò: "Ora lo sistemo io". Le intercettazioni non dicono come andò a finire, ma sappiamo cosa chiese Salerno in cambio dei suoi servizi: l’inserimento di alcuni candidati di fiducia nel movimento di Ruggirello, “Articolo 4”, alle Comunali 2015 di Marsala; un posto di lavoro per il figlio e per un altro giovane. Il boss raccomandò anche un negoziante di mobili suo amico, che così arredò un ufficio dell’assemblea regionale siciliana. Con l’immancabile raccomandazione di Ruggirello. C'era anche un altro mafioso che Ruggirello incontrava in maniera riservata. E' Francesco Orlando, "uomo d’onore riservato — come lo chiama il pentito Vincenzo Sinacori — solo Messina Denaro e pochi altri sapevano della sua affiliazione". Un’altra foto raffigura la vasata fra Ruggirello e Orlando, c’era pure Salerno quella volta, tutti e tre fecero un giro in auto di 45 minuti. E, poi, il politico consegnò i facsimili per le elezioni al Senato. Scrive il gip Piergiorgio Morosini: "Al sostegno elettorale garantitogli da esponenti della organizzazione criminale, Ruggirello ha sempre risposto con un serio impegno ad essere interlocutore dell’associazione mafiosa per esigenze di singoli affiliati e, ancora di più, per consentire a quest’ultima di entrare in circuiti politico-amministrativi utili ai suoi programmi".

·         Il suicidio dei figli di mafia.

Il misterioso suicidio del figlio del ministro degli appalti dei corleonesi. È stato testimone sullo scambio di accuse tra la procura di Palermo e i Ros sul dossier mafia-appalti, archiviato dal Gip di Caltanissetta Gilda Loforti, scrive Damiano Aliprandi il 21 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Non è morta una persona qualunque, ma un uomo che era stato sentito all’epoca delle indagini scaturite dal dossier mafia appalti, dove il suo nome compare nel decreto di archiviazione a firma di Gilda Loforti in merito a una querela vicendevole tra i Ros e la procura di Palermo. Parliamo di Giuseppe Siino, figlio di Angelo, l’uomo definito il “ministro dei lavori pubblici” dei corleonesi, tratto in arresto nel ’ 91, grazie proprio al dossier mafia appalti redatto dai Ros e consegnato a Giovanni Falcone che poi dovette abbandonarlo per trasferirsi nel ministero della Giustizia. Emergono dettagli inquietanti dietro la morte di Giuseppe Siino. L’uomo era sotto protezione, dopo la collaborazione del padre con la giustizia, e viveva in una località protetta dell’Alta Padovana con un nuovo nome. Il fine settimana scorso, la tragedia. Dai primi racconti sarebbe stato dipinto come un uomo violento, che avrebbe picchiato la moglie per anni. Secondo indiscrezioni, venerdì, il giorno prima della tragedia, il 47enne avrebbe scoperto una relazione extraconiugale della moglie. La reazione sarebbe stata molto violenta, tanto che la moglie avrebbe chiesto alla suocera di raggiungerli per passare qualche giorno a casa loro. Al culmine dell’ennesima lite l’uomo avrebbe brutalmente picchiato la moglie e lei, preso in braccio il figlioletto, è scappata dai vicini chiedendo di chiamare i carabinieri per denunciarlo. Giuseppe Siino a quel punto, ritrovatosi solo, avrebbe preso una pistola e si sarebbe sparato un colpo in testa. Lo hanno ritrovato così, morto dissanguato. Secondo quanto riferito da Il giornale di Sicilia, al loro arrivo nell’abitazione i carabinieri non hanno potuto fare altro che constatare il suicidio e il pm avrebbe ritenuto di non inviare neppure il medico legale sul posto. Sono emersi, però, due particolari che rendono la vicenda ingarbugliata. La moglie avrebbe smentito di aver subito violenze, come detto in precedenza, e quindi ancora non è chiaro cosa sia davvero accaduto. A questo si aggiunge un altro elemento. I carabinieri hanno scoperto che in casa erano custodite ben 104 armi che sarebbero intestate alla moglie. Come mai un uomo sotto protezione, in una piccola località, era riuscito a detenere un vero e proprio arsenale? Ora i carabinieri indagano per determinarne la provenienza. Come detto Giuseppe Siino non era un uomo qualunque, ma figlio di Angelo che, nonostante non sia stato un mafioso vero e proprio, fungeva comunque da collettore tra la mafia di Riina e gli imprenditori per garantire affari con gli appalti. Il figlio Giuseppe è stato un testimone importante e preso in considerazione dall’allora Gip di Caltanissetta Gilda Loforti. Ma andiamo con ordine prima di arrivare alla sua testimonianza. Come detto, Angelo Siino compariva nel famoso dossier mafia appalti e fu poi tratto in arresto il 9 luglio 1991, in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare emessa il 7 luglio ’ 91. Si trattava del mandato di cattura nei confronti di Siino e i coimputati Serafino Morici, Giuseppe Li Pera, Cataldo Farinella e Alfredo Falletta con la contestazione del reato di associazione mafiosa diretta all’illecita manipolazione degli appalti in Sicilia. Siino, interrogato due giorni dopo l’arresto, ammetteva le sue responsabilità. Successivamente iniziava ad avere dei colloqui coi Ros, anche se la collaborazione con la Procura di Palermo risalirà a qualche anno dopo. È in questi colloqui coi Ros che Siino fece delle dichiarazioni anche contro i magistrati palermitani, dichiarazioni che poi ritrattò nel corso di un procedimento che si svolse davanti alla Gip nisseno Loforti. A Caltanissetta furono riuniti i due procedimenti: per corruzione uno e per calunnia l’altro, tra di loro evidentemente connessi perché vedevano una parte della Procura palermitana da un lato e dell’ufficiale dei Ros Giuseppe De Donno e Siino dall’altro. È in questa sede che la Gip Loforti, decidendo per l’archiviazione di tutte le posizioni, valutava le fonti di prova per arrivare a stabilire che «Siino non fu certo indotto dal De Donno a muovere false accuse in danno dei magistrati». Tra le prove raccolte ci furono oltre che le dichiarazioni rese dall’avvocato di Siino, che partecipò ad alcuni colloqui, anche quella del figlio del collaboratore: proprio Giuseppe Siino che si sarebbe ucciso pochi giorni fa. Loforti pur ammettendo che di per sé l’assenza di riscontri sarebbe stata sufficiente «ad escludere l’ipotesi che le dichiarazioni del Siino siano state frutto di indebite pressioni esercitate dall’Ufficiale (ndr De Donno)», include nell’ordinanza altre risultanze processuali. Tra queste si leggono le dichiarazioni di Giuseppe Siino, figlio del collaboratore: scrive la Gip che «dal canto suo, pur riferendo dei reiterati tentativi operati dal De Donno, attraverso la di lui madre, per indurre il padre a collaborare con l’A. G., mai ha narrato di pressioni o affermazioni di carattere intimidatorio, limitandosi a ribadire che il De Donno rappresentava che erano possibili svariate iniziative giudiziarie in loro danno come ad esempio il sequestro dei beni, e che quella inchiesta ( “mafia – appalti”) avrebbe potuto prendere una piega più incisiva, se il Siino avesse riferito ciò che sapeva sui politici, sui magistrati e sugli avvocati collusi (…)».

·         Polizzi, il sindaco ripara la strada chiusa da 13 anni e l'ex Provincia lo denuncia.

Polizzi, il sindaco ripara la strada chiusa da 13 anni e l'ex Provincia lo denuncia. Giuseppe Lo Verde ha chiesto ad alcune ditte del paese di aiutarlo a riaprire la strada per Piano Battaglia vietata dal 2006. La città metropolitana, che avrebbe dovuto ripararla, si rivolge ai carabinieri. Ivan Mocciaro il 28 aprile 2019 su La Repubblica. Ha riparato la strada chiusa da 13 anni. E si è beccato una denuncia da parte dell’ex Provincia che avrebbe dovuto ripararla. Formalmente la denuncia è contro ignoti, ma il sindaco di Polizzi Generosa non ha dubbi: “Vogliono intimidirmi”. Giuseppe Lo Verde, 60 anni, da mesi conduce una battaglia per la riapertura della strada di collegamento con Piano Battaglia - unica stazione sciistica della Sicilia occidentale - chiusa dal 2006 dopo una frana. Lo Verde ha prima trasferito il suo ufficio in strada sotto una tenda, poi si è incatenato davanti all’ingresso del Comune e nei giorni scorsi, grazie alla collaborazione gratuita di alcune imprese locali, ha provveduto a liberare la strada. Ma ora per il sindaco di Polizzi Generosa e per le imprese che hanno gratuitamente eseguito i lavori - lavori che sono serviti a mettere in sicurezza un tratto di strada che consente anche ai proprietari terrieri di accedere nelle loro abitazioni rurali senza pericolo - è arrivata una denuncia. A raccontarlo è lo stesso primo cittadino: “Vogliono bloccarmi mettendomi paura, ma non faccio silenzio - dice Lo Verde - una denuncia contro ignoti è arrivata alla caserma dei carabinieri di Polizzi presentata da un funzionario dell’ex Provincia. Una denuncia contro ignoti per i lavori effettuati gratuitamente cinque giorni fa sulla strada che collega il comune con Piano Battaglia”. “A chi ha firmato la denuncia - continua il primo cittadino - voglio ricordare che lo scorso 3 aprile abbiamo fatto avere via Pec al sindaco della città metropolitana una ordinanza sindacale con la quale si disponevano provvedimenti di massima urgenza sulla strada. Nell'ordinanza si diceva che avevamo ricevuto disponibilità da sei ditte locali a eseguire i lavori senza alcuno aggravio per il Comune”. “A chi ha firmato la denuncia - conclude Lo Verde - voglio ricordare che dal 3 aprile al 23 aprile, quando sono stati effettuati gratuitamente i lavori sulla strada, sono trascorsi venti giorni senza che nessuno rispondesse all'ordinanza recapitata”. Per il primo cittadino di Polizzi la situazione è chiara: “Ritengo la denuncia un atto contro di me. E' un atto contro il sindaco di Polizzi Generosa che in questi mesi ha alzato la voce contro chi avrebbe dovuto riparare la strada e da anni non ha fatto niente. Vogliono zittirmi. Vogliono mettermi paura. Ma non mi spaventano. Chi in questi anni non ha eseguito i lavori, oggi non può per nessun motivo nascondere l’inefficienza dietro una denuncia contro anonimi”. Non tardano ad arrivare le precisazioni alle accuse del sindaco di Polizzi Generosa Giuseppe Lo Verde a farlo sono il capo di gabinetto dell’ex provincia regionale di Palermo e il sindaco della Città Metropolitana Leoluca Orlando. Marianna Mirto, capo di Gabinetto della Provincia precisa che "Nessuna PEC è stata ricevuta dai nostri uffici, sembra per un errore di digitazione dell'indirizzo da parte del Comune di Polizzi. In ogni caso, i nostri funzionari hanno fatto un sopralluogo rilevando che questi lavori che lo stesso sindaco Lo Verde ha definito "tampone" non hanno eliminato la condizione di pericolo determinata dai rischi di frane e quindi, poiché qualcuno ha rimosso la relativa segnaletica di pericolo, non si poteva non segnalare la situazione alle Autorità". Per Leoluca Orlando Sindaco metropolitano: "non possiamo non guardare che a monte di questa vicenda, che al di là dei problemi di comunicazione fra istituzioni colpisce i cittadini, c'è la gravissima situazione finanziaria di tutte le ex province della Sicilia, non più in grado, per colpa dei tagli dello Stato e della Regione, a far fronte all'ordinaria gestione. Quanto avvenuto sulle Madonie si ripete in modo analogo per tutte le strade provinciali della Sicilia. Motivo per cui da tempo abbiamo chiesto che sia l'ANAS a prendere la responsabilità delle manutenzioni, che non possono essere occasionali o tampone".